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Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Dottorato di ricerca
Europa e Americhe: Costituzioni, Dottrine e Istituzioni Politiche “Nicola Matteucci”
Ciclo XXV
Settore Concorsuale di afferenza: 14-B1
(Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche)
Settore Scientifico disciplinare: SPS-02 (Storia delle dottrine politiche)
Fra il nome e la storia. Trasformazioni del discorso politico e concetto di
classe al principio della monarchia di Luglio (1831-1832)
Presentata da: Federico Tomasello
Coordinatore Dottorato Relatore
Prof.ssa Raffaella Gherardi Prof. Sandro Mezzadra
Esame finale anno 2013
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Indice
Abstract 5
Introduzione 6 1. La prima parola del movimento operaio? 12 2. Un tessuto di nomi 23 3. Metodo e fonti, avvenimento e discorso 36
Primo capitolo
«Amici del popolo» e proletari «di professione»: il discorso operaio e quello
repubblicano 45 1.1 La guerra servile 47 1.2 Ouvriers 67 1.3 popolo di novembre e Popolo di Luglio: ambiguità di un concetto. 78 1.4 La «classe popolare» 94 1.5 La repubblica proletaria 105
Secondo capitolo
La verità della Carta e i suoi «muratori»: il discorso del liberalismo
dottrinario 128 2.1 L’angelo della storia 138 2.2 Una teoria politica del vero? 147 2.3 Il «Lumpenpolitico» 161 2.4 La Charte e le geografie della storia 169 2.5 L’«invenzione» della classe media 189 2.6 Fare entrare una classe in politica 212
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Terzo capitolo
La classe operaia e le frontiere del politico: il discorso nascente del
socialismo 236 3.1 Saint-‐Simon a Lione 242 3.2 Monsieur Marx 263 3.3 Bürgherliche Gesellschaft 278 3.4 La scrittura sociale del politico 295 3.5 Lotte in Francia. 312 Appendice: Da Marx al marxismo, il nome e l’avvenimento 328
Quarto capitolo
I «nuovi barbari»: un’interpretazione sociale del politico. 344 4.1 Il «fuori» della classe operaia 349 4.2 Lo spazio politico della grande paura. 363 4.3 Una società da difendere 381 4.4 La malattia della civiltà. 404 4.5 Sovranità e società 421 4.6 Il «sociale» come sapere e tecnica di governo. 441
Bibliografia 469 1. Stampa 469 2. Fonti 473 3. Letteratura 488 4. «Mediagrafia» 512
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Abstract The research investigates the tensions and transformations of the main streams of political thought in France, during the first years of the July Monarchy, considering the emergence of the notion of class. Starting from a conception of event as a point of intersection between history and theory, the dissertation focuses on a specific period of time – from November 1831 to June 1832 – in order to analyze how republican, liberal and socialist discourses interpreted the events unfolding during those months in the attempt of naming the social figures that swarmed in the public debate of the time. The title of the dissertation – Between the Name and the History – hence refers to the analysis of the field of tension that emerges between the concrete historical becoming and the naming operations that signal the rise of long-lasting conceptual structures. The dissertation understands the appearance of the notion of working class, as well as of the categories related to it, as a «discursive formation» that questions the meaning and the boundaries of the political. The 1848 break is taken as the horizon and the external limit of the dissertation, since the research hypothesizes this rift as a first utterance of the regime of truth belonging to the above-mentioned discursive formation: the political statute of labor. The dissertation consists of four chapters. The first three chapters investigates the reflections on the political and the function of the concept of class in the context of these reflections, triggered by some events occurring from November 1831 to June 1832. The first chapter analyzes the rhetoric emerging in the republican discourse to be found in the daily newspaper Le National and in the Société des Amis du Peuple. The second chapter examines the reflections that sprung from the doctrinaire liberalism discourse of François Guizot. The third chapter investigates the considerations of the rising socialist discourse: from the saint-simonian movement to Karl Marx’s analysis of 1848 in France. Finally, the fourth chapter is centered upon the «social» dimension: namely, its elaboration and articulation through the study and the objectification of different figures in the realm of labor.
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Introduzione Il 1831 e il 1832, i due anni che si riallacciano immediatamente alla rivoluzione di luglio, sono uno dei momenti più singolari e notevoli della storia. Questi due anni, fra quelli che li precedono e quelli che li seguono, sono come due montagne: hanno la grandezza della rivoluzione e vi si distinguono i precipizi […]; vi si vede a tratti balenare la verità.
Victor Hugo, I miserabili
La presente ricerca muove da un’interrogazione su significato e confini del
politico contemporaneo che è andata componendo il progetto di studiare ragioni
e modalità attraverso cui, nella storia, determinati avvenimenti, comportamenti
collettivi, fenomeni sociali, hanno varcato quella soglia labile e mutevole che
definisce e delimita le frontiere del politico. L’«invenzione della classe
operaia» è l’oggetto di questo studio nella misura in cui mi pare che essa possa
essere convocata a rappresentare, nella modernità, uno dei più poderosi processi
di soggettivazione politica che hanno contribuito a mettere in discussione e
ridisegnare tali frontiere. Una soggettività collettiva del lavoro in grado di
rappresentare e tradurre politicamente le proprie istanze è progressivamente
venuta emergendo al fianco del soggetto politico statuale e, per diversi decenni,
ha concorso a ridefinirne e condizionarne forme e meccanismi di
funzionamento: dalla posizione del lavoro e dalla ricezione del diritto di
sciopero nelle moderne costituzioni democratiche occidentali, fino a
quell’insieme di pratiche e dispositivi che nel secolo scorso ha preso il nome di
7
Stato sociale.
«Se la politica può essere ciò che è per noi oggi – scrive Bruno Karsenti – è
perché, a partire da un periodo abbastanza recente, ha incorporato qualcosa di
estraneo ai propri dispositivi specifici»:1 si intende qui interrogare il modo in
cui il lavoro è stato cooptato a mediare alcuni elementi delle relazioni fra Stato
e cittadini. Si vuole problematizzare e restituire profondità storica a questo
processo osservando differenti modalità attraverso cui ne è stata caricata la
figura operaia, facendo la storia di alcune rappresentazioni che essa ha assunto
nel proprio farsi classe-della-società. Analizzando il caso francese nel periodo
della monarchia di Luglio, si vuole qui ricostruire e ripercorrere il prendere
forma di alcune condizioni grazie alle quali, attraverso le quali, contro le quali
tale soggettività è andata emergendo. L’intento è mostrare il carattere spurio e
composito delle determinanti che – a partire da un insieme di tensioni,
interferenze e trasformazioni via via determinatesi nell’ottocentesca razionalità
politica liberale – hanno poi condotto a fare della figura del lavoratore un
importante centro di imputazione di diritti e garanzie della cittadinanza negli
ordinamenti statuali europei. Lungi dall’essere interpretato come mero riflesso
di sviluppi socioeconomici, questo processo viene qui indagato come un
complesso e vischioso lavoro di produzione di soggettività (di cui al concetto di
classe è stato ampiamente demandato di rendere conto e offrire intelligibilità),
alludendo con ciò a entrambi i versanti semantici del termine soggetto. Da una
parte, ci si propone di interpretare caratteristiche e significati storici e politici di
quel movimento di soggettivazione che prenderà il nome di classe operaia
funzionando – questa è la mia tesi – come formazione e pratica discorsiva che si
innesta su un eterogeneo campo di soggetti, temi, questioni, e agisce da potente
dispositivo di unificazione e politicizzazione. Dall’altra parte, si intende
osservare alcune pratiche e dispositivi che paiono aver lavorato a un processo di
oggettivazione, di messa a fuoco, della figura operaia nel più vasto e composito
ambito rubricato in prima battuta alla voce questione sociale, facendone il perno 1 B. Karsenti, La politica del «fuori». Una lettura dei corsi di Foucault al Collège de France (1977-1979), in S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France 1977-1979, Ombre corte, Verona 2006, p. 72.
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di un progetto di integrazione da innestare sulla minacciosa e oscura nebulosa
dell’esclusione sociale.
L’intenzione, è forse utile precisarlo, non è di riproporre, per l’ennesima
volta, la validità, l’operatività o l’attualità di questo soggetto nel presente per
mostrare la necessità di «riportare il lavoro al centro della politica», ma, al
contrario, di delineare i contorni di un’interrogazione sulle incertezze attuali del
politico e dello Stato proprio a partire da questa sopravvenuta assenza.
Un’interrogazione che indurrebbe a posizionarsi lungo il margine che delimita
gli ambiti del politico moderno, per osservarne, da lì, i confini, riconoscerne la
forma e l’estensione, sondarne la tenuta e ricostruirne le ragioni presenti e
passate. E quindi disporsi anche a indagare quei vuoti che oggi sembrano
intaccarne le frontiere e crescervi in forma di voragine, ripercorrendo pure le
modalità in cui essi erano stati, per così dire, «popolati» di soggetti e problemi.
Non si tratta insomma, per dirla con Michel Foucault, «di ricondurre il presente
a una forma riconosciuta del passato che si suppone valida anche per il
presente»,2 ma semmai di provocare «un’interferenza tra la nostra realtà e ciò
che sappiamo della nostra storia passata».3 Mostrare il carattere composito,
poliforme e storicamente determinato di un processo di produzione di
soggettività intorno alla condizione di lavoro, che ha consentito a quest’ultimo
di fare il suo ingresso nell’ordine del discorso politico, può forse suggerire le
coordinate di una riflessione sulle ragioni di un vuoto che si va maturando, e sul
carattere labile e mutevole delle frontiere del politico.
L’introduzione di un elaborato di tesi è sovente votata a mostrare
l’originalità del proprio oggetto, la relativa «verginità» del continente che si va
a esplorare. Si tratta qui semmai di illustrare la peculiarità dell’approccio scelto
per indagare un tema ormai analizzato in ogni suo interstizio. Piuttosto che
osservare l’elaborazione del concetto di classe nel pensiero di uno o più autori,
2 M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, trad. it. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, p. 114. 3 M. Foucault, Dits et écrits, vol. II 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, p. 859.
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oppure di analizzare la vicenda storica di alcuni movimenti politici o sociali, la
presente ricerca si organizza intorno alla dimensione dell’avvenimento come
punto di intersezione dinamica fra storia e teoria. Il titolo Fra il nome e la storia
allude pertanto allo sforzo di abitare il campo di tensione che si apre fra
concreto dispiegarsi degli avvenimenti e il tentativo dei contemporanei di
interpretarli dando loro nomi che segnano l’affiorare di categorie, nozioni,
strutture concettuali della lunga durata. Si tratta dunque anzitutto di illustrare la
«periodizzazione evenemenziale» che organizza l’elaborato intorno allo sforzo
di mettere in tensione due specifici momenti della storia francese. Da una parte
c’è quella vera e propria frattura – lama che fende l’Ottocento in due campi di
problemi per molti versi distinti – rappresentata dalla vicenda del 1848. Essa
costituisce l’orizzonte e il margine esterno di questa ricerca, che si sviluppa
cercando di studiare alcune condizioni di emergenza di tale discontinuità a
partire dall’analisi di un frammento di storia precedente, di una serie di
avvenimenti compresi fra novembre 1831 e giugno 1832.
La vicenda quarantottesca, anzitutto. La forza della rivendicazione di diritti
esigibili da parte degli operai vi marca una rottura di evidenza che dischiude il
lento cammino lungo il quale lo Stato comincerà a farsi garante di parte della
sicurezza sociale dei cittadini.4 E da questo momento, la categoria di classe
operaia inizia a dispiegare un campo unitario all’interno del quale gli operai
diventeranno una classe della e nella società. Nell’intersezione di avvenimenti
ed enunciati di differente natura, dalla posizione del lavoro nella costituzione di
febbraio5 all’insurrezione di giugno 1848, dalla commissione del Lussemburgo
4 «Che gli operai abbiano potuto portare una tale minaccia rileva una contraddizione fondamentale nel piano di governamentalità della società, che esige una ridefinizione dello Stato», sottolinea Robert Castel, Les Métamorphoses de la question sociale, une chronique du salariat, Gallimard, Paris 1995, p. 433. 5 Il decreto del 25 febbraio 1848 redatto da Louis Blanc recita: «le Gouvernement provisoire de la République s’engage à garantir l’existence des ouvriers par le travail. Il s’engage à garantir le travail […] à tous citoyens. Il reconnaît que les ouvriers doivent s’associer entre eux pour jouir du bénéfice légitime de leur travail». La costituzione della Seconda repubblica è considerata la prima costituzione giuslavorista, alla cui stesura partecipano anche operai, e nella cui discussione ha svolto un ruolo maggiore il tema del «diritto al lavoro», conducendo alla formula finale del «diritto all’assistenza» (che afferma comunque il dovere della Repubblica di procurare lavoro ai cittadini «nei limiti delle sue risorse»). L’art. IV del preambolo riconosce comuque le Travail come «base» della Repubblica
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agli ateliers nationaux, dai clubs operai alla pubblicazione di alcuni grandi testi
come il Manifesto, è possibile scorgere l’irruzione di una singolarità storica che
assegna statuto politico ad alcuni comportamenti collettivi del mondo del
lavoro. La rottura quarantottesca viene assunta come orizzonte e margine
esterno di questa indagine poiché si ipotizza che in essa sia possibile
riconoscere una prima e provvisoria affermazione di un regime di verità: la
politicità del lavoro operaio.
Si vuole qui provare a scrivere parte della storia del prodursi di questa verità
come avvenimento, offrire un contributo alla comprensione di alcune
condizioni della sua emergenza indagandole a partire dal tornante 1831-32.
L’ipotesi è che in questo frammento di storia sia possibile osservare l’entrata in
campo di un insieme di nomi e categorie, la cristallizzazione di tutta una serie
di pratiche e regimi discorsivi dentro i quali, attraverso i quali e contro i quali,
la nozione di classe operaia andrà affermando il proprio regime di verità.
Approfondirò questi elementi nel corso dell’introduzione, sia per il momento
sufficiente dichiarare l’intenzione di isolare questo frammento di storia per
indagarlo nella sua singolarità, per studiare gli effetti discorsivi che si
dispiegano intorno a una serie di avvenimenti che lo compongono. Anzitutto
quell’insurrezione dei tessitori lionesi all’indomani della quale emerge
l’espressione question sociale, e in cui gli storici indicheranno la «prima
parola» del moderno movimento operaio,6 seguita a distanza di poche settimane
dal processo ai dirigenti della Société des amis du peuple, ove, nell’autodifesa
di Blanqui, si è soliti indicare l’ingresso nell’ordine del discorso politico del
nome proletari modernamente inteso.7 E poi la grande riforma che sancisce la
(insieme a Famille, Propriété e Ordre public). Gli artt. VII e VIII affermano il dovere e il diritto al lavoro, l’art. 13 del secondo Chapitre recita: «La Constitution garantit aux citoyens la liberté du travail et de l’industrie. La société favorise et encourage le développement du travail par l’enseignement primaire gratuit, l’éducation professionnelle, l’égalité de rapports, entre le patron et l’ouvrier, les institutions de prévoyance et de crédit, les institutions agricoles, les associations volontaires, et l’établissement, par l’Etat, les départements et les communes, de travaux publics propres à employer les bras inoccupés; elle fournit l’assistance aux enfants abandonnés, aux infirmes et aux vieillards sans ressources, et que leurs familles ne peuvent secourir». 6 Cfr. in part. primo capitolo e secondo capitolo § 2.3. 7 Cfr. in part. primo capitolo § 1.5.
11
generalità della pena della detenzione, l’abolizione delle pene corporali e la
rimozione della ghigliottina da Place de Grève, ove storicamente si consumava
il pubblico spettacolo delle esecuzioni richiamando grandi masse della
popolazione urbana.8 La drammatica epidemia di colera che in aprile 1832
divora Parigi, contribuendo a indurre una differente percezione del campo di
problemi rubricati alla voce questione sociale, e fornendo un impulso decisivo e
un nuovo quadro epistemologico alle nascenti scienze sociali che di essa fanno
il primo proprio oggetto specifico.9 E infine l’epilogo di giugno, ove, negli
stessi giorni, i repubblicani scatenano la grande insurrezione che ha in parte
ispirato i Miserabili,10 i legittimisti sollevano la Vandea,11 e il movimento
sansimoniano celebra il proprio ritiro nella comunità di Menilmontant.12 Si
cercherà di ricostruire il modo in cui questa trama di avvenimenti di differente
natura induce l’irruzione nel dibattito pubblico di nomi e categorie con cui i
contemporanei si sforzano di definire e dare un nome a ciò che accade e alle
opache figure sociali che esso fa emergere e affiorare. Si intende in particolare
indagare tensioni e trasformazioni che questi avvenimenti provocano
nell’ordine del discorso delle principali correnti di pensiero politico di questi
anni, inducendo a reinterpretare immagini del mondo e verità condivise,
chiamando in causa e mettendo in discussione concetti e categorie, suscitando
interrogazioni sullo statuto e il significato del politico.
«1848 non inventa niente, 1830, al contrario – e i tre anni che seguiranno –
marca la vera crisi, l’invenzione delle idee, l’iniziativa dei movimenti», ha
scritto Daniel Halévi. 13 Interessa qui mettere in tensione i due momenti
pensando il tornante 1831-32 come l’affiorare di una problematica, e la vicenda
quarantottesca come la rottura di un’evidenza che segna un avvenuto
mutamento in tale problematica, l’irruzione di una singolarità storica che 8 Cfr. in part. quarto capitolo § 4.1. 9 Cfr. in part. quarto capitolo § 4.4 10 Cfr. in part. quarto capitolo §§ 4.2 e 4.4. 11 Cfr. in part. quarto capitolo § 4.2. 12 Cfr. in part. terzo capitolo § 3.1. 13 D. Halévi, La jeunesse de Proudhon, Cahiers du Centre, Nevers 1913: «allora il saint-simonismo, il fourierismo e il blanquismo si formano a Parigi nei cenacoli e nei club; e il sindacalismo pianta il suo drappo nero sulla collina della Croix-Rousse».
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impone una torsione di significato su alcune categorie e concetti che
all’indomani della rivoluzione di Luglio erano venuti emergendo nel dibattito
pubblico. E in particolare, sulla nozione di «classi lavoratrici», che viene
progressivamente declinandosi al singolare «classe operaia», innestandosi e
lavorando su un’eterogenea pluralità di questioni e profili sociali fino a
produrne una rappresentazione in qualche modo unitaria.
Una volta tracciati i margini di questa «periodizzazione evenemenziale», e
prima di illustrare metodo, fonti e struttura dell’elaborato, è opportuno svolgere
una ricognizione dello «stato dell’arte» della letteratura sui temi in questione,
anche allo scopo di svolgere alcune considerazioni sul concetto di classe. Si
tratta di specificare il modo in cui si intende qui usare questo oggetto sfuggente
che abita il crinale fra differenti discipline, e che da un punto di vista politico ha
prodotto dirompenti quanto talvolta paradossali effetti di verità (dando vita, ad
esempio, a politiche, partiti, rivoluzioni della classe operaia anche in situazioni
ove tale soggetto risultava del tutto marginale).
1. La prima parola del movimento operaio?
Alla base del presente lavoro agisce un assunto, una constatazione che
potrebbe essere espressa nella formula per cui il moderno movimento operaio
«nasce» prima della classe operaia. Quell’insieme di posizioni politico-
discorsive sul mondo che si chiamerà movimento operaio, emerge nella vicenda
storica francese ben prima che acquisti una qualche fisionomia riconoscibile
quel regime economico di proprietà dei mezzi di produzione e di divisione del
lavoro le cui forme andranno a determinare le categorie fondamentali attraverso
cui siamo abituati a pensare il concetto di «classe» (operaia). Il presente
elaborato muove dalla constatazione di questo scarto, di questo iato: è perciò
opportuno, in sede introduttiva, svolgere una breve ricognizione della
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letteratura che lo ha indagato. Non solo allo scopo di esporre lo «stato dell’arte»
e, con esso, chiarire le finalità di questa ricerca, ma anche per mostrare le
reciproche interferenze fra i processi di significazione del nome «classe» e la
scrittura della storia che, interpretandoli anche attraverso tale nome, costituisce
gli avvenimenti in quanto «fatti» storici.
Nel corso dell’Ottocento il concetto di classe si è andato affermando come
strumento analitico per leggere le trasformazioni indotte dalla rivoluzione
industriale e la struttura delle disuguaglianze nelle società dell’uguaglianza
civile. La classe anzitutto come classe sociale dunque, nome di una struttura
sociale definita da interessi e bisogni determinati dalla posizione nel sistema di
divisione del lavoro e di proprietà dei mezzi di produzione. È attraverso questa
nozione che gli avvenimenti oggetto del frammento di storia in esame verranno
a lungo interpretati dalla storiografia novecentesca. Se consideriamo, ad
esempio, l’interpretazione – vi tornerò diffusamente alla fine del terzo capitolo
– che la storiografia francese del movimento operaio ha proposto
dell’insurrezione dei tessitori lionesi del 1831, vediamo che, proiettandovi in
qualche modo l’immagine della propria composizione sociale, essa ha letto tale
avvenimento come manifestazione dell’emergere della questione sociale figlia
della rivoluzione industriale, e pertanto come la «prima parola» politica di una
nuova soggettività, nuova forza sociale intenta ad affacciarsi sul palcoscenico
della storia. Il grande storico delle lotte dei tessitori lionesi – Fernand Rude –
descrive allora l’avvenimento di novembre 1831 come il «punto finale di un
periodo e punto di partenza di un altro»,14 in cui «una forza sociale nuova, la
classe operaia, da classe ‘in sé’ si afferma in classe ‘per sè’»,15 e per Jean-Pierre
Aguet esso mostra «la lenta evoluzione delle masse operaie parallela allo
sviluppo industriale».16 Dispiegando intorno al mutamento di paradigma indotto
14 F. Rude, L’insurrection lyonnaise de novembre 1831. Le Mouvement ouvrier à Lyon de 1827 à 1832, prefazione di È. Dolléans Domat-Montchrestien, Paris 1944, p. 43. Sul lavoro di questo storico cfr. infra terzo capitolo, § 3.7. 15 F. Rude, Les révoltes des canuts (1831-1834) (1982), La Decouverte, Paris 2007, p. 187. 16 J-P. Aguet, Contribution à l’histoire du mouvement ouvrier français: Les grèves sous la Monarchie de Juillet (1830-1847), Droz, Genève 1954, p. 47.
14
dalla rivoluzione industriale una rappresentazione bipolare del vecchio e del
nuovo, a tale avvenimento si è a lungo consegnato lo statuto di «origine» – di
una nuova soggettività sociale che emerge dalle trasformazioni economiche – in
una sorta di teleologia della classe operaia organizzata in cui è in ultima analisi
il presente a rendere conto e formare l’immagine del passato.17
Dagli anni Sessanta del Novecento, tale interpretazione è stata messa in
discussione in particolare da una storiografia di matrice anglosassone che – a
partire dagli studi di E. P. Thompson – ha lavorato a sottrarre l’emergere della
classe operaia al determinismo che la annoverava fra gli sviluppi logici e gli
effetti necessari di un processo economico, la rivoluzione industriale, in grado
di dar vita a una «nuova razza» di esseri umani, gli operai di fabbrica.18 La
classe, afferma Thompson, non è una «cosa», ma una «relazione sociale», un
fenomeno storico, una formazione storico-sociale che unisce eventi di differente
natura, i quali non possono essere circoscritti all’ambito socio-economico ma
ineriscono anche a processi attivi di ordine politico e culturale.19 Le ricerche di
new social history muovono così da una genealogia di tipo tecnico-industriale
della soggettività operaia verso una genealogia di tipo politico-culturale, e la
centralità di un concetto di cultura di matrice antropologica induce ricerche di
sapore etnografico sulla dimensione dell’«esperienza», le forme di sociabilità,
17 Rimando alla fine del terzo capitolo (§ 3.7) per una più dettagliata analisi della letteratura che inscrive al novembre 1831 l’«origine» del moderno movimento operaio, e per un’interpretazione di questo gesto storiografico che ha contribuito a indurmi a collocare l’inizio della presente ricerca al novembre 1831 (si sa che la tematica dell’origine reca solitamente le tracce di un’interrogazione sulla natura del soggetto). 18 E. P. Thompson, The making of the English working class, Vintage books, New York 1963, pp. 191-194 (La ricerca indaga specificamente la vicenda inglese del periodo 1780-1832). È la semplicistica equazione «vapore più filatura di cotone = nuova classe operaia», che accomunerebbe le interpretazioni socialiste, radicali e conservatrici. 19 Ivi, pp. 9-11. «La formazione [making] della classe operaia è un fatto di storia politica e culturale tanto quanto lo è di storia economica. Non era generata spontaneamente dal sistema di fabbrica. Né dovremmo pensare una forza esteriore – la ‘rivoluzione industriale’ – che lavora un qualche indefinito e indifferenziato materiale umano grezzo, e ne tira fuori infine una ‘nuova razza di esseri’» (ivi, p. 194). La formazione della classe operaia inglese viene perciò qui interpretata anche una sorta di costruzione endogena del mondo operaio, una sua «risposta» agli attacchi contro le comunità di mestiere (e le loro tradizioni politiche e culturali) provenienti tanto dai processi socio-economici legati alla rivoluzione industriale quanto dalle politiche contro-rivoluzionarie del governo. Insomma, «la classe operaia non è sorta a un certo momento come il sole», ma «è stata presente al suo proprio farsi» e «ha creato se stessa tanto quanto è stata creata» (ivi, pp. 9 e 194).
15
la vita quotidiana, l’ambiente urbano, valorizzando fonti che sono espressione
diretta del mondo operaio.20 Gli studi tesi a declinare tali principi e metodi sulla
vicenda francese – concordi nell’attribuire ruolo decisivo ai primi anni 1830 –
leggono dunque l’emergere della classe operaia non più in termini di rottura e
di «origine», ma – facendo talvolta riferimento alle tesi del Tocqueville di
L’Ancien régime et la Révolution – secondo un principio di «provenienza», di
continuità di rivendicazioni, di rituali, di forme organizzative con le
plurisecolari tradizioni di mestiere di Ancien régime. Viene così accordato un
ruolo centrale alle iniziative di resistenza alla pressione esercitata
dall’intervento dei capitali sui tradizionali mestieri artigiani nel processo di
formazione di un movimento operaio e socialista che sarebbe emerso
direttamente dalle vecchie organizzazioni corporative.21 Negando la priorità
20 Di Thompson si deve poi segnalare il lavoro svolto sul concetto di «economia morale», sviluppato a partire da una ricerca sui tumulti alimentari nell’Inghilterra del XVIII secolo per confutare le interpretazioni tese a rubricarli come rivolte apolitiche, in cui la fame era l’unico movente di un’azione priva di razionalità, consapevolezza e autonomia, e dunque esito pressoché diretto dell’andamento del costo della vita. Lo studio di Thompson intende criticare una «concezione spasmodica della storia popolare» secondo la quale «non si può considerare la gente comune come un soggetto storico prima della Rivoluzione francese» e fa perciò riferimento a una nozione popolare di «legittimità» in quanto movente consapevole e coerente dell’azione collettiva (The Moral Economy [1971]; trad. it. L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII, et al. edizioni, Varese 2009, pp. 13 e 84). Si tratta di un lavoro esplicitamente svolto sulla scorta delle ricerche di un altro «pioniere» della new social history, George Rudé, di cui si deve richiamare anzitutto The Crowd in the French Revolution (Clarendon press, Oxford 1959), da cui muove poi la pubblicazione nel 1964 di uno studio comparato Francia-Inghilterra delle sommosse popolari fra 1730 e 1848 (The crowd in history 1730-1848 [1964]; trad. it. di M. Lucioni, La folla nella storia 1730-1848, Editori Riuniti, Roma 1984). Tornerò più volte su questo studio, ove emerge, fra l’altro, il ruolo centrale che non smettono di giocare i «tumulti alimentari» contro il carovita (taxation populaire, controllo ufficioso e collettivo dei prezzi nei mercati cittadini, saccheggi, assalti a granai, forni, magazzini o case di mercanti, requisizioni di derrate). Il termine Crowd ritornerà in diversi lavori di new social history, Rudé lo utilizza per mostrare la presenza e l’azione della «folla» nella storia, anche nell’intento di svelarne i «volti», ricostruirne i profili (assai più spesso «onesti lavoratori del posto» che lumpenproletari) e strapparli così al generico stereotipo della massa tumultuante, del «mob». Fra gli studiosi che hanno inaugurato queste nuove traiettorie di ricerca storiografica si deve poi ricordare gli studi di Richard C. Cobb sulla grande Rivoluzione, dalla prima pubblicata in francese col titolo Les armées révolutionnaires; instrument de la terreur dans les départements, avril 1793-floréal An 2 (Mouton, Paris 1961), fino all’importante The Police and the People. French Popular Protest 1789-1820 (Oxford University Press, Oxford 1970). 21 Cfr., ad esempio, il lavoro di C. H. Johnson sui tessitori francesi di prima metà Ottocento, l’intervento dei capitali su tale industria, i mutamenti nella condizione dei lavoratori e le loro iniziative, Economic Change and Artisan Discontent: The Tailors’ History 1800-1848, in R. Price (ed.), Revolution and Reaction: 1848 and the Second French Republic, Barnes & Noble, New York 1975. Bernard H. Moss ha invece analizzato l’autonoma elaborazione negli
16
ontologica degli eventi economici, questa storiografia – con studi come quello
di David H. Pinkney22 sulla rivoluzione del 1830 o i lavori di sociologia storica
di Charles Tilly –23 invita anche a conferire ruolo decisivo nel dibattito sulla
ambiti artigiani di specifiche idee, tematiche e teorie allo scopo di mostrare che «il socialismo francese è sorto direttamente dalle organizzazioni corporative», The Origins of the French Labor Mouvement 1830-1914. The Socialism of Skilled Workers, University of California Press, Berkeley 1976, p. xi. Moss parla della costruzione di una vera e propria «ideologia dal basso»: Producers’ Associations and the Origins of French Socialism: Ideology from Below, in «The Journal of Modern History», Vol. 48, 1, 1976, pp. 69-89 (cfr. anche Id., Parisian Producers Association [1830-51]: The Socialism of Skilled Workers in R. Price [ed.], Revolution and Reaction cit.). Queste tesi saranno sottoposte a critica da Jacques Rancière che vi indicherà lo sforzo di subordinare il nascente movimento dei lavoratori a uno specifico punto di vista politico (cfr. infra il presente paragrafo). Per un’analisi della forme di sociabilità operaia nella prima metà dell’Ottocento in relazione al movimento operaio e allo sviluppo economico cfr. M. Agulhon, Working class and sociability in France before 1848, in P. Thane, G. Crossick, R. Floud, The power of the past. Essays for Eric Hobsbawm, CUP, Cambridge 1984, pp. 37-66. 22 David H. Pinkney ha portato un contributo importante all’interpretazione della rivoluzione di luglio 1830, lavorando a svelare i volti e la composizione degli insorti e a evidenziare l’importanza di fattori politici, spesso lasciati in ombra da moventi legati alla depressione economica. Pinkney sottolinea il ruolo di motivazioni e aspettative direttamente politiche degli operai qualificati relativamente colti e politicizzati che riattivavano, difendevano e prolungavano gli ideali patriottici del 1789 (The french revolution of 1830, Princenton University Press, Princenton 1972, e Id. The Crowd in the Franch Revolution of 1830, in «American historical review», 70, 1974. Cfr. anche il volume collettaneo J. M. Merriman [ed.], 1830 in France, New View Point, New York 1975, e in particolare il contributo di E. Newman, What the Crowd wanted in the French Revolution of 1830). 23 Charles Tilly dagli anni Sessanta applica le metodologie quantitative delle scienze sociali allo studio della storia sociale europea, e in particolare all’analisi dei fenomeni di violenza collettiva nella storia francese. Tali ricerche, svolte prevalentemente a più mani, mirano anzitutto a confutare le interpretazioni delle esplosioni di protesta violenta in termini di reazione diretta, meccanica, a situazioni di privazione materiale, per affermare invece il rilievo di fattori immediatamente politici, in primis il tenore generale della mobilitazione nel paese e il livello di repressione dispiegato dalle autorità, come mostrerebbe la vicenda francese tanto lungo il corso di svariati decenni, quanto nello spazio di un avvenimento quale l’insurrezione parigina del giugno 1848. Su questo secondo elemento cfr. infra terzo capitolo § 3.5, sul primo cfr. D. Snyder, C. Tilly, Hardship and Collective Violence in France, 1830 to 1860, in «American Sociological Review», vol. 37, 5, ott. 1972, pp. 520-532: «noi supponiamo che le principali, immediate cause della violenza collettiva siano politiche: la violenza collettiva risulta dai mutamenti nelle relazioni tra gruppi di uomini e le maggiori concentrazioni di potere coercitivo nel loro ambiente» (p. 520, cfr. anche E. Shorter, C. Tilly, Strikes in France 1830-1968, Cambridge University Press, New York 1974). Di qui la violenza e i mutamenti delle sue forme vengono assunti come strumento fondamentale di indagine dell’azione collettiva, e dunque utilizzati per interrogare il rapporto che quest’ultima intrattiene prima con i processi di industrializzazione e urbanizzazione nell’arco di un secolo in chiave comparata (C. Tilly, L. Tilly e R. Tilly, The rebellious Century 1830-1930, Harvard University Press, Cambridge 1975, p. 287) e poi con quelli dello sviluppo capitalistico e dell’accentramento statuale lungo quattro secoli di storia francese (C. Tilly, The Contentious French (1986); trad. it. di F. Miele, La Francia in rivolta, Guida, Napoli 1990). «L’azione collettiva che conduce alla violenza è la vera sostanza della storia», scrive Tilly dichiarando di aver «scelto di usare la violenza come tracer dell’azione collettiva» (The rebellious Century cit., p. 287). Anche nell’indagine del frammento di storia oggetto della presente ricerca la violenza collettiva emerge come dispositivo analitico, come lente attraverso la quale interrogare fenomeni e problematiche. Essa
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nascita del movimento operaio al dispiegarsi e succedersi degli avvenimenti
politici, il cui ritmo battente pare adattarsi al fenomeno in modo più
convincente rispetto al lento e tardivo sviluppo industriale francese. È una tesi
su cui insiste William H. Sewell, in un fondamentale studio sulle forme di
associazione e i linguaggi del mondo del lavoro in Francia teso a far emergere i
tratti di continuità che dalle corporazioni di Ancien régime alla sanculotteria, al
compagnonnage, alle associazioni degli anni 1840 conducono fino agli ouvriers
socialisti del quarantotto, al moderno movimento operaio. La formazione di
quest’ultimo viene osservata facendo emergere un «graduale processo di
evoluzione sorretto dalle medesime tematiche» in cui a segnare le discontinuità
più importanti sono assai più i rivolgimenti politici che le dinamiche
economiche.24 Così nella ricerca – cui farò più volte riferimento – di Antonino
De Francesco sulla storia dell’industria e del mondo del lavoro lionese fino al
quarantotto, la rivolta dei tessitori del 1831 viene interpretata come non viene tuttavia qui utilizzata come strumento per l’analisi storica e sociologica, ma piuttosto interrogata nella sua capacità di influenzare il discorso pubblico, di chiamare in causa, mobilitare e ridislocare nozioni e concetti politici, anche in forza dell’intima solidarietà che intrattiene con il fenomeno del potere attraverso cui il pensiero politico interpreta e dispone le proprie categorie analitiche. 24 W. H. Sewell, Work and Revolution in France: The Language of Labor from the Old Regime to 1848, Cambridge University Press, Cambridge 1980, e Id., La confraternité des prolétaires: conscience de classe sous la monarchie de Juillet, in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 36, n. 4, 1981. Sewell propone un’indagine storica sul lungo periodo che mira a frantumare la centralità della nozione di discontinuità ponendo in questione anche le rodate partizioni della storia francese (a partire da quella sorta di «mito delle origini» che orienta tutto il sapere storico francese rispetto al prima e dopo 1789). Ragionando secondo un punto di vista storico che troverebbe il suo più celebre antenato nel Tocqueville de L’Ancien régime et la Révolution, l’emergere della classe operaia francese viene qui indagata non più in termini di rottura – di mutamento di paradigma indotto dalla rivoluzione industriale – ma secondo un principio di continuità di linguaggio, di rituali, di forme organizzative con le plurisecolari tradizioni e mentalità corporative provenienti direttamente dall’Ancien régime. Negando qualsiasi «priorità ontologica degli eventi economici» e ogni forma di determinismo causale fra emergenza della classe operaia e concentrazione di manodopera nelle fabbriche, Sewell mette in rilievo la sfasatura fra il lento e tardivo andamento dello sviluppo economico in Francia, e i ritmi battenti delle lotte, dell’emergenza dei movimenti operai, di un rapido mutamento nella composizione politica del lavoro: ritmi che appaiono sintonizzati non sul lungo corso delle strutture economiche, ma sul rapido e intermittente scandirsi degli eventi della politica francese. La proposta è pertanto quella di conferire ruolo decisivo, all’interno del dibattito sulla nascita del movimento operaio, al dispiegarsi e succedersi degli avvenimenti politici. Sarebbe nell’incontro fra le tradizionali solidarietà e rivendicazioni corporative e la vicenda rivoluzionaria di luglio 1830 che si innesca una radicale trasformazione: «le agitazioni senza precedenti dei lavoratori nei primi anni 1830 e specialmente la drammatica insurrezione dei lavoratori di Lione nel 1831 e 1834 hanno inaugurato una nuova dialettica politica del conflitto di classe» (Work and Revolution in France cit., p. 282).
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«l’insurrezione del mondo del lavoro contro il nuovo ordine».25
Si assiste dunque, rispetto alle letture precedenti, a un diametrale
rovesciamento delle coordinate che istruiscono l’interpretazione
dell’avvenimento del 1831 – non più le nozioni di rottura e origine, ma
piuttosto quelle di continuità e provenienza – e delle categorie attraverso cui si
pensa la nozione di classe operaia e la sua emergenza storica – non più
esclusivamente socio-economiche ma anche e soprattutto politico-culturali.
Svolgo questi riferimenti non solo per restituire elementi dello «stato dell’arte»,
ma anche perché essi consentono di scorgere i contorni del campo di tensione
che si dispiega fra la produzione di significato dei nomi e l’interpretazione della
storia, fra definizione dei concetti e organizzazione di verità storiche. Non si
tratta di misurare l’irriducibile scarto fra concetto e realtà, ma al contrario di
osservare la relazione complessa che si instaura fra significazione delle parole e
interpretazione degli avvenimenti che esse vengono chiamate a nominare, fra
«invenzione» dei fatti e delle categorie. «Ogni scolaro di storia sociale lo sa –
scrive Jacques Rancière – a Lione, in novembre 1831, i fieri canuts hanno fatto
entrare la classe operaia sulla scena della storia universale»:26 nel breve spazio
25 A. De Francesco, Il sogno della repubblica. Il mondo del lavoro dall’Ancien Régime al 1848, Franco Angeli, Milano 1983, p. 373. È probabilmente con questa ricerca che i principi della nuova storia sociale trovano la più corposa declinazione sul mondo del lavoro lionese di prima metà Ottocento. De Francesco inserisce l’analisi e l’interpretazione della révolte des canuts all’interno di una ricerca su Lione e la sua industria che abbraccia il lungo periodo storico, considera il mondo del lavoro nella sua complessità, e presta grande attenzione alla dimensione urbana, alla politica cittadina, alla forma delle strutture sociali e familiari (fra le fonti, insieme agli archivi polizieschi e giudiziari, si fa ampio riferimento ai censimenti). Come Sewell, anche De Francesco conferisce particolare significato alla dimensione politica, del linguaggio e delle rappresentazioni sociali. Il «sogno della repubblica» allude al costante riferimento delle lotte operaie lionesi alla vicenda della grande Rivoluzione che, nei suoi sviluppi istituzionali, economici e sociali, non smette di condizionarne forme, contenuti e linguaggi, consegnando dimensione costantemente politica alle lotte del mondo del lavoro. Nell’interpretazione che le categorie subalterne propongono dell’idea di libertà affermata dalle giornate di luglio 1830, De Francesco individua il passaggio, tutto politico, verso l’orizzonte di una libertà associativa che si contrappone alla libertà individualista borghese e che apre la strada a nuove forme di associazioni fra lavoratori. Novembre 1831 chiude la breve luna di miele fra il mondo del lavoro e il nuovo potere istituito dalla rivoluzione, e apre la fase di una «nuova ‘Weltanschaung’ del mondo del lavoro comparsa in quegli anni» (p. 376) e segnata dall’affermazione dell’associazione fra operai di uno stesso mestiere come sviluppo delle società di mutuo soccorso e affermazione della partecipazione operaia alla vita politica pubblica. 26 J. Rancière, Savoirs hérétique et émancipation du pauvre, in AA.VV. Les sauvages dans la cité. Auto-émancipation du peuple et instruction des prolétaires au XIXe siècle,
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di questa constatazione si riconosce intera la cifra del rompicapo costituito dalla
tensione che lega l’irruzione della singolarità di un avvenimento («a Lione, in
novembre 1831») e l’emergere di una struttura concettuale della lunga durata
(«la classe operaia sulla scena della storia universale»). Sottolineo questi
elementi dal momento che nel corso dell’elaborato si cercherà di prestare
particolare attenzione proprio alle pressioni, torsioni e mutamenti che la serie di
avvenimenti in esame paiono indurre ed esercitare sul significato di alcuni nomi
che attraversano il dibattito pubblico, e di taluni concetti che in esso affiorano o
si modificano.
A partire dal testo di Thompson – che compie quest’anno mezzo secolo – la
new social history produce una «rivoluzione copernicana» nel modo di pensare
la nozione di classe operaia – che acquista ora un forte significato politico – e la
sua formazione – indagata nell’ambito del laboratorio artigano domestico prima
che fra gli operai di fabbrica. Osservando, nel corso dell’Ottocento, una
soggettività collettiva del lavoro prendere forma in una realtà ancora
compiutamente preindustriale, queste ricerche si configurano sostanzialmente
come studi sulla «nascita della coscienza di classe» presso gruppi artigiani
segnati da forte identità e orgoglio di mestiere mutuati dalla tradizione
corporativa del secolo precedente. Così, ad esempio, Sewell si propone di
studiare la «trasformazione della coscienza di classe», 27 e conclude che
quest’ultima «appare brutalmente all’indomani della rivoluzione di Luglio. Si
tratta di una trasformazione rapida e drammatica del linguaggio e dei valori, del
tipo di quelle che gli storici […] potrebbero qualificare oggi come ‘rottura’».28
prefazione di J. Derrida e presentazione di J. Borreil, Champ Vallon, Seyssel 1985, p. 34. 27 Sewell, Work and Revolution in France cit., p. 7. 28 Sewell, La confraternité des prolétaires cit., p. 667. Per il periodo 1830-34 Sewell sostiene che «si possono distinguere tre stadi nello sviluppo della coscienza di classe», stadi che seguono un ordine evolutivo fino al momento in cui essa «dà» alle corporazioni un carattere secolare e non più religioso, ed «estende» la solidarietà fra corpi di mestiere diversi. «I sentimenti di solidarietà di classe, quando apparvero per la prima volta verso il 1830, erano una generalizzazione, una proiezione a livello superiore, dei sentimenti di solidarietà corporativa» (ivi, p. 665), e sarebbe «solo nel 1833» che si può parlare di coscienza di classe, ovvero nel momento in cui la parola associazione acquista il suo carattere interprofessionale. Da questo punto di vista, Sewell indaga l’oggetto più tipico degli studi di storia sociale svolti a partire dagli anni Sessanta Ma lo fa sviluppando una vera e propria storia del linguaggio del mondo del lavoro francese, marcando così una discontinuità in grado di segnalare già il solco del
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La tematica dell’origine, la discontinuità, che non ordina più il terreno socio-
economico dell’analisi storica, serve ora a leggere il processo di formazione di
una coscienza di classe che, delineando lo spazio dell’attività sintetica del
soggetto, fornisce le coordinate dell’interpretazione di linguaggi e lotte operaie,
e il metro cui rapportare esperienze e pratiche politiche. La centralità della
nozione di coscienza di classe postula, in ultima analisi, una struttura di
interessi e bisogni data e intelligibile su cui misurare la pensabilità stessa di tale
concetto e la sua operatività, dilatando la nozione di classe indefinitamente nel
tempo, e assegnando ancora a una direzione alla storia.
Rispetto a queste ricerche, il presente elaborato ha contratto un debito
fondamentale inerente soprattutto la natura essenzialmente politica che orienta
la lettura che qui si propone del funzionamento – nel frammento di storia in
esame – del concetto di classe. Ma esso se ne discosta sostanzialmente nella
misura in cui si cerca di leggere l’emergenza di una soggettività collettiva del
lavoro valorizzando le dimensioni dell’azzardo e del caso, cercando di far
emergere un plurale, e a tratti indecidibile, campo di elementi che vi
concorrono, seguendo non il cammino lineare di un accumulo di coscienza ed
esperienza, ma mostrando piuttosto le peripezie, le figure di radicale alterità a
partire dalle quali tale soggettività si è venuta manifestando. Di qui la scelta di
non fare riferimento al lungo periodo storico, ma di convocare piuttosto una
serie di avvenimenti, un frammento di storia per indagarlo nella sua singolarità
e autonomia, sottraendolo alle inscrizioni teleologiche che lo hanno rubricato
alle voci «inizio» o «transizione» (origine del movimento operaio, o snodo in
cui emerge la coscienza di classe, ma anche tirocinio del regime
rappresentativo, apprendistato del liberalismo di governo, esordio della
borghesia alla guida dello Stato eccetera). Si vuole pertanto cercare di osservare
anche il modo in cui la figura, la «classe», degli operai è venuta
progressivamente stagliandosi all’interno del più vasto e variegato ambito di
mutamento che nelle indagini di storia sociale induce l’incontro e il passaggio attraverso l’ambito di riflessioni che si conviene rubricare alla voce linguistic turn, l’antropologia culturale, la cosiddetta teoria poststrutturalista, gli studi di genere e istanze provenienti dalla critica letteraria.
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forme di vita, comportamenti collettivi, fenomeni sociali rubricati alla voce
proletariato urbano. Si tratta insomma, per dirla con Michel Foucault, di far
«pullulare […] miriadi d’avvenimenti perduti» per ricostruire il modo in cui il
soggetto che qui si intende osservare fu costruito pezzo per pezzo a partire da
figure che gli erano estranee.29
Cito ancora questo filosofo poiché i suoi lavori paiono aver giocato un ruolo
nell’indurre nuovi orientamenti nell’ambito della storia sociale. E mi interessa
in particolare richiamare alcune pagine in cui Foucault, accingendosi a un
rilevante spostamento metodologico e interrogandosi sulla possibilità di
sviluppare «altre archeologie», che insistano cioè su terreni differenti da quello
dell’episteme su cui finora aveva lavorato, suggerisce la possibilità di
un’archeologia del sapere politico.30 Che dovrebbe orientarsi a verificare «se il
comportamento di una società, di un gruppo o di una classe non sia permeato da
una pratica discorsiva determinata e descrivibile», una positività distinta,
differente e irriducibile sia alle teorie politiche che alle determinazioni
economiche. Se ciò fosse possibile
il problema non sarebbe quello di determinare il momento a partire dal quale compare una coscienza rivoluzionaria, né quale parte
29 M. Foucault, Nietzsche, la Généalogie, l’histoire (1971); trad. it. di A. Fontana e P. Pasquino Nietzsche, la genealogia, la storia, in M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p. 44. 30 Faccio in particolare riferimento ai testi che segnano, fra il 1969 e il 1971, il progressivo spostamento di Foucault dall’archeologia del sapere in direzione del metodo genealogico: L’archéologie du savoir (1969; trad. it. di G. Bogliolo L’archeologia del sapere, BUR, Milano 2011); L’ordre du discours. Leçon inaugurale au Collège de France prononcé le 2 décembre 1970 (Gallimard, Paris 1971) e Nietzsche, la genealogia, la storia cit. del 1971. Sui concetti di discorso e di verità faccio riferimento anche a due interviste, la prima rilasciata nel 1972 a S. Hasumi (De l’archéologie à la dynastique, in M. Foucault, Dits et écris, tome II, Gallimard, Paris 1994, pp. 405-416), la seconda nel 1977 a A. Fontana e P. Pasquino (Intervista a Michel Foucault, in Foucault, Microfisica del potere cit., pp. 3-28). Tale spostamento teorico trova un’importante analisi e interpretazione di natura filosofica nel lavoro di H. L. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics (1983); trad. it. La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989; una sintesi chiara ed efficace in S. Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Roma-Bari 2000; e un’utile analisi delle possibili implicazioni metodologiche sugli studi storico-sociologici in M. Dean, Critical and effective histories. Foucault’s method and historical sociology, Routledge, London and New York 1994. Ho infine fatto riferimento alle voci Discours, Evénement, Savoir, Verité in J. Revel, Dictionnaire Foucault, Ellipses, Paris 2001 e in S. Lecrercq (a cura di), Abécédaire de Michel Foucault, Sils Maria, Mons 2004.
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abbiano potuto avere nella genesi di questa coscienza rispettivamente le condizioni economiche e il lavoro di chiarimento teorico; […] ma di mostrare come si siano formati una pratica discorsiva e un sapere rivoluzionario che si investono in comportamenti e strategie, che danno luogo a una teoria della società e che operano l’interferenza e la mutua trasformazione di entrambi.31
Per quanto le pagine che seguono non possano ambire a rappresentare una
genealogia del concetto di classe, né un’archeologia del sapere politico così
inteso (e neppure la storia di un discorso), esse hanno nondimeno contratto un
debito nei confronti di tali indicazioni. Da queste, la presente indagine trae
spunto per sondare la possibilità di pensare l’emergere storico della nozione di
classe operaia nei termini di un «discorso», di una formazione e pratica
discorsiva. Vale a dire di un insieme eterogeneo di avvenimenti, pratiche ed
«enunciati» di differente natura che, malgrado ciò, rispondono a sistemi di
formazione, principi di articolazione e regole di funzionamento comuni, e che,
attraverso la produzione di saperi, tattiche e strategie, dispiegano effetti di
verità mettendo in opera meccanismi di organizzazione del reale. Un principio
di articolazione tra avvenimenti discorsivi e altre serie di avvenimenti,
trasformazioni e processi che rende possibile, per un certo periodo, la comparsa
di oggetti che da tale discorso sono creati e contribuiscono a crearlo. I primi tre
capitoli del presente elaborato si organizzano allora intorno allo sforzo di
sviluppare questa ipotesi leggendo l’emergere della nozione di classe operaia
come una formazione discorsiva che ha per oggetto i confini del politico, il suo
regime di verità, e si propongono di ricostruire un segmento di quel tessuto di
parole e avvenimenti attraverso il cui intreccio tale discorso va emergendo.
31 Foucault, L’archeologia del sapere cit., pp. 254-255. «Questa positività non coinciderebbe evidentemente né con le teorie politiche dell’epoca né con le determinazioni economiche: definirebbe quella parte della politica che può diventare oggetto di enunciazione, le forme che questa enunciazione può prendere, i concetti che vi si trovano impiegati, e le scelte strategiche che vi si operano. Invece di analizzare questo sapere – ma lo si può sempre fare – nella direzione dell’episteme a cui può dare luogo, lo si analizzerebbe nella direzione dei comportamenti, delle lotte, dei conflitti, delle decisioni e delle tattiche» (p. 254).
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2. Un tessuto di nomi
A partire dalla ricezione di tematiche foucaultiane e motivi provenienti dal
cosiddetto post-strutturalismo, e passando più in generale attraverso l’incontro
con gender studies, istanze provenienti dalla critica letteraria e quanto si è soliti
rubricare alla voce svolta linguistica, la storia sociale si è incamminata lungo
nuove traiettorie di ricerca, di cui si è soliti indicare un primo rilevante esempio
nei lavori di Gareth Stedman Jones. Formatosi anch’egli nell’ambito della new
labour history, questo studioso ne ha poi sottoposto a critica l’attitudine a
sottintendere un’anteriorità del sociale e a utilizzare le categorie di «coscienza»
o «esperienza» per istruire la connessione fra bisogni e interessi di classi e
gruppi sociali – che implicitamente si assume esistere e confliggere nella
società civile – e la dimensione politica, la loro espressione razionale nell’arena
pubblica. Stedman Jones propone di rovesciare l’assunto per cui gli interessi di
classe preesistono alla loro espressione pubblica: «è la struttura discorsiva del
linguaggio politico che concepisce e definisce in prima battuta l’interesse. Ciò
che pertanto dovremmo studiare è la produzione di interesse, identificazione,
rivendicazione dentro i linguaggi politici stessi». 32 Il discorso politico di
32 G. Stedman Jones, Languages of Class: Studies in English Working Class History, 1832-1982, Cambridge University Press, Cambridge, 1983, p. 22. Si tratta di un lavoro figlio di una riflessione sul rapporto fra storia e teoria che orienta questo studioso a una critica del primato della ricerca empirica tesa a frantumare la tendenza della storia sociale a fondare i propri lavori su teorie sociali forgiate altrove, per rivendicare una storia teoreticamente qualificata che non sia validazione empirica di categorie e concetti pre-esistenti. Viene messa in discussione soprattutto un’idea determinista che assume l’«essere sociale» come realtà anteriore prima e sostanziale a partire da cui spiegare tutti gli altri elementi, cosicché quando tali connessioni, in particolare con la dimensione politica, divenivano problematiche «assunzioni filosofiche – esplicite o implicite – procuravano i legami mancanti esclamando termini come ‘coscienza’ o ‘esperienza’» (p. 19). Entrambi questi termini, nell’utilizzo fattone dagli storici, nascondono il carattere problematico del linguaggio, assumendolo – secondo una «concezione romantica» – come un puro mezzo attraverso cui le determinazioni sociali trovano espressione, senza coglierne la materialità ed il modo in cui esso stesso struttura l’esperienza, ne organizza la comprensione: «sia che fossero imbevuti delle più vecchie tradizioni di labour history, sia delle più nuove convenzioni di social history, gli storici hanno guardato ovunque eccetto che nei mutamenti del discorso politico stesso per spiegare i cambiamenti dei comportamenti politici. […] Allo scopo di riscrivere la storia politica della ‘working class’ o ‘working classes’, dovremmo partire dall’altro capo della catena. Il linguaggio manda in frantumi qualsiasi semplice nozione della determinazione di coscienza da parte dell’essere sociale perchè è esso
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movimenti ed esperienze sociali del lavoro – la costruzione di un linguaggio di
classe – emerge così come autonomo oggetto di un’indagine tesa «tracciare i
successivi linguaggi» politici mettendoli in relazione a quelli precedenti che
sostituiscono e a quelli rivali con cui confliggono.33 L’incontro fra storia sociale
e analisi del linguaggio induce così un ulteriore spostamento nel modo di
intendere la nozione di classe: una realtà discorsiva più che ontologica, la cui
esistenza storica può essere osservata e interpretata attraverso una concezione
non-referenziale del linguaggio. Che assume cioè quest’ultimo non come mero
strumento per esprimere un’esperienza di classe data, ma in quanto elemento
che contribuisce a strutturare e rendere intelligibile questa stessa esperienza
perché ne organizza la comprensione. Si tratta allora di analizzare le modalità in
cui vengono prodotte le concezioni prevalenti degli interessi che strutturano la
rappresentazione di una classe, intesa come collettività operatoria che si
definisce a livello discorsivo.
Intorno a questo campo di temi e problematiche si è andato producendo negli
anni Ottanta, in particolare nel mondo anglosassone, un vivace dibattito,34 nel
stesso parte dell’essere sociale» (pp. 21-22). 33 Di qui Stedman Jones lavora a mettere in questione le consolidate interpretazioni del cartismo come movimento sociale preconizzatore del socialismo cercando di isolarne il discorso politico come specifico oggetto di indagine storica. A partire dallo scritto di Engels del 1844 – afferma Stedman Jones – gli storici esibivano la tendenza unanime a leggere il cartismo in quanto fenomeno sociale più che movimento politico, ponendo in primo piano il suo rapporto con la nascente industria moderna. Accanto a tale interpretazione si era poi andata affermando nel secondo dopoguerra quella che vi leggeva l’espressione di «gruppi pre-industriali» in declino, di esperienza, coscienza e ideologie artigiane. In entrambe le posture storiografiche l’analisi della composizione sociale del movimento e il suo rapporto con i fenomeni legati alla rivoluzione industriale aveva la meglio su quella delle piattaforme, delle rivendicazioni, dei linguaggi politici cartisti. Di qui lo sforzo di isolare il discorso politico del cartismo in quanto oggetto autonomo di studio e di ritrovare nelle fonti la costruzione di uno specifico linguaggio di classe del movimento. Un linguaggio che – è questa la tesi centrale – è figlio di quello del radicalismo inglese, cosicché il cartismo, lungi dall’essere precursore dei movimenti socialisti rappresenterebbe piuttosto «una forma di radicalismo e non semplicemente un movimento di classe […] l’ultima, la più notevole e più disperata – sebbene probabilmente non la più rivoluzionaria – versione di una radical critique of society» (p. 168). 34 Sono testi di riferimento di questa discussione: K. Tribe, Land, Labour and Economic Discourse, London 1978, D. La Capra e S. L. Kaplan (ed.), Modern European Intellectual History: Reappraisals and New Perspectives, Cornell University Press, 1982; D. La Capra, Rethinking intellectual history: texts, contexts, language, Ithaca, Cornell University Press, 1983; H. V. White, The Content of the form: narrative discourse and historical representation, Baltimore, Johns Hopkins Univ. Press, 1987; D. La Capra, Soundings in critical theory, Ithaca, Cornell University Press, 1989; L. Hunt (ed.), The New Cultural History, Unversity of
25
cui ambito le pagine che seguono fanno particolare riferimento al contributo
portato da Johan Wallach Scott, studiosa americana dell’Ottocento francese.
«Con ‘linguaggio’ intendo non semplicemente parole nel loro uso letterale ma
la creazione di significato attraverso differenziazione»: utilizzare l’analisi
linguistica per indagare i processi storici implica, secondo Scott, studiare come
le parole hanno acquisito significati che vengono stabiliti relazionalmente
rispetto ai campi in cui agiscono e che esse stesse contribuiscono a strutturare,
affermandosi attraverso una serie di opposizioni e differenziazioni stabilite in
specifici contesti discorsivi. 35 Il linguaggio non si limita a riflettere una
California Press, Berkeley and Los Angeles 1989; L. R. Berlanstein (ed.), Rethinking labor history: Essays on discourse and class analysis, Unversity of Illinois Press, 1993; J. Guilhaumou, Analyse de discours: les historiens et le «tournant linguistique», in «Langage et société» 1993, n°65, pp. 5-38; P. Joice, The End of Social History?, in «Social History», 20, 1, 1995, pp.73-91; R. Berkhofer, Beyond the Great Story. History as Text and Discourse, Cambridge, Harvard University Press, 1995; G. Noiriel, Sur la «crise» de l’histoire, Belin, Paris 1996; S. Cerutti, Le Linguistic Turn en Angleterre, in «Enquête», 1997, 5, pp.125-140; E. A. Clark, History, Theory, Text: Historians and the Linguistic Turn, Cambridge, Harvard University Press, 2004; M. A. Cabrera, Postsocial History: An Introduction, Lexington, Lanham 2004. Una sintesi efficace dei termini fondamentali di questo dibattito si trova sul sito dell’ENS di Lione: http://eco.ens-lyon.fr/sociales/histoire_linguistique.pdf. Di questo dibattito in ambito anglosassone, del percorso della new social history dagli anni 1960 verso nuove traiettorie di incontro fra teoria critica e studi storici, Geoffrey Howard Eley, studioso britannico della storia tedesca, si è, a più riprese, proposto come biografo, cfr. Is all the world a text?: from social history to the history of society two decades later (1990), in G. M. Spiegel (dir.), Practicing History: New Directions in Historical Writing, Routledge, New York 2005, pp. 33-60 (il libro contiene anche interventi di G. Stedman Jones, W. H. Sewell, E. D. Ermarth, M. Sahlins, A. Giddens), A Crooked Line: From Cultural History to the History of Society, University of Michigan Press, 2005, e poi, con K. Nield sul tema della classe, The Future of Class in History: What’s Left of the Social?, University of Michigan Press, 2007. Nel tentativo di restituire «il tornante verso una storia culturale ispirata dalla linguistica» attraverso l’analisi del percorso della nuova storia sociale a partire dagli anni 1960, Eley sottolinea il progressivo prevalere dell’interesse degli storici nei confronti dell’antropologia piuttosto che della sociologia, in corrispondenza di una «storicizzazione» dell’antropologia. Il movimento teorico sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta in ambito anglosassone intorno alla new social history viene letto anzitutto come un «antiriduzionismo continuo» (riferito anzitutto al modello di determinazione sociale struttura/sovrastruttura) che negli anni 1980 finisce per mettere in discussione le fondamenta stesse del proprio materialismo di partenza. 35 J. W. Scott, Gender and the Politics of History, Columbia University Press, New York 1988, p. 55. Si tratta della raccolta di dieci saggi precedentemente pubblicati ma ampiamente rivisti per dare coerenza a questo testo che marca una radicale revisione di assunti e criteri rimettendo in discussione il significato stesso della scrittura della storia e anche le conclusioni a cui Scott era giunta in un importante contributo alla declinazione dei temi di new labor history sull’Ottocento francese, allo studio del ruolo delle lotte degli artigiani qualificati contro i processi di proletarizzazione nello sviluppo del movimento operaio, con The Glassworkers of Carmaux. French Craftsmenand Political Action in a Nineteenth-Century City (Harvard University Press, Cambridge Mass. 1974). Scott imbastisce un confronto critico nei confronti del modo in cui molti studi di new social history, riproducono quasi inconsciamente il carattere
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determinata esperienza della realtà, ma ne è costitutiva, dal momento che il
significato viene prodotto all’interno di flussi politici di sapere e potere che
strutturano identità ed esperienze, ed è costruito anzitutto attraverso, implicite o
esplicite, esclusioni e differenziazioni. A partire dall’assunto che anche la
categoria universale di classe, come quella di lavoratore, ha assicurato la sua
universalità attraverso una serie di opposizioni, e che la differenza sessuale –
per il suo legame con il corpo fisico che la rende apparentemente fissata
sebbene essa sia invece culturalmente e storicamente determinata – è una
traiettoria fondamentale nel processo di produzione di significati, Scott ha
studiato il ruolo di quest’ultima nell’emergere dei «linguaggi di classe» del
diciannovesimo secolo.36 Classe operaia sarebbe allora anche il nome di un
dell’analisi di classe presenti nelle fonti da loro utilizzate. Non solo nelle ricerche del pioniere Thompson (cui imputa di aver riprodotto una comprensione fortemente sessuata della classe dovuto a un utilizzo acritico delle fonti), ma anche il testo di Stedman Jones sul cartismo, in cui rinviene un utilizzo riduttivo delle nozioni di politica e di linguaggio: la prima si ridurrebbe alle idee del radicalismo inglese con cui il cartismo risponde alle politiche del governo, mentre il secondo verrebbe letto in modo formale e letterale (una mera analisi delle «parole»), quasi-sinonimo di «vocabolario» e in ultima analisi interpretato come riflesso di una realtà esterna più che come elemento costitutivo di tale realtà. Mutuando la definizione foucaultiana di discorso, Scott intende invece l’analisi linguistica come studio dell’epistemologia, del modo in cui il significato viene costruito e prodotto, dei sistemi di significato e dei processi di significazione. La parte centrale del libro presenta tre saggi sul mondo del lavoro francese intorno alla metà Ottocento. Il primo analizza i differenti percorsi rivendicativi di sarti e sarte (cfr. infra l’introduzione al quarto capitolo), il secondo osserva la costruzione di una divisione sessuata del lavoro negli studi degli economisti politici francesi, e la ricezione di tale prospettiva nella formazione del movimento operaio francese («L’ouvriere! Mot impie, sordide...»: Women Workers in the Discourse of French Political Economy, 1840-1860). Il terzo – A Statistical Representation of Work – declina la critica dell’utilizzo delle fonti da parte degli storici in quanto dati oggettivi sull’analisi di un importante documento a cui si è a lungo fatto ampio ricorso, La statistique de l’industrie à Paris 1847-1848 pubblicata dalla Chambre de Commerce parigina nel 1851: mostrando come tale fonte rappresentasse in realtà un documento fortemente politico che aveva lo scopo di negare le denunce dell’oppressione da parte dei lavoratori. 36 «Con ‘genere’ intendo non semplicemente ruoli sociali per donne e uomini, ma l’articolazione in contesti specifici di comprensioni sociali della differenza sessuale. Se il significato è costruito in termini di differenza […], allora la differenza sessuale (che è culturalmente e storicamente variabile, ma che sempre sembra fissata e indiscutibile a causa del suo legame con il corpo naturale, fisico) è un’importante traiettoria per specificare o stabilire significato. Il mio argomento, allora, è che se assistiamo al modo in cui il ‘linguaggio’ produce significato, ci troviamo in posizione per trovare il genere», ivi, p. 55. Scott indica così la necessità di studiare le varie modalità attraverso le quali la differenza sessuale era utilizzata per costruire la classe operaia: «non si può comprendere come concetti di classe abbiano acquistato legittimità e determinato movimenti politici senza esaminare concetti di genere. Non si può comprendere la divisione sessuata del lavoro nella classe operaia senza interrogare concetti di classe. Non c’è una scelta inerente se focalizzare classe o genere; l’uno è necessariamente incompleto senza l’altro. […] Il legame tra genere e classe è concettuale; è un legame in ogni
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processo di costruzione di identità di una comunità combattiva dispiegata dai
lavoratori per difendersi come artigiani e capifamiglia dai processi di
insediamento del capitalismo industriale, dando vita a una rappresentazione
fortemente sessuata che involontariamente contribuisce alla marginalizzazione
delle donne sia come lavoratrici che come cittadine.
A partire da questo insieme di indicazioni e suggestioni, la presente ricerca si
propone di indagare il frammento 1831-32 osservando anzitutto il prendere
posto nell’ordine del discorso politico di nomi e categorie convocati dai
contemporanei per nominare fatti, figure e profili sociali che gli avvenimenti di
questi mesi fanno irrompere al centro del dibattito pubblico rivelandone la
reticenza a essere iscritti nei confini che classicamente disegnano la nozione di
popolo. Di questi nomi e categorie – anzitutto quelli dispiegati lungo la
traiettoria popolo-classe-proletariato-operai – si cercherà di osservare e
interpretare torsioni di significato e processi di significazione attivati intorno a
rapporti di reciproca assimilazione, opposizione o differenziazione. L’emergere
di un regime di verità della nozione di classe operaia verrà dunque indagato
all’interno di un processo di differenziazione rispetto ad altri ambiti, forme di
vita, comportamenti collettivi che costituiranno ciò che chiamo il «fuori» della
classe operaia per designare elementi e categorie che non solo rimangono
esclusi da tale processo di soggettivazione, ma anche contribuiscono a definirlo
attivando relazioni di reciproca differenziazione.
La costruzione storica del regime di verità della nozione di classe operaia
intesa come formazione e pratica discorsiva rappresenta l’orizzonte teorico cui
il presente lavoro è rivolto. A differenza di molte ricerche finora richiamate, le
pagine che seguono cercano tuttavia di cogliere tale processo non soltanto
indagando la produzione di discorso endogena al mondo operaio, ai movimenti sua parte materiale tanto quanto il legame tra forze produttive e rapporti di produzione», p. 66. Nel caso del cartismo, Scott sottolinea il carattere fortemente sessuato della propria rappresentazione di classe (differentemente da ciò che accadeva in altri movimenti popolari, in particolare fra i cosiddetti utopisti): la centralità della rivendicazione del suffragio universale maschile si articola intorno al richiamo lockeano alla proprietà come diritto individuale naturale del lavoratore, che accomuna rappresentati e non rappresentati uomini, vale a dire che«l’identità che i cartisti rivendicavano con coloro che erano già rappresentati era quella del maschi proprietario» (p. 63).
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e pensatori repubblicano-sociali e socialisti, ma anche chiamando in causa e
interrogando altre razionalità, strategie e pratiche, discorsive e di governo. Si
analizzerà perciò, nel secondo capitolo, il rilievo del contributo dell’esperienza,
teorica e pratica, del liberalismo dottrinario nel conferire alla nozione di classe
un primo importante spessore nell’ordine del discorso e del pensiero politico, e
la funzione ad essa attribuito nell’ambito di una più generale riflessione sullo
statuto del politico nella Francia post-rivoluzionaria. Nel quarto capitolo, si
analizzeranno poi alcune pratiche e tattiche di governo attivate dal regime di
Luglio che – di fronte all’insieme di temi e problemi posti dalla nascente
questione sociale – lavorano a oggettivare e produrre la soggettività operaia
come strumento di messa in ordine e governo della minacciosa pluralità di
forme di vita e comportamenti collettivi del proletariato urbano di prima metà
Ottocento. Si cercherà di sviluppare l’analisi di alcuni dispositivi che
consentono questo lavoro di oggettivazione della figura operaia. Un processo di
messa a fuoco che testimonia di una specifica strategia di intervento sulla
questione sociale che punta a fare della soggettività operaia un dispositivo di
governo delle molteplici forme del disordine urbano, e che trova la sua forza
proprio nella possibilità di saldarsi e utilizzare alcuni elementi dell’emergente
«discorso» della classe operaia. Si tratta allora di fare riferimento anche ad
alcuni lavori che – a partire in particolare da alcune indicazioni dei corsi
foucaultiani al Collège de France del 1977-79 – hanno contribuito a una
ridefinizione della storia sociale in direzione di una storia della società, che,
invece di postulare l’esistenza di quest’ultima, indaga la produzione della
categoria di «sociale» e delle nozioni che ad essa fanno riferimento. Diversi
studiosi hanno osservato il campo di saperi e di pratiche attraverso cui il
«sociale» è stato astratto in quanto oggetto di scienza e di governo, spazio
intermedio fra l’economico e il giuridico in grado di fornire una razionalità di
governo dei problemi legati alla diseguaglianza nella società liberale
dell’uguaglianza civile. Si è dunque osservato come specifiche tecniche di
governo sono venute a innestarsi su determinati oggetti e problematiche
nell’ambito di un vischioso lavoro di oggettivazione, produzione e messa in
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forma del sociale. Jacques Donzelot ha indagato diverse pratiche e strategie di
gestione sociale della famiglia in grado di farla funzionare come dispositivo di
controllo e disciplinamento all’interno di questo progetto di governo del
«sociale»,37 designato come registro intermedio fra il civile e il politico attivato
allo scopo di ridurre le passioni politiche dopo la delusione quarantottesca.38
François Ewald ha ripercorso il modo in cui le nozioni giuridiche di rischio,
responsabilità e assicurazione sono venute progressivamente a innestarsi e
agire sulla teoria politica liberale, osservando l’emergenza e oggettivazione
della «società» come spazio in cui la nozione di solidarietà consente di
dispiegare quell’insieme di forme di socializzazione del rischio e di tecnologie
assicurative che prenderà il nome di Stato Sociale.39 Giovanna Procacci ha poi
37 J. Donzelot, La police des families, Minuit, Paris 1977. A partire dalla fine dell’Ancien régime vengono indagate le differenti strategie di «familizzazione degli strati popolari» (p. 42), volti alla restaurazione della vita di famiglia, prima e più economica forma di assistenza in grado di alleggerire lo Stato dai costi della povertà, dell’abbandono dei bambini, delle misura di police contro gli «eccessi» cui si abbandonano le classi popolari. Si indagano le campagne per il matrimonio dei poveri, le differenti rappresentazioni e funzioni assegnate alla sempre più rilevante figura della madre di famiglia. Donzelot ripercorre così differenti modalità attraverso le quali la famiglia – al tempo stesso «regina» e «prigioniera» del sociale – è stata cooptata all’interno di una serie di dispositivi di police tesi a attivare una «relazione circolare di sorveglianza» fra i diversi suoi membri, facendo della «moglie» lo «strumento privilegiato di moralizzazione della classe operaia». Sul tema si segnala, seppur inerente a una realtà ben diversa, anche l’importante T. Skocpol Protecting Soldiers and Mothers: The Political Origins of Social Policy in the United States, Harvard University Press, Cambridge 1992. 38 J. Donzelot, l’invention du social. Essai sur le déclin des passions politiques. Fayard, Paris, 1984. L’analisi di Donzelot si sviluppa qui a partire da un’indagine della rivoluzione del 1848 e della velocità con cui si produce il conflitto fra l’Assemblea nazionale e il popolo che la aveva eletta. Interrogandosi sull’impasse del 1848, i liberali le imputeranno all’esorbitante ruolo assunto dallo Stato rispetto alla società: il problema è che fra lo Stato e l’individuo non si trova più nulla (la colpa viene generalmente attribuita alle teorie rousseauviane). Insomma il testo colloca l’esplosione della questione all’indomani dell’instaurazione della repubblica del 1848 che prima si pensava dovesse risolvere tutti i problemi e che invece si scopre ben presto malata anch’essa di un male che si chiama questione sociale. Di qui la necessità di inventare un dispositivo in grado di ridurre le passioni politiche: è l’invenzione del sociale come registro intermedio fra il civile e il politico, invenzione sempre da ripetere a misura che la società evolve. 39 «Il grande avvenimento politico dei due ultimi secoli è stato senza dubbio l’applicazione del calcolo delle probabilità al governo della società. È in seno a questo tipo di razionalità così specifica che viene riformulato il problema della regolazione delle società moderne, e che i politici, tanto liberali che socialisti, di destra come di sinistra, vanno ormai a riqualificare i loro programmi», scrive Ewald per ripercorrere l’emergere di una «nuova tecnologia politica, la tecnologia del rischio» (L’État providence cit., pp. 144-145). A partire dal modo in cui è stata affrontata la problematica della tutela dagli incidenti sul lavoro, l’indagine dell’affermarsi della nozione di diritti sociali viene qui svolta attraverso una postura che mette in questione una certa interpretazione del liberalismo ottocentesco (il liberalismo
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indagato le razionalità politiche entro cui la povertà è divenuta oggetto di
specifiche tecniche di governo tese a intervenire sul campo di tensione che essa
portava alla luce all’interno della teoria liberale fra le sue basi egualitarie e la
realtà delle diseguaglianze sociali, interpretando l’emergere del sociale come
una «strategia di depoliticizzazione» di queste ultime.40 Sebbene nel 1848 sia
proprio la rivendicazione operaia di diritti esigibili a partire dalla condizione di
lavoro a incrinare e imporre una radicale ridefinizione di molte di queste
strategie di governo, il presente lavoro – in particolare nell’ultimo capitolo –
cercherà di indagare il ruolo che, all’interno di tali strategie, può esser stato
affidato alla «produzione» di una soggettività specificamente operaia, messa
progressivamente a fuoco nel più vasto ambito dei segmenti popolari urbani
attraverso una serie di pratiche e dispositivi che vanno dal libretto operaio a
quelle inchieste semi-ufficiali sulla condizione operaia che marcano l’emergere
delle scienze sociali in Francia.
Il presente elaborato si propone dunque di svolgere, rispetto al proprio
oggetto, un doppio movimento. Da una parte, si intende ricostruire alcune
condizioni che determinano l’attivazione un processo di soggettivazione
articolato sul terreno politico-discorsivo che istituisce la rappresentazione di
come «martirologia della classe operaia», la cui indagine coincide con quella delle malefatte del capitalismo, p. 49), e il suo stesso rapporto oppositivo rispetto a lotte e movimenti operai e socialisti. Le leggi di tutela operaia emergono non solo sull’onda delle lotte ma anche come esigenza complessiva della nuova società industriale, all’interno di un’idea di prevenzione generalizzata (dall’igiene, all’educazione, al lavoro) che va a costituire quella sorta di socializzazione del rischio che si chiama solidarietà del moderno stato sociale. Sul medesimo tema cfr. anche F. Ewald, Histoire de l’état providence, Grasset, Paris 1996. 40 G. Procacci, Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 22-26 (edizione rivista del precedente Gouverner la misère: La question sociale en France [1789-1848], Seuil, Paris 1993). Il problema della povertà rappresenterebbe «la società che emerge, con le sue leggi, non meno vincolanti di quelle economiche, che l’azione politica non può ignorare» (p. 14): nasce così la «preoccupazione nuova circa il ruolo che [i poveri] possono assumere, o rifiutarsi di assumere, in un progetto sociale che li include per forza, perché non può escludere nessuno». Procacci sottolinea poi il ruolo che nella costruzione della cittadinanza francese hanno assunto la coscrizione obbligatoria e lo sforzo di legare il tema della povertà a quello del lavoro come strumento per realizzare quella fraternità promessa dalla rivoluzione. «Bisogna riuscire a distaccare l’analisi del politico dal tema giuridico della sovranità come da quello, istituzionale, dello stato, per riferirla piuttosto all’idea di un governo inteso come direzione delle condotte», creando una spazio comune alla figura giuridica del cittadini e a quella dell’homo oeconomicus. La genealogia del sociale «porta alla luce una strategia di depoliticizzazione dei conflitti a lui legati, capace però di porre a sua volta realtà politica nuova» (pp. 22-26).
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una soggettività collettiva dei lavoratori, dispiegando un campo unitario in cui,
all’interno del più vasto ambito della povertà e dell’esclusione sociale, gli
operai diventano classe-della-società, inducendo una ridefinizione dello statuto
stesso del politico, esercitando una pressione sui suoi confini e significato.
Dall’altra si tratta di restituire taluni tratti di un complesso lavoro di
oggettivazione di un soggetto specificamente operaio, messo a fuoco come
dispositivo di messa in ordine, di «classificazione», macchina di recupero,
apparato di cattura, governo e disciplinamento di quella nebulosa di figure
sociali, temi e problemi che negli anni 1830 – precisamente all’indomani della
rivolta lionese del 1831 – prende in Francia il nome di questione sociale.41
Questa, pur sommaria, sintesi di riferimenti (e di intenti) deve infine
richiamare l’originale intreccio fra storia sociale e storia delle idee delineato
dall’itinerario teorico percorso da Jacques Rancière fino ai primi anni Novanta
con una serie di studi sulla soggettivazione proletaria di prima metà Ottocento.
Si tratta di lavori intrapresi da questo autore a partire dalla rottura con il
marxismo althusseriano,42 che lo ha indotto a reinterpretare la propria indagine
41 Cfr. infra primo capitolo § 1.5 e quarto capitolo §§ 4.2, 4.4 e 4.6. 42 Cfr. J. Rancière, Sur la théorie de l’ideologie. Politique d’Althusser (1973); trad. it. di A. Chitarin, Ideologia e politica in Althusser, Feltrinelli, Milano 1974, p. 35. Il distacco di Rancière dal maestro si sviluppa a partire da una critica della distinzione fra «scienza» e «ideologia» che assegna all’intellettuale marxista il compito di rivelare alle masse la vera conoscenza. La filosofia althusseriana viene qui letta come ennesima variazione sul tema della divaricazione fra scienza e opinione, «della diversità empirica dei saperi in nome dell’unità della scienza. La critica del sapere, disconosciuto nella sua funzione di classe, viene effettuata in nome di un Ideale della scienza, in un dicorso che separa il campo della scienza da quello del falso sapere (opinione, illusione, ecc). L’opposizione tra la scienza e il suo Altro ha la funzione di disconoscere il sapere nella sua natura di classe. E il discorso metafisico opera questo disconoscimento in quanto si pone come discorso della scienza» (Ibid.). A tale teoria Rancière oppone il «diritto delle masse alla parola e all’azione autonoma», proponendosi «di affermare a livello teorico la capacità delle classi dominate di formare le armi ideologiche della loro lotta». In questo strale scagliato contro «le conventicole del marxismo universitario» si riconoscono gli effetti che il maggio 1968 e il maoismo francese hanno sul percorso di questo pensatore: sul riflesso di tali effetti fin dentro i lavori più recenti sullo statuto della filosofia politica cfr. D. Palano, Lo scandalo dell’uguaglianza. Alcuni appunti sull’itinerario teorico di Jacques Rancière, in «Filosofia politica», 3, 2011, pp. 505-520. Sull’adesione al maoismo cfr. R. Wolin, The Wind from the East. French Intellectuals, the Cultural Revolution, and the Legacy of the 1960s, Princeton University Press, Princeton 2010. Nel 1975 Rancière dà poi vita alla rivista «Révoltes logiques», esperienza che dura dieci anni (cfr. la raccolta dei suoi interventi: J. Rancière, Les scenes du peuple. Les Révoltes logiques 1975-1985, Horlieu, Paris 2003).
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in una lunga ricerca di archivio tesa a ritrovare negli scritti proletari degli anni
1830-40 un’autonoma capacità di parola ed elaborazione teorica, abbozzando il
programma di una sorta di «storia del pensiero operaio» disposta fra la «storia
delle dottrine sociali» e le «cronache della vita operaia».43 La parole ouvrière –
antologia di testi operai raccolti e commentati con Alain Faure – e La nuit des
prolétaires – rappresentazione, interpretazione e soprattutto «racconto» di
vicende, scritti e pensiero di operai parigini che hanno vent’anni a cavallo della
rivoluzione di Luglio – restituiscono l’epopea proletaria della Francia pre-
quarantottesca ripercorrendo testi, frasi, nomi, i «luoghi di parola» a partire dai
quali un processo di soggettivazione è divenuto possibile. Nella pratica di un
linguaggio sottratto ai canoni classici tanto della storia sociale quanto della
filosofia politica perché non esita a esibire la propria prossimità con la
letteratura, 44 Rancière riscrive la storia di proletari che si avvicinano ai
movimenti politici – sansimoniano in particolare – anzitutto per fuggire le 43 A. Faure e J. Rancière (dir.) La parole ouvrière. Textes choisis et présentés par Alain Faure et Jacques Rancière (1976), La fabrique, Paris 2007, p. 17. Si tratta di un trentina di testi operai del periodo 1839-1841 raccolti e commentati per mostrarvi non il grido dei bassifondi e la collera della fame, ma l’operatività di quel «complesso lavoro del pensiero cui tutte le intelligenze sono atte». Un pensiero operaio che si sarebbe sviluppato «non a partire dalla coscienza dei proletari formatasi alla ‘scuola della fabbrica’, ma a partire dal punto di vista di coloro che volevano rifiutare tale scuola» (p. 19). Così Rancière medesimo richiama questo spostamento nella postfazione alla nuova edizione del 2007: «la mia carriera nella scienza marxista era cominciata dieci anni prima con l’esame delle tesi dei Manoscritti del 1844. Decisi de prendere le cose dall’altro lato: dal lato di coloro di cui il giovane Marx aveva allora tradotto pensieri e battaglie nella sua dialettica sovrana. […] Presi così la strada delle biblioteche e degli archivi e trasformai il mio corso di filosofia in gruppo di ricerca sulla storia operaia». A detta dell’autore triplice era l’obiettivo di tale ricerca: ritrovare le condizioni concrete di elaborazione di una tradizione rivoluzionaria propriamente operaia, analizzare le forme del suo incontro con le teorie e dottrine socialiste, indagare limiti e contraddizioni di tale tradizione. La teoria althusseriana dell’ideologia viene in questa fase criticata fino a ribaltarla: l’indagine di parole e conflitti operai di primo Ottocento ha lo scopo di osservarli fuori e prima di quella «distorsione ideologica» che sarebbe stata realizzata dalla loro «rappresentazione scientifica» (cfr. J. Rancière, Come utilizzare una riedizione di «Leggere il Capitale», in A. Lipietz, Da Althusser a Mao?, Aut aut, Milano 1977, pp. 67-91). 44 J. Rancière, Le philosophe et ses pauvres (1983), Flammarion, Paris 2007, p. 90. Questo libro configura fra l’altro un’interrogazione sulla figura dell’artigiano, e il modo in cui, a partire da Platone, la filosofia ha concettualizzato la sua attività conferendogli posizione nell’ordine sociale. In questa riflessione sul rapporto fra divisione dei saperi e divisione sociale, una parte di rilievo recitano i cordonniers (calzolai), che nel XIX secolo francese appaiono sempre presenti nelle grandi lotte e dimostrazioni di piazza. Se ciò accade, sostiene Rancière, non è certo per orgoglio umiliato di mestiere: «la calzoleria è l’ultimo dei mestieri. Se si trovano i calzolai in prima fila un po’ ovunque là dove gli operai non dovrebbero stare è perché essi sono i più numerosi, i meno occupati e i meno tratti in inganno dalla gloria dell’artigiano. L’insurrezione calzolaia non è una battaglia per, ma contro la qualità calzolaia».
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sofferenze del lavoro salariato.
Le vicende e le biografie attraverso cui Rancière ripercorre l’emergere di ciò
che si chiamerà movimento operaio non sono quelle di artigiani con forte
identità professionale, ma piuttosto di giovani operai con rapporti di lavoro
precari, che proprio il maggiore tempo libero, l’indifferenza, l’afflizione per la
condizione del lavoro salariato spingono verso l’attività politica. Di qui emerge
un confronto critico non solo con la «ragione sociologica degli storici» francesi
delle Annales,45 ma anche con la «svolta etnologica» della storia sociale del
lavoro di matrice anglosassone, che finirebbe per riassorbire la complessità
della parola operaia nell’unità forzatamente prodotta intorno ai concetti di
cultura ed esperienza, al lineare sviluppo di una coscienza di classe derivante
direttamente dalle tradizioni di mestiere e dalle forme di sociabilità popolari. A
partire dall’indagine della condizione dei calzolai e dei sarti, Rancière sostiene
che un attento studio delle singole professioni conduce a un «completo
rovesciamento dell’opinione prevalente e mostra che l’attività militante è
probabilmente inversamente proporzionale alla coesione organica del mestiere,
alla forza dell’organizzazione e dell’ideologia del gruppo».46 Ad essere messo
45 J. Rancière, La nuit des proletaires, Archives du rêve ouvrier, Fayard, Paris 1981. Il titolo fa riferimento al modo in cui la scrittura conduce questi operai ad appropriarsi di un tempo – la notte – che è privilegio riservato a chi non deve subire le dure necessità del lavoro e dell’atelier. Il tempo della notte e il gesto della scrittura permettono di fuggire l’identità e la condizione cui si è deputati, di riconoscersi come «essere vocato ad altra cosa che allo sfruttamento». Questione insomma della frontiera che separa coloro che vengono destinati al pensiero da coloro che lo sono al lavoro: fra le pagine di giornali come L’Atelier e La ruche populaire, Rancière ritrova tutto il solco dell’amarezza e del rifiuto del lavoro. Tornerò più volte su questo testo nel corso della presente ricerca. 46 J. Rancière, The Myth of the Artisan Critical Reflections on a Category of Social History, in «International Labor and Working-Class History», Vol. 24, 1983, p. 2 (l’intervento sarà poi pubblicato anche in S. L. Kaplan e C. Koepp (ed.), Work in France, Cornell University Press, Cornell 1986), p. 4. L’articolo indaga la condizione e la fama di calzolai, sarti e tipografi: presenze importanti nelle lotte e nel tessuto operaio militante, ma allo stesso tempo mestieri che alcune fonti rivelano essere scherniti per la scarsa forza, qualificazione e intelligenza richieste, segnati cioè non da prestigio e orgoglio professionale, ma da scarsa soddisfazione delle capacità umane e intellettuali, e da un’intermittenza che, oltre a lasciare una maggiore quantità di tempo libero, aggiungeva quella del disoccupato a una già debole identità di mestiere. A essere messi radicalmente in discussione attraverso l’analisi di fonti operaie, «utopiste», repubblicane degli anni 1830 e 1840 sono insomma il ruolo dell’orgoglio di mestiere e una certa idea di identificazione, di «amore» per il lavoro, che risulterebbero spesso assai in ombra rispetto a sentimenti di indifferenza o di afflizione per la condizione del salariato. «Il rischio di riconfermare il vecchio adagio filosofico che raccomanda ai lavoratori di non preoccuparsi di altro che del proprio lavoro» incomberebbe insomma su tutta la storia sociale che assume
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radicalmente in questione è insomma l’assunto che riconduce parole e conflitti
operai a identità e tradizioni di mestiere:47 nella lettura dei testi operai Rancière
invita a ritrovare e studiare anche un gesto individuale di disidentificazione, di
sottrazione alla condizione che l’ordine del discorso assegna all’operaio
nell’ordine sociale. Non l’espressione di una cultura e di un milieu operai, di
un’identità o coscienza collettiva, ma la rottura di un certo ordine del rapporto
fra le parole e i corpi, il rifiuto di un’espressione supposta propria al modo di
essere operaio, ingresso per trasgressione – attraverso il gesto stesso della
scrittura – su un terreno altrui. 48 Il rilievo conferito alla dimensione
dell’individualità, della singolarità, induce Rancière a interpretare l’emergere
della classe operaia, il processo di soggettivazione proletaria, come quest’ultimo come origine e contesto esclusivo della parola operaia, stabilendo relazioni lineari fra situazioni professionali, pratiche militanti, affermazioni ideologiche, senza considerare anche il carattere individuale di molte prese di parola operaie, le loro differenze e divisioni, e i tentativi di incontro con altre culture. 47 «Facendone, indifferentemente, l’espressione della sua qualifica orgogliosa o della sua dequalificazione dolorosa», J. Rancière, Les mots de l’histoire. Essai de poétique du savoir (1992); trad. it. di Y. Melaouah, Le parole della storia, il Saggiatore, Milano 1994, p. 145. È in questo testo che Rancière declina la polemica contro la scuola delle Annales facendosi promotore di una storia che non disconosca, in nome della scientificità, il rapporto omologico che la lega alla letteratura, al disordine della parola e alle aporie della verità, rapporto irrecidibile perché la storia è sempre al tempo stesso la serie di avvenimenti che accadono a soggetti cui si deve attribuire un nome, e racconto di tale serie. L’età democratica è anche età della rivoluzione con cui la storia ha «ucciso il re» e visto l’ingresso delle masse nel suo seno, ciò ha fatto sì che al nome proprio dei grandi personaggi – alla «configurazione monarchica della storia» – sia subentrato un eccesso di parole, nube che si eleva alta fra gli avvenimenti e la loro interpretazione. A questa difficoltà la storia ha risposto sostituendo i fatti agli avvenimenti, negando la propria prossimità al disordine della letteratura e rivendicando garanzie di scienza, dispiegando cioè il «progetto sociologico di una politica del sapere» in grado di «moderare la vita eccessiva degli esseri parlanti». E invece, secondo Rancière, c’è storia esattamente perché c’è questa parola in eccesso che dà luogo al movimento sociale moderno e «non è riscattabile», la storia non può sottrarsi a quel «salto nel vuoto» che è dare nome a soggetti e attribuire loro degli avvenimenti. 48 Si tratta insomma di una trama di discorsi «illegittimi» perché agiscono la sottrazione a identità date, secondo un movimento che ha segno radicalmente diverso rispetto all’unità che si vorrebbe ritrovare negli elementi che ruotano intorno al concetto di cultura, J. Rancière, La scène révolutionnaire et l’ouvier émancipé (1830-1848) (1988); in «Tumultes», 20, 2003, p. 57. «L’operaio emancipato non rappresenta un gruppo o un milieu. Se ne separa per proporgli un altro avvenire. Non è un operaio di avanguardia, un lavoratore qualificato, un artigiano d’élite. Tutti i tentativi per fondare la coscienza militante in una cultura operaia, radicata nella pratica dei lavoratori qualificati e fieri di esserlo appiccicano delle inferenze a priori (un operaio è un uomo il cui pensiero segue la mano, la cui visione del mondo riflette la pratica professionale) a delle realtà piegate a tutta forza su questi pregiudizi» (ibid.). Questa riflessione sullo statuto teorico della rivoluzione («dichiarazione del nuovo a partire dal quale si apre uno spazio a cui il politico va per un certo tempo a identificarsi», p. 49), presentata in una conferenza a Madrid e pubblicata in traduzione spagnola nel 1988, è rimasta inedita in francese fino al 2003.
35
un’eterologia, una logica dell’altro, un atto di identificazione con colui che è
designato come escluso, la «dichiarazione tramite la quale costoro si contano
come coloro che non sono contati».49 Un gesto che, come vedremo nel primo
capitolo, le parole di Blanqui nel processo di gennaio 1832 vengono chiamate a
rappresentare plasticamente. Si tratta di una prospettiva che induce a una
radicale messa in questione e decostruzione del concetto di classe, opponendo
all’idea della lotta di classe il lavoro dell’emancipazione come «potenza in atto
dell’uguaglianza» degli esseri parlanti.50
A questi lavori di Rancière si farà più volte riferimento nel corso della
presente indagine. Anzitutto per la loro capacità di problematizzare e
«complessificare» il ruolo stesso che la dimensione del lavoro viene a svolgere
nel processo di costruzione di progetti di emancipazione e di una soggettività
collettiva, proletaria o di classe. E poi per l’invito a leggere questi processi
anche come l’invenzione di nomi per l’assunzione di alcuni atti di parola che
intervengono sul rapporto fra ordine del discorso e ordine delle condizioni
sociali. Nel frammento di storia 1831-32 si va pertanto a reperire i contorni di
«giochi di linguaggio», di una «battaglia per i nomi»51 ove questi ultimi mutano
significato a seconda del locutore, esprimendo non solo «‘l’ambiguità’ del
linguaggio, ma la lotta per l’appropriazione delle parole».52 Si cercherà allora di
far emergere trasformazioni, pressioni, torsioni semantiche di parole nuove che
sono al centro di conflitti per il diritto a conferire loro significato, o di nomi
antichi cui si lavora a dare senso nuovo per designare profili sociali e
49 J. Rancière, La mésentente (1995); trad.it Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007, p. 56. 50 Di qui verranno le tesi contenute in Il disaccordo che per alcuni anni saranno oggetto di significativo interesse e dibattito, J. Rancière, La mésentente (1995); trad.it Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007 (cfr. infra primo capitolo, § 1.3). 51 L’operatività di «giochi di linguaggio ove le parole dell’alto sono di volta in volta ricusate e riappropriate», J. Rancière, Savoirs hérétiques et émancipation du pauvre cit., p. 37. 52 Faure, Rancière, La parole ouvirère cit., pp. 15 e 13. Negli scritti proletari di questi anni Rancière rinviene una «contestazione del potere stesso di qualificare gli operai», la rivendicazione da parte di questi ultimi del diritto esclusivo di «nominare la loro situazione e la loro rivolta» (p. 13). «La parola operaia appare così anzitutto come una certa decodificazione del discorso borghese. In questi giochi di linguaggio ove le parole dell’alto sono di volta in volta ricusate e riappropriate si manifesta il legame complesso che lega le forme operaie dell’identificazione alle forme discorsive dell’ideologia dominante. […] un sordo lavoro di riappropriazione delle istituzioni, delle pratiche e delle parole» (pp. 14 e 15).
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avvenimenti che si sottraggono a rappresentazioni acquisite e immagini
condivise. Si vuole insomma osservare l’emergere della nozione di classe
operaia come un processo che prende forma e si articola passando attraverso la
trama e l’ordito di un «tessuto di parole»53 che intervengono nell’ordine del
discorso politico istruendo un gioco di reciproca significazione, opposizione e
differenziazione, e che divengono oggetto di una lotta politica per
l’appropriazione sociale del diritto a conferire loro significato.
3. Metodo e fonti, avvenimento e discorso
I fenomeni, processi e concetti che costituiscono l’oggetto di questo studio
vengono qui affrontati a partire dall’analisi, nel frammento 1831-32, di una
serie di «avvenimenti», assunti come tali facendo riferimento non solo e non
tanto alle concrete vicissitudini che vado via via nel corso dell’elaborato a
introdurre e interpretare, ma soprattutto per il campo di forze, di categorie, di
discorsi che intorno ad esse sono andate comparendo, organizzandosi,
confrontandosi. Si tratta di avvenimenti perché, sfuggendo alle rappresentazioni
acquisite, intervengono sull’ordine dei discorsi politici che si erano andati
costituendo nella Francia post-rivoluzionaria, marcando delle rotture di
evidenza che inducono a reinterpretare verità e immagini del mondo condivise,
e aprendo così campi di tensione in cui determinate forze entrano in scena e si
affrontano. Pierre Rosanvallon, ad esempio, afferma che il rilievo
dell’avvenimento che «inaugura» la presente indagine, l’insurrezione lionese
del 1831, «non va ricondotto solo all’evento in quanto tale, ma anche alla sua
interpretazione, […] non merita attenzione solo per il posto che occupa nella
storia del movimento operaio», ma soprattutto perché segna «una svolta
53 J. Rancière, Histoire des mots, mots de l’histoire (intervista di M. Perrot e M. de la Soudière), in «Communications», 58, 1994, p. 91: questo tessuto di parole che produce verità è «la materia e l’oggetto della storia».
37
essenziale nel modo in cui la società francese percepisce le sue divisioni».54
Delineando il programma di una histoire conceptuelle du politique, questo
autore – ai cui lavori farò più volte riferimento – indica l’esigenza di analizzare
l’emergere delle «idee», la scrittura dei grandi testi, all’interno del campo
problematico in cui lavorano, a partire dalla ricognizione delle specifiche
questioni cui si sforzano di rispondere. Di qui la necessità di non limitare
l’indagine «all’analisi e al commento di celebri studi», ma di «incorporarvi» un
insieme plurale di elementi che vanno dalle modalità di lettura di tali studi a
stampa, pamphlet e movimenti di opinione, dai capolavori letterari alla
costruzione dei discorsi di circostanza fino alle immagini e ai riti che
costituiscono una «cultura politica».55 A queste indicazioni – ma anche alla
critica foucaultiana del sistema opera-autore-commentario come procedura di
istruzione del discorso –56 faccio qui riferimento cercando di organizzare
54 P. Rosanvallon, Le sacre du citoyen. Histoire du suffrage universel en France (1992); trad. it. di A. Michler La rivoluzione dell’uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia, Anabasi, Milano 1994, p. 261. 55 P. Rosanvallon, Pour une histoire conceptuelle du politique (2003); trad. it. Il Politico. Storia di un concetto, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 12 e 26. Si tratta della lezione inagurale pronunciata in occasione del conferimento della cattedra al Collège de France. La proposta è quella di distinguere dalla politica («terreno immediato della competizione partigiana per l’esercizio del potere, dell’azione quotidiana del governo e della vita ordinaria delle istituzioni») il politico in quanto modo di essere della vita comune e forma dell’azione collettiva che fa riferimento alle dimensioni generali «del potere e della legge, dello Stato e della nazione, dell’uguaglianza e della giustizia, dell’identità e delle differenze, della cittadinanza e dell’essere civile, insomma, di tutto ciò che costituisce una polis» (p. 10). Sul tema cfr. anche l’intervista P. Rosanvallon, Faire l’histoire du politique, in «Esprit», febbraio 1995, in cui questo studioso fa riferimento alla necessità di indagare i «sistemi di rappresentazione che comandano il modo in cui un’epoca, un paese o dei gruppi sociali conducono le loro azioni e affrontano il loro avvenire» (p. 27). Il programma esposto nella lezione inaugurale del 2003 è il frutto di un lavoro quasi ventennale in cui Rosavallon ha cercato di indagare nella storia francese, in particolare del diciannovesimo secolo, le opzioni che hanno in qualche modo messo in discussione il carattere rigido e unitario del politico quale sfera di organizzazione della società civile e di integrazione sociale. Già nel 1985, richiamandosi a Skinner, denunciava i «limiti stretti della storia delle idee» e indicava la necessità di oltrepassarli cercando di considerare ogni «opera come situata nel campo problematico in cui lavora. Le ‘idee’ non esistono in questo senso che come tentativi di risposta a delle questioni, tentativo di ristrutturare il campo dei possibili e di scongiurare il campo delle sventure della storia attraverso la formazione di rappresentazioni del sociale e del politico che ristrutturano la sua intellegibilità. Punto di vista che implica evidentemente di considerare le ‘idee’ come infrastrutturali e di rifiutare la divisione fra il mondo e la rappresentazione che ci se ne fa. […] non è pertinente opporre i ‘grandi testi’ e i ‘piccoli scritti oscuri’ […]. I grandi testi non sono da leggere come ‘teorici’ mentre gli altri sarebbero immediati alla ‘pratica’», P. Rosanvallon, Le moment Guizot, Paris, Gallimard, 1985, p. 266 nota1. 56 Il sistema autore-opera-commentario rappresenterebbe secondo Foucault una delle più
38
l’indagine intorno alla dimensione dell’avvenimento, la quale consente e
impone di mobilitare un’eterogenea pluralità di fonti abitualmente distinte e
separate fra loro da criteri «gerarchici». Dai Mémoires e corrispondenze di
protagonisti e pensatori dell’epoca ai più importanti quotidiani e riviste, da
alcune grandi opere storico-politiche degli anni Venti, Tenta e Quaranta
dell’Ottocento, a brochures, phamplet e opuscoli, dalle opere letterarie a testi
costituzionali, atti legislativi e provvedimenti amministrativi.
La stampa anzitutto. I conflitti di interpretazione degli avvenimenti di questi
mesi che oppongono «Le National» – in rapido avvicinamento al
repubblicanesimo – al «Journal des débats» – fedele interprete nel dibattito
pubblico delle posizioni del liberalismo dottrinario – compongono il quadro di
una contesa politica che deborda e abbraccia continuamente la dimensione
semantica, perché riguarda la stessa attribuzione di senso e significato a nomi e
categorie convocati a rendere conto di eventi che si sottraggono alle
rappresentazioni acquisite. Significanti e significati che sono di volta in volta
recepiti e appropriati, o criticati e ricusati, negli scritti operai, fra le pagine
dell’«Ècho de la fabrique», il settimanale dei tessitori lionesi, ma anche negli
opuscoli, volantini e brochure dei sansimoniani e dei repubblicani della Société
des Amis du Peuple, da me analizzati per ritrovarvi non tanto le tracce di teorie
in gestazione, quanto delle tensioni e trasformazioni che il dispiegarsi degli
avvenimenti induce su un «sapere» politico soggetto a rapide e repentine
torsioni. Le fonti giuridiche spaziano poi dalle Carte costituzionali del 1814 e
1830 alla legge di riforma penale del 1832, dalle prime norme di diritto del
lavoro fino a circolari e provvedimenti amministrativi inerenti i singoli
avvenimenti, ove – come nei rapporti medici sul colera – l’utilizzo di concetti
politici emerge nell’ambito di riflessioni di differente natura. Le
rappresentazioni artistiche, le opere letterarie – su tutti i Miserabili che Hugo
ambienta proprio nel frammento 1831-32 – vengono poi richiamate per cercare
importanti «procedure interne» di ordinamento, controllo e classificazione del discorso accanto alle discipline (sistema anonimo che definisce un dominio di oggetti e metodi che stabiliscono i criteri di internità al discorso a disposizione di chiunque), cfr. L’archeologia del sapere cit. e L’ordre du discours cit.
39
di scorgervi – secondo l’indicazione di Louis Chevalier –57 il modo in cui in
esse «trasudano» e rappresentano immagini del mondo e opinioni dei
contemporanei. Il pensiero dei due grandi autori, infine, che – nella parte
centrale della ricerca – vengono convocati a rendere conto dell’elaborazione e
ricezione del concetto di classe nel pensiero politico moderno – François Guizot
e Karl Marx –, non viene qui interpretato nella mera lettera dei testi, ma
cercando di far emergere il campo di problemi in cui questi sono immersi e a
cui rispondono, il modo in cui agiscono nella e sono lavorati dalla concreta
temperie biografica e politica ove prendono forma.
La scelta di organizzare l’indagine intorno alla dimensione dell’avvenimento
come punto di intersezione fra storia e teoria che impone di mobilitare questa
eterogenea pluralità di fonti, si pone l’obiettivo di cogliere l’emergere della
nozione di classe, il prendere forma di grandi operazioni storiche di
nominazione, le torsioni del significato di strutture concettuali della lunga
durata, il processo di produzione di una soggettività collettiva del lavoro,
all’altezza e in corrispondenza del «si dice». Vale a dire di quello spazio
operativo fra il pensiero e la parola, che unisce cose dette e scritte, definisce il
campo concreto in cui gli enunciati emergono e non è riconducibile a uno
specifico soggetto o struttura in grado di conferire, da solo, significato o
direzione storica agli avvenimenti di parola oggetto dell’indagine. E allora i
primi tre capitoli fanno riferimento al discorso dei repubblicani, poi del
liberalismo dottrinario, e infine a quello nascente del socialismo per analizzare
queste tre correnti di pensiero politico nel punto di intersezione fra teoria,
interpretazione degli avvenimenti e dibattito pubblico, per ricostruire e indagare
tensioni e trasformazioni che una serie di avvenimenti inducono sull’ordine del
loro discorso. Queste tre grandi posizioni teoriche vengono qui analizzate in un
frammento della loro storia cercando di osservare le medesime problematiche e
di porre loro alcuni interrogativi comuni, ma allo stesso tempo di tracciare un
percorso in cui ogni capitolo riprende e sviluppa gli elementi acquisiti nel
57 Cfr. L. Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses (1958); trad. it. Classi lavoratrici e classi pericolose, Laterza, Roma-Bari 1976.
40
precedente (secondo una direzione anche cronologica, nella misura in cui con
l’analisi del discorso socialista ci si spinge a toccare la rottura quarantottesca).
Ciò che si prova ad analizzare nei tre discorsi è il ruolo che in essi svolge il
concetto di classe, l’eventuale operatività di una riflessione sullo statuto del
politico e la posizione che questa attribuisce allo spettro di significanti e
categorie dispiegati lungo la traiettoria popolo-classe-operai-proletariato.
Utilizzando questa comune griglia di lettura, ogni capitolo risponde però a
questioni e obiettivi differenti.
Il primo capitolo, a partire dall’interpretazione che i repubblicani – ma anche
alcune fonti operaie – offrono dell’insurrezione lionese, si propone di mostrare
l’«irruzione» nell’ordine del discorso politico dei nomi e categorie al centro
della presente indagine, e i processi di loro reciproca significazione.58 Si
comincia analizzando lo statuto polisemico con cui il lemma ouvriers attraversa
il dibattito pubblico, cercando anche di restituire alcune coordinate di quella
vera e propria rivoluzione semantica cui esso andrà incontro nei decenni
successivi. Si osserva poi il modo in cui tale lemma acquista senso e conferisce
significato nelle relazioni reciproche che – nel discorso operaio e in quello
repubblicano – attiva con le nozioni di popolo, classe e proletariato. Se la prima
pare trovarsi al centro di una vera e propria lotta politica per il diritto ad
attribuirle significato in forza del ruolo che assume negli sforzi di affermare
un’interpretazione autentica della rivoluzione di Luglio, l’ultima rappresenta
una sorta di neologismo cui si suole datare al 1832 l’ingresso sulla scena del
dibattito politico. La categoria – in prima battuta assai più politica che sociale –
di proletariato sembra così acquistare significato all’interno dell’ambigua e
poliforme relazione che istruisce con quella di popolo attraverso la mediazione
del concetto di classe. Dinamiche che sembrano lavorare all’interno di un più
58 Provare a disporre l’indagine su un terreno ibrido fra storia e teoria mi ha condotto a cominiciare questo primo capitolo addentrandomi sul terreno di una scrittura specificamente storica allo scopo di condurre il lettore dentro alcune pieghe concrete degli avvenimenti che si intende interpretare (ambito su cui tornerò poi anche nel corso del quarto capitolo). Alla medesima esigenza risponde anche la stesura di alcune note che potranno talvolta apparire didascaliche, ma che hanno invece l’intento di mantenere vivo il nesso con la materialità di vicende storiche e biografiche.
41
generale sforzo di affermare un regime di verità della stessa nozione di politica,
il cui significato pare incrinato, scosso e messo in discussione dal traumatico
divenire degli eventi successivi a 1789: su questo elemento si concentra il
capitolo successivo.
Dopo aver mostrato l’entrata in campo di nomi e categorie dispiegati lungo
la traiettoria operai-popolo-classe-proletariato, il secondo capitolo convoca il
discorso del liberalismo dottrinario – rappresentato soprattutto dall’opera di
François Guizot e dalla sua «messa in opera» nel governo del regime di Luglio
– anzitutto per mostrare come in questa temperie della storia francese sia
possibile riconoscere i tratti di un’interrogazione radicale sullo statuto del
politico. L’esperienza dottrinaria viene pertanto indagata come lo sforzo di
sviluppare, nel frammento di storia in esame, un «discorso di verità del
politico» che assegna una posizione centrale al concetto di classe, e lavora in un
più generale quadro ove le categorie classiche della filosofia politica – ivi
compresa la partizione stessa fra Stato e società civile – paiono messe in
discussione e attraversate da profonde pressioni e torsioni. Il ruolo centrale che
la presente ricerca attribuisce alla figura e al pensiero di Guizot non rimanda
solamente all’ovvia ragione dell’importanza che si suole attribuirgli
nell’elaborazione del concetto di classe e nella sua ricezione nel pensiero
politico moderno. L’esperienza dei dottrinari consente anche di organizzare
l’analisi del frammento di storia in esame in corrispondenza dell’intersezione
dinamica fra la loro riflessione storica e politica – i grandi testi del periodo della
Restaurazione – e il combinato disposto di discorsi parlamentari, provvedimenti
legislativi, pratiche amministrative, teso a edificare un’ossatura teorica per il
regime di Luglio e declinarla in iniziativa di governo (anche grazie alla
traduzione nel dibattito quotidiano che di tali posizioni svolge il «Journal des
débats»). Proprio la centralità, teorica e pratica, del concetto di governo –
indotta dagli sforzi di disporre, dopo i traumi della vicenda rivoluzionaria, il
legame tra potere politico e società su un terreno differente da quello del
contratto e della sovranità disattivando il codice costituente della volontà e
liberando il politico dalle passioni che intorno ad essa si scatenano – permette
42
inoltre di istruire il quadro teorico all’interno del quale si organizza una
specifica razionalità liberale di governo della questione sociale che sarà poi
oggetto del quarto capitolo.
Una volta illustrati l’entrata in campo di nomi e categorie oggetto della
presente indagine e osservata l’attivazione di un discorso di verità del politico,
il terzo capitolo lavora a interpretare il concetto di classe operaia come processo
di soggettivazione articolato sul terreno politico-discorsivo. Lo fa operando uno
spostamento cronologico in direzione della rottura quarantottesca, e osservando
il discorso nascente del socialismo prima attraverso l’esperienza sansimoniana,
e poi seguendo l’itinerario teorico e biografico di Karl Marx fino alla sua lettura
della vicenda quarantottesca francese. Ho ritenuto necessario dedicare parte di
questo elaborato che studia l’emergere del concetto di classe operaia a un
segmento dell’opera del pensatore che più ha contribuito alla sua elaborazione e
ricezione nel pensiero politico moderno. O meglio, a partire dalle cui
formulazioni tale concetto andrà poi dispiegando i più importanti effetti di
verità, ivi comprese le interpretazioni degli avvenimenti del frammento di storia
in esame (cui dedico l’ultimo paragrafo del capitolo). Si convoca qui un Marx
«francese». Da una parte, nella misura in cui viene indagata specificamente la
sua riflessione sulla vicenda storica e la realtà sociale della Francia da 1789 fino
alla vicenda quarantottesca. Dall’altra poiché si lavora a intrecciare teoria e
vicenda biografica intorno alla centralità di quello che definirò il «momento
francese del 1844» per indagare le interferenze che in questo passaggio si
determinano fra l’itinerario marxiano e una serie di elementi affrontati nel corso
della ricerca. L’intento è anche mettere in tensione quella nozione di
proletariato come figura, eminentemente politica (non troppo dissimile dal terzo
stato sieyèsiano), della pura esclusione che Marx elabora a Parigi nel 1844 con
quella di classe, sviluppata intrecciando elementi provenienti dalla filosofia
hegeliana, dagli economisti inglesi e dagli storici liberali francesi. Pur
rimanendo allo stato di poche righe nel progetto di capitolo inerente le classi del
43
terzo libro del Capitale,59 quest’ultima sarà comunque il nome sia di una forza
sociale che dispiegherà quella specifica declinazione del politico rubricata alla
voce lotta di classe, sia di un progetto di integrazione del mondo del lavoro
nell’«organizzazione politica» della società e dei dispositivi del suo governo.
A quest’ultimo elemento è dedicato il quarto capitolo, che costituisce infine
una sorta di seconda sezione dell’elaborato, un cantiere per alcuni versi ancora
aperto in forza della pluralità di temi che esso mobilita. Il combinato disposto
dei primi tre capitoli prova a mostrare la possibilità di leggere l’emergere della
nozione di classe nei termini di una formazione discorsiva che chiama in causa
e mette in discussione le frontiere e il significato della nozione di politica,
delineando perciò i contorni di un processo di soggettivazione articolato sul
terreno politico-discorsivo. Il quarto capitolo si propone di osservare l’altro
versante di questo processo di produzione di soggettività analizzando pratiche e
dispositivi che lavorano a oggettivare una figura specificamente operaia
nell’ambito di un più vasto campo di profili sociali, soggetti e questioni per
farne il perno di un progetto di integrazione sociale. Si cercherà in primo luogo
di analizzare la costruzione delle rappresentazioni sociali del «fuori» rispetto a
cui tale processo di integrazione si viene articolando. Dimensione rappresentata
anzitutto dalla metafora dei «nuovi barbari» attivata dalla pubblicistica liberale
per designare alcune forme di vita e comportamenti collettivi di una nuova
umanità nomade che pare essersi insediata al cuore della città ottocentesca.
Oggetto di questo capitolo è l’emergere di una specifica razionalità politica
liberale che si fa carico della necessità non solo di governare, ma anche di
mettere in forma, di produrre, il sociale attraverso un insieme ibrido di pratiche
e dispositivi. Fra i quali si intende qui indagare quelli che (come il libretto
operaio) paiono lavorare a oggettivare la figura operaia per farne un argine alle
tendenze disgregatrici di quella nebulosa di temi e questioni che, da un certo
momento, prende il nome di pauperismo. L’epidemia di colera viene qui
chiamata a rappresentare un decisivo impulso a questa razionalità di governo
59 Testo che pure – a differenza dei lavori degli anni Quaranta che qui verranno considerati – assegna centralità assoluta al nome e al concetto di classe operaia.
44
nella misura in cui produce una drammatica precipitazione nel modo in cui i
contemporanei percepiscono l’urgenza della questione sociale, svelando i rischi
perfino biologici di cui è portatore il problema delle diseguaglianze. E
contribuisce in modo importante a ridefinire, sotto l’egida di un sapere medico-
igienista, il quadro epistemologico delle nascenti scienze sociali, che fanno del
pauperismo il proprio primo oggetto specifico. Essa concorre a implementare e
marcare uno scarto metodologico in quelle inchieste sociali che vanno ora
progressivamente ad assumere un rilievo semi-pubblico, e a mettere a fuoco,
nell’indefinita e opaca dimensione della questione sociale, la problematica della
miseria specificamente operaia, attivando – in particolare nell’ambito
dell’Accademia delle Scienze Morali e Politiche – importanti studi sul soggetto
operaio che svolgono un ruolo di primo piano nell’indurre, a partire dal 1841,
un primissimo attivismo statuale in materia di diritto del lavoro.
45
Primo Capitolo «Amici del popolo» e proletari «di professione»: il discorso operaio e quello
repubblicano Un popolo è un principio comune fattosi carne, una dottrina vivente che agisce secondo lo scopo che gli è assegnato da questa dottrina.
«Revue républicaine», 1834
La presente indagine è introdotta da un breve sforzo narrativo teso a
condurre il lettore dentro alcune pieghe concrete del frammento di storia in
esame, dell’avvenimento che lo inaugura, quella rivolta dei tessitori lionesi in
cui molti storici inscriveranno la «prima parola» del moderno movimento
operaio. Proprio le parole, i linguaggi, le categorie con cui i contemporanei si
sforzano di dar nome ai protagonisti della rivolta – alle figure sociali che essa fa
irrompere sulla scena pubblica – sono oggetto dell’analisi che vado
successivamente a svolgere.
Gli avvenimenti di Lione hanno appena provato – scrive Armand Carrel sul «National» del 28 novembre 1831 – ciò che emergeva già dalle nostre giornate di luglio, ovvero che il popolo è ormai associato a tutte le idee di libertà, a tutti i desideri di benessere.1 La sedizione di Lione – recita l’editoriale che Saint-Marc Girardin pubblica sul «Journal des débats» dell’8 dicembre 1831 – ha rivelato un grave segreto […]. Oggi, i Barbari che minacciano la società non sono nel Caucaso né nelle steppe tartare; sono nei sobborghi delle nostre città manifatturiere.2
1 Corsivo mio. 2 Corsivo mio.
46
Le parole utilizzate da uno dei più autorevoli quotidiani di opposizione da
una parte e da un influente foglio ministeriale dall’altra per interpretare
l’avvenimento lionese restituiscono lo spettro semantico e di significanti
all’interno del quale prendono forma le operazioni di nominazione tese a
qualificare comportamenti collettivi e nuovi profili sociali che, negli anni
Trenta dell’Ottocento francese, prendono posto nell’ordine del discorso
politico. Da un lato vediamo l’accostamento a quel «popolo» che dottrine e
movimenti lavorano a rappresentare come l’attore politico per eccellenza, il
titolare della sovranità nazionale. Sul margine opposto si trova invece la figura
dei «barbari» che, riattivando un’immagine forte della tradizione storiografica
francese, pare alludere a una condizione non solo radicalmente impolitica, ma
anche di paradossale esteriorità rispetto alla dimensione sociale. È il campo di
categorie, nomi e linguaggi politici che vengono a posizionarsi lungo la
traiettoria dispiegata fra questi due estremi che la presente ricerca si propone di
percorrere.
Questo primo capitolo indaga il discorso politico operaio e repubblicano, i
due successivi analizzano quello del liberalismo dottrinario e quello – nascente
– del socialismo per interrogare le modalità attraverso le quali, intorno
all’interpretazione dell’avvenimento lionese e di alcune vicende dei mesi
successivi, in essi viene enunciato il rapporto fra le figure sociali che emergono
nel dibattito pubblico e la nozione politica di popolo attivando una serie di
categorie «intermedie» come quelle di operai, classe e proletariato. Lo statuto
della relazione che tali discorsi configurano fra le questioni sollevate dalla
rivolta di Lione e la dimensione del politico rappresenta il principale filo
conduttore di questa indagine. L’ultimo capitolo tenterà di svolgere un simile
lavoro sull’altra dimensione fondamentale intorno a cui il pensiero politico
moderno si organizza (o meglio si andava in quell’epoca riorganizzando): il
sociale, cui la figura dei barbari fa in qualche modo riferimento denunciando
alcune caratteristiche proprie a tale concetto nel periodo in esame.
47
1.1 La guerra servile
«La malattia politica e la sociale che scoppiavano ad un tempo nelle due
capitali del regno, città del pensiero, la prima, città del lavoro, la seconda; a
Parigi la guerra civile, a Lione la guerra servile; lo stesso baglior di fornace
nelle due città; la voce purpurea del cratere sulla fronte del popolo».3 Con
questi nomi sono scritti nel grande romanzo popolare e romantico
dell’Ottocento europeo i due avvenimenti che segnano i margini dei
centonovantanove giorni di cui vorrei qui abbozzare un ritratto.
La guerra servile prende forma in una livida mattina di novembre.4 Nel
3 V. Hugo, Les Misérables (1862); trad. it. di R. Colantuoni I miserabili, Garzanti, Milano 1981, vol. II, p. 773. L’espressione « guerra servile » era già stata usata per designare questa insurrezione da Louis Blanc (Histoire de dix ans 1830-1840 [1841], STP, Bruxelles 1844, t. 1, p. 357). 4 Propongo qui una ricostruzione «verosimile» perché costruita su una pluralità di fonti che manifestano disaccordo su alcuni passaggi della vicenda. Vi sono in primo luogo il resoconto del prefetto del Rodano (L. Bouvier-Dumolard, Compte rendu des événemens qui ont eu lieu dans la ville de Lyon au mois de novembre 1831, Tenon, Paris 1832) e il testo di Jean-Baptiste Monfalcon, prima grande ricostruzione storica dell’avvenimento, espressione del punto di vista dei commercianti e degli ambienti governativi ostili al prefetto (Histoire des insurrections de Lyon en 1831 et en 1834, d’après des documents authentiques, Perrin, Lione 1834). È più o meno il medesimo punto di vista che si ritrova nelle croncache del quotidiano «Journal des débats» nei numeri dal 25 novembre al 5 dicembre 1831, e nella relazione del presidente del consiglio dei ministri alla Camera dei deputati (C. Périer, Communication faite au nom du gouvernement à la chambre des députés sur les troubles de Lyon par M. le président du conseil, ministre de l'intérieur, Imp. royale, Paris 1831, ma il testo entra nel merito degli avvenimenti lionesi soltanto a partire dall’arrivo del principe a Trevoux del 27 novembre). Il punto di vista degli artigiani insorti è invece rappresentato soprattutto nei numeri del 27 novembre, 4 e 11 dicembre 1831 del settimanale «L'Écho de la fabrique: journal industriel de Lyon et du département du Rhône», e nel rapporto che gli chefs d’atelier César Bernard (primo gerente dell’Écho de la fabrique) e Pierre Charnier (pioniere del mutualismo lionese) furono delegati dai loro colleghi a presentare al governo (C. Bernard e P. Charnier, Rapport fait et présenté à M. le président du Conseil des ministres, sur les causes qui ont amené les événemens de Lyon, par deux chefs d'ateliers, impr. de Charvin, Lyon [s. d.]). Orientati verso le istanze operaie paiono anche l’utile raccolta di testi e documenti curata dall’editore Auguste Baron (Histoire de Lyon pendant les journées des 21, 22 et 23 novembre 1831, éd. A. Baron, Lyon 1832) e la ricostruzione di Benédict Collombe (Détails historiques sur les journées de Lyon et les causes qui les ont précédées, impr. de Charvin, Lyon 1832). Vi è poi il testo di J. F. R. Mazon (Événements de Lyon, ou les trois journées de novembre 1831, Guyot, Lyon 1831) e l’ultima parte della piccola storia di Lione pubblicata nel 1832 da J. Lions (Précis historique, statistique et géographique de Lyon ancien et Lyon moderne jusqu'à ce jour, suivi des événemens des 21, 22 et 23 novembre 1831, ou la révolte des ouvriers en soie, Lions, Lyon 1832). Pur non essendo testimonianza diretta, è estremamente preziosa la dettagliata
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sobborgo della Croix-Rousse gli ateliers artigiani hanno cessato le attività.
Energiche ronde di tessitori controllano che non un solo telaio lavori. Verso le
dieci un nutrito gruppo si avvia verso Lione per manifestare le proprie ragioni
alle autorità, ma lungo la Grande Côte trova una sessantina di uomini armati a
sbarrargli il cammino. È la prima legione della guardia nazionale lionese, molti
sono grandi commercianti della seta.5 Sguardi e parole, gesti e attitudini
rammemorano attriti che ogni giorno prendono corpo sulla porta degli ateliers,
frasi e minacce richiamano le discussioni che da un mese ormai abitano le
strade e le piazze, i caffè e la stampa locale a proposito del tarif au minimum.
Otto tessitori rimangono gravemente feriti. Il conflitto si accende rapidamente.
Gli operai hanno presto la meglio. Tutte le offensive delle guardie nazionali
vengono respinte dalla Croix-Rousse. Quasi quarantotto ore di battaglia
costringeranno esercito e pubblici poteri alla fuga da Lione, ove potranno
rientrare solo dieci giorni più tardi.
Canuts è la parola antica che da sempre designa i tessitori lionesi della
seta, gli ouvriers de la fabrique.6 Nel 1832 essi bandiranno un concorso per
esposizione, ardentemente di parte operaia, proposta da Louis Blanc in Histoire de dix ans 1830-1840 cit. (tome 1, cap. XXIV, pp. 345-358). Fra la letteratura secondaria ho privilegiato qui la ricostruzione proposta da Fernand Rude in Les révoltes des canuts (1831-1834) ([1982], La Découverte, Paris 2007, pp. 10-68), ma ho tenuto conto anche degli altri lavori sul tema che richiamati nell’introduzione. Sono mie le traduzioni delle citazioni dal francese. 5 La guardia nazionale era la milizia composta di semplici cittadini incaricati di mantenere l’ordine nelle loro città. Istituita nel corso della Rivoluzione francese, essa viene soppressa nel 1827 e poi ristabilita con la rivoluzione del 1830. Il suo comportamento è sempre decisivo nelle sorti di sommosse e rivoluzioni in Francia fino alla soppressione definitiva il 14 marzo 1872 a causa della condotta nella vicenda della Comune di Parigi. Domenica 20 novembre 1831 la guardia nazionale lionese era stata passata in rivista in Place Bellecour in occasione dell’insediamento del suo nuovo comandante, il generale barone Ordonneau. L’estrazione borghese delle compagnie del centro cittadino e in particolare della prima legione, e quella operaia delle compagnie dei faubourgs risultavano facilmente riconoscibili da abbigliamento e attitudini. È proprio la prima legione a essere inviata alla Croix-Rousse ove erano riuniti i canuts, i quali non smetteranno di imputare a tale scelta la principale causa della sommossa. 6 Il nome canut (proveniente dall’antico provenzale canut o dal latino canutus) aveva un utilizzo strettamente regionale, è solo in seguito alla rivolta del 1831 che si diffonde in tutta la Francia (voce Canut in A. Rey (dir.), Dictionnaire historique de la langue française, Le Robert, Paris 1992, tome 1, p. 611). Fabrique è il termine che a Lione designa «l’insieme delle industrie il cui risultato è la confezione delle stoffe di seta», lavorazione che in Europa data a partire dal XV secolo (Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., pp. 3-4). Ancora prezioso in merito è il lavoro di J. Godart, L'ouvrier en soie, monographie du tisseur lyonnais. Etude
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trovare un diverso appellativo, un titolo nuovo per se stessi, liberato dal peso e
dalla memoria di sarcasmo e sprezzanti ironie.7 Sarà tuttavia canuts il nome che
resterà con forza inscritto nella storia, ove servirà a richiamare un’esperienza di
orgoglio di mestiere, a rammentare la vicenda delle lotte dispiegate a fronte
delle crisi che periodicamente investivano l’industria lionese. Come quella che
a metà degli anni Venti aveva spinto una quarantina di tessitori a dar vita al
primo mutualismo per difendersi dalle violenze della stagnazione commerciale
e di una concorrenza internazionale le cui conseguenze sembrano pari soltanto a
quelle che avevano flagelli naturali, carestie, epidemie.8 All’indomani della
rivoluzione di luglio 1830 la congiuntura economica pare assai migliore: le
commesse riprendono e il lavoro adesso non manca. Anche il mutamento di
regime politico contribuisce a rafforzare le aspettative dei canuts. Presto deluse
dal fatto che il prix de façon, la somma che i commercianti (fabricants)9
corrispondono loro per il prodotto finito (il tessuto lavorato), rimane invariato, a
cavallo della soglia della sussistenza. «Presto i suoi telai inoperosi da lungo historique, économique et sociale, Bernoux & Cumin, Lyon-Paris 1899, che però, nonostante le intenzioni dell’autore, si limita al primo tomo inerente il periodo 1466-1791. Sulle caratteristiche del lavoro di questi tessitori cfr. infra § successivo. 7 Cfr. M-F. Piguet, Désignation et reconnaissance: le concours pour «chercher un terme appellatif qui remplace celui de canut» dans L’Écho de la fabrique, in L. Frobert, L' Écho de la fabrique: naissance de la presse ouvrière à Lyon, ENS Éditions, Lyon 2010. Cfr. Anche J. Rancière, Savoirs hérétiques et émancipation du pauvre, in AA. VV. Les Sauvages dans la cité. Auto-émancipation du peuple et instruction des prolétaires au XIXe siècle, prefazione di J. Derrida e presentazione di J. Borreil, Champ Vallon, Seyssel 1985, pp. 34-36. La vicenda pare essersi conclusa con un nulla di fatto dopo l’ultima convocazione della commissione concorsuale nel gennaio 1833, principale animatore ne era stato l’avvocato repubblicano Marius Chastaing. 8 Le cause delle difficoltà dell’industria lionese della seta, successive alla crisi commerciale francese del 1824, paiono legate anzitutto alla maggiore integrazione dei mercati che aveva esposto la fabrique alla concorrenza internazionale, in particolare dell’Inghilterra, per il minor prezzo della materia prima acquistata nelle colonie indiane, e delle manifatture svizzere, italiane, austriache, prussiane e olandesi, per il minor costo della manodopera. A ciò si aggiunge una minore capacità di esportazione dovuta alla perdita delle colonie e alle barriere daziarie. I guadagni della buona penetrazione nel mercato americano sono limitati dagli alti costi del trasporto, e il mercato interno francese non si mostra particolarmente ricettivo nel consumo di una stoffa di lusso. Tali i principali motivi che avevano ridotto in maniera importante le commesse e indotto i commercianti lionesi ad accettarne a prezzi assai bassi, con il conseguente crollo delle tariffe corrisposte agli chefs d’atelier e dunque una verticale riduzione dei salari (cfr. E. Baune, Considérations sur les cause set le moyens curatifs, in Baron, Histoire de Lyon pendant les journées des 21, 22 et 23 novembre 1831 cit. pp. 11-23; Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., pp. 3-24). 9 Fabricants, negociants o commerçants, restituisco in italiano questa figura con il termine commercianti, sulle caratteristiche della cui professione cfr. infra § successivo.
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tempo furono coperti di stoffe, e l’operaio, che aveva sofferto privazioni senza
numero, credette venuto il momento in cui la sua sorte sarebbe cambiata: si era
sbagliato. L’ordine delle cose era cambiato; ma il dispotismo, cacciato dai
castelli, si era rifugiato nelle imprese commerciali», scrivono i tessitori Bernard
e Charnier.10 Nel sobborgo della Croix-Rousse, scesa la notte, si ruba tempo al
riposo del sonno per attardarsi nei dibattiti sui propri mali e i possibili rimedi.
Si trascura il lavoro indugiando in lunghe discussioni sull’uscio del laboratorio
artigiano. Gli chefs d’atelier – i canuts proprietari dei telai su cui loro stessi
lavorano e fanno lavorare uno o più ouvriers compagnons – sono determinati a
non accettare più condizioni di vita e di lavoro tanto misere.
Già alcuni anni prima era stato soprattutto Pierre Charnier a istruire ed
esortare i canuts sul «bisogno e l’arte di associarsi», a lui soprattutto si deve,
nel 1827, la costituzione del primo mutuellisme dei tessitori.11 I principi che la
vicenda della grande Rivoluzione aveva introdotto in tema di associazione e
diritto del lavoro – in particolare la legge Le Chapelier del 1791 che vietava ai
cittadini «di una medesima arte» di prendere insieme deliberazioni sui loro
interessi comuni –12 avevano indotto a costituire una società segreta divisa in
logge di venti membri. A partire da tale esperienza si dispiega adesso il
tentativo di darsi un’organizzazione collettiva per riuscire ad aumentare il
prezzo del proprio lavoro. L’8 ottobre 1831 un’assemblea di chefs d’atelier si
mette all’opera. Nel giro di cinque giorni l’agglomerato urbano lionese viene
diviso in quaranta sezioni, a capo di ognuna di esse i tessitori nominano due
10 Bernard e Charnier, Rapport fait et présenté à M. le président du Conseil des ministres cit., p. 2, si sostiene che l’avidità riguarda solo una minoranza di commercianti ma che poi la legge della concorrenza costringe tutti al medesimo atteggiamento. 11 La prima Société de secours mutuel a Lione fu costituita nel 1804 dai cappellieri secondo un originale intreccio di elementi provenienti dalla tradizione corporativa e da quella del compagnonnage. Essa e altre società fondate nei tre decenni successivi erano ispirate alla beneficenza, avevano funzione difensiva in caso di infortunio o malattia e si sforzavano di ottenere forme di regolazione sulla scorta delle vecchie comunità di arti e mestieri (cfr. A. De Francesco, Il sogno della repubblica. Il mondo del lavoro dall’Ancien Régime al 1848, Franco Angeli, Milano 1983, pp. 336-354). Il mutalismo dei canuts sarà ben più numeroso e duraturo, la prima iniziativa di Charnier insisteva sulla difesa professionale della categoria e, richiedendo come requisiti minimi l’età di 25 anni e il possesso di quattro telai, era rivolta solo alla parte più agiata dei setaioli lionesi. 12 Cfr. infra il quarto capitolo, in part. §§ 4.2 e 4.5.
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syndics. Saranno gli ottanta delegati alla Commission des chefs d’atelier de la
ville de Lyon et des faubourgs.13 Questa nomina gli undici membri del bureau,
il cui primo compito è redigere un adresse al prefetto del Rodano Louis
Bouvier-Dumolard:
Da tempo, Signor Prefetto, questa parte industriosa e interessante della popolazione di questa città […] soffre innumerevoli tormenti nell’esercizio della sua industria; ed è venuto il momento in cui, cedendo all’imperiosa necessità, essa deve e vuole cercare un termine alla sua miseria. Lontano da essa […] l’idea di arrivare al suo scopo per vie violente e illegali: la classe operaia, illuminata di giorno in giorno dalla fiaccola della civilizzazione, non ignora che solo con l’ordine e la tranquillità otterrà questa fiducia, base fondamentale del commercio, che gli assicura, per mezzo del lavoro, una soddisfazione ai suoi bisogni giornalieri e gli dà i mezzi di provvedere al sostegno della propria vecchiaia.
Segue la denuncia della «bassezza di un troppo grande numero di
commercianti senza pudore […] per la fortuna dei quali noi anticipiamo l’alba e
prolunghiamo assai avanti nella notte un lavoro di cui essi non si vergognano di
diminuire ogni giorno il salario».14 Dopo aver annunciato la creazione della
commission des ouvriers incaricata di istruire la proposta di un tarif, gli operai
chiedono al prefetto, in nome dell’«armonia che deve esistere nei rapporti fra
tutte le classi della società», di farsi equo mediatore e arbitro della trattativa che
13 O più semplicemente Commission des ouvriers, eletta il 13 ottobre insieme al proprio bureau. Presidente ne è Joseph Bouvery, particolarmente attento al rispetto della legalità. Vicepresidente è Falconnet, gli altri membri sono Guillot, Labory, Rozier, Maçon-Sibut, Marel, Bonnard, Lavallée, Charnier e Bernard. Alla riunione dell’8 ottobre avevano partecipano circa 300 persone, che salgono a 1.500 nel secondo incontro del 10 ottobre. Due giorni più tardi, su iniziativa del sindaco, il municipio della Croix-Rousse ospita un primo incontro informale fra dodici chefs d’atelier e altrettanti fabbricanti. Un’altra riunione, presieduta dal prefetto, si svolge poi presso la Camera di commercio di Lione il 15 ottobre: viene adottata una delibera che, considerando reale lo stato di sofferenza degli operai e l’attitudine di alcuni commercianti ad approfittarsi delle circostanze, indica l’utilità e la necessità di un tarif e di una commissione paritaria di fabricants e chefs d’altelier per trattare la materia. Nel suo Compte rendu il prefetto sottolinea l’unanime consenso dell’opinione pubblica lionese nei confronti di «questi sfortunati che, lavorando dieci ore al giorno, non guadagnavano abbastanza per vivere» (Dumolard, Compte rendu cit., p. 9). 14 Cit. in Baron, Histoire de Lyon pendant les journées des 21, 22 et 23 novembre 1831 cit., pp. 31-33 e anche nel Prospectus fondativo de «L’Écho de la fabrique». Questo adresse, redatto da Bernard, viene adottato a maggioranza dall’assemblea del 16 ottobre. È mio il corsivo di questa espressione rispetto alla quale rimando al cap. IV.
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essi vogliono avviare con i commercianti.
Dumolard riconosce le ragioni dei canuts e decide di sostenerne le
richieste. I tessitori non smetteranno di essergli grati: «la classe operaia […],
essa stessa, vi dà il nome di protettore e padre»,15 gli scrivono, e nelle settimane
a venire più volte grideranno «vive le Préfet, vive le pére des ouvriers». Per il
suo sforzo di governare la popolazione operaia sostenendo la legittimità delle
sue rivendicazioni, Dumolard rimarrà alle cronache il discusso protagonista di
questa vicenda.16 Il 21 ottobre ha luogo il primo incontro formale fra le parti.
Dieci giorni dopo un’ordinanza prefettizia sancirà l’esecutorietà del tarif au
minimum.17
L’iniziativa che i canuts dispiegano per sostenere la trattativa incide il loro
nome in quella che si chiamerà storia del movimento operaio. Si lavora
anzitutto affinché anche gli ouvriers compagnons nominino i propri syndics.
Una baguette è il simbolo dell’autorità che i capi di ciascuna sezione operaia
15 Ivi, p. 34. 16 Louis Bouvier-Dumolard, barone d’Impero, grande industriale e proprietario nella regione di confine della Mosella del castello di Valmunster, di boschi, miniere, terreni e officine. Fu prefetto sotto l’Impero ma rifiutò ogni nomina e onorificenza sotto la Restaurazione. Il 14 maggio 1831, dopo aver affittato le sue proprietà a due prussiani, si insedia prefetto del dipartimento del Rodano e qui cerca «innanzitutto di guadagnare la fiducia degli operai presentandosi come il campione dei loro interessi» (Blanc, Histoire de dix ans cit., p. 346). Durante e dopo l’insurrezione, il governo nazionale e i commercianti lionesi scatenano contro di lui una campagna politica e anche giudiziaria, accusandolo di aver violato i principi della libertà di commercio. Il resoconto di Dumolard è una fonte preziosa anche se in buona parte dedicato alla difesa del proprio operato e alla violenta polemica, ingaggiata a suon di querele e denunce di corruzione, contro il presidente del consiglio Casimir Périer, la cui relazione sugli eventi lionesi alla Camera dei deputati (20 dicembre 1831) è una condanna senza appello della condotta del prefetto e ne induce le dimissioni irrevocabili. 17 Ventidue fabricants sono invitati il 21 ottobre a trattare il tarif con altrettanti chefs d’atelier alla presenza del prefetto, dei sindaci di Lione, Croix-Rousse, Vaise e Guillotière, e di alcuni membri del consiglio dei prud’hommes e della Camera di commercio. I commercianti lamentano tuttavia di non essere in possesso di alcun mandato da parte dei loro colleghi, si procederà allora ad elezione dividendo la città in tre differenti sezioni (gli interessati denunceranno però la partecipazione di solo 140 elettori). La commissione mista di fabricants e chefs d’atelier viene riunita dal prefetto il 25 ottobre. I delegati si dividono per categorie di articoli e, dopo alcune ore di riunione, viene firmato l’accordo sul tarif di cui l’ordinanza prefettizia indica l’esecutorietà a partire dal primo novembre e solo per le commesse stipulate dopo tale data. Il prefetto difende la propria condotta e sostiene la legalità del provvedimento argomentando che esso era già stato messo in opera nel 1789 («sotto l’Assemblea costituente, grande riformatrice degli abusi»), nel 1793 («in un tempo in cui le idee di libertà erano portate all’esagerazione»), 1811 («in un’epoca che non era di debolezza dell’amministrazione»), Dumolard, Compte rendu cit., p. 12. Il consiglio dei prud’hommes aveva avallato tale norma anche nel 1807 e nel 1817.
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portano guidando le imponenti manifestazioni che attraversano
disciplinatamente le strade lionesi in occasione degli incontri ufficiali in
prefettura.18 I membri della Commission des ouvriers si immergono in un
dettagliato studio allo scopo di redigere una proposta di tariffe per i diversi
lavorati della seta.19 «La voce pubblica reclama un altro ordine di cose, […] gli
sfortunati operai hanno scelto, come arma di difesa dei loro diritti, la
pubblicità»:20 domenica 30 ottobre 1831 vede la luce il primo giornale operaio
di una qualche consistenza e durata nella storia francese, «L'Écho de la
fabrique. Journal industriel de Lyon et du département du Rhône», settimanale
della domenica in otto pagine. 21 Il Prospectus fondativo denuncia il calo del
prix de façon sotto la soglia di sussistenza, accusa la cupidigia e l’egoismo dei
commercianti e fa appello alla pubblica autorità. Il primo numero riporta il
prospetto integrale del tarif secondo le differenti stoffe e lavorazioni,
ricostruisce il percorso che ha condotto a tale misura, annuncia pubblicamente
18 È in particolare in occasione della riunione della commissione del 25 ottobre che 6.000 canuts marciano, silenziosamente e divisi per sezioni, dai faubourgs fino al centro di Lione. 19 «Il compito dei delegati degli chefs d’atelier fu di raccogliere le informazioni che concernevano la loro parte, i numerosi abusi che vi erano intervenuti, i mezzi più propri a distruggerli, e il prezzo più basso che permette all’operaio di vivere, senza togliere al commerciante i mezzi di trarre ancora un onesto beneficio», Bernard e Charnier, Rapport fait et présenté à M. le président du Conseil des ministres cit., p. 5. 20 Prospectus de «L'Écho de la fabrique», p. 1. 21 «È a Lione, nell’ambiente dei canuts che l’esperienza di una prima stampa operaia perenne è veramente tentata», sottolinea Ludovic Frobert (Postface à l’édition de 2007 a Rude, Les révoltes des canuts cit., p. 216), che ha diretto il progetto di digitalizzazione della stampa operaia lionese degli anni 1831-1834, adesso integralmente consultabile on-line all’indirizzo http://echo-fabrique.ens-lyon.fr/index.php. È suo il testo Les Canuts ou la démocratie turbulente. Lyon, 1831-1834 (Tallandier, Paris 2009) e la curatela del libro che rappresenta l’ultimo tassello delle molte ricerche su questa esperienza: L'Echo de la fabrique: naissance de la presse ouvrière à Lyon (ENS, Lyon 2010), vi si trovano i saggi di quindici storici, economisti, sociologi, linguisti e filosofi che analizzano questa prima editoria operaia a partire dal proprio ambito disciplinare. Prima dell’Écho, alcuni giornali operai erano apparsi a Parigi già nel settembre 1830, ma erano durati assai poco: «L’Artisan. Journal des classes labourieuses» (quattro numeri fra 26 settembre e 17 ottobre 1830), il «Journal des Ouvriers» (ventiquattro numeri fra 19 settembre e 12 dicembre), «Le Peuple, journal général des ouviers, rédigé par eux-memes» (ventiquattro numeri fra 30 settembre e 10 novembre). L'Echo de la fabrique è dunque il primo giornale operaio ad avere una continuità significativa (1831-1834), a Lione verranno pubblicati anche L'Echo des Travailleurs e La Tribune Prolétaire. Cfr. E. Dolléans, Histoire du mouvement ouvrier, vol. I 1830-1871, prefazione di L. Febvre, Armand Collin, Paris 1936, pp. 55-57; J. Godechot, La presse ouvrière 1819-1850, Bibliotheque de la Revolution de 1848, Essons 1966; Rude, Les révoltes des canuts cit., pp. 102-129; J. D. Popkin, Press, Revolution, and Social Identities in France, 1830-1835, Pennsylvania State University Press, Pennsylvania 2002.
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che «gli chefs d’atelier, penetrati da questo assioma che l’unione fa la forza,
hanno formato un’associazione generale di mutuo soccorso», e attacca quei
commercianti che «metafisicamente parlando del libero arbitrio» non vogliono
rispettare il tarif.22 L’Écho de la fabrique è un giornale per azioni, e queste
vengono in gran parte acquistate dalle logge del mutualismo operaio, di cui esso
è l’organo. I setaioli associati, i mutuellistes dell’Association générale et
mutuelle des chefs d’atelier de la ville de Lyon et des faubourgs, versando la
propria quota si impegnano ad affiggere la tabella del tarif nei loro ateliers e a
non accettare commissioni al di sotto di tali prix de façon. Laddove per questo
si rimanga senza lavoro «sarà corrisposto al chef d’atelier un franco al giorno
per ogni telaio vacante, quale che sia il genere di stoffa e la persona che lo
occupa».23 Nel febbraio 1832 nascerà anche il mutualismo degli ouvriers
compagnons, la Société des Ferrandiniers.24
L’Écho de la fabrique non smette di manifestare il proprio rispetto verso i
pubblici poteri e l’attaccamento, la lealtà, la fiducia dei setaioli lionesi nei
22 «L’Écho de la fabrique», 30 ottobre 1831, pp. 6-7. Il primo numero riporta inoltre la lettera di ringraziamento al prefetto, una canzone-poema dal titolo Le vingt-cinq octobre 1831, le lamentele verso il comportamento di una maison de commerce, una sintesi della seduta settimanale del consiglio dei prud’hommes, una breve raccolta di ironici strali contro i commercianti (è la rubrica satirica coups de navette). Nei numeri successivi troveranno posto anche annunci per l’incontro della domanda e offerta di lavoro, di macchinari e di appartamenti in affitto per gli operai, una rassegna stampa di notizie interessanti la fabrique (brevetti, lavori pubblici etc.) e anche lettere di commercianti. Con l’acuirsi delle tensioni inerenti il tarif verrà poi esaudita questa richiesta di alcuni lettori: «il pubblico si aspetta da voi che non temiate di render pubblici i sotterfugi dei nostri oppressori, soprattutto designando personalmente gli uomini i cui atti saranno reprensibili» (20 novembre 1830, p. 4). César Bernard è il primo gerente di questo giornale che porta in esergo la frase «in tutti i tempi i piccoli hanno subito sciocchezze dei grandi» (Lafontaine), si vuole «specialmente consacrato alla manifattura di stoffe di seta e di tutte le industrie collegate», e, a partire dalla questione del tarif, esprime il punto di vista dei tessitori sulla propria condizione. Il 6 novembre si invitano commercianti e chefs d’atelier a procurarsi la tabella del tarif che il giornale offre «stampata con lusso, su bella carta con bei caratteri». 23 Acte d’association de la Association générale et mutuelle des chefs d’atelier de la ville de Lyon et des faubourgs, si tratta di un testo rinvenuto fra i documenti di Pierre Charnier (cit. in Rude, Les révoltes des canuts cit., p. 189). Per divenire membri dell’associazione gli chef d’atelier sono tenuti a versare 25 centesimi al mese per ogni telaio attivo. Ciascuna loggia acquista un’azione de «L’Écho de la fabrique». L’associazione riceve anche donazioni filantropiche ma domenica 25 dicembre il giornale invita i tessitori a non accettare «uomini estranei alla loro classe» negli organismi delle società operaie di «beneficenza». In breve tempo il mutualismo lionese arriva a 122 logge che alla fine del 1833 contano 2.400 aderenti (non meno del 40% degli chefs d’atelier di Lione). 24 Cfr. infra nota 65.
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confronti del regime istituito dalla rivoluzione di Luglio. Gli attacchi si
rivolgono solo contro i ricchi commercianti che, comportandosi come una
nuova aristocrazia, speculano sul lavoro dei tessitori ignorandone le condizioni,
e si mostrano sprezzanti nei confronti del tarif. Effettivamente diversi
fabricants ritengono quest’ultimo illegittimo. Sono in 104 a esplicitarlo il 5
novembre con un Mémoire di protesta alla Camera dei deputati: «una delle più
gravi questioni che possano agitarsi nelle nostre società moderne, in cui gli
interessi materiali occupano un posto tanto grande, è stata appena affrontata a
Lione con un’incredibile leggerezza: è quella del pagamento della manodopera
dell’operaio». Si accusa in particolare la condotta del prefetto, sostenendo che
nella trattativa per il tarif «non c’è stata libertà morale per tutti» dal momento
che si son messe di fronte «due classi d’interessi opposti, e degli uomini di cui
metà guardava gli altri come propri persecutori», cosicché la «paura degli
eccessi ai quali si abbandonerebbero le masse sollevate» se non si fosse siglato
l’accordo è stato l’unico movente dei delegati dei commercianti. La
concorrenza internazionale viene indicata come sola causa dei bassi salari e
condizione ostativa al rispetto del tarif, che rappresenta comunque una misura
illegale. Si invoca quindi l’intervento del governo per evitare violenze.25 Il 13
novembre L’Écho de la fabrique pubblica il documento, che esaspera i già caldi
animi dei tessitori, e vi risponde poi con un articolo dall’eloquente titolo
L’aristocratie du comptoir, alludendo con esso alla formazione di una nuova
aristocrazia borghese che, dopo aver parlato in favore del popolo fino alla
rivoluzione di Luglio per potersi sostituire all’antica nobiltà feudale, cerca ora
25 Il documento è in Baron, Histoire de Lyon pendant les journées des 21, 22 et 23 novembre 1831 cit., pp. 37-55 (ho citato pp. 37 e 41) e in «L’Écho de la fabrique» del 13 novembre 1831 (pp. 1-5). I commercianti descrivono poi la capillare organizzazione dei canuts e denunciano l’avallo di fatto datovi dalle autorità, in particolare dal prefetto, accusato di subire la forza degli operai e di fomentare così la sommossa (contro di lui intenteranno anche un’azione giudiziaria in ragione di accuse rivolte loro a mezzo stampa). Da parte sua Dumolard non smette di insistere sul carattere minoritario, in seno ai commercianti lionesi, dell’opposizione al tarif: «i venti fabricants, soli refrattari al tarif su quattrocento, sentendosi forti dell’opinione [del ministro del commercio] si agiteranno, recluteranno una trentina di loro confratelli; tutti insieme determineranno una cinquantina di altri ad aggiungere le loro firme a questo famoso Mémoire des 104, numero che non è mai stato superato dagli oppositori del tarif» (Dumolard, Compte rendu cit., pp. 26-27).
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di insediarsi nei privilegi di casta di quest’ultima.26 Alla metà del mese sono
oltre 4.000 i telai rimasti inattivi per il rifiuto dei commercianti di fornire
commesse ai prezzi concordati. Il 17 novembre anche il consiglio dei
prud’hommes pare cambiare avviso nei confronti del tarif. 27
Domenica 20 novembre i canuts si riuniscono alla Croix-Rousse. «Vedendo
senza frutti tutti i loro sforzi per uscire dall’abisso della miseria in cui erano
gettati, tenteranno un ultimo mezzo. Dopo essersi consultati, decideranno di far
smettere di lavorare tutti i telai». È l’astensione in massa dal lavoro, nelle
intenzioni dei suoi promotori essa doveva funzionare in maniera simile a quella
prova di forza che si chiamerà diritto di sciopero: i tessitori «non volevano che
smettere di lavorare finché i fabricants, stanchi di vedere le loro commissioni in
ritardo avrebbero infine acconsentito a retribuirle secondo il tarif, e può essere
che questi stessi operai, spinti dal bisogno, sarebbero stati forzati di ritornare
alla loro opera e subire la legge del vincitore», scrivono i setaioli Bernard e
Charnier.28 «Qui ha dunque luogo un’antinomia: diritto contro diritto, entrambi
consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti eguali decide la
forza [Gewalt]»:29 questo adagio marxiano sul conflitto inerente la fissazione
26 «L’Écho de la fabrique», 20 novembre 1831, pp. 2-3. A far infuriare i tessitori è soprattutto il riferimento, nel Mémoire dei commercianti, a «certi bisogni fittizi che non si manca mai di crearsi in seno a una grande città». 27 Si tratta di un organismo istituito a Lione con la legge del 18 marzo 1806 e deputato a giudicare le controversie di lavoro inerenti infrazioni che non superassero i 50 franchi di ammenda, gli ouvriers compagnons non vi erano ammessi e i commercianti erano maggioritari rispetto agli chefs d’atelier. Nel febbraio 1831 quattromila canuts avevano firmato una petizione alla Camera dei deputati per chiederne una riforma che lo rendesse adeguato al nuovo regime costituzionale. Nella petizione si lamentava l’arbitrarietà di sentenze quasi sempre favorevoli ai fabricants, si chiedeva la pubblicità e la regolamentazione delle procedure processuali, la parità nella composizione dei dieci membri, la possibilità di fare appello e ricusare il giudice (testo integrale cit. in Baron, Histoire de Lyon pendant les journées des 21, 22 et 23 novembre 1831 cit., pp. 26-30). L’11 ottobre 1831 il consiglio dei prud’hommes si era espresso in favore della fissazione del tarif au minimum, ma il 17 novembre, nella causa sul prezzo di uno scialle che oppone gli chefs d’atelier Colonnel e Aranaud (i cui operai compagnons si rifiutano di lavorare al di sotto del tarif) al commerciante Signé-Fantin (il quale sostiene che il prodotto che richiede non sia riconducibile ad alcuna delle fattispecie considerate nel tarif), il consiglio si dichiara incompetente a deliberare in materia (cfr. «L’Écho de la fabrique», 20 novembre 1831, p. 6). 28 Bernard e Charnier, Rapport fait et présenté à M. le président du Conseil des ministres cit., p.7. 29 «Il capitalista, cercando di rendere più lunga possibile la giornata lavorativa […] sostiene il suo diritto di compratore […], mentre l’operaio, volendo limitare la sua giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata, sostiene il suo diritto di venditore. […] La
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dei limiti della giornata lavorativa pare adattarsi all’intento dei canuts di
mettere in atto una prova della loro forza attraverso l’astensione dal lavoro tesa
a costringere i commercianti ad assumere una differente disposizione. In questo
«contegno passivo» Walter Benjamin scorgerà quella rappresentazione della
violenza che il diritto di sciopero pone in essere nella forma del ricatto per
imporre determinati scopi.30 Ma quando – la mattina di lunedì 21 novembre
1831 – le bluse operaie si trovano lungo la Grande Côte di fronte alle divise
della guardia nazionale indossate dai commercianti, il conflitto fra eguali diritti,
anziché rimanere «rappresentato» nella prova di forza dei tessitori che rifiutano
di lavorare, acquista i più drammatici tratti della guerriglia urbana.
Quando si sparge la voce del primo scontro con le guardie nazionali, i
canuts si armano di pale e bastoni, di forche e di qualche fucile, fondono le loro
posate in pallottole, smontano strade e sollevano barricate, alcuni si appostano
alle finestre e sui tetti pronti a lanciare pietre e tegole. Donne e bambini sono
attivi protagonisti di un dispositivo di difesa popolare che ferma tutte le
incursioni dell’esercito e della milizia cittadina verso la Croix-Rousse. La prima
révolte des canuts è anche vicenda del legame tellurico che unisce i tessitori a
questo sobborgo situato sulla collina a nord di Lione che essi popolano in
creazione della giornata lavorativa normale è dunque il prodotto di una guerra civile, lenta e più o meno velata, fra la classe dei capitalisti e la classe degli operai», K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie (1867, in MEW [cfr. infra Bibliografia] il libro primo è il Band XXIII); trad. it. di D. Cantimori Il capitale. Libro primo, introduzione di M. Dobb, Editori Riuniti, Roma 1967, cap. VIII, pp. 269 e 335-336. 30 W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt (1921); trad. it. Per la critica della violenza, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, introduzione e traduzione di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, pp. 10-11. Questa riflessione sulla relazione che la violenza intrattiene con il diritto e con la giustizia lavora a svelare il rapporto mimetico che la lega all’ordinamento giuridico dello Stato. Per farlo, accanto all’indagine del diritto di guerra, della pena di morte, del parlamentarismo e della polizia, Benjamin richiama il diritto di sciopero per sostenere che la classe operaia è l’unico soggetto cui, oltre lo Stato, è riconosciuto un qualche diritto alla violenza. «È vero che l’omissione di un’azione, e anche di un servizio, dove equivale semplicemente a una ‘rottura di rapporti’, può essere considerato un mezzo puro e privo di violenza. […] Ma il momento della violenza interviene, come ricatto, in un’omissione siffatta, quando essa ha luogo nella fondamentale disposizione a riprendere come prima l’azione interrotta a certe condizioni […]. E in questo senso, secondo la concezione della classe operaia che è opposta a quella dello Stato, il diritto di sciopero è il diritto di usare la violenza per imporre determinati scopi» (p. 10).
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maniera pressoché esclusiva.31 È tale legame – la padronanza del territorio in
cui vivono e lavorano e delle sue strade strette e pendenti – che consente agli
operai di confrontarsi vittoriosamente contro parte della guardia nazionale e un
esercito di circa tremila uomini.32
L’impossibilità di penetrare la Croix-Rousse con la forza appare presto
evidente alle autorità. Si decide di trattare. Ordonneau, comandante delle
guardie nazionali, e il prefetto Dumolard si avviano a parlamentare, ma nel
corso della trattativa l’esercito sferra nuovi attacchi, e i due vengono allora fatti
prigionieri dagli operai. I tamburi della guardia nazionale battono il richiamo
generale, ma sono meno di un migliaio i cittadini in armi che rispondono. Dei
15.000 effettivi alcuni rimangono a osservare l’andamento dello scontro, molti
altri già combattono fra i ranghi degli insorti, i quali passano ora all’offensiva
respingendo l’esercito verso Lione. Durante la notte la Croix-Rousse sarà
illuminata da fuochi che riscaldano i bivacchi dei canuts, festeggiano la
31 Lione era, allora come oggi, la seconda città di Francia, contava circa 134.000 abitanti suddivisi in tre arrondissement. La Croix-Rousse (istituito nel 1802 come comune indipendente dall’antico Cuire-La-Croix-Rousse di cui era la parte sud) conta nel 1831 circa 16.000 abitanti, in grande maggioranza tessitori che lavorano su oltre 10.000 telai all’interno dei piccoli laboratori dove spesso abitano. Essa verrà annessa solo nel 1852 alla città di Lione (di cui è oggi il IV arrondissement) insieme ai sobborghi della Guillotière e di Vaise, che contavano nel 1831 rispettivamente intorno ai 20.000 e 5.000 abitanti, l’agglomerato urbano lionese comprendeva dunque complessivamente 175-180.000 abitanti. La Grande Côte è la principale via che dalla Croix-Rousse scende verso il centro di Lione (cfr. la descrizione proposta in Blanc, Histoire de dix ans cit., p. 349). 32 Monfalcon (Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 82) e Louis Blanc (Histoire de dix ans cit., p. 349) parlano di 3.000 soldati, «L’Écho della fabrique» del 27 novembre di circa 2.500. Le forze a disposizione del generale Rouget sono il sessantaseiesimo reggimento di linea, un battaglione del tredicesimo, il dodicesimo di dragoni (cavalleria) e qualche compagnia di artiglieri del genio militare. Nella notte fra 21 e 22 arriveranno poi i rinforzi del quarantesimo reggimento, cosicchè il «Journal des débats» del 25 novembre parla di 6.000 soldati (dopo la cacciata dell’esercito dalla città, il 29 novembre i rinforzi del ventiquattresimo reggimento porteranno a 9.000 uomini il contingente passato in rassegna a Rilleux, cfr. «Journal des débats», 5 dicembre 1831, p. 2). L’attacco dell’esercito contro gli operai della Croix-Rousse «fu portato dalla Grand Côte, vale a dire per un budello lungo, tortuoso e ripido, circondato da case interamente popolate di operai, dove cento uomini risoluti potevano fermare e sconfiggere un’intera armata», racconta Monfalcon parlando di «trentamila combattenti operai protetti da tutti i vantaggi del territorio, padroni di tutte le posizioni, e liberi di portare le loro masse su tutti i punti in cui il bisogno del momento lo esige» (Histoire des insurrections de Lyon cit., pp. 79 e 82). Al legame con il territorio della Coix-Rousse e alla sua particolare morfologia, Fernand Rude aggiunge, fra i motivi del successo militare dei canuts, la presenza fra le loro fila dell’organizzazione politico-militare della Carboneria franco-italiana, i «Volontari del Rodano» che avevano scelto Lione come centrale da cui muovere i propri tentativi di recuperare la Savoia alla Francia e sollevare il Piemonte (Les révoltes des canuts cit., pp. 20-21).
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vittoriosa resistenza, accolgono oltre duecento operai accorsi dai sobborghi di
Brotteaux e della Guillotière.
«Lionesi, […] degli agenti dei nemici della vostra industria hanno dato
forma al progetto insensato di spogliarvi di questa illustre manifattura, che fa la
prosperità della vostra città e la gloria della patria»: con queste parole un avviso
fatto affiggere dal luogotenente generale Rouget annuncia che «domani la
guardia nazionale prenderà le armi alle otto del mattino».33 Solo in poche
centinaia rispondono all’appello, che scatena invece l’ira dei canuts: al
momento della chiamata generale i tamburi della guardia nazionale vengono
assaliti, si danno alle fiamme i padiglioni delle imposte sul pont du Concert,
diverse postazioni di guardie nazionali e di soldati vengono attaccate e
disarmate. La resistenza della Croix-Rousse si trasforma in un’offensiva
generale su Lione: ovunque si sollevano barricate, si fanno suonare le campane
di Saint-Paul e di Saint-Pothin, donne e bambini occupano la caserma di Bon-
Pasteur, tre armerie vengono saccheggiate. Molti soldati consegnano le armi
senza combattere, altri sono bersaglio di attacchi dalle barricate, di agguati dalle
case e dai tetti: «i dragoni resistono con il più grande coraggio – racconta
Monfalcon – ma cosa può la cavalleria in una battaglia di strada, sotto il fuoco
di assalitori accuratamente nascosti dietro portoni e comignoli?».34 Alle dieci
del mattino l’insurrezione si è già estesa ai sobborghi della Guillotière, di
Broutteaux e di Saint-Just: si disarmano i posti di guardia e si sollevano
barricate sui ponti che conducono al centro città. Gli operai assediano l’arsenale
d’Ainay, occupano la maison Brunet e la caserma Collinettes. L’esercito riesce
a difendere la polveriera di Serin solo al prezzo di quindici morti e getta poi
nella Saona quintali di polvere da sparo prima di dover abbandonare la
posizione. Un battaglione arriva da Trévoux per dare rinforzo a una guarnigione
ormai demoralizzata e a corto di viveri e munizioni.
«Tutte le colonne furono successivamente respinte sulla piazza Terraux –
racconta Dumolard liberato dagli insorti dopo alcune ore di prigionia – e, verso
33 Cit. in Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 68. 34 Ivi, p. 71.
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sera, l’Hôtel-de-Ville era l’unico punto di difesa che ci restava, e dove noi
eravamo assediati da una moltitudine immensa che andava crescendo
continuamente». 35 Tutte le autorità presenti a Lione sono asserragliate
nell’Hôtel-de-Ville e verso mezzanotte deliberano di abbandonare la città
lasciandovi solamente il prefetto. 36 La ritirata comincia, ma il nuovo
movimento della truppa allarma gli insorti: per uscire da Lione l’esercito deve
affrontare il fuoco nemico e il lancio di pietre, mobili e oggetti dalle finestre
attraversando strade coperte da barricate che solo i colpi di artiglieria
permettono di superare. All’alba di mercoledì 23 novembre «non c’è più a
Lione altro governo che quello della rivolta»,37 la battaglia ha fatto circa 170
morti e alcune centinaia di feriti,38 la città è in mano agli operai insorti, lo
resterà per i dieci giorni successivi, fino a quando le autorità rientreranno in
35 Dumolard, Compte rendu cit., p. 64. Il prefetto è riuscito a farsi rilasciare rivendicando la propria condotta nella vicenda del tarif e arringando i tessitori, che ancora una volta hanno finito per acclamarlo. 36 «Le autorità sottoscritte […] riconoscono all’unanimità, che per fermare lo spargimento di sangue e prevenire il saccheggio della città la sola decisione da prendere […] è di lasciare la posizione dell’Hôtel-de-Ville per prenderne una meno svantaggiosa al di fuori delle mura […]. Il consiglio delibera, ugualmente all’unanimità, che il signor Prefetto rimanga al suo posto», cit. in ivi, pp. 64-65. Le autorità che firmano questa dichiarazione sono: il prefetto, il luogotenente generale Rouget comandante superiore della settima e diciannovesima divisione militare, il maresciallo comandante del dipartimento del Reno de Saint-Geniès, il maresciallo del genio de Fleury, il procuratore generale presso la Corte reale Duplan, il sindaco di Lione Boisset (si tratta in realtà dell’«aggiunto facente funzione di», dal momento che il sindaco Gabriel Prunelle era a Parigi ove svolgeva attività di deputato), l’aggiunto del sindaco Gros, il consigliere municipale facente funzioni di aggiunto Gautier. Duplan, Gros e Boisset rimangono insieme al prefetto in città, ove si insediano presso la prefettura. 37 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 74. 38 Prendo questa cifra dalla ricostruzione di Fernand Rude: «I militari contano più di cento morti (di cui otto ufficiali) e 263 feriti (di cui 12 ufficiali). Le perdite civili, più difficili da valutare, sono relativamente tenui: 69 morti; circa il doppio feriti. Benché molti si siano curati a casa propria» (Les révoltes des canuts cit., p. 42). Il «Journal des débats» del 2 dicembre (p. 2) presenta un prospetto giornaliero dei feriti entrati all'Hôtel-de-Dieu fra 21 e 26 novembre: 237 feriti in tutto (di cui 20 morti a breve), 131 militari, 106 civili. Le parole che ancora il 28 novembre l’ambasciatore austriaco a Parigi scrive sul suo diario danno la misura della contraddittorietà delle notizie che escono da Lione: «non è più una semplice sommossa, è un’insurrezione della più grande città di Francia dopo Parigi […]. Mai battaglia fu più accanita, più sanguinosa; non si conosce ancora il numero delle vittime ma lo si valuta in almeno seimila morti senza contare i feriti. […] Questo avvenimento è immenso» (R. Apponyi, Vingt-cinq ans à Paris, 1826-1850. Journal du comte Rodolphe Apponi, t. II 1831-1834, Plon, Paris 1913, pp. 83-85). Le notizie dell’insurrezione arrivano nella capitale attraverso telegrafo, dispacci spediti per staffetta, lettere di privati cittadini e stampa lionese: così soltanto il 23 novembre alla Borsa giungono le prime voci, ed è solo il 25 novembre che il «Journal des débats» dà notizia dell’avvenimento.
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città senza incontrare alcuna resistenza, acclamate dall’intera popolazione
lionese.
L’iniziativa dei tessitori, le modalità con cui si è andata svolgendo,
l’autonomia e la potenza dispiegate, offrono un panorama per molti versi
inedito. L’avvenimento, sfuggendo alle rappresentazioni condivise, alle verità
comuni e alle interpretazioni acquisite, disorienta i contemporanei. E sconcerta
gli stessi canuts, che, dopo essersi organizzati per affermare pubblicamente un
bisogno legato alla propria condizione affinché l’autorità cittadina lo
riconoscesse e lo imponesse alla loro controparte, si trovano adesso
nell’imbarazzante situazione di doversi sostituire a tale autorità, nei confronti
della quale non hanno mai smesso di dichiarare lealtà e attaccamento.
Incomprensibile e incommensurabile appare la forma dello iato che separa
l’esigenza di affermare un bisogno materiale dalla necessità di sostituirsi al
potere politico cittadino. Così la prima preoccupazione degli insorti è ristabilire
immediatamente l’ordine violato. «Nessun simbolo politico o sedizioso è stato
issato – sottolinea Monfalcon – nessun altro drappo sventola a Lione che il
tricolore»:39 operai e cittadini in armi si organizzano in guardia civica e
pattugliano la città, sentinelle si appostano a proteggere gli esercizi più esposti a
rappresaglie, le guardie nazionali vengono invitate a unirsi per difendere le
proprietà. Si ristabiliscono barriere daziarie e pedaggi, un ospedale per i feriti in
esubero è allestito all’Hôtel-de-Ville, qui si portano anche preziosi da custodire
fino al rientro dei proprietari in fuga. Un proclama annuncia che il furto e il
saccheggio sono puniti con la morte, due uomini colti in flagrante vengono
fucilati. Alcuni prigionieri per debiti sono liberati, ma quando i detenuti della
prigione di Roane cercano di evadere gli operai rispondono col fuoco. Nessun
attacco alla proprietà, nessuna rappresaglia: è proprio questo «ordine
nell’anarchia» la cifra principale dei primi dispacci e lettere private che escono
da Lione.40 Tale ordine, colpendo la fantasia dei contemporanei, contribuisce ad
39 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 74. 40 Cfr., ad esempio, le lettere private e gli stralci di giornali locali pubblicati sul «Journal des debats» del 27, 28 e 29 novembre, in base a cui si afferma: «non diremo che l'ordine è stato ristabilito; sarebbe disconoscere tutte le condizioni della società. Solamente il disordine è in
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accrescerne il disorientamento: «che i signori di questo governo […] non
abbiano compreso che questo ordine li uccideva, che questo ordine annunciava
la fine di una società e il cominciamento di un’altra società, la cosa è strana!»,
scrive François-René de Chateaubriand ai redattori della Revue Européenne. 41
La questione del governo «politico» di Lione si risolve nel volgere di una
giornata. La partita si gioca a colpi di appelli e manifesti sui muri. La posta in
palio è il consenso dei tessitori, degli chefs d’atelier. Da una parte vi sono
coloro che intendono istituire un nuovo governo della città:
Lionesi, Dei magistrati perfidi hanno perso di fatto il loro diritto alla fiducia pubblica; una barriera di cadaveri si eleva fra loro e noi, qualsiasi accordo diviene dunque impossibile. Lione, gloriosamente emancipata dai suoi figli, deve avere dei magistrati di sua scelta: dei magistrati il cui abito non sia lordo di sangue dei loro fratelli! I nostri difensori nomineranno dei syndics definitivi per presiedere con tutte le rispettive corporazioni alla rappresentanza della città e del dipartimento del Rodano. Lione avrà i suoi comizi o assemblee primarie […]. L’arcobaleno della vera libertà brilla da stamani sulla nostra città: che il suo splendore non sia oscurato. Viva la vera libertà!42
Così recita il manifesto licenziato all’Hôtel-de-Ville da uno «stato
maggiore provvisorio» appena insediato: insieme ai canuts, vi sono i carbonari
dei Volontari del Rodano, qualche giornalista de «La Glaneuse», alcuni
repubblicani «sociali» – vale a dire quelli che hanno scelto di battersi con gli
qualche modo sospeso, e il male momentaneamente represso da quegli stessi che lo hanno fatto, e che se ne spaventano» (28 novembre 1831, p. 1). Gli unici casi di rappresaglia sono la devastazione del café de la Perle e della maison Auriol, ove i soldati si erano asserragliati per sparare contro gli insorti. 41 Chateaubriand, A Mm. les redacteurs de la Revue Européenne, in «La Revue Européenne», tome II, num. IV, 1831, p. 4. Chateaubriand indica la necessità di cercare «ciò che il mondo diventerà dopo la trasformazione che si opera» (p. 3), e indica nell’alleanza fra religione e libertà la condizione necessaria a evitare il caos. 42 Cit. in Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., pp. 88-89. Si invitano i commercianti a riaprire i negozi e si esortano soldati e guardie nazionali a unirsi ai nuovi poteri per tutelare l’ordine.
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insorti. 43 Pattuglie di operai in armi affiggono l’appello sui muri e lo
proclamano al rullo dei tamburi per le strade della città. E di fronte alla
prefettura, ove si è insediato ciò che rimane a Lione del potere legalmente
costituito.
«Una banda di una trentina di persone di cattivo aspetto, coperti di stracci,
entrò allora in prefettura. […] Venivano in modo arrogante, e con il cappello
sulla testa, a chiedermi delle armi. […] mi risposero che se non ne avevo
bisognava disarmare la prima legione (composta di commercianti del quartiere
Terreaux), che volevano farla finita con questi aristocratici, e che era veramente
la guerra di quelli che non hanno niente contro coloro che hanno qualcosa».44
Racconta Dumolard, che ha già diffuso un appello al dialogo rivolto ai delegati
degli chefs d’atelier, tessendo una strategia che punta a far dissociare questi
ultimi dall’insurrezione e conquistarli alla causa dei poteri ufficiali.45 Diversi
capisezione operai, fra cui Charnier, rispondono all’appello del prefetto, che fa
sottoscrivere loro una censura dei tentativi di istituire un autonomo governo
della città. 46 Forte del riconoscimento della propria autorità come unica
43 Louis Blanc si sofferma ad analizzare i rapporti fra l’inziativa «sociale» dei canuts e il movimento «politico» repubblicano osservando che «non c’era alcun legame reale fra la classe operaia e la parte più viva, più generosa della borghesia. A Lione, come in tutta la Francia, c’erano allora molti repubblicani ma ben pochi veri democratici. Successe dunque che molti repubblicani si armarono contro gli operai» (Histoire de dix ans cit., p. 351). Nota poi però che da un certo punto della battaglia alcune parole d’ordine repubblicane si diffondono fra gli insorti, ma valuta che con la caduta in combattimento di Michel-Ange Périer (repubblicano e decorato di Luglio) e di Péclet «l’insurrezione perdeva i soli uomini che potessero, almeno per qualche giorno, imprimergli una direzione politica» (ivi, p. 352). 44 Dumolard, Compte rendu cit., p. 72. 45 «Ouvriers! – recita il proclama fatto affiggere dal prefetto – invito i vostri presidenti a mettersi d’accordo per riunirsi insieme presso di me più presto possibile. Sono pronto a riceverli a qualsiasi ora del giorno e della notte», cit. in ivi, p. 69 (e in Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., pp. 75-76; «Journal des débats», 27 novembre 1831, p. 1). «Gli ouvriers compagnons avevano soli preso le armi; gli chefs d’atelier non avevano partecipato all’insurrezione. Fu in questi ultimi che io cercai la mia forza» (ivi, pp. 68-69): questa strategia del prefetto sarà vincente anche se fondata su premesse controfattuali, dal momento che fonti e letterara secondaria sono concordi nell’attribuire la vittoria militare dell’insurezione alla partecipazione della complessità dei lavoratori lionesi (che non si darà invece nell’aprile 1834). 46 «Noi sottoscritti, capisezione, protestiamo con forza contro il manifesto, teso a misconoscere l’autorità legittima […]. Invitiamo tutti i buoni operai a unirsi a noi, così come i cittadini di tutte le classi della società, che sono amici della pace e dell’unione che deve esistere fra tutti i buoni Francesi» (cit. in Dumolard, Compte rendu cit., p. 73). Il proclama che ricusava le autorità ufficiali era stato da subito oggetto di violente dispute, gli stessi firmatari Charpentier e Lachapelle se ne erano dissociati pubblicamente. Louis Blanc propone una ricostruzione delle
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legittima, Dumolard nomina uno stato maggiore provvisorio della guardia
nazionale composto da dodici chefs d’atelier, passa in rassegna i cinquanta
posti di guardia e all’una di notte arriva all’Hôtel-de-Ville con un seguito di
seicento uomini. «A partire da questo momento, le vecchie forme imposte a
questa società malata e inetta ripresero tutto il loro impero», commenta Louis
Blanc sostenendo che il popolo «ebbe paura della sua propria sovranità; e non si
occupò da allora che di rialzare coloro che aveva abbattuto, per restituirgli
un’autorità di cui esso non poteva portare il fardello».47
La mattina di giovedì 24 alcune centinaia di uomini armati difendono la
presa di servizio delle nuove autorità. Da ora «l’occupazione della città da parte
degli operai si prolunga per otto giorni; ma essa non è più che nominale»,
spiega Monfalcon: «sebbene ci fossero ancora posti di guardia di operai armati,
tutto il potere pareva reso alle autorità legittime; si direbbe che i vincitori
abbiano abdicato. […] Gli operai sono ancora padroni del potere, ma non è
meno vero che essi non sanno cosa farsene».48 Pur nell’assenza della forza
pubblica, già venerdì negozi e ateliers hanno ripreso tutte le attività e la sera i
teatri si affollano. L’amministrazione municipale avvia i contatti con l’esercito
per organizzarne il rientro in città, invia una deputazione a Parigi, interviene in
soccorso dei bisognosi. 49 Domenica 27 César Bernard e Pierre Charnier
vengono delegati dai capisezione operai a recarsi nella capitale per presentare al vicende che interessano il gruppo di insorti insediatosi all’Hôtel-de-Ville, che si trova diviso fra i capi operai Lachapelle, Frédéric, Charpentier, interessati solo alla questione del tarif, da una parte, e i repubblicani Pérénon, Rosset, Garnier, Dervieux, Fihol dall’altra («uomini che la popolazione operaia non conosceva ma che prendevano nella vittoria del popolo il posto che appartiene nei giorni di sommossa a chiunque sia audace», ivi, p. 354), vi sono poi anche Gautier, consigliere municipale rimasto fra gli insorti per ordine del prefetto, e Rosset, intransigente a capo di una truppa di operai in armi (cfr. Histoire de dix ans cit., pp. 354-355). Per le vicissitudini dello stato maggiore provvisorio nominato dal prefetto cfr. invece Rude, Les révoltes des canuts cit., pp. 53-60. 47 Blanc, Histoire de dix ans cit., p. 354. 48 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., pp. 92 e 95. Il giornale satirico «Figaro» scrive: «Non parlate più di Lione, l’ordine vi regna. Gli operai stessi montano la guardia ridicolmente vestiti» (30 novembre 1831, p. 1). 49 Venerdì 25 novembre l’aggiunto facente funzione di sindaco si reca con due consiglieri municipali a Reilleux, dove Rouget aveva stabilito il quartier generale dell’esercito, per concordane il rientro: i tempi vengono fissati in base all’arrivo del principe e del ministro della guerra. Sabato 26 emana la delibera del consiglio che impegna la municipalità a prendere in carico della propria cassa la differenza monetaria delle commissioni già assegnate al di sotto del tarif, e stanzia fondi per i lavoratori in difficoltà.
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governo un rapporto sull’accaduto.50 Il prefetto, da subito riconosciuto come
«autorità superiore», annuncia una comanda di stoffe per 640.000 franchi da
parte del re Luigi Filippo, e il 29 novembre può proclamare l’imminente arrivo
del Principe e del ministro della guerra Soult, che guideranno il rientro
dell’autorità e della forza pubblica a Lione. I membri dello stato maggiore
provvisorio rimettono allora i propri poteri nelle sue mani e indirizzano una
lettera di benvenuto al principe.51
Migliaia di soldati e guardie nazionali richiamate dai dipartimenti limitrofi
circondano progressivamente l’agglomerato lionese. Sabato 3 dicembre a
mezzogiorno il duca d’Orleans e il maresciallo Soult fanno il loro ingresso in
città attraversando il ponte di Serin alla testa di una guarnigione di 26.000
uomini.52 La popolazione lionese affolla strade e piazze per acclamare il
principe.53
50 Rapport fait et présenté à M. le président du Conseil des ministres cit. Oltre agli elementi che ho già richiamato, il rapporto, dopo aver dichiarato la fedeltà dei canuts alla monarchia di Luglio, si sofferma sulle loro condizioni materiali di vita, su motivi e modalità della loro associazione («estranea alla politica»), sulla vicenda del tarif e dell’insurrezione. Rivendica poi ai tessitori il merito di aver rovesciato immediatamente un «fantasma di repubblica» che elementi a loro estranei tentavano di istituire. Il testo sarà rilegato e venduto per fare beneficenza a feriti, vedove e orfani dell’insurrezione. 51 Già giovedì 24 il prefetto aveva fatto affiggere un proclama che indicava se stesso come autorità superiore e la propria firma come unica fonte di legittimità per le disposizioni d’ordine, stabiliva l’arresto per chiunque altro avesse provato a emettere ordini, invitava i cittadini ad armarsi per fare rispettare queste indicazioni e a mettersi a disposizione della prefettura: «coraggiosi operai […] voi non abbandonerete la causa dell’ordine, è la vostra, perchè senza ordine non c’è lavoro» (cit. in: Dumolard, Compte rendu cit., pp. 78-79; Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., pp. 90-91). Lo stesso giorno Dumolard chiede al governo l’attribuzione di poteri speciali, che saranno invece conferiti solo al ministro della guerra. Il testo con cui gli chefs d’atelier dello stato maggiore provvisorio rimettono i propri poteri al prefetto viene pubblicato da «L’Écho de la fabrique» del 4 dicembre 1831 (p. 4). 52 Il nono, ventiquattresimo e cinquantaquattresimo reggimento di linea, il terzo e il nono di cavalleria. Gendarmeria e guardie nazionali di altri dipartimenti sorvegliano l’ordine pubblico, il sessantaseiesimo reggimento occupa la Croix-Rousse, altri due (tredicesimo e quarantesimo) rimangono all’interno di edifici requisiti dall’esercito. Secondo Dumolard «il Principe si presentava con tutta un’armata per sfondare delle porte aperte», senza rendersi conto di «ciò che questo inutile apparato di forza aveva di ridicolo o di inquietante» (Compte rendu cit., p. 84). Dal mometo della cacciata dell’esercito da Lione si era provveduto ad armare le guardie nazionali di tutti i dipartimenti limitrofi, a stabilire rigidi controlli dei passaporti, a richiamare alcune truppe schierate sulla frontiera belga. Per un’accurata disamina delle immediate ripercussioni dell’insurrezione, soprattutto in termini di protesta popolare, nei vari dipartimenti francesi cfr. F. Rude, Le mouvement ouvrier à Lyon de1827 à 1832, Domat-Montchrestein, Paris 1944, pp. 641-662, e sulle eco europee della rivolta cfr. pp. 682-697. 53 Il 4 dicembre «L’Écho de la fabrique» detta la linea di condotta: «Operai, nostri
66
Il ministro della guerra, cui il governo ha attribuito poteri speciali, procede
anzitutto al disarmo dei sobborghi operai, «e su tutti i punti – spiega Monfalcon
– la transizione del potere dalle masse insorte ai suoi depositari legali si fa con
ordine e senza la minima scossa».54 Con decreto reale si dichiara poi la
dissoluzione della guardia nazionale di Lione, della Guillotière, della Croix-
Rousse e di Vaise. Il principale provvedimento di Soult riguarda l’annullamento
di tutti i libretti operai: impone agli chefs d’atelier di fare dichiarazione degli
ouvriers compagnons che occupano, e a questi ultimi di fare, entro tre giorni,
richiesta al sindaco per il rilascio di un nuovo libretto, concesso previa
certificato di buona condotta del commissariato di polizia. Coloro che non
ottemperano entro tre giorni sono considerati e puniti come vagabondi o espulsi
dalla città, il che costringe molta manodopera migrante a lasciare rapidamente
Lione.55
Un’ordinanza del 7 dicembre dichiara nullo il tarif.56
fratelli e amici! Dimenticate i vostri malesseri! Che la presenza del Principe, che viene a restituire la calma a questa città desolata, faccia sparire tutti gli odii; che i cittadini prendano tutti come divisa: Oblio del passato! Che la fiducia rinasca fra gli uomini seprarati per un momento dall’interesse; che il ricco pensi che il povero è suo simile; che non deve umiliarlo […]. Che il Prinicipe, dopo aver portato la pace fra noi, possa disporre ai piedi del trono del nostro augusto Monarca la testimonianza del nostro amore e della nostra fedeltà; che egli dica al re cittadino, al padre dei Francesi, che noi giuriamo di radunarci al primo segnale presso il suo degno figlio, e di vincere o di morire per il Re, la patria e la libertà» (p. 2). 54 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 96. 3.500 fucili erano già stati riconsegnati volontariamente dagli operai nei tre giorni precedenti l’arrivo del principe. 55 L’obbligatorietà del libretto operaio era stata istituita e sistematizzata in Francia nel 1803 (cfr. supra nota 10 e infra cap. 3). L’articolo 5 dell’ordinanza recita: «gli operai, garcons e compagnons che, entro tre giorni, a contare dalla pubblicazione della presente, non si saranno presentati di fronte ai rispettivi sindaci, per ottenere il rilascio dei nuovi libretti, saranno considerati vagabondi e puniti come tali», l’art. 6 stabilisce che il libretto viene rilasciato solo previa «certificato del commissario di polizia del quartiere abitato dall’operaio che constati la sua buona condotta», gli altri riceveranno «passaporti da indigenti validi solo per il tempo necessario al loro ritorno nel paese natale, o al loro arrivo alla frontiera se sono nati fuori dalla Francia» (cit. in «Journal des débats», 11 dicembre 1831, p. 2; «L’Ècho de la fabrique», 11 dicembre 1831, p. 3). 56 Ordinanza cit. in «Journal des débats», 12 dicembre 1831: «tarifs qualunque, su lavorazioni di stoffe o rubans che siano intervenuti durante questo periodo, sono dichiarati nulli e come non avvenuti». Le misure adottate in favore degli operai sono: la comanda di stoffe da parte del re, la costituzione di una Cassa di prestiti agli chefs d’atelier e una parziale riforma del consiglio dei prud’hommes. Il processo che si tiene fra il 15 e il 22 giugno 1832 a Riom è diretto principalmente contro gli aspetti «politici» della rivolta (governo insurrezionale, proclami repubblicani etc.), fra gli undici imputati non vi è neppure un tessitore e le sentenze saranno favorevoli agli accusati (cfr. Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 117).
67
1.2 Ouvriers
Quando a Lione il rumore della battaglia si fa più forte, sulla barricata più
grande viene issato un drappo nero che esplicita i termini della lotta: «Vivre en
travaillant ou mourir en combattant».57 Sarà questo il motto dei canuts. È
questa in Europa la prima parola del movimento operaio?
«Si è preso l'abitudine di vedere nell'insurrezione dei canuts lionesi del
novembre 1831 la prima insurrezione tipicamente operaia», scrive nel 1957
Georges Lefranc in Histoire du travail et des travailleurs.58 Gli fa eco, in
ambito anglosassone, George Rudé nel pionieristico The Crowd in History del
1964: «la prima delle due grandi insurrezioni dei setaioli lionesi […] è
generalmente considerata come l’inizio del movimento operaio moderno».59
Tornerò su forme e ragioni del gesto storiografico che ha inscritto una sorta di
origine, apparizione, battesimo politico della moderna classe operaia in
corrispondenza della révolte des canuts. Interessa per il momento rilevarne
soltanto due elementi. La presente ricerca si propone di indagare coordinate,
morfologia e significati politici dell’emergere storico del concetto di classe
operaia: poiché il tema dell’origine convoca sempre un’interrogazione sulla
natura del soggetto, assumere come punto di partenza di questa indagine il
«luogo» della storia ove il discorso del movimento operaio ha indicato la prima
parola politica della moderna classe operaia, permette di sondare non solo
alcune caratteristiche proprie a tale discorso ma anche il modo in cui esso ha
mediato e contribuito alla definizione del concetto medesimo. L’obiettivo,
57 «Vivere lavorando o morire combattendo» (si può forse riconoscervi un’eco del grido rivoluzionario Vivre libre ou mourir), il colore nero non aveva altro significato che quello del lutto. 58 G. Lefranc, Histoire du travail et des travailleurs (1957), Flammarion, Paris 1975, p. 286. 59 G. Rudé, The crowd in history 1730-1848 (1964); trad. it. di M. Lucioni, La folla nella storia 1730-1848, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 184 (si tratta di un lavoro «pionieristico» per la cosiddetta new social history di cui tratto al § 1.2.3).
68
analizzando l’avvenimento dell’inizio nella sua singolarità, strappandolo cioè
alle finalità e teleologie storiche in cui è stato inscritto, non è, per dirla con
Foucault, quello di ritrovare un’identità prima, quel che già c’era e cercava di
farsi strada, o il «segreto essenziale e senza data» della soggettività. Si tratta, al
contrario, di attardarsi sugli azzardi dei cominciamenti per indagare il modo in
cui tale essenza «fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le erano
estranee».60 Nello svolgere una tale operazione, nell’indagare l’avvenimento del
1831 sottraendolo allo statuto di origine della curva di una lenta evoluzione, ci
si imbatte immediatamente nell’evidenza che la titolarità della prima parola
politica della moderna classe operaia è stata attribuita a figure professionali
sostanzialmente estranee alle categorie attraverso le quali siamo abituati a
pensare tale concetto. A figure artigiane, a piccoli proprietari di ateliers e telai
che operano all’interno di un tessuto ancora compiutamente al di qua di quelle
trasformazioni solitamente rubricate al nome «rivoluzione industriale» le cui
forme andranno a determinare alcuni degli apparati categoriali fondamentali
attraverso i quali si è andato definendo il moderno concetto di classe a partire
dalla posizione all’interno del sistema di proprietà dei mezzi di produzione e
della divisione del lavoro. La presente indagine si propone di studiare intorno
alla dimensione dell’avvenimento il prendere forma, modificarsi o
cristallizzarsi di regimi discorsivi, categorie, nomi e concetti dentro i quali,
attraverso i quali e contro i quali il concetto di classe operaia andrà
determinando e affermando il proprio, mutevole, regime di verità. Si comincia
dal termine ouvrier: il gesto che inscrive al novembre 1831 il punto di origine
del moderno movimento operaio è stato infatti possibile certo anche in ragione
del fatto che è questo il lemma con cui i canuts indicano se stessi e vengono
nominati nel dibattito pubblico e nell’ordine del discorso politico. Si parte
dunque da un’indagine del significato di cui questo termine è portatore nel
frammento di storia in esame, del senso che ad esso viene conferito nello spazio
pubblico francese, e più specificamente nel contesto della fabrique lionese. A 60 Nietzsche, la Généalogie, l’histoire (1971); trad. it. di A. Fontana e P. Pasquino Nietzsche, la genealogia, la storia, in M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p, p. 32.
69
partire da questi elementi provo da subito a indicare la postura che essi mi
paiono suggerire per indagare i significati politici dell’emergenza storica della
nozione di classe nel sintagma che essa andrà a formare insieme al termine
ouvriers. È dunque quest’ultimo nome a costituire il primo segmento della
costellazione di significanti e significati di cui la presente ricerca intende
tracciare una mappa. Dopo averlo introdotto, cercherò poi di studiare il modo in
cui esso funziona nell’ordine di alcuni discorsi politici – repubblicano,
«operaio», dottrinario e socialista –, il modo in cui esso costruisce senso in un
lavoro di relazione con altri nomi e concetti – popolo, classe e proletariato
anzitutto –, il modo in cui essi acquistano e modificano il proprio significato in
un complesso e multiforme lavoro di reciproca assimilazione, differenziazione
o opposizione.
Nel 1831 l’agglomerato lionese era il più importante centro manifatturiero
del continente, e la fabrique – con i suoi 30.000 telai e oltre 80.000 lavoratori –
la più importante industria francese. 61 La vicenda insurrezionale vede scendere
in campo e confrontarsi interessi e discorsi di tre principali figure: i
commercianti, gli artigiani tessitori e gli operai impiegati da questi ultimi. I
fabricants sono i proprietari delle maisons de fabrique, le botteghe del
commercio di seta: commercianti che non detengono alcuno strumento di
produzione, la cui attività consiste nell’acquistare la materia prima e – quando
non lo vendono direttamente al dettaglio – nel raccogliere commissioni per il
prodotto finito, vale a dire per il tessuto ottenuto dalla combinazione della seta
con altre stoffe secondo il modello disegnato da coloro che sono i loro soli
dipendenti diretti (si tratta spesso di un solo disegnatore). Materia prima e
61 Nella tessitura diretta si contavano fra trenta e quarantamila ouvriers compagnons, fra otto e diecimila chefs d’atelier e quasi ottocento commercianti (600 sono quelli chimati a eleggere i loro delegati nella trattativa sul tarif, ma solo 392 gli elettori del consiglio dei prud’hommes nel 1832). A questi numeri si devono aggiungere quelli degli apprendisti, dei bambini lanceurs, e degli altri operai che non lavorano al telaio ma piegano, tingono, lavano etc. La giornata di lavoro supera spesso le 15 ore per arrivare talvolta fino a 18, le fonti sono concordi nel sostenere che la retribuzione è sufficiente soltanto alla sopravvivenza (cfr. in part. C. Bernard e P. Charnier, Rapport fait et présenté à M. le président du Conseil cit. e Blanc, Histoire de dix ans cit.).
70
disegno vengono dunque affidati agli chefs d’atelier per la realizzazione del
tessuto finito, che viene retribuito a un prix de façon fissato dal commerciante a
partire dalle commesse ricevute. È tale prezzo all’origine della contesa che
sfocia nell’insurrezione, opponendo ai fabricants la popolazione operaia
lionese, all’interno della quale si distinguono in particolare «due classi di
operai»: gli uni, detti chefs d’atelier o maîtres hanno presso di loro più telai, tre, quattro, raramente più di sei o otto; e solo loro hanno un domicilio fisso; gli altri, detti compagnons o compagnones, secondo il loro sesso, lavorano su una parte dei telai dei maîtres, non hanno né affitto né telai da pagare, né responsabilità da supportare, e non ricevono che la metà del prix de façon
spiega Monfalcon, sottolineando la condizione di formale indipendenza dal
fabricant che farebbe del maître «un cittadino che lavora a casa sua su dei telai
di proprietà, e non un proletario, come lo vogliono delle passioni o interessi
politici».62 Gli chefs d’atelier sono dunque artigiani che lavorano sui propri
telai, impiegando solitamente anche uno o più operai, all’interno di un
laboratorio di cui sono proprietari o locatari e che sovente è anche la casa in cui
vivono con familiari che partecipano in qualche modo alla produzione.63
Differenze economiche anche molto rilevanti distinguono questi tessitori, fra i
cui comportamenti e attitudini sono stati più volte riconosciuti orgoglio e
identità di mestiere, attaccamento alla propria indipendenza professionale,
spirito civico e una certa erudizione.64 È a loro che spetta la titolarità esclusiva
62 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., pp. 31 e 34. 63 Come spiega efficacemente Charles Tilly, «i produttori tecnicamente vendevano ciò che producevano e non ponevano il loro tempo e i loro sforzi alle dipendenze di un datore di lavoro, per una paga salariale. I mercanti ovviamente imponevano standard qualitativi sui beni acquistati dai lavoratori e gran parte dell’ostilità quotidiana tra mercanti e artigiani ostinatamente indipendenti riguardava le seguenti questioni: se il prodotto finito collimava con tali standard per poter venire pagato, se i lavoratori avessero preso parte delle materie prime loro consegnate dai mercanti, o se utilizzare i metri dell’una o dell’altra parte per valutare la quantità dei beni prodotti. Tuttavia, i mercanti non erano in grado di specificare quando, dove e come un filatore, un tessitore o un taglialegna avrebbe eseguito il lavoro, né se si sarebbe fatto aiutare da altri membri della famiglia», The Contentious French (1986); trad. it. di F. Miele, La Francia in rivolta, Guida, Napoli 1990, p. 380. 64 Cfr. ad esempio L. Villermé, Tableau de l'etat phisique et moral des ouvriers employés dans les manifactures de coton, de laine et de soie (1840), Etudes et documentations internationales, Paris 1989, pp. 315-316 (riferimenti in tal senso si ritrovano i tutto il primo
71
del mutualismo, del dispiegamento della rivendicazione del tarif e di tutta
l’iniziativa organizzativa che sfocia poi nell’insurrezione. Ouvriers
compagnons sono invece chiamati gli operai che lavorano sui telai di proprietà
degli chefs d’atelier in cambio di un salario che è spesso fissato su una quota
del prix de façon, e questa circostanza, oltre al loro numero assai esiguo in ogni
laboratorio e alla condivisione di tutta una condizione di lavoro e di vita
(sovente anche i compagnons vivono nell’atelier) li uniscono in una solidarietà
de facto con i loro maîtres. Questi operai devono il loro nome al
compagnonnage, la più tradizionale e radicata forma di associazione fra i
salariati, fondata su forte spirito di corpo, rigorosi rituali di adesione e
partecipazione, violenti scontri fra le differenti associazioni, e soprattutto dal
tour de France, giro collettivo del paese a scopo di apprendistato e ricerca di
impeghi da contrattare collettivamente.65 Monfalcon indica pertanto la prima
caratteristica degli ouvriers compagnons nell’essere una «popoulation flottante,
tomo). 65 Il compagnonnage, comparso già nel Medioevo, associava gli operai di un medesimo mestiere a fini di formazione professionale e apprendistato, di mutua assistenza e di «moralizzazione», sviluppava la trasmissione del saper-fare professionale favorendo la vita in comunità durante i viaggi del tour de France. Tali associazioni davano vita anche a scioperi talvolta assai prolungati, arrivavano a controllare la totalità delle assunzioni in alcuni centri, a impedire di lavorare per alcuni padroni recalcitranti e a lasciare addirittura un’intera città senza forza-lavoro. Le associazioni (devoirs) più importanti – in perenne e violento conflitto fra loro – erano il «Saint devoir de Dieu», il «Devoir de Liberté» (i Gavots) e i «Compagnons du devoir» (i Dévorants). Tadizionalmente il rapporto gerarchico maître/ouvrier compagnon era concepito sul modello familiare padre/figlio. La nascita a Lione nel febbraio 1832 della Société des Ferrandiniers, primo mututalismo dei compagnons della seta (oltre che, nello stesso anno, dell’Union des travailleurs du tour de France che metteva in discussione molti rituali e principi tradizionali), rappresenta un fatto storicamente importante perchè emblematico dei primi sintomi di declino del compagnonnage. Declino che si compie in modo rapido nel corso dei venti anni che seguono la rivoluzione di Luglio, ne sono causa: le rivalità e le violenze inter-compagnonniques, la rigida gerarchia di mestiere rivendicata da alcune compagnie, il peso dei rituali e dei misteri, il feroce sfruttamento e nonnismo verso gli apprendisti che cominciano a costituire società dissidenti, il fatto di rivolgersi solo a lavoratori indipendenti e nomadi escludendo coloro che sposandosi si sedentarizzano. Agricol Perdiguier (1805-1875) – instancabile attivista di disperati tentativi di unità fra i diversi devoirs – è colui che più ha contribuito a far conoscere e rendere celebre questo fenomeno, in particolare con Le Livre du Compagnonnage (2 voll., Perdiguier, Paris 1839) e Mémoires d'un compagnon (Paris 1854). François Icher è lo storico che più vi ha lavorato negli ultimi venti anni, da Le Compagnonnage (Jacques Grancher, Paris 1989) fino a Les compagnons du tour de France (Éditions de La Martinière, Paris 2010). Su linguaggio, mutamenti e declino di queste associazioni negli anni 1830 e 1840 cfr. il cap. II Du compagnonnage à la fédération di J. Rancière, A. Faure, La parole ouvrière (1976), La fabrique, Paris 2007.
72
le cui proporzioni variano parecchio».66 Sono cioè parte di quell’importante
segmento della popolazione francese composto dai migranti interni, segmento
che, seppur ancora del tutto privo di parola e iniziativa pubblica, è determinante
nell’emersione di quella strategia discorsiva che rimanda alla formula Classi
lavoratrici e classi pericolose coniata da Louis Chevalier per titolare il suo
impareggiato affresco della realtà sociale parigina di prima metà Ottocento.67
Nella fabrique lionese svolgono poi un ruolo importante anche le donne, cui
sono affidate per un salario più basso tutte le mansioni che non richiedono
particolare sforzo fisico (in particolare la confezione), i ragazzi fra i quindici e i
venti anni, assunti come apprendisti, e i lanceurs, bambini preposti a lanciare la
spola del filo di seta per i tessuti compositi. 68 Naturalmente la realtà
dell’industria della seta – i canuts – è preponderante ma non esaurisce la
complessità del mondo del lavoro lionese, delle figure professionali che hanno
preso parte e deciso le sorti della rivolta.69
Questo sintetico quadro risulta probabilmente già sufficiente a far intendere
che, andando a guardare dentro quella che sarà designata come «prima 66 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 34: «quando il lavoro abbonda, le campagne forniscono molti operai; un gran numero veniva altresì dal Piemonte e dalla Savoia. Se vi è scarsità di comande e di affari, una parte dei compagnons lascia la città» (pp. 31-32). 67 L. Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses (1958); trad. it. Classi lavoratrici e classi pericolose, Laterza, Roma-Bari 1976 (su questo testo cfr. infra cap. IV): a Le violenze dei «compagnonnages» sono dedicati tre paragrafi (pp. 539-560). Come scrive Antonino De Francesco, «nel corso dell’Ottocento, tramontato il regime corporativo che controllava i ‘compagnonnages’, questi rappresentavano soltanto una perniciosa comunanza di vita, di interessi, di aspettative e mentalità, configurandosi, in definitiva, alla stregua di una perniciosa escrescenza dell’antico mondo sul tessuto di quello nuovo» (Il sogno della repubblica cit., p. 252). 68 Le fonti sottolineano l’importante partecipazione delle donne e, soprattutto, dei bambini anche all’insurrezione di novembre. L’archetipo del gamin des barricades si ritrova in tutte le più celebri rappresentazioni di rivoluzioni e sommosse di questo periodo, dal dipinto La liberté guidant le peuple di Eugène Delacroix (1830), al Gavroche dei Miserabili ucciso sulle barricate del giugno 1832. Cfr. A. Faure, Enfance ouvrière, enfance coupable, in «Révoltes logiques», 13, 1981, pp. 13-35; e F. Chavaud, Gavroche et ses pairs: aspects de la violence politique du groupe enfantin en France au XIXe siècle, in «Cultures & Conflits», 18, 1995, pp. 21-33: anche a proposito delle insurrezioni di novembre 1831 e giugno 1832, Chavaud parla della presenza di «una società giovanile, aderente senza ombra di esitazione a una configurazione di valori romantici che mette a servizio del progetto repubblicano degli adulti, senza tuttavia essere manovrata da essi». 69 Cfr. su questo tema e per una puntuale analisi sul lungo periodo storico del mondo del lavoro lionese nella sua composizione tecnica e politica cfr. De Francesco, Il sogno della repubblica cit.
73
insurrezione tipicamente operaia», ci si imbatte immediatamente nell’evidenza
che rapporti e protagonisti di tale vicenda rivelano in ultima analisi una radicale
alterità rispetto agli apparati categoriali attraverso i quali siamo stati abituati a
pensare concetti come quello di capitalista o di operaio. Al punto che la
strategia di Jules Favre – avvocato difensore di tredici mutualisti canuts
accusati nel 1833 di «cospirazione industriale» in violazione all’articolo 415 del
codice penale che vietava le coalizioni operaie – si propone in primo luogo di
dimostrare l’inapplicabilità di tale articolo perché «gli chefs d’atelier non sono
operai»:
Nell’accezione accademica e legale, l’operaio è colui che non affitta che le proprie braccia. Lo si chiama anche manodopera, nome che riassume tutto il mio pensiero. Ora, lo chef d’atelier non è manodopera […] Poco importa d’altra parte che anch’egli occupi un telaio; la sua funzione è di impiegare dei compagnons; non è più operaio dei fabricants che fanno tessere a casa loro e tessono talvolta essi stessi dei campioni preziosi. Essendo rigorosi nell’applicazione delle leggi penali si può respingere l’articolo 415 in quanto non attinente che alla classe degli operai di cui gli chefs d’atelier non fanno parte.70
Si tratta di un’argomentazione che cerca evidentemente di far leva,
forzandola, sull’ambiguità e la polisemia che erano allora costitutive del
corrente utilizzo del lemma «operaio». Efficacemente restituite – ad esempio –
dal ricorrere di termini quali «operaio indipendente», 71 così come
dell’espressione «operai di tutte le classi» (cui è rivolto il proclama del sindaco
Prunelle al suo rientro a Lione dopo la rivolta),72 o «insieme delle classi operaie
lionesi» (utilizzato dal quotidiano «Le Temps» per la cronaca
70 J. Favre, De la coalition des chefs d’atelier de Lyon, Babeuf, Lyon 1833, p. 22. 71 Si possono chiamare «operai indipendenti» coloro che lavorano a domicilio per conto di un cliente con o senza l’intermediario di una maison di commercio. Si pensi, ad esempio, ai personaggi del celebre romanzo I misteri di Parigi di Eugène Sue (pubblicato in appendice al Journal des débats fra giugno 1842 e ottobre 1843): l’ouvrier Morel è tagliatore di pietre preziose presso la sua abitazione, il protagonista Rodolphe per fingersi «operaio» si dichiara pittore di ventagli a domicilio. 72 Cit. in Baron, Histoire de Lyon pendant les journées des 21, 22 et 23 novembre 1831 cit., p. 36.
74
dell’avvenimento):73 Monfalcon può così affermare che a decidere le sorti della
battaglia fu «l’insurrezione generale degli operai di tutte le classi».74 «Colui o
colei che lavora abitualmente con le mani e fa una qualche ouvrage per
guadagnarsi da vivere» è la definizione proposta alla voce Ouvrier-ière dalla
sesta edizione del Dictionnaire de l’Académie française pubblicata nel 1835, ed
è degno di nota che alla voce Classe non vi compaia il sintagma «classe
operaia» fra gli esempi degli utilizzi frequenti del lemma.75 Il Dictionnaire
historique de la langue française di Alain Rey sottolinea che «dal 1155
[ouvrier] ha il suo valore moderno», indicando prestazione di lavoro manuale e
funzionando da «sinomimo» di artigiano e, fino al diciassettesimo secolo, di
artista. 76 Nome che pare dunque designare la generica messa in opera
professionale di un lavoro manuale (nel lessico marxiano si potrebbe forse fare
riferimento alla nozione di «forza lavoro» e alla sua «messa in movimento»).77
«Il termine ouvrier – afferma George Rudé – continuò ad essere
indifferentemente applicato sia ai mastri che ai loro dipendenti, e fu soltanto nel
73 «Le Temps journal des progrès politiques, scientifiques, littéraires et industriels» 2 dicembre 1831: si tratta del quarto quotidiano francese per tiratura nel 1832 (4.644 copie esclusa Parigi), sostiene la monarchia di Luglio e la dinastia orleanista pur criticando anche aspramente la politica conservatrice del governo Périer. 74 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 80. 75 Dictionnaire de l'Académie française. Sixième édition, Firmin-Didot frères, Paris 1835, tome 2, p. 323 e tome 1, p. 327. Classe è qui definita come «componente interna di una società […]. Si dice anche degli ordini, dei ranghi che la diversità, l’ineguaglianza delle condizioni stabilisce tra gli uomini riuniti in società. Le diverse classi della società. Le alte classi. Le classi elevate. La classe media. Le classi inferiori. Le basse classi. La classe povera. La classe degli artigiani. La classe laboriosa. È un’uomo dell’alta classe, dell’ultima classe. I cittadini di tutte le classi». Mentre all’aggettivo ouvrier-ière viene segnalato come esso non sia utilizzato che in tre locuzioni: Jour ouvrier (giorno feriale), Cheville ouvière (parte del treno), e Classe ouvrière definita come «la parte della popolazione che si compone di operai, di artigiani». 76 A. Rey (dir.), Dictionnaire historique de la langue française cit., tome 2, pp. 2511-2512: «dal 1155 ha il suo valore moderno di 'persona che affitta i suoi servizi effettuando un lavoro manuale', senso che non varia più nel corso dei secoli ma cambia connotazione secondo i contesti sociali. Fino al XVIII secolo, ouvrier è più o meno sinonimo di artigiano e talvolta di artista (che cambierà di senso alla fine del XVIII secolo); nel XVIII e soprattutto nel XIX secolo subisce l'effetto della rivoluzione industriale con l'apparizione di un proletariato». Si sottolinea inoltre che il lemma dal XV secolo è utilizzato anche secondo una sfumatura negativa per designare abilità manuale non accompagnata da talento o originalità, e nel XIX secolo in argot viene utilizzato per indicare la figura del ladro (colui che compie l’ouvrage, il furto). 77 Marx: «per forza lavoro o capacità di lavoro (Arbeitsvermögen) intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente di un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere» (Marx, Il Capitale, libro I cit., pp. 201 s.)
75
nostro secolo che un ouvrier diventò per definizione non solo colui che lavora
con le sue mani, ma che lavora dietro salario per un imprenditore».78 La
vicenda dei canuts lo dimostra efficacemente, perché, nel contesto lionese, al
nome ouvriers rispondono tanto gli chefs d’atelier quanto i loro dipendenti
compagnons. Come spiega Rémi Gossez, bisogna insomma «intendere per
‘operaio’ un lavoratore manuale senza che questo possa indicare altra cosa che
un’approssimazione della sua condizione sociale».79 Al lemma sembra cioè
demandato di contenere e restituire la ricca pluralità costitutiva di un mondo del
lavoro a cui la stessa declinazione singolare del concetto di «classe operaia»
pare ancora profondamente aliena, come in qualche modo mostra il glissare dei
termini nell’editoriale dell’Écho de la fabrique del 25 dicembre 1831: Si crede che l’artigiano si lasci ingannare da tali visioni? Si crede che egli non calcoli ciò che gli farebbero ogni giorno 20 franchi che gli si trattengono sul suo affitto annuale […]? Ma fintantoché l’operaio non guadagnerà, a Lione, 1.15-1.25 franchi al giorno, non potrà vivere. […] L’operaio oggi sente la sua dignità e conosce la sua forza. […] l’operaio è utile, e anche molto utile, ogni volta che […] servirà un filatore per la lana e un tessitore à Sèdan per fornir[e] un mantello; ogni volta che […] ci vorrà un contadino, un mugnaio e un panettiere perché la […] tavola non resti senza pane.80
Se dunque è possibile provare ad articolare, fra gli avvenimenti del 1831 e
l’iniziativa del moderno movimento operaio, un parallelo svolto in
corrispondenza dell’iniziativa politico-discorsiva dei canuts, ciò risulta del tutto
inopportuno sul terreno della «composizione tecnica» di un mondo del lavoro a
78 G. Rudé, La folla nella storia cit., pp. 214-215. Tale conclusione è tratta in particolare confrontando l’edizione del 1878 del Dictionnaire de l’Académie française con quella del 1935. 79 R. Gossez, Diversité des antagonismes sociaux vers le milieu du XIXe, in «Revue économique», 3, 1956, p. 442. L’articolo parla del giugno 1848 a Parigi (cfr. infra terzo capitolo § 3.5) e sottolinea anche come i lavoratori manuali fossero formalmente assai più indipendenti di tutta una serie di impiegati, commessi e dell’odiato personale delle maison di commercio che veniva a prendere il prodotto finito con l’incarico di cercare di di ridurne il compenso. (Gossez è autore dell’importante Les ouvriers de Paris, 1, L’organisation, Bibliothèque de la Révolution de 1848 vol. 24, La Roche sur Yon, 1867). 80 «Écho de la fabrique», 25 dicembre 1831, pp. 1-2 (corsivi miei). Accanto ai termini artigiani, operai, proletari, compare via via più spesso anche l’espressione «industriali», «classe industriale», a testimoniare la progressiva penetrazione delle idee saint-simoniane fra i canuts.
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cui è ancora del tutto estranea l’equazione fra industrializzazione e
concentrazione della produzione in grandi unità di fabbrica.81 Insomma, la
«prima parola» politica della moderna classe operaia si dà in un contesto
produttivo ancora compiutamente artigiano e prevalentemente domestico e
familiare, fondato su una molteplicità di piccoli ateliers che mobilita la quasi
complessità del tessuto urbano. La sua titolarità spetta ad artigiani che lavorano
nel proprio laboratorio domestico e non a operai che vendono la propria forza-
lavoro a un capitalista industriale affinché questi la impieghi nella fabbrica. Il
movimento operaio, la nozione stessa di classe operaia, emergono in Francia
nel quadro di una «morfologia» socio-economica che precede l’instaurarsi di
quel regime di proprietà dei mezzi di produzione e di divisione del lavoro le cui
forme andranno a determinare le categorie fondamentali attraverso cui il
concetto di «classe» sarà pensato lungo il segmento più duraturo e importante
della sua storia.82 Tornerò diffusamente sul modo in cui queste considerazioni
81 Il termine industrializzazione può fare cioè in questo contesto riferimento esclusivamente alla presenza di una moltitudine di piccole unità produttive. Ciò non toglie però che i commercianti esercitassero una pressione tesa ad allargare i propri margini di comando riducendo ulteriormente l’indipendenza degli artigiani e spingendoli così verso una condizione simile al mero salariato. Si trattava in primo luogo di una pressione di carattere legale esercitata per via dei debiti e attraverso la quale i commercianti, proprietari della materia prima e talvolta dell’atelier concesso in affitto, lo divenivano anche dei telai di artigiani che già da tempo avevano scarsissimo potere decisionale su cosa e quanto produrre. In questo contesto, dunque, il termine industrializzazione fa riferimento non alla concentrazione della produzione in unità di fabbrica ma esclusivamente alla presenza di una moltitudine di piccole unità prodottive, nelle quali operava una forza lavoro di fatto quasi-salariata. Di qui l’ipotesi che le lotte dei canuts siano interpretabili anche nei termini di una strenua difesa della propria indipendenza professionale, di una tenace resistenza a questa pressione al divenire-classe operaia. 82 Vittorio Dini definisce classe un «raggruppamento umano omogeneo dal punto di vista sociale e degli interessi, la cui differenziazione non è dovuta a fattori naturali ma a elementi sociali» e indica i primi utilizzi del termine classe sociale nelle analisi della società civile della scuola storica scozzese (Fergusson, Millar), dei fisiocratici, di Adam Smith, e di Hegel (Classe, in R. Esposito, C. Galli, Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Laterza, Roma-Bari 2005, pp.143-144). Per Alessando Cavalli le classi sono raggruppamenti che emergono dalla struttura delle disuguaglianze «sociali», vale a dire non naturali e non casuali, che si manifestano in modo sistematico e strutturato e si riproducono al passaggio da una generazione all’altra all’interno di una società che riconosce tutti i cittadini «formalmente uguali di fronte alla legge. In senso stretto quindi si può parlare di classi sociali soltanto dopo le rivoluzioni democratico-borghesi dell’Ottocento e con l’avvento della società capitalistica. […] Il concetto di classe è stato introdotto come strumento analitico dagli studiosi che osservavano la rivoluzione industriale per interpretare le trasformazioni sociali che conducevano alla formazione del proletariato industriale» (Classe, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Il Dizionario di politica, UTET, Torino 2004, pp. 109-114). Contributo fondamentale alla definizione del moderno concetto di classe si deve a Marx, che lo definisce in
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hanno attraversato e scosso l’interpretazione della rivolta lionese e, più in
generale, della storia del movimento operaio. Basti per il momento osservare
che questa semplice ma dirompente constatazione, spostando clamorosamente
le categorie attraverso cui pensare il formarsi della nozione di classe operaia dal
terreno socio-economico a quello dei fenomeni politici e culturali allude
direttamente alla possibilità di pensare l’emergenza storica di tale nozione nei
termini di un discorso, di una formazione discorsiva, di una pratica discorsiva.
E la dimensione evenemenziale a partire dalla quale si intende organizzare
l’analisi dell’emergenza di tale discorso non fa riferimento (soltanto) alle
vicissitudini narrate nel paragrafo precedente – all’avvenimento lionese e a
quelli dei sette mesi successivi che vado da ora a introdurre cercando di
proiettare su di essi i riflessi discorsivi della révolte des canuts –, ma piuttosto
al campo di forze, di concetti, di tattiche e strategie che intorno ad esse sono
andate comparendo, organizzandosi, confrontandosi. Lione 1831 è avvenimento
non per le finalità storiche cui è stato consegnato, ma perché, sfuggendo alle
rappresentazioni acquisite, attraversa l’ordine del discorso che si era andato
costruendo nella Francia post-rivoluzionaria dando luogo ad avvenimenti di
parola che inducono a reinterpretare immagini del mondo, categorie e nomi
condivisi.
base alla posizione occupata nella divisione del lavoro e rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione (ma, com’è noto, il cinquantaduesimo capitolo del terzo libro del Capitale inerente Le classi non ha mai superato la forma di poche righe introduttive). Il concetto di coscienza di classe serve, in ambito marxista, a segnare il passaggio dal terreno economico-sociale della classe «in sé» (für sich) a quello politico della classe «per sé» (an sich). Nell’ambito del marxismo Novecentesco il contributo più importante sul tema è quello di György Lukács con Storia e coscienza di classe del 1923. Max Weber ha contribuito in modo decisivo a determinare il significato e l’uso che del concetto si fa nelle scienze sociali, situandolo storicamente, definendolo anche in termini di posizione rispetto al mercato e affiancandovi e facendovi lavorare insieme anche i concetti di ceto (o status) e quello di partito. Nell’ambito della sociologia contemporanea il contributo più importante è probabilmente quello di Ralph Dahrendorf con Classi e conflitto di classe nella società industriale del 1957. In realtà un contibuto fondamentale all’elaborazione e alla ricezione nel pensiero storico e politico del concetto di classe si deve all’opera dei dottrinari francesi, e in particolare di François Guizot (cfr. T. De Mauro, Storia e analisi semantica di ‘classe’ (1958), in Id. Senso e significato, Laterza, Bari 1971): è su tale prestazione teorica che la presente ricerca si concetra nel prossimo paragrafo, cfr. in part. § 1.3.5. Sull’approccio che qui si propone all’emergere di questo concetto cfr. J-C. Minler, Les classes paradoxales, cap. 11 in Id. Les noms indistincts, Seuil, Paris 1983, e i lavori di Jacques Rancière cui è dedicata parte dell’ultimo capitolo.
78
1.3 popolo di novembre e Popolo di Luglio: ambiguità di un concetto.
«[il capo del governo Périer] non ha detto come la missione di clemenza data
al duca d’Orleans si conciliava con i pieni poteri del maresciallo Soult.
Bisognava punire o perdonare, e il perdono che la ragione e la giustizia
reclamavano mal si arrangia con un’entrata trionfale a miccia accesa. Entrare a
Lione che apre le sue porte come in una città presa d’assalto! bella vittoria
veramente!»:83 il commento che la «Revue des deux mondes» – giovane rivista
della borghesia liberale, romantica e patriota – affida alla penna di Jules Janin,
mostra come per il regime di Luglio la scelta delle parole, delle strategie
discorsive da adottare di fronte alla révolte des canuts rappresenti una sfida ben
più complicata rispetto al dispiegamento delle strategie repressive con cui si è
restituita Lione al comando delle autorità. Tale difficoltà ha un nome, luglio
1830: riproponendo l’irruzione vittoriosa delle masse popolari sulla scena
pubblica, l’avvenimento lionese «rammemora» la rivoluzione di sedici mesi
prima, e minaccia di riaprire e riportare al centro dell’attenzione i suoi nodi
irrisolti. «Durante i primi quattro anni della monarchia di luglio pressoché tutti i
confronti politici prendono la forma ripetitiva di polemiche sull'interpretazione 83 «Revue des Deux Mondes», tome I, vol. I, 1831, p. 128. Fondata l’1 agosto 1828, la «Revue des deux mondes. Recueil de la politique, de l’Administration», sposta, sotto la guida di François Buloz, la sua impronta esclusivamente storico-politica verso le lettere e le scienze, mutando il sottotitolo in Journal des voyages, de l’Administration, des moeurs etc., e va a occupare uno spazio intermedio fra le testate più rigorose e impegnate come la Revue Encyclopédique e quelle più frivole come la Mode. Dall’inizio vi collaborano personaggi del calibro di Balzac, Dumas, Quinet, George Sand e Sainte-Beuve (l’indiscusso animatorie della politica letteraria e culturale parigina e inventore del portrait littéraire), negli anni successivi interverranno anche Henri Heine, Michelet, Montalembert, Lammenais, Chateaubriand, Lamartine, Augustin Thierry. Nel 1832 conta 620 abbonati e ha cadenza bimensile. Dall’ottobre 1831 la politica è affidata soprattutto alla rubrica, scritta da Jules Janin ma non firmata, Les Révolutions de la quinzaine (poi Chronique de la Quinzaine), che nel 1833 costa un breve sequestro. La rivista è espressione di una borghesia colta e convintamente liberale, che aderisce entusiasticamente alla rivoluzione del 1830 e critica le coloriture conservatrici delle politiche dei dottrinari; l’interesse con cui dal 1830 segue e sostiene la conquista dell’Algeria testimonia poi del suo carattere fortemente patriottico. Ma soprattutto, «tutti i valori superiori del romanticismo sono rappresentati nella Revue», Cent ans de vie française à la Revue des deux mondes, Renouard, Paris 1929, p. 140, cfr. anche G. de Broglie, Histoire politique de la Revue des Deux Mondes de 1829 à 1979, Perrin, Paris 1979
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della rivoluzione», ha scritto un dei più acuti interpreti di questa temperie
politica.84 Il dibattito sull’insurrezione lionese lo fa nel modo più dirompente
perché chiama in causa e interroga direttamente lo statuto del rapporto fra
«popolo» e «politica» – vale a dire il nodo spinoso e cruciale del governo di
quel poderoso movimento dell’égalité che dal 1789 pare sfuggire a ogni
rappresentazione acquisita rendendo traumatica e incerta la complessità della
transizione post-rivoluzionaria –, tema che la rivoluzione di Luglio ripropone
nella forma antinomica così descritta da André Jardin: «questi va-nu-pies si
sollevavano per difendere il diritto elettorale dei grandi patentés, questi
illetterati per salvare la libertà di informazione».85 Sono queste figure misere
nel vestito e nella parola che, con clamoroso impeto, Lione 1831 riporta al
centro della scena pubblica, rivelando l’imbarazzante contraddizione fra la
posizione che luglio 1830 aveva assegnato alle masse popolari nell’ordine del
discorso e quella cui il nuovo regime pare destinarli nell’ordine sociale.
«Hier vous n'étiez qu'un foule;/Vous êtez un peuple auhjourd'hui»: 86 le
parole che Victor Hugo indirizza ai suoi concittadini all’indomani della
rivoluzione del 1830 fissano i tratti romantici del Popolo di Luglio, di cui
Eugène Delacroix immortala i volti sulla celebre tela La liberté guidant le
peuple. «La singolarità della rivoluzione di luglio, è di presentare il primo
esempio di una rivoluzione senza eroi, senza nomi propri; nessun individuo in
cui la gloria abbia potuto localizzarsi. […] Dopo la vittoria, si è cercato l’eroe e
84 P. Rosanvallon, La monarchie impossible. Les Chartes de 1814 et 1830, Fayard, Paris 1994, p. 142. 85 A. Jardin, Histoire du liberalisme politique. De la crise de l'absolutisme à la constitution de 1875, Hachette, Paris 1985, p. 286. 86 «Ieri non eravate che una folla/Siete un popolo popolo oggi», V. Hugo, Dicté après juillet 1830, in Id., Les chants du crépuscule (1835), Cans et Cie, Bruxelles 1842, p. 18. Questa terza parte del lungo poema datato 10 aogosto 1830 è dedicata al popolo, romanticamente inteso in modo olistico, al cui «animo collettivo» viene demandato il difficile e decisivo compito di chiudere il ciclo rivolzionario: «come dunque hai fatto per calmare la tua collera,/Sovrana cité che vincesti in tre giorni?/Come dunque hai fatto, o fiume popolare,/Per rientrare nel tuo letto e riprendere il tuo corso?/O terra che tremavi, o tempesta, o tormenta,/Vendetta della folla dal sorriso terribile,/Come dunque hai fatto ad essere intelligente,/Come dunque hai fatto a scegliere mentre folgoravi?» (ibid.).
80
si è trovato tutto un popolo»,87 scrive in aprile 1831 Michelet fotografando le
movenze di un gesto che continuamente si rinnova nelle rappresentazioni e
nelle cronache delle Tre gloriose giornate rivoluzionarie del 27, 28, 29 luglio
1830.88 In queste parole si ritrova tutto il senso di una «supplenza» che il nuovo
87 J. Michelet, Introduction à l'histoire universelle, L. Hachette, Paris 1831, p. 66. Michelet introduce poi un tema chiave nei discorsi che celebrano il comportamento del popolo: «nel mezzo di tanta agitazione, non un omicidio, non un furto fu commesso durante le tre giornate» (p. 67). 88 La rivoluzione del 1830 si compie nell'arco di tre giornate, Les trois Glorieuses (27, 28 e 29 luglio). Le elezioni del 1827 avevano visto un successo dei liberali che scalzava la maggioranza di destra uscita trionfante dalla precedente consultazione del 1824. A capo del governo Martignac subentra a Villele si apre un conflitto di interpretazione sulla Carta costituzionale in cui gli ultrarealisti spingono il sovrano a legiferare e governare attraverso le «ordinanze necessarie per l’esecuzione delle leggi e la sicurezza dello Stato» previste dall’articolo 14 della Carta (cfr. infra § 1.3.4). Il 9 agosto 1829 la nomina regia del ministero Polignac (minoritario alla Camera) rende più duro ed esplicito lo scontro con i liberali. Per contrastare la politica consevatrice questi ultimi si fanno campioni della fedeltà alla Carta, e si apre una dicussione sul significato del termine «octroyé» contenuto nel preambolo costituzionale, che per i realisti un'interpretazione assolutista del regime, il conflitto di interpretazione è oggetto della pubblicazione di una miriade di opuscoli e brochures (cfr. Rosanvallon, La monarchie impossible cit., pp. 101-102). I liberali intraprendono una campagna di petizioni. Il re scioglie le Camere ma le elezioni del 23 giugno e 3 luglio 1830 premiano ancora i liberali. Gli ultras spingono per l'indicazione delle circostanze eccezionali che sostengano l'utilizzo dell'articolo 14 secondo la vecchia teoria della dittatura. Di qui le quattro ordinanze dette di Saint-Cloud, fatte pubblicare il 26 luglio 1830 dal primo ministro Polignac. Esse sopprimono la libertà di stampa (necessità di autorizzazione preventiva), sciolgono la Camera, modificano la legge elettorale riucendo elettori e deputati, indicono nuove elezioni. La formale protesta di 44 giornalisti liberali è la miccia che il pomeriggio del 27 luglio consegna, involontariamente, Parigi a una sommossa che il giorno successivo diviene vera e propria rivoluzione. La conquista di Algeri (9 luglio 1830) ha ridotto il contingente militare presente a Parigi, gli insorti si impadroniscono presto dell'Hôtel-de-Ville issandovi il tricolore. Dopo una notte di battaglia e il passaggio di due reggimenti fra i ranghi degli insorti, questi ultimi cacciano l'esercito da Parigi. La vittoria popolare vanifica tutti i tentativi di mediazione che nel corso delle tre giorante erano stati avanzati dai deputati liberali (in particolare dai dottrinari) i quali, di fronte all'abdicazione cui sarà di fatto presto costretto Carlo X, lavorano da subito alla sua successione con Luigi Filippo duca d’Orleans, che il 31 luglio diviene «luogotennte generale del reame», e il 9 agosto è incoronato «re dei francesi». Per quanto riguarda le innumerevoli fonti inerenti la rivoluzione rimando soprattutto ai Mémoires storici, politici e letterari citati in bibliografia, e mi limito qui a richiamare alcuni significativi lavori di letteratura secondaria: D. H. Pinkey, The french revolution of 1830, Princenton University Press, Princenton 1972; G. Bertier de Sauvigny, La Revolution de 1830 en France, Armand Collin, Paris 1972; J-L. Bory, La Révolution de Juillet, Gallimard, Paris 1972; J. Meriman (ed.), 1830 in France, New View Point, New York 1975; i due numeri monografici Mille Huit Cente Trente della rivista «Romantisme, revue du XIXe siècle», 28-29, 1980; L. Louessard, La Révolution de Juillet 1830, Spartacus, Paris 1990; P. Pilbeam, The 1830 Revolution in France, Mac Millan, Basingstoke 1991; L. Lacchè, La libertà che guida il popolo. Le Tre Gloriose Giornate del luglio 1830 e le «Chartes» nel costituzionalismo francese, Bologna, il Mulino, 2002;). André Jardin sostiene che «un sollevamento massivo della popolazione non è che una leggenda», e che gli insorti furono solo fra gli 8 e i 10.000, la maggior parte dei quali reclutata fra gli operai, i gamin di strada, e quelle che da lì a poco tempo saranno identificate come le «classi pericolose», ma con l’importante partecipazione degli allievi del politecnico e la discreta
81
regime pare aver demandato alla figura del popolo. Supplenza non solo dei
latitanti nomi propri, ma anche di fronte a tutta una serie di anfibolie e nodi
politici che gli architetti del nuovo potere «quasi-legittimo» paiono non riuscire
a sciogliere, 89 delegandone gli esiti a una sorta di espediente poetico,
affidandone una soluzione romantica al popolo – alla presenza di un attore
collettivo mitizzato e investito di una missione conciliatrice. Al Peuple français
i deputati fattisi carico del mutamento di regime indirizzano la Proclamation
che all’indomani della rivoluzione annuncia nuovi poteri e dichiara che «grazie
all’eroica popolazione di Parigi […] la Carta sarà ormai verità».90 È il «vaillant
peuple» di cui il Luigi-Filippo tesse l’elogio all’atto di accettare la corona.91 «In
questi grandi movimenti che cambiano il mondo, niente è saggio come l’istinto
del popolo: una volta che si è buttato nella lotta, lasciatelo fare; […] fategli
grazia della vostra inutile esperienza»,92 scrive – adottando un insolito regime
discorsivo – il «Journal des débats» del 3 agosto 1830. Alla Camera dei pari,
tre giorni dopo, anche René Chateaubriand – pur accingendosi a diventare
convinto oppositore legittimista del nuovo regime – non esita ad affermare che
«mai difesa fu più legittima e più eroica di quella del peuple de Paris»,93 e lo
complicità della gran parte della popolazione (Jardin, Histoire du liberalisme politique cit., pp. 285-288), Pinkney pone invece l’accento sulla partecipazione degli artigiani qualificati e politicizzati (The french revolution of 1830 cit.). La guarngione parigina non disponeva comunque che di 12.000 uomini, la gran parte dell'esercito essendo, con il ministro della guerra, impegnata nella conquista di Algeri. 89 Cfr. infra secondo capitolo e in part. § 2.4. 90 Il proclama viene redatto da Benjamin Constant, Guizot, Villemain e Bérard: «Francesi, la Francia è libera. Il potere assoluto levava il suo drappo; l'eroica popolazione di Parigi lo ha abbattuto […]. Un potere usurpatore dei nostri diritti, perturbatore del nostro riposo, minacciava allo stesso tempo la libertà e l'ordine: rientriamo in possesso dell'ordine e della libertà». Il proclama si conclude con una delle più celebri parole d’ordine di questa rivoluzione, «la cartà sarà ormai una verità», cit. in É. Cabet, Révolution de 1830, et situation présente (novembre 1833), expliquées et éclairées par les révolutions de 1789, 1792, 1799 et 1804, et par la Restauration, Deville-Cavellin, Paris 18333, p. 114. 91 «Signori Pari, Signori Deputati, Parigi, scossa nel suo riposo da una deplorabile violazione della Carta e delle leggi – così inizia il discorso del duca d’Orleans alle Camere in occasione della sua invesitura – le difendeva con un coraggio eroico. […] La loro causa [dei miei concittadini] mi è sembrata giusta, il pericolo immenso, la necessità imperiosa, il mio dovere sacro. Sono accorso in mezzo a questo valente popolo, seguito dalla mia famiglia», Archives parlamentaires, II serie, tomo 63, pp. 85-87 92 «Journal des débats», 3 agosto 1830. 93 Di questo mito romantico del popolo, nato anzitutto nell’arte e nella letteratura, Chateaubriand sarà a suo modo un importante interprete politico. Nel 1830 sostiene la cacciata dei ministri di Carlo X che hanno violato la Carta e l’abdicazione del re, ma sostiene l’ipotesi
82
stesso François Guizot – della cui «ostilità» verso il concetto di popolo parlerò
più avanti – sottolinea «ciò che ha potuto fare il coraggio di questo popolo».94
Prende insomma forma quello che Alain Pessin chiama «mythe du peuple»,
riconoscendovi «un fenomeno collettivo nel quale gli sguardi si volgono a un
momento dato verso il popolo per sollecitare a partire da esso il contributo a
una verità sociale e politica nuova».95Alle rappresentazioni del Peuple de Paris
nel 1830 e al ruolo attivo da esse svolto nel mutamento di regime, Nathalie
Jakobowicz ha dedicato una ricerca tesa a mostrare come le eterogenee
immagini del popolo della Restaurazione convergano nella vicenda
rivoluzionaria per costruire una figura idealizzata, unanime, unitaria e
consensuale, immagine eroica che coscientemente elide gli elementi violenti e
degradanti. «La rivoluzione del 1830 appare come momento chiave nella
costruzione delle rappresentazioni del popolo nel XIX secolo».96 Un mito
che a lui, secondo il principio di legittimità, succeda il figlio Enrico V, lasciando a Luigi-Filippo la reggenza fino alla maggiore età di quest’ultimo. Le sue posizioni gli costeranno l’arresto nel giugno 1832 in seguito al tentativo di sollevazione legittimista della Vandea. Per quanto perplesso sugli esiti che la rivoluzione di Luglio andavano disegnando, nel discorso pronunciato il 7 agosto 1830 alla Camera di pari non esita a celebrare il comportamento del popolo di Parigi: «quando un terrore di castello, organizzato da degli eunuchi, ha creduto di poter prendere il posto del terrore della Repubblica e del giogo di ferro dell'Impero, allora questo popolo si è armato della sua intelligenza e del suo coraggio, e si è visto che questi negozianti respiravano assai facilmente il fumo della polvere, e che ci volevano più di quattro soldati e un caporale per schiacciarli. Un secolo non avrebbe altrettanto maturato i destini di un popolo che i tre ultimi soli che hanno brillato sulla Francia», cit. in Cabet, Révolution de 1830, et situation présente cit., pp. 108-109. 94 Discorso del 17 agosto 1830, pronunciato alla Camera dei deputati in occasione della discussione sul finanziamento di un vasto progetto di lavori pubblici: «testimoni di ciò che ha potuto fare il coraggio di questo popolo, signori, voi crederete al suo buon senso, e gli aprirete le porte degli atelier che reclama», in Histoire parlementaire de France. Recueil complet des discours prononcés dans les Chambres de 1819 à 1848 par M. Guizot, vol. I, Lévy, Paris 1863, p. 50. 95 A. Pessin, Le mythe du peuple et la société française de XIXe siècle, PUF, Paris 1992, p. 13, «il popolo è designato come portatore della speranza collettiva, tramite privilegiato della formulazione di un pensiero adeguato al tempo presente» (p. 14). Pessin parla di un «complesso del popolo» che colpisce la società francese in seguito alle vicende post-rivoluzionarie, dando vita a un mito che fiorisce nel 1830 e rimane in primo piano almeno fino all’esaurimento della vicenda comunarda. Si cerca di descrivere un populismo romantico francese che prende forma all’interno di un milieu intellettuale assai eterogeneo – attivisti, scrittori, pittori, storici etc. – ma all’interno de quale si possono rintracciare elementi comuni inerenti il funzionamento interno del mito del popolo (la dialettica natura-storia-società anzitutto). I momenti rivoluzionari funzionano da accelleratori di tale mito, di cui Michelet, Hugo, Sue, Sand, Leroux, Lammenais, Blanqui sono alcuni dei grandi interpreti. 96 N. Jakobowicz, 1830 Le Peuple de Paris. Révolution et représentations sociales, Presse Universitaires de Rennes, Rennes 2009, p. 9. Il testo intreccia differenti fonti e approcci
83
tuttavia effimero, labile e ambiguo: Jakobowicz lavora infatti a mostrare il
modo in cui tali immagini vengano rovesciate nel volgere di un breve arco di
tempo e di avvenimenti, nel corso dei quali le rappresentazioni eroiche fanno
posto a sentimenti di diffidenza, paura, stigmatizzazione. In tale mutamento di
paradigma un posto decisivo spetta senza dubbio al novembre lionese, evidente
quanto inquietante dimostrazione della riluttanza del popolo a tornare al proprio
posto e dichiarare terminata la vicenda rivoluzionaria.97 «L'idea di popolo,
quarant'anni dopo la rivoluzione del 1789, rimane un enigma, un fatto che
provoca allo stesso tempo sentimenti di angoscia e di fascinazione»:98 proprio
su tale ambiguità pare lavorare l’insurrezione di Lione, rappresentando sulla
scena pubblica tale figura nel suo aspetto più «popolare». «Luigi-Filippo ha
dimenticato […] che deve la sua corona al popolo e ai pavés di luglio», annota
disciplinari allo scopo di ricostruire le «rappresentazioni sociali» del popolo intorno alla vicenda rivoluzionaria del 1830. Innanzitutto vengono analizzate quelle, plurali e disperse, della fine della Restaurazione, in cui la figura di un popolo essenzialmente silente sulla scena pubblica è divisa fra le immagini virtuose dell’onesto lavoratore e quelle più angosciate legate alla memoria della folla della grande Rivoluzione. Sono dunque figure eterogenee e plurali che convergono poi nel 1830 per offrire «l'immagine omogenea di un popolo di eroi. […] la violenza, ma anche l'apparizione di un nuovo soggetto democratico sulla scena pubblica, sono esclusi dai discorsi. La forza del mito impedisce ogni disaccordo al riguardo, di qui la cosciente negligenza degli elementi degradanti» (pp. 162-163). Insomma «dopo le giornate di Luglio traspariva la nascita della figura mitica del popolo», e le sue rappresentazioni vengono indagate in questo testo come «parte attiva» nel cambiamento di regime: «questo mito di Luglio funziona grazie a un attore collettivo – il popolo – investito di una missione: quella di lottare e di giungere attraverso questa lotta alla riconciliazione universale» (p. 19). Nelle rappresentazioni emerge dunque una figura idealizzata, «unanime e consensuale, ma essa è rovesciata dalle evoluzioni politiche e sociali che segnano i primi anni del regime di Luglio. […] Dalla metà del mese di agosto 1830, le visioni sul popolo cambiano» (ibid.), e proprio tale repentina modificazione nelle rappresentazioni del popolo è al centro dell’indagine di Jakobowicz, che la data già agli ultimi mesi del 1830. Sul medesimo tema si veda anche E. L. Newman, L'image de la foule dans la révolution de 1830, in «Annales historiques de la Rèvolution française», gennaio-marzo 1980, e H. Desbrousses, B. Peloille, G. Raulet (dir.), Le peuple. figures et concepts entre identité et souveraineté, F.-X. de Guibert, Paris 2004. 97 I mesi successivi la rivoluzione di Luglio sono scanditi da piccoli ma estremamente frequenti tumulti e agitazioni (dall’ondata di scioperi operai dell’agosto 1830 agli scontri in occasione del processo ai ministri di Carlo X, ai tumulti anticlericali culminati nel saccheggio di numerose chiese a Parigi e in provincia, ai disordini legati all’intervento russo in Polonia, cfr. infra quarto capitolo § 4.2), ma ci si trova qui per la prima volta dopo Luglio di fronte a una vera e propria insurrezione in cui la popolazione affronta l’esercito, lo sconfigge e caccia l’autorità dalla città: «questo avvenimento aveva sorpreso e vivamente smosso l'opinione pubblica. Si era riconosciuto subito che non c'era lì nente di simile alle troubles tanto frequenti dopo le giornate di Luglio», P. Thureau-Dangin, Histoire de la Monarchie de Juillet (1883-92), tome 2, Plon, Paris 19145, p. 6. 98 Jakobowicz, 1830 Le Peuple de Paris cit., p. 12.
84
(registrando un motivo diffuso) Henri Heine sul suo diario parigino
all’indomani della révolte des canuts. 99 Nel 1832 Étienne Cabet pubblica
l’acceso phamplet politico Révolution de 1830 et situation présente, breve
storia di Francia dal 1789 in cui il passaggio di Luglio viene restituito attraverso
atti ufficiali e grandi discorsi pubblici in cui emerge la trasversale e unanime
apologia del popolo.100 «Rileggete i vostri elogi, […] vedete? Non trovavate
termini sufficienti per rendere degnamente omaggio alle sue virtù; e non parlate
oggi che del suo ardore per il disordine»,101 scrive dopo aver introdotto gli
avvenimenti lionesi, interpretando i mesi successivi alla rivoluzione come una
progressiva espulsione del popolo dalla politica.102
Non hanno ingannato le camere e il paese sugli avvenimenti di Lione e di Grenoble? […] Voi avete visto questo popolo sollevato, irritato, vincitore; dove dunque ha saccheggiato? A Lione, domandava altra cosa che vivere lavorando o morire combattendo? Padrone assoluto in città, ha forse saccheggiato i commercianti che lo avevano combattuto? A
99 H. Heine, Französische Zustände (1832), trad. fr. De la France, Michel Lévy frères, Paris 1872, pp. 28-29. Si tratta del primo scritto della raccolta, datato 28 dicembre 1831. 100 É. Cabet, Révolution de 1830, et situation présente (novembre 1833), expliquées et éclairées par les révolutions de 1789, 1792, 1799 et 1804, et par la Restauration, Deville-Cavellin, Paris 18333, p. 112. «Gli altri giornali, Lafayette, il luogotenente-generale Luigi-Filippo, le camere, e tutte le autorità sono unanimi nel rendere omaggio all’eroismo, alla generosità e alle virtù civiche della gioventù e del popolo», seguono stralci delle dichiarazioni di Thiers, Mignet, del governo provvisorio, del nuovo prefetto di Parigi Delaborde, di Girod de l’Ain, Lafayette, del re, del Moniteur Universel, di Chateaubriand, del procuratore del re Barthe, di Dupin. «Tali sono gli omaggi di ammirazione e di riconoscimento unanime resi all’eroismo, soprattutto alla generosità e alle virtù civiche della gioventù, degli operai e del popolo» (p. 118). Questo libro avrà una certa eco, vi si trovano enunciati i principi che, a partire dalla necessità del ritorno agli «immortali principi» del 1789, segnano il percorso di Étienne Cabet (1788-1856) nel corso degli anni 1830, in cui si fa principale protagonista di un lavoro di ripensamento della vicenda rivoluzionaria e in particolare del tornante del 1793 (su cui nel 1833 pubblica La république populaire, del 1839-40 è poi la sua Histoire populaire de la Révolution). Il lavoro sulla grande Rivoluzione è teso a una differente comprensione della contemporaneità: «si vedrà meglio che la contro-rivoluzione operata dalla restaurazione è stata la vera causa della rivoluzione del 1830, che il ritorno ai principi del 1789 era il suo vero scopo, e che l’esercizio reale della sovranità nazionale doveva essere la sua vera conseguenza» (ivi, p. 4). 101 Ivi, p. 220. 102 «Quanto al popolo, agli uomini di luglio, ai giovani, ai repubblicani, ci si convince che piuttosto che rassegnarsi alla schiavitù, riprenderanno le armi per espellere il duca di Orleans come hanno espulso Carlo X: non si può dunque considerarli che come dei nemici […] è per astuzia che si prodigano elogi e carezze […] al popolo; perché ben presto si prodigheranno le ingiurie, le calunnie, le ferite e la morte» (ivi, pp. 205 e 217).
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Parigi, il 29 luglio 1830, come il 10 agosto 1792, ha saccheggiato? Non ha invece lui stesso punito severamente, all’istante, qualsiasi ladro si fosse insinuato fra i suoi ranghi? […] Sì, in mezzo all’oppressione e alla miseria, il popolo ha più probità e generosità che gli aristocratici e i re.103
I caratteri incerti, a tratti indecidibili, delle giornate di Luglio e dei loro esiti
politico-giuridici – che cercherò più avanti di restituire –104 contribuiscono a
fare di questa rivoluzione un avvenimento che impegnerà i propri attori in una
politica che si articola in primo luogo sul terreno della produzione di discorsi di
discorsi di verità, dell’appropriazione dei processi di significazione di categorie
chiamate a qualificare gli elementi di un presente che non smette di sottrarsi
alla comprensione attraverso rappresentazioni consolidate e condivise.105 «Il
conflitto è anzitutto un conflitto semantico – scrive Michèle Riot-Sarcey –
perché ciascuno si attacca alle stesse nozioni di principio».106 La lotta che si
sviluppa intorno all’appropriazione dell’autorizzazione ad attribuire significato
politico al significante popolo ne è la più evidente manifestazione, e Lione 1831
ne fa da cassa di risonanza. «Al cuore del dibattito fra liberali e repubblicani, si
piazza dunque la sfida della rappresentazione di un popolo di cui si cerca di
controllare le manifestazioni».107 La polisemia, l’ambivalenza che è costitutiva
103 Ivi, pp. 219 e 220. 104 Cfr. infra secondo capitolo, in part. § 2.4. 105 Significato delle parole e uso del linguaggio emergono in questo tornante come un campo di battaglia particolarmente sensibile, dal momento che gli incerti tratti ed esiti della vicenda rivoluzionaria si vanno a sommare a un diffusa sensazione di dissoluzione del senso comune dovuto del disordinato fluire della storia nella Francia post-rivoluzionaria (cercherò di descriverne alcuni tratti nel primo paragrafo del prossimo capitolo) che a sua volta si somma a ciò che Maria Laura Lanzillo definisce il «processo di liberazione del linguaggio dal suo fondamento ontologico». «Il mondo premoderno assegnava infatti un senso ‘forte’ e univoco alle parole, fondato sulla corrispondenza fra significato ed esistenza ontologica dei principi universali. La rottura di tale corrispondenza, a partire dalla teoria nominalistica elaborata da Duns Scoto nel XIV secolo, se da un lato determina un’immediata disponibilità delle parole al volere dell’individuo, dall’altra fa sì che le parole diventino poliedriche, il linguaggio si confonde in una novella Babele che necessita di una costante ridefinizione degli assi cartesiani all’interno dei quali viene espresso», M. L. Lanzillo, Introduzione a A. de Tocqueville, Antologia degli scritti politici, Carocci, Roma 2004, p. 14. 106 M. Riot-Sarcey, Le réel de l’utopie. Essai sur le politique au XIXe siècle, Alvin Michel, Paris 1998, p. 95. Si sottolinea come dottrinari e repubblicani paiono condividere una tensione verso una comune idea dell’ordine sociale e la ricerca di una morale politica in grado di legittimare il loro discorso di verità. 107 Ivi, p. 97.
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della nozione stessa di popolo – e che la rende, forse più di ogni altro vocabolo
del lessico politico, idonea a svelare il cuore politico del linguaggio –
contribuisce a renderlo ambito privilegiato dei conflitti sull’interpretazione
(reciproca) di luglio 1830 e novembre 1831.
Si tratta di un’ambivalenza che, in lingua (politica) francese, già nel XVI
secolo Jean Bodin scioglieva parlando di peuple en corps e di menu peuple.108
Nella sua Histoire de la Révolution française, Michelet riporta l’«equivoco» fra
plebs e populus che i giuristi denunciavano nella proposta del nome
«représentants du peuple français» per i deputati all’Assemblea nazionale.109
Come noto, questa era sostenuta in particolare da Mirabeau proprio in forza
dell’ambiguità del termine: Hanno creduto di oppormi il più terribile dilemma dicendomi che la parola popolo significa necessariamente troppo o troppo poco […] A tali argomentazioni posso rispondere solo questo: è una circostanza straordinariamente felice che la nostra lingua […] ci abbia fornito una parola […] che presenta così tante accezioni diverse […] una parola che si presta a tutto, che, modesta oggi, possa rendere più grande la nostra esistenza nella misura in cui le circostanze lo renderanno necessario.110
Identificandolo con la nazione, la vicenda della grande Rivoluzione
disgiunge il popolo dal secolare e prevalente legame con la nozione di plebe, o
di folla, per farne un concetto assai più politico che sociologico: la
rappresentazione di un corpo unitario – soggetto di validazione del diritto sul
quale esso al tempo stesso si esercita – attraverso cui fondare la legittimità del
potere rappresentando e dando corpo all’unità politica fondata sul presupposto
108 J. Bodin, Les six livres de la République, Jacques Du Puys, Paris 1576, è la medioevale divisione fra popolo grasso e popolo minuto, si trova nel settimo e ultimo capitolo del secondo libro che tratta dell’État populaire, la «forma della Repubblica in cui la maggioranza comanda in sovranità». 109 J. Michelet, Histoire de la Révolution française (1847-53), tome 1, Hetzel et C., Paris 1868, p. 55: «Mirabeau preferiva la formula: Rappresentanti del popolo francese. […] Gli domandarono se popolo significasse plebs o populus. L’equivoco era messo a nudo. Il re, il clero, la nobiltà avrebbero senza alcun dubbio interpretato nel senso di plebe, di popolo inferiore, di una semplice parte della nazione». 110 Ètats-Généraux, Séance du 16 juin. Replique, in Discours et opinions de Mirabeau, tome I, Kleffer et Caunes, p. 202.
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dell’uguaglianza dei cittadini in quanto individualità puramente equivalenti nel
rapporto con l’ordinamento giuridico. «Densità politica e vaghezza sociologica
vanno di pari passo, da un lato il popolo-nazione che, nonostante la sua
astrazione, è un corpo pieno e denso e vive in base al principio di unità che
esprime; dall’altro il popolo-società, il quale, al contrario, è senza forma,
istituzione eterea e inverosimile», scrive Pierre Rosanvallon parlando di un
Peuple introuvable per descrivere il processo con cui l’Ottocento francese cerca
di mettere in opera il moderno principio di rappresentanza attribuendo
dimensione figurativa e «densità fisica» a questo soggetto in realtà privo di
consistenza e visibilità sociale. 111 «Il popolo non esiste che attraverso
rappresentazioni approssimative e successive di se stesso», sottolinea ancora
questo studioso delineando il programma di una storia concettuale del politico
che ambisce, in buona sostanza, a indagare e restituire nella sua complessità la
vicenda, teorica e pratica, della democrazia moderna – le cui «tensioni e
incertezze» rendono «il politico un ambito privo di confini» – in cui la figura
del popolo viene chiamata a svolgere una funzione fondamentale di
identificazione materiale che pare però rimanere costantemente insoddisfatta,
cosicché essa non smette di rappresentare al tempo stesso un problema e una
scommessa, una potenza e un enigma, un pericolo e una possibilità, un
principio e una promessa, «un ‘noi o un ‘si’ la cui rappresentazione resta
sempre controversa».112 Non soggetto unitario dunque – così Giorgio Agamben
interpreta lo spessore della nozione di popolo «nella politica occidentale» – ma
piuttosto «oscillazione dialettica fra due poli opposti», vale a dire fra «l’insieme
Popolo come corpo politico integrale» (esistenza politica) e «il sottoinsieme
popolo come molteplicità frammentaria di corpi bisognosi ed esclusi» (nuda
vita).113 Il carattere «polare» del concetto di popolo emerge non soltanto nella
111 P. Rosanvallon, Le Peuple introuvable. Histoire de la représentation démocratique en France (1998); trad. it. Il popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica in Francia, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 35 e 18. 112 Rosanvallon, Il politico cit., pp. 10 e 12: «il popolo è un padrone allo stesso tempo autoritario e inafferrabile» 113 G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, pp. 198-201. Rilevando come il significato del concetto di popolo nella politica occidentale rimandi
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tensione fra la sua rappresentazione politica unitaria come corpo della nazione e
quella sociale parziale, ma agita dall’interno anche la sua costituzione
squisitamente politica (caratteristiche che il suffragio censitario rende
immediatamente evidente nel periodo in esame). Jacques Rancière propone, ad
esempio, di identificare nel costituirsi del popolo in quanto parte – di una parte
dei senza-parte – l’origine e il tutto della politica, che corrisponderebbe con la
divisione conflittuale di una comunità della quale il demos avanza «la pretesa
esorbitante» di essere la totalità: una posizione che ha declinato anche a partire
da un’analisi del tornate storico in esame e che cercherò più avanti di chiarire e
approfondire.114
non a un soggetto unitario, ma a «un’oscillazione dialettica fra due poli opposti», Giorgio Agamben individua una caratteristica fondamentale e trasversale del nostro tempo nel tentativo «implacabile e metodico» di colmare la scissione fra «l’insieme Popolo come corpo politico integrale» (esistenza politica) e «il sottoinsieme popolo come molteplicità frammentaria di corpi bisognosi ed esclusi» (nuda vita) eliminando radicalmente il secondo termine (con la «soluzione finale» ieri, con lo sviluppo economico oggi). «Popolo è un concetto polare che implica un doppio movimento e una complessa relazione fra i due estremi», tale movimento consisterebbe, secondo Agamben, nella necessità di abolire se stesso in quanto parte esclusa per realizzarsi in quanto identità, totalità: «il popolo contiene in ogni caso una scissione più originaria di quella amico-nemico, una guerra civile incessante che lo divide più radicalmente di ogni conflitto e, insieme, lo tiene unito», cosicchè quando «Popolo e popolo concideranno non vi sarà più, propriamente, alcun popolo» (p. 199). «Un’ambiguità semantica così diffusa e costante non può essere casuale: essa deve riflettere un’anfibolia inerente alla natura e alla funzione del concetto di ‘popolo’ nella politica occidentale», laddove quest’ultimo termine rimanda a una frattura biopolitica fondamentale, alla struttura politica originaria (ibid.). «Di qui le specifiche aporie del movimento operaio, volto verso il popolo e, insieme, teso alla sua abolizione», scrive ancora Agamben, riportando a tale struttura anche il concetto di lotta di classe. 114 J. Rancière, La Mésentente. Politique et philosophie (1995); trad. it. e introduzione di Beatrice Magni, Il disaccordo, Meltemi, Roma, 2007, pp. 33 e 53. All’origine di ogni comunità vi è, secondo Rancière, anche un principio di giustizia in base a cui ogni parte prende solo ciò che gli spetta, secondo un criterio che non è «aritmetico» ma «geometrico», nel senso che presuppone un valore differente per ciascuna delle parti. La fine di ogni ordine «naturale» per tale criterio coincide con la nascita della politica, che è perciò coestensiva all’esplosione del conflitto sociale attraverso cui la «parte dei senza parte» si costituisce, definisce un «torto» e reclama di essere contata: «la politica esiste nel momento in cui l’ordine naturale del dominio viene interrotto dall’istituzione di una parte dei senza-parte. Tale istituzione rappresenta il tutto della politica come forma specifica di legame, e definisce l’elemento comune della comunità come comunità politica, ovvero divisa, fondata su un torto che sfugge all’aritmetica degli scambi e dei rimedi. Al di fuori di questa istituzione, non vi è politica, ma soltanto l’ordine del dominio o il disordine della rivolta» (ivi, p. 33). Il rilievo di questo lavoro è dovuto in buona parte al fatto di rappresentare un’interrogazione generale sullo statuto della filosofia politica. Questa si dispiega intorno alla distinzione concettuale fra «politica» e «polizia»: se con il primo termine Rancière fa sostanzialmente riferimento all’istituzione dello spazio del conflitto che investe il criterio stesso attraverso cui vengono «conteggiate» le parti, con il secondo allude alla dimensione e al principio ordinatore della politica e alle regole che ne discendono, all’«insieme dei processi attraverso cui si operano l’aggregazione e il consenso delle collettività,
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Il mutamento di paradigma che la Rivoluzione francese induce nella politica
moderna le impone l’azione di un corpo collettivo come condizione stessa della
sua pensabilità, sostituendo ai nomi propri dei re i nomi comuni collettivi in
quanto oggetto del discorso della storia. La nozione di popolo – almeno nella
forma minima della presenza scenica di una sua rappresentazione costruita nel
solco tracciato dalle istituzioni rappresentative – si candida a protagonista di
entrambi i ruoli – il politico e lo storico. Continuerà a farlo, con significativi
mutamenti, per buona parte dell’Ottocento, sostenuta proprio dalla sua
attitudine a «internalizzare», a comprendere in sé la dialettica fra tutto e parte, a
designare sia un concetto di unità giuridica e politica – la totalità degli individui
legati da comune territorio, lingua, tradizione e sottomessi volontariamente a un
medesimo ordinamento giuridico – sia un’immagine di parzialità sociale – la
parte di questa totalità che, in essa, si trova in posizione subalterna dal punto di
vista politico e/o economico.115 Ma entrambe queste rappresentazioni non
smetteranno di essere problematiche, ed è proprio intorno agli anni oggetto
della presente indagine che altre figure forti cominciano a insidiarla su entrambi
i lati della sua rappresentazione. Sul versante della totalità, la figura del popolo
viene sfidata dal concetto di società, che, mentre allude all’ineffettualità politica
del popolo, ne denuncia la mancanza di valore euristico nell’ambito della
nascente scienza sociale (posizione che trova in Lorenz von Stein un pioniere e
autorevole interprete). Come figura della parzialità invece verrà invece presto
affiancata da nozioni più nette, come quella di classe, che metteranno
radicalmente in discussione il presupposto unitario del popolo-nazione,
svelando il terreno della sovranità statuale come spazio interno di un conflitto
perenne: «il concetto di popolo – scrive Maurizio Ricciardi – è da un lato l’organizzazione dei poteri, la distribuzione dei posti e delle funzioni e i sistemi di legittimazione di questa distribuzione […] che fa[nno] sì che determinati corpi siano assegnati per via del loro nome a un determinato posto e a una determinata funzione […], che una certa parola venga intesa come discorso e un’altra come rumore» (pp. 47-48). 115 Cfr. M. Ricciardi, Popolo in R. Esposito, C. Galli, Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Laterza, Roma-Bari 2005, Id., Linee storiche sul concetto di popolo, in «Annali dell'istituto storico italo-germanico in Trento», 16, 1990, N. Abbagnano, Popolo in Id., Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1992, G. Bonaiuti, Corpo sovrano. Studi sul concetto di popolo, Meltemi, Roma 2006, L. Scuccimarra, G. Ruocco (a cura di), Il governo del popolo, 2 voll., Viella, Roma 2012.
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percorso dal riferimento a una totalità che nega l’esistenza delle classi,
dall’altro è completamente travolto dalla presenza concreta delle divisioni
sociali».116
Tornando all’oggetto della presente indagine, si può rilevare come le
interpretazioni dell’avvenimento lionese, nella sua giustapposizione a quello di
Luglio, sembrino chiamare in causa e mobilitare tutte queste ambiguità e
tensioni interne al concetto di popolo, svelandole anzitutto all’altezza del suo
essere dispositivo capace tanto di fondare il potere quanto di minacciarlo. Se
tali ambiguità avevano consentito ai diversi attori delle Tre gloriose di utilizzare
questa nozione ciascuno secondo le proprie finalità, gli avvenimenti «popolari»
successivi alla rivoluzione le rendono immediatamente esplosive. In ciò
sostenute dal fatto che il suffragio censitario mostra con evidenza la dimensione
immediatamente politica dell’oscillazione interna all’idea di popolo. Gli uomini
della monarchia di Luglio hanno affidato la legittimazione del nuovo regime
all’azione di un Peuple rappresentato, miticamente, unanimemente e
consensualmente, come «Nation, – utilizzo i termini dell’edizione del 1835 del
dizionario dell’Académie française – multitude d’hommes d’un même pays, qui
vivent suos les mêmes lois». L’insurrezione lionese mostra ora il loro governo
minacciato da quella «partie la moins notable d’un même pays, considérée sous
le rapport de l’instruction et de la fortune» che, «souvent», si suole, anch’essa,
indicare con il termine peuple.117 Analizzerò più avanti il modo in cui i milieux
dottrinari facciano di tale difficoltà una sfida per affermare un’interpretazione
116 M. Ricciardi, Linee storiche sul concetto di popolo, in «Annali dell'istituto storico italo-germanico in Trento», 16, 1990, p. 355. In una ricostruzione del dibattito giuridico-politico sul popolo lungo ottant’anni di storia tedesca, parlando della Staatswissenschaft degli anni 1850, Ricciardi scrive: «la nuova centralità della società finì dunque per coesistere con la persistenza di un concetto pregnante di popolo che puntava a restituire allo Stato una base assoluta e universale» (p. 317). E poi su Carl Schmitt: «il popolo non è una grandezza strutturata e non è mai totalmente strutturabile», riconoscendo l’inevitabilità di stabilire il concetto di popolo per negazione tanto sul piano logico quanto su quello storico, «finchè la borghesia era il principio di negazione dello Stato assolutistico essa potè identificarsi la nazione; ora che essa appare come una classe dominante dello Stato», «il proletariato è il popolo, poiché diventa portatore di questa negatività» (p. 362). 117 Dictionnaire de l'Académie française VI édition, tome 2, Firmin-Didot frères, Paris 1835, p. 404.
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legale della rivoluzione di Luglio costruita proprio attraverso il riferimento
all’alterità impolitica dell’avvenimento lionese, rivolta (anti)sociale che
consente di affermare un discorso di verità del politico che verga limiti e
confini di quest’ultimo in corrispondenza del perimetro delle istituzioni fondate
dalla Carta del 1830. E vado invece ora a osservare come nel discorso dei
canuts e in quello dei repubblicani il concetto di popolo agisce
nell’interpretazione dell’insurrezione lionese, trovandosi anche qui a fare da
volano di una più generale interrogazione sul politico, e mobilitando una
significativa costellazione di nomi che emergono per qualificare l’atopicità
delle figure che irrompono nel dibattito pubblico. Si deve infatti notare che in
questi primissimi anni 1830 francesi una scia continua di piccoli e grandi
tumulti sociali – che cercherò in parte qui di restituire – proietta nel dibattito
pubblico l’immagine di profili «popolari» che inquietano proprio perché sempre
più paiono segnare una radicale alterità rispetto alle coordinate e
rappresentazioni tradizionali del popolo (anche a quelle svolte sul versante della
parzialità sociale). È dunque la tensione che in questi mesi si va aprendo fra la
figura del popolo e la costellazione di nomi che – accanto ad esso e accanto a
ouvriers – emergono per designare tali figure che si rivolge l’indagine dei
prossimi paragrafi, con particolare attenzione alla funzione di «mediazione» che
viene affidata alla nozione di classe. Prima di svolgere questo lavoro, può
essere utile rilevare come la dialettica fra i due termini – popolo e classe –
giochi un ruolo di primo piano nell’emergere dei movimenti sociali
dell’Ottocento francese, e ne segni poi molte vicissitudini successive. Se è vero
– come afferma Maurice Tournier in un pionieristico studio «lessicometrico»
sul tema – che «Peuple si afferma come la forma lessicale maggiore della
rivoluzione del 1848»,118 e che questo avvenimento «rappresenterà – come
118 M. Tournier, Le mot «Peuple» en 1848: désignant social ou instrument politique?, in «Romantisme», 9, 1975, p. 6. Questo studio sottolinea come politicamente l’utilizzo del termine non sia mai neutro e che «‘Peuple’ non è un termine popolare. […] più i redattori appartengono alla classe lavoratrice, meno lo utilizzano […] più i redattori sono vicini al milieu intellettuale o politico, più se ne servono, ad eccezione di Hugo» (pp. 7-8). I milieux più popolari gli preferiscono il termine ouvriers, ma secondo Tournier è soprattutto all’aggettivazione che accompagna il lemma popolo che si deve guardare per coglierne il significato politico.
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scrive Bonaiuti – la vetrina politica di uno scontro in cui ‘popolo’ diviene
parola d’ordine di tutti gli schieramenti»,119 lo è altrettanto che in tale vicenda
alcuni pensatori socialisti paiono dispiegare una lotta accanita contro il carattere
astratto, socialmente privo di consistenza e perciò politicamente ineffettuale di
tale concetto. «Tanto varrebbe adorare una pietra», scrive il deputato Pierre-
Joseph Proudhon domandando ai suoi colleghi e al Governo provvisorio che
non cessano di invocare il popolo, la sua «formidabile voce» e «ragione
sovrana», quando e in che lingua l’hanno sentito parlare, come riconoscere la
sua volontà fra i molti che parlano in suo nome.120 «Il suffragio universale non
possedeva la forza magica che gli avevano attribuito i repubblicani vecchio
stampo. In tutta la Francia, o per lo meno nella maggioranza dei francesi, essi
119 Bonaiuti, Corpo sovrano cit., p. 45. 120 P.-J. Proudhon, Solution du problème social, Pilhes, Paris 1848, pp. 52-59: «O vous tous, ennemis du despotisme et de ses corruptions comme de l'anarchie et de ses brigandages, qui ne cessez d'invoquer le Peuple; qui parlez, le front découvert, de sa raison souveraine, de sa force irrésistible, de sa formidable voix; je vous somme de me le dire : Où et quand avez-vous entendu le Peuple? par quelle bouche, en quelle langue est-ce qu'il s'exprime? comment s'accomplit cette étonnante, révélation? quels exemples authentiques, décisifs, en citez-vous? quelle garantie avez-vous de la sincérité de ces lois que vous dites sorties du Peuple? quelle en est la sanction? à quels titres, à quels signes, distinguerai-je les élus que le Peuple envoie d'avec les apostats qui surprennent sa confiance et usurpent son autorité? comment, enfin, établissez-vous la légitimité du verbe populaire? Je crois à l'existence du Peuple comme à l'existence de Dieu. […] Comment donc, je vous en supplie, parmi tant d'apôtres rivaux, d'opinions contradictoires, de partis obstinés, reconnaîtrai-je la voix, la véritable voix du Peuple? […] Les gouvernements et les peuples n'ont eu d'autre but, à travers les orages des révolutions et les détours de la politique, que de constituer cette souveraineté. Chaque fois qu'ils se sont écartés de ce but, ils sont tombés dans la servitude et la honte. […] Le Peuple, être collectif, j'ai presque dit être de raison, ne parle point dans le sens matériel du mot. […] je demande en homme pratique de quelle manière cette âme, raison ou volonté, telle quelle, du Peuple, se pose, pour ainsi dire, hors de soi, et se manifeste? […] organiser le Peuple, créer cette souveraineté qui est à la foi liberté et accord, cela dépasse la capacité du Gouvernement, comme cela dépassait autre fois ses attributions. Or, dans un Gouvernement qui se dit institué par la volonté du Peuple, une pareille ignorance est une contradiction: il est manifeste que ce n'est déjà plus le Peuple qui est souverain. Le Peuple, dont on dit quelquefois qu'il s'est levé comme un seul homme, pense-t-il aussi comme un seul homme? réfléchit-il? raisonne-t-il? conclut-il? a-t-il de la mémoire, de l'imagination, des idées? Si, en effet, le Peuple est souverain, c'est qu'il pense; s'il pense, il a sans doute une manière à lui de penser et de formuler sa pensée. Comment donc est-ce que le Peuple pense? Quelles sont les formes de la raison populaire? procède-t-elle par catégories? emploie-t-elle le syllogisme, l'induction, l'analyse, l'antinomie ou l'analogie? est-elle pour Aristote ou pour Hegel? Vous devez vous expliquer sur tout cela; sinon, votre respect pour la souveraineté du Peuple n'est qu'un absurde fétichisme. Autant vaudrait adorer une pierre». Proudhon richiama ironicamente alcuni organi di stampa che nel 1848 vorrebbero riportare esigenze, bisogni e volontà del popolo domandando come fra esse distinguere l’interprete autentico: «le Populaire, le Peuple, la Voix du Peuple, le Peuple constituant, le Représentant, du Peuple, etc., etc., etc.» (p. 56).
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vedevano dei citoyens con gli stessi interessi, le identiche vedute ecc. Questo
era il loro culto del popolo»,121 scriverà Karl Marx, i cui scritti sulla vicenda
quarantottesca – vi tornerò diffusamente nel terzo capitolo – organizzano la
critica delle fallimentari strategie dei repubblicani democratici intorno a una
vera dichiarazione di guerra al nome, teoricamente inconsistente e
politicamente inefficace, di «popolo». La nozione di classe operaia emerge
perciò dentro una relazione complessa con quella di popolo. Certamente il
progressivo affermarsi delle teorie socialiste contribuisce e mettere
(provvisoriamente) in crisi il presupposto unitario che fonda la figura del
popolo-nazione, in particolare a partire dalla vicenda quarantottesca (che pare
rappresentarne il punto di apice e allo stesso tempo di primo declino).122 Ma a
ben guardare la storia di quelle che si chiameranno organizzazioni e istituzioni
del movimento operaio e socialista vedrà poi, praticamente ogni volta che
queste vorranno articolare la propria iniziativa sul terreno politico istituzionale
– come nei «fronti popolari» – o rappresentare statualmente il proletariato –
come nelle «democrazie popolari» – ritornare in primo piano il riferimento al
popolo per avvalersi del potenziale insito nel suo carattere polisemico, in grado
di alludere tanto alla specificità delle masse lavoratrici quanto alla complessità
del corpo politico sovrano. (E proprio la critica allo smarrimento, indotto dal
riferimento al popolo, del punto di vista – di parte – garantito dalla nozione di
classe operaia sarà la cifra di diverse esperienze «eretiche» del movimento
operaio). Al riguardo Slavoj Žižek sottolinea, ad esempio, come in Urss «il
punto più alto del terrore» si sia raggiunto in seguito all’approvazione della
costituzione del 1935, la cui «idea centrale» consisteva nel fatto che «l'Unione
Sovietica può ritenersi finalmente un paese senza classi e del Popolo», cosicché
«coloro che si oppongono […] al regime non possono più essere considerati
meri nemici di classe in un conflitto che lacera al proprio interno il corpo
121 K. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich 1848-1850; trad. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 con introduzione di F. Engels, a cura di G. Giorgetti, traduzione di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 133. 122 È vero allo stesso tempo che questo passaggio rappresenta anche il momento a partire dal quale questo nome comincia a smarrire la sua pressione emancipatoria per diventare progressivamente appannaggio di posture reazionarie.
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sociale, e diventano invece nemici del Popolo».123 Si può infine rapidamente
notare che populismi di ogni genere hanno potuto sfidare l’ascendente sulle
masse delle concezioni classiste della società proprio sul terreno della
prossimità che la figura unitaria del popolo-nazione – intesa romanticamente
come comunità storica oppure come totalità esclusiva fondata sulla razza –
esibisce con la dimensione Politica per eccellenza, vale a dire sul terreno della
tensione verso una politica-totale che ambisce all’isomorfismo di popolo e
Stato. Cosicchè, ancora con Agamben, il nome del popolo potrà essere scritto
«di volta in volta» tanto come «vessillo sanguinoso della reazione» quanto
come «insegna malcerta delle rivoluzioni».124
1.4 La «classe popolare»
«Il sole di Luglio è comparso per tutti»:125 fra le pagine dell’«Écho de la
fabrique» emerge vivida l’aspettativa che i tessitori lionesi nutrono riguardo il
riflesso che il ritorno nel 1830 del popolo al centro della grande scena politica
francese potrebbe proiettare sulla loro iniziativa di promuovere presso le
autorità l’istanza del tarif. «Queste baionette che lor signori hanno sfidato, le 123 S. Žižek, Die Revolution Steht Bervor. Dreizhen Versuche zu Lenin (2002); trad. it. di F. Rahola Tredici volte Lenin. Per sovvertire il fallimento del presente, Feltrinelli, Milano 2003, p. 82: «non è assolutamente casuale che il punto più alto del terrore si raggiunga subito dopo l'approvazione della nuova costituzione del 1935, evento che si riteneva segnasse ufficialmente la fine dello stato di emergenza e il ritorno alla normalità: la sospensione dei diritti civili di interi strati della popolazione (i kulaki, gli ex capitalisti) veniva abolita, il diritto di voto diventava universale, e così via... Idea centrale della nuova costituzione era che, stabilizzatosi l'ordine socialista e annichilito ogni nemico di classe, l'Unione Sovietica non fosse più una società di classe: soggetto dello Stato non erano più i lavoratori (operai e contadini) ma il Popolo. [...] dal momento che la lotta di classe viene dichiarata un dato acquisito, fuori agenda, e l'Unione Sovietica può ritenersi finalmente un paese senza classi e del Popolo, coloro che si oppongono (o meglio, che si presume si oppongano) al regime non possono più essere considerati meri nemici di classe in un conflitto che lacera al proprio interno il corpo sociale, e diventano invece nemici del Popolo, insetti, schiuma della terra che viene estirpata con forza dall'umanità». 124 Agamben, Homo sacer cit, p. 198. 125 «Écho de la fabrique», 6 novembre 1831, p. 2
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abbiamo affrontate anche noi»,126 scrivono i canuts rivendicando il diritto a
essere contati nella rappresentazione, necessariamente unitaria, di un popolo
che ha lottato per la patria e per la libertà, e invocando il dovere della
monarchia – «all’edificazione della quale essi hanno partecipato» – 127 di
ascoltare anche la loro voce. La brochure che l’operaio tipografo Auguste
Collin pubblica nel 1831 ricorda: «siamo stati governati da uomini per cui
eravamo solo un vile gregge di bestie da soma poiché non potevamo esibire
vecchie pergamene in grado di mostrare che i nostri antenati erano stati fieri
valletti di padroni ancora più fieri», e attiva così il discorso, in voga nei primi
giornali operai, che denuncia il diniego di uguaglianza da parte di «quelli che
occupano adesso i loro posti [e] si sono trovati allora umiliati come noi, perché
facevano parte di coloro che la casta nobiliare chiamava tanto arrogantemente il
popolo».128 Circostanza su cui anche i tessitori lionesi non smettono di insistere
affinché «i signori negociants si ricordino bene la loro origine […] e pensino
che tutti loro provengono da questa classe che oggi disprezzano»:129 in questi
scritti operai la questione dell’uguaglianza pare in effetti emergere anzitutto
come rivendicazione di dignità, «non grido dei bassifondi», della collera o della
fame, afferma Jacques Rancière, ma voce di quel complesso lavoro del pensiero
cui tutte le intelligenze sono atte.130 E allora «la parola operaia entra in scena, di
126 «Écho de la fabrique», 13 novembre 1831, p. 5. «Sono gli stessi uomini che venogono a parlarci di Luglio che vorrebbero che un prefetto non parlasse al popolo che con un frustino. […] Questi uomini che sembravano non parlare che del popolo e per il popolo vollero approfittare della sua industria e accrescere le loro fortune a spese delle sue pene e dei suoi lavori. […] Ma dal momento che tutto deve avere un limite, questo popolo, vittima dell’egoismo, non potendo più sopportare lo stato spaventoso in cui si trovava, si riunì e domandò il prezzo del suo lavoro» (ibid.). 127 «Écho de la fabrique», 27 novembre 1831, p. 4. «Questi operai rispettano la dinastia uscita da luglio»: almeno fino ai primi mesi del 1832 i tessitori non smettono mai di proclamare la propria fedeltà al nuovo regime. 128 A. Colin, Le cri du peuple, impr. de Demonville, Paris 1831, p. 4. «Essi si sentivano feriti come noi, e poiché confondevano i loro lamenti con i nostri, noi li credevamo nostri amici! Insensati che siamo! […] Abbiamo spezzato il giogo dell’aristocrazia nobiliare per cadere sotto la dominazione dell’aristocrazia finanziaria» (pp. 4-5). Questo testo è stato scelto da Jacques Rancière e Alain Faure per l’antologia di scritti operai del periodo 1830-1850 La parole ouvrière cit.. 129 «Écho de la fabrique», 6 novembre 1831, p. 2. 130 Faure e Rancière, La parole ouvrière cit., pp. 7-9. In La nuit des prolétaires Rancière richiama in qualche modo il tema delle rappresentazioni del popolo di Luglio, indagandolo in maniera retrospettiva nell’analisi dei giornali operai dei primi anni 1840: «all’indomani del
96
fronte ai borghesi, ad un tempo come rivendicazione di uguaglianza e prova del
diritto a questa uguaglianza»:131 tale è la trama che attraversa in filigrana i testi
operai anche nelle rivendicazioni economiche, investendole sempre in un
giudizio che codifica pratiche e discorsi accettabili o intollerabili. Il giornale, i
documenti dei canuts sono percorsi esattamente da questo spirito di rivolta
contro chi pensa che il denaro lo renda ora «un essere talmente superiore a essi,
da doverli abbeverare di oltraggi e colmare di disprezzo»,132 e non capisce che
«l'operaio oggi non è il servo di Carlo VII; essere pensante, egli conosce i suoi
diritti», e proprio per questo «il tempo non è forse molto lontano in cui
bisognerà che il ricco convenga che il povero è composto di un’essenza
altrettanto pura della sua, che gli uomini sono uomini».133 «Di qui – scrive
ancora Rancière – il carattere sorprendente per degli occhi moderni di queste
pagine ove gli operai proclamano che sono uomini come i borghesi»:134 è nel
quadro di questa rivendicazione di uguaglianza che deve essere inteso il modo
in cui il termine popolo acquista in questi testi significato. Il riferimento ad esso
non serve soltanto per rivendicare la propria partecipazione all’istituzione del
regime di Luglio, ma anche per rammemorare la rottura irrevocabile che, con il
discorso politico dei diritti, ha prodotto la vicenda della grande Rivoluzione,
ove «popolo» acquistava identità semantica per contrasto a quell’aristocrazia
alla quale si chiedeva di essere qualcosa, di essere contati, come ora si chiede ai
negociants di essere riconosciuti come uguali nella dignità. Così, «popolo» 1830 un tratto di penna era sufficiente agli oratori del popolo di Luglio per respingere le dichiarazioni, più spaventate che audaci, di possidenti sulla difensiva, che paragonavano il popolo dei faubourgs ai barbari un tempo accampati alle porte dell’Impero romano. […] È esattamente questo che si è perduto» (J. Rancière, La nuit des proletaires cit., pp. 265-266). In questo testo i contorni del mito del popolo di Luglio emergono insomma nelle fonti operaie per contrasto con la situazione di dieci anni dopo: «tutte le distinzioni del vero e del falso popolo, dell’apparenza e dell’identità conquistata sono impotenti contro questa confusione, questa perdita dell’identità conquistata dal popolo di Luglio […] adesso questa legittimità è andata perduta in un decennio di insurrezioni, complotti e colpi di mano, sempre più minoritari. Questi hanno ridotto la violenza di Luglio alla sola manifestazione di una forza brutale» (ivi, pp. 268 e 271). 131 Faure e Rancière, La parole ouvrière cit., p. 153. 132 «Écho de la fabrique», 22 gennaio 1832, p. 4. 133 «Écho de la fabrique», 13 novembre 1831, pp. 3 e 4. 134 Faure, Rancière, La parole ouvrière cit., p. 13: «rivolte, schiavi, insorti, barbari accampati alle porte delle città, tutte le immagini nelle quali la paura borghese designa gli operai vengono così rivelate e negate».
97
funziona da volano di un parallelo fra l’egoismo borghese e la condotta della
vecchia nobiltà.135 «Gli uomini che componevano questa nuova casta non
parlavano che del popolo e per il popolo», ma dopo Luglio «il finanziere e il
commerciante, arrivati al potere, non si ricordarono più di questi uomini
laboriosi che li avevano portati alle stelle».136 L’«Écho de la fabrique» parla
perciò di Aristocratie du comptoir per denunciare il tentativo dei facoltosi
proprietari di sfruttare la rivoluzione popolare allo scopo di insediarsi nei
privilegi di casta aristocratici. A tale continuità, al costante riferimento delle
lotte operaie lionesi alla vicenda della grande rivoluzione (che, nei suoi sviluppi
non smettere di condizionarne forme, contenuti e linguaggi consegnando loro
dimensione «costantemente politica») allude il titolo – Il sogno della repubblica
– di un importante studio di Antonino De Francesco sul mondo del lavoro
lionese dall’Ancien régime al 1848. «Per le categorie subalterne, le giornate di
Luglio avevano […] riaperto la questione della partecipazione popolare alla vita
nazionale», afferma questo storico illustrando gli elementi che consentono di
riconoscere come, dal punto di vista dei protagonisti dell’avvenimento, «il 1831
lionese equivaleva al Luglio parigino».137 La lettera che un anonimo lavoratore
indirizza da Lione ai redattori del «Journal de commerce» attiva un tale
parallelo domandando: «come voi che foste i primi nelle Tre Giornate a
implorare l’intervento degli operai per salvare la libertà che vi è cara quanto a
noi, ora reclamate l’ordine» intendendo con ciò la repressione degli operai.138 Si
135 Su questo tema cfr. J. Guilhaumou, 1789-1830, la nouvelle aristocratie et le peuple. La permanence de la construction de soi par contraste, in L. Frobert (dir.), L’Écho de la fabrique: naissance de la presse ouvrière à Lyon, ENS Éditions, Lyon 2010. 136 Fino al punto che il povero viene adesso trattato come «un barbaro, un uomo che viene mostrato come un bevitore di sangue, più selvaggio del leone nei deserti in cui regna», «Écho de la fabrique», 20 novembre 1831, p. 1. L’aristocratie du comptoir è il titolo del citato articolo che risponde al mèmoire dei commercianti sviluppando un argomento che pare estremamente presente nel dibattito pubblico di questi anni. 137 A. De Francesco, Il sogno della repubblica. Il mondo del lavoro dall’Ancien Régime al 1848, Franco Angeli, Milano 1983, pp. 367 e 374. «Le giornate di Luglio non soltanto avevano affossato la politica reazionaria di Carlo X, ma anche rilanciato, in modo perentorio, la partecipazione delle categorie subalterne alla politica nazionale» (p. 360). 138 Si sottolinea poi come nel 1830 gli operai abbiano saputo mantenere l’ordine in ogni momento della vicenda rivoluzionaria, «per ristabilire quell’ordine che ognuno desidera di gran cuore, per ristabilirlo, anziché fare degli arresti, perché ne fate, il mezzo più semplice ed efficace è quello di unirvi non per abbattere gli operai con la forza delle armi, ma per venire
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chiede insomma al potere come si possa allo stesso tempo condannare tanto
radicalmente la rivolta di novembre e mantenere attivo l’elogio delle giornate di
Luglio se l’attore è il medesimo, e simili sono anche la trama e la condotta dopo
la rivolta. «Ma le sommosse? – Le sommosse! Quella delle giornate di luglio
era legittima?», 139 domanda ancora Cabet commentando la vicenda di
novembre e chiamando in causa la contraddizione fondamentale che perseguita
il regime di Luglio: quella di un potere monarchico istituito per via
insurrezionale.
Proiettare il sole di Luglio su novembre 1831 ha l’effetto dirompente di
svelare esattamente questa contraddizione. Perciò i legittimisti puntano a
mostrare le continuità fra la razionalità discorsiva con cui essi stessi hanno
affrontato le giornate rivoluzionarie e quella con cui il governo risponde alla
révolte des canuts, e affidano pertanto al loro foglio serale il compito di
riprendere e valorizzare gli argomenti della stampa di opposizione.
Pressochè tutti i giornali di questa mattina – scrive la «Gazette de France» del 28 novembre 1831 – sono d'accordo con noi nel riconoscere che gli avvenimenti di Lione sono il risultato naturale dei principi che hanno prevalso in luglio e in agosto. Il Courrier dice e prova che questi avvenimenti sono una conseguenza della rivoluzione. Le National sviluppa tale punto di vista in un lungo articolo che merita molta attenzione. Questi giornali si abbagliano tuttavia dal momento che credono sia per non aver seguito i loro consigli che questi avvenimenti si sono prodotti. […] Gli avvenimenti di Lione hanno per effetto di fare vedere oggi ai feuilles della rivoluzione ciò che noi abbiamo visto quindici mesi fa negli avvenimenti di Parigi.140
loro in soccorso in un momento di pressante bisogno», cit. in De Francesco, Il sogno della repubblica cit., p. 366. 139 Cabet, Révolution de 1830, et situation présente cit., p. 222. 140 «Gazette de France», 28 novembre 1831, p. 2. Si tratta di un foglio lettimista della sera (1631-1915), nel 1832 risulta il secondo quotiano francese (solo il governativo «Le Constitutionnel» supera le sue 8.676 copie inviate ogni giorno nei dipartimenti). Il primo quotidiano citato, «Le Courrier» (1819-1851, quinto per tiratura nel 1832 con 4.332 copie spedite nei dipartimenti), è un foglio di ispirazione orleanista orientato in senso progressista e anticlericale, sul secondo «Le National» cfr. infra il presente paragrafo. Per una panoramica generale sui quotidiani politici stampati in Francia nel 1831-32 e sulla letteratura in merito rimando alla scheda del primo paragrafo della bibliografia.
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Le National si fa in effetti promotore di una campagna per l’amnistia agli
insorti di novembre fondata su un parallelo con l’avvenimento di sedici mesi
prima istituito in corrispondenza della prossimità dei comportamenti popolari.
Si tratta di un quotidiano che, fondato il 3 gennaio 1830, aveva svolto una
significativa e tenace opposizione liberale alle politiche di Carlo X, facendo
talvolta appello esplicito alla rivoluzione inglese del 1688, e aveva poi giocato
un ruolo di primo piano nella vicenda delle Tre gloriose.141 Dopo che gli storici
liberali Adophe Thiers e François-Auguste Mignet passano a incarichi
ministeriali, Armand Carrel ne resta il solo grande animatore, e intraprende un
percorso di allontanamento dalle posizioni del governo fino a farne, in
corrispondenza dell’insurrezione parigina di giugno 1832, il più autorevole
organo della causa repubblicana.142 La polemica che accompagna la révolte des
canuts – un acceso dibattito d’interpretazione ingaggiato con il Journal des
débats – è decisiva in tale spostamento.
«Il popolo ha fatto tutto in tre giorni», scriveva Le National il 30 luglio
1830, «è lui che ha vinto»: l’insurrezione lionese permette di riprendere tale
assunto e di metterlo alla prova. Di riproporre la domanda su chi ha fatto Luglio
e per cosa come questione fondamentale intorno alla quale disporre le
coordinate della politica che il nuovo regime dovrebbe intraprendere: «c’è stata
una rivoluzione popolare e non una rivoluzione aristocratica – scrive Carrel il 2
dicembre 1831 – non è dell'aristocrazia che se ne va, ma del popolo che viene,
141 È presso la sua sede che viene redatta la protesta dei 44 giornalisti contro le ordinanze del 26 luglio 1830 che sospendevano la libertà di stampa, ed è fra i giornali che appaiono comunque l’indomani e sono perciò sottoposti a sequestro (insieme a Le Temps, Le Globe e Le Journal du commerce). Nel 1832 Le National è l’ottavo quotidiano francese per tiratura (2.038 copie spedite nei dipartimenti, continuerà a pubblicare fino al 1851). Nel giugno 1832 presso i suoi uffici si riuniranno i deputati di opposizione per decidere l’atteggiamento da tenere di fronte all’insurrezione repubblicana. Nel febbraio 1848 pubblicherà l’appello di Marrast a manifestare nonostante I divieti emanati dal prefetto di Parigi. 142 Nel 1827 Carrel aveva pubblicato la sua Histoire de la contre-révolution en Angleterre, sous Charles II et Jacques II, una sorta di invito a fare contro il governo della Restaurazione un 1688 anche in Francia. Morirà nel 1836 in un duello contro Girardin, suo grande avversario editoriale. Così ne parla Chateaubriand: «niente di più positivo delle sue idee, niente di più romanzesco della sua vita. Volontario repubblicano in Spagna nel 1823, preso sul campo di battaglia, condannato a morte dalle autorità francesi, fuggito a mille pericoli, l’amore si trova mescolato ai disordini della sua esistenza privata» (Mémoires d'outre-tombe, E. et V. Penaud frères, Paris 1848, tome V, p. 228).
100
che si impadronisce della scena politica, che un governo previdente, probo,
fedele ai suoi impegni, alla propria origine, deve occuparsi». Affermare che «gli
uomini politici hanno misconosciuto il versante popolare della rivoluzione di
luglio», 143 significa avanzare un discorso di verità sul significato di tale
«versante», a partire dalla definizione dell’attore collettivo che «si
impadronisce della scena politica», e della posizione che in essa gli spetta. È
questa la sfida che Carrel lancia dalle colonne del National, sostenendo
l’amnistia agli insorti di novembre sulla base dell’argomento che, rispetto a
Luglio, un medesimo atto politico si è rinnovato, perché uno stesso attore ha
parlato utilizzando il medesimo registro espressivo: Più ci si dice che i due movimenti popolari non si assomigliano per nulla, che l'uno fu legittimo e l'altro non lo è, più noi apprezziamo la perfetta conformità dei costumi che si è rivelata nelle due popolazioni. Ci sembra che questo popolo sia ben più avanzato, ben più capace di condursi, di governarsi da solo di quanto pretendano gli uomini della quasi-legittimità e della corruzione dottrinaria, in grado da quindici mesi di far mentire la più bella delle rivoluzioni.144
Gli editoriali che Carrel scrive fra 27 novembre e 7 dicembre insistono
sull’ordine mantenuto dopo la cacciata delle autorità per rinvenirvi la cifra della
continuità fra i codici di comportamento che hanno animato il popolo di Luglio
e quelli agiti dai lavoratori lionesi. Tale continuità rivelerebbe sostanzialmente
l’operatività di una medesima morale politica,145 che funziona come piano
143 «Le National», 28 novembre 1831. 144 «Le National», 7 dicembre 1831. Sulle strategie discorsive dei repubblicani rispetto al novembre lionese cfr. F. Rude, C'est nous les canuts cit., pp. 235-238 e M. Riot-Sarcey, Le réel de l’utopie. Essai sur le politique au XIXe siècle, Alvin Michel, Paris 1998, pp. 179-188. 145 «La condotta degli operai dal momento che si sono resi padroni della città e l'ordine che essi hanno conservato in seno stesso al disordine, meritano di essere segnalati»: anche «Le Globe» (27 novembre 1831), giornale da poco allontanatosi dal liberalismo per approdare al sansimonismo (cfr. infra terzo capitolo § 3.1), insiste in qualche modo sull’elemento morale, contrapponendo i comportamenti virtuosi degli operai lionesi ai vizi aristocratici che si vanno insediando nelle attitudini della classe media. Come ho già detto, la mistica repubblicana del popolo poggia in buona parte sull’affermazione di una morale politica (elemento comune al discorso dei dottrinari), che anche su «La Revue républicaine. Journal des doctrines et des intérets démocratiques» emerge nell’esaltazione della buona condotta degli operai lionesi: «è grazie a questi resti di morale, che il potere non insegna più, che il popolo di Parigi e quello di
101
inclinato sul quale orientare contro il governo l’accusa di aver dispiegato una
condotta destabilizzante, di avere operato una «rivolta contro lo spirito e il
carattere della rivoluzione popolare di luglio, rivoluzione sociale almeno tanto
quanto politica».146 È il carattere «popolare» della rivoluzione del 1830 a
definirne la natura «sociale»: novembre 1831 fa emergere le figure sociali
parziali che agiscono sull’ambiguità del concetto di popolo debordando anche
sul versante del suo significato politico unitario, sul quale si è andato erigendo
il mito di Luglio a cui il nuovo regime – «quasi-legittimo» – si è rivolto per
fondare la propria legittimità. Esattamente sulla produzione e definizione di
questa soglia che distingue sociale e politico, si gioca il problema del nome da
attribuire (nel riflesso di novembre) al soggetto che ha preso parola in Luglio. È
fra le parole di una lettera (non pubblicata) inviata al «Globe» dall’operaio
rilegatore Paillot che troviamo la formulazione più esplicita del congegno
discorsivo attraverso cui i repubblicani si sforzano di reinterpretare il popolo
del 1830 attraverso il novembre lionese: «nei giorni di luglio, quando apparvero
le ordinanze, c’era un gran baccano nella capitale, e io credo che senza questa
classe di uomini che si chiama popolo ce ne sarebbe stato molto meno».147
Termini che anche «Le National» utilizzerà qualche mese dopo: «questa classe
nutrita di fatiche, di privazioni e di lacrime che chiamiamo il popolo».148 È alla
nozione di classe che si demanda di operare la mediazione fra il popolo politico
di Luglio e quello di novembre. Quest’ultimo, per il suo carattere sociale, più
che Peuple reca infatti scritto il nome ouvriers: ma proprio perchè popolo è
anche la parola con cui si chiama una classe di uomini, è a questa nozione che
si affida la realizzazione del sodalizio fra l’attore di novembre e quello di
Luglio. Lione, sapendo ben poco leggere e scrivere, si sono mostrati così generosi, così probi, così disinteressati in questi quattro anni di guerra civile» (Vol. 1, André Marchais, Paris 1834, p. 107, la citazione in esergo al presente paragrafo di trova in un articolo anonimo dal titolo Les Doctrinaires a p. 121). «Le insurrezioni del 1831 e 1834 sono giudicate dai repubblicani meno in funzione del contenuto della rivolta che dal punto di vista di una morale del comportamento dei rivoltosi, esattamente come i moralisti liberali», scrive Michéle Riot-Sarcey (Le réel de l’utopie cit., p. 107). 146 «Le National», 27 novembre 1831, corsivo mio. 147 Cit. in Riot-Sarcey, Le réel de l’utopie cit., pp.182-183, corsivo mio. 148 «Le National», 13 aprile 1832.
102
Operai è il nome proiettato dall’insurrezione lionese sulla scena pubblica.
Nozione impolitica, squisitamente sociale perché, come si è visto, in questo
frammento di storia francese designa poco più della generica approssimazione
di una condizione di lavoro manuale – di una «operosità». Nome declinato al
plurale anche perché la rivolta su cui ora si trova scritto sfugge continuamente
alle rappresentazioni unitarie di Luglio, indisponibili per un avvenimento che
ha visto lo scontro dei tessitori con i loro concittadini borghesi vestiti
dell’uniforme della guardia nazionale: perfino l’ardente repubblicano
Alexandre Dumas lamenta: «Oh! Come ci si uccide bene tra compatrioti, tra
fratelli! – da qui a cinquant’anni, la guerra civile sarà la sola guerra
possibile». 149 È invece Popolo il sostantivo impresso sugli esiti della
rivoluzione di Luglio, vocabolo al singolare perché unanime e consensuale,
nozione squisitamente politica perché alla sua presenza e alla sua iniziativa, o
meglio alla sua condotta morale – al suo «coraggio», alla sua «intelligenza» e al
suo «buon senso» –150 nel corso delle Tre gloriose, si affida parte della
legittimazione del nuovo potere monarchico. Esattamente la distanza semantica
fra i due termini (e in particolare il carattere sociale e parziale di ouvriers) è il
problema che hanno di fronte coloro che, come Carrel, intendono interpretare
luglio 1830 attraverso novembre 1831 facendo risaltare l’irrevocabile presenza
nella vita pubblica francese di un attore collettivo la cui esistenza ed essenza
«popolare» è di per sé sufficiente a definire il discorso di verità che dovrebbe
informare la politica del regime cui tale attore ha dato vita. A ridurre questa
distanza viene convocata la nozione di classe, in grado di attivare assonanze fra
il lemma sociale e plurale ouvriers e la figura politica del popolo lavorando sul
versante sociale di quest’ultimo: accostando la révolte des canuts – gli «operai»
– alla recente rivoluzione – il «Popolo» –, si svolge un doppio movimento teso
a interpretare reciprocamente i due termini, un discorso in cui gli operai
possono rappresentare il popolo perché il popolo diviene, come loro, una classe,
la classe popolare. Provo a osservare tale movimento negli editoriali del
149 A. Dumas, Mes Mémoires, tome V, Lévy, Paris 1863-84, p. 565. 150 Sono questi i termini usati, ad esempio, da Guizot e dal «Journal des débats».
103
«National».151
Ho già citato all’inizio del presente capitolo parte della formula decisiva:
«gli avvenimenti di Lione hanno appena provato ciò che emergeva già dalle
nostre giornate di luglio, ovvero che il popolo è ormai associato a tutte le idee
di libertà, a tutti i desideri di benessere che la classe media ha creduto di far
valere da sola contro il regime della restaurazione».152 Il significante popolo
viene qui fatto passare attraverso un lavoro di descostruzione che ne ridefinisce
in prima battuta il senso per opposizione a un significante parziale di classe.
Questa opposizione fra popolo e classe media è immediatamente in grado di
affermare un discorso di verità sulla vicenda del 1830: «il governo avrebbe
potuto prevenire il male», l’insurrezione lionese, «non mutando il carattere
della rivoluzione di luglio, riconoscendovi la vittoria delle classi inferiori sulla
restaurazione».153 Il processo di significazione per opposizione apre il campo
all’irruzione, indotta dalla presenza scenico-politica dei canuts lionesi, del
nome che permette di conferire significato alla figura del popolo di Luglio: è
quella «classe operaia» che nella società attuale «ha acquisito un rango, una
considerazione che non ebbe mai»,154 il cui ingresso in politica passa ancora
attraverso una morale che ne permette la pacifica integrazione: «tra i lumi, il
coraggio, l'intelligenza, i sentimenti morali della classe media e quelli della
classe operaia, c'è poca differenza».155 Cercherò più avanti di restituire il modo
in cui l’esperienza politica e teorica dei dottrinari di François Guizot
contribuisce in maniera fondamentale ad affermare, soprattutto nel corso degli
anni 1820, la nozione di classe nel dibattito storico-politico francese.156 Basti
151 Anche se il sintagma classe popolare attraversa più le pagine dell’«Ècho de la fabrique» (in particolare gli interventi di Antoin Vidal) che quelle del «National» il processo di significazione di quest’ultimo rimanda compiutamente a tale nozione e secondo uno schema più lineare. 152 «Le National», 28 novembre 1831. 153 «Le National», 27 novembre 1831. 154 «Le National», 28 novembre 1831 «e, dal momento che il numero è parecchio in favore di quest'ultima, che se non gli si dà equamente la sua parte, essa vorrà farlo e che essa ci può riuscire». E aggiunge: «è la società che la restaurazione ci ha trasmesso, e contro la quale si è fatta in parte la rivoluzione di Luglio. Ci sono in questa società dei vizi odiosi, delle miserie impressionanti, degli abusi senza numero, dei godimenti esagerati». 155 «Le National», 28 novembre 1831. 156 Cfr. infra secondo capitolo, in part. § 2.5.
104
per il momento rilevare come in questi anni il sintagma classe operaia non paia
(soprattutto al singolare) assai ricorrente, e come nel discorso qui esaminato
esso emerga politicamente come terreno di mediazione nell’imbarazzato
accostamento che novembre 1831 produce fra la nozione esclusivamente
sociale di ouvriers e quella eminentemente politica di peuple. L’ambigua
etichetta di repubblicani sociali riassume efficacemente questo equilibrio
discorsivo assai precario in cui, da una parte il concetto di popolo – che deve
rimanere nella retorica repubblicana anche la figura unitaria che, tramite il
codice costituente della sovranità, rappresenta il solo fondamento legittimo del
potere politico – viene immerso nel sociale attraverso la mediazione della
nozione di classe, e dall’altra accostando ad esso il plurale ouvriers si sforza di
conferire a quest’ultimo rilievo politico. Intorno al gennaio 1832 alcuni Amici
del popolo si occupano di dare un potente contributo all’immissione nel lessico
politico repubblicano di un termine – prolétaires – che pare potenzialmente
foriero di un più ordinato equilibrio in questa indecidibile matassa di politico e
sociale: un termine in grado di designare attributi sociali senza limitarsi però –
come nel caso delle nozioni afferenti al lemma ouvriers – alla mera
registrazione sociologica di una generica condizione professionale, ma rinvia
anche a un’interpretazione politica della società che chiama in causa e palesa i
movimenti interni allo stesso concetto di popolo. Così recita un brano del
proclama Al popolo della Société des Amis du Peuple:
Gli operai, questi eroici proletari la cui moderazione e probità dopo la vittoria di luglio 1830, non possono paragonarsi che al loro coraggio durante la battaglia157
L’onnipresente richiamo al popolo è qui implicito nel riferimento alle Tre 157 Société des Amis du peule, Au peuple, in Id., Procès des quinze, Auguste Mie, Paris 1832, p. 43. Nel 1974 EDHIS ha pubblicato i dodici volumi di Les révolutions du XIXe siècle, raccolta dei più importanti testi rivoluzionari del periodo che va dalla rivoluzione di Luglio al celebre processo di aprile 1834. Le seicento pagine del secondo volume titolano La société des amis du peuple 1830-1832, e raccolgono tutte le 28 pubblicazioni realizzate nei due anni di vita di questa associazione, fra tali pubblicazioni, Procès des quinze è la più imponente e raccoglie a sua volta gli opuscoli incriminati. Sulla breve ma intensa vita di questa società repubblicana cfr. J-C. Caron, La Société des Amis du Peuple, in «Romantisme», 28-29, 1980, pp. 169-179.
105
gloriose unitamente all’aggettivo eroico. Proletari è allora chiamato a conferire
spessore politico al, meno denso ma più specifico, nome ouvriers. Proprio la
divulgazione di questo opuscolo è oggetto di un’accusa per reati di stampa che
porta quindici Amis du Peuple a un processo che ne vedrà alcuni condannati a
un anno. Ma la loro autodifesa lascerà un segno ben più lungo nella storia delle
idee, dal momento che in essa si è ormai soliti indicare il primo utilizzo politico
del termine proletari inteso in senso moderno. Vale a dire l’irruzione di una
singolarità storica non necessaria che interviene a modificare sensibilmente
alcuni elementi dell’ordine del discorso politico nella Francia del
diciannovesimo secolo.
1.5 La repubblica proletaria
Luglio 1830 ha riattivato la retorica rivoluzionaria del popolo immergendola
nelle pieghe romantiche dell’epoca, che contribuiscono a farne un mito cui si
demanda l’intervento su alcune anfibolie della vicenda rivoluzionaria. È degno
di nota che nello spazio di alcune decine di giorni a cavallo fra 1831 e 1832 si
possa poi fotografare la repentina irruzione nel discorso politico di nomi
comuni che, lavorando sulle ambiguità di tale figura del popolo, ne
scompaginano rapidamente la struttura mitica. È altrettanto notevole che
l’irruzione di queste singolarità si dia nel campo di tensione aperto fra un
avvenimento extradiscorsivo che parla il linguaggio della violenza
insurrezionale e un avvenimento di parola che ha i caratteri estemporanei di una
risposta alla più rituale delle domande di un giudice. Al dì là dello statuto che la
storiografia ha consegnato all’insurrezione lionese nel processo di formazione
del movimento operaio, essa acquista interesse se indagata nella sua singolarità
soprattutto perché segna un punto di svolta nel modo in cui la società francese
interpreta sé stessa e le sue divisioni, perché interviene a modificare
sensibilmente i termini in cui l’ordine del discorso politico si era andato
106
affermando nella vicenda post-rivoluzionaria.158 Così Robert Castel indica nel
dibattito che segue la révolte des canuts il primo utilizzo dell’espressione
question sociale: «bisognerà infine comprendere – scrive il giornale legittimista
La Quotidienne del 18 novembre 1831 – che al di fuori delle condizioni
parlamentari dell’esistenza di un potere, c’è una questione sociale cui bisogna
rispondere». 159 Alle parole con cui l’imputato Blanqui sfida il giudice
sull’interpretazione del termine état, d’altra parte, gli storici – svelando il
potenziale dirompente che le operazioni di nominazione custodiscono rispetto
alla materialità dei processi – attribuiranno un carattere quasi epocale, in grado
di conferire lo statuto di avvenimento all’esistenza di un’associazione
repubblicana il cui nome avrebbe altrimenti difficilmente attraversato le pagine
dei manuali di storia.
Eppure gli Amis du Peuple paiono agire come spinti dalla sensazione delle
potenzialità storiografiche del processo che li vede imputati, dei cui atti faranno
la pubblicazione più importante della loro breve vita politica (1830-32) e in cui
sembrano dispiegare tutta una premurosa cura delle parole. «Furono tre giorni
memorabili»,160 racconta Raspail, che, eletto presidente della Société des Amis
du Peuple nel maggio 1831, vi promuove attività di Istruzione del popolo, cui
lo scritto incriminato dedica un paragrafo per annunciare che la Sap «ha
decretato la creazione di una scuola di insegnamento primario per gli adulti, in
ciascuno degli arrondissement di Parigi»: scuole di storia, di canto, di
158 P. Rosanvallon, La rivoluzione dell’uguaglianza cit., p. 261. Vi si legge anche che «è soltanto negli anni ‘30 dell’Ottocento che il termine ‘proletario’ entra nell’uso corrente» (p. 264). 159 Cit. in Castel, Les métamorphoses de la question sociale cit., p. 394. 160 Il processo «fu immenso. […] Dal primo mattino i corridoi del Palazzo furono invasi dal pubblico, dalla polizia e dall’esercito […] ottocento uomini in armi e un nugolo di agenti», Y. Lemoine e P. Lenoel (a cura di), Les Avenues de la République. Souvenirs de F-V. Raspail sur sa vie et sur son siècle 1794-1878, Hachette, Paris 1984, pp. 192 e 199. Raspail, eletto presidente all’unanimità, succede al giovane medico Ulysse Trélat (arrestato per cospirazione nel marzo 1831), e procede all’epurazione di un terzo dei membri, motivata affermando: «avvertii molto rapidamente che questa società serviva il punto di vista del governo più che ostacolare il suo cammino. Il castello ne fece uno spauracchio. Gridava al 1793» (p. 125). I prevenuti al processo sono tutti accusati di reati di stampa, escluso Gervais che è accusato anche di violenze contro un commissario di polizia al momento del sequestro dei pamphlets della SAP. Oltre sessanta testimoni sono convocati al processo.
107
matematica, di grammatica, di igiene, di scrittura.161 «È tempo infine di fare
conoscere ai popoli la loro posizione reale, di insegnare loro come possono
conquistare e conservare i loro diritti, di illuminarli sui loro interessi»:162 dire la
verità al popolo pare uno dei principali obbiettivi di questi repubblicani che
«simpatizzano vivamente con tutto ciò che è verità, ragione e giustizia».163 Si
tratta di «lanciare delle grosse e rudi verità in testa ai potenti del giorno, ai
ricchi ipocriti»: di qui tutta un’attenzione alla dimensione dei nomi e del
linguaggio: «gli operai non saranno da noi nominati: Canaille, ladri, feccia
della plebaglia […]. Non imiteremo né il linguaggio dei giornali ministeriali,
né le disgustose adulazioni dei valletti di corte».164 Il processo dispiega allora
tutto un conflitto che – non solo nella nota risposta di Blanqui – oppone al
linguaggio legale degli uomini di tribunale una differente interpretazione dei
significanti. Fin dalle repliche alle domande di rito che vale la pena citare per
esteso. [10 dicembre 1831] Il presidente procede successivamente all’interrogatorio preliminare dei prevenuti. Blanqui, interpellato sulla sua professione, risponde: proletario. Il presidente: Non è una professione Blanqui: se non è una professione, sono senza professione. Il presidente a Thouret: qual è la vostra professione? R. membro della Société des amis du peuple Il presidente a Gervais: Qual è il vostro domicilio? R. Sainte-Pélagie [la prigione politica di Parigi] Il presidente: non è il vostro domicilio Gervais: Mi domandate qual è il mio domicilio attuale e io vi indico quello che il governo mi ha procurato da tre mesi e mezzo. […]
161 Société des Amis du Peuple, Au peuple, in Id., Procès des quinze, Auguste Mie, Paris 1832, p. 49. L’ignoranza è la madre della schiavitù è il titolo del paragrafo. Raspail, botanico e scienzato della natura, si fa anche promotore di una penetrazione della scienza fra le «famiglie povere» in funzione autoemancipativa, su questo tema cfr. Rancière, Savoirs Hérétiques cit. pp. 44-48. La «Revue des deux mondes» commenta il processo alla Sap rammaricandosi che esso veda imputati «dei giovani, chiamati per la maggior parte ai primi ranghi della scienza e della società»275. 162 Société des Amis du Peuple, Au peuple cit., p. 53. Si deve «ricordare al popolo […] i suoi legittimi diritti e i suoi veri interessi […] e dopo avergli fatto conoscere le cause del male, indicargli il rimedio» (p. 42) 163 Société des Amis du Peuple, Manifeste de la Sap, Auguste Mie, Paris 1832, p. 27. 164 Société des Amis du Peuple, Au peuple cit., pp. 42-43.
108
[Il processo, causa malattia del giudice Lassis, viene poi rinviato al 10 gennaio 1832, aperto ancora dall’appello del presidente Jacquinot-Godard] Il presidente, al primo prevenuto, come vi chiamate? Raspail, François-Vincent Raspail […] D. La vostra professione? R. Sono qui in qualità di presidente della Société des amis du peuple D. Non è una professione R. Non è, è vero, una professione lucrativa, ma è onorabile; la ho dal libero suffragio dei miei amici […] Il presidente, al terzo prevenuto, il vostro nome? R. Louis-Auguste Blanqui […] D. Il vostro stato [état]? R. Proletario Il presidente. Non è uno stato Blanqui. Come non è uno stato! È lo stato di 30 milioni di francesi che vivono del loro lavoro e sono privati dei diritti politici Il presidente… Ebbene sia, cancelliere scrivete che il prevenuto è proletario Il presidente, al quarto prevenuto. Il vostro nome? R. Vincent-Antony Thouret […] D. Il vostro stato? R. Membro della Société des Amis du Peuple D. Non è uno stato? R. Ebbene! Mettete giornalista. D. Il vostro domicilio? R. Sainte-Pélagie165
La differenza fra la riposta che Blanqui fornisce in dicembre e quella –
celebre – di gennaio testimonia di una riflessione svolta sul significato
dell’espressione proletario, di cui vorrei ora indagare forma e ruolo all’interno
di regimi discorsivi che sono espressione di un sapere politico repubblicano-
sociale in rapida formazione e trasformazione (nell’opuscolo con cui la Sap
interviene sull’insurrezione lionese, ad esempio, Édouard Dolléans indica la
prima manifestazione di reale simpatia da parte dei repubblicani verso gli
operai,166 e Rosanvallon indica in questa società una «matrice» del movimento
operaio francese).167 Mi sforzo a tale scopo di fare tesoro delle indicazioni con
165 Société des Amis du Peuple, Procès des quinze, Auguste Mie, Paris 1832, pp. xxix, 2-3. 166 È. Dolleans, Histoire du mouvement ouvrier, tome 1 1936, pp. 77-79. 167 La Société des Amis du Peuple e nella Société des droits de l’homme sono per Pierre Rosanvallon delle «società repubblicane e popolari, che saranno la matrice del movimento
109
cui Gareth Stedman Jones invita a pensare interessi e bisogni popolari non
come una struttura sociale data (rispetto a cui misurare, ad esempio,
l’affermarsi di una «coscienza di classe») ma in quanto risultato della struttura
discorsiva dispiegata da determinati linguaggi politici.168 Ed è bene richiamare
ancora le indicazioni di Johann Wallach Scott che invita le ricerche storiche
svolte attraverso l’analisi del linguaggio a non intendere con quest’ultimo
semplicemente l’utilizzo delle parole nel loro uso letterale, ma a orientarsi
all’indagine di sistemi di significato e di processi di significazione stabiliti
relazionalmente rispetto ai campi in cui agiscono attraverso opposizioni e
contrasti impliciti o espliciti.169 Si tratta allora anzitutto di analizzare il modo in
cui la categoria prolétaire acquista significato in relazione alla produzione
discorsiva di interessi e bisogni che a tale categoria vengono attribuiti
nell’ambito del sapere politico di un’associazione che si propone di «ricordare
al popolo i suoi legittimi diritti, misconosciuti o violati, rivelargli i suoi veri
interessi, sacrificati o offesi».170 Si deve allo stesso tempo provare a sviluppare
congetture sulla relazione (di assimilazione o differenziazione) che tale
categoria istruisce con le espressioni finora richiamate (ouvriers e peuple
anzitutto), e sulla funzione che essa svolge nei linguaggi politici in esame. La
tesi è che il processo di attribuzione di senso a nomi e concetti nuovi che
vengono introdotti nel discorso si dia qui in primo luogo in riferimento alla
dimensione della politica e all’interpretazione del suo significato, ma anche che
tali espressioni e parole retroagiscano poi talvolta su di essa lavorandola e
modificandola sensibilmente.
In un intervento del 1850 Marx denuncerà la razionalità politica che ha
«fatto della parola ‘popolo’ una parola sacra»:171 l’accusa «atei politici» con cui
operaio e del socialismo francese», La rivoluzione dell’uguaglianza cit., p. 260. 168 Stedman Jones, Languages of Class cit., sui contenuti di questa riflessione cfr. supra l’Introduzione. 169 J. W. Scott, Gender and the Politics of History cit., sui contenuti di questa riflessione cfr. supra l’Introduzione. 170 Société des Amis du Peuple, Au peuple cit., p. 42: «e dopo avergli fatto conoscere le cause del male indicargliene il rimedio». 171 Cit. in A. Cornu, Karl Marx et la rèvolution du 1848, PUF, Paris 1948, p. 65, si tratta di un intervento all’assemblea della Lega dei comunisti del settembre 1850 contro il
110
Blanqui scomunica coloro che parlano di un popolo disponibile a rinunciare alla
libertà in cambio del benessere,172 restituisce – insieme al Vox populi, vox Dei
in esergo su un opuscolo della Sap – i tratti di una mistica repubblicana del
popolo che segna questi anni, ha sfumature religiose, poggia sulla definizione di
una morale politica e sul riferimento storico alle vicende della grande
Rivoluzione. I membri della Sap si chiamano orgogliosamente citoyen, e fanno
di questo nome il volano della loro appartenenza al popolo inteso in modo
olistico come corpo collettivo portatore di propria eticità, volontà e
razionalità.173 Il loro Manifeste dichiara che si sono riuniti la prima volta il 30
luglio 1830, quando «questo popolo ha mostrato al mondo se in effetti ha una
volontà»,174 e nel fatto che esso non sia poi stato consultato sul proprio destino
indica il torto che li ha spinti a fondare la Sap. Rispetto alle altre «associazioni
patriottiche» che si occupano di politica generale, questa società annuncia di
avere anche «uno scopo più speciale»: «la difesa immediata di tutti gli interessi
delle classi inferiori della società […] il miglioramento della loro condizione
fisica e morale».175 L’elemento dell’interesse introduce all’interno della figura
del popolo l’elemento parziale delle classi, mentre la difesa dei diritti negati
permette al discorso della Sap di rivolgersi «non solo alle classi inferiori, ma
ancora alle classi manifatturiere e commerciali», e fare poi appello ai «cittadini
di tutte le classi laboriose».176 Tale espressione, in cui il lemma cittadini
volontarismo dei seguaci di Willich (cfr. infra terzo capitolo § 3.5). 172 L. A. Blanqui, Textes choisis, préface et notes de V. P. Volguine, Éditions sociales, Paris 1971, p. 66. «Il popolo è un politico più profondo degli uomini di stato» (p. 67). A. Passin indica Blanqui fra i grandi protagonisti del populismo romantico francese (cfr. supra § 1.3). 173 È questo rinvio fra individui-cittadini e il nome collettivo del popolo come attore agente sulla scena pubblica che anima L’ Appel à l’opinion publique sur les émeutes des 14, 15, 16 et 17 juin 1831 (primo dei due scritti sotto accusa, in Société des Amis du Peuple, Procés de quinze cit.), Si tratta di una riflessione sui «progressi dell’irritazione popolare», sul moltiplicarsi delle sommosse che il popolo (attore collettivo composto da «cittadini di tutte le classi») dispiega anche per futili motivi e sul modo in cui esse vengono affrontate e represse dal governo (si accusano in particolare i comportamenti della gendarmeria): «questi uomini che calunniano il popolo e commettono dei crimini per accusarlo. Dovrebbero almeno rispettare le sue virtù se non sanno compatire la sua miseria» (p. 41). Tali agitazioni del popolo testimonierebbero l’«antipatia della nazione contro un sistema assurdo e da essa condannato» (ibid.). 174 Manifeste de la Sap, Auguste Mie, Paris 1830, p. 15. 175 Ivi, p. 17. 176 Ivi, pp. 24 e 26.
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rimanda alla nozione di popolo, rivela già che gli Amis du peuple lavorano a
rappresentare quest’ultima sostanzialmente come la massa che lavora
contrapposta a un’esigua minoranza di oziosi privilegiati. È poi degno di nota
che il termine classe sia usato al plurale e non ricorra l’espressione classe
operaia ma, ancora, il lemma plurale ouvriers, «voi operai, coraggiosi e
generosi soldati di luglio»: il riferimento alle Tre gloriose – e in esse ad attributi
morali quali i «sentimenti di ordine e probità severa» – anche qui mette in
relazione tali figure sociali con quella del popolo rivoluzionario.177 Si può
d’altra parte osservare come la ricorrenza di sintagmi quali «tutte le classi di
operai» o «operai di tutti gli stati» segnali ancora la genericità del lemma
ouvriers, in grado di rinviare a condizioni economiche e professionali anche
molto differenti fra loro. Rispetto ad esso l’espressione prolétaires appare certo
più caratterizzata da questo punto di vista, e, molto significativamente, trova
una prima definizione nell’articolo La guerre civile che gli Amici del popolo
dedicano all’insurrezione lionese nell’opuscolo La voix du peuple (dicembre
1831). Vi si denunciano e attaccano anzitutto le strategie discorsive dispiegate
dai milieux governativi del liberalismo dottrinario: «è pietoso sentir dire che
niente di politico è successo a Lione, perché gli insorti non hanno creduto che
fosse lo specifico nome di Filippo, di Carlo, o di Napoleone che essi dovevano
impiegare contro i loro mali».178 Ma anche qui emerge poi la preoccupazione, la
difficoltà a ritrovare nella rivolta l’azione della figura unitaria del popolo: «i
cittadini che dovrebbero essere uniti in un interesse comune di libertà e felicità,
sono divisi da degli interessi contrari di classi e di individui».179 La definizione
di prolétaires sembra allora intervenire a fare da tramite fra queste figure sociali
del lavoro, parziali e conflittuali, e la dimensione dell’agire politico: «coloro
che hanno abituato le loro braccia a lavorare e il loro cervello a ragionare, i
proletari di oggi, vogliono vivere liberi e lavorando. Il loro benessere; ma allo
stesso tempo la loro dignità! Il profitto del lavoro deve tornare al lavoratore.
177 Ivi, p. 27. 178 Société des Amis du Peuple, La voix du peuple, impr. de David, Paris 1831, p. 3. 179 Ibid.
112
[…] Bisogna che le leggi tendano verso questo fine».180 Descrivere socialmente
una condizione ma allo stesso tempo fornirne una lettura immediatamente
politica: mi pare questa la funzione che l’espressione prolétaires viene chiamata
a svolgere nell’ambito di una retorica e di un linguaggio politico che
all’individualismo borghese dei liberali si sforza di opporre la coestensività di
interessi e diritti, benessere e libertà, relazioni sociali e rapporti politici.
Durante il processo di gennaio, prolétaire interviene già nell’autodifesa di
Raspail,181 ma è con il discorso di Blanqui che a tale nozione viene conferita
forma e sostanza. Essa appare qui come la particolare configurazione storica
che la figura sociale del povero acquisisce nel suo essere il prodotto politico
dell’azione del governo, della logica iniqua delle imposte, del monopolio della
legislazione dispiegato dalla truffa della rappresentanza censitaria: «gli
ingranaggi di questa macchina, combinati con un’arte meravigliosa, colpiscono
il povero in ogni istante della giornata, lo perseguitano nelle più piccole
necessità della sua umile vita». 182 Le leggi che regolano l’industria e il
commercio, di cui un’infima minoranza di centomila borghesi «detiene la
fabbricazione esclusiva», sono la macchina che produce i proletari avvolgendoli
in un’«inestricabile rete di imposte, di monopoli, di proibizioni, di diritti di
dogana e di concessioni».183 La legislazione protezionistica sui cereali tiene alto
il prezzo del pane che affama i poveri, quella sul legname difende dalla
concorrenza estera i cari e cattivi utensili agricoli che il contadino deve
acquistare, i paesi stranieri reagiscono con altrettanti dazi che strozzano
l’esportazione vinicola, schiacciando la piccola proprietà terriera, le imposte
rivolte anzitutto sui loro beni di consumo, come sale e tabacco, insieme al
cattivo sistema di credito pubblico, determinano la condizione del povero che,
180 Ivi, p. 4 (corsivo mio). 181 «Le imposte, di cui la monarchia accresce ogni giorno la cifra in una proporzione allarmante, sono sopportate esclusivamente dal proletario che acquista, e non dal proprietario ozioso che vende la sua merce», Société des Amis du Peuple, Procès des quinze cit., p. 68. 182 Blanqui, Textes choisis cit., p. 61. 183 Ivi, p. 60. È degno di nota che in questa autodifesa il lemma operai interviene al momento di introdurre il tema della révolte des canuts, matrice dei cui problemi è comunque – come da registro repubblicano classico – politica («non è solamente a Lione, è ovunque che gli operai muoiono schiacciati dalle imposte» (p. 68).
113
impossibilitato a partecipare alla decisione su tali meccanismi è, perciò, un
proletario. 184 Da tale concezione discende la denuncia dell’artificiosa
separazione di interessi e diritti,185 e l’indicazione del suffragio universale come
rimedio ai mali dei poveri. «La società, attraverso l’azione delle sue leggi, ha
fatto cadere in blocco nelle mani di alcuni, le ricchezze che essa doveva
costantemente dividere»:186 nel discorso della Sap (assai più vicino al vecchio
orizzonte egualistarista di Babeuf che a quello del socialismo a venire) la
condizione delle «classi inferiori» è il risultato dell’iniquo sistema delle
imposte, che a sua volta deriva dal monopolio della legislazione in mano a una
minoranza di «oziosi».187 Proletario è il nome che Blanqui «inventa» per tale
condizione di esclusione politica: è a partire da essa, e non dalla situazione di
sfruttamento economico e subordinazione sociale, che il significato di questo
nome viene prodotto: «io proletario, privato di tutti i diritti della cité».188 «Il
concetto di proletariato compare qui – secondo Arthur Rosemberg – ancora
completamente nel senso antico».189 A partire dal VI secolo a. C. a Roma
proletarii indicava infatti coloro che erano privi del censo sufficiente per essere
registrati in una delle cinque classi in cui Servio Tullio aveva (a fini militari)
diviso il populus: si trattava perciò di figure che facevano socialmente parte
della popolazione romana ma che, a causa della propria condizione materiale di
indigenza, il diritto escludeva dal popolo di Roma, vale a dire dalla
184 Al contrario di quanto si dice – afferma ancora Blanqui – «è precisamente il sistema rappresentativo […] che concentra i tre poteri tra le mani di un piccolo numero di privilegiati uniti dagli stessi interessi», uomini che sono allo stesso tempo elettori, giurati e guardie nazionali, e dunque «fabbricano», eseguono e giudicano quelle leggi, «dirette agli stessi scopi di sfruttamento», che sono all’origine della condizione dei proletari. In breve, si deve imputare in primo luogo alla situazione di monopolio della legislazione «questo ordine di cose [che] non è istituito che in vista dello sfruttamento del povero da parte del ricco» (Textes choisis cit., p. 62). 185 Manifeste de la Sap cit., p. 25. 186 Société des Amis du Peuple, La voix du peuple cit., p. 3. 187 Sono molte le analogie con la lettura del cartismo come ultima propaggine del radicalismo politico inglese del Settencento proposta da Steman Jones. 188 Blanqui, Textes choisis cit., p. 60. 189 A. Rosemberg, Demokratie und Sozialismus, Zur politischen Geschichte der letzen 150 Jahre (1938); trad. it. Democrazia e socialismo. Storia politica degli ultimi centocinquant’anni (1789-1937), De Donato, Bari 1971, p. 31.
114
partecipazione alla vita dello Stato. 190 Tale nozione appare dunque
particolarmente preziosa per il discorso politico di questi repubblicani, in cui
proletario emerge anzitutto come figura per eccellenza dell’esclusione
politica.191 Si possono in merito richiamare le pagine in cui Jacques Rancière,
evocando la lotta dei ciabattini, propone di interpretare la soggettivazione
proletaria di questi anni come un’eterologia, una logica dell’altro, «la
negazione dell’esclusione definita dalla parola di un altro», e «l’identificazione
con colui che è designato come escluso».192 Perciò in La mésentente, egli
convoca la risposta di Blanqui alla domanda del giudice inerente il suo mestiere
a riassumere emblematicamente «tutto il conflitto fra politica e polizia».193 Se
per la logica «poliziesca» del procuratore il termine «professione» si identifica
con un mestiere in quanto attività che mette un corpo in relazione con la sua
funzione, la logica politica rivoluzionaria dell’imputato assume invece tale
espressione nel senso di «confessione», professione di appartenenza a un
collettivo. Un collettivo – i proletari – che, nei termini di Blanqui, non è però
identificabile con un gruppo sociale, un insieme di proprietà, un corpo
collettivo, ma solo con «la classe di coloro che non sono contati, classe che non
esiste se non nella dichiarazione tramite la quale costoro si contano come coloro
che non sono contati». Il nome proletario «rende soggettiva questa parte dei
senza-parte che rende il tutto differente da sé» (e la cui istituzione va a
rappresentare nel pensiero di Rancière l’origine e «il tutto» della politica).194
Il suffragio censitario fornisce plasticamente la rappresentazione tutta
politica di tale esclusione, facendo sì che l’oscillazione, la tensione interna al
concetto di popolo emerga non solo fra la figura giuridico-politica unitaria del
190 La riorganizzazione dell’esercito messa in atto da Servio Tullio per promuovervi la partecipazione delle classi inferiori divideva il popolo in cinque classi: proletarii designava coloro che erano privi del censo necessario per appartenere a una delle cinque classi, ed erano perciò esentati dal pagamento delle imposte e dal servizio militare, che dunque servivano lo Stato solo con la propria prole. 191 «É ancora la causa dei patrizi contro i plebei», esclama l’imputato Trélat, Société des Amis du Peuple, Procès des quinze cit., p. 103: «è la causa di tutti gli aristocratici contro il popolo di tutti i paesi; è la causa che ha fatto crocifiggere duemila anni fa il filosofo Gesù». 192 Rancière, Le parole della storia cit., pp. 146 e 141. 193 Rancière, Il disaccordo cit., p. 56. 194 Ivi, pp. 56 e 57.
115
popolo-nazione e la sua concreta esistenza in quanto parzialità sociale, ma agiti
internamente anche il primo versante, che rivela immediatamente la propria
ineffettualità politica. È a questa condizione politica «popolare» che l’emergere
della nozione di proletariato si rivolge, mostrando qui come gli sforzi di
nominazione imposti dal concreto dipanarsi di avvenimenti che debbono essere
interpretati con parole e concetti, sembrino dispiegare effetti di verità che
sfidano in potenza gli avvenimenti stessi. È il caso, appunto, del nome popolo,
chiamato a istruire un’interpretazione della rivoluzione del 1830 in grado di
dare una sorta di legittimazione «poetica» al nuovo regime, a sostenere una
struttura mitica in grado di fornire «soluzione romantica» alle sue incertezze
politico-giuridiche. Ma, come si è visto, tali avvenimenti di parola, investiti da
una serie di altri avvenimenti extradiscorsivi la cui interpretazione costringe
ancora a quel salto nel vuoto che è dare un nome ai soggetti della storia, hanno
l’effetto di mobilitare intorno alla nozione di popolo, convocata a una posizione
tanto centrale, una galassia di altre parole e significanti che la insidiano a partire
dal suo versante parziale, rendendola alla fine ben più pericolosa del male che
ad essa si chiedeva di guarire. «C’è storia perché degli esseri parlanti sono
riuniti e divisi da nomi, perché si nominano essi stessi e nominano gli altri»,195
scrive Rancière in Les mots de l’histoire, sottolineando, altrove, che in questi
anni «le pratiche operaie hanno già una lunga storia», ma che «la novità
all’indomani del 1830 è questo sforzo singolare di una classe per nominarsi».196
E allora i «luoghi di parola» ove andare a rintracciare la formazione della
moderna classe operaia, l’emergere del movimento operaio francese non sono le fabbriche o i dormitori, le strade o le bettole: sono testi, frasi, nomi […] concatenazioni di frasi che trasformano in cosa visibile e dicibile quel che non aveva motivo di distinguersi ed era udito solo come rumore inarticolato, promuovendo allo spazio comune soggetti inediti, legittimità nuove e le forme in cui quelli possono invocare queste. Parole sottratte alla lingua comune delle designazioni […]. Ecco allora il nome proletario rivendicato da Blanqui di fronte al giudice che gli chiede la sua professione e si
195 Ivi, pp. 57-59 196 Fure, Rancière, La parole ouvrière cit., p. 9.
116
indigna della risposta: proletario infatti non è una professione, cioè un mestiere; è una professione in un significato più antico e completamente nuovo: una dichiarazione di appartenenza alla comunità che tiene conto proprio di coloro che non contano. […] È l’invenzione di un nome per l’assunzione i alcuni atti di parola che affermano o respingono una configurazione simbolica dei rapporti tra l’ordine del discorso e l’ordine delle condizioni sociali.197
Si può allora domandare alla semantica storica di collocare tale
«invenzione» nel più generale quadro delle vicissitudini del significato e degli
utilizzi del lemma proletario, di cui i primi anni 1830 non registrano certo il
primo recupero moderno, ma paiono piuttosto imprimergli alcune brusche e
importanti torsioni. Restituisco perciò rapidamente alcuni avvenimenti di parola
in cui, accanto al processo della Sap, si è soliti indicare passaggi simbolici nella
«vita» francese di questa espressione, per cercare poi di indagare il significato
che essa pare assumere nello spazio pubblico e infine cercare di restituire il
movimento semantico che essa sembra intraprendere nel giornale dei tessitori
lionesi. Si deve in primo luogo richiamare l’iniziativa con cui il 3 febbraio 1831
«Le Globe» – appena approdato al sansimonismo – pubblica la Pétition d’un
prolétaire à la Chambre des députés dell’ouvrier horloger Charles Béranger,
raro caso di petizione operaia e altrettanto di rivendicazione del nome
proletario. 198 Jean Reynaud pubblica poi sulla «Revue Encyclopédique»
dell’aprile 1832 l’articolo De la necessité d'une réprésentation spéciale pour les
prolétaires, in cui sviluppa la tesi cui il titolo allude come unica soluzione alla
condizione di «queste masse oggi condannate all’ilotismo»:199 il termine iloti,
197 Rancière, Le parole della storia cit., pp. 139, 140 e 144 (corsivo mio). 198 Ch. Béranger, Pétition d'un prolétaire à la Chambre des députés, in «Le Globe», 3 febbraio 1831. Il testo verrà poi stampato autonomamente (Au bureau de l’organisateur, Paris 1831). Béranger redigerà poi anche nel novembre 1832 la Pétition des ouvriers de Paris, pubblicata e sostenuta anche dall’ «Ècho de la fabrique» (num. 59 del 9 dicembre 1832). 199 J. Reynaud, De la necessité d'une réprésentation spéciale pour les prolétaires, in «Revue Encyclopédique», tome LIV, aprile 1832, p. 7. «Bisogna portarsi al centro delle questioni e attaccare alla loro base tutte queste meschine operazioni e questi assurdi tripotages della razza bastarda dei monarchici dottrinari […] É nel vizio della rappresentazione nazionale che si trova la causa del male, è a questo vizio che bisogna rivolgersi, e non alle conseguenze che si porta appresso». É nella rappresentazione nazionale che «si va concentrando tutto il progresso della scienza di governo: è essa sola che riporterà un po’ di ordine e autorità in mezzo alle nostre società affrante […] questo principio della rappresentanza nazionale che sembra
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seppur meno ricorrente, appare in questi anni al fianco di proletari per designare
una medesima condizione di esclusione.200 E l’ultimo documento pubblicato
dalla Société des Amis du Peuple prima dello scioglimento è il Discours sur
l’association républicaine pronunciato dal citoyen Dejardins all’udienza della
corte d’assise dell’8 aprile 1833, ove la legge dell’avvenire viene indicata
nell’«ascesa [avènement] progressiva del proletariato», e tale principio viene
articolato attraverso la distinzione fra proletariato degli interessi (che allude
alla necessità del miglioramento delle condizioni materiali delle classi povere) e
proletariato delle capacità (che fa riferimento alla progressiva estensione del
suffragio elettorale attraverso il principio di capacità). Si può poi rilevare che il
dizionario storico della lingua francese di Alain Rey data l’«affermazione»
linguistica del termine prolétariat al 1832:201 allora per la prima volta esso
compare (al plurale) nel Dictionnaire general de la langue française di F.
Raymond,202 e nel 1835 lo fa nella citata sesta edizione del Dictionnaire de
l’Académie française.203 Pare insomma che in questi primi anni 1830 si possa
essere il sigillo dell’alleanza dei governi e dei popoli». Si propone qui di classificare gli uomini in gruppi omogenei di interessi, da cui la distinzione fondamentale fra proletari e borghesi, che ha qui matrice economica. Proletari sono coloro che producono in cambio del salario che I borghesi danno loro. Si può anche richiamare lo statuto di un’association di lavoratori costituita nel 1832 ove si legge: «coloro che più soffrono sono gli individui che si guadagnano da vivere attraverso un lavoro manuale giornaliero e che si è cominciato a chiamare proletari» (cit. in De Francesco, Il sogno della repubblica cit., p. 379). 200 Nell’antica Sparta gli Iloti erano i servi della gleba di proprietà dello Stato, privati dei diritti civili e politici. Ogni anno ritualmente gli efori dichiaravano loro guerra per legittimare le violenze cui erano sottoposte dagli spartani. 201 A. Rey (dir.), Dictionnaire historique de la langue française, Le Robert, Paris 1992, tome 3, p. X. Si sottolinea qui come il termine comparisse già in Sant’Agostino, nel Contratto sociale di Rousseau (1762) e come nel 1825 Saint-Simon ne abbia fatto un primo utilizzo in senso moderno. A ciò si deve aggiungere che Robespierre nel luglio del 1793 parlò dei «cittadini proletari» come di «una parte numerosa e importante della società», «la cui sola proprietà risiede nel lavoro» e ai quali la Rivoluzione non ha dato «ancora quasi nulla». Marat distingueva i proletari che vivono «del lavoro delle proprie mani» dai «proletari fannulloni», emarginati e parassitari. Il termine compare anche nel Manifeste des plébéiens (1795) di Babeuf, per indicare colui la cui forza lavoro è oggetto di sfruttamento. 202 «Prolétaires, s. m. pl. Cittadini poveri di Roma che non fornivano alla repubblica che dei figli – Ultima classe della società – Presso i moderni, si dice di coloro che non hanno alcuna proprietà», F. Raymond, Dictionnaire général de la langue française et vocabulaire universel des sciences, des arts et des métiers, André, Paris 1832, p. 304. 203 Viene anzitutto riportato il significato del termine nella Roma antica («coloro che formavano la sesta e ultima classe del popolo e che, essendo molto poveri, e esenti dalle imposte, non erano utili alla repubblica che per i figli che essi generavano. I proletari erano esentati dall’andare in guerra») e si aggiunge poi: «si dice, per estensione, negli Stati moderni
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assistere al recupero di questa parola latina, chiamata a rafforzare la tenuta della
capacità descrittiva della lingua di fronte all’emergere di figure e fenomeni
sociali che sembrano eccedere e al tempo sottrarsi al perimetro che segna le
coordinate tradizionali del corpo politico del popolo. Ma ciò che qui interessa
indagare sono piuttosto le fratture, discontinuità, sfasature dimensionali che
segnano il processo di significazione di questo «neologismo» secondo un ritmo
che pare scandito proprio dal suo rapporto con l’ordine del discorso politico.
Nel 1803 Sébastien Mercier scriveva nel Vocabulaire des mots nouveaux, à
renouveler, ou pris dans des acceptions nouvelles: «proletario è il termine più
ripugnante della lingua; tutti i dizionari, infatti, lo hanno respinto». 204
Un’accezione dispregiativa pare in effetti aver segnato a lungo l’utilizzo
dell’espressione, rappresentandone il prevalente semantico. Al punto che nel
1844 Alphonse de Lamartine scrive nel Du droit du travail et de l’organisation
du travail: «diremo subito perché usiamo ancora questo nome di proletario,
parola immonda, ingiuriosa, pagana che deve sparire dalla lingua come il
proletario stesso deve a poco a poco sparire dalla società». 205 Così la
dichiarazione che egli stesso redigerà per il Governo provvisorio all’indomani
della rivoluzione del 1848 – mostrando come l’esclusione dai diritti politici
continui a lungo a rappresentare la prima determinante semantica del termine –
afferma che «la legge elettorale provvisoria» è la più larga che «abbia mai
convocato il popolo all’esercizio del supremo diritto dell’uomo, la propria
sovranità. Tutti godono del suffragio, senza eccezione alcuna. A partire da
di coloro che non hanno né fortuna né professione sufficientemente lucrativa», Dictionnaire de l'Académie française, Tome 2, Firmin-Didot frères, Paris 1835, pp. 514-515. 204 L. S. Mercier, Néologie ou Vocabulaire des mots nouveaux, à renouveler, ou pris dans des acceptions nouvelles, Moussard Maradan, Paris anno IX (1801), vol. II, p. 380. 205 A. de Lamartine, Du droit du travail et de l’organisation du travail (1844), in L. de Ronchaud (dir.), La politique de Lamartine: choix de discours et écrits politiques. précédé d'une étude sur la vie politique de Lamartine, Hachette, Paris 1878, p. 148. «Ci sono due parole che in questo momento fanno tremare le basi della società, della famiglia e della proprietà; due parole che fanno fremere di paura o di speranza i proprietari e i proletari, quelli che possiedono e quelli che lavorano, quelli che pagano e quelli che sono pagati; queste due parole sono: il diritto al lavoro e l’organizzazione del lavoro» (p. 146). Lamartine in questo articolo segnala e registra la divisione fra la classe dei proprietari e la classe degli operai che segna la società moderna, ma d’altra parte indica la necessità di armonia fra le due parti.
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questa legge, in Francia non vi sono più proletari». 206 E Andrea Lanza,
indagando la «logica discorsiva» dei repubblicani socialisti sotto la monarchia
di Luglio, segnala come alla fine degli anni 1830 si usasse in tali ambienti
brindare All’abolizione del proletariato.207 Insomma è interessante osservare
come, indagando l’emergenza di questo termine nel linguaggio politico si possa
riconoscere una significativa oscillazione semantica, un significato che varia
secondo la posizione che esso viene chiamato a occupare nell’ordine del
discorso politico. Provo dunque a ripercorre le forme di tale oscillazione
attraverso le pagine dell’«Ècho de la fabrique».
Il lemma proletario vi compare la prima volta nel nono numero (25 dicembre
1831), in un intervento di replica all’editoriale del «Journal des débats» che
interpretava la révolte des canuts come sintomo di una novella invasione
barbarica. Esso emerge anzitutto come termine sprezzante che l’avversario
borghese, i sostenitori dei fabricants usano per affossare l’uguaglianza negando
la dignità dell’operaio: «degli uomini non lo guardano che come un essere
talmente inferiore che non si deve occuparsi di lui, e […] credono di averlo
vinto, abbattuto, quando gli dicono: è un proletario».208 È vero dunque che in
prima battuta quest’ultimo termine appare come appannaggio del «padrone» (il
commerciante che esercita, pur indirettamente, un potere economico) che lo
utilizza contro i lavoratori: «che il nome di proletario, nome insultante e
divenuto odioso, sparisca, e che quelli che lo portano trovino in noi aiuto e
soccorso», scrive perciò il 22 gennaio 1832 l’«Ècho de la fabrique». 209
Proletairés entra in scena dunque nel giornale dei mutualisti lionesi come
parola altrui: seguendone gli spostamenti semantici è possibile, a partire da qui,
osservare – ancora con le parole di Rancière – uno di quei «giochi di linguaggio
ove le parole dell’alto sono di volta in volta ricusate e riappropriate», in cui si
«manifesta il legame complesso che lega le forme operaie dell’identificazione
206 «Le Bulletin de la République», 19 marzo 1848, n. 4. 207 A. Lanza, All'abolizione del proletariato! Il discorso socialista fraternitario. Parigi 1839-1847, Franco Angeli, Milano 2010. 208 «Écho de la fabrique», 25 dicembre 1831, p. 1. 209 «Écho de la fabrique», 22 gennaio 1832, p. 2.
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alle forme discorsive dell’ideologia dominante».210 Si deve ricordare che è
ouvriers il termine che i canuts utilizzano per scrivere di se stessi, tanto degli
chefs d’ateliers che dei compagnons, e più in generale delle diverse figure del
mondo del lavoro lionese (circostanza che ribadisce l’ampiezza semantica del
termine):211 il primo accostamento di esso a prolétaire interviene nella formula
del rifiuto del linguaggio altrui, dell’accostamento per opposizione: «che il
Journal des débats abbia avuto la spudoratezza di piazzarlo al di sotto dei
barbari del Caucaso e dei deserti tartari, l’operaio, il proletario disprezza queste
calunnie».212 La prossimità fra prolétaire e la parola con cui i canuts scrivono
di se stessi si produce dunque in prima battuta all’interno di una relazione
oppositiva indotta dall’esorbitante e inaccettabile irruzione dell’espressione
barbari nel dibattito sull’insurrezione di novembre. È poi degno di nota che
anche qui – come nel discorso dei repubblicani sociali – prolétaire interviene
all’interno della relazione complessa fra ouvriers e peuple: che proprio
attraverso la relazione con quest’ultimo è agito il processo di détournement
attraverso cui i tessitori lionesi procedono a farne uno strumento del proprio
discorso politico. «L’operaio oggi sente la sua dignità, e conosce la sua forza.
Che lo si chiami popolo o proletario poco gli importa; sa di essere necessario
nell’organizzazione sociale»,213 si legge ancora nell’articolo del 25 dicembre. A
partire da questa rivendicazione del diritto ad essere contati di rivoluzionaria
memoria, a essere riconosciuti come qualcosa per la società, è possibile
osservare il percorso che dal rifiuto, passando per questa dichiarazione di
indifferenza, muove verso un’appropriazione del termine prodotta attraverso
l’accostamento al concetto rivoluzionario di popolo:214 «Qui es-tu ? je suis
210 Faure, Rancière, La parole ouvière cit., p. 14. 211 Cfr. supra, § 1.2. 212 «Écho de la fabrique», 25 dicembre 1831, p. 1. 213 «Ècho de la fabrique», 25 dicembre 1831, p. 1. 214 Richiamandosi all’analisi dei linguaggi operai di Stedman Jones, Jacques Guilhaumou ha proposto un’analisi lingustica (svolta anche con l’aiuto di un software) di 70 scritti da Antoine Vidal su l’Écho per mettere in evidenza le «forme di lessicalizzazione» dei significanti travailleurs, prolétaires, industriels et ouvriers nella loro configurazione con le nozioni processuali peuple e prolétaire, J. Guilhaumou, De peuple à prolétaire(s): Antoine Vidal, porte-parole des ouvriers dans L’Echo de la Fabrique en 1831-1832, in «Semen», 25, 2008. Si evidenzia un percorso che, in associazione con il termine «classe» finisce per conferire
121
homme du peuple […] c’est-à-dire prolétaire» (6 maggio 1832).215
Un movimento che l’editoriale del primo aprile 1832 mostra limpidamente.
Si comincia indicando nei peuples gli attori di ogni rivoluzione,216 da cui la
classica formula «il popolo sa oggi che egli è per qualcosa nell’organizzazione
sociale». Ancora è al significante classe che si demanda una «mediazione» fra
popolo politico (perché rivoluzionario) e figure sociali «popolari»: un classe
che è «interessante per i servizi che rende allo stato e alla società» (come sopra
il popolo), «questa classe numerosa, infinita, è quella dei proletari».217
È in questo scopo eminentemente popolare che è stato creato l’Ècho de la Fabrique. […] Degli uomini generosi, nati nella classe popolare, si sono associati in quest’opera di coraggio e di generosità. […] Essi pensano anche che gli industriali, i proletari di tutte le arti, di tutti i mestieri si uniranno a loro in quest’opera di interesse generale […]. L’Echo de la Fabrique sera enfin le journal des prolétaires.218
La formula è rilevante perché esprime l’apertura dell’«organo» del
mutualismo dei tessitori della seta verso le altre categorie del mondo del lavoro.
Ovvero quel passaggio in cui tanto la ricerca di De Francesco,219 quanto quella
fondamentale storia dei linguaggi operai nella Francia di prima metà Ottocento
che è Work and Revolution in France: The Language of Labor from the Old
Regime to 1848 di William H. Sewell, individuano lo snodo fondamentale nel
processo che chiamano «nascita della coscienza di classe», interpretandolo
significato positivo alla nozione di proletariato ribaltando la qualificazione che di esso forniva la stampa borghese. 215 «Ècho de la fabrique», 6 maggio 1832 (articolo-racconto Micromegas). 216 «Ècho de la fabrique», 1 aprile 1832, p. 1: «è dai popoli che sono state fatte le rivoluzioni; le une nell’interesse dei grandi uomini, di cui la gloria aveva invaghito le masse; le altre per conquistare la libertà; e da queste è sempre sorta la felicità delle classi inferiori. […] E uno dei più grandi benefici che queste rivoluzioni hanno consegnato ai popoli, è, senza dubbio, la libertà di stampa. […] Ciononostante un oblio poco degno del secolo in cui viviamo era stato commesso: una classe numerosa, […] non aveva organi per difendere i suoi diritti […]. Il tempo era alla fine giunto in cui essa doveva avere un organo; […]. Degli uomini coraggiosi si sono votati alla difesa dei loro fratelli; forti della loro coscienza e dei loro diritti, essi hanno reclamato miglioramenti per questo popolo troppo a lungo infelice e umiliato». 217 Ibid. (corsivo mio). 218 Ibid. 219 De Francesco, Il sogno della repubblica cit.
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come principio motore nella formazione del movimento operaio francese. «Le
agitazioni senza precedenti dei lavoratori nei primi anni 1830 – scrive Sewell –
e specialmente la drammatica insurrezione dei lavoratori di Lione nel 1831 e
1834 hanno inaugurato una nuova dialettica politica del conflitto di classe»,220
che corrisponderebbe all’emergere della solidarietà fra corpi di mestiere diversi
(espressa, secondo questo storico, dalla parola d’ordine dell’associazione che va
traducendo in una realtà nuova le tradizionali istanze e rivendicazioni
corporative).221 Ciò che interessa per il momento rilevare è il decisivo ruolo –
all’interno di questo processo di apertura «intercorporativa» che rappresenta il
vero scarto storico intrapreso in questi anni da movimenti e associazioni di
lavoratori – che nel discorso dei canuts pare assumere il lemma proletari. A
partire dal suo rifiuto in quanto parola altrui usata per s-qualificare l’operaio
negando quell’uguaglianza che è sinonimo di dignità, questa espressione appare
poi investita da un movimento, da uno spostamento semantico che prende
forma dall’irruzione di un’altra parola «dall’alto» – barbari – che ancora agisce
anzitutto sul tema della dignità operaia: attraverso l’opposizione ad essa,
proletari muta la propria posizione nell’ordine del discorso dei tessitori fino
diventare volano di un legame politico fra operai di differenti mestieri.222
220 W. H. Sewell, Work and Revolution in France: The Language of Labor from the Old Regime to 1848, Cambridge University Press, Cambridge 1980, p. 282. 221 Sewell dichiara che questa ricerca ha preso le mosse dall’interrogativo suscitato in lui, nel corso di alcune ricerche sugli operai marsigliesi del diciannovesimo secolo, dal «paradosso» della permanenza di espressioni e linguaggi delle corporazioni abolite nel 1791. Attraverso l'analisi dei mutamenti di significato che alcuni giornali operai attibuiscono a determinate espressioni, viene così sviluppata la tesi che «allo scopo di rendere le loro rivendicazioni essenzialmente corporative comprensibili nel clima liberale stabilito dalla rivoluzione di Luglio, i lavoratori prendono il linguaggio della rivoluzione e lo rimodellano in base ai loro scopi» (ivi, p. 281). Esprimersi nel linguaggio rivoluzionario diviene condizione stessa della possibilità di una parola operaia, di far sì che le proprie rivendicazioni arrivino ad abitare lo spazio pubblico (sfidando al tempo stesso l'individualismo borghese affermato da Luglio). È per far fronte a questa problematica che sarebbe emersa la parola d'ordine dell'associazione, idioma fondamentale che armonizza rivendicazioni operaie e tradizione rivoluzionaria riformulando i principi corporativi e che deve esse letto nell'ambito del filo continuo che lo lega a «corporazione» e «società» (termine che fa riferimento all’importante contaminazione con i clubs repubblicani). Un simile mutamento di idee e linguaggi era stato osservato da Sewell nel periodo 1791-94 in corrispondenza dell’incontro fra le tradizionali corporazioni di mestiere e ideologia sanculotta. 222 Si noti in proposito anche questo passaggio nel giornale dell’«Ècho de la fabrique» del 27 maggio 1832: «Noi non domandiamo che il miglioramento della sorte del proletario».
123
Sewell parla in proposito di confraternité des prolétaires,223 è questo il termine
che, ad esempio, utilizza l’operaio tipografo J-F. Barraud nella lettera di
protesta «linguistica» che invia ai redattori del «Journal des débats»: «cosa vi
hanno fatto tutti i miei confratelli proletari per vomitare così contro di noi delle
imprecazioni furibonde?».224 L’editoriale Du progrès social che l’«Ècho de la
fabrique» pubblica nel giugno 1833 presenta la conclusione politica
dell’itinerario di détournement che ho cercato di seguire, esso si conclude infatti
citando le celebri parole di Sieyès: «Che cos’è il terzo stato? Tutto. Che cos’è
stato fino a oggi nell’ordine politico? Niente. Che cosa domanda? Di essere
qualcosa. Che al posto del nome terzo-stato si metta il nome proletario, e si
troverà che queste questioni sono ancora all’ordine del giorno. Ora, ci si ricorda
di ciò che avvenne quando esse furono poste per la prima volta».225
Il riferimento alla vicenda della grande Rivoluzione è, ripeto, davvero
fondamentale per intendere sia l’utilizzo che il mondo operaio fa del termine
popolo, sia la funzione che questo esercita nel processo di significazione del
neologismo prolétaires. E consente adesso di svolgere un’ultima
considerazione – che introduce l’argomento del prossimo paragrafo –
richiamando ancora il processo alla Sap, ove, nell’autodifesa di Blanqui226
come in quella di Raspail,227 ricorre un accostamento fra i proletari e un uso del
termine popolo colorato di accenni, impliciti o espliciti, alla vicenda del 1789, 223 Cfr. W. H. Sewell, La confraternité des prolétaires: conscience de classe sous la monarchie de Juillet, in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 36, n. 4, 1981. 224 Cit. in Faure, Rancière, La parole ouvirère cit., p. 49. «Ah! Signore, se la patria ebbe il dolore di nutrire nel suo seno dei figli ingrati e dei traditori, non fu mai tra i proletari, ma nelle sommità di questa società, ove si incontra raramente le virtù e il coraggio che ci hanno fatto soprannominare i veri patrioti […] artisti, operai di tutti gli stati, proletari infine» (pp. 51 e 54). 225 «Écho de la fabrique», 9 giugno 1833, p. 1 (corsivo mio) 226 «Gli organi ministeriali ripetono con compiacimento che ci sono delle vie aperte alle lamentele dei proletari. È una derisione. […] Il popolo non scrive sui giornali; non invia petizioni alle camere», Blanqui, Textes choisis cit., p. 63. 227 «Le imposte […] sono sopportate esclusivamente dallo sfortunato proletario che acquista, e non dal proprietario ozioso che vende la sua merce […] I bisogni del popolo che lavora non sono rappresentati da nessuna parte, né alla Camera né nei tribunali. […] Povero popolo! […] su simili basi nessuna società sarebbe stabile; ecco perché tutti i venticinquesimi fogli della Storia di Francia hanno una macchia di sangue […] Ciononostante il popolo è nato per il benessere materiale; ciononostante la natura, dandoci il beneficio di respirare, non ha condannato nessuno di noi a morire di miseria», Société des Amis du Peuple, Procés des quinze cit., p. 71.
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che serve ad affermare la propria interpretazione del recente passaggio di
Luglio. «Per gli uomini dalla vista corta, la rivoluzione del 1830 non ebbe altra
causa che i quindici anni di oppressione che la precedettero», si legge nel
Manifeste degli Amis du Peuple, secondo cui essa è invece «la figlia della
rivoluzione del 1789»: «ne è la continuazione; ne è la fine».228 Vedremo fra
poco che, fatte le debite differenze, tale interpretazione del rapporto 1789-1830
rappresenta la cifra fondamentale dell’esperienza dei dottrinari: sottrarre la
vicenda rivoluzionaria a quell’omonimia con Terrore e violenza che l’ordine del
discorso della Restaurazione aveva istituito, è sforzo comune tanto alla grande
storiografia borghese dei Thierry e Guizot, quanto a quella repubblicana, di cui
in questi anni Étienne Cabet è l’espressione più importante. Se la prima lavora a
liberare 1789 dalle sue ombre distinguendolo da 1793, alla seconda spetta il più
difficile compito di una riabilitazione dell’esperienza nel suo complesso e di
quella che Rosanvallon definisce – datandola a questi anni 1830 – una
«riappropriazione popolare della Rivoluzione francese»:229 sforzo che troverà
forma compiuta solo negli anni 1840 con i Louis Blanc, Buchez, Michelet.230
«Dopo il direttorio […] la direzione e l’organizzazione della società non hanno
avuto in realtà altro scopo che perpetuare al suo interno l’esistenza di due razze
di uomini ben distinte»,231 si legge nell’opuscolo Au peuple della Sap: parole
228 Manifeste de la Sap cit., pp. 18 e 20. 229 Rosanvallon, La rivoluzione dell’uguaglianza cit., p. 269. Figura del proletario e rivendicazione del suffragio politico di questi anni vengono qui analizzate in parallelo a quelle dell’individuo e dell’uguaglianza civile nella vicenda della grande Rivoluzione. 230 Cabet lo fa lungo tutti gli anni 1830 a partire dal citato Révolution de 1830, et situation présente, expliquées et éclairées par les révolutions de 1789, 1792, 1799 et 1804, et par la Restauration, che pubblica proprio in questi mesi e di cui gli Amici del popolo raccomandano caldamente la lettura (cfr. La breve recensione in La voix du peuple cit.). Secondo Jacques Donzelot è solo a partire dagli anni 1840 che i repubblicani democratici condivideranno la possibilità e l’esigenza di sviluppare una nuova storiografia apologetica della Rivoluzione che giustifica esplicitamente gli eccessi della Convenzione attraverso le pressioni della reazione (cfr. J. Donzelot, L'invention du social, Fayard, Paris 1984, pp. 22 sgg.) 231 Société des Amis du Peuple, Au peuple, in Pocés des quinze cit., p. 53. «L’una […] garantita dalle leggi e dalla forma di governo, nel godimento e il possesso pressoché esclusivo del suolo e delle ricchezze nazionali […]. L’altra categoria, composta dal resto della nazione […] vocata all’interdizione politica e alla disgrazia: […] [a]gli orrori della miseria, [a]i mali dell’ignoranza […] È tempo infine di fare conoscere ai popoli la loro posizione reale, di insegnare loro come possono conquistare e conservare i loro diritti, di illuminarli sui loro interessi. […] Delle due classificazioni esistenti nella società, […] la prima, quella che noi chiameremo la categoria dei privilegiati, […] la seconda, quella del popolo […] non riscuote
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che, nel riferimento all’«esistenza di due razze», denunciano l’operatività di una
strategia discorsiva fondata sulla centralità dell’utilizzo politico della storia nel
dibattito pubblico.232 È in parte oggetto del prossimo paragrafo questa torsione
del politico sulla storia (andatasi determinando durante la Restaurazione in
modo speculare a quanto era accaduto nel secolo precedente con la filosofia),
che vede tornare in primo piano nella discussione pubblica l’interpretazione
della storia di Francia in termini di guerra fra le razze, di contesa fra i popoli
indigeni della Gallia e quelli Franchi discendenti dalle invasioni di popolazioni
barbare provenienti dalla Germania. Su di essa i grandi storici liberali innestano
la lettura politica della Rivoluzione in quanto esito di un lungo processo che
riscatta gli antichi vinti facendo giustizia della conquista originaria in seguito
alla quale una razza era stata per secoli oppressa (è a questo ambito che si deve
ricondurre tanto l’affermazione politica del concetto di classe quanto il
dispositivo discorsivo dei nuovi barbari che risponde all’insurrezione lionese).
A un’interpretazione di questo dibattito storiografico Michel Foucault ha
dedicato un corso al Collège de France teso a costruire una genealogia del
«razzismo di Stato». L’ultima lezione si conclude con un riferimento alle
componenti di «razzismo» inerenti le forme del socialismo che – lungo quasi
tutto il corso dell’Ottocento, finché il terreno di analisi e rivendicazione
economica non si imporrà in primo piano – concentrano il proprio discorso sul
tema dello scontro e del conflitto con la controparte. «Si coglie sempre nel
socialismo una componente di razzismo», inteso come diritto di uccidere, di
che la più inifinitamente piccola parte dei frutti dei sui lavori. […] il popolo […] sopporta in definitiva tutto il peso delle imposte» (pp. 53-54). Si riconosce qui operativo anche il discorso che oppone ai lavoratori la massa dagli oziosi, efficacemente riassunto dall’affermazione di Blanqui secondo cui «è sufficiente dire che questa massa di imposte è ripartita in modo da risparmiare sempre il ricco e a pesare esclusivamente sul povero, o piuttosto che gli oziosi esercitano un indegno saccheggio sulle masse laboriose» (Textes choisis cit., pp. 61-62). Una parte del proclama Au peuple è poi dedicata alla critica del concetto dottrinario di civilizzazione, su cui più avanti mi soffermo: «così l’opera del XIX secolo sembrerebbe doversi limitare a fissare i limiti tra le due grandi categorie sociali. Così l’avvenimento di luglio 1830 avrebbe terminato la lotta, e da questo momento comincerebbe per la Francia l’era della libertà» (Au peuple cit., p. 53). 232 Si noti in proposito anche questo passaggio del discorso di Desjardin: «Ci sono presso di noi due popoli: uno è quello che appare, brilla, parla, si agita in superficie […]; c’è un altro popolo al di sotto, immensamente più numeroso […] i proletari», Société des Amis du Peuple, Discours du citoyen Desjardin cit., p. 10.
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eliminare (o di squalificare) il nemico, e il «blanquismo» viene qui annoverato
fra le «forme di socialismo più razziste».233
La griglia di interpretazione storico-politica della guerra delle razze pare
compiutamente all’opera nel discorso con cui Blanqui risponde ai suoi
accusatori, e su di essa pare innestarsi anche la sua «invenzione» del
proletariato. «Sì, Signori, questa è la guerra tra i ricchi e i poveri: i ricchi la
hanno voluta così, perché sono loro gli aggressori. Solamente essi trovano
cattivo che i poveri facciano resistenza»:234 è la guerra la matrice a partire dalla
quale Blanqui organizza la costruzione della figura del proletario come prodotto
dell’azione del governo borghese, essa funziona a partire da un’aggressione, da
un torto originario di cui i proletari sono al tempo stesso le vittime e l’effetto,
torto di cui la Rivoluzione non ha reso giustizia, ma ha mantenuto tale,
legittimando così la permanenza della violenza come strumento del conflitto fra
i contendenti. Gli operai sono perciò quella razza che cercava riscatto nella
rivoluzione del 1830: «gloriosi operai, di cui la mia mano ha serrato la mano
morente in segno di addio […], voi morivate felici in seno a una vittoria che
doveva riscattare la vostra razza; e, sei mesi dopo, ho ritrovato i vostri figli in
fondo alle prigioni».235 Proletari è allora anche il nome inventato per la razza
investita in un conflitto che Blanqui rinviene fra le pagine della storia francese e
interpreta in termini «razzisti» perché la sua risoluzione non è, come nel
233 M. Foucault, «Il faut défendre la societé», trad. it. «Bisogna difendere la società», Feltrinelli, Milano 2009, pp. 226-227. «Prima dell’affare Dreyfus tutti i socialisti, o per meglio dire i socialisti nella stragrande maggioranza, erano fondamentalmente razzisti. E lo erano, credo (e qui concluderò), nella misura in cui non avevano rimesso in discussione e riesaminato quei meccanismi di bio-potere che lo sviluppo delle società e dello stato, a partire dal XVIII secolo, aveva instaurato, ammettendoli invece come qualcosa di naturale. Com’è possibile far funzionare un bio-potere e nello stesso tempo esercitare i diritti della guerra, dell’omicidio e della funzione di morte, se non passando attraverso il razzismo? Il problema era questo, e credo continui, ancora e sempre, ad essere questo» (p. 227). 234 Blanqui, Textes choisis cit., pp. 67 e 69, e prosegue: «essi direbbero volentieri, parlando del popolo: ‘questo animale è così feroce che si difende quando lo si attacca’. Tutta la filippica dell’avvocato generale si può riassumere in questa frase» (ibid.). «Come tutti quelli che hanno lodato la moderazione degli operai di Lione, attaccano così furiosamente un’assemblea di proprietari [la Camera]? Singolari amici del popolo che li lodano di fare una rivolta senza violenza, e che mettono essi stessi tanta violenza nella loro polemica», scriveva il «Journal des débats» del 12 dicembre 1831 contestando coloro che nel regime rappresentativo vedevano il «monopolio dei diritti politici attribuiti a una sola classe». 235 Ivi, p. 69.
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discorso di Thierry e Guizot, la conciliazione dialettica intorno a un universale
di classe, ma l’eliminazione di una delle parti: La rivoluzione di Luglio […] è venuta per servire da complemento alle nostre quaranta annate rivoluzionarie […]. La Francia ha concepito nell’unione sanguinante con seimila eroi; la gravidanza può essere lunga e dolorosa; ma i fianchi sono robusti e gli avvelenatori dottrinari non la faranno abortire. Avete confiscato i fucili di Luglio. Sì; ma le pallottole sono partite. Ciascuna delle pallottole degli operai parigini è in marcia per fare il giro del mondo; esse colpiscono incessantemente; esse colpiranno finché non ci sarà più un solo nemico della libertà e del benessere del popolo.236
Ecco dunque che anche la nozione di razza viene mobilitata all’interno della
costellazione di nomi e categorie che ho cercato qui di tracciare a partire dai
lemmi ouvriers e peuple, e intorno ai quali ho poi registrato l’attivazione – in
un processo, per così dire, di reciproca significazione – di espressioni quali
classe, proletari, iloti, barbari. Quest’ultima sarà oggetto della prossima sezione,
in cui tenterò di indagare forme e ragioni del suo emergere nelle strategie
discorsive che rispondono alla révolte des canuts, anche attraverso la relazione
che essa istituisce con la categoria di razza (la quale, è forse superfluo
sottolinearlo, deve essere qui intesa ancora eminentemente per mezzo di
categorie storico-politiche e non biologiche). Se tale indagine cercherà di
mettere più a fuoco il modo in cui nel discorso la dimensione del «sociale»
acquista significato, nei paragrafi che seguono è sempre la relazione che le
categorie in esame paiono intrattenere con la dimensione del «politico» a
orientare l’analisi. Nella quale introduco adesso il discorso del liberalismo
dottrinario, in cui il concetto di classe viene convocato a una posizione decisiva.
Ed è solo nel successivo capitolo dedicato al nascente discorso del socialismo
che potrò tirare le prime conclusioni sul significato storico dell’emergere del
concetto di classe operaia.
236 Ivi, pp. 67 e 69 (dopo aver introdotto l’insurrezione lionese, nella parte finale della sua arringa, Blanqui pare più volte intendere come sinonimi popolo e proletariato).
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Secondo capitolo La verità della Carta e i suoi «muratori»: il discorso del liberalismo
dottrinario
La nostra situazione si riassume in questi termini assai semplici, abbiamo allo stesso tempo un Governo da fondare e la società da difendere.
François Guizot, discorso alla Camera dei deputati del 21 dicembre 1831.
Quando l’imputato Blanqui introduce nella sua autodifesa il tema della
révolte des canuts, di essa sottolinea anzitutto il prodigioso effetto di mettere
repentinamente in sordina le disquisizioni dei pubblicisti ministeriali intorno
alle teorie dottrinarie sulla natura del regime orleanista.1 Gli uomini della
monarchia di Luglio sembrano in effetti riconoscere la portata delle questioni
che intorno all’insurrezione si sono sollevate, e si mostrano determinati a
intenderle come una sfida per statuire la propria lettura della vicenda
rivoluzionaria in quanto interpretazione autentica, verità legale che deve da ora
informare la condotta degli amministratori. Alle strategie discorsive dei
repubblicani, che puntano a istituire una linea di continuità fra luglio 1830 e
novembre 1831 in corrispondenza di una rappresentazione della figura politica
del popolo animata dalla messa a valore delle figure sociali parziali che la 1 I dottrinari «hanno dato al popolo la servitù all’interno, fuori l’infamia. I proletari non si sono dunque battuti che per un cambio di effige su queste monete che vedono così raramente? […] È l’opinione di un pubblicista ministeriale che assicura che in luglio non abbiamo che persistito a volere la monarchia costituzionale, con la variante di Luigi-Filippo al posto di Carlo X. Il popolo, secondo lui, non ha preso parte alla lotta che come strumento delle classi medie […]. La brochure che contiene queste belle teorie del governo rappresentativo è apparsa il 20 novembre; Lione ha risposto il 21. La replica dei lionesi è parsa così perentoria che nessuno ha detto più una parola sull’opera del pubblicista», Blanqui, Textes choisis cit., pp. 67-68.
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abitano, essi contrappongono la giustapposizione dei due avvenimenti costruita
all’altezza della produzione di un regime di verità della nozione di politica che
qualifica il primo evento escludendo il secondo, che definisce l’uno attraverso
la relazione all’alterità dell’altro.
«Vendicare la rivoluzione di Luglio»: l’interpretazione dell’insurrezione
lionese apre la possibilità di praticare l’obiettivo indicato con queste parole dal
capo del governo Casimir Périer2 nella sua relazione parlamentare sulla rivolta.
Si tratta di vendicarla da un eccesso di nomi, dagli enunciati falsi, dal disordine
delle parole proferite da chi non è autorizzato a parlare in suo nome.
Bisogna insegnare ai popoli che pretendono l’onore di essere liberi, che la libertà è il dispotismo della legge! Bisogna insegnare agli uomini che hanno mal compreso o inebriato i ricordi di luglio, che il fucile delle tre giornate di Parigi era consacrato dalla legge che esso vendicava, e che quello dei giorni di Lione è sporcato dalla rivolta contro le leggi che ha violato! […] Bisogna vendicare la rivoluzione di luglio da pretesi imitatori che la calunniano, persistendo a non vedervi che un’insurrezione contro il potere di allora, quando essa non fu che la punizione dell’insurrezione del potere stesso contro la legge.3
2 Casimir Périer (1777-1832), importante banchiere e imprenditore, era stato eletto deputato a Parigi nel 1817, e aveva praticato una decisa opposizione liberale durante tutta la Restaurazione. Sostenitore della monarchia di Luglio, è presidente della Camera, e viene poi nominato alla guida del governo, e ministro degli interni, il 13 marzo 1831 per affermare una linea più dura rispetto a quella di Lafitte in seguito ai tumumlti anticlericali del febbraio 1831 (cfr. infra quarto capitolo § 4.2). Rimane in carica fino al 16 maggio 1832, giorno in cui muore di colera dopo aver visitato il più grande ospedale parigino insieme al figlio del re. Appena insediatosi il governo dà applicazione all’articolo 30 della Carta del 1830, fissando a 200 franchi di contribuzione diretta il censo per l’ettorato attivo alla Camera dei deputati, e indice per luglio 1831 nuove elezioni (vanno 282 seggi ai liberali, 104 ai legittimisti, 73 ai repubblicani). In autunno 1831 è poi la volta della complessa discussione sull’ereditarietà del titolo di pari di Francia, conclusasi con una formula, giuridicamente assai ambigua, che rafforza il potere di nomina regio. Nelle sessioni parlamentari del 1831 e 1832 vengono discusse e licenziate le leggi su: l’organizzazione municipale, la guardia nazionale, gli attruppamenti, il transit, l’esercito, la riforma del codice penale e del codice di istruzione criminale. Assecondando un motivo cui durante la Restaurazione i dottrinari, Royer-Collard in particolare, avevano dedicato molta attenzione, tali discussioni e provvedimenti ricevono grande pubblicità. «La rivoluzione di Luglio è venuta non a ricominciare, ma a terminare la nostra precedente rivoluzione», afferma Périer alla Camera alcuni mesi dopo il suo insediamento (in «Moniteur Universel», 11 agosto 1831). Un'accurata ricostruzione della sua vicenda personale e politica è M. Bourset, Casmir Perier. Un prince financier au temps du romantisme, Publications de la Sorbonne, Paris 1994. 3 Communication du gouvernement au sujet des événements de Lyon, présentée à la chambre des députés dans la séance du 17 décembre 1831 par M. le président du conseil des
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L’incedere veemente delle parole risponde a quel nome, «resistenza», che la
politica del regime di Luglio ha assunto dopo la scissione consumatasi nel 1831
fra le componenti liberali che avevano sostenuto l’avvento della nuova dinastia.
Esso – contrapposto a quello di «movimento» –4 indica una postura che rifiuta
di pensare il rapporto della rivoluzione del 1830 con la vicenda della Carta
octroyée dalla monarchia borbonica nel 1814 in termini di rottura e si sforza
invece di mostrarne la razionalità immanente rintracciandovi i segni di un
necessario, in qualche modo ordinato, «trapasso del passato nel presente».5
ministres Casimir Périer, Impr. de E. Duverger, Paris 1831, p. 7. La comunicazione, più che sui fatti lionesi, si concentra sull’esporre e difendere i principi dell’azione di governo negli ultimi nove mesi in materia di politica fiscale ed economica, ma anche estera e interna. La parola d’ordine è quella della pace dentro e fuori la Francia: «Questo sistema ha per mezzo, per conseguenza, per appoggio, all’interno, uno spirito di ordine e moderazione che tende a calmare le immaginazioni; un linguaggio sempre coscienzioso che si applica a preservare gli interessi dai malcontenti a cui sono esposti» (p. 15). Questa discussione sugli avvenimenti lionesi che ha luogo alla Camera prima con la comunicazione del governo del 17 dicembre, poi con i dibattiti del 20 e 21 dicembre è teatro dell’atto di accusa di Perièr contro la condotta del prefetto Dumolard, cui imputa l’origine del conflitto, in quanto «intervention irregulière de l'amministration dans les relations privées entre les ouvriers et ceux qui les emploient» (p. 6). Il prefetto risponde citando un passaggio di Des moyens de gouvernement et d’opposition di Guizot: «voi lavorate a fare del potere una vasta menzogna, e domandate che ottenga questo rispetto, questa alta condizione, questa supremazia liberamente concessa che non appartiene che alla verità?» (Dumolard, Compte rendu cit., p. 138). 4 I più autorevoli esponenti della politica del mouvement sono Camille Hyacinthe Odilon Barrot (prefetto della Senna fino ai disordini anticlericali del febbraio 1831), Jacques Lafitte (capo del governo orleanista fino al marzo 1831) e lo scienziato François Jean Dominique Arago. I tre pubblicano il settimanale Le Bon sens, journal populaire de l'opposition constitutionnelle, supplemento al Courrier Français. Il documento più importante dell’opposizione in questi mesi è rappresentato dal Compte rendu des députés de l’opposition du 28 mai 1832 (in Blanc, Histoire de dix ans cit., pp. 480-483) rivolto al re affinchè imprima un carattere più popolare alla politica del regime. Odilon Barrot esibisce sul piano teorico, in particolare sul principio di capacità una significativa prossimità ai dottrinari, tanto che Rémusat scrive di lui: «pensava come noi, era una nostra sfumatura» (Ch. de Rémusat, Mémoires de ma vie, presentazione e note di C. H. Pouthas, Paris, Plon 1958-1960, t. II 1820-1832, p. 548). 5 Prendo il termine in prestito da S. Chignola, Fragile cristallo. Per la storia del concetto di società, Editoriale Scientifica, Napoli 2004, p. 382 («il progresso della storia è, per la storiografia francese della restaurazione, quello che è dato ricostruire nella cogente necessità con cui il passato trapassa nel presente»). Victor Hugo restituisce così la contrapposizione dei due schieramenti parlamentari: «Le masse sociali, le assise stesse della civiltà il gruppo solido degli interessi sovrapposti e aderenti, i profili secolari dell’antica formazione francese – si legge nei Miserabili – vi appaiono e scompaiono ad ogni istante attraverso le nubi procellose dei sistemi, delle passioni e delle teorie», I miserabili cit., p. 753. «È dalla revisione della Carta che data la politica della resistenza» nata contro i tentativi di mutare radicalmente il testo del 1814 per introdurvi principi democratici, scrive Guizot (Mémoires pour servir a l’histoire de mon temps (1859), Laffont, Paris 1971, p. 113). Il suo intervento alla Camera del 19 febbraio 1831 testimonia con efficacia le coordinate politiche con cui il partito della resistenza interpreta la
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Nella formula dell’«insurrezione del potere contro la legge», si riconosce poi
tutta l’influenza teorico-politica che sulla razionalità di governo della
monarchia di Luglio è esercitata dai cosiddetti dottrinari, che, secondo le parole
di Charles de Rémusat, sedevano accanto al presidente del consiglio e «davano
alla sua politica altrettanto vigore nella difesa che chiarezza nella
dimostrazione».6 Lo sforzo di dare profondità dottrinale al passaggio del 1830 e
di affermarla nella pratica di governo, fa di loro allo stesso tempo gli illustri
architetti teorici e le grandi figure istituzionali della monarchia orleanista: tale
coestensività di pensiero e di azione ha inscindibilmente legato il nome e
l’opera di Pierre-Paul Royer Collard,7Camille Jordan (che pure muore prima
propria inziativa in continuità con il periodo della Restaurazione: «Qu'a promis la Restauration? Elle a promis de résoudre le problème, de concilier l'ordre et la liberté. C'est sous cette bannière que la Charte a été donnée. La Restauration portait en elle-même un principe. Elle avait accepté dans la Charte des principes de liberté; elle avait promis de les constituer; mais elle faisait cette promesse sous le drapeau de l'ancien régime, sur lequel avait été écrit pendant tant de siècles: Droit divin. Elle n'a pu résoudre le problème. Elle est morte à la peine, accablée par le fardeau. C'est à nous, à la révolution de Juillet que cette tâche a été imposée; c'est notre devoir et notre situation d'établir délinitivement, non pas l'ordre seul, non pas la liberté seule, mais l'ordre et la liberté en même temps. Il n'y a aucun moyen d'échapper à cette double mission», F. Guizot, Histoire parlementaire de France. Recueil complet des discours prononcés dans les Chambres de 1819 à 1848 par M. Guizot, vol. I, Lévy, Paris 1863, p. 221. 6 Ch. de Rémusat, Mémoires de ma vie, Presentazione e note di C. H. Pouthas, Plon, Paris 1958, tome II, p. 526. Le evidenze storiche inerenti i dottrinari riguardano in primo luogo l’ironica nota con cui si sottolineva il loro numero esiguo affermando che potevano raccogliersi tutti seduti su un canapé («Alors comme à présent ces messieurs faisaient tenir la France sur un canapé», afferma Blanqui parlando della rivoluzione di luglio, Textes choisis cit., p. 66). Essi paiono in effetti più un cenacolo di amici che condividono la passione politica che un vero e proprio partito. Riviste e giornali e oppositori sono soliti rimarcarne i toni gravi e accusarli di essere dediti agli intrighi da salotto. Cfr. D. Bagge, Les Idées politiques sous la Restauration, Puf, Paris 1952, J. J. Chevallier, La pensée politique des doctrinaires de la Restauration, in Etudes et documents du Conseil d'Etat, Paris 1964, P. Bénichou, Le Temps des prophétes, doctrines de l'age romantique, Gallimard, Paris 1977. 7 Pierre-Paul Royer-Collard (1763-1845), avvocato giansenista, aderisce alla Rivoluzione e viene eletto ai Cinquecento. In seguito alla propria epurazione, si convince che la Francia può trovare pace solo con il ritorno dei Borbone. Dopo essersi ritirato a vita privata durante l'Impero, nel 1811 consegue la cattedra di storia della filosofia alla Sorbona, ove il suo insegnamento si concentra sui fondamenti della dottrina spiritualista, i suoi corsi sono seguiti, fra gli altri da Jouffroy e Cousin che aderiranno poi all’esperienza dottrinaria. La Restaurazione fa ministro degli interni il suo amico Montesquoiu, che lo nomina consigliere di Stato, diviene poi presidente del consiglio reale della pubblica istruzione. Eletto deputato nel 1815, lo rimarrà fino al 1842 (sarà presidente della Camera nel 1828-30). È Royer-Collard a portare nel luglio 1830 il famoso indirizzo dei 221 a Carlo X, il cui rifiuto farà scoppiare la rivoluzione. Il suo pensiero politico si ricava soprattutto dai discorsi tenuti nel corso della Restaurazione (saranno raccolti da P. de Barante nei due volumi La Vie politique de M. Royer-Collard, ses discours et ses écrits, Didier, Paris 1851), nel corso della quale diviene sempre più liberale. L’impossibilità di rappresentare la volontà individuale e il ripudio della sovranità popolare, avatar della forza,
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della rivoluzione del 1830),8 Prosper de Barante,9 Victor de Broglie,10 Rémusat
stesso11 e – su tutti – François Guizot12 ai destini del regime di Luglio e alla sua
forma particolare di dispotismo, sono i cardini del suo pensiero, accanto al rilievo delle associazioni (famiglia, comune etc.) poste fra individuo e Stato, e alla centralità della Carta. Questa rappresenta il giusto compromesso con il passato e apre l’era dei governi rappresentativi mantenendo la monarchia che ha segnato tutta la storia di Francia (mentre quella inglese è stata maggiormente modellata dall’aristocrazia). La Carta del 1814 è «il fatto stesso della società» e concilia nella pace gli interessi della Francia antica e della nuova Francia nata dalla Rivoluzione, rappresentando tutti gli interessi del paese: la monarchia (che è assai più del «potere neutro» di Benjamin Constant), la Camera dei pari che incarna l'interesse aristocratico, e la camera eletta che rappresenta quello democratico, il cui corso da secoli inarrestabile è interpretato dalla classe media. La Carta ha così ricostituito il governo, ma bisogna anche ricostruire una società individualizzata e spersonificata dalla Rivoluzione: di qui la centralità della pubblicità e della libertà di stampa che consentono all’opinione di svolgere questa funzione. «I discorsi di Royer-Collard sono oggi così poco letti, che apparirà come un’impertinenza il dire che sono meravigliosi, che la loro lettura è una delizia intellettuale, che sono piacevoli e persino divertenti, e che costituiscono l’ultima manifestazione del miglior stile cartesiano», scrive Ortega y Gasset (La rebelión de las masas (1930); trad. it. La ribellione delle masse, Se, Milano 2001, p. 24 nota 9). Cfr. G. Remond, Royer-Collard, son essai d’un systeme politique, Sirey, Paris 1933, R. Langeron, Royer-Collard, Un conseiller secret de Louis XVIII: Royer-Collard, Hachette, Paris 1956, P. Cella Restaino, Il termine répresentation nei discorsi politici di Royer-Collard, in «Il Pensiero politico», 1995. 8 Camille Jordan, nato nel 1771, muore nel 1821 e non partecipa dunque alla vicenda della monarchia di Luglio, ma è considerato il padre intellettuale dei dottrinari. Cattolico ardente ma con grande fede nella ragione, aveva convintamente aderito alla Rivoluzione nel 1789, deputato ai Cinquecento ove fa amicizia con Royer-Collard, nel 1793 aderisce all'insurrezione federalista di Lione e deve poi scappare in Germania. Si oppone all'Impero, con la Restaurazione è eletto deputato e lotta contro la politica reazionaria del secondo ministero Richelieu, grande oratore politico. Nel 1826 viene pubblicata una raccolta dei suo discorsi (C. Jordan, Discours, J. Renouard, Paris 1826). 9 Prosper de Barante (1782-1866), pur non aderendo mai con entusiasmo all’Impero, va in missione in Spagna, Prussia, Polonia, e viene poi nominato prefetto. Sotto la Restaurazione è consigliere di Stato e dal 1819 pari di Francia, nel 1820 viene ricacciato all’opposizione. La politica ha sempre un ruolo di secondo piano rispetto ai suoi studi storici, filosofici, letterari: nel 1821 pubblica Des communes et de l'aristocratie (Ladvocat, Paris), libro importante che suscita un certo dibattito, nel 1824-26 escono i 12 volumi della sua grande opera, l’Histoire des ducs de Bourgogne, de la maison de Valois 1364-1477 (Lacour, Nimes). La monarchia di Luglio lo fa ambasciatore a Torino. Nel 1894 pubblica le sue memorie, Souvenirs du Baron de Barante de l'académie francais (Calman-Levy, Paris) a cui faccio più avanti riferimento. 10 Victor de Broglie (1785-1870), duca, eredita dal padre, ghigliottinato durante il Terrore, il titolo d Pari di Francia. Nel 1819 si unisce ai dottrinari (sarà fra loro il più fervente anglofilo) e per tutta la vita resterà amico di Guizot. Due volte è presidente del consiglio sotto la monarchia di Luglio ma intrattenendo sempre cattivi rapporti con il re. Nel 1863 pubblica in tre volumi i suoi Écrits et discours (Didier, Paris), il figlio ne pubblica poi alcune memorie (Souvenirs du feu duc de Broglie 1785-1870 publiés par son fils le duc C.-J.-V.-A. de Broglie, C. Lévy, Paris 1886). 11 Charles de Rémusat (1797-1875), duca, è il più giovane dei dottrinari (si lega al gruppo intorno al 1819). Intraprende la carriera di giornalista collaborando al «Courrier français», alla «Revue des Deux-Mondes», al «Globe», traduce Gœthe e Cicerone e firma nel luglio 1830 la protesta dei giornalisti contro le leggi sulla stampa. Eletto deputato nel 1830 sarà ministro degli interni nel 1840. Nel 1846 subentra a Royer-Collard all’Accademia di Francia. Dopo aver rotto con la politica conservatrice di Guizot, partecipa in seguito alla rivoluzione del 1848 all’Assemblea costituente. Proscritto dopo il colpo di Stato del 1851, rientra in Francia
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disfatta quarantottesca, e ha probabilmente contribuito a lasciarli a lungo
immersi in un cono d’ombra nella storia delle idee.13
l’anno dopo, aderisce all’Impero, e sarà ministro degli esteri del governo Thiers nel 1872. Membro dell’Accademia delle scienze morali e politiche, fra i suoi scritti rilevano in particolare i cinque volumi delle Mémoires de ma vie a cui faccio più volte riferimento. Sul suo pensiero cfr. in part. D. Roldan, Charles de Rémusat: certitudes et impasses du libéralisme doctrinaire, L'Harmattan, Paris 1999. 12 François Guizot (1787-1874), nato nella Languedoc da una famiglia della borghesia calvinista, il padre viene ghigliottinato drante il Terrore. Studia all’Accademia di Ginevra, e si trasferisce a Parigi nel 1805, ove scrive articoli di letteratura e fa alcune traduzioni. Nel 1812 sposa Pauline de Meulan, consegue la cattedra di storia moderna alla Sorbona e si lega a Royer-Collard. Nel 1814 Montesquiou lo chiama al ministero dell’Interno come segretario generale, segue la redazione del rapporto sulla situazione interna della Francia, l’anno dopo si sposta al ministero della Giustizia. Nominato consigliere di stato nel 1817 segue il progetto di legge sulla stampa del 1819. Per diffondere le idee dei dottrinari fonda gli «Archives philosophiques et littéraires», e poi «Le Courrier». La reazione ultrarealista che segue l’omicidio del duca di Berry lo allontana dall'amministrazione e poi anche dall’insegnamento universitario (nel 1820 teneva alla Sorbona il suo corso sulla storia del governo rappresentativo). Nel 1820-22 pubblica quattro accesi e importanti pamphlet di opposizione alla politica conservatrice intrapresa dal governo. Nel 1821 partecipa alla fondazione della Société de la morale chrétienne, scrive su «Les tablettes universelles» (fondato nel 1822) e su «Le Globe» (1824). Nel 1826 lancia L’Encyclopédie progressive e l’anno successivo presiede alla creazione della società Aide-toi, le ciel t’aidera che si prefigge e consegue l’obiettivo della sconfitta degli ultrarealisti nelle elezioni del 1827. Nel 1828 partecipa alla fondazione della Revue française, fra il 1828 e il 1830 insegna ancora alla Sorbona ove tiene i suoi importantissimi due corsi di storia della civilizzazione, europea il primo, francese il secondo, nel gennaio 1830 viene eletto deputato del Calvados. La monarchia di Luglio lo allontana dalla scrittura per coinvolgerlo completamente nell’attività di governo: è ministro degli interni per alcuni mesi dall’agosto 1830 e poi ministro dell’istruzione fra 1832 e 1837: realizza l’importantissima legge sull’istruzione primaria del 1833, ricostituisce l’Accademia delle Scienze Morali e Politiche, lancia un ampio programma di pubblicazioni sulla storia di Francia. Nel 1836 viene eletto all’Académie française, per alcuni anni è all’opposizione di Thiers, alla fine del 1839 è ambasciatore a Londra. In ottobre 1840 è nominato ministro degli esteri (ed è il capo di fatto del governo Soult), rimarrà tale fino alla rivoluzione del 1848, acquisendo anche il titolo di presidente del consiglio nel settembre 1847. Dopo le giornate di febbraio si rifugia in Inghilterra, e si ripresenterà poi alle elezioni del 1849, incorrendo in una vera debacle. Si mostra del tutto incapace di interpretare la rottura quarantottesca, ripiega su una postura sempre più conservatrice, sostiene la fusione monarchica della due case reali e si ritira dalla vita politica dopo il colpo di Stato napoleonico del 1851. Pubblicherà allora numerosi studi sull’Inghilterra e fra 1858 e 1867 gli otto tomi delle sue memorie. Sull’opera di Guizot cfr. infra nota 25. Fra i lavori biografici su Guizot si segnala in particolare l’opera di Pouthas (cfr. infra il presente §), M. Maire, Guizot et ses cousins genevois d'aprés des lettres inédites, in E. Martini (dir.), Mélanges offerts à Paul, Comité des Mélanges, Genève 1961, J. Schlumberger, Les Influences féminines dans la vie de François Guizot, Mercure de France, Paris 1963, G. de Broglie, Guizot Perrin, Paris 2002, id. L’itinerarire Guizot, in M. Valensise (dir.), François Guizot et la culture politique de son temps, Gallimard, Paris 1991, Laurent Theis, François Guizot, Fayard, Paris 2008. 13 Il gruppo dei dottrinari non ha confini serrati, ai nomi citati si possono aggiungere quelli del conte Hercule de Serre (1776-1824) che si allontana dal gruppo in corrispondenza della rottura del 1820, Pellegrino Rossi (su cui cfr. infra § 2.4), Victor Cousin (1792-1867), Jean-Philibert Damiron (1794-1862) e Théodore Jouffroy (1796-1842). Scrive Rémusat sulle origini del sodalizio: «questo partito che ho conosciuto così bene. Nasceva dunque allora. Si componeva di Royer e di Camille, a cui si aggiungeva Serre, allora silenzioso perchè presiedeva la Camera, e a cui si era riunito Beugnot, associazione che non durerà ancora che due anni.
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«Bisogna sempre ricordarsi che il carattere democratico della società
francese non era da nessuna parte più riconosciuto e più affermato che nel
mondo dottrinario», 14 scriveva alla fine degli anni 1850 Rémusat, forse
avvertendo già come la postura conservatrice della loro condotta politica
avrebbe finito per oscurare durevolmente la profondità della loro interrogazione
sulla propria epoca. Le mauvais genie de la royauté française: la definizione
che il Grand dictionnaire universel du XIXe siècle di Larousse propone alla
voce Guizot ben restituisce la fama consegnata dal suo secolo a questo
pensatore: l’esortazione Enrichissez-vous!, la Santa alleanza contro lo spettro
del comunismo evocata nelle prime righe del Manifesto,15 il clamorosamente
ostinato rifiuto di riconoscere la stessa possibilità storica del suffragio
universale che anticipa e contribuisce a provocare la rivoluzione del 1848,16
sono in effetti i sinonimi che la memoria storica democratica ha vergato accanto
al suo nome.17
«Il fatto scandaloso è che non esiste un solo libro nel quale si sia tentato di
precisare il pensiero di quel gruppo di uomini», lamenta nel 1937 José Ortega y
Gasset. Nel prologo per i lettori francesi di La rebelión de las masas, questo
autore presenta il pensiero storico-politico dottrinario come uno dei punti più
alti della riflessione ottocentesca, indispensabile alla comprensione della storia
del secolo, definendo assai riduttiva la sua interpretazione in termini di
conservatorismo, 18 contribuendo così a indurne il primo tentativo di
Fuori dalla Camera, Barante, Mounier, Guizot, passavano a giusto titolo per essere dello stesso partito. Si poteva anche contarvi Germain, allora prefetto di Sine-et-Marne; ma non bisogna ancora mettervi Broglie, che era fino ad allora dal lato puro di sinistra», Mémoires de ma vie cit., tome I, pp. 333-334. 14 Rémusat, Mémoires de ma vie cit., tome II pp. 540-541. 15 «Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro», K. Marx, F. Engels, Manifest der kommunistischen Partei (1848, in MEW IV, pp. 459-493); trad. it. Manifesto del Partito Comunista, Introduzione di E. Sanguineti, Meltemi, Roma 1998, p. 26. 16 Cfr. infra, § successivo. 17 Sul tema cfr. anche P. Cella Ristaino, Il termine doctrinaire nella pubblicistica dell’Ottocento, in «Il pensiero politico», 2, 1992, pp. 287-297. Su Guizot come conservatore politico cfr. E. L. Woodward, Three Studies in European Conservatism: Metternich, Guizot, the Catholic Church in the Nineteenth Century, Archon Books, Hamden 1963. 18 «Voglio avere il coraggio di affermare che questo gruppo dei dottrinari di cui tutto il
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ricostruzione e interpretazione sistematica.19 Ma, eccezion fatta per le ricerche
di Pouthas,20 è solo alla metà degli anni Ottanta che l’opera dei dottrinari
diviene in Francia oggetto di significativa attenzione da parte degli studiosi. Lo
fa in particolare grazie al lavoro di Pierre Rosanvallon, che all’espressione
«moment Guizot» ha voluto ricondurre non solo l’intera esperienza dottrinaria,
ma il cuore della cultura politica liberale francese del periodo 1814-48.
Indagare questa fase nella sua originalità e autonomia, lavorando a strapparla
mondo ha riso, si è fatto beffe sguaiate, è a mio parere, quanto di più valido abbia avuto la politica del continente durante l’Ottocento. Sono stati gli unici a vedere con chiarezza che cosa bisognava fare in Europa dopo la Grande Rivoluzione. […] hanno pensato, pensato profondamente, in modo originale, i più gravi problemi della vita pubblica e hanno costruito la dottrina politica più considerevole di tutto il secolo. Non sarà possibile ricostruire la storia di quel secolo se non si acquista dimestichezza con il modo con cui le grandi questioni sono state affrontate da questi uomini. […] nessuno può restare con la coscienza tranquilla – si intende chi abbia una ‘coscienza’ intellettuale quando interpreti la politica di ‘resistenza’ come puramente conservatrice. É fin troppo evidente che gli uomini Royer-Collard, Guizot, Broglie non erano soltanto dei conservatori. […] Se fossero in vita oggi, avrebbero riconosciuto il diritto di sciopero (non politico) e il contratto collettivo», Ortega y Gasset, Prologo per i francesi, in La ribellione delle masse cit., pp. 23-25. 19 L. Diez del Corral, El liberalismo doctrinario, Instituto des estudios politicos, Madrid 1945. Corral riprende, citandolo lungamente, le osservazioni di Ortega y Gasset sulla mancanza di uno studio specifico e veramente comprensivo sui dottrinari, e annuncia di voler colmare tale lacuna. Si sottolinea la mancanza di sistematicità del pensiero dottrinario e dunque la necessità di mobilitare una pluralità di fonti differenti per ritrovare «l’intima unità di tale tendenza», che non è stata una mera scuola politica, ma «una nuova direzione filosofica, caratteristica della prima metà del secolo francese, e una nuova maniera di intendere la storia politica, dando, nello stesso tempo, coesione a un determinato sostrato sociologico» (p. 19). «I dottrinari non solo ebbero cattiva sorte ai loro giorni, ma hanno continuato ad averla anche dopo, perchè hanno avuto una fama assai scadente e, quello che è peggio, di una attenzione molto scarsa da parte degli storici e politici. La prima domanda che si deve porsi parlando dei dottrinari è perchè la posterità li ha tenuti così poco in conto» (p. 14). Corral realizza così un'importante opera di ricostruzione storica, politica e teorica dell'esperienza dottrinaria, mettendola poi in relazione al pensero politico e al liberalismo spagnolo del XIX secolo, «la traiettoria seguita dalla politica francese” […] è una storia particolarmente interessante per noi per la sua somiglianza con quella spagnola […] in parte per influsso diretto, e in misura maggiore per somiglianza di condizioni e circostanze» (pp. 13-14). Di questo autore cfr. anche Tocqueville et la pensée politique des doctrinaires, in AA. VV. Alexis de Tocqueville, livre du centenaire, Ed. du C.N.R.S., Paris 1960. 20 Charles-Hippolythe Pouthas, a partire dalla sua tesi di dottorato del 1923, è stato nel ventesimo secolo il primo fra i pochi studiosi a concentrarsi su Guizot, ma sfortunatamente questo studioso non ha mai portato a termine il lavoro che progettava su Guizot durante la monarchia di Luglio e le sue ricerche si fermano alla fine del periodo della Restaurazione (Guizot pendant la Restauration, préparation de l'homme d'Ètat, Plon-Nourrit, Paris 1923; Les Élections de Guizot dans le Calvados, d'après des documents inédits, Ambroise, Caen 1920; Essai critique sur les sources et la bibliographie de Guizot pendant la restauration, Plon-Nourrit, Paris 1923, Une famille de bourgeoisie française, de Louis XIV à Napoléon, Plon-Nourrit, Paris 1934, La jeunesse de Guizot (1787-1814), Puf, Paris 1936). Douglas Johnson ha poi ripreso in ambito anglosassone tale lavoro pubblicando, Guizot, Aspects of French History (1787-1874), Routledge, London 1963.
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alle teleologie in cui i canoni storiografici l’avevano saldamente inscritta
fondamentalmente in termini di transizione (apprendistato liberale di governo,
incerto debutto di un modello politico democratico etc.):21 è questo un movente
esplicito della ricerca di Rosanvallon, che ne segna anche molti studi
successivi. Mostrando il modo in cui l’opera dei dottrinari acquisti piena
intellegibilità solamente cogliendola come una «messa in opera»,22 questo
studioso ne rivela la reticenza a essere compresa secondo i canoni classici della
filosofia politica:23 oltre a conferire uno statuto teorico più complesso ai motivi
dell’oblio, ciò pare già delineare le coordinate di quello che sarà il suo progetto
di una «storia globale del politico». Produrre un’«intersezione dinamica tra la
storia delle idee e la storia politica, se non la storia tout court», e «abolire anche
la distanza tra la filosofia politica e la storia politica come campo di interazione
fra l’arte di governo e le determinazioni proprie della vita sociale», 24
mobilitando così un’eterogenea pluralità di fonti: sono queste alcune
indicazioni di metodo che Rosanvallon indica per poter compiutamente
afferrare la «cultura politica dottrinaria». Indicazioni che segneranno anche i
suoi lavori futuri, e a cui anche la presente ricerca vorrebbe in qualche modo
21 «Tutto accade come se la storia e l’opera dovessero cancellarsi dietro un determinismo sociologico (l’ascesa della borghesia) ed economico (lo sviluppo del capitalismo) di cui sarebbero implicitamente supposti essere stato nient’altro che il riflesso. Questo oblio ha dunque in qualche modo uno statuto teorico» (P. Rosanvallon, Le Gramsci de la bourgeoisie, prefazione a F. Guizot, Histoire de la civilisation en Europe, Hachette, Paris 1985, pp. 11-12). Sul tema cfr. anche i più recenti J.-Y. Mollier, M. Reid, J.-C. Yon (dir.), Répenser la Restauration, Nouveau Monde, Paris 2005 e M. Price, The Perilous Crown. France between Revolutions 1814-1848, Macmillan, London 2007 22 «Guizot non poteva concepire la sua opera politica che come un messa in opera; voleva iscriverla in delle istituzioni per effettuarla. […] non è un filosofo politico […] non ha pubblicato nessuna 'grande opera' sistematica sul politico. Sono le questioni di tecnologia politica che lo mobilitano. Il suo scopo è fondare il governo costituzionale respingendo l'Ancien Régime, e non di pensare, in sé, i rapporti fra potere e libertà. […]«i dottrinari non sono solo degli ‘autori i cui scritti avrebbero un’esistenza unicamente relativa al campo dei problemi del loro tempo […] la particolarità del loro statuto risiede in realtà nel fatto che essi sono stati indissocibilmente degli intellettuali e degli uomini d’azione. […] È una cultura politica imbricata in una pratica di governo che si deve afferrare, ciò che si chiama in Italia una ‘cultura di governo’», ha scritto Rosanvallon affermando che l’opera di Guizot sarebbe allora il «sistema storico della interazione» fra i suoi scritti e la sua pratica politica (Le moment Guizot cit., pp. 31, 37 e 266). 23 «Un oggetto globale di cui la figura ci resiste in maniera strana. Non c’è concetto politico usuale che possa afferrare adeguatamente questo oggetto per dargli l’unità del suo nome», Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 266. 24 Ivi, p. 266.
137
provare a orientarsi.
È dunque all’altezza di questo intreccio di pensiero e di azione che vado ora
a indagare alcuni elementi del discorso politico dottrinario nel frammento di
storia in esame, facendo in particolare riferimento all’opera di François
Guizot25 (e alla sua «messa in opera»). Cercherò in primo luogo di restituire
25 Riporto adesso in ordine cronologico le principali opere di François Guizot, indicando fra parentesi le edizioni cui nelle prossime pagine faccio riferimento. Nel 1820 tiene alla Sorbona il corso di storia che sarà pubblicato dopo un’accurata revisione nel 1851 con il titolo Histoire des origines du gouvernement représentatif et des institutions politiques de l’Europe depuis la chute de l’Empire roman jusqu’au XIVe siècle (Didier, Paris: cito il primo volume nella quarta edizione del 1880, il secondo nella prima edizione del 1851). In seguito all’omicidio del duca di Berry e della reazione ultrarealista viene allontanato prima dal consiglio di Stato e poi dall’insegnamento universitario, pubblica tre accesi testi di opposizione alla politica intrapresa dalla Restaurazione: nell’ottobre 1820 Du gouvernement de la France depuis la Restauration et du ministère actuel (Ladvocat, Paris 1820) che ha un grande successo di pubblico (cfr. infra § 2.5)) e alla cui terza ristampa aggiunge un importante premessa pubblicata anche separatamente con il titolo Supplément aux deux premières éditions. Du gouvernement de la France depuis la Restauration et du ministère actuel, par F. Guizot. Avant propos de la troisième édition, (Ladvocat, Paris 1820), nel febbraio 1821 Des conspirations et de la justice politique (Fayard, Paris 1984), nell’ottobre 1821 il celebre e fortunato Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France (Belin, Paris 1988 con introduzione di Claude Lefort), nel giugno 1822 De la peine de mort en matière politique (Fayard, Paris 1984). Nel 1826 pubblica nell’Encyclopedie progressive l’importante voce Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux (in F. Guizot, Discours académiques suivis de trois essais de philosophie littéraire et politique, Didier, Paris 1861): questo testo insieme all’articolo De la démocratie dans les sociétés modernes (pubblicato in forma anonima sulla «Revue française» del novembre 1837) compone alcuni importanti elementi dell’unico, mai terminato nè pubblicato lavoro di Guizot specificamente inerente la filosofia politica, Philosophie politique: de la souveraineté (in F. Guizot, Histoire de la civilisation en Europe, a cura di P. Rosanvallon, Hachette, Paris 1985, pp. 319-389). Per alcuni scritti politici minori di questi anni si farà inoltre riferimento a Mélanges politiques et historiques (Calmann Lévy, Paris 1881, in particolare per: Du gouvernèment representative en France en 1816, De la situation politiques et de l'état des esprits en France en 1817, Des élections et de la société Aide-toi, le ciel t'aidera en 1827, De la session de 1828). Nel 1828 ritorna all’insegnamento universitario per restarvi finchè nel 1830 il regime di Luglio lo chiama a incarichi di governo: sono i due importantissimi corsi sulla storia della civilizzazione, pubblicati poi con il titolo Histoire générale de la civilisation en Europe depuis la chute de l’Empire romain jusqu’à la Révolution française (trad. it. di A. Saitta Storia della civiltà in Europa, Einaudi, Torino 1956) e Histoire de la civilisation en France depuis la chute de l’Empire romain (Didier, Paris 1832, cito il IV volume nell’edizione Masson, Paris 1851). Guizot scrive la parte più consistente, significativa e importante della sua opera durante la Restaurazione, dopo la rivoluzione di Luglio l’attività politica gli lascia ben poco tempo per lo studio e la scrittura, ma i primissimi anni del nuovo regime sono preziosi perché Guizot opera nella piena convizione della possibilità di tradurre le riflessioni svolte in oltre dieci anni insieme agli altri dottrinari dento una forma politica costituita. Le più importanti testimonianze del suo pensiero durante questi anni sono i discorsi parlamentari (che confermano e precisano l’apparato teorico sviluppato negli anni 1820), raccolti e pubblicati nei cinque volumi Histoire parlementaire de France. Recueil complet des discours prononcés dans les Chambres de 1819 à 1848 par M. Guizot (Michel Lévy Frères, Paris 1863-64), il primo tomo reca come introduzione il lungo testo Trois générations 1789-1814-1848. Nel gennaio 1849 pubblica De la
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alcune coordinate della temperie storica, politica e culturale in cui tale discorso
si forma e agisce, e del modo in cui in essa emerge il problema della
nominazione di figure sociali intente ad affacciarsi sulla scena della politica
francese. A partire da qui provo quindi a sottolineare alcune peculiarità del
modo in cui il discorso politico dottrinario abita il campo di problemi posti
dalla propria epoca, per poi procedere a un’indagine dell’interpretazione che
tali milieux offrono dell’insurrezione lionese e, attraverso questa, della natura
della rivoluzione di Luglio. L’importanza che la presente ricerca accorda alla
riflessione e all’iniziativa dei dottrinari ha a che fare tanto con il rilievo politico
della loro iniziativa di governo in questo specifico tornante storico quanto con
quello teorico che si suole riconoscergli nell’ambito della storia delle idee per
aver significativamente contribuito a introdurvi il concetto di classe sociale
declinandolo storicamente e politicamente. All’elaborazione di tale concetto e
al modo di intendere la sua relazione con la dimensione del politico, sono
perciò dedicati gli ultimi due segmenti del presente paragrafo. Tornerò a
soffermarmi sulla teoria politica dottrinaria nel corso del prossimo capitolo per
indagarne la specifica concezione del potere, del suo rapporto con le dimensioni
del governo e della società, e alcune sue declinazioni nella concreta iniziativa
istituzionale.
2.1 L’angelo della storia
«L'effetto prodotto dalla sedizione degli operai di Lione è stato grande […] il
tempo guarirà questa malattia inevitabile di una rivoluzione popolare per quanto
giusta e moderata essa sia stata?»: la domanda che Prosper de Barante,
ambasciatore a Torino, scrive al ministro degli esteri Sebastiani, dice del nervo
sensibile che l’iniziativa dei canuts ha toccato, e fa cenno a quel nome, malattia
démocratie en France (Plon-Masson, Paris 1849), ove discute la recente vicenda rivoluzionaria. Fra 1858 e 1867 dà alle stampe gli otto volumi di Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps (Laffont, Paris 1971, e i capp. XIII e XIV del tomo II nell’edizione Michel Lévy Frères, Paris 1859), che arrivano fino alle giornate di febbraio 1848.
139
sociale, che – soprattutto in seguito all’epidemia di colera del 1832 – sempre
più spesso serve a designare le «disposizioni generali delle classi inferiori a
dispiegare la forza del numero».26 Sono anni in cui lo stesso fluire storico degli
eventi sembra ai contemporanei esibire qualcosa di patologico: prima di
soffermarmi sui tratti specifici del discorso dottrinario, è bene attardarsi su
alcuni sintomi, per così dire, «culturali» di questa percezione della storia, su ciò
che si potrebbe chiamare lo «spirito del tempo» in cui emerge il problema della
nominazione di nuove figure sociali e popolari.
«La Francia della Rivoluzione non è ancora stabile né costituita; l’incertezza
e la confusione regnano ancora nel suo seno; il bene e il male, il vero e il falso,
gli elementi dell’ordine e i semi dell’anarchia vi fermentano ancora nella
confusione e nell’azzardo; […] come gli Israeliti abbiamo dunque allo stesso
tempo da stabilirci e da difenderci», 27 scriveva Guizot nell’ottobre 1821,
tracciando il ritratto di «una società recentemente sconvolta» in cui, afferma
l’anno dopo, «tutto è ancora oscuro e confuso». 28 All’indomani della
rivoluzione di Luglio, ribadirà ai colleghi deputati un medesimo sentimento di
precarietà: «non una convinzione generale e forte che avvicini gli spiriti, non un
potere che sia fermamente rispettato».29 Guardando alle proprie spalle, uomini e
donne della Restaurazione, e poi del regime orleanista, paiono scorgere
anzitutto immagini di caos e rovine, il disordine di un divenire storico incapace
di sottrarsi alla potenza degli avvenimenti. «Ed eccoci là – ricorda Charles de
Rémusat – dopo diciotto anni, ancora allo stesso punto, incapaci di veder chiaro
l’avvenire, né di confidare nel presente».30 In quattro decadi la Francia ha
26 P. B. Baron de Barante, Souvenirs du Baron de Barante de l'académie francais, cit., tome IV 1830-1832 pp. 393-394. La lettera è datata 5 decembre 1831, Barante spiega che in Piemonte l'insurrezione di Lione fa dubitare del carattere della rivoluzione di Luglio e dell'autorità morale del nuovo governo sulle classi inferiori: «sarebbe una circostanza politica più grave perfino di un complotto ordito da tale o tale fazione. È questo che si è dubitato» (p. 393). 27 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., pp. 38 e 41. «Da trent’anni, gli avvenimenti sono stati allo stesso tempo così mobili e così forti le necessità così multiple e così pressanti, tutto è ancora così oscuro e confuso» (p. 56) 28 Guizot, De la peine de mort en matière politique cit., p. 129. 29 Discorso del 5 ottobre 1831, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 303. 30 Ch. De Rémusat, Mémoires de ma vie, a cura di Ch. H. Pouthas, vol. I, Plon, Paris
140
vissuto tutti i regimi che la modernità conosce, e ne ha attraversato i relativi
traumi: la grande Rivoluzione ha vergato nella sua storia un abisso le cui forme
e conseguenze appaiono ancora enigmatiche, poi la repubblica e l’esperienza
del Terrore, l’Impero e le guerre napoleoniche, i cento giorni, l’invasione delle
truppe della Santa Alleanza e i cosacchi a Parigi, la Restaurazione e il terrore
bianco, l’operaio sellaio Louvel che uccide l’erede al trono gettando nel 1820
un primo alone di paura intorno ai milieux popolari urbani,31 la reazione ultra-
realista e poi, nel 1830, ancora una rivoluzione, cui sono più le speranze che le
certezze ad attribuire l’avvento di una conciliazione inscritta in un destino di
ordine. La disaggregazione, lo sgretolamento della società e del loro secolo è
una sensazione viva per i contemporanei, che alla percezione di dissoluzione
del presente uniscono una sfiducia diffusa nei confronti delle idee del secolo
precedente, considerate responsabili di tempeste e smottamenti che sono arrivati
a frantumare verità condivise e il senso stesso del linguaggio comune.32
«Rispetto ai momenti di grande civiltà eccoci come i barbari: abbiamo dinnanzi
agli occhi città in rovina, e monumenti enigmatici […] ci domandiamo quali dèi
abbiano potuto abitare tutti questi templi vuoti»: ben aderiscono a questa
temperie le parole con cui Michel Foucault spiega perché l’Ottocento europeo è
un «secolo spontaneamente storico», invitando a liberarlo dalla «storia
sovrastorica», dalle connessioni e dai movimenti teleologici, a «disfarlo a
partire da ciò che ha prodotto».33 Pierre Michel ha indagato questa percezione
1958, p. 203. 31 Il 13 febbraio 1820 l'omicidio a Parigi dell'erede al trono duca di Berry da parte dell'operaio repubblicano Louis Louvel scatena la reazione degli ultrarealisti, che impongono con forza la propria rigida politica e governano soli fra il 1822 e il 1828, quando le elezioni vedranno un successo del partito liberale. Nel 1820 De Serre, guardasigilli del secondo ministero Richelieu allontana i dottrinari, cui fino a quel momento era stato assai vicino, dal consiglio di Stato. 32 Scrive nel 1831 René de Chateaubriand: «avete ben sottolineato, Signori, che non spetta né al Terrore né alla Dottrina, di creare la nuova Francia. Una società presa d’assalto e sgozzata da dei terroristi, come una guarnigione passata al filo di spada, non lascia niente dopo di lei per riscostruirla. La Dottrina è impotente a fondare, perché i principi di una società morta non trovano più i loro analoghi in una società viva», A Mm. redacteurs de la Revue Européenne cit., p. 5. 33 M. Foucault, Nietzsche, la Généalogie, l’histoire (1971); trad. it. di A. Fontana e P. Pasquino Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, pp pp. 48-49.
141
di «crisi di civilizzazione» proponendo un corposo itinerario attraverso il rilievo
che i motivi apocalittici acquistano nell’opera dei grandi autori di inizio
Ottocento, conferendo al ricorrere del tema dei Barbari, e della loro generale
attesa, lo statuto di un «mito».34 Uno dei grandi protagonisti della torsione
romantica di questo mito, Chateubriand,35 annota nelle sue Mémoires d’outre-
tombe alla fine di novembre 1831: «il peggiore dei periodi che noi abbiamo
percorso pare essere quello ove siamo, perché l’anarchia regna nella ragione,
nella morale e nell’intelligenza», evidenziando al tempo stesso la necessità di
cogliere e abitare «lo spirito del tempo».36
È proprio l’insieme di queste incertezze, la percezione di dissoluzione
sociale, gli enigmi della politica post-rivoluzionaria che secondo Pierre
Rosanvallon «spiega[no] come questo periodo costituisca una vera età dell'oro
della filosofia politica»: un extraordinaire bouillonementi intellectuel prodotto
dall’unanime percezione della necessità «di elaborare una scienza politica e di
fondare una sociologia, di ripensare allo stesso tempo il politico e il sociale».37
Di questa comunità problematica ha scritto Sandro Chignola, descrivendo Il
tempo rovesciato che con la monarchia restaurata attraversa a ritroso il ciclo
classico delle moderne forme di governo, dissolvendo al tempo stesso l’idea che
un sovrano possa ancora tenere in mano lo scettro dell’accadere. La vicenda 34 P. Michel, Les barbares 1789-1848. Un mythe romantique. P. U. de Lyon 1981, «l’attesa dei barbari è generale alla vigilia di 1830» (p. 195). Approfondirò nel prossimo capitolo alcuni elementi di questo studio che somiglia a una mastodontica collezione di citazioni tesa a mostrare la penetrazione della referenza ai barbari nel lavoro di alcuni dei più grandi autori francesi del periodo 1789-1848. In un quadro assai più vasto, il testo si concentra in particolare su: Fourier, Chateaubriand, Guizot, des freres Thierry, Ballanche, Tocqueville, Lamartine, Victor Hugo et Michelet. 35 Nel 1824 Chateaubriand scriveva : «il grande pensiero dell’epoca deve essere di ‘salvare il mondo da un’inondazione di nuovi barbari», cit. in Michel, Les barbares cit., p. 63. 36 F-R. de Chateaubriand, Mémoires d’outre-tombe, E. et V. Penaud frères, Paris 1848, tome V, p. 232. «C’è un popolo che non è più il popolo di altri tempi, un popolo che, cambiato dai secoli, non ha più le antiche abitudini e gli antichi costumi dei nostri padri. Che si deplorino o si glorifichino le trasformazioni avvenute, bisogna prendere la nazione tale che essa è, i fatti tali che sono entrati nello spirito del suo tempo, allo scopo di agire su questo spirito. […] A questa epoca della società, la restarazione di un monumento del medioevo è impossibile, perché il genio che animava questa architettura è morto: non si fa che del vecchio credendo di fare del gotico» (pp. 223 e 242). 37 Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 75. «Uno spettro spaventa la maggior parte dei pubblicisti all'inizio del XIX secolo quello della dissoluzione sociale», scrive ancora Rosanvallon sostenendo che sia proprio questo elemento a conferire al periodo «un’unità problematica» (ibid.).
142
rivoluzionaria ha dato forma a «una società generica di individui inassegnabili a
ordini o a corporazioni»: è questo l’orizzonte indispensabile che raccoglie
autori e opere nell’«archivio della politica impura» del liberalismo della
Restaurazione intorno al problema di pensare il governo di un processo
democratico irresistibile che apre un’era nuova della politica, segnata da una
«libertà che produce individuazione e isolamento, che dissocia e atomizza le
forme di vita, che ‘spoliticizza’ e ‘animalizza’ gli uomini livellando differenze e
gerarchie […] che sembra dunque cancellare ogni traccia di legame tra di loro»,
che «tutela la loro uguaglianza assoggettandoli a un’in-differenza radicale».38
Questa liberà e questa uguaglianza pongono il problema della ricostruzione del
legame sociale in una realtà che si percepisce come inquieta e precaria perché il
passaggio da una società di corpi a una, spoliticizzata, di individui la rende
meno rappresentabile e intellegibile. Quella dell’individualismo è una
preoccupazione che percorre trasversalmente tutti gli schieramenti politici
unendosi alla generale diffidenza verso le teorie del secolo precedente: di qui i
continui intrecci, supplenze, debordamenti della religione, della storia e,
soprattutto, della morale sul politico. «I materiali scivolano ancora in una tale
confusione, che le speranze più incoerenti, le vocazioni più contraddittorie,
esalano di fronte a tante rovine. Il presente è talmente provvisorio che tutti i
partiti, tutte le sette, tutte le scuole, non ne tengono conto», scrive nel 1831
Carné fondando, con Cazalès e Lamartine, «La revue Européenne» allo scopo
di ricostituire, attraverso la nuova filosofia cattolica di Lamennais, «il sistema
del senso comune», assorbendo «nella sfera cristiana tutte le verità scientifiche,
storiche, fisiche e morali».39 È in effetti la stessa condivisione del senso comune
che sembra fare problema, come ha mostrato Michèle Riot-Sarcey, che nel suo
Essai sur le politique au XIX siècle si concentra, fra l’altro, sulle modalità di
costruzione di significati condivisi, indicando nell’affermazione di verità
38 Chignola, Il tempo rovesciato. La Restaurazione e il governo della democrazia, il Mulino, Bologna 2011, pp. 75 e 12. Il testo è diviso in tre parti e tale movimento viene analizzato in particolare nel pensiero di Chateaubriand, Guizot e Tocqueville. 39 L. de Carné, Du problème social au Dix-neuvieme siècle, in «La Revue Européenne», Tome 1, 1831, pp. 4 e 12, «l’avvenire è una preda, una conquista cui tutti aspirano» (p. 4).
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pubbliche e nell’uso del linguaggio comune una preoccupazione fondamentale
per la politica del tempo.40 «Anche dopo il 1830 il problema persiste, il senso
delle parole non è divenuto ancora l’espressione di un senso comune delle
idee»,41 e inoltre ogni divergenza o conflitto deborda continuamente sul terreno
di un politico, i cui «limiti sono ancora floues», il cui significato è ancora «male
identificato».42
Il carattere disordinato, traumatico e violento del divenire storico pare
insomma aver penetrato e incrinato perfino senso comune, verità condivise,
significati correnti di nomi e parole. Ricostruire il legame sociale, ritrovare la 40 Questa studiosa richiama l’angelo della storia benjaminano per sostenere che «rovine è la parola ‘esplicativa’ dell’epoca», Le réel de l’utopie cit., p. 45. «L’idea di caos è presente allo spirito dell’immensa maggioranza dei contemporanei. […] Le rivoluzioni, pensate tutte politiche, sono ancora troppo recenti perchè i loro eccessi siano dimenticati» (pp. 40 e 72). L’intreccio fra storia, morale e formazione delle dottrine politiche diviene secondo Riot-sarcey lo strumento attraverso cui si pensa la ricostruzione del legame sociale e dell’agire pubblico. 41 Riot-Sarcey, Le réel de l’utopie cit., pp. 72-73. Analizzando in particolare l’esperienza dei sansimoniani e il modo in cui la loro iniziativa venga progressivamente spinta ai margini della politica attraverso l’etichetta di «utopisti», questa studiosa si sforza di descrivere un’«eteronomia dei significati comuni», in cui il senso che si cerca pubblicamente di imporre alle parole «diviene il reale del discorso di ciascuno, costretto a impiegare il linguaggio comune pubblico per fare intendere un bisogno, una volontà, un desiderio […] l’iscrizione del discorso particolare nella doxa è la condizione dell’ascolto collettivo» (p. 111). Gli strumenti disponibili per riscostruire un ordine nuovo appaiono insufficienti, e questa incertezza determina il fiorire di una vasta molteplicità di traiettorie di ricerca, di fonte alle empasses delle quali, secondo Riot-Sarcey, «la politica diviene l’ultima risorsa delle autorità dell’epoca, il mezzo per operare alla ricostruzione del legame sociale» (p. 69). La «produzione di verità politiche» sarebbe allora una delle sfide principali che occupano l’arena pubblica, «La facoltà di dire il vero del presente politico è sufficiente a legittimarne il fatto» (p. 102). La posta in palio dell’interpretazione lionese sarebbe perciò comprensibile solo interrogando la costruzione storica del discorso di verità politica: «la produzione di ‘verità politiche’ è stata al cuore delle strategie di dominazione dei differenti rappresentanti durante le monarchie costituzionali […]. Il discorso sulla libertà, sulla proprietà, sul governo rappresentativo, sulla morale, ma anche sulla sovranità del popolo, sul suffragio universale, sulla cittadinanza, sono altrettanti discorsi di verità che dicono un sapere politico, sotto forma di un diritto universale, in nome di una pratica di potere. In questo senso, i discorsi dei liberali come quelli dei repubblicani sono altrettanti tentativi di unificare una collettività, un corpo sociale, inegualmente coinvolti dai principi proclamati univesali. […] L’interrogazione sulla costruzione storica del ‘discorso di verità’ politica permette allora di comprendere la posta delle interpretazioni dell’avvenimento e la messa al bando di ogni pensiero che non può essere integrato nel discorso comune» (pp. 80-81). 42 Riot-Sarcey, Le réel de l’utopie cit., p. 77. «Nello stato di incompiutezza del pensiero sociale, il minimo conflitto, la minima divergenza, non viene regolata sul terreno degli antagonismi concreti, ma si sottrae alle contraddizioni disponendosi sul versante del politico. I limiti sono ancora sfumati: così la politica significa talvolta il governo degli uomini, talvolta l’espressione libera di un’opinione pubblica ancora male identificata. […] Non si tratta di una lotta ideologica, ma di un dibattito conflittuale in vista dell’affermazione di un discorso politico univoco, suscettibile di diventare la legge di tutti, ivi compresi coloro che non hanno trovato il loro luogo di parola. Questo discorso comune sulla politica deve imporsi come realtà unica, al di là dei conflitti sociali» (ibid.).
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strada di un destino di ordine sono sfide che hanno a che fare anche con la
dimensione del linguaggio, con la costruzione di un senso comune e condiviso
dei termini con cui designare gli elementi di una società che l’inarrestabile
movimento dell’égalité sembra rendere irriconoscibili. Dire la verità sul
presente, dare nomi alle cose: eterni esercizi di potere che nel frammento di
storia in esame sembrano però emergere con la nitida forza dell’urgenza, e il
processo di significazione della nozione stessa di politica pare terreno al tempo
stesso delicato e centrale.
La rivoluzione di Luglio interviene in questa temperie culturale, in questo
campo di problemi di cui i dottrinari si fanno autorevoli interpreti, in particolare
– anche per la vicenda biografica che li accomuna in maniera notevole –43 della
generale aspettativa di una conciliazione della Francia post-rivoluzionaria in
grado di incardinare la società in un destino di ordine assumendo
l’irrevocabilità dei principi di uguaglianza civile sanciti da 1789. Fare uscire la
Francia «dal caos in cui si era gettata» è la missione che – nelle sue Mémoires –
Guizot assegna restropettivamente alla nascita, alla fine degli anni 1810, del
gruppo dei dottrinari, e rimanda le cause dell’influenza che, «malgrado il
piccolo numero», acquisiranno al fatto che «le loro idee si presentavano come
proprie a rigenerare e nello stesso tempo a chiudere la Rivoluzione».44 Il
passaggio del 1830 è per loro la «provvidenziale» occasione di realizzare tale
aspirazione, e di incarnare nel governo e nelle istituzioni la riflessione svolta
lungo il decennio precedente. Ma i primi anni che seguono le Tre gloriose
registrano la reticenza delle masse popolari a tornare al posto che l’ordine del
discorso dottrinario assegna loro in quella sorta di chiusura del cerchio della 43 I dottrinari condividono infatti una comune provenienza da famiglie della nobiltà o dell’alta borghesia di fine Ancien régime che aderiscono entusiasticamente alla causa rivoluzionaria per poi subire gli effetti del Terrore sulla propria persona (Royer-Collard e Jordan), sui propri cari o suoi propri beni. Il radicale rifiuto del giacobinismo passa per loro sempre attraverso la convinta conferma dell’attaccamento ai principi originari di 1789. Essi sentono perciò con forza la necessità di affermare tali principi depurandoli dell’eccesso delle passioni, vale a dire restituendo alla nozione di politica un significato e dei confini in grado di incardinare l’agire pubblico in una forma e destino di ordine. 44 Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps cit., pp. 77-78. «Chiamati di volta in volta a combattere e a difendere la Rivoluzione», scrive ancora Guizot, i dottrinari «domandavano alla Francia, non di confessare, che essa non aveva fatto che del male né di dichiararsi impotente per il bene, ma di uscire dal caos in cui si era immersa» (ibid.).
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storia che Luglio dovrebbe disegnare intorno all’universale delle classi medie.
Il progetto politico dottrinario appare sostanzialmente estraneo al problema
dell’integrazione nello Stato dei segmenti sociali subalterni e perciò incapace di
cogliere il portato delle tematiche agitate dalle nuove figure sociali. Proprio per
questo è possibile individuare nelle agitazioni che seguono la rivoluzione del
1830 – che vado ora a ripercorrere brevemente – uno degli elementi che
mandano in frantumi tale progetto, fancendolo progressivamente ripiegare sulla
mera tattica istituzionale, su una postura sempre più conservatrice e
moralizzatrice, su quella che Rosanvallon definisce una «routinizzazione
dell’intelligenza politica» verso una «piattezza trivialmente reazionaria».45 Nelle vie di Parigi […] la sommossa era flagrante e continua. […] tutti i grandi incroci delle strade e dei viali furono il teatro di raduni popolari, talvolta oziosi e rumorosi, spesso ardenti e sediziosi. I motivi più diversi, seri o frivoli, un anniversario rivoluzionario, una voce di giornale, un albero della libertà da piantare, una pretesa di mercanti popolari, una discussione davanti la porta di un caffè, erano sufficienti per ammassare e appassionare la folla; ed essa trovava ovunque dei punti di riunione, dei focolai di irritazione, dei mezzi di divertimento. Più di ventimila ambulanti, venuti da ogni parte di Francia, ostruivano le vie, i ponti, le piazze, i viali, i quartieri popolosi e i passages frequentati.46
Ricorda così François Guizot i mesi in questione, scrivendo l’equazione che
nel suo pensiero pare attivarsi fra masse popolari e disordine, terrore e sovranità
popolare, fra presenza scenico-politica delle folle e tirannia del numero: la forza
«risiede sempre nel popolo, vale a dire nel numero».47 Questa umanità non pare
45 Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 305. 46 Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps cit., p. 162. «Nello spazio di un anno e senza parlare dei tentativi insignificanti, quattro complotti repubblicani, due complotti legittimisti e un complotto bonapartista assalirono il governo del re»(165-166). «Le Globe usci dopo qualche tempo dalle mani dei dottrinari, si trasformò allora in cattedra della scuola saint-simoniana, che cercava di diventare una chiesa; […] Di fondo, il saint-simonismo e il fourierismo non sono stati che delle fasi naturali della grande crisi morale, sociale e politica che dal secolo scorso travaglia la Francia e il mondo, corte meteore in questa lunga tempesta. Saint-Simon e Fourier si credettero chiamati allo stesso tempo a raddrizzare la Rivoluzione francese e a portarla fino ai suoi ultimi e definitivi limiti» (p. 167). 47 Guizot, De la souveraineté cit., p. 354.
146
mai trovare significativo spazio nel suo pensiero, 48 se non per innescare
quell’ostinato e caparbio sforzo di negarne ogni capacità politica. Sforzo che
nella storia è scritto dalle parole con cui ancora nel 1847 affermava: «non c’è
giorno per il suffragio universale. Non c’è giorno in cui tutte le creature umane,
quali che siano, possano essere chiamate a esercitare diritti politici».49
«È l’onore della Rivoluzione francese – spiega alla Camera nell’ottobre
1831 – di avere proclamato e messo in pratica questo risultato della
civilizzazione moderna» che sono i diritti universali e permanenti, uguali per
tutti, inerenti l’umanità, che nessun regime politico può mettere in
discussione.50 La coerente e convinta difesa dei principi di uguaglianza civile,
dei diritti universali è la cifra della sua convinta adesione alla rottura indotta da
1789, ma tutta la sua biografia politica è segnata anche dallo sforzo indefesso di
negare che i diritti politici siano fra questi, 51 secondo l’argomento per cui essi
non riguardano l’esistenza e la libertà individuale, ma ineriscono la società, la
sua organizzazione, il suo funzionamento, e dunque il loro esercizio necessita di 48 È ai repubblicani che Guizot imputa l’origine di tutti i tumulti, incapace di pensarli altrimenti che in termini di «cospirazione» o «anarchia». I disordini sarebbero l’opera di esponenti «ambiziosi» del partito repubblicano che si mettono alla testa di «una piccola porzione della moltitudine che vuole trovare nel disordine non solamente il suo partito, ma il suo piacere, ed è questo bisogno di emozioni, di piacere, di spettacoli, che mette in movimento la moltitudine ben più dei sui interessi», discorso del 29 dicembre 1830, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 172. 49 Discorso del 26 marzo 1847, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. V, p. 380. 50 Discorso del 5 ottobre 1831, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 308. Questi diritti universali si compendiano da una parte nel diritto a non subire ingiustizia da parte di nessuno senza essere protetti contro di essa dal potere pubblico, e, dall’altra parte, nel diritto a disporre della propria esistenza individuale secondo la sua volontà e il suo interesse, senza che ciò nuoccia all’esistenza individuale di altri. 51 Guizot, Elections cit., pp. 386-387. Guizot, coerentemente sempre determinato tanto a difenderne il diritto all’uguaglianza civile e quelli che, nell’importante testo Elections redatto nel 1837, chiama «diritti universali e permanenti», quanto a negare categoricamente loro i diritti politici, quei «diritti variabili [che] sono tutti contenuti nel diritto di suffragio» di cui solo la capacità politica conferisce il legittimo godimento. non certo per insediarlo negli antichi privilegi. Una classe non insedia la propria egemonia né con le teorie politiche, né per legge. E la fede o la conquista sono mezzi solo dei fanatici aristocratici. «Due idee sono i grandi caratteri della civilizzazione moderna, e gli imprimono il suo movimento; li riassumo in questi termini: – ci sono diritti universali inerenti la sola qualità di uomo, e che nessun regime può legittimamente rifiutare a nessun uomo; – ci sono dei diritti individuali che derivano dal solo merito personale di ciascun uomo senza riguardo alle circostanze esteriori della nascita, della fortuna, o del rango»( Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps cit., p. 81). «Il rispetto legale dei diritti generali dell’umanità e il libero sviluppo delle superiorità naturali, questi due principi […] sono inconciliabili con ogni dominazione esclusiva»(81).
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una prova della capacità di saperlo fare nell’interesse della società.52 Come nota
Claude Lefort, questo pensatore non aderirà mai alla democrazia perché nutrito
della radicata convinzione e concezione di «una moltitudine composta di
uomini poveri, incompetenti, incolti, che non s'impadronirà mai delle libertà
politiche se non per mettere la società sottosopra».53 La massa evoca solo
immagini di un disordine di cui si deve chirurgicamente prevenire quel contagio
che il Terrore ha mostrato in tutte le sue deflagranti potenzialità. Circoscrivere
il politico dentro confini che lo rendano immune da tale contagio, pensare e
disporre tecniche di governo in grado di confinare il disordine delle masse al di
fuori del politico è certo un aspetto rilevante del discorso dottrinario, di cui
vado ora a indagare profilo e ambizioni nel frammento di storia in esame. A tale
vocazione pare rivolta anche la razionalità che orienta le strategie discorsive
dispiegate intorno all’interpretazione della révolte des canuts, che sarà oggetto
del paragrafo successivo.54
2.2 Una teoria politica del vero?
La politica del juste-milieu che dà nome alla condotta di governo del regime
orleanista non acquista piena intellegibilità storica finchè non la si riferisce alla
teoria dottrinaria del juste-milieu elaborata negli anni della Restaurazione. E
quest’ultima a sua volta non può essere inscritta nella storia delle idee se non
52 Discorso del 5 ottobre 1831, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 309: «Ben lungi dunque dall’essere l’uguaglianza il principio dei diritti politici, questo principio è l’ineguaglianza; i diritti politici sono necessariamente ineguali, inegualmente distribuiti», «chiuque parli di uguaglianza in materia di diritti politici confonde due cose essenzialmente distinte e differenti: l’esistenza individuale e l’esistenza sociale, l’ordine civile e l’ordine politico, la libertà e il governo». 53 C. Lefort, Libéralisme et démocratie, in S. Sturman (dir.), Les libéralismes, la theorie politique et l'histoire, Amsterdam University Press, Amsterdam 1994, p. 13. 54 Ma in realtà proprio gli elementi inediti della rivolta contribuiscono a inquietare i contemporanei che fanno dell’avvenimento un sintomo del mutamento dei tempi, accentuando l’incertezza presente e delle incognite del futuro. Le descrizioni della miseria che è alla base dell’insurrezione lionese testimoniano compiutamente il senso di spaesamento e incertezza, e il motto dei canuts diviene l’ennesima testimonianza dei motivi apocalittici.
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per il tramite della sua messa in opera nel governo del regime di Luglio. Juste-
milieu fra diritto divino e sovranità popolare, fra Ancien régime e democrazia,
fra i retrogradi «nemici implacabili» della nuova società francese e le false
«credenze popolari» in materia di governo. È questa la postura con cui i
dottrinari perseguono l’ambizione al centro del loro progetto politico: terminare
la Rivoluzione, affermarne i principi scongiurandone il ritorno. Essi si
propongono dunque il complesso, doppio compito di «combattere e difendere»,
di «rigenerare e chiudere» la vicenda rivoluzionaria, conciliando finalmente
autorità e libertà, affermando 1789 e respingendo 1793, sancendo
l’irrevocabilità dei principi di uguaglianza civile depurati dagli eccessi e dalle
passioni scatenate dalla politicizzazione della volontà. «Un’altra scuola si eleva
di fronte a quella [dei repubblicani], e si proclama, come essa, sola erede
legittima dell’ultima rivoluzione», scrive Carné nel 1831 sulla «Revue
Européenne», sintetizzando il progetto politico dei dottrinari nella
«dominazione pacifica della classe media»: «le idee e gli interessi di questo
juste-milieu intellettuale e sociale, diventerebbero la misura obbligata, il letto di
Procuste della civilizzazione».55 Rifiuto del privilegio aristocratico e allo stesso
tempo dell’uguaglianza democratica: juste-milieu è soprattutto, dagli anni della
Restaurazione, sinonimo di aspirazione all’egemonia politica della classe
media. Tema cui fa cenno anche il lungo intervento che nel 1832 la «Revue
Encyclopédique» dedica ai dottrinari, soffermandosi però soprattutto sul loro
rapporto con le idee che evidenzierebbe la contraddizione fra il loro essere fini
intellettuali e un’azione politica che pare segnata da un vero e proprio «orrore
per le idee»:56 per quanto provocatoria, questa osservazione di Didier coglie con
precisione la diffidenza del juste-milieu verso le teorie incapaci di incarnarsi e
incardinarsi nell’azione, e la sua discontinuità rispetto al rapporto fra idee e
realtà che aveva caratterizzato il diciottesimo secolo. Guizot termina il suo
55 L. de Carné, Du problème social au Dix-neuvieme siècle, in «La Revue Européenne», Tome 1, 1831, pp. 5-7. 56 Ch. Didier, Les doctinaires et les idées, in «La Revue Encyclopédique», vol. 55, 1832, pp. 341 e 343: «uno dei tratti caratteristici, il più saliente forse della scuola dottrinaria […] è il suo orrore per le idee», che li qualificherebbe come rinnegati rispetto al fatto che tutti prima che uomini politici sono fini intellettuali.
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corso d’Histoire de la civilisation en Europe – che nel 1828-29 attira
l’entusiastica partecipazione dell’inteligencja liberale parigina – immaginandosi
pubblico ministero chiamato a pronunciarsi sul secolo precedente: conclude con
una assoluzione, ma ne rinviene il più grave peccato nel fatto che «i condottieri,
gli attori di questi grandi dibattiti restano estranei ad ogni specie di attività
pratica; puri teorici che osservano, giudicano e parlano, senza mai intervenire
negli avvenimenti. […] Mai la filosofia aspirò maggiormente a reggere il
mondo, e fu, nello stesso tempo, più estranea a esso».57 E nella prima lezione
del corso dell’anno successivo – Histoire de la civilisation en France (1829-30)
– mostra ai suoi studenti il diciannovesimo secolo come esito di un lungo
sviluppo che realizza nel presente un inedito intreccio di idee e fatti. Questo
fondamentale elemento permette di disabilitare la pericolosa astrattezza delle
teorie del secolo precedente, e allo stesso tempo rende evidente il potenziale di
potere che è immediatamente insito nel sapere: «la scienza è bella, senza
dubbio, […] ma è mille volte più bella quando diviene potenza».58 Da questo
punto di vista Guizot pare esibire una vivida consapevolezza della coestensività
di potere e sapere, di azione di governo e produzione di verità: la sua iniziativa
istituzionale, almeno nei primi anni, sarà segnata in misura importante dallo
sforzo di rispondere sul terreno della produzione di sapere ad alcune cruciali
problematiche politiche e sociali. Si segnalano in proposito anzitutto la legge
del 1833 sulla formazione primaria, che egli concepisce come fondamentale
mezzo di governo e che in Francia dà una prima base popolare all’istruzione,59
57 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 428. «Nel secolo XVIII voi vedete lo spirito umano esercitarsi su ogni cosa: sulle idee connesse agli interessi reali della vita e destinati ad avere il più pronto e potente influsso sui fatti» (ibid.), ma proprio nel fatto di rimanerne ostinatamente distanti ne ha indotto le conseguenze più nefaste: «lo spirito umano, vero sovrano del secolo XVIII, […] ha avuto una fiducia eccessiva in se stesso» (ivi, p. 429). Riprenderà il tema nelle sue memorie affermando: «orgoglio insensato, ma omaggio eclatante a quello che c’è di più elevato nell’uomo, alla sua natura intellettuale e morale!», Guizot, Mémoires, p. 77. 58 Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., vol. I, p. 27. 59 Ministro dell'istruzione fra 1832 e 1837, Guizot è l'autore della legge sull'istruzione primaria del 28 giugno 1833 che, senza istituire la gratuità né l'obbligo, è tuttavia il fondamento del moderno sistema di istruzione francese. Sul tema cfr. in particolare la relazione che ne fa alla Camera e il dibattito che ne segue, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. II, pp. 1-88 e poi F.Reboul, Guizot et l'instruction publique,in M. Valensise (a cura di), François Guizot et la culture politique de son temps cit., e Ch. Nicque, François Guizot, l'école au
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ma anche iniziative quali la ricostituzione nel 1832 dell’Accademia delle
scienze morali e politiche,60 la creazione nel 1834 di una cattedra universitaria
di diritto costituzionale, e il lancio nel 1835 di un poderoso progetto di
pubblicazioni e archivi sulla storia di Francia.61
Si tratta di fondare una differente relazione fra filosofia e politica, fra idea e
realtà, fra teoria e prassi, facendo subentrare allo «spirito filosofico» del secolo
precedente uno «spirito politico» che valorizza le idee solo nel punto in cui esse
si innestano sui fatti, perché la teoria è oziosa «se il sapere non è il sintomo
della potenza».62 All’utopia di una teoria in grado di regolare e dominare la
politica, i dottrinari contrappongono la «stella del governo»63 come bussola in
grado di orientare il pensiero, proponendosi di lavorare a dare alla politica «una
buona filosofia, non per sovrana padrona, ma per consigliera e appoggio».64
Così anche la convinta apologia della monarchia costituzionale non diviene mai
teoria della miglior forma di governo, perché – spiega Guizot nel suo corso
d’Histoire des origines du gouvernement représentatif tenuto nel 1820-22
prima di essere allontanato dall’insegnamento dalla svolta conservatrice del
ministero Villèle – «è un metodo superficiale e falso quello che classifica i
governi secondo i loro caratteri esteriori» 65 (anche la ferma ostilità alla
repubblica non diviene mai, a differenza della questione del suffragio
universale, opposizione teorica di principio). 66 Le tradizionali classificazioni
service du gouvernement des esprits, Hachette, Paris 2000. 60 Cfr. infra quarto capitolo. 61 Cfr. infra § 2.4 62 Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 211 63 L’espressione ritorna in particolare De la peine de mort en matière politique. La stella del governo è il titolo che Chignola dà al capitolo del suo libro inerente Guizot (Il tempo rovesciato cit., pp. 69-116). 64 Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps cit., p.78. 65 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 85. 66 «Sarei certamente stato repubblicano negli Stati Uniti d’America – scrive Guizot – nel momento in cui essi si separavano dall’inghilterra: la Repubblica federativa era per essi il governo naturale e vero […]. Sono manrchico in Francia per le stesse ragioni e gli stessi interessi; come la Repubblica negli Stati Uniti nel 1776, la monarchia è, ai nostri giorni, in Francia, il governo naturale e vero, il più favorevole alla libertà come alla pace pubblica, il più proprio a sviluppare le forze legittime e salutari come a respingere le forze perverse e distruttive della nostra società» (Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps cit., pp. 114-115). Perchè, spiega ancora nelle sue memorie, ogni forma di governo «dipende dai luoghi, dai tempi,
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sono il riflesso di tecnologie politiche obsolete perché fondate su quelle
macchine politiche esteriori la cui critica rappresenta un elemento essenziale
della teoria politica di Guizot, riassunta nella formula il n’y a que des
gouvernements,67 centrale nel suo (mai terminato) trattato di filosofia politica,
De la souveranité, ove si legge che monarchia, aristocrazia e repubblica
«esprimono un fatto piuttosto che rivelare un principio, sono riferite alla forma
esteriore dei governi, senza caratterizzare la loro natura intima e le loro
leggi».68
Nell’ultimo dei quattro corposi phamplet pubblicati dopo che nel 1820 la
reazione ultarealista lo ha allontanato dal Consiglio di Stato e, poi,
dall’università – De la peine de mort en matière politique (1822) – Guizot
scrive: «non è una questione filosofica che voglio trattare né sollecito un
cambiamento nella legislazione. […] Sono convinto che le riforme sollecitate
dalle idee o dai costumi devono passare nella condotta del governo, nella
pratica degli affari, prima di introdursi nella legislazione».69 Non è mai sul
terreno specifico della filosofia politica o del diritto positivo che si va a
insediare la proposta di questo pensatore, ma, anche una volta respinto
all’opposizione, il centro gravitazionale dell’intera sua impresa intellettuale
rimane l’elaborazione di un’arte di governo, di tecnologie di potere e moyens de
gouvernement all’altezza della nuova società uscita dalla vicenda della grande
Rivoluzione.70 «Una politica che ostenta di essere anzitutto di governo»,71 è ciò
dall’organizzazione sociale, dallo stato degli spiriti, da una moltitudine di circostanze variabili e accidentali» (Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps cit., p. 165). 67 Guizot, De la souveraineté cit., p. 327: «Non ci sono che governi; e la sovranità essenzialmente distinta dal governo non saprebbe appartenergli», in questi due periodi si riassume la sostanza della filosofia politica guizotiana, che consiste appunto nell’allontanarsi dall’astrazione filosofica del discorso della sovranità, foriero solo di confusione e disordine. 68 Ivi, p. 334: «la monarchia, l’aristocrazia, la democrazia; denominazioni che tutte esprimono un fatto piuttosto che rivelare un principio». 69 Guizot, De la peine de mort en matière politique cit., pp. 95 e 98. «Non domando l’abolizione della pena di morte; ma sono convinto che, contro i suoi nemici, il governo non guadagna niente a usarla, e guadagnerebbe molto a mostrarsene avara», p. 140. 70 «Il mio disegno non è discutere filosoficamente questi assiomi […] mi occupo solamente di sapere come l’autorità può trattare con certe credenze, certe opinioni popolari, per scartare gli ostacoli che esse gli oppongono, e trovarvi dei mezzi di governo», Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., pp. 115 e 119. 71 «Revue des Deux Mondes», Tome I, vol. I, 1831, p. 187: «l’amore del potere,
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che gli rimprovera la «Revue des deux mondes», interpretando nel lungo
articolo a lui dedicato un’opinione diffusa, e cogliendo in effetti l’elemento
fondamentale della politica dottrinaria, che Rémusat ricorda così: «volevamo
affermare il governo da noi scelto: munirlo di tutte le risorse, armarlo di tutte le
sue forze».72 È proprio questo «empowering» del governo che consente di
studiare Guizot e la vicenda francese degli anni 1830 all’altezza di
un’intersezione dinamica fra teoria dottrinaria, discorso politico e concreta
attivazione di condotte, tecniche e dispositivi di governo. In particolare le
interpretazioni di Foucault e di Rancière hanno reso assai noto il significato di
cui in francese il termine polizia era portatore prima di quello, più ristretto,
attuale, può essere interessante notare le osservazioni svolte nel 1832 dalla
«Revue Encyclopédique» sui dottrinari: «Police nella sua accezione pura e
primitiva, significava amministrazione della cité, del paese – scrive Charles
Didier –. Mi sembra che la dottrina abbia preso come incarico di ricondurla alla
sua etimologia, perché è realmente in essa che oggi dimora il governo, se ci si
fa caso, la polizia è una potenza senza limiti, che vede tutto, sa tutto, osa
tutto».73 Teoria e pratica dottrinarie guardano in effetti costantemente alla
messa in opera di un rapporto di comunicazione, interdipendenza, reciprocità
fra il sociale e il politico teso a rompere la condizione di esteriorità di
quest’ultimo per dargli corpo in tecniche di governo in grado di cooptare nella
macchina politica statuale il potere che attraversa, regola e organizza la società.
Si tratta di mettere il politico in condizione di conoscere la meccanica attraverso
l’ambizione di fondarlo e maneggiarlo, il bisogno di farne parte, alla testa o al seguito, un’instancabile condiscendenza per ciò che chiama tanto sovente le necessità, una politica che ostenta di essere anzitutto di governo, e che ha per massima che il vero uomo di Stato debba mantenere posizione, influenza, credito, posizione, speranza, occasione, fortuna, più a lungo possibile». L’articolo è teso a mostrare la differenza fra il Guizot degli anni Venti, grande teorico e liberale convinto e l’uomo di governo: «quando la vita di un uomo è traversata da una rivoluzione, essa si trova tagliata e separata in due parti» (p. 183). 72 Rémusat, Mes mémoires cit., p. 528, e continua: «ci sembrava che lo Stato fosse affar nostro. Avevamo, potrei dire, la passione del bene pubblico» (ibid.). Per collocare il punto di vista da cui esprime le proprie memorie politiche Rémusat dichiara inoltre di appartenere a «questa parte della società francese che si chiama essa stessa assai poco modestamente la ‘società’ o il ‘mondo’»(quarta di copertina). 73 C. Didier, Les doctinaires et les idées, in «La Revue Encyclopédique», vol. 55, 1832 p. 345.
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cui il potere concretamente fluisce nel sociale, non la sua assegnazione di
diritto, ma i suoi operatori e intensificatori, le sue terminazioni capillari su cui
attivare tecnologie e pratiche di governo. Tornerò su questi elementi, di cui mi
interessa per ora sottolineare alcuni aspetti inerenti quella che si potrebbe
chiamare produzione e organizzazione del vero. Tutte le combinazioni della macchina politica devono dunque tendere – si legge nell’Histoire des origines du gouvernement représentatif – da una parte a estrarre dalla società ciò che essa possiede di ragione, di giustizia, di verità, per applicarli al suo governo; dall’altra, a provocare i progressi della società nella ragione, la giustizia, la verità e a fare incessantemente passare questo progresso della società nel suo governo.74
Ragione, verità, giustizia (o morale): questi gli elementi attraverso cui
Guizot lavora a disabilitare quello che Sandro Chignola chiama «il codice
costituente» delle teorie del contratto, della valorizzazione politica della
volontà.75 Di quella sovranità di diritto, per definizione unica e inalienabile, la
cui attribuzione in via definitiva a un soggetto, individuale o collettivo, è per
Guizot portatrice di una forma di idolatria politica e di potere assoluto. Solo la
ragione è sovrana: la teoria politica guizotiana si costruisce tutta intorno a
questo assunto, all’interno del quale vorrei per il momento provare a indagare il
ruolo conferito alla nozione di verità.
È a partire dall’indagine del rapporto fra essere umano e verità che si
organizza il manoscritto De la souveraneité: il solo fatto che l’uomo riconosca
la possibilità del proprio errore attesta che egli può conoscere la verità ed è
chiamato a farlo.76 Esiste in ogni relazione – semplice o complicata che sia, che
si tratti della famiglia oppure dello Stato – una soluzione giusta e ragionevole,
una regola legittima da seguire, «c’è una verità che decide e ha diritto di
comandare»,77 è questo l’unico sovrano legittimo, e così, ancora con Chignola,
«ogni potere agisce in conformità ad una regola che lo trascende, che definisce
74 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 98. 75 Chignola, Il tempo rovesciato cit., p. 70 76 Guizot, De la souveraineté cit., p. 322. 77 Ivi, p. 231.
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la ragione del rapporto all’interno del quale esso si esplica».78 L’unico contratto
sociale è quello che lega gli uomini alla «vera legge», alle «vere regole di tutte
le relazioni umane», e «la società è il risultato dell’osservazione di questo
contratto. Il governo ne è il mezzo».79 La verità è la legge che deve guidare
l’azione del potere, ma il suo carattere trascendente, mai afferrabile con
certezza a causa dell’imperfezione necessaria dell’uomo, e la conseguente
fallibilità di ogni potere umano, rendono impossibile l’attribuzione in via
definitiva della sovranità di diritto se non a prezzo di un potere arbitrario. La
missione e la funzione del governo rappresentativo consiste esattamente nel
disporre i mezzi per ricercare la verità che deve guidare l’azione del potere, per
concentrare e organizzare tutta la ragione e la verità che esistono «sparse nella
società».80 Non è l’attribuzione definitiva della sovranità di diritto il criterio
della legittimità di un potere. Questo deve essere invece chiamato a provarla
costantemente, a dimostrare che, «per la sua natura e la sua situazione» esso è
quello in grado di offrire «le più sicure possibilità per la scoperta e il
mantenimento della vera legge».81 Il potere politico è dunque chiamato a
svolgere un lavoro continuo di autoriflessione con la società per estrarne i
principi di verità come regola del proprio agire, istituendo con essa un rapporto
di coimplicazione e interdipendenza. Proprio questo rapporto di comunicazione
consente di stabilire la legittimità di un potere in corrispondenza della sua
capacità di dire la verità sulla realtà sociale. Per attaccare la svolta conservatrice
del governo della Restaurazione, Guizot scrive allora nel 1821 in Des moyens et
de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France che «la società
manca al potere, ma perché il potere mente alla società, perché la suppone altro 78 Chignola, Il tempo rovesciato cit., p. 100, così «ogni potere opera in un regime di stretta condizionalità» (ibid.). 79 Guizot, De la souveraineté cit., p. 333. 80 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collèges électoraux cit., p. 406, «in diritto, il sistema rappresentativo riposa su questa idea che la vera, la legittima sovranità è quella della ragione, e che nessuna legge, nessun potere è legittimo se non è conforme alla giustizia, e alla verità, vale a dire alla vera legge. […] i poteri pubblici, che esercitano la sovranità di fatto, devono essere costantemente tenuti e costretti a cercare, in ogni occasione, la vera legge, sola fonte dell’autorità legittima.» (ibid.). 81 Guizot, De la souveraineté cit., p. 345. «Ogni potere è un potere di fatto che, per essere potere di diritto deve agire secondo la ragione, la giustizia, la verità, sola fonte del diritto», Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 98.
155
da ciò che è, perché rifiuta di comunicarsi a essa, di ripartirsi secondo verità,
perché non vuole appellarsi a lei».82 Una decina di anni più tardi, parlando alla
Camera, imputerà esattamente a questa incapacità di essere nel vero la caduta
del regime borbonico: «la mancanza di sincerità è stato il difetto radicale della
Restaurazione».83 Se è vero – come afferma nell’Histoire de la civilisation en
Europe – che «soltanto la verità ha diritto di regnare sul mondo», uno dei tratti
specifici del corso della civilizzazione è quello – attraverso lo sviluppo e la
sempre più stretta interpenetrazione dei due elementi che la costituiscono – vale
a dire le relazioni sociali e lo spirito umano, la vita pubblica e quella interiore,
le idee e i fatti, la scienza e la realtà – di permettere al governo rappresentativo
di realizzare l’«impero della verità», perché la «società si è perfezionata a tal
punto che può essere messa a confronto con la verità».84 Ma in che modo
Guizot pensa questa verità e il suo rapporto con l’azione di governo?
«Adesso bisogna che la politica sia vera», scrive nel 1822 contro gli
ultrarealisti e la pena di morte in materia politica, osservando che «ci sono delle
verità semplici che nessuno contesta, che ammette subito il buon senso», la
politica ultra è «falsa» perché rifiuta di riconoscere queste evidenze che il corpo
82 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., pp. 180-181. In questo senso Sandro Chignola può parlare dell’elaborazione di una mappa cognitiva come specifico del governo guizotiano che «coincide con la predisposizione ‘di un sistema di mezzi e di poteri in grado di ascoltare e indagare uno scambio sociale che propone sempre nuovi bisogni in attesa di essere soddisfatti […] un’azione di governo che, per essere tale, non può mai cessare di costruire la ‘rappresentazione’ di questo processo elaborandone la mappa cognitiva» (Il tempo rovesciato cit., p. 101). 83 Discorso del 16 febbraio 1833, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. II, p. 98: «si è provato mille volte tanto a persuadere la Restaurazione, che bisognava che essa fosse sincera, che il paese glielo domandava e avrebbe accolto la sua sincerità, tanto a premunirsi» (p. 99). Guizot afferma inoltre di aver percepito e temuto questo carattere fin dai suoi primi anni al consiglio di Stato: «interno per diversi anni al governo delle Restaurazione, avendolo servito lealmente e fedelmente, dichiaro che non c’è stato un momento in cui io non abbia intravisto nell’avvenire una rivoluzione inevitabile. Essa mi è sempre apparsa come un fantasma che minacciava la Restaurazione e che doveva attentarle prima o poi» (p. 97). 84 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., pp. 180-182. interpretando la diffidenza maturata dalla propria epoca nei confronti del «dispotismo delle idee generali e delle teorie» come un «grande passo della conoscenza verso l’Impero della verità» e indicando l’«inevitabile alleanza fra storia e filosofia», fra scienza e realtà, teoria e pratica, diritto e fatto come legge imposta dallo «stato attuale del mondo» frutto del massimo sviluppo dei due elementi che compongono il «fatto» della civilizzazione, lo spirito umano e le relazioni sociali, la vita pubblica e quella interiore, le idee e i fatti.
156
vivo della società esibisce chiaramente:85 come nota Pierre Rosanvallon, la
teoria politica dottrinaria esibisce un legame «di fatto» con la concezione
fisiocratica dell’evidenza.86 Senza dubbio il carattere trascendente di una verità
mai compiutamente afferrabile dall’imperfezione del genere umano rimanda
anzitutto alla dimensione teologico-politica,87 a quel protestantesimo che segna
tutta l’esperienza Guizot e a cui egli conferisce ruolo decisivo nel corso della
civilisation europea.88 Siamo gettati – afferma l’Histoire de la civilisation en France – in un mondo che non abbiamo creato né inventato; lo troviamo, lo guardiamo, lo studiamo: bisogna che lo prendiamo come un fatto, perché sussiste fuori da noi, indipendentemente da noi […]. Scoprire la verità, realizzarla fuori, nei fatti esteriori, a profitto della società […], ecco dove il nostro lavoro deve arrivare; lavoro difficile e lento, e che il successo prolunga, invece di terminare. Ma in nessuna cosa, forse, è dato all’uomo di arrivare allo scopo: la sua gloria è di camminare in tale direzione.89
La verità attraversa la realtà sociale ma trascende in ultima analisi la volontà
e il potere dell’uomo, solo Dio la conosce integralmente, solo la sua volontà è
perciò infallibile e può essere dunque sovrana. Essa può invece per l’uomo
85 Guizot, De la peine de mort en matière politique cit., pp. 145 e 141. 86 Rosanvallon, La rivoluzione dell’uguaglianza cit., p. 239. 87 È ciò che Sandro Chignola chiama «l’argomento teologico-politico sull’imperfezione necessaria dell’uomo che assegna soltanto a Dio le caratteristiche di infallibilità e di irresistibilità della volontà come precondizione per un’azione assolutamente libera», Chignola, Il tempo rovesciato cit., p. 88. «È infatti sul piano teologico che – Scrive Alberto Chierici – in Guizot, va ricercata l’origine più profonda non solo dell’ ‘orizzonte difettivo e fallibile’ delle cose umane, ma anche di quel principio trascendente che rende possibile la ‘sovranità della ragione’, sottratta ad ogni tipo di arbitrio in terra. In altre parole, per i dottrinari non esistono verità garantite; la ragione non è mai posseduta perfettamente da un individuo o da un gruppo ristretto, ma è sparsa nella società, e il governo rappresentativo ha lo scopo di collezionare tali “frammenti” di verità disseminati nel tessuto sociale», Contro l’uguaglianza, contro il privilegio cit., p. 52. Sul tema cfr. Ch. Pouthas, Guizot pendant la Restauration (1814-1830), Plon, Paris 1923. 88 Alla Riforma protestante è dedicata la dodicesima lezione del corso sulla civilizzazione europea, in essa Guizot rinviene un movimento universale di affrancamento dello spirito umano. Sul protestantesimo di Guizot cfr. A.A.V.V. Les actes du colloque Francois Guizot, par la Société du protestantisme français, Paris, 1976, costituiti da diciotto comunicazioni divise per temi: Guizot e l'insegnamento (M. Gontard, P. Gerbott, A. Zweyacker) Guizot uomo politico (D. Johnson, L. Girard, S. Mastellone, S. d'Huart, A. J. Tudesq) Guizot storico (Ch. O. Carbonell, O. Loutaud, R. Rémond, M. Richard) Guizot uomo religioso (J. Gadille, R. Ladous, A. Encrevé, D. Robert, F. Delteil, G. Marchal E. Brush). 89 Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., vol. I, pp. 22 e 27.
157
rappresentare solo un orizzonte, un destino, una direzione verso la quale
tendere, ma è ad essa che deve essere orientata tutta l’azione del potere politico.
Questo lavoro coincide con il governo. «La verità non ha mezzi di governo che
siano utili a chi non è nella verità»,90 scrive in Des moyens de gouvernement,
facendo però poco dopo cenno al carattere storico della verità cui l’uomo può
giungere: «ogni epoca ha la sua idea favorita, che essa difende al di sopra di
tutte le altre, in cui essa vede la verità, che ne contiene una parte più o meno
grande, e dove risiedono allora i mezzi di governo».91 La verità è dunque allo
stesso tempo una regola che trascende il potere ma a cui esso deve votarsi e,
nella misura in cui riesce ad accedervi, un mezzo di governo. «La sincerità è
nella situazione, nella natura del governo fondato dalla rivoluzione di Luglio
[…] è sotto questa stella, se posso esprimermi così, che è nato e cresciuto»,
spiega ai colleghi deputati nel 1833: dire la verità è parte della funzione di
governo perché significa operare correttamente il necessario processo di
comunicazione con la società, per questo «la sincerità è oggi il primo dovere, la
prima condizione di tutti i governi».92 Se dire la verità è un mezzo di governo
come lo sono i processi cognitivi di accesso al vero, se questo è nel suo
complesso trascendente, e se solo una parte è conoscibile, esiste la necessità di
dispiegare e organizzare tutto un discorso di verità di cui vorrei rintracciare
l’emergenza nell’intersezione fra teoria e pratica dei dottrinari. L’arte di
governo è allora anche una professionalizzazione e istituzionalizzazione della
verità, vale a dire l’organizzazione di una teoria del vero che definisce le
coordinate per accedervi e deve funzionare all’interno della vita pubblica e del
dibattito politico come mezzo di governo.
Lo specifico del governo rappresentativo consiste esattamente in un processo
90 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 132. 91 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 155. 92 Discorso del 16 febbraio 1833, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. II, pp. 98-99. È la «sincerità» l’emento che pone a discrimine fra la condotta della Restaurazione e quella della monarchia di Luglio: «nella sua devozione alla causa dell’ordine e della libertà di tutti, questo governo è sincero, la politica che esso professa a voce alta è la politica che vuole nel fondo della sua anima, è la politica che egli pratica realmente» (p. 99).
158
cognitivo e di autoriflessione che mette in comunicazione governo e cittadini
attraverso la comune relazione con il vero.93 Esso deve infatti obbligare tutti i cittadini a ricercare incessantemente e in qualsiasi occasione la verità, la ragione, la giustizia che devono regolare il potere di fatto. È ciò che fa il sistema rappresentativo 1° con la discussione che obbliga i poteri a ricercare in comune la verità; 2° con la pubblicità che pone sotto gli occhi dei cittadini i poteri occupati in questa ricerca; 3° grazie alla libertà di stampa che stimola i cittadini stessi a cercare la verità e dirla al potere.94
Rosanvallon parla di una «tecnologia educativa» e del potere come
«regolatore informazionale»,95 Jürgen Habermas ha riconosciuto in questo
passaggio una prima formulazione classica del «dominio dell’opinione
pubblica».96 E in effetti nei suoi scritti, così come nei suoi corsi di storia, non è
alle teorie filosofiche che Guizot si rivolge per sciogliere problemi e assunti
incerti, ma all’«opinione comune». Così fa soprattutto nel suo corso sulla storia
della civilizzazione europea,97 in cui sottolinea inoltre che «le parole assumono
un significato completo, determinato, preciso, un significato in certo modo
legale, ufficiale. Il tempo ha introdotto nel significato di ogni termine una
molteplicità di idee le quali si risvegliano al suo pronunziarsi».98 Così come per
ciò che concerne gli elementi conoscibili del vero, altrettanto per quanto
93 Si noti per inciso che nella sua prima esperienza al ministero degli Interni, Guizot chiedeva ai prefetti di interpretare il proprio ruolo facendosi osservatori di opinione, investigatori delle condizioni di vita della popolazione, degli interessi e dei giudizi delle classi elevate, cfr. Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 71. 94 F. Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif en Europe, Volume 2, Didier, Paris 1851, p. 14. 95 Rosanvallon, Le moment Guizot cit., pp. 69 e 71. 96 J. Habermas, Strukturwandel der oeffentlickeit (1962), trad. it. Storia e critica dell'opinione pubblica, Laterza, Bari, 1971, p. 124. 97 Cercando di elaborare una definizione stessa del concetto di civilisation, Guizot dice ai suoi studenti: «qual è dunque, o signori, questo fatto così grave, così esteso, così prezioso da sembrare il compendio dell’intiera vita dei popoli? Non voglio a questo punto cadere nella filosofia pura; non cercherò di porre dei principi razionali per poi dedurne come conseguenza la natura della civiltà. […] È il buon senso a dare alle parole il loro significato comune, e il buon senso è il genio dell’umanità. Il significato comune di un vocabolo si forma gradualmente e in presenza dei fatti. […] Per questo le definizioni scientifiche in generale sono molto più ristrette e, di conseguenza, molto meno vere del significato popolare dei termini» (Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., pp. 111-112). 98 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 261.
159
riguarda il linguaggio, Guizot ne esibisce una concezione storica, attenta ai
processi attraverso cui il significato viene prodotto. In questo senso è forse
possibile parlare del dottrinarismo se non come una teoria del vero, almeno
come una «posizione del vero». Elementi che Pierre Macherey restituisce con
grande profondità scrivendo che Una società […] per Guizot, è un linguaggio comune, una comunicazione che passa. Si sarebbe tentati di dire: il segreto della politica è la grammatica. Ma per Guizot […] questo linguaggio non è dato. È da costruire, in un modo che non è mai definitivamente acquisito, perché è piegato dalle congiunture, in condizioni che sono quelle di una storia.99
Processi di significazione dei significanti, discorso di verità, comunicazione
e linguaggio appaiono come elementi fondanti della concezione guizotiana del
governo. Di qui anche un’idea della libertà di stampa e della pubblicità dei
dibattiti parlamentari che rimanda assai più alla dimensione delle tecnologie e
mezzi di governo che all’idea liberale di strumenti di esercizio o tutela delle
libertà individuali. «Prendiamo dunque la potenza dei giornali come un fatto, e
come un fatto utile, perfino necessario al successo delle nostre istituzioni», dice
Guizot nel 1819, intervenendo (in qualità di membro del consiglio di Stato) per
la prima volta alla Camera, e aggiunge poi che essi consentono alla Francia
intera di «assistere ai dibattiti parlamentari».100 Nel corso della Restaurazione
Pierre-Paul Royer Collard è il grande alfiere della causa della pubblicità e della
99 P. Macherey, Aux sources des «rapports sociaux». Bonald, Saint-Simon, Guizot, in «Genèses», 9, 1992, p. 42. Confrontando il concetto di rapporti sociali nel pensiero di Bonald, Saint-Simon e Guizot come rispettivi rappresentanti del pensiero conservatore, socialista e liberale, Macherey conclude che da due secoli la «coscienza teorica» della società francese si è formata attraverso il confronto fra questi tre discorsi che ne hanno in qualche modo costituito la «sociologia spontanea»: gli elementi comuni che ne emergono esprimerebbero «l’esistenza di una società strutturata alla maniera di un linguaggio, e che si definisce essenzialmente come società di comunicazione» (p. 43). 100 Relazione alla Camera del 3 maggio 1819, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 7. Come scrive e specifica un paio di anni più tardi, la libera stampa è mezzo di governo e allo stesso tempo decisivo strumento di opposizione: «Non vedo in Francia che un mezzo di opposizione, è la parola, e per la parola non vedo che un luogo ove essa sia veramente libera, la stampa» (Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 197).
160
libertà di stampa:101 per i dottrinari evidentemente non si tratta solo di tutelare
un diritto dei cittadini, ma assai più di far funzionare quel lavoro di
comunicazione e riflessione fra governo e società che ne dissemina e moltiplica
i punti di contatto, ed è necessario all’efficacia del primo e all’esistenza della
seconda. La libera stampa «stimola i cittadini stessi a cercare la verità e a dirla
al potere»,102 essa fa in qualche modo funzionare quelli che potremmo chiamare
dei «rituali di verità» che sono necessari alla macchina del governo. Per questo i
molti critici dei dottrinari durante la monarchia di Luglio rimproverano loro la
funzione pastorale che paiono assegnare alla stampa a loro vicina: «E i loro
giornali! – lamenta la «Revue Encyclopédique» – Con che sollecitudine
predicano quotidianamente, e ci fanno lezione sera e mattina! I reverendi gesuiti
del Paraguay non castigavano più paternalmente il loro gregge». 103 È in
particolare il «Journal des dèbats» che pare assolvere pedissequamente tale
compito, traducendo nella polemica politica quotidiana il punto di vista
dottrinario.104
È tale sforzo di colonizzare alcuni spazi intermedi fra il pensiero e la parola,
di sedimentare il portato delle proprie teorie all’altezza del si dice, che consente
di studiare questo tornante storico osservando l’esperienza dei dottrinari come
produzione di un discorso di verità, intersezione dinamica fra teorie e dibattito
pubblico, grandi testi e iniziativa istituzionale, pensiero e azione di governo,
retorica, concetti e linguaggio politico. È a quest’altezza che provo adesso a
misurare la razionalità politico-discorsiva con cui gli uomini della monarchia
101 «Lo scopo del governo rappresentativo è di mettere pubblicamente in presenza e alle prese i grandi interessi, le opinioni diverse che si dividono la società e se ne disputano l’impero, nella giusta speranza che, dai loro dibattiti, usciranno la conoscenza e l’adozione delle leggi e delle misure che più convengono al paese. […] Se la maggioranza si forma per artificio c’è menzogna, se la minoranza è messa in anticipo fuori combattimento, c’è oppressione», Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 412. 102 F. Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif en Europe, Vol. 2, Didier, Paris 1851, p. 14. 103 Ch. Didier, Les doctinaires et les idées, in «La Revue Encyclopédique», vol. 55, 1832, p. 344 104 Scrive Guizot a propostito del «Journal des débats» e dei suoi proprietari, i fratelli Bertin: «Entrando nel 1830 alla Camera dei deputati, vi avevo trovato uno dei due fratelli, Bertin de Veaux, e avevamo pensato e votato insieme. Dopo la Rivoluzione di Luglio, sostenne con la più intelligente fermezza la politica di resistenza, e durante il mio ministero degli interni mi aveva dato il suo costante appoggio» (p. 179).
161
orleanista assumono la sfida posta loro dall’insurrezione lionese facendone una
lente attraverso cui rileggere l’intera vicenda della rivoluzione del 1830. Per
poi, nei paragrafi successivi, sondare la relazione che si istituisce fra tale
razionalità e alcuni elementi fondamentali della teoria dottrinaria:
l’interpretazione della rivoluzione di Luglio – della vicenda della Carta rivista e
del mutamento di dinastia –, l’elaborazione del concetto di classe sociale, e la
sua declinazione politica attraverso il principio di capacità, per provare infine a
istruire alcune ipotesi sulla relazione che tali elementi intrattengono con
l’emergenza della nozione di classe operaia. Al quarto capitolo rimando invece
l’indagine della concezione dottrinaria della dimensione del sociale e del
rapporto che essa intrattiene con le nozioni di potere e governo, nonché l’analisi
dell’attivazione, di fronte all’avvenimento lionese, del dispositivo discorsivo
dei nuovi barbari, e della messa in opera di alcune iniziative di governo inerenti
le «classi lavoratrici».
2.3 Il «Lumpenpolitico»
Non appena le prime voci sull’insurrezione lionese si diffondono – il 24
novembre 1831 – nella capitale, Rochedourc, commissario della Borsa vi fa
affiggere un avviso che recita: «i dettagli che sono arrivati al governo sui
disordini scoppiati a Lione, fanno sapere nel modo più positivo che non c’è
niente di politico in tali disordini».105 Il giorno successivo, la discussione alla
Camera sulla riforma del codice penale106 è interrotta dalle comunicazioni del
capo del governo sui fatti lionesi: «nessuna notizia, nessuna informazione
autorizza a ricondurre alla politica la causa degli avvenimenti che hanno
105 «Journal des debats», 25 novembre 1831, p. 2. Lo stesso numero annuncia in prima pagina: «È con il più profondo dolore che abbiamo oggi ricevuto conferma dei rumori sinistri che corrono da due giorni a Parigi sulla rivolta degli operai in seta di Lione. Ecco tutti i particolari che abbiamo potuto raccogliere da molteplici lettere private. […] Questo movimento non ha alcun carattere politico» 106 Abolirà le pene corporali affermando la centralità assoluta della pena della detenzione
162
insanguinato Lione».107 Si tratta della medesima affermazione con cui Périer
conclude la relazione che, il 17 dicembre, introduce la discussione parlamentare
sulla rivolta: «ci compiacciamo di confermare una delle prime osservazioni a
cui questi deplorabili avvenimenti hanno dato luogo; è che le loro cause, come
le loro conseguenze, sono sembrate generalmente estranee ad ogni pensiero
politico».108 Guizot partecipa al dibattito con un lungo intervento: La rivoluzione di luglio non aveva sollevato che delle questioni politiche, che delle questioni di governo; da tali questioni la società non era in alcun modo minacciata. Che è successo dopo? Delle questioni sociali sono state sollevate. C’è stata una lotta fra classi. I disordini di Lione ce l’hanno rivelato. […] Questioni sociali, disordini interni, dissensi nella società sono venuti ad aggiungersi alle questioni politiche e noi siamo oggi in presenza di questa doppia difficoltà, di un governo da costruire e di una società da difendere.109
Per il campo di problemi in cui si colloca e per la sua capacità di chiamare in
causa il significato della rivoluzione del 1830, l’interpretazione 107 «Journal des debats», 26 novembre 1831, p. 3. La breve comunicazione del presidente del consiglio alla Camera dichiara l’illegalità del tarif («le leggi non permettono di tassare il prezzo del lavoro»), presenta un breve resoconto delle notizie sugli avvenimenti conosciuti dal governo, dichiara la partenza del principe e del ministro della guerra alla volta di Lione. Segue una prolungata gazzarra in aula riguardo alla possibilità di votare o meno atti inerenti la comunicazione del governo. Lo stesso 25 novembre il prefetto del dipartimento di Marsiglia, timoroso di disordini, fa diffondere a mezzo stampa una proclamazione sui fatti lionesi in cui dichiara che «questi avvenimenti, che non temo di portare alla vostra conoscenza, sono estranei alla politica» (cit. in «Journal des débats», 2 dicembre 1831, p. 2) 108 Communication du gouvernement au sujet des événements de Lyon cit, L’argomentazione ancora prosegue derivando la forza delle istituzioni di Luglio dal carattere non-politico della sommossa lionese: «et sous ce rapport, c'est une force acquise à nos institutions; car il n'y a de fort, aux yeux des hommes, que ce que personne ne songe à attaquer. Dans tous les cas, si quelque intention politique avait présidé au principe de ces désordres, il n'est pas moins rassurant de voir que l'événement a tellement anéanti tout calcul de ce genre, que pas déçu un des partis, qui se disputent les élémens de trouble, n'a, découragé, osé se présenter pour recueillir le fruit, et pour prendre la responsabilité d'une révolte repoussée par le pays tout entier!», pp. 7-8. Il 25 novembre Périer si presenta alle due camere per una prima discussione al termine della quale viene fatto votare l’indirizzo di sostegno alle politiche del governo. Il 17 dicembre ha luogo una nuova discussione sugli avvenimenti lionesi a partire dalla «comunicazione del governo» (Périer la presenta ai depuati, Argout ai pari). «Questa relazione – racconta Guizot – diede luogo a domande di chiarimento e a un dibattito molto animato che verteva allo stesso tampo sui fatti di Lione e sulla politica generale del gabinetto e si prolungo per quattro sedute», F. Guizot, Histoire parlementaire de France: recueil complet des discours prononcés dans les Chambres de 1819 à 1848, Michel-Lévy frères, Paris 1863-1864, Vol I, p. 352. 109 F. Guizot, Histoire parlementaire de France cit., Vo. 1, p. 359.
163
dell’insurrezione lionese diviene una delle sfide del momento. Riportando
all’ordine del giorno la presenza scenico-politica di un popolo in grado di
vincere la resistenza dell’autorità legale, essa evidenza ciò che Giovanna
Procacci chiama il «pericolo di una pressione popolare sul politico».110 Un
combattimento sordo è rapidamente ingaggiato. Il Journal des débats si occupa
di ribattere colpo su colpo al National, di destituirne di fondamento gli
argomenti raffigurando la radicale alterità «fra la rivolta di novembre e la
resistenza di luglio», fra il popolo che difendeva la Carta dall’insurrezione del
potere monarchico e gli operai insorti contro le leggi dello Stato, insomma «tra
il movimento sociale di Lione e il movimento politico di Parigi».111 Più che
argomentata sul piano teorico, tale contrapposizione viene «colta» all’altezza
del si dice, presentata come verità pubblica, rivelata come fatto di opinione: «un
primo fatto ha colpito e rassicurato il pubblico, l’assenza di ogni carattere
politico nella sollevazione degli operai lionesi».112 Perfino il corrispondente
110 O il pericolo di una «politicizzazione della questione sociale», Procacci, Governare la povertà cit., p. 21. Problematica che secondo questa studiosa viene affrontata attraverso l’invenzione del sociale come nuovo terreno di politiche, di istituzioni e di scienza, «come una strategia di depoliticizzazione delle diseguaglianze»(p. 24) che continuano ad attraversare una società post-rivoluzionaria in cui i poveri, malgrado la loro miseria non possono che essere uguali, e in cui il collegamento della povertà con il lavoro come grande principio di socializzazione e di ricostruzione del legame sociale non elimina, ma finisce per accentuare disparità e conflitti. Si noti che nella comunicazione del governo si legge: «plus est permis de croire que la politique est restée étrangère à ces desordres, plus importe d'observer les circostances puerement sociales qui ont pu amener cette crise. […] c'est le fond meme de la question sociale, dans laquelle vient se confondre celle de l'industrie de Lyon»(p.8). 111 «Journal des débats» 7 dicembre 1831. L’editoriale del «Journal des débats» del 2 dicembre 1831 mostra efficacemente la posta in palio, attaccando coloro che «domandano alla rivoluzione di luglio perché ella si lamenti e indigni della sommossa di Lione. Come dunque, dicono, è stato bene rivoltarsi nel 1830, è male farlo nel 1831! Ma chi si è rivoltato nel 1830? Il re e i suoi consiglieri! Non c'è rivolta contro le persone, non c'è rivolta che contro le leggi. […] ogni attentato contro le leggi è, da qualsiasi mano parta, una rivolta. Poco importa che quello che la firma porti il mantello reale o gli haillons, che si chiami Re o popolo […]. Dov'è dunque il rapporto fra le gloriose giornate di Parigi e e i deplorabili egarements di Lione?». Se il popolo di Lione può essere compreso e giustificato per le sue sofferenze e per il comportamento dopo la rivolta, «il popolo di luglio non aveva niente da espiare, niente da farsi perdonare. Si è potuto vantare il suo coraggio e lodare la sua moderazione senza paura di incoraggiare la rivolta! La rivolta era stata punita con l'esilio!». L’editoriale del giorno dopo ritorna sulla questione affermando la radicale alterità fra «dei coraggiosi che muoiono per difendere le leggi e degli insensati che si battono per violarle». 112 «Journal des débats», 6 dicembre, p. 1. L’argomentazione prosegue così: ««Perché rassicurato? Una crisi sociale non è mille volte più pericolosa di una crisi politica? Senza dubbio sì, e sotto molto riguardi. Ma nel caso specifico, era facile prevedere che gli operai lionesi, abbandonati a se stessi, senza capi e senza bandiere, avrebbero respinto, anche con
164
inglese registra che la révolte ha sì prodotto «a Londra la più viva impressione;
ma nessuno ha creduto che la stabilità del governo ne potesse essere seriamente
colpita, e ci si rallegrava che la rivolta non avesse presentato alcun carattere
politico».113 Agli argomenti di chi istituisce un parallelo fra luglio 1830 e
novembre 1831 all’altezza della prossimità dei comportamenti del popolo, il
discorso politico dottrinario lavora dunque a contrapporre la distinzione, la
giustapposizione dei due avvenimenti in corrispondenza della produzione di
una soglia di verità del politico che garantisce la legittimità e la stabilità delle
istituzioni fondate dalla rivoluzione di Luglio proprio attraverso il riferimento
all’alterità dell’insurrezione e degli enunciati ad essa inerenti che a tale soglia
rimangono esterni. Gli editoriali del Journal des débats fra 26 novembre e 6
dicembre si adoperano a rivelare da molteplici prospettive114 l’«assenza di ogni
passione politica nei disastri di Lione»,115 dispiegando così tutto un lavoro di
localizzazione e delimitazione del politico teso a depurarlo dagli accidenti e
dagli azzardi del caso attraverso la focalizzazione di attitudini e «passioni»
qualificate come impolitiche. «Non si tratta qui né di repubblica né di
monarchia; si tratta della salute della società»:116 l’editoriale dell’8 dicembre si
occupa poi di dare un nome ad alcune di tali condizioni di esteriorità, operando
la trascrizione nell’attualità della figura storica dei barbari che un ruolo tanto
importante aveva svolto nella storiografia francese.
Questa «evacuazione dal politico» è stata più volte sottolineata e analizzata.
Ma, piuttosto che leggervi la mera negazione di parola politica a soggetti
subalterni cui ancora non è consentito l’accesso alla dimensione del dibattito
pubblico, 117 mi sembra interessante indagarlo provando a scorgervi la
indignazione ogni altro simbolo e governo che quelli del governo nazionale e non avrebbero tardato a riconoscere il loro errore e rientrare sotto l’impero delle leggi. […] Una volta scartata la politica dal sollevamento lionese, cosa sarebbe dunque esso? Un attentato deplorabile contro l’autorità delle leggi, una crisi dolorosa, ma tale quale viene offerta, dopo tutto, la storia di tutte le nazioni e città commerciali». 113 «Journal des débats», 1 dicembre 1831, p. 2. 114 Non ultima quella che sottolinea la mancanza degli elementi classici dell’evento politico, l’assenza di capi riconosciuti, di parole d’ordine storiche, di vessilli noti. 115 «Journal des débats», 6 dicembre 1831, p. 1. 116 «Journal des débats», 8 dicembre 1831, p. 1. 117 La ricerca di Riot-Sarcey pare orientata anzitutto, anche nell’analisi della révolte des
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produzione di un discorso di verità in cui è possibile riconoscere un processo di
significazione della nozione di politica costruito per opposizione e
differenziazione (più avanti proverò a sostenere che tale contingenza
rappresenta il contesto necessario in cui cogliere l’emergenza del concetto di
classe operaia). Così, piuttosto che l’affermazione di Louis Blanc secondo cui
«tale era la cecità degli uomini posti allora alla testa della società che essi
furono rassicurati e soddisfatti apprendendo che l’insurrezione non era affatto
politica»,118 sono le parole con cui Charles de Rémusat – rammaricandosi di
come la Camera non si fosse voluta soffermare sui «pericoli di genere nuovo»
che si «intravedevano confusamente nell’insurrezione» ed erano prodromo di
uno «stato di malattia più generale» ancora mal compreso – ricorda
l’avvenimento scrivendo: «fu allora compiutamente statuito [bien établi] che le
canuts, a mostrare il modo in cui la produzione di discorsi di verità abbia l’effetto di negare parola politica ad alcuni soggetti subalterni: «la categoria peuple, allo stesso titolo che la categoria femme, è costruita fuori da ogni accesso alle capacità storiche […] classe fuori soggetto della propria storia» (p. 61), e ancora, «sotto l’effetto riduttore di una linearità riscostruita, dei gruppi sociali interi sono scartati dall’oggetto politico» (p. 74). Ciò che mi pare problematico in questo studio è che tali categorie vengono intese in modo sostanzialmente referenziale, come se esse facessero riferimento a segmenti sociali già dati anziché contribuire a determinarlo. L’ambivalenza di un termine come quello di popolo indica chiaramente l’impossibilità di utilizzarlo in maniera referenziale e rimanda piuttosto alla necessità di studiarne sistema di significato e processi di significazione nei differenti momenti e contesti. Ma soprattutto ciò che mi pare interessante analizzare è che se è vero che si danno tali processi di negazione di parola politica, se cioè per dirla con Sarcey, la parola di alcuni soggetti viene immediatamente posta al di fuori del discorso di verità e se è allo stesso tempo vero, come si è sforzata di mostrare Joann Wallach Scott, che le parole acquisiscono significati che sono stabiliti differenzialmente e relazionalmente rispetto ai campi in cui agiscono e a quelli che creano, e si affermano attraverso una serie di opposizioni, attraverso impliciti o espliciti contrasti stabiliti in specifici contesti discorsivi, ciò che andrebbe interrogato è allora a quale regime di verità tali sistemi di esclusione dal discorso diano vita, il riferimento per opposizione a figure di cui si intende negare la capacità politica a quale nozione di politica, a quale verità del politico dà vita? 118 Blanc, Histoire de dix ans cit., p. 357. Secondo Louis Blanc l’insurrezione del 1831 – «vera guerra servile» dispiegata dagli «schiavi dei tempi moderni» – rivela tutti i vizi dell’ordine borghese insediatosi a partire dal 1789, annunciando allo stesso tempo prospettive e scenari propri al destino del XIX secolo: l’Histoire de dix ans (1841) conferisce pertanto all’evento «un carattere e una portata formidabili». «Non era, in realtà, né in nome di Enrico V o di Napoleone II, né per conto della repubblica che gli operai di Lione si erano sollevati. L’insurrezione, stavolta aveva un carattere e una portata ben altrimenti formidabili. Perché era la dimostrazione cruenta dei vizi economici del regime inagurato nel 1789», si mostrava «una vera guerra servile; e la potenza che avevano dispiegato questi schiavi dei tempi moderni, lasciava facilmente indovinare quali tempeste il XIX secolo porti in seno» (Blanc, Histoire de dix ans cit., pp. 356-357).
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troubles di Lione non avevano nulla di politico».119 Si tratta di stabilire,
sostenere o ratificare un discorso di verità chiamato a produrre effetti di potere,
a funzionare come mezzo di governo, immediatamente trascritto in una
circolare sul «vero carattere» degli avvenimenti lionesi che il presidente del
consiglio invia a tutti i prefetti di Francia:120 Signor prefetto, le troubles di Lione vi sono già note. Le comunicazioni che, per ordine del Re, ho fatto alle due Camere, e la mia corrispondenza, vi hanno indicato il vero carattere di questi avvenimenti. Per quanto gravi, per quanto dolorosi, siano stati, essi sono rimasti costantemente estranei alle passioni e alle opinioni politiche. E questa circostanza prova qual è la forza della monarchia e delle istituzioni del 1830, quanto le loro radici sono già profonde […]. Rassicurate dunque, signor prefetto, tutti i buoni cittadini. Fate conoscere la verità. Queste verità, non ne dubito, sono già presenti alle guardie nazionali del dipartimento affidato alla vostra cura. […] Penetratevi, Signor Prefetto, dello spirito di questa circolare. Tracciate a tutti i funzionari posti sotto i vostri ordini queste regole di condotta che indico a voi stessi. Prevenite i falsi allarmi, le menzogne dello spirito di disordine.121
119 Rémusat, Mes mémoires, p. 538, corsivi miei: «si intravedevano confusamente dei pericoli di un genere nuovo, di cui essa [la Camera] ebbe forse il torto di non preoccuparsi più a lungo. […] Il movimento di Lione fu locale e spontaneo; ma non fu di meno uno dei sintomi o dei prodromi di uno stato di malattia più generale, che era fino ad allora sfuggito all’attenzione di tutti». Lo svolgimento dell’argomentazione di Rémusat è particolarmente preziosa per due motivi. In primo luogo denuncia l’apertura di un campo di slittamento fra politico e medico-biologico, di sovrapposizione non solo linguistica, in un regime discorsivo cui gli avvenimenti di Lione contribuiscono in modo importante e su cui tornerò diffusamente più avanti. nell’espressione «stato di malattia» emerge tanto una concezione organicista della società quanto una certa egemonia del sapere medico igenista nello studio della questione sociale che proprio in questi anni comincia a farsi strada. Secondariamente si vede qui come il carattere non-politico della rivolta lionese non rimandi alla semplice constatazione della sua estraneità alla questione dello schieramento politico al potere o della forma istituzionale del potere esecutivo, ma sia piuttosto una vera e propria statuizione, una «verità» che i pubblici poteri si sforzano di produrre, che la Camera deve stabilire politicamente, e che, nelle parole di Rémusat, è una scelta che presa a discapito di altre possibili, dal momento che egli stesso afferma di aver scelto di non pronunciare il discorso che aveva preparato sui rapporti che lo Stato deve intrattenere con la condizione delle «classi inferiori». Lettera d Torino al conte sebastiani del 9 dicembre, spiega il timore che le autorità piemontesi che la rivolta potesse guadagnare Grenoble e varcare poi il confine. ( P.B. Baron de Barante, Souvenirs du Baron de Barante de l'Académie francais cit., p. 400). 120 Indicati come «potere sociale tanto quanto politico». 121 Cit. in «Journal des débats» e in Le National (che lo commenta) del 3 dicembre, corsivo mio. La circolare prosegue: «gli impedisca di impadronirsi della giusta sollecitudine che devono ispirare gli avvenimenti di Lione per agitare l'opinione pubblica», e – dopo aver invitato a far tesoro degli avvertimenti di cui i fatti di Lione possono essere portatori – conclude:
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Le strategie discorsive attivate intorno all’insurrezione lionese si formano
dunque all’interno della più generale aspirazione a rifondare una
rappresentazione condivisa del presente e delle grandi vicissitudini del recente
passato, e mirano ad affermare un’interpretazione autentica, legale, della
rivoluzione del 1830 attraverso una partizione fra vero e falso del politico che
pone la révolte des canuts sul secondo versante. Proprio il riferimento
all’alterità di quest’ultima svolge nel discorso di verità politica del governo il
ruolo di «prova» della forza e del radicamento delle istituzioni fondate dalla
rivoluzione di Luglio – del fatto che «la Carta è ormai verità». Questo discorso
di verità è immediatamente chiamato a produrre effetti di potere, a farsi mezzo
di governo, tanto rispetto all’opinione e al senso comune, quanto nell’orientare
la condotta degli amministratori. Ma quali sono allora i criteri di autorizzazione
che consentono a enunciati e avvenimenti di essere nel vero della politica?
Quale rapporto tali criteri intrattengono con la nozione di popolo e con quella di
classe?
Nel discorso del Journal des débats, gli enunciati inerenti il popolo
sembrano poter essere nella verità del politico solo se si dispongono sul
versante della rappresentazione unitaria di tale categoria (epurando o
riconducendo ad essa le figure parziali che la insidiano): C’è qualcosa di più grave di tutto questo: sono gli elogi della singolare moderazione che si limita a bruciare ciò che potrebbe rubare; sono le sfiducie più funeste che si semina nel popolo contro le classi medie. Cosa si vuol dire, lo domandiamo, quando si presenta la classe media come avente degli interessi differenti da quelli del popolo? […] Cosa sono dunque le classi medie se non una porzione del popolo che il lavoro, l’industria, l’attività hanno reso proprietaria? Essendo la loro origine comune, come potrebbero i loro interessi
«l'autorità dipartimentale comprenderà che, incaricata di proteggere degli interessi locali e dei diritti privati, ma coordinandoli con gli interessi dello Stato e i diritti generali dei cittadini, come potere sociale tanto quanto che come potere politico, è eminentemente una missione di resistenza. Al di là dell'ordine legale le concessioni sono delle vigliaccherie». […] Je vous invite donc à redoubler d'assiduité pour me tenir au courant de tout ce qui peut intéresser les besoins, les interets ou la tranquillité de votre dipartement. La circulier a été emané le 1er décembre
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essere distinti? […] Le classi medie non sono continuamente reclutate tra il popolo?122
Nel corpo unitario, e astratto, del popolo, si introduce il criterio della
proprietà per evidenziarne un segmento specifico, le classi medie. Fare di
questo segmento sociale – di cui la proprietà non sarebbe che una «prova» della
capacità, della facoltà di agire secondo ragione – una classe politica è lo scopo
in cui si incarna l’intera impresa teorica dei dottrinari. Di fronte all’alterità
impolitica dell’insurrezione lionese, la proprietà diviene il criterio che produce
la soglia di internità alla verità del politico: «ciascuno ha percepito quello che
c’era di grave per la società stessa, indipendentemente da qualsiasi forma di
governo, in un simile attentato, commesso a mano armata contro le leggi e la
proprietà, e che la repubblica non ammetterebbe più che la monarchia
costituzionale». 123 Si tratta di statuire in corrispondenza della proprietà il
principio di autorizzazione del discorso politico, secondo una postura che
appare in maniera ancora più chiara nell’editoriale del Temps del 26 novembre:
«quando la proprietà è minacciata, non ci sono più opinioni politiche, sfumature
di ministero e opposizione. […] Noi sospendiamo i motivi di risentimento del
paese e chiamiamo il concorso di tutte le forze intorno al governo protettore
degli interessi».124
«La Carta sarà ormai verità!»: è questo il grande slogan delle giornate di
Luglio – a lungo sinonimo dell’avvenimento stesso – con cui il nuovo re
suggella la vittoria della rivoluzione. Istituire una relazione isomorfica fra la
verità delle istituzioni fondate dalla Carta e quella verità del politico che prende
forma all’interno della soglia prodotta dal criterio della proprietà delle classi
medie rappresenta il punto di caduta dell’intera iniziativa dottrinaria. È alla
costellazione concettuale che nella riflessione guizotiana viene attivata in
corrispondenza dell’espressione «verità della Carta», e al modo in cui essa
forma l’interpretazione della rivoluzione del 1830 che la mia indagine va
122 Journal des débats, 29 novembre 1831, p. 1. 123 Così l’editoriale del «Journal des débats» del 6 dicembre 1831. 124 «Le Temps», 26 novembre 1831.
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dunque adesso a rivolgersi. Per poi – nei due paragrafi successivi – sondare la
relazione che nel pensiero di Guizot si istituisce fra la riflessione sul significato
storico della codificazione costituzionale e l’elaborazione del concetto di classe
sociale che questo autore contribuisce a introdurre nel pensiero politico
moderno. L’ipotesi che in seguito – analizzando l’emergente discorso del
socialismo – cerco di avanzare riguarda la possibilità di rinvenire nello sforzo
guizotiano di pensare una «traduzione politica» dell’esistenza e dell’attività
sociale delle classi medie, alcune fondamentali condizioni di emergenza di
quella formazione discorsiva che prenderà il nome di «classe operaia».
2.4 La Charte e le geografie della storia
«Il governo del 1830 ebbe subito la vita dura. Nato ieri – scrive Victor Hugo
– dovette combattere oggi; non appena stabilito, sentiva già dappertutto vaghi
movimenti di trazione sull’ingessatura di luglio, posta così di recente e così
poco solida»:125 in questa metafora ortopedica si trova scritto tanto il problema
costituzionale della Carta del 1830 quanto la ferita riapertavi dalla révolte des
canuts. La violenta presa di parola del popolo lionese «rammemora» quella
matrice insurrezionale delle istituzioni fondate in Luglio che ne incarna la
contraddizione più clamorosa e lampante. Statuire l’alterità dei due avvenimenti
in corrispondenza del carattere impolitico della rivolta di novembre diviene
perciò condizione per affermare identità e legittimità delle nuove istituzioni.
«Come conciliare il principio monarchico con la sua origine rivoluzionaria? –
scrive Marcel Morabito nell’Histoire constitutionnelle de la France – A questa
questione, che andava a pesare molto sull'avvenire del regime, né gli
avvenimenti, né la Carta rivista, rispondono in modo chiaro».126 Si tratta di
legittimare il potere di un re il cui predecessore è stato costretto ad abbandonare 125 Hugo, I Miserabili cit., p. 768. 126 M. Morabito, Histoire constitutionelle de la France (1789-1958), Montchrestien, Paris 200810, p. 199.
170
il trono da una sollevazione: lo stesso diritto del re a regnare costituisce un
problema, un rompicapo che non può essere sciolto né dal principio dinastico,
né da quello della sovranità nazionale. Sull’ambigua formula della «quasi-
legittimità» vengono così caricate tutte le incertezze del nuovo regime, che
André Jardin sintetizza nella domanda «il nuovo re è stato scelto in quanto
Borbone o sebbene Borbone?».127 Ho già detto come alla struttura mitica
imbastita sul corpo del popolo parigino di Luglio venga demandato il compito
di opacizzare le ambiguità e i nodi irrisolti del nuovo regime.128 Ma si tratta, al
solito, di un Giano bifronte, buono tanto a fondare il potere quanto a minarne le
fondamenta: il popolo evoca immediatamente l’idea di potere costituente, vero
spauracchio dei dottrinari che lo considerano sinonimo di sedizione e di tutti gli
eccessi di un passato con cui 1830 è chiamato a chiudere definitivamente i
conti. La cacciata delle autorità da Lione è questo spettro che ancora si agita.129
Di fronte al riemergere delle sommosse nelle strade di Francia, Guizot non esita
a paragonare il «potere costituente» che esse evocano al «potere
extracostituzionale» che Carlo X si era arrogato nell’emettere le ordinanze
contro cui si è fatta la rivoluzione. Afferma perciò alla Camera che «a Luglio la
Francia ha voluto, ha creduto di abolire ogni potere extra-costituzionale, ogni
potere extra-legale. Il pensiero nazionale, il sentimento dominante e della
popolazione di Parigi e della Francia intera è stato di chiudere il potere nel
cerchio della costituzionalità e della legalità»:130 le istituzioni fondate dalla
127 Jardin, Histoire du librealisme cit., p. 290. 128 Costituzionale, parlamentare, censitaria, rappresentativa: la varietà di aggettivi cui si chiede di specificare e definire la monarchia di Luglio monarchia che è nata grazie alla benedizione datale dal grande eroe repubblicano della Rivoluzione francese – La Fayette – che dal balcone dell’Hôtel-de-Ville la aveva sdoganata al popolo come la migliore delle repubbliche, un trono circondato da istituzioni repubblicane (Cabet parla perfino di «monarchia repubblicana»). «1789, 1791, 1793, 1814: lo spettro dei riferimenti utilizzati per pensare il senso della rivoluzione di Luglio è straordinariamente largo. Ma esso non testimonia soltanto dello scarto delle opinioni che separano gli attori delle Tre Gloriose. […] è il senso stesso della monarchia di Luglio che appare problematico nella diversità questi modi di concepire il ritorno all'ordine e la fine degli abusi», P. Rosanvallon, La monarchie impossibile cit., pp.147-148. 129 Sul tema del potere costituente cfr. Rosanvallon, La monarchie impossibile cit., pp. 123-135, M. Fonteneau, Du pouvoir constituente en France et del la révision constitutionelle dans les Constitutions françaises depuis 1789, Caen, 1900, A-F. Perny, Le pouvoir constituente sous la monarchie de Juillet, Paris, 1901. 130 Discorso del 29 dicembre 1830, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol.
171
Carta del 1830 vergano il perimetro all’interno del quale ogni potere, ogni
passione, tutto l’agire politico, devono essere circoscritti e confinati.
«Risoluti a non diventare dei rivoluzionari anche facendo una
rivoluzione»:131 così le Mémoires guizotiane ricordano la postura dei dottrinari
che, fin dai primi affrontamenti nelle strade di Parigi il 27 luglio 1830, si
adoperano a scongiurare l’irruzione di spettri costituenti, a evitare la frattura
rivoluzionaria. Nei diciotto anni successivi non smetteranno di impegnarsi a
depurare il profilo del regime di Luglio dalla sua matrice insurrezionale, dalla
flagrante contraddizione fra il colpo di forza che gli ha dato vita e la missione di
conciliazione e ordine di cui lo si vorrebbe investito.132 Per farlo si affidano
anzitutto all’autorità del passato, alle verità della storia, secondo una postura
che Guizot espone al principio del suo intervento sull’insurrezione lionese: Signori, non è la prima volta che avanti ieri siamo stati accusati, i miei amici ed io, di disconoscere il senso, la grandezza e la portata della rivoluzione di luglio, di non vedervi che un semplice avvenimento, di non vedervi che una questione di nomi propri; […] nel momento stesso in cui il movimento nazionale cominciava a farsi sentire, fu considerato in due maniere ben differenti: gli uni pensavano che si dovesse proclamare sul campo una rivoluzione completa, eclatante, minacciosa; le parole di potere costituente, di decadenza, di governo provvisorio furono all’istante pronunciate. Altri pensavano che la rivoluzione che si preparava dovesse farsi al contrario naturalmente, progressivamente, completamente, dispiegandosi in ogni momento secondo come lo indicavano le circostanze e nel modo in cui sembrava evidentemente comandato dalla ragione e dalla necessità […] Ecco, signori, i due sistemi che sono stati seguiti dalle prime ore dalla rivoluzione di luglio. Il
I, p. 168. Guizot interpreta questa sorta di contratto fra l’elemento rappresentativo e quello monarchico come la sostanziale elisione del potere costituente, quel «potere extracostituzionale» che «è stato durante quindici anni l’inquietudine e il tormento della Francia, essa lo ha visto sempre sospeso sulla sua testa» (ibid.). 131 Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps cit., p. 108, «partita dal trono, una grande violazione del diritto aveva risvegliato e scatenato tutti gli istinti ardenti del popolo» (p. 108). «La necessità di optare fra la nuova monarchia e l’anarchia, tale fu nel 1830 la causa determinante del cambiamento di dinastia. Al momento della crisi, questa necessità era sentita da tutti, dai più intimi amici del re Carlo X come dai più ardenti spiriti dell’opposizione»(110). 132 Il 16 febbraio 1833 Guizot dice alla Camera dei pari: «noi non abbiamo la pretesa di aver fatto il governo di Luglio, esso è stato fatto da una potenza ben superiore alla nostra e a quella degli uomini: esso è stato fatto da un atto della Provvidenza, eseguito dalle braccia del popolo francese» (in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. II, p. 102)
172
primo non la prendeva, per chiamare le cose con il loro nome, che dal lato rivoluzionario; non teneva in alcun conto il passato, le istituzioni esistenti, i poteri in vigore; faceva appello alle passioni e alla potenza del momento […]. Nell’altro sistema si prendeva la rivoluzione dal suo lato costituzionale, si rispettava il passato, le istituzioni costituite, i poteri in vigore; ci si indirizzava ad essi.133
Alla concezione «rivoluzionaria» di 1830 organizzata intorno alle categorie
di potere costituente, volontà, popolo, Guizot contrappone una concezione
«costituzionale» vocata ai principi di ragione e necessità, che affida ai poteri
costituiti dal corso nella storia il compito di recepire «principi di ordine che
erano già entrati nella società» e nella cui affermazione sta tutto il significato di
«una rivoluzione non rivoluzionaria». 134 È quel «movimento retrogrado»
impresso agli esiti delle Tre gloriose in cui – nel processo ai dirigenti della
Société des Amis du peuple – l’autodifesa di Ulysse Trélat indica
l’imperdonabile peccato dei dottrinari.135
133 Discorso del 21 dicembre 1831, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, pp. 355-356: un sistema pensava «un peuple esclave qui brisait sa chaine et qui n'avait autre besoin que de deployer sa volonté et sa force», l’altro «un peuple libre qui defendat ses droits et faisait ses affaires sagement et prudemment» (p. 356). Guizot richiama poi gli ultimi trent’anni di storia francese per sostenere che nè l’Impero né la Restaurazione sono stati poteri che la Francia ha scelto, ma che gli sono stati imposti: la rivoluzione di Luglio è una sfida nuova per la Francia, chiamata a darsi il proprio governo. «L’opposizione non vuole abbandonare i suoi tipi favoriti, la Convenzione, tipo di governo che difende il suolo, l’impero, tipo di governo che amministra. Ad essa ripugna fare nuovi studi, rinnovare le proprie convinzioni; ciononostante sarebbe ormai tempo, perché il governo di luglio è una cosa del tutto nuova in questo mondo», spiega il Journal des débats. Principale bersaglio del discorso di Guizot sono gli interventi di Lafitte (esponente del «movimento» e capo del governo fino al 13 marzo 1831) e di Maguin (rappresentante dell’opposizione più radicale). Questi risponderanno giovedì 22 ancora a Guizot, il primo rivendicando il carattere propriamente rivoluzionario delle giornate di luglio, contestando la distinzione fra rivoluzionari e costituzionali e rivendicando alla sovranità naizonale la titolarità dell’investitura di Luigi Filippo. Il secondo sottolineando ancora una volta il ruolo della figura eroica del popolo di Parigi che muore per la rivoluzione, per affermare che effettivamente esistevano due orientamenti opposti rispetto a tale popolo. 134 Guizot, Trois générations 1789-1814-1830, in Id., Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. cviii: «decisa a non subire le ordinanze di luglio, la Francia voleva una rivoluzione che non fosse rivoluzionaria e che gli desse, allo stesso tempo, l’ordine e la libertà». 135 Société des Amis du Peuple cit., Procès des quinze cit., p. 99, «questi uomini che ci designano oggi dall’alto della tribuna nazionale […] incapaci di comprendere né di applicare il vero che non giudicano il cammino dello spirito umano che come una oscillazione, hanno voluto provarci che dopo la conquista di luglio ci voleva un movimento retrogrado e hanno messo tutta la loro cura per organizzarlo». Trélat. «era la riforma, l’economia, il progresso, era il miglioramento delle classi povere, era l’abbassamento dei carichi che pesano di esse; più stima e cura della vita degli uomini»(98). «Gli avvenimenti di Bristol, quelli di Parigi, quelli di Lio ne, signori, annunciano più di una riforma politica; sono i sintomi di una rivoluzione
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«Al centro del lavoro di diverse scuole filosofiche da un capo all’altro
dell’Europa è l’abbandono del dogmatismo e della cieca analisi dell’ultimo
secolo. […] Le leggi della storia divengono l’idea fissa, il problema che
tormenta tutte le intelligenze», si legge sul primo numero della «La Revue
Européenne».136 In maniera per certi versi simile a quanto era accaduto nel
secolo precedente con la filosofia, gli anni Venti dell’Ottocento segnano una
torsione, un ripiegamento del politico sulla storia, considerata ora il luogo
esclusivo di manifestazione della verità di un presente che sfugge
all’intelligenza dei contemporanei, portatrice di un principio di realtà che la
teoria politica pare incapace di cogliere.137 Guizot è uno dei massimi interpreti
di questa tendenza, anche nell’assumere la scrittura della storia come un
compito eminentemente politico. 138 «Sono i fatti che bisogna studiare,
rispettare, chiarire; non bisogna credere che all’esperienza», spiega nel suo
corso di storia della civilizzazione francese, altrimenti « si perseguono chimere,
sociale»105. «Secondo noi, un governo che afferra bene le tendenze della sua epoca è facile, perché non deve che applicarle. Quello al contrario che disconosce e rompe i bisogni attuali si consuma in sfrozi vani. [..] Essendo ogni governo la testa della società, ci pare responsabile degli scarti che provoca o delle forze che perde»(107-108) «Associazione. In questa parola c’è il pensiero di tutta la nostra vita. Sì noi ci associamo per essere più forti e per fare acquistare a dei pensieri che sentiamo buoni e fecondi, l’autorità che deve assicurare il loro impero»111. «noi siamo fieri di agire per associazione e di appartenere a una scuola, quella della sovranità del popolo, forzata di lottare ancora dopo la rivoluzione di luglio»112. 136 L. de Carné, Du problème social au Dix-neuvieme siècle, in «La Revue Européenne», Tome 1, 1831, pp. 8-9, scrive introducendo il primo numero della rivista, proponendosi attraverso la filosofia del linguaggio (che «precede quella delle idee») e ricercando il sistema del senso comune che conduce necessariamente al cattolicesimo, intorno a cui costruire i principi politici rispondenti ai «nuovi bisogni della società», fra i quali c’è il «governo delle capacità e delle influenze nelle sfere ove si esercitano legittimamente»(16). 137 «Allo scopo di ricostituire l'unità del 'corpo sociale', ciascuna delle autorità – politica, morale e religiosa – ne cerca le chiavi nella verità del passato. […] la storia porta la ragione legittimatrice della ragion pratica politica. […]deve dunque 'diventare la scienza sacra'. […] Tutti i partiti si costituiscono sulla base di un elaborazione dottrinale. Ciascuno si sforza di iscrivere la sua dottrina in una tradizione storica, alla ricerca di una verità rivelata che legittima il governo degli uomini. Sostituto esplicito del religioso, la dottrina politica si vuole strumento per eccellenza della riunione degli uomini» Riot-Sarcey, Le réel de l’utopie cit., pp. 84-88. 138 Sull’importanza della storia e della cultura storica nella formazione guizotiana cfr. M.C. O’Connor, The Historical Thought of François Guizot, The Catholic University of America Press, Washington 1955; A. Saitta, Introduzione a F. Guizot, Storia della civiltà in Europa, Il Saggiatore, Torino 1973, pp. 11-96, R. Pozzi, Introduzione a F. Guizot, Storia della Civiltà in Francia, Utet, Torino 1974, pp. 9-64; Ead., La nascita di un “historien”. François Guizot negli anni 1807- 1812, in «Il pensiero politico», X (1977), pp. 41-69. A. Coco, François Guizot, Guida, Napoli 1983, pp. 11-60.
174
ci si imbarca sulla fede di teorie»:139 la storia è il volano attraverso cui produrre
il distacco dal diciassettesimo secolo rovesciando l’impero delle idee sui fatti
che esso aveva costituito, in questo senso Guizot «fonda la scienza della storia
come elaborazione del lutto della Rivoluzione».140 A quello che nell’Histoire
des origines du gouvernement réprésentatif chiama il «bizzarro disegno di
separarsi dai secoli anteriori e di ricominciare la società liberandola così a tutti
gli azzardi di una situazione senza radici e di poca saggezza»,141 contrappone lo
sforzo indefesso di interpretare il presente politico riannodando
minuziosamente i fili della storia. La «Revue des deux mondes» rimprovera a
Guizot «un’instancabile condiscendenza per ciò che chiama tanto sovente le
necessità»:142 è proprio questo il concetto – la necessità come «forza della
ragione eterna» – che senza sosta traduce il portato della ricerca storica nelle
sfide politiche del presente. Lo studio della storia deve tendere a ricondurre gli
avvenimenti ai principi che li comandano, a ricavare dall’indagine dello
sviluppo delle civiltà occidentali un’idea di necessità che permette di
comprendere le leggi di generazione dei fenomeni sociali, e, in questo caso, di
riconoscere la rivoluzione di Luglio come «il risultato naturale, atteso del corso
delle cose».143 Sandro Chignola parla in proposito di una «storia clinica»
teleologicamente orientata al presente, che diagnostica lo stato di salute di
quest’ultimo evidenziando nel passato il comporsi di un insieme dotato di senso
in grado di rivelarne la perfetta necessità, una sorta di tensione inerziale al
progresso inscritta nella pura forza delle cose passate (recuperate così alla
«vivente unicità di passato-presente»):144 la scienza della storia «definisce
139 Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., vol. I, p. 22. 140 Chignola, Il tempo rovesciato cit., p. 80. 141 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 9. 142 «Revue des deux mondes» cit., p. 187. 143 Discorso del 25 novembre 1830, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 160: «Il n'est donc pas vrai, messieurs! que notre révolution puisse être taxée d'usurpation, de violence, qu'elle puisse être traitée comme un simple fait accompli dans un brusque accès de colère qui s'est emparé tout à coup d'un peuple. Elle est, je le répète, le résultat naturel, attendu, du cours des choses». 144 Chignola, Fragile cristallo cit., pp. 381-382. Guizot istituisce un esplicito parallelo dell’attività dello storico con quella del fisiologo e dell’anatomista nell’undicesima lezione dell’Histoire de la civilisation en France, che commenta il lavoro di Savigny, e che Chignola qui analizza.
175
perciò lo spazio normativo all’interno del quale si determina la possibilità
dell’azione».145
È alla storia che Guizot si affida per sciogliere i rompicapi politico-giuridici
del regime di Luglio e per destituire di fondamento gli argomenti degli
oppositori repubblicani e legittimisti. A chi insiste sulla discontinuità indotta
dalla frattura rivoluzionaria egli oppone la continuità storica in corrispondenza
del principio monarchico. A chi invoca il principio di legittimità risponde
facendo appello all’autorità dei secoli passati che hanno più volte conosciuto
mutamenti di dinastia:146 «tutte le eredità di razza reale hanno avuto inizio; esse
sono cominciate un certo giorno, e alcune sono finite. La nostra comincia, la
vostra finisce».147 Secondo tale prospettiva, Luigi-Filippo ha diritto a regnare in
quanto capo della branca cadetta dei Borbone, chiamata al trono in seguito alla
defaillance della branca anziana: è il principio della quasi-legittimità
(espressione che però Guizot respingerà sempre),148 storicamente rappresentato
dal precedente inglese del 1688 in cui gli Stuart sono stati sostituiti dai parenti
protestanti più vicini.149 «I chiacchieroni dottrinari, che provano attraverso la
rivoluzione inglese del 1688 che non ci si è battuti nelle strade di Parigi che per
il mantenimento della carta», 150 così ne scrive Henri Heine nel 1832.
«Avevamo lo spirito pieno della rivoluzione inglese»:151 lungi dall’essere mera
soluzione all’urgenza del problema, la referenza a 1688 è frutto di una vera e
propria passione storica, teorica e politica dei dottrinari nei confronti della 145 Chignola, Fragile cristallo cit., p. 384. 146 «Si è visto il sistema monarchico conservare la sua legittimità benchè la famiglia che siedeva sul trono avesse perso la sua. In Svezia, in Portogallo, in Inghilterra, più di una rivoluzione validata dall’opinione pubblica e dal tempo, ha fatto saltare agli occhi la differenza di due legittimità separando i loro destini», Guizot, De la souveraineté cit., p. 356. Sul modo in cui Guizot pensa il concetto di legittimità politica cfr. infra § successivo. 147 Discorso del 15 gennaio 1844, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. IV, p. 167. 148 La tesi storica appartiene certo a Guizot, il quale negherà però sempre energicamente la paternità del termine quasi-legittimità, cfr. discorso del 3 gennaio 1834, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. II, pp. 188-189. 149 Il parallelo è ben chiaro ai deputati ma in questo caso non esiste per Luigi-Filippo una tradizione politica più antica cui richiamarsi. 150 H. Heine, De la France, Michel Lévy frères, Paris 1872, p. 39. “di tutti gli attacchi che Guizot ebbe a patire, quello di essersi fatto il valletto dell'Inghilterra, e di aver messo il paese al rimorchio del suo vicino fu il più diffuso”, Theis, François Guizot cit., p. 390. 151 Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps cit., p. 111.
176
vicenda inglese. 152 La studiano conferendole un valore non solo paradigmatico,
ma anche «normativo»:153 in essa un rapporto armonico fra passato e presente
traccia e disegna un regime «normale» del divenire storico, riassunto nella
guizotiana constatazione che gli inglesi «non hanno mai accettato né praticato
la politica rivoluzionaria».154 A questo modello evolutivo «sano», e quindi
normativo, i dottrinari vorrebbero ricondurre la vicenda della Francia,
chiudendo la lunga eccezione di disordine indotta dalla morbosa inclinazione
«rivoluzionaria» della politica francese, segnata da un’errata impostazione del
problema della sovranità che si fonda sulla politicizzazione di una volontà che
si pretende di tradurre in diritto. Non abbiamo bisogno di domandare a qualche ipotesi filosofica, magari incompleta e dubbiosa, quale è stata, nell’ordine politico, la tendenza della civilizzazione europea. Un sistema che evidentemente, considerando le cose da un punto di vista generale, si collega ovunque ai medesimi principi, deriva dagli stessi bisogni e tende agli stessi risultati, si manifesta o si annuncia nell’Europa intera. Pressoché ovunque il governo rappresentativo è reclamato, accordato, stabilito. Questo fatto non è certamente, né un accidente, né una mania passeggera.155
Nel corso del 1820 sulla storia delle origini del governo rappresentativo
l’evidenza della necessità storica di quest’ultimo emerge dall’indagine dei fatti
storici, che lo rivelano «al fondo di tutti i bisogni generali, di tutte le tendenze
delle società europee».156 A partire dall’indagine delle antiche assemblee degli
Anglo-Saxons,157 l’Inghilterra appare come la culla del governo rappresentativo,
i cui principi essa fonda, difende e conquista progressivamente, l’unico paese in
152 Dal 1823 al 1856 la storia dell’Inghilterra non smette di essere un decisvo oggetto di studio per Guizot che la utilizza come modello di interpretazione della realtà sociale francese. (si deve ricordare tuttavia che le opere specifiche pubblicate in questi anni da Guizot trattano soltanto della storia di Carlo I). 153 Chignola, Fragile cristallo cit., pp. 381-394. 154 Guizot, Discours cit., p. 74. 155 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, pp. 16-17. 156 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 18. 157 Cfr. la seconda, terza e quarta lezione del corso Histoire des origines du gouvernement représentatif.
177
cui essi rimangono sempre al centro della vita politica.158 «Dall’Inghilterra, lo
slancio costituzionale è passato in Francia», scrive Guizot nel 1821,
sottolineando però che qui esso è «disordinato, terribile, come era stato alla sua
origine, come succede quando la saggezza e la forza mancano ugualmente al
potere».159 Nell’Histoire de la civilisation en Europe, alla rivoluzione del 1688
viene assegnata una posizione «generale», «altrettanto europea che inglese»:
una rivoluzione «essenzialmente politica» che ha come oggetto la libertà e che
rappresenta il primo grande tentativo di abolire il potere assoluto nell’ordine
temporale come nell’ordine spirituale, e fa «pervenire l’Inghilterra più presto di
qualsiasi Stato sul continente al fine di ogni società, ossia alla instaurazione di
un governo a un tempo regolare e libero».160 Questo accade perché lì il corso
storico degli avvenimenti esibisce una particolarità in cui è scritto il suo
carattere normativo, la chiave finalmente trovata per riportare a un destino di
ordine la disordinata vicenda francese. Mentre sul continente il corso della
civilizzazione pare compiersi per rotture che sanciscono il netto – seppur mai
definitivo – predominio di un principio sugli altri, in Inghilterra la transizione
verso il regime costituzionale si compie in modo «armonico» e «simultaneo»,
attraverso un incessante processo di composizione fra differenti pretese e
158 «L’Inghilterra sola li rinnova senza tregua, ed entra infine in pieno possesso dei loro sviluppi. Ma ovunque essi prendono posto nella storia, e influiscono sui destini dei popoli» (Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 17), e parlando dei secoli (XIII-XVI) in cui la monarchia prevale, dice: «i tentativi di sistema rappresentativo si allontano, indeboliscono, spariscono. Un solo paese li conserva, li difende e li conquisterà progressivamente di tempesta in tempesta. Altrove il sistema monarchico puro ha la meglio» (Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p.23). 159 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 94. 160 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., pp. 403, 392 e 411. 1688 è il «primo scontro tra il libero esame e la monarchia pura» (p. 392), il suo scopo fu la «difesa o la conquista della libertà», «l’avvenimento in cui il libero esame e la monarchia pura, risultati l’uno e l’altra del progresso della civiltà, si sono trovati per la prima volta in presenza» (Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 382). «Il tentativo di abolire il potere assoluto nell’ordine temporale come nell’ordine intellettuale: tale il significato della rivoluzione inglese, tale la sua funzione nel corso della nostra civiltà.386 […] essa fu dunque consacrata alla difesa o alla conquista della libertà. (391) […] la rivoluzione d’Inghilterra fu dunque essenzialmente politica; si compì in un popolo e in secolo religiosi; le idee e le passioni religiose le servirono di strumento; ma la sua intenzione e il suo scopo definitivo furono politici, mirarono alla libertà, all’abolizione di ogni potere assoluto […] essa fu effettivamente il primo scontro tra il libero esame e la monarchia pura, all’abolizione di ogni potere assoluto (392)».
178
interessi. 161 La rivoluzione inglese mostra un dispositivo di relazione e
composizione tra passato e presente che funziona da modello in grado di
assicurare un decorso ordinato perché concilia stabilità e progresso, aristocrazia
e democrazia, tradizione e mutamento storico, principi di libertà mutuati dalle
tradizioni germaniche dell’aristocrazia e discorso politico dei diritti di cui è
portatore il popolo. È questo un modello evolutivo «sano», normale, perché le
istituzioni politiche riflettono, adeguandovisi continuamente, l’avanzamento
complessivo della società, invece di cercare di dominarlo volontaristicamente
come è accaduto in Francia a causa dell’inclinazione «rivoluzionaria» della sua
politica che impedisce la cristallizzazione della transizione in un quadro
costituzionale stabile. «La restaurazione degli Stuart […] si presentava a un
tempo coi meriti di un governo antico che riposa sulle tradizioni, sui ricordi del
paese, e coi vantaggi di un governo nuovo, del quale non si è fatta la prova
recente, del quale non si son subiti di recente gli errori e il peso»:162 queste
parole pronunciate nel corso del 1828 testimoniano di come lo sforzo di attivare
il parallelo con la storia dell’Inghilterra fosse già operativo nel corso della
Restaurazione. 163 La scienza della storia permette di comprendere la
codificazione costituzionale come necessità immanente del corso della
civilisation, paradigmaticamente rappresentata dalla vicenda inglese: già la 161 Differentemente dal continente, in Inghilterra lo sviluppo dei due elementi del fatto della civilizzazione procedono in maniera armonica e simultanea e nessun elemento della tradizione scompare definitivamente, «vi è sempre sviluppo simultaneo delle loro forze, transazione tra le loro pretese e i loro interessi»(410). Sul continente invece i diversi elementi tendono a dominare per determinati periodi in maniera esclusiva. «questo sviluppo simultaneo dei diversi elementi sociali» (p. 411). 162 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 399. «L’antica monarchia era il solo sistema di governo che da vent’anni non fosse stato squalificato dall’incapacità e dall’insuccesso nell’amministrare il paese. Queste due cause resero popolare la restaurazione ed essa ebbe contro di sé soltanto la coda dei partiti violenti; il pubblico vi aderì in piena sincerità. Era, nell’opinione del paese la sola possibilità, il solo mezzo di governo legale, ossia di ciò che il paese desiderava con maggior ardore. E fu altresì quello che promise la restaurazione, la quale ebbe cura di presentarsi sotto l’aspetto di governo legale (399-400) […] essa aveva, in qualche modo, al pari della rivoluzione esperimentato tutti i partiti, tutti i ministeri (402)». 163 «La Francia – scrive ancora Chignola – può legittimare la propria transizione valutandola sulla base del precedente inglese e sulla base delle ragioni storiche del progresso. Può quindi dichiarare ‘chiusa’ la propria vicenda di adeguazione ai processi della civilisation, recuperando le ragioni della propria storia nel presente resuscitato della scienza. E, con questo, ritrovare il senso del proprio futuro nell’anticipazione emblematica che di essa opera la rivoluzione inglese», e parla in questo senso di «un gioco di specchi fra rivoluzione francese e inglese (Fragile cristallo cit., pp. 394 e 385.)
179
Carta del 1814, allora, lungi dall’apparire un compromesso impuro e
circostanziale, poteva essere interpretata dai dottrinari come compimento di una
necessità storica che riconduce la Francia nell’alveo del corso naturale della
civilisation riconciliando i differenti principi che la hanno mossa. Ad essa
veniva cioè demandata la chiusura della lunga eccezione francese riannodando i
fili della storia nella finalmente trovata alleanza fra autorità e libertà,
garantendo la continuità con la storia e vergando allo stesso tempo la soglia che
non sarà più possibile oltrepassare all’indietro. «Le istituzioni che la Francia ha
dal suo Re – dice Guizot ai suoi studenti nel 1820 – hanno affrancato allo stesso
tempo il presente e il passato. Tale è la virtù della monarchia legittima e
costituzionale, che non dubita né del racconto della storia, né degli sguardi della
ragione. Fondata sulla verità, la verità non le è per niente né ostile né
pericolosa».164 Nel modo di intendere il dispositivo di conciliazione fra presente
e passato è inscritta la cifra fondamentale del progetto politico dottrinario e il
punto all’altezza del quale si determinerà il suo scacco definitivo: come
vedremo più avanti, essi pensano la composizione possibile fra presente
(democrazia, principi di progresso, uguaglianza civile) e passato (aristocrazia,
tradizione, ordinamento gerarchico del sociale) attraverso l’idea
dell’affermazione di una nuova élite costituzionale della ragione che, attraverso
il principio di capacità, avrebbe riprodotto un principio gerarchico di accesso ai
diritti politici all’interno del quadro di uguaglianza nel diritto civile
definitivamente sancita dalla Rivoluzione. L’Inghilterra mostra la possibilità
storica di un tale compromesso fra aristocrazia e democrazia. Ma l’inarrestabile
movimento dell’égalité travolgerà ben presto una tale prospettiva: proprio su
questo punto Tocqueville – che pure deve non poco alla guizotiana storia della
civilisation –165 esibirà la propria indiscutibilmente maggiore lungimiranza
164 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 31. 165 «Molti commentatori francesi di Tocqueville si sono lamentati che egli abbia visto gli Stati Uniti con lo sguardo di Francois Guizot, e che egli sapesse cosa avrebbe trovato prima di lasciare la Francia. È effettivamente difficile credere che questo francese di venticinque anni avrebbe avuto una visione tanto fine se non avesse seguito i corsi di Guizot prima del suo celebre viaggio», Alan Ryan, Foreword a Craiutu, Liberalism under the siege cit., p. 5.
180
politica.166 Nel 1852, parlando all’Accademia delle scienze morali e politiche,
questi ricorderà le «ténèbres savantes» di coloro che «hanno visto 1640 in 1789
e 1688 in 1830, e che, sempre in ritardo di una rivoluzione, hanno voluto
applicare alla seconda il trattamento della prima», con l’effetto di ucciderla per
eccesso di erudizione.167 È in questo elemento che Pasquale Pasquino indica un
punto di verticale empasse del pensiero dottrinario: «precursore nel suo tempo,
Guizot resta ciononostante prigioniero di un arcaismo, il modello della
rivoluzione inglese».168
La Charte è il punto di massima precipitazione del riferimento storico-
comparativo alla vicenda inglese. Dopo aver attraversato otto differenti regimi
politici nello spazio di venticinque anni, la Carta del 1814 inaugurava
effettivamente una nuova dialettica nel confronto politico in Francia, e
realizzava, per la prima volta in modo stabile nel continente europeo, un regime
166 «Quella che a Guizot e Pellegrino Rossi appare come la leva decisiva per stabilizzare la società francese postrivoluzionaria – e cioè produrre, grazie alla teoria della rappresentanza capacitaria, una divaricazione […] tra il piano dell’uguaglianza civile e il piano dell’uguaglianza politica –, appare invece a Tocqueville lo strumento destinato a scavare una contraddizione insanabile per la monarchia. […] La rivoluzione del 1830 apre una deriva del senso che non può essere risarcita da alcuna esemplarità del passato. Da essa prende l’avvio una ‘democrazia senza limiti’, che riapre il problema del governo, e che è impossibile pensare di arrestare, o di neutralizzare, sul piano della filosofia della storia. Ciò che Tocqueville appare molto chiaro, è che l’intero progetto dottrinario di acquisizione del processo di individualizzazione delle relazioni sociali e di costituzionalizzazione dei diritti come esito della Rivoluzione, mai avrebbe potuto ottenere di arrestarlo al presente e di sospenderlo. […] La rivoluzione dell’uguaglianza chiude definitivamente per Tocqueville, la possibilità della storia come repertorio narrativo di exempla e temporalizza drasticamente l’esperienza storica», Chignola, Fragile cristallo cit., p. 396 e n). Cfr. anche M. L. Lanzillo, Introduzione a A. de Tocqueville, Antologia degli scritti politici, Carocci, Roma 2004, p. 19: si evidenzia qui il contrasto fra la posizione tocquevilliana della prima Democrazia e «le posizioni del liberalismo della sua epoca, le tesi di Guizot e di Royer-Collard, che puntavano a instaurare il governo di un’élite contro i rischi di degenerazione giacobina della democrazia». 167 «L’étude même de l’histoire, qui éclaire souvent le champ des faits présents, l’obscurcit quelquefois. Combien ne s’est-il pas rencontré de gens parmi nous qui, l’esprit environné de ces ténèbres savantes, ont vu 1640 en 1789 et 1688 en 1830, et qui, toujours en retard d’une révolution, ont voulu appliquer à la seconde le traitement de la première, semblables à ces doctes médecins qui, fort au courant des anciennes maladies du corps humain, mais ignorant toujours le mal particulier et nouveau dont leur patient est atteint, ne manquent guère de le tuer avec érudition !», Tocqueville, Discours prononcé en 1852 à la Séance publique annuelle de l’Académie des Sciences morales et politiques, on line: http://www.asmp.fr/travaux/solennelles/president/1852_tocqueville.pdf 168 P. Pasquino, Sur la théorie constitutionnelle de la monarchie de Juillet, in M. Valensise, F. Guizot et la culture politique de son temps, Paris, Seuil, 1991, p. 122.
181
fondato su una costituzione e una rappresentanza elettiva.169 «Malgrado gli
eccessi della repressione giudiziaria – scrive André Jardin –, le promesse di
libertà del regime rappresentativo fondato dalla Carta danno al regime politico
francese una forma e un’atmosfera di libertà sconosciuta ai regimi
precedenti».170 Pierre Michel data all’entrata dei cosacchi a Parigi la nascita di
quello che si chiamerà liberalismo,171 che in effetti con la caduta dell’Impero
decolla nel solco tracciato da Benjamin Constant e organizza il proprio discorso
intorno alla carta costituzionale e ai diritti da essa sanciti. Alla vicenda delle
Chartes del 1814 e 1830 Pierre Rosanvallon dà il nome di «momento inglese»
della storia politica francese, in uno studio – La monarchie impossibile – ancora
una volta teso a restituire autonomia al periodo 1814-48 sottraendolo alla
condizione di minorità rispetto all’assai più noto «momento giacobino».172 In
effetti, nonostante l’ampiezza e la preponderanza delle prerogative
monarchiche, 173 il carattere particolarmente ristretto del suffragio 174 e la
mancanza di alcuni elementi tipici del parlamentarismo,175 nelle istituzioni
fondate dalla Carta «libera e monarchica» che Luigi XVIII «concede» il 4
169 Sulla Carta del 1814 cfr. E. Roux, Le pouvoir constituant sous la Restauration, Librarie independante, Paris, 1908. P. Simon, L'elaboration de la Charte constitutionelle de 1814, Cornely, Paris 1906. J. Thiry, La Première Restauration, Berger-Levrault, Paris, 1943. 170 Jardin, Histoire cit., p. 228 171 Michel, Les barbares cit., p. 112, la paternità di questa tesi appartiene in effetti a Charles de Rémusat. 172 Rosanvallon, La monarchie impossible cit., p. 8. Le due Carte «fissano il quadro dell'apprendimento reale della politica moderna. […] La Rivoluzione in dieci anni aveva proclamato quattro Carte diverse, esse hanno “consegnato alla Francia le basi effettive di un governo parlamentare» (p. 9). 173 Prerogative monarchiche della Carta del 1814: Il re ha il monopolio della funzione esecutiva (artt. 13 e 14) e solo a lui spetta l'iniziativa legislativa, può sciogliere la camera eletta a condizione di procedere a nuove elezioni in un dato ritardo (gli atti del sovrano necessitano comunque di controfirma ministeriale). 174 Suffragio ristretto nella cara del 1814: si tratta di un regime veramente censitario, che esclude il 99% della popolazione dal meccanismo elettorale, L’articolo 40 della Carta del 1814 fissava a 30 anni di età e a 300 franchi di contributo le condizioni per l’elettorato attivo, 40 anni e 1.000 franchi per quello passivo (intorno a 100.000 elettori e 20.000 eleggibili, il 99% della popolazione rimane esclusa dal meccanismo elettorale). 175 Anzitutto non c’è responsabilità politica dei ministri di fronte alle Camere, essi hanno solo responsabilità penale per tradimento o concussione (art. 56), accusati dalla Camera bassa vengono giudicati dalla Camera alta (art. 55). Manca poi l'azione concorrente anche del legislativo nel proporre le leggi, ed è assente l'organizzazione del ministero in gabinetto con primo ministro, che comunque non ha nessuna autonomia nella declinazione del potere esecutivo che appartiene integralmente al re.
182
giugno 1814 si potevano riconoscere le influenze del modello inglese: dal
bicameralismo (una Camera alta ereditaria nominata dal sovrano e una bassa
eletta a suffragio ristretto) alla responsabilità dei ministri, ai principi liberali cui
viene ispirato l’ordinamento giudiziario. «Il grande periodo dell'apprendimento
del governo parlamentare è innanzitutto quello della Restaurazione. È da 1814 a
1830 che sono per la prima volta sperimentati i meccanismi del diritto di
iniziativa, della responsabilità ministeriale, dell'equilibrio tra legislativo ed
esecutivo».176 Gli elementi più retrivi sono tutti compresi nel preambolo che
restaura l’antico principio di legittimità, elide il principio di sovranità nazionale
e, con il termine octroyée, fa discendere la Carta dalla sola volontà del sovrano,
«Re di Francia e di Navarra per grazia di Dio», che la concede «per libero
esercizio della sua autorità», e che dichiara di regnare dalla morte del piccolo
Luigi XVII, negando di fatto la Rivoluzione e venticinque anni di storia
francese.177
176 Rosanvallon, La monarchie impossible cit., pp. 9-10. Rosanvallon sottolinea come tre volte, nel 1791, 1814 e 1830 la Francia abbia provato a darsi una monarchia costituzionale fallendo tutte e tre le volte. La causa viene indicata nel fatto che in Francia il concetto constantiano di «potere neutro» per la monarchia costituzionale non potesse funzionare a causa della preponderanza che in questo paese ha l'idea di sovranità: «la questione centrale in Francia è sempre stata anzitutto di sapere chi fosse il detentore della potenza piuttosto che precisare quali forme tale potenza dovesse prendere. Non c'è posto per l'idea di potere neutro in questa prospettiva». «Il potere deve sempre essere definito come una positività, una potenza, una possibilità. Non si comprende che nel quadro di una aritmetica a somma zero» (pp. 170-171). La problematica della sovranità avrebbe dunque sempre condotto a radicalizzare le posizioni in campo verso i due poli di una monarchia assoluta («i francesi non ammirano a monarchia che nelle sue specie più altere e meno liberali») e di una repubblica popolare segnando lo «scacco della moderazione politica in Francia». Secondo Rosanvallon questo «illiberalismo» costituzionale si mescola poi in Francia a un «illiberalismo» delle pratiche politiche che radicalizza lo scontro, come mostrerebbero le rigide politiche conservatrici messe in atto durante la monarchia di Luglio (pp. 166-181). 177 Preambolo della carta del 1814 fu redatto la notte precedente la proclamazione dal conte di Beugnot. «Benchè l’autorità tutta intera risieda in Francia nella persona dal re», «volontariamente» e «per libero esercizio della propria autorità» «accordata» e «concessa» ai propri sudditi dal «Re di Francia e di Navarra per grazia di Dio» (il quale si riserva inoltre «d’en juger le maintien»). Il suffragio censitario era sato ristabilito, dopo la Rivoluzione dalla costituzione dell'anno III. La prima Restaurazione data 6 aprile 1814, quando i Borbone risalgono al trono dopo che ha Napoleone abdicato a Fontainebleu ed è partito esiliato all'isola d’Elba. I cento giorni fra il 20 marzo 1815 e il 22 giugno 1815 segnano il ritorno di Napoleone la sconfitta di Waterloo e il nuovo esilio a Sant’Elena. Il 31 marzo 1814 l'imperatore Alessandro di Russia firma una dichiarazione che comincia proclamando: «le armate delle potenze alleate hanno occupato la capitale della Francia. I sovrani alleati accolgono il desiderio della nazione francese. Essi dichiarano che non tratteranno più con Napoleone, che rispettano la Francia antica e la nuova costituzione che la Francia vorrà darsi».
183
La soppressione di tale preambolo – «che ferisce la dignità nazionale,
sembrando concedere ai Francesi dei diritti che gli appartengono
essenzialmente» – è l’esito più significativo delle giornate di Luglio, la
modifica più rilevante nel testo che la Camera dei deputati approva il 7 agosto
1830.178 La Carta è, per i dottrinari, garante di una continuità storica da opporre
alla rottura temporale indotta dalla rivoluzione, consente di insistere su e di
consolidare il parallelo con il precedente inglese, che a sua volta supporta una
lettura delle Tre gloriose come movimento, non rivoluzionario, ma di resistenza
legale in difesa della legge e della costituzione minacciate dall’«insurrezione»
del re e dei suoi ministri. Per questo i dottrinari – de Broglie su tutti –179
dispiegano un impegno tenace affinché il testo non sia riscritto ma solamente
rivisto, in modo da potervi inscrivere con forza una linea di continuità in grado
di elidere la rottura insurrezionale e mantenere attivo, rafforzandolo, il
riferimento inglese. La Carta è dunque moderatamente rivista in senso liberale,
le modifiche più importanti riguardano la libertà di stampa,180 l’attribuzione
anche alle Camere dell’iniziativa legislativa, 181 la pubblicità delle sedute
178 La modifiche alla costituzione vengono votate dalla camera eletta pochi mesi prima, su un totale di 430 deputati ottengono 219 voti favorevoli e 33 contrari (i realisti non partecipano alla votazione), la Carta modificata viene licenziata intorno alle 16 del 7 agosto 1830 per essere poi «fatta pubblicare» il 14 agosto da Luigi-Filippo, con un brevissimo preambolo in cui il «Re dei Francesi» annuncia: «Nous avons ordonné et ordonnons que la Charte constitutionnelle de 1814, telle qu'elle a été amendée par les deux Chambres le 7 août et acceptée par nous le 9, sera de nouveau publiée dans les termes suivants: […]». 179 Protagonista della stesura delle trattative e della stesura del nuovo testo è Victor de Broglie (cfr. Souvenirs du feu du duc de Broglie, tome III, Paris 1886, pp. 392 sgg.), che interviene affinché la proposta di modifica avanzata dal deputato Bérard (considerata troppo radicale), venga sottoposta a modifica con il concorso di Guizot, che scrive: «su un solo punto il nostro successo fu completo; in due sedute, la Carta fu modificata; in otto giorni, la Rivoluzione fu chiusa e il governo stabilito»( Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps cit., p. 113-114). 180 All'articolo sulla libertà di stampa viene aggiunto che la censura non sarebbe mai potuta essere ristabilita. L’art. 8 della Carta del 1814 che recitava «i Francesi hanno il diritto di pubblicare e far stampare le loro opinioni, conformandosi alle leggi che devono reprimere gli abusi di questa libertà», diviene in quella del 1830 (art. 7): «i Francesi hanno il diritto di pubblicare e far stampare le loro opinioni, conformandosi alle leggi, conformandosi alle leggi. La censura non potrà mai essere ristabilita». Di qui il grande dibattito sulle leggi del 1835 che torneranno a restringere la libertà di stampa. 181 Nella Carta del 1830 all’iniziativa legislativa concorrono dunque re, governo e parlamento. Quest’ultimo ha potere di emendare le proposte di legge. Il mandato della Camera dei deputati viene ridotto da sette a cinque anni e le viene conferito il potere di eleggere il proprio presidente. Viene inoltre estesa la responsabilità penale dei ministri. È inoltre ridotta a
184
parlamentari,182 la decostituzionalizzazione del censo elettorale.183 Il tricolore
subentra allo stemma borbonico, il cattolicesimo non è più «religione di
Stato»,184 il sovrano è semplicemente «Re dei francesi»:185 la monarchia perde
ogni carattere sacro, la Carta non deriva più dalla sola volontà del re e configura
sostanzialmente un compromesso, un patto fra monarca e Camera eletta (patto
in cui quest’ultima, è titolare unica delle modifiche che il re si limita ad
«accettare» e fare pubblicare il 14 agosto).186 La volontà di chiudere in breve il
passaggio rivoluzionario e di far tacere i dissidi fra i suoi diversi attori conduce
a decostituzionalizzare e rinviare alla legge ordinaria tutta una serie di
30 anni la soglia di età per l’eleggibilità e vengono rese elettive le autorità locali. Cfr. F. Berriat Sant-Prix, Commenatire sur la Charte constitutionnelle, Videcoq, Paris 1836. 182 Camera dei pari ha sedute pubbliche, vengono annullate le nomine dei pari effettuate da Carlo X. 183 «La nuova costituzione aveva saggiamente abbandonato queste condizioni alle variazioni che il progresso della civilizzazione e le necessità della politica potrebbero comandare», ricorda Odilon Barrot (Mémoires posthumes, t. I, p. 254). Alla fine della Restaurazione c'erano 92.000 elettori, nel 1831 175.000, nel 1842 225.000, in media nel periodo 1830-1848 ci sono 6 elettori ogni 1000 abitanti (contro i 32 dell'Inghilterra), «è questa situazione elettorale che si evoca quando si parla di regno della borghesia, delle classi medie» (Jardin, p. 318). Nel pronunciarsi alla fine del 1831 contro una proposta di legge tesa a conferire una leggera indennità ai deputati e proclamarne l’incompatibilità con altri impieghi retribuiti, il deputato Beaussour dice: «in questa camera noi non rappresentiamo più di un milione di individui. Ci sono di conseguenza 31 milioni di individui al di fuori di questa rappresentazione e di cui gli interessi non sono né rappresentati né difesi» (Il Journal des débats, 4 dicembre 1831, p.4). Si deve ricordare che il 1832 è l’annno di un’importantissima riforma elettora che in Inghilterra abbassa notevolmente il censo elettorale: «un solo interesse domina oggi tutti gli atti e tutti i documenti politici dell’Inghilterra, è quello della Riforma. […] Pace, guerra, finanze, legislazione, tutto è contenuto, tutto è entrato nel dibattito e non c’è pressochè una delle potenze europee che non abbia la sua parte di conseguenze dal rigetto o dall’accettazione della misura la cui discussione va ad aprire la sezione attuale del parlamento inglese», scrive il Journal des débats del 10 dicembre 1831 (p. 2) 184 È eliminato l’art. 6 della Carta del 1814 che recitava «la religione cattolica, apostolica e romana è la religione di Stato». 185 Le sue prerogative vengono limitate al rispetto delle leggi. Il re aveva emanato le ordinanze di Luglio 1830 contro cui si è scatentata la rivoluzione sulla base del’articolo 14 che recitava: «Il Re è il capo supremo dello Stato, comanda le forze di terra e di mare, dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza e di commercio, nomina tutti gli impeghi dell’amministrazione pubblica, e fa i regolamenti e ordinanze necessaria per l’esecuzione delle leggi e la sicurezza dello Stato». Nella Carta del 1830 ad esso (ora art. 13) viene aggiunto: «senza potere mai nè sospendere le leggi stesse nè dispensare dalla loro esecuzione». 186 Secondo Marcel Morabito il fatto che la Carta sia stata «emendata» dalla Camera elettiva rimanda indirettamente all’idea di una sovranità della nazione che si esprime nel potere dei rappresentanti di modificare il testo costituzionale, «la rivoluzione del 1830 abbandonona la sovranità reale per restaurare l’anteriorità della nazione, cara ai costituenti del 1789 […] Questo fondamento contrattuale della nuova monarchia realizza così un compromesso, non solamente fra due principi, di legittimazione – monarchico ed elettivo – ma tra due centri di potere – re e Camera eletta (Histoire constitutionelle de la Franccit., p. 197)
185
importanti materie, rimandando i conflitti alla discussione parlamentare e
alimentando ulteriormente, la confusione fra costituente e legislativo, in un
quadro in cui è assente ogni riferimento alla nozione di sovranità.187 Le
discussioni parlamentari sull’ereditarietà del titolo di pari di Francia (autunno
1831) e quella seguente alla morte dell’erede al trono (estate 1842) 188
metteranno a nudo i vuoti costituzionali del regime. Gli anni della monarchia
orleanista sono pertanto segnati dallo sforzo di giuristi e politici di fondare
dottrinalmente la monarchia costituzionale francese, le sue istituzioni e il
compromesso che essa dovrebbe incarnare, vale a dire «questo governo misto
che è il regime di Luglio» – secondo le parole di Pasquino che sottolinea come
tale formula rimanga «lungi dall’essere univoca».189
È significativo e rilevante il modo in cui i dottrinari affrontano la
problematica giuridica aperta dalla rivoluzione di Luglio e il corollario di
fragilità, incertezze, ambiguità che essa eredita, accentuandole, dal testo del
1814: Guizot promuove la creazione nel 1834 di una cattedra universitaria di
diritto costituzionale centrata sullo studio della Carta del 1830. È
sull’organizzazione di un sapere, sulla sua professionalizzazione,
sull’istituzionalizzazione di un discorso di verità, che viene dunque caricata
l’urgenza del problema politico-giuridico 190 (una simile iniziativa Guizot
dispiega anche sul terreno della scienza della storia istituendo nel 1835 il
Comité des travaux historiques et scientifiques che lancia un grande progetto di
pubblicazioni sulla storia di Francia).191 Il corso è affidato a Pellegrino Rossi,192
187 Cfr. M. Marbe, Ètude historique des idées sur la souveraineté de 1815 à 1848, L.G.D.J., Paris 1904. 188 Guizot vi interviene il 18 agosto con uno dei suoi più celebri discorsi.. 189 Una forma politica che, nel XIX secolo, «ha ben rappresentato allo stesso tempo un mito e un programma politico» e che «mobilitato le forze sociali, giustificato una battaglia politica e prodotto un corpus di dottrine fluido ma imponente»: così Pasquino indica la monarchia costituzionale francese (Sur la théorie constitutionnelle de la monarchie de Juillet, in M. Valensise, F. Guizot et la culture politique de son temps, Paris, Seuil, 1991, pp. 119 e 111). 190 Sapere che ha fra l’altro il merito di riposizionare le questioni politiche dagli astratti enunciati teorici della filosofia verso lo studio del diritto scritto. 191 Cfr. X. Carmes, Le Comité des travaux historiques et scientifiques (histoire et documents), Paris 1886. 192 Pellegrino Rossi (1778-1848), conte, nato a Carrara, studi di diritto, si associa poi a Murat per riconquistare il regno di Napoli, deve scappare a Ginevra dove poi ottiene cattedra,
186
economista e giurista italiano formatosi a Ginevra, che esibisce un approccio
marcatamente storico allo studio del diritto costituzionale francese, indagandolo
all’interno di un’«ininterrotta catena di tempi e di fatti»,193 che dal diritto antico
conduce fino alla Carta del 1830, equilibrio realizzato e sbocco della storia
della civiltà europea. 194 Le sue lezioni contribuiscono, fra l’altro, alla
trascrizione in diritto costituzionale della guizotiana distinzione fra «diritti
universali» e «diritti variabili», e chiariscono la concezione giuridica dei
dottrinari. «L’efficacia delle pene», scrive Guizot nel 1822 contestando la pena
di morte in materia politica, «varia secondo i tempi, i costumi, i diversi stadi
della civilizzazione»,195 le leggi non fanno che tradurre uno stato sociale e
morale determinato: l’anticontrattualismo dei dottrinari nega in principio ogni
positività del diritto per proporne un’interpretazione di matrice storica e
sociologica (è chiara la prossimità alla scuola tedesca di Hugo e Savigny).196
È solo l’autorità della storia a fornire le chiavi delle verità che legittimano il
governo degli uomini. Dai fatti del passato è dato ricavare le leggi che rivelano
le istituzioni fondate dalla Carta come esito di una necessità storica, perché
realizzano quel governo rappresentativo che incarna l’inclinazione generale
naturalizzazione e diventa uomo politico, 1828 viaggia a Parigi, ove pubblica il suo Traité de droit pénal (Paris 1829), che ebbe una certa risonanza nella discussione in atto sulla penalità, e alcuni articoli sulla «Revue française». Decide di rimanere in Francia ove ha stretto amicizia con Guizot e de Broglie in particolare, succede a Say alla cattedra di economia politica al college de France, poi gli viene affidata la cattedra di diritto costituzionale alla Facoltà di Parigi, in breve diventa membro dell'ASMP, pari di Francia e poi sarà ambasciatore a Roma. 1848 lo rimuove dai suoi incarichi, si ritira a Frascati. In settembre 1848 Pio IX sovrano costituzionale lo fa primo ministro, viene assassinato dagli estremisti mentre si reca alla camera per fare un discorso). Cfr. L. Ledermann, Pellegrino Rossi, l'homme et l'économiste, 1787-1848, Sirey, Paris 1929, AA.VV, Actes du colloque Pellegrino Rossi. Des libertés et des peinesGeorg et Cie, Geneve 1980. 193 Questo il termine che utilizza nella lezione di apertura (P. Rossi, Cours de droit constitutionnel, in Id. Oeuvres complètes, Paris 1866-1867, tome I, p. LVII. 194 «La sua storia del diritto costituzionale si inscrive così nella storia della civilizzazione […] ricalca direttamente quella di Guizot» Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 287. 195 Guizot, De la peine de mort en matière politique cit., p. 165. «l’efficacità delle pene non è la stessa in tutti i luoghi né in tutti i tempi. Essa varia secondo i diversi stati della società, i diversi gradi della civilizzazione»(101) 196 Allo studio di Savigny del diritto romano nel medioevo Guizot dedica parte dell’undicesima lezione dell’Histoire de la civilisation en France: pur mostrando apprezzamento dell’opera, le rimprovera di non aver fatto emergere la «verità poetica», la «fisionomia vivente» dei fatti mostrandone «il concatenamento sistematico», il loro «rapporto di generazione» nel quadro della storia generale della civilizzazione e dell’umanità.
187
della civilisation europea. Più che una definizione politica e giuridica del
regime costituzionale di Luglio, i dottrinari ne propongono dunque
un’interpretazione storica in quanto compimento di un destino inscritto nella
forza delle cose, «uno di quegli avvenimenti che soddisfano, per così dire,
l’intelligenza umana, perché le appaiono come la manifestazione della saggezza
divina».197 Un avvenimento che ha fondato «il governo più legittimo nella sua
origine, perché è stato l’opera della ragione pubblica e della necessità»:198 se la
rivoluzione inglese e quella americana si sono trovate storicamente davanti nel
realizzare il «libero governo rappresentativo»,199 la rivoluzione del 1830 in
Francia ne avvera l’equilibrio pratico e concettuale, unisce al suo avvento
storico un’assai più lunga elaborazione e profonda consapevolezza teorica.
Perché la Carta traduce in diritto il plurisecolare movimento che ha condotto
alla grande Rivoluzione, incarna in istituzioni i «principi che la Francia […]
aveva proclamato nel 1789». «Essa ha cercato durante quarant’anni, attraverso
ogni sorta di prova e di reazione, la realizzazione di questi principi, accettando
tanto l’anarchia quanto il dispotismo, nella speranza di trovare ciò che cercava.
L’ha ottenuto alla fine con la rivoluzione di Luglio».200 È proprio la convinta
adesione ai principi di uguaglianza civile sanciti da 1789 che permette ai
dottrinari di pensare 1830 come risoluzione della rivoluzione, suo compimento
e termine, vale a dire come stato terminale stabile che dispiega un orizzonte
regolare dal quale viene definitivamente elisa la possibilità di una nuova
rivoluzione. Lo stesso significato della politica di «resistenza», contrapposta al
«movimento», a rimanda un’idea di chiusura del ciclo della storia rappresentato
197 Discorso del 25 novembre 1830, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 160: «elle est un de ces événements qui sont conformes aux lois de la Providence». Sebbene facciano riferimento alla Carta del 1814, è utile richiamare questi ricordi di Barante: «Non fu che a poco a poco, a forza di parlarne e di rifletterci à loisir, che ci si formò sulla Carta un’idea sistematica, che le assegnò uno spirito fondamentale, un pensiero madre, che Royer-Collard, soprattutto, finì per elevare alla dignità di una teoria […]. Ma in un primo momento non si sapeva che cosa si faceva redigendo la Carta», Barante, Souvenirs cit., vol. II, p. 36. 198 Discorso del 3 gennaio 1834, in DP, II, p. 189. 199 La rivoluzione americana viene letta con il medesimo modello di quella inglese: anch’essa si presenta sostanzialmente come atto di difesa in cui il corpo politico non si lascia contagiare dalle passioni e dalle aspettative radicali, e non esprime perciò rotture e discontinuità con il necessario corso della storia. 200 Discorso del 16 febbraio 1833, in DP, II, p. 103.
188
dalla concezione della Carta come riassunto e conciliazione di tutto il passato
nel presente. «Per quanto minuto l’avvenimento-1830 è caricato di un
significato capitale dal momento che è presunto rappresentare lo sbocco della
civilizzazione, l’ultima destinazione alla quale essa aspirava da quindici
secoli», scrive Rosanvallon.201 All’idea dottrinaria di chiusura del processo di
civilizzazione che esaurisce l’era della necessità per aprire quella della libertà,
questo studioso dà il nome di conservatorismo, interpretando tale categoria
come «finalità obbligatoria di ogni politica fondata sulla storia», dottrina
politica che si elabora con la monarchia di Luglio come «gestione di una
società post-rivoluzionaria».202
Le istituzioni fondate dalla Carta devono diventare il tutto della politica, la
definitiva messa in forma della sua verità, il perimetro invalicabile all’interno
del quale passioni e volontà devono agire per non debordare sul terreno del
disordine.203 Non si tratta tuttavia delle mura di un edificio freddo innalzato
dall’ingegneria politico-giuridica, ma della trascrizione in diritto di un fatto
sociale la cui necessità è scritta dal corso della storia: per funzionare come
potere tali istituzioni devono perciò riuscire a captare, raccogliere, e fare
funzionare dentro la macchina dello Stato il potere sociale delle classi medie
che hanno rappresentato il principio motore di tale processo e dei cui interessi 201 Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 282. 202 Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p., p. 279. «Essere conservatore, è in realtà gestire e contemplare una società che sa di non avere più rivoluzioni davanti a sé. Prospettiva che rovescia tutte le rappresentazioni anteriori del politico dal momento che essa assegna alla storia uno stato terminale stabile» (Moment Guizot, pp. 277-278). Con la rivoluzione del 1830 «il ‘materialismo storico’ dei dottrinari storici deve cancellarsi e cedere il posto a un idealismo storico di genere nuovo»(Ros277). Si tratta cioè di affermare una politica conservatrice in quanto «risoluzione della rivoluzione»: «A partire dalla monarchia di Luglio il conservatorismo si erige a ideale post-rivoluzionario assoluto. Il termine stesso di conservatorismo deve essere d’altra parte inteso correttamente […] Il conservatorismo come dottrina politica che si elabora sotto la monarchia di Luglio può essere definito come gestione di una società post-rivoluzionaria. Implica la realizzazione della rivoluzione e niente affatto la sua negazione. Il conservatorismo è risoluzione della rivoluzione. Lontano dall’essere anti- o contro- rivoluzionario, è al contrario verità pura della rivoluzione». Il modo in cui Rosanvallon intende questa categoria rinvia insomma ad una filosofia della storia. Enigmatico riferimento di Rosanvallon: il conservatorismo rende «caduche tutte le divisioni politiche anteriormente esistenti. […] La modernità cancella tutte le divisioni fondate sulla definizione del politico»(279). 203 Per questo l’interpretazione dei giornali ministeriali insistono sul carattere impolitico dell’insurrezione lionese, allo scopo di situare, per opposizione le forme di vita borghesi al centro della verità del politico.
189
la Carta ha sancito la legittimità e la vittoria storica. È questo il cuore
dell’impresa dottrinaria, che vado ora ad analizzare a partire dal lavoro svolto
intorno al concetto di classe, e poi nel dispositivo capacitario che di tale
concetto rappresenta il più fondamentale dispositivo di traduzione e
declinazione politica.
2.5 L’«invenzione» della classe media
Esiste, afferma Guizot nell’Histoire des origines du gouvernement
réprésentatif, una «regione superiore della società dalla quale la storia è fatta»:
riconoscere tale regione è «la prima questione da risolvere», «in seguito verrà
quest’altra questione: quali sono le istituzioni secondo cui agisce questa nazione
politica che fa la storia?». 204 Le istituzioni fondate dalla Carta sono la
conseguenza autentica, necessaria e legittima del corso che la classe media ha
impresso alla storia ponendosi come «l’elemento più attivo e più decisivo della
civilizzazione francese, quello che ne ha determinato, in ultima analisi, la
direzione e il carattere».205 Dare compiuta forma politica a questo fatto storico è
il centro dell’impresa dottrinaria.
«La Rivoluzione francese è stata, come vi si è detto tante volte, ben meno
una rivoluzione politica che una rivoluzione sociale»:206 le cause dei suoi
debordamenti, dei suoi eccessi sono da ricercare proprio nello sforzo di
spingere oltre, di separare le sue conseguenze politiche dal fatto sociale che
essa consacrava, e che la Carta è stata chiamata a tradurre in diritto. Sancendo il
principio dell’uguaglianza civile, questa ha fatto «passare la ragione comune
nel diritto scritto»,207 ha registrato la vittoria della Rivoluzione sul disordine e
204 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 48. 205 Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., vol. IV, p. 193. 206 Discorso del 12 marzo 1834, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. II, p. 223. 207 Discorso del 17 agosto 1830, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 36 «la Carta, tale che una felice rivoluzione l’ha sviluppata, non ha auto che da consacrare delle verità a cui quindici anni di esperienza avevano dato il sigillo dell’evidenza» (pp. 35-36).
190
l’assolutismo dell’Ancien régime, vergato la soglia all’indietro della quale non
sarà possibile tornare, e conciliato il passato nel presente inscrivendolo in un
destino di ordine. «O la Carta non è che una menzogna o gli interessi che essa
ha consacrato sono i soli legittimi»:208 per «essere verità» essa deve riuscire ad
attivare dentro la macchina dello Stato l’elemento sociale dinamico i cui
interessi hanno funzionato da principio motore della civilizzazione, per divenire
potere deve imbricare e far funzionare dentro le istituzioni che ha fondato gli
interessi di cui è stata chiamata a sancire la legittimità. Come noto, per
designare tale elemento sociale dinamico i dottrinari insistono sul concetto di
classe sociale, contribuendo in maniera significativa alla sua ricezione nel
pensiero politico moderno, e individuano nel principio di capacità il dispositivo
fondamentale per operarne la «traduzione» politica, per farlo agire dentro la
macchina dello Stato. Vado dunque ora a indagare alcuni aspetti
dell’elaborazione della nozione di classe nel pensiero storico e politico
guizotiano (prestando anche qui attenzione alle sue «collisioni» con la nozione
di popolo) e poi – nel paragrafo successivo – ad analizzare quel principio di
capacità che rappresenta la pietra angolare della teoria politica dottrinaria.
A partire dagli sforzi di Royer-Collard di portare la condizione delle classi
medie al centro del dibattito parlamentare209 e dalla discussione sulla legge
208 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 138. «Le vostre teorie della legittimità non sono che la maschera degli interessi più illegittimi (139)» 209 Si noti che nel pensiero di Royer-Collard la classe media incarna l’interesse democratico che convive nello Stato secondo l’equilibrio fondato dalla Carta, con quello monarchico e con quello democratico: «la democrazia scorre in piena nella Francia, tale quale i secoli e gli avvenimenti l’hanno fatta. È vero che da un pezzo l’industra e la proprietà non cessano di fecondare, di accrescere, di elevare le classi medie, esse si sono talmente ravvicinate alle classi superiori che, per scorgere queste al di sopra delle loro teste, bisognerebbe che discendessero di molto. […] Altri si affliggano e dispiacciano; per conto mio rendo grazie alla provvidenza perchè ha chiamato ai benefici della civiltà un maggior numero delle sue creature», Barante, La vie politique di M. Royer-Collard cit., tome II, p. 134. «La questione si pose fra uguaglianza e privilegio, fra la classe media e l’antica aristocrazia. Royer-Collard alla Camera dei deputati, e il duca di Broglie alla Camera dei pari fecere vedere molto bene come ci sottriamo così sia ai disegni della controrivoluzione, dia all’anarchia rivoluzionaria e alle delusioni imperiali», Guizot, Du gouvernement de la France depuis la Restauration et du ministère actuel cit., p. 22).
191
elettorale del 1817,210 il pensiero e l’iniziativa dei dottrinari assumono come
compito centrale la messa in forma politica degli interessi di cui 1789 ha
sancito la vittoria, lo sviluppo di tecniche di governo in grado di porre le
influenze e il potere sociale della borghesia al cuore dello Stato. «Oggi, come
nel 1817, come nel 1820, come nel 1830, io voglio, io cerco, io servo con tutti i
miei sforzi – afferma Guizot nel 1837 – la preponderanza politica delle classi
medie in Francia, l’organizzazione definitiva e regolare di questa grande
vittoria che le classi medie hanno riportato sul privilegio e sul potere assoluto
dal 1789 al 1830».211 Organizzare, dare forma politica a questa grande vittoria:
la teoria del conflitto fra le classi come motore della storia che Guizot consegna
al pensiero politico moderno, deve essere intesa anzitutto come la pratica di tale
obiettivo, come lo sforzo di fornire alla classe media francese di primo
Ottocento una memoria, una coscienza, un’identità storica in grado di rompere
la sua timidezza e ostinata indifferenza politica. Si tratta di far riconoscere
questi borghesi immersi nei loro interessi, nei loro affari, nel loro egoismo, in
quella grande potenza storica che, dopo un lotta secolare, ha abbattuto l’Ancien
régime, e mostrargli così il proprio diritto a guidare e governare la società, e
spronarli a farlo. Se i lavori storici di Guizot non arrivano che a lambire la
Rivoluzione francese, è perché ambiscono a un obiettivo più ambizioso:
tracciarne una genealogia, comporre i tasselli di una sua archeologia in grado di
svelare alla borghesia di primo Ottocento di essere figlia non semplicemente del
Terzo stato rivoluzionario, ma di una forza storica che, dopo aver combattuto
una lotta secolare, «ha fatto la rivoluzione come un torrente a lungo accumulato
si fa il suo letto».212 Durante la Restaurazione i riferimenti a 1789 servono ad
agitare spettri di disordine, eccesso e violenza: il compito politico che Guizot 210 Il gruppo dei dottrinari aveva assunto la discussione della legge elettorale nel 1817 come il primo grande terreno in cui affermare le proprie teorie poltiche. banco di prova in cui Alla Carte del 1814 segue la legge elettorale votata il 5 febbraio 1817 che segna una svolta: fine del suffragio a più gradi e principio dell’elezione diretta dei deputati, censo stabilito a 300 franchi. Su questa legge uno dei più improtatni dibattiti della Restaurazione. I liberali francesi «scorgevano in essa la pietra miliare che segnava l’ingresso della Francia in una nuova era politica, quella della libertà dei moderni»(Riv.ug.254). 211 Discorso del 3 maggio 1837, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. III, p. 72.) 212 F. Guizot, Avant propos de la troisième édition cit., Ladvocat, Paris 1820, p. 15.
192
affida al suo lavoro di storico ha l’obiettivo di permettere alle classes moyennes
di riconoscersi nella vittoria rivoluzionaria senza sentirsi colpevoli. Si tratta
cioè di spogliare la Rivoluzione dalla sua dimensione evenemenziale per
inscriverla nel cammino generale della civilisation, della cui evoluzione
l’evento-1789 non è che un sintomo, il momento in cui il conflitto di classe che
ha segnato i secoli precedenti arriva a una rottura che rovescia i rapporti
materiali di potere. 213 La vicenda rivoluzionaria viene così sottratta alla
dimensione dell’azzardo e della crisi mostrando come
il terzo stato del 1789 fosse, politicamente parlando, il discendente e l’erede dei Comuni del secolo XII. Questa nazione francese così orgogliosa, così ambiziosa, che eleva così alto le proprie pretese, che proclama così rumorosamente la propria sovranità, che pretende non solo di rigenerare se stessa, di governarsi da sé, ma di governare e di rigenerare il mondo, discende incontestabilmente da quei Comuni, che nel secolo XII si ribellavano.214
Insistendo su tale parallelo, Guizot interviene nel grande dibattito
storiografico che marcava significativamente il cuore del dibattito politico
francese, e – per via dell’utilizzo della nozione di classe – pare indurvi un
significativo spostamento.
«La migliore parte dei nostri annali, la più grave, la più istruttiva resta da
scrivere; ci manca la storia dei cittadini, la storia dei soggetti [sujets], la storia
del popolo»,215 scrive nel 1820 Augustin Thierry, reagendo con veemenza alla
pubblicazione di La Monarchie française depuis son établissement jusqu'à nos
jours del conte di Montlosier. I nove volumi di questo lavoro, pubblicati fra
213 Sull’interpretazione guizotiana della Rivoluzione francese cfr. R. Pozzi, François Guizot, B. Bongiovanni e L. Guerci (a cura di), L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese, Einaudi, Torino 1989 214 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., pp. 258-259, «lo facevano in maniera abbastanza oscura ma con molto coraggio, nell’unico scopo di sfuggire, in alcuni angoli del territorio, all’oscura tirannide di alcuni signori»(ibid.). «Certamente, signori, tra il secolo XII e il XVIII molte cose, molti avvenimenti straordinari devono esser accaduti, e molte rivoluzioni devono essersi compiute, per provocare un cambiamento tanto immenso nell’esistenza di una classe sociale. Eppure, nonostante tutto questo cambiamento»(p. 258). 215 A. Thierry, Première lettre sur l’histoire de France (1820), in …, p. 324.
193
1814 e 1824,216 riprendevano, in un clima di polemica antiborghese,217 un
motivo politico che segnava la storiografia francese almeno dal sedicesimo
secolo (dal celebre Francogallia di Hotman):218 l’interpretazione della storia di
Francia in termini di guerra delle razze, di conquista, di lotta fra due popoli, i
Galli e i conquistatori Franchi figli delle invasioni barbariche provenienti dalla
Germania. Nel diciottesimo secolo tale dibattito aveva segnato con forza il 216 Il lavoro di Montlosier aveva preso piede per incarico di Napoleone che voleva un’opera in grado di stabilire una linea di continuità fra l’antica monarchia, il Consolato e l’Impero per fornire argomenti storici alla riconciliazione nazionale. Montlosier (che allora lavorava al dipartimento degli esteri) ricostruisce la storia della monarchia illustrando come da più di tre secoli la nobilità sia stata progressivamente scartata dal potere politico e istituisce un vero atto di accusa contro la monarchia d’antico regime. Napoleone respinge il i contenuti del lavoro di Montlosier. Solo a partire dal 1814 ne saranno pubblicati i primi tre volumi, i sei successivi sono scritti in seguito alla scopo di intervenire sull’attualità della vita politica. L’idea guida dell’opera è quella di una degradazione progressiva dell’antica costituzione francese come effetto di una progressiva usurpazione del potere da parte del monarca a scapito dei «grandi», nobili e alto clero. Montlosier faceva l’apologia di una casta custode dell’onore francese, mettendo d’altra parte l’accento sull’affrancamento della «classe tributaria» e l’ascesa del terzo stato come causa della perdita di potere politico della nobiltà. Su Montlosier come «inventore» della lotta di classe che, in ciò, precede Guizot, cfr. M-F. Piguet, «Contre-révolution», «guerre civile», «lutte entre deux classes» : Montlosier (1755-1838) penseur du conflit politique moderne, in «Astérion», 6, 2009. 217 Oltre ai testi di Montlosier si segnala in particolare un discusso scritto di Chateaubriand apparso su «Le Conservateur» nel 1819, citato dallo stesso Guizot nell’Avant-propos alla terza edizione del Du gouvernement de la France.Polemica agitata in prima battuta dagli ambienti clericali che presentavano la vendita dei beni ecclesiastici come una forma di spoliazione del popolo da parte dei borghesi a fini affaristici, «all’elogio delle classes moyennes di Royer-Collard, gli ultras e i clericali, riprendendo una tesi di Lammenais (primo a presentare i borghesi come sfruttatori del popolo, in quanto, vendendo i beni ecclesiastici, avrebbero spogliato i poveri per favorire lo spirito affaristico), risposero con una violenta polemica antiborghese», T. De Mauro, Storia e analisi semantica di ‘classe’ (1958), in Id. Senso e significato, Laterza, Bari 1971, pp. 216-217. Sul tema cfr. anche O. Tort, La polémique royaliste suscitée par les écrits de Guizot pendant la Restauration, in François Guizot 1787-1874. Passé-Présent, Harmattan, Paris 2010, pp. 69-82. 218 Francogallia è del 1573, gli altri autori che contribuiscono all’apertura della riflessione sulla storia di Francia in termini di guerra di razze sono poi in particolare Loyseau e Pasquier. Sul tema cfr. J. Barzun, The French Race: theories of its origin and their social and political implications prior to the revolution, Columbia U. P., New York 1932; A. Jouanna, L’Idée de race en France au XVIe siècle et au début du XVIIe siècle; 1498-1614, Champion Paris 1976; C-G. Dubois, Celtes et Gaulois au XVIe siècle. Le développement littéraire d’un mythe nationaliste, Virn, Paris 1972. Su questi storici Pierre Rosanvallon scrive: «il loro problema era in effetti pensare la questione dell’altro e del nemico in un periodo di disordini civili. L’assimilazione delle divisioni sociali a una differenza razziale era un modo comodo di domprendere il rinascimento della guerra all’interno della società: le guerre di religione potevano essere cosi intese come una sorta di risorgimento nel sociale di una divisione originale tra popoli stranieri che non era stata cancellata né superata. Non bisogna dunque comprendere questo approccio razziale secondo le nostre categorie attuali. Esso rinvia alla filosofia politica e non alla biologia. Esso traduce la difficoltà, per la filosofia politica dell’epoca, di trattare la questione dell’altro e del conflitto su un altro registro che quello della guerra», P. Rosanvallon, Le moment Guizot, Gallimard, Paris 1985, pp. 183-184.
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confronto fra monarchia, nobiltà e terzo stato (Boulainvilliers219 e Mably ne
rappresentano i più autorevoli interpreti). In questo confronto storiografico
Michel Foucault ha inteso indicare il primo «discorso storico-politico sulla
società», in ragione del suo carattere schiettamente partigiano e del fatto che in
esso la verità emerge e viene interpretata come un’arma politica, uno strumento
di parte, l’effetto di un rapporto di forza (un discorso in questo senso
radicalmente altro da quello filosofico-giuridico classico che dal sedicesimo
secolo pensava la politica come la fine della guerra dello stato di natura).220 Il
riemergere di tali motivi alla vigilia degli anni 1820 contribuisce a far nascere
una nuovelle école che comincia a contendere alla destra – ai Montlosier, agli
Chateaubriand – l’egemonia sul sapere storico. Augustin Thierry si fa
interprete di questo programma, proponendosi di contrapporre ai fatti di armi e
alla gloria militare, ai «suoni rudi e gutturali del dialetto germanico» dell’antica
nobiltà, la storia della «parte più numerosa e più dimenticata della nazione» che
già si esprimeva nella «lingua che noi parliamo oggi».221 Questa storia è
anzitutto «la storia del popolo», o meglio la storia di un popolo, i Galli. Di qui
219 «È falso che non sia la forza delle armi e l’azzardo di una conquista che ha fondato originariamente la distinzione che si enuncia oggi con i termini di nobile e roturier. […] È falso che noi siamo nobili per un altro interesse che non sia il nostro proprio interesse. Noi siamo, se non i discendenti in linea diretta, almeno i rappresentanti immediati della razza che ha conquistato i Galli […] La terra dei Galli è nostra», Boulainvilliers, Dissertation sur la noblesse francaise, Hollande, pp. 4, 39 e 148. Nell’Histoire de l’ancien gouvernement de la France (La Haye, Amsterdam 1727) Boulainvilliers scrive: «La conquête des Gaules […] est le fondement de l’État François dans lequel nous vivons» (tome 1, p. 24). 220 «È forse il primo discorso, nella società occidentale uscita dal medioevo, a poter essere definito rigorosamente storico-politico», Foucault, «Bisogna difedenre la società» cit., p. 50. Si tratta di un «discorso sofisticato, discorso dotto, discorso erudito, tenuto da gente con lo sguardo e il tatto pieni di polvere. Eppure, discorso che ha avuto anche, come vedremo, un numero immenso di locutori popolari e anonimi» (p. p. 49). Un discorso che assume la guerra come relazione sociale permanente, come sostrato di tutte le relazioni, come fondamento di una politica che non è affatto la sua cessazione, ma, al contrario della celebre formula clausewitziana, è la continuazione stessa di una guerra che continua a infuriare dietro tutti i meccanismi di potere. Foucault sottolinea come quella della razza sia la costante che attraversa tutto questo discorso: «oltre che di conquista e di asservimento, si parla subito di differenze di forza, di vigore, energia e iolenza; di differenze di efferatezza e di barbarie. Il corpo sociale è in fondo articolato sulla base di due razze. Questa idea secondo cui la società è, da un estremo all’altro, percorsa da questo scontro delle razze, la si trova formulata a partire dal XVII secolo e funge da matrice di tutte le forme nelle quali in seguito verranno ricercati il volto e i meccanismi della guerra sociale» (p. 57). 221 A. Thierry, Première lettre sur l’histoire de France (1820), in Dix ans d’études historiques p. 328-329.
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emergerà l’idea della lotta delle classi in quanto motore del divenire storico.
«Mi sembrò – scrive Thierry nella prefazione alla raccolta Dix ans d’études
historiques – che, malgrado la distanza dei tempi, qualche cosa della conquista
dei barbari pesasse ancora sul nostro paese, e che delle sofferenze del presente
potessero risalire […] fino all’intrusione di una razza straniera in seno alla
Gallia, e alla sua dominazione violenta sulla razza indigena».222 L’opera di
Montlosier, denunciando la condotta colpevole della monarchia
nell’affrancamento della «classe tributaria» e rivendicando i diritti storici dei
«grandi» custodi dell’antico onore francese, interveniva su questa ferita
originaria. Di fronte a ciò, e finché non vi sarà una rinuncia formale a
rivendicare il «fatto della conquista», Thierry – opponendosi alle posture
compiacenti e conciliatrici – sostiene la necessità di rivendicare lo statuto di
figli dei vinti, di un Terzo stato le cui lotte si proiettano ben più indietro del
diciottesimo secolo, e dalle quali discendono tutti i diritti e le libertà della
Francia moderna: «siamo i figli degli uomini del terzo-stato; il terzo-stato esce
dai comuni, i comuni furono l’asilo dei servi, i servi erano i vinti della
conquista».223 E sostiene altresì la necessità di continuare a ricordare e mostrare
che nobile è «il titolo che succedeva al titolo di franco, come il titolo di franco a
quello di barbaro», perché a partire dal fatto «terribile e cupo» della conquista
«le distinzioni di casta sono subentrate a quelle di sangue» e sono poi state
sostituite quelle di ordine e infine dai titoli. 224 Differenza e separazione sono
insomma i principi che animano questa scrittura della storia,225 la quale prende
piede dalla constatazione che la Francia rimane lo spazio di «due nazioni sulla
stessa terra, due nazioni nemiche nei loro ricordi, inconciliabili nei loro
progetti».226
222 Thierry, Préface cit., p. viii. «Chiameranno società, chiameranno amicizia i servizi conquistati in punta di spada e riscossi senza nessun ritorno» (p. 293). 223 A. Thierry, Sur l’antipathie de race qui divise la nation francaise (1820), p. 297, questo importante articolo fu pubblicato per la prima volta sul «Censeur Européen» del 2 aprile 1820. 224 A. Thierry, Sur l’antipathie de race qui divise la nation francaise (1820), p. 295. 225 Michel, Les barbares cit., p. 144. 226 A. Thierry, Sur l’antipathie de race qui divise la nation francaise (1820), p. 292. Questo celebre scritto è in realtà una recensione, pubblicata sul «Censeur Européen» del 1820,
196
Il lavoro storico di Guizot abita tale temperie ed è animato dalle medesime
istanze.227 L’argomento dei «due popoli» che ostilmente convivono in territorio
francese attraversa in particolare il primo dei quattro pamphlets politici che
scrive nel 1820-22 contro la reazione ultrarealista – Du gouvernement de la
France depuis la restauration et du ministere actuel –228 ed è poi al centro
dell’Avant-propos alla terza ristampa,229 ove viene utilizzato come volano per
interpretare la grande Rivoluzione, il significato della Carta e le sue
conseguenze per il governo monarchico e costituzionale della Restaurazione.230
Elisa, come vedremo, dalla teorica politica, ove sarebbe foriera solo di
confusione e disordine,231 la nozione di popolo – «questa serie di generazioni
che forma ciò che si chiama popolo» –232 rimane operativa nel pensiero
guizotiano in quanto soggettività nazionale, comunità storica e culturale, di
al libro di M. Warden, Description statistique, historique, et politique des Ètas-Unis de l’Amerique Septentrionale. Ben poco Thierry parla in realtà degli Stati Uniti, ma ne elogia la libertà seguita alla cacciata degli inglesi quasi rammaricandosi di non aver fatto altrettanto con i conquistatori barbari-franchi-nobili e conclude affermando: «se, cosa che il destino non permetterà certamente, la barbarie dei tempi antichi prevalesse contro la nuova Europa; se coloro che hanno colpito i comuni con il nome di esecrabili, e che ci giurano ancora guerra a nome dei loro avi, nemici dei nostri, avessero la meglio sulla ragione e su di noi, avremo ancora una risorsa che i nostri avi non ebbero; il mare è libero, e un mondo libero vi è al di là» (pp. 299-300). 227 Nel giugno 1818 Guizot pubblica un’importante recensione critica a uno dei volumi di Montlosier sugli «Archives philosophiques, politiques et littéraires» (III, 1818), vi si legge: «noi abbiamo vissuto un periodo nel quale la minima opinione era espressa in modo celato, e il pensiero, ancora prima di generarsi, perdeva ogni vigore mascherandosi. Ne è scaturita un’abitudine all’indecisione e al tergiversare, che dai libri si è trasferita sullo spirito degli autori e persino dei lettori. Non si esprimevano che pensieri dimezzati, che nessuno osava pronunciare se non dopo averli mutilati» (pp. 385-386), e, più avanti, «La rivoluzione conteneva in sé principi buoni e cattivi; quelli cattivi hanno prevalso nei suoi governi, Buonaparte li ha combattuti, e questa è stata la sua forza; ma si è messo a combattere anche quelli buoni, e questa è stata la sua debolezza; il suo successo è venuto dall’aver ben compreso una parte delle necessità dei suoi tempi; la sua caduta, dal non aver riconosciuto l’altra parte» (p. 397). 228 Lo scritto ha una grande eco, suscita un vigoroso dibattito ed è soprattutto nella prefazioni alle due ristampe nei due mesi successivi alla prima pubblicazione che si trovano i più espliciti riferimenti al tema della guerra delle razze. 229 Il libro compare per la prima volta nell’ottobre 1820, in piena campagna elettorale, ha un grande successo: in meno di due mesi ne vengono vendute 7.000 copie e pubblicate quattro ristampe, è alla terza che Guizot aggiunge un importante Avant-propos. 230 Sulla ricezione degli scritti di Guizot di questi da parte della destra ultras cfr. A. Clerici, Contro l’uguaglianza, contro il privilegio. Il giovane Guizot e i suoi critici (1820-1821), in L. Scuccimarra, G. Ruocco, Il governo del popolo, cit., vol. II. 231 Cfr. infra § successivo. 232 Guizot, De la souveraineté cit., p. 354.
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razza e di sangue.233 La «distinzione di due razze, di due popoli», il loro
conflitto, la contrapposizione guerriera fra due comunità etnicamente distinte –
nonostante il corso del tempo che «le avvicina, le mescola, le unisce con
innumerevoli legami e le avvolge in un destino comune che non lascia vedere
alla fine che una sola e stessa nazione laddove esistono due razze distinte, due
situazioni sociali profondamente diverse. Franchi e Galli, signori e contadini,
nobili e roturiers»: 234 solo questa lotta secolare permette di cogliere il
significato storico della Rivoluzione francese, una guerra, la vera guerra, tale che il mondo la conosce fra popoli stranieri. Da più di tredici secoli la Francia ne conteneva due, un popolo vincitore e un popolo vinto. Da oltre tredici secoli il popolo vinto lottava per rompere il giogo del popolo vincitore. La nostra storia è la storia di questa lotta. Ai giorni nostri la battaglia decisiva si è scatenata. Si chiama la rivoluzione.235
Certamente «non ci sono più» da tempo i Franchi e i Galli, ma la differenza
di razza si è perpetuata nei privilegi e nel dominio,236 e dopo tredici secoli di
una lotta che «riempie, o piuttosto fa la storia politica della Francia»,237 la
Rivoluzione ha posto di fatto gli antichi vinti nella posizione di vincitori. La
Carta – sancendo l’uguaglianza civile, le libertà pubbliche, il suffragio
elettorale – «proclamò che questo fatto era il diritto, e diede il governo 233 Il 27 gennaio 1831 alla Camera dei deputati afferma: «È per il sentimento della sua dignità che un popolo è veramente un popolo»( in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 203) 234 Du gouvernement de la France depuis la Restauration et du ministère actuel cit., p. 2. «In questo lungo spazio di tempo, i vincitori e i vinti, i possessori e i possessi, le due razze si sono avvicinate, spostate, confuse», prèface pp. iii-iv. ««Non siamo noi che ridomandiamo il passato. Ma non potremmo acconsentire a disconoscere le sue lezioni», F. Guizot, Supplément aux deux premières éditions. Du gouvernement de la France depuis la Restauration et du ministère actuel, par F. Guizot. Avant propos de la troisième édition, Ladvocat, Paris 1820, p. 21. 235 Du gouvernement de la France depuis la Restauration et du ministère actuel cit., pp. 1-2. A p. 206 Guizot richiama esplicitamente ed elogia il lavoro e il progetto storiografico di Augustin Thierry. 236 F. Guizot, Avant propos de la troisième édition cit., pp. 16-17, «fino ai giorni nostri ci sono stati fra i francesi, degli ordini privilegiati, eredi, assai decaduti, ne convengo, della situazione degli antichi vincitori. Fino ai nostri giorni, i francesi non privilegiati hanno lottato per sostituire al privilegio, appannaggio esclusivo di alcuni, il diritto, bene comune a tutti. Voi ci parlate sempre di ricchi e poveri, di proprietari e proletari. Voi vorreste abbassare la rivoluzione a questo funesto e vergognoso dibattito» 237 F. Guizot, Avant propos de la troisième édition cit., p. 6.
198
rappresentativo come garanzia»:238 concedendola, il re ha dunque «adottato» la
Rivoluzione, si è posto dalla parte dei nuovi vincitori. La guerra fra due diversi
popoli ha attraversato, riempito, fatto l’intera storia francese, Guizot non ha
dubbi che essa sia la chiave per comprendere il passato, ma vi guarda anzitutto
per interpretare il presente facendo della Carta l’epocale trattato di pace che
dispiega la possibilità di una conciliazione dell’intera vicenda storica francese,
e che alle distinzioni di razza fa ora subentrare quella politica fra «popolo della
Charte» e «popolo del privilegio».239 «Consentite a divenire dei cittadini […] è
nel seno del diritto, e là solamente, che può estinguersi questa distinzione di due
razze»: 240 terminare la Rivoluzione significa riconoscere sul territorio di
Francia un solo popolo perché la Carta ha reso i suoi cittadini uguali di fronte
alla legge.241 Essa permette, dopo tredici secoli di guerra, di realizzare una
conciliazione che è l’universalizzazione nel diritto della condizione dei nuovi
vincitori: «noi vi domandiamo di non essere più che nostri uguali». 242
Evidentemente interpretare la storia passata attraverso la nozione, dinamica e
aperta, di classe sociale, rende tale conciliazione nel diritto eguale assai più
lineare rispetto alla distinzione razziale fra due differenti popoli.243
«Mai trattato più dolce fu proposto a dei vinti», scrive Guizot nel 1821 in De
238 Du gouvernement de la France depuis la Restauration et du ministère actuel cit., p. 3. «Mi si domanda ancora cos’è la carta, mi permetterò una risposta assai breve. La carta è il governo rappresentativo tutto intero, con tutti i principi che lo legittimano e lo contengono, con tutte le conseguenze che esso porta nel suo seno», Guizot, Avant propos de la troisième édition cit., p. 43. 239 «La questione si pone tra l’uguaglianza e il privilegio, la classe media e l’antica aristocrazia […] due teorie dell’organizzazione sociale, delle quali una riposa sul principio della classificazione degli uomini secondo i loro ranghi, e dunque sul privilegio, l’altra su quello dell’uguaglianza tra gli uomini che possiedono una determinata capacità, e dunque sul diritto», Du gouvernement de la France depuis la Restauration et du ministère actuel cit., pp. 22 e 87. 240 Guizot, Avant propos de la troisième édition cit., pp. 8 e 19. 241 «La rivoluzione aveva ricevuto da lui due popoli; la nuova Francia non ne vuole più che uno», Guizot, Avant propos de la troisième édition cit., p. 21. «In quanto distruttiva, la Rivoluzione è terminata; in quanto fondatrice, essa inizia ora», scrive nella recensione a De la monarchie française cit., p. 397. 242 Guizot, Avant propos de la troisième édition cit., p. 7. 243 «Così si è creato il terzo Stato, nazione veramente nuova perché non faceva parte della nazione che ha dato il suo nome alla Francia», scrive nel’Avant propos de la troisième édition (cit., p. 18): è esattamente questa matrice fissa, razziale del Terzo stato che pare progressivamente venire meno per lasciare il posto alla nozione dinamica e aperta di classe.
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moyens de gouvernement et d’opposition, vero «manifesto politico»244 della
borghesia in cui vengono meno i riferimenti alle differenze di razza.245 «Volete
guarire la Francia dall’odio della nobiltà; siate un governo borghese»:246 il
portato storico-pacificatorio della classe media diviene qui elemento normativo
cui orientare la condotta di un potere che potrà terminare la Rivoluzione solo
riconoscendo il primato degli interessi che ne sono usciti legittimamente
vincitori,247 e cercando in essi i propri mezzi di governo. «Il potere si inganna
dunque in maniera strana quando si piazza fuori dal campo dei vincitori.
Tradisce così se stesso e mente alla sua propria natura. […] La nuova Francia
non ha rivoluzioni da fare, non cerca che il libero e sicuro possesso di ciò che
ha conquistato».248 Seguendo un percorso differente, da questo punto di vista,
rispetto ad Augustin Thierry,249 Guizot studia e interroga la storia solo per
ritrovarvi le tracce di un presente che già in essa si agitava, per comporre il
mosaico degli elementi che disegnano la perfetta necessità della condizione
attuale. Egli non mostra in effetti alcuna nostalgia per la Gallia e per i comuni
244 Prendo il termine in prestito da Claude Lefort (Introduction a Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 14) e da Pierre Rosanvallon (voce Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France, in F. Chatelet, O. Duhamel, É. Pisier, Dictionnaire des oeuvres politiques, Puf, Paris 2001, p. 401) 245 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 188. Nel testo il riferimento alla razza ritorna solo nel momento in cui per parlare della vocazione di ordine della France nouvelle, Guizot fa cenno al suo naturale «sentimento di rispetto per l’antica razza dei nostri re» (p. 165). 246 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 153. 247 Le rivoluzioni non terminano che nel «momento in cui il partito legittimo, il partito vincitore regna e si sente regnare», Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 153. 248 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 137 e 219. 249 «Nel 1817 – scrive Thierry – preoccupato da un vivo desiderio di contribuire per la mia parte al trionfo delle opinioni costituzionali, mi misi a cercare nei libri di storia prove ed argomenti di appoggio delle mie convinzioni politiche. Dedicandomi a questo lavoro con tutto l’ardore della giovinezza, mi accorsi ben presto che la storia mi piaceva per se stessa, e indipendentemente dalle induzioni che ne ricavavo per il presente», A. Thierry, Lettres sur l’histoire de France, Buxelles 18365, p. 1. E ancora: «A misura che io entravo più aanti nella discussione sia del metodo seguito dai nostri storici, sia delle basi stesse della nostra storia, il colorito politico si sbiadiva, l’erudizione si mostraa senza smascheramenti, l’interesese diveniva speciale e limitato ai soli spiriti curiosi di scienza», in Dix ans d’études historiques cit., p. 13, cit. in A. Omodeo, Studi sull’età della Restaurazione, Einaudi, Torino, p. 281.
200
borghesi, 250 guarda al significato politico che essi proiettano sul presente
svelando la vittoria rivoluzionaria delle classi medie e la possibilità della loro
affermazione alla guida della società attuale come destino necessario e sbocco
radioso del corso plurisecolare della civilisation. 251 A questo impianto
teleologico, a questa sovranità del presente nella storia afferisce dunque la
guizotiana «invenzione» storica della borghesia e della lotta delle classi come
principio motore del divenire storico.252
L’espressione classe – mutuata dall’antico termine latino classis – era
rimasta nel francese moderno a lungo sostanzialmente confinata al campo della
botanica, ed è solo nel diciottesimo secolo che i fisiocratici la avevano
recuperata in riferimento alla realtà sociale.253 Da essi Guizot la riprende
spogliandola di ogni accezione meramente naturalistica e classificatoria,
cosicché – scrive Tullio de Mauro – è solo con questo pensatore che «classe
servì a designare non più soltanto un’entità funzionale, ma un elemento attivo
della vita economica e politica».254 Egli ne fa un dispositivo teorico attraverso
cui interpretare il divenire storico come un lento processo di universalizzazione 250 Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., vol. IV, p. 277: «Senza dubbio abbiamo perso qualcosa con la caduta dei comuni del medioevo, ma non così tanto, a mio avviso, come si vorrebbe persuaderci». 251 «La costruzione guizotiana della scientificità della storia viene prodotta sulla base dell’autocelebrazione gloriosa della borghesia. Essa proietta dietro di sé, come pura concatenazione di fatti fondata da leggi oggettive e generali, la necessità storica dell’egemonia politica e sociale delle classi medie», Chignola, Fragile cristallo cit., p. 381: «trovare nel presente il suo culmine e il suo punto di arresto» (p. 382). 252 Si deve notare che prima di Guizot, già i citati testi di Montlosier ponevano il tema della lotta di classe al centro della storia francese, cfr. in merito M-F. Piguet, «Contre-révolution», «guerre civile», «lutte entre deux classes» : Montlosier (1755-1838) penseur du conflit politique moderne, in «Astérion», 6, 2009, on line: http://asterion.revues.org/1485. 253 In latino, nell’uso comune, classis indicava originariamente un insieme di uomini raccolti secondo un criterio che ha rilievo giuridico e amministrativo (oppure una turba tumultuante di persone). Dopo secoli il termine compare in botanica. Tullio de Mauro ne imputa il primo utilizzo riferito alla realtà sociale a Quesnay, che, nella sua Analyse du Tableau économique del 1766, distingue i cittadini in tre classi: classe productive, classe propriétaire e classe sterile: «così, dopo la parentesi biologica, ma ricco ormai d’un suo senso scientifico, della capacità di designare dei raggruppamenti organici e funzionali, il termine classe è piegato di nuovo ad indicare una realtà umana, sociale», de Mauro, Storia cit., p. 198. 254 T. de Mauro, Storia cit. p. 217, «Guizot, che aveva visto nella guerre tra le classi il dato centrale della situazione politica francese, dette dignità storiografica a queste idee, ponendo le classes al centro della storia francese ed elevando ad una di esse, la borghesia, un inno la cui sostanza e i cui termini furono certo presenti a Marx» (ivi, pp. 217-218). De Mauro sottolinea che «in quasiasi passo di Quesnay o di Smith, adottando i termini dell’economia contemporanea a classe o class potremmo sostituire category o functiona class» (p. 207).
201
verso la pienezza di un presente che lo compendia. A questa tensione si può
imputare il fatto che alla centralità teorica e politica del concetto di classe –
Guizot lo definirà «un elemento naturale, profondo della società», il
riconoscimento della cui esistenza è condizione della pace sociale –255 non
corrisponde nel lavoro di questo autore – come è in parte vero anche per Marx –256 uno specifico tentativo di definizione: perché piuttosto che descrivere e
classificare la realtà sociale, ad esso è demandato di incarnare il principio
aperto e dinamico che muove il corso della civilizzazione europea. È di questo
processo che la storia guizotiana intende costruire una genealogia per mostrarne
il presente come culmine e conclusione.
«All’origine di tutti i poteri, dico tutti indistintamente, s’incontra la
forza»:257 guerra violenza, coercizione, sopruso, sopraffazione e menzogna si
agitano al principio di ogni governo e società umana, di tutti gli elementi del
processo di civilisation. Ma «finché la forza sola prevale, non c’è, nella
relazione che essa sola forma e mantiene, né governo, né società»:258 lo studio
della civilisation si concentra allora sul processo attraverso il quale diritto,
ragione e verità subentrano alla forza. Ecco la nozione di legittimità, che Guizot
strappa al linguaggio degli avversari ultrarealisti, per farne un concetto politico
storicamente determinato: essa fa riferimento allo sforzo che in ogni epoca il
potere di fatto dispiega per negare la violenza della propria origine e inscriverla
in un’idea morale e nel diritto.259 Il «fatto della conquista» non scandalizza
255 F. Guizot, De la démocratie en France, Bruxelles 1849, p. 97. «E adesso un terzo combattente è entrato nell’arena. L’elemento democratico si è diviso. Contro le classi medie si alza la classe operaia… Questa nuova guerra è una guerra a morte» (p. 99). 256 Com’è noto, il cinquantaduesimo capitolo del terzo libro del Capitale inerente Le classi non ha mai superato la forma di poche righe introduttive 257 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 158. 258 Guizot, De la souveraineté cit., p. 332. 259 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., pp. 158-159. Sulla critica al concetto di legittimità che Guizot svolge negli anni 1820 cfr. Rosanvallon, Le moment Guizot cit., pp. 186-193: «i suoi corsi di storia, come le sue opere politiche della Restaurazione, costituiscono da questo punto di vista una sorta di critica dell’ideologia ultra. […] Il suo grande compito consiste nello strappare dalla testa della borghesia le idee dell’avversario (ultra) che vi si annidano» (p. 189). Il «diritto della forza» regna da solo nelle «prime ere della società» (S , p. 328) e Guizot è interessato piuttosto al fondamento della legittimità politica che consiste esattamente nel «rinnegare la forza» (Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 159). La riflessione politica sul concetto di legittimità è uno dei tratti più rilevanti del percorso
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dunque Guizot (che lo tempera e vi riconosce il principio di un potere che sarà
legittimo):260 egli non esita a collocare anche l’atto di nascita della moderna
borghesia in una guerra civile, o meglio in un’insurrezione (come farà anche la
storiografia del movimento operaio). La settima delle quattordici lezioni del
corso d’Histoire de la civilisation en Europe – vero manifesto storico della
borghesia, di cui è difficile non avvertire alcune eco, vent’anni dopo, in quello
del proletariato mondiale – è dedicata alla «formazione», nell’undicesimo e
dodicesimo secolo, di questa «classe sociale generale e nuova».261 «L’origine
del terzo stato fu di molto peso nella sua storia […] ciò che è stato all’inizio si
ritrova in ciò che è divenuto, anzi assai di più di quanto le apparenze farebbero
presumere»:262 con un vivace gioco politico di rimandi fra affrancamento dei
comuni medioevali e vittoria del Terzo stato sull’Ancien régime, fra borghesia
del diciannovesimo e del dodicesimo secolo, Guizot evidenzia le medesime
ambizioni e denuncia le stesse esitazioni, la stessa reticenza a prendere in mano
il governo e a occuparsi delle questioni pubbliche, la stessa timidezza che
questo tentativo di forgiarle memoria della sua forza storica ha esattamente lo
scopo di rompere. Gli uditori vengono dunque condotti alla scoperta della prima
parola della classe media nella storia, e la trovano in una «lezione continua
d’insurrezione» che prende forma nel comune medioevale. Dico «insurrezione» a ragion veduta. L’affrancamento dei Comuni nel secolo XI fu il frutto di una vera insurrezione, di una vera guerra, dichiarata dalla popolazione delle città ai suoi signori […]. Entriamo nell’interno di queste abitazioni dei nostri avi […] tutto ha l’impronta della guerra. […] La formazione di una grande classe sociale, la borghesia, era il
intellettuale guizotiano: nella storia della civilizzazione europea esso viene posto al centro di tutta la storiografia francese precedente. Scrive Guizot: «non v’è paese, non v’è tempo in cui una determinata porzione del sistema sociale, dei poteri pubblici, non si sia attribuito e non abbia avuto riconosciuto questo carattere della legittimità che proviene dall’anzianità, dalla durata» allo scopo di rimuovere la violenza dalla memoria della propria origine. 260 Nella storia francese di Guizot, i Franchi si stabiliscono progressivamente in Gallia, trovando e conquistando non un popolo compatto, ma una nazione che non esisteva più già da tempo, a causa dello sgretolamento delle classi medie alla fine del dominio romano: non si è trattato dunque di una vera e propria invasione ma di una serie di avvenimenti locali e parziali. 261 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 269. 262 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 259.
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risultato necessario dell’affrancazione locale dei borghesi […] grande risultato dell’affrancamento dei Comuni fu la lotta delle classi: lotta che riempie la storia moderna. L’Europa moderna nacque dalla lotta delle diverse classi della società. […] Così, dal seno stesso della varietà, dell’inimicizia, della guerra, è uscita nell’Europa moderna l’unità nazionale, divenuta oggi così luminosa e che tende a svilupparsi, a raffinarsi ogni giorno di più con uno splendore sempre maggiore.263
L’inimicizia, il conflitto, la lotta armata fra le classi sono la griglia di
intellegibilità del mutamento storico, è la guerra l’atto di nascita di una «nuova
grande classe», nelle cui forme di vita Guizot sottolinea in prima battuta le
attitudini belliche. 264 Il comune medioevale è una «piazzaforte difesa da
borghesi armati» che fanno la guerra al proprio signore, impongono tributi e si
autogovernano,265 che al di fuori del borgo però «sono nulla, non hanno
263 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., pp. 265, 266, 269, 270 e 271. In realtà la classe media appare come il principio dinamico della storia da ben prima dell’XI-XII secolo, l’Impero romano è crollato a causa della decadenza della classe media a causa del dispotismo imperiale. Guizot attribuisce la nascita dei comuni a quelli che chiama «rifugiati», coloro che per motivi di interesse o di pensiero avevano avuto conflitti con il signore e approfittavano del diritto di asilo nella chiesa, portandovi nuove ricchezze e contribuendo in tal modo alla nascita dei Comuni. Da questo momento le ingiustizie, le angherie, le estorsioni dei signori verso i borghesi si moltiplicano, fino rendere del tutto incerti i loro commerci. «Nel movimento progressivo che eleva un uomo o una popolazione verso una fortuna nuova vi è un principio di resistenza contro l’iniquità e la violenza assai più energico che in ogni altra circostanza»( Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 264). 264 In prima battuta Le fortificazioni che i borghesi costruiscono non solo intorno alla città, ma intorno a ogni abitazione, l’epulsione dei funzionari del signore, la configurazione guerriera della stessa struttura delle case sono gli elementi sottolineati da Guizot «entriamo all’interno di queste abitazioni dei nostri avi; studiamo il modo di costruzione e il genere di vita che vi si rivela; tutto è consacrato alla guerra»( Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 266), «tutta la costruzione della casa suscita l’idea della guerra»267). Le carte della pace fra borghesi e signori, il territorio europeo che era stato coperto di insurrezioni fu nel XII secolo coperto di carte. «le vicende della lotta furono grandi»267. Anche dopo che i comuni hanno conquistato l’indipendenza, l’insurrezione e il tumulto sono l’unica forma di responsabilità del governo cittadino verso i borghesi Dopo che i comuni si sono costituiti l’unica misura della responsabilità del governo comunale nei confronti della sua popolazione era quella della insurrezione. «un governo investito di un potere quasi arbitrario sotto la responsabilità dell’insurrezione, delle sommosse. […] La maggior parte della popolazione dei Comuni era ad un grado di ignoranza, di brutalità, di ferocia tale da rendere difficilissimo il governo. (Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 276). 265 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit.: Nella settima delle quattordici lezioni del corso di storia che Guizot tiene alla Sorbona nel 1828 Guizot introduce il momento in cui, fra XI e XII secolo i Comuni presero posto nella storia. Lo fa con un espediente particolarmente originale che configura un’eccezione nello svolgimento del corso. Guizot propone ai suoi uditori di immaginare un «borghese del XII secolo» che venga improvvisamente trasportato nel
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importanza alcuna» negli affari generali, nel governo del paese, nello Stato.
L’ingresso della borghesia nella storia coincide con l’insurrezione generale,
continua e diffusa di questi comuni, ma essa rappresenta al tempo stesso l’inizio
di una lotta fra le classi che diviene il principio motore del successivo corso
della civilizzazione, e agisce nel suo seno come dispositivo dialettico che
conduce verso l’unità nazionale, da cui discende lo «splendore sempre
maggiore» compendiato dalla situazione presente. Per questo, subito dopo aver
restituito le coordinate della guerra civile, Guizot sottolinea il carattere aperto e
dinamico di una classe che, nata dalla rivolta di mercanti e piccoli proprietari, si
allarga immediatamente ad altre professioni: «tutte le volte che si è parlato della
borghesia lo si è fatto come se si supponesse composta, in ogni epoca, dai
medesimi elementi. Supposizione assurda».266 Ritorna su questo tema nelle
ultime lezioni dell’Histoire de la civilisation en France per mostrare il processo
attraverso il quale la borghesia si separa dalla stretta realtà del comune (ove la
popolazione inferiore ha scatenato contro di lei una tenace lotta di classe),267 e
1789 e a cui venga messo fra le mani Qu’est-ce que le tiers état? di Sieyés, il borghese verrebbe colpito dell’importanza tributata alla sua classe nel discorso pubblico, ma se poi fosse portato in un comune della provincia francese resterebbe sicuramente impressionato dalla mancanza di una propria organizzazione di difesa, e di un autogoverno delle città, insomma da una situazione in cui «la nazione borghese è tutto, il Comune nulla». Guizot conduce poi il suo uditorio nel Comune del XII secolo, per mostrare come lì «la nazione è nulla, il Comune è tutto», nel discorso pubblico, negli affari generali, nello Stato i borghesi «sono nulla, non hanno importanza alcuna», «i loro antichi padroni, i signori ai quali hanno strappato le loro franchige, li trattano, almeno a parole, con una superbia che ci confonde; e pure, essi non se ne meravigliano, non se ne irritano»( Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 258). «Entriamo nel Comune stesso, vediamo quel che avviene, la scena cambia: siamo in una specie di piazzaforte difesa da borghesi armati, questi borghesi si tassano, eleggono i loro magistrati, giudicano, puniscono, si riuniscono per deliberare sui loro fatti; tutti vengono a queste assemblee, essi fanno la guerra per conto proprio, contro il loro signore; hanno una milizia. Per dirla in breve, si governano da sé, sono sovrani»( Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 258). («Ceto oppresso sotto la signoria dei feudatarii, associazione armata che si governa da sé nel comune», diranno nel 1848 Marx ed Engels(20)). 266 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 269. «questa classe […] nel secolo XII era costituita unicamente di mercanti, di negozianti che esercitavano un piccolo commercio, e di piccoli proprietari o di case o di terre, i quali dimoravano nelle città. Tre secoli dopo, la borghesia comprendeva, anceh, avvocati, medici, letterati di ogni genere, tutti i magistrati locali. La borghesia si formò gradualmente e con elementi diversissimi: in generale, nel farne la storia, non si è tenuto conto né della successione cronologica, né della diversità» (ibid.). 267 «La popolazione era in una disposizione abituale di gelosia e di sedizione brutale contro i ricchi, gli chefs d’atelier, i padronti della fortuna e del lavoro», Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., vol. IV, p. 262. Nella storia guizotiana della civilizzazione la lotta di classe della borghesia è dunque in realtà non solo contro l’aristocrazia feudale, ma anche contro
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diviene una classe sempre più numerosa e potente, entra nelle assemblee
rappresentative e nell’amministrazione dello Stato, prima alleandosi con il
sovrano contro i signori feudali e poi combattendo il potere assoluto della
monarchia. «Considerato dal punto di vista sociale e nei suoi rapporti con le
diverse classi che coesistevano sul nostro territorio, quella che si è chiamata
terzo stato si è progressivamente estesa, elevata, e ha in primo luogo modificato
potentemente, poi sormontato, e infine assorbito, o quasi, tutti gli altri».268
Solo disponendosi a riconoscervi una guerra fra differenti classi si può
giungere a una piena comprensione della storia d’Europa, ma ciò che distingue
quest’ultima dalle società asiatiche e da quelle antiche è precisamente la
mobilità delle classi, il carattere aperto e dinamico del loro conflitto: è tale
specificità propria della civiltà europea a fare sì che «la lotta, anziché divenire
un principio di immobilità, è stata una causa di progresso […], il più fecondo
principio di sviluppo della civiltà europea».269 Nella storiografia guizotiana la
formazione della società moderna non procede per crisi, rotture, separazione,
la popolazione lavoratrice urbana. 268 Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., vol. IV, p. 193. 269 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 270. «Le classi hanno lottato costantemente le une con le altre […] tuttavia esse si sono progressivamente riavvicinate, assimilate, estese» (p. 270). Così l’affrancamento dei comuni grazie alla lotta e alla guerra dei borghesi è il punto di partenza di un processo di armonizzazione e unificazione che segna il corso della civilizzazione europea. Tutta questa vicenda dà inizio nella storia europea a un grande movimento che, a partire dalle crociate, culmina poi nel XVI secolo. Movimento che vede un processo di accentramento del potere in cui progressivamente alle differenti classi in lotta fra loro si vanno sostituendo le due grandi dimensioni del governo e del popolo/paese. Le crociate vengono considerate il primo spostamento in tale direzione, favorendo lo sviluppo del grande commercio marittimo e quindi i grandi Comuni che danno decisivo impulso a quel movimento di accentramento che è tratto decisivo della storia della civilizzazione europea e che ha il suo più importante attore nella monarchia. coscchè progressivamente «gli antichi elementi sociali si sono ridotti a due, il governo e il popolo»(319). Nel XIV e XV secolo le guerre contro gli inglesi uniscono per prima volta le diverse classi (o società) francesi in una vera unità morale, comincia a formarsi una vera nazione francese, di cui la vicenda di Giovanna d’Arco è la sintesi più efficace. Il potere pubblico comincia definitivamente a insediarsi al posto dei poteri feudali. Nel XV nasce la diplomazia. «La società moderna comincia veramente […] nel secolo XVI»(344), è solo a questo punto che secondo Guizot «la società assume in Europa una forma definitiva, segue una direzione determinata, cammina rapidamente e di colpo verso uno scopo chiaro e preciso»283). «In questo cammino la società religiosa ha sempre preceduto quella civile»(382). E in effetti Guizot assume sempre la società religiosa come pivot attraverso cui studiare le forme del potere. La riforma protestante viene assunta come snodo fondamentale attraverso cui studiare il cammino della civilizzazione in Europa, ad assa segue e si affianca la rivoluzione inglese del 1688, argomento oggetto della penultima lezione del corso che si conclude poi con un excursus su alcune caratteristiche del XVIII secolo francese.
206
ma in un lento e progressivo lavoro di avvicinamento, per il tramite della
monarchia, di diversi principi e «società» originariamente ben distinte tra loro:
clero, comuni, nobiltà feudale. È proprio in corrispondenza del loro sforzo di
porre un unico principio all’origine della civilizzazione europea, che Guizot
articola una critica agli storici della guerra delle razze del secolo precedente, a
Boulainvilliers, a Mably, a Dubos. A segnare la storia europea, a distinguerla
dalle civiltà antiche e orientali, è invece proprio la pluralità che ne segna tanto
l’infanzia barbarica,270 quanto i successivi sviluppi in cui l’intrecciarsi e il
combattersi di differenti principi e forme di organizzazione sociale non pare
aver mai condotto a una dominazione definitiva che elide gli altri elementi (si è
visto come il valore normativo dell’esperienza inglese consista per Guizot
esattamente nella ineguagliata capacità di far convivere contemporaneamente i
differenti principi).271 José Ortega y Gasset indicherà l’incompresa grandezza di
questo pensatore esattamente in tale, a suo avviso pionieristica, concezione
della dialettica fra libertà e pluralismo.272
Ponendo al centro della sua riflessione storica il concetto di civilisation –
questo «fatto generale e definitivo» in cui tutti gli altri si riassumono e che
compendia lo sviluppo dello stato sociale e dello stato morale –, 273 cui
270 «Tale è, infatti, il carattere dell’età barbarica: è il caos di tutti gli elementi, l’infanzia di tutti i sistemi, una confusioe universale, ove la lotta stessa non era né permanente né sistematica. Potrei, esaminando sotto tutti i suoi aspetti lo stato sociale in quest’epoca, mostrarvi che è impossibile scoprire in nessuna parte un fatto, un principio che abbia qualcosa di generale, di stabile» (Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 162). 271 «In ben altro modo si sono svolte le cose con la civiltà dell’Europa moderna. […] Vi coesistono tutte le forme, tutti i principi di organizzazione sociale, gli elementi teocratico, monarchico, aristocratico, democratico, tutte le classi, tutte le situazioni sociali vi s’intrecciano, vi si accavallano; la libertà, la ricchezza, l’influenza vi si presentano in infinite gradazioni. E queste forze diverse sono tra di esse in uno stato di lotta continua, senza che una giunga a soffocare le altre e a prendere da sola possesso della società» (Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 113) 272 J. Ortega y Gasset, Prologo para franceses a La rebeliòn de las masas (1830), in Id. Obras completas, tomo IV: «è, in effetti, incredibile che nei primi anni del XIX secolo, tempo storico di grande confusione, si sia redatto un libro come la storia della civilizzazione in Europa. Ancora l'uomo di oggi può apprendervi come la libertà e il pluralismo sono due cose reciproche e come entrambe costituiscono la permanete entrana de europa» (pp. 122-123). 273 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., pp. 109-116, e Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., Vol. I, pp. 6 e 30. La civilisation è il «fatto per eccellenza», esso fa riferimento anzitutto al progresso e allo sviluppo, al perfezionamento della vita civile, dei rapporti reciproci tra gli uomini, delle relazioni sociali che si allargano e migliorano, acquisendo più forza e più equità. Esso riguarda poi anche vi lo sviluppo della vita individuale,
207
contribuisce a fornire un significato nuovo274 e a imporlo nel dibattito politico,
Guizot induce nel discorso della guerra delle razze una significativa svolta,
compendiata dalle parole con cui descrive il suo progetto nella prima lezione
del corso del 1828: «sono convinto che vi è in realtà un destino generale
dell’umanità, una trasmissione del deposito di civiltà, e quindi una storia
universale della civiltà da scrivere».275 Fare delle classi sociali l’elemento
dinamico della civilization, farle funzionare sopra il discorso del popolo e della
razza, consente a tale concetto di agire la prospettiva universalizzante che
riconosce «l’opera della civilizzazione» nel fatto di «elevare, di epoca in epoca,
un più gran numero di uomini a prendere una parte attiva nei grandi
avvenimenti che agitano una società. Più la civilizzazione avanza, più essa
coinvolge nuove classi di individui e le fa entrare nella storia».276 La «guerra»
– «tanto pubblica e sanguinosa, quanto interiore e puramente politica che si son
fatta questi due grandi interessi» –277 continua ad agire come principio di
intellegibilità del passato, ma nella forma della lotta fra le classi essa conferisce
al corso della civilisation i tratti di un lento processo di unificazione intorno
all’universale delle classi medie.
Sotto qualsiasi aspetto lo si consideri – si legge nell’Histoire de la civilisation en France –, sia che si studi la formazione progressiva della società in Francia, o quella del governo, il terzo stato è, nella nostra storia, un fatto immenso. È la più potente forza che presiede alla nostra civilizzazione.
della vita interiore, lo «sviluppo dell’uomo in sé»: la civilisation compendia attività sociale e attività individuale, progresso della società e progresso dell’umanità. 274 «A partire da lui, lo si sa, – scrive Rosanvallon – il termine [civilizzazione] prende in effetti un senso nuovo. Non rinvia più solamente, come nei philosophes del XVIII secolo […] all’idea di un perfezione delle leggi e dei costumi e di uno sviluppo della sociabilità e del benessere, ma designa indissociabilmente la civilizzazione un sistema di valori e un processo storico. Il termine civilizzazione non è in lui un qualificativo comodo che permette di rassemblare sotto uno stesso vocabilo i tratti economici o culturali che rendono le società più ricche e le relazioni sociali più policées. […] essa designa ciò che c’è di essenziale nella storia. Se la nozione di progresso è presente in Guizot, essa è così inscritta in una visione della storia che non è più quella di Condorcet che quella di Hegel. Egli afferra la storia su un modo obiettio e concettuale: essa realizza delle idee e dei principi» Le moment Guizot cit., pp. 191-192. 275 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 109. 276 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 48. 277 Guizot, Du gouvernement de la France depuis la Restauration et du ministère actuel cit., p. v.
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Questo fatto non è solamente immenso, signori, è nuovo e senza altro esempio nella storia del mondo. Fino all’Europa moderna, fino alla nostra Francia, niente di simile alla storia del terzo stato colpisce lo sguardo. Permettetemi di fare passare al volo davanti a voi le principali nazioni dell’Asia e dell’antica Europa: riconoscerete nel loro destino pressochè tutti i grandi fatti che hanno agitato la nostra: ci vedrete il mélange di razze diverse, la conquista di un popolo da parte di un popolo, dei vincitori stabiliti su dei vinti, delle profonde diseguaglianze fra le classi, delle frequenti diatribe sulle forme di governo e l’estensione del potere. Da nessuna parte riconoscete una classe della società che, partendo da molto in basso, debole, disprezzata, pressochè impercettibile alla sua origine, si eleva con un movimento continuo e un lavoro senza tregua, si rafforza di epoca in epoca, invade, assorbe successivamente tutto ciò che lo circonda, potere, ricchezza, lumières, influenza, cambia la natura della società, la natura del governo, e diviene infine talmente dominante che si può dire che essa è il paese stesso. […] Voi non troverete niente che assomigli a ciò che è successo in Europa nella storia del terzo stato.278
La borghesia rappresenta, nel cammino generale delle società e dell’umanità,
una radicale novità, che introduce nello studio della storia la possibilità di una
razionalità finale, e conduce così la teoria della guerra delle razze sul campo
della filosofia della storia: il concetto di classe sociale – che subentra all’idea di
popolo come comunità storica e di razza – rende possibile il processo di
universalizzazione che si compie nella pienezza di un presente in cui si
riassume, compendia ed esaurisce tutta la storia passata. Per questo Guizot
invita i suoi studenti a non nutrire alcuna nostalgia verso le grandi virtù che
brillavano nei secoli antichi per riconoscersi attori di un tempo in cui, come mai
nel passato, si può e si deve far «prevalere sempre più nell’ordine intellettuale
l’impero dei fatti, nell’ordine sociale l’impero delle idee», e «governare sempre
più la nostra ragione secondo realtà e la realtà secondo la ragione».279 Lo studio
dei fatti del passato serve a scorgervi il lavorio di un universale che nel presente
si enuncia nella sua verità, realizzando il più intimo intreccio delle idee e della
realtà, dell’uomo sociale e dell’uomo morale. Foucault ha interpretato questo 278 Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., vol. IV, pp. 193-194 e 195. 279 Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., vol. I, p. 22.
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genere di razionalità che interviene nella teoria della guerra delle razze
all’inizio dell’Ottocento come un’«auto-dialettizzazione» del discorso storico,
che diviene «immediatamente assimilabile o immediatamente trasferibile a un
discorso filosofico di tipo dialettico»,280 che rappresenterebbe «la pacificazione
da parte dell’ordine filosofico e forse anche da parte dell’ordine politico, del
discorso amaro e partigiano della guerra fondamentale».281 A partire dalla
Rivoluzione si sarebbe cioè andato determinando un nuovo discorso politico
sulla storia che vede: un’inversione dell’asse temporale della rivendicazione
dall’origine (dal fatto della conquista come momento di inscrizione di torti e
diritti) verso il presente come momento della verità che permette di
comprendere il passato, e la definizione di un nuovo rapporto fra particolarità e
universalità in cui la nazione non si caratterizza più in relazione ad altre
nazioni, ma nel rapporto verticale con l’universale dello Stato, il quale diventa
dunque il soggetto di un discorso storico che ritorna così a essere appannaggio
del potere. Si tratterebbe insomma del punto in cui la riflessione storica e quella
filosofica si intrecciano ponendo al centro la comune questione inerente il che
cosa nel presente sia portatore dell’universale e ne rechi la verità. È in effetti
agevole scorgere la prossimità che il discorso guizotiano sul presente come
sintesi sempre più raffinata di ragione e realtà esibisce con quell’Hegel cui
l’epidemia di colera chiude gli occhi una settimana prima della révolte des
canuts. A dare titolo al corso foucaultiano del 1976 è proprio la parola d’ordine
– «Bisogna difendere la società» – con cui Guizot risponde a quest’ultimo
avvenimento: «appare allora l’idea di una guerra intestina come difesa della
società contro i pericoli che nascono all’interno del suo stesso corpo e dal suo
stesso corpo. Si tratta del grande rovesciamento dello storico nel biologico nel
pensiero della guerra sociale, del passaggio dal costituente al medico».282 La
temperie qui in esame rappresenta pertanto uno snodo fondamentale di questa
genealogia: Foucault parla in proposito di una «biforcazione [embranchement]
essenziale», una doppia trascrizione della guerra delle razze: una francamente 280 Foucault, «Bisogna difedenre la società» cit., p. 204. 281 Ivi, p. 56. 282 Ivi, p. 187.
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biologica e «razzista», l’altra che si opera a partire dal tema della guerra sociale
e va progressivamente a sostituire tutti i riferimenti alla razza con quelli alla
classe. Cercherò nel quarto capitolo di sondare la possibilità che, nel frammento
di storia in esame, le due traiettorie della biforcazione essenziale, benché già
distinte, continuino a funzionare insieme. Mi interessa per ora solamente
accennare a come la strategia discorsiva che risponde all’insurrezione lionese
attivando la figura dei «nuovi barbari» debba sostanzialmente essere riferita a
questo campo di problemi.
Il «popolo» dei Galli rappresenta la matrice etnica e razziale a partire da cui
Guizot sviluppa la nozione di classe sociale, che, per il suo carattere aperto e
dinamico, serve meglio di ogni altra a descrivere il movimento storico nei
termini di un processo di universalizzazione intorno alla condizione della
borghesia che, a partire dal dodicesimo secolo, si è posta pone come elemento
«attivo» e «decisivo» del cammino della civilisation. Il concetto di classe
interviene dunque nel discorso dottrinario per subentrare definitivamente alle
nozioni legate alla razza, e permettere alla nozione di civilisation di agire
compiutamente in una prospettiva universalizzante. La codificazione
costituzionale e, poi, la rivoluzione del 1830 delineano la chiusura, il
compimento, la realizzazione di questo processo di cui la guerra è la matrice,
ma che in esso viene ridotta, civilizzata, dialettizzata fino a trovare definitiva
conciliazione nel presente.
La società francese assomiglia a una grande nazione in cui gli uomini sono all’incirca in una medesima condizione legale […]. La classificazione delle antiche società è scomparsa e, lo ripeto, da noi il nome democrazia opposto al nome aristocrazia non ha più senso […]. Questa società si difenderà, al bisogno, contro coloro che vorranno abusare di parole antiche e di antichi fatti per fuorviarla momentaneamente. Non si tratta di fare affidamento sulla classe media in opposizione a tale o tal’altra classe; si tratta di fare affidamento su una nazione intera, su questa nazione omogenea, compatta, senza distinzione di classi.283
283 Discorso del 29 dicembre 1830, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 178. Ho già citato nel paragrafo precedente parte di questo discorso parlamentare in cui
211
Con queste parole Guizot risponde il 29 dicembre 1830 al ritorno del
tumulto dopo la rivoluzione in occasione del processo ai ministri di Carlo X. In
esse emerge quel riferimento a una società senza più distinzione di classe che
andrà a rappresentare l’orizzonte di ogni discorso storico sulla società fondato
sul «ritmo» ad essa imposto dal movimento delle classi (si vedano in proposito
le osservazioni che ho già svolto riguardo le «democrazie popolari»). In questa
idea di una finitudine della storia e di un compimento della modernità Pierre
Rosanvallon ha individuato il punto in cui Guizot si pone come precursore
dell’ideale politico che segna tutto il suo secolo. La monarchia di Luglio
configurerebbe in questo senso la prima esperienza di gestione di una società
post-rivoluzionaria che assume il compimento della rivoluzione e si presenta
come verità pura di essa, e quello dei dottrinari apparirebbe come il primo
pensiero schiettamente rivoluzionario che arriva a segnare dietro di sé la data –
luglio 1830 – di esaurimento dell’intero processo e quindi ad assegnare alla
storia uno stato terminale stabile.284 A questo insieme di elementi deve pertanto
essere riferita l’interpretazione dell’insurrezione lionese: la problematica che
essa pone, spiega Rosanvallon, «non risiede dunque solamente in un problema
di mantenimento dell’ordine pubblico. C’è una dimensione storica e filosofica
più radicale»,285 che riguarda precisamente la verifica dell’esaurimento del ciclo
della storia. Fondare la politica sulla storia e pensarne il compimento significa
inscrivere nel dispositivo che la realizza una verità del politico che elide tutte le
Guizot sostiene che le sommosse popolari agitino lo spettro del potere costituente, dei poteri extracostituzionali con cui Luglio 1830 avrebbe voluto chiudere definitivamente i conti. 284 Il conservatorismo in quanto «ideale storico insuperabile di ogni pensiero rivoluzionario» permette, secondo Rosanvallon, di «considerare Guizot come il punto estremo, e non il borbottamento, dell’ideale politico del suo secolo. A partire da lui, il conservatorismo si dà come la finalità obbligatoria di ogni politica fondata sulla storia […] La modernità cancella tutti i clivages fondati sulla definizione del politico […] per non determinarsi più che in relazione a un’unica questione: la data effettiva della rivoluzione. […] Marx e Guizot partecipano in questo senso di una stessa visione della storia. Il loro debito comune verso Hegel instaura tra essi un legame che ristabilisce la loro opposizione in un campo concettuale coerente. […] Questa idea di una finitudine della storia e di un compimento della modernità implica che il conservatorismo sia inteso come risoluzione concettuale delle opposizioni tra i differenti sistemi di filosofia politica e superamento pratico degli antagonismi politici che gli erano legati», Le moment Guizot cit., p. 279. 285 Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 294.
212
opposizioni precedenti, ne avvera la risoluzione concettuale: nella Carta, nel
nuovo potere di Luglio i dottrinari scorgono la cristallizzazione del presente in
quanto sbocco e punto di stabilizzazione di secoli di civilizzazione.
L’insurrezione lionese rappresenta l’irruzione dell’attualità come crisi di tale
presente. La strategia discorsiva del «difendere la società» serve allora a
esorcizzare il problema alludendo a una condizione di esteriorità (o di
paradossale esteriorinternità) rispetto a quest’ultima che la figura dei barbari
incarna attraverso un riferimento estremamente presente all’immaginazione e
alle percezioni dei contemporanei (si noti che nella storiografia guizotiana la
barbarie serve proprio a descrivere una situazione in cui, prevalendo la
condizione della libertà individuale, non c’è società).286 Di fronte al ritorno
della guerra dentro la società, che mette in crisi la capacità universalizzante del
dispositivo di classe, il riferimento ai barbari riattiva un motivo tipico della
storiografia francese, che pare sostanzialmente riprendere motivi razziali, la cui
matrice non è però ora più possibile rinvenire nella storia ma deve essere
cercata altrove. Indagherò più avanti questo «altrove», di cui la vicenda
dell’epidemia di colera contribuisce a definire nessi e coordinate, e anche il
lavoro dispiegato per esorcizzare la questione radicale che queste agitazioni
sembrano porre al nuovo regime organizzando un sapere teso a oggettivare le
figure che ne sono protagoniste, in ciò che emerge sostanzialmente come una
strategia di depoliticizzazione della questione sociale (la cui declinazione è
affidata in primis all’Accademia delle scienze morali e politiche).
2.6 Fare entrare una classe in politica
Nei lavori storici di Guizot vediamo il fitto gioco politico di rimandi fra la
classe media di primo Ottocento e la nascente borghesia comunale soffermarsi
286 Si noti che nella storiografia guizotiana il concetto di barbarie serve anzitutto a indicare l’assenza di società («nella barbarie tutto è spontaneo, parziale, fortuito») , una situazione in cui l’individualità prevale e in cui il prezzo della libertà barbara, capostipote delle moderne libertà europee, è l’assenza di legame sociale e il primato della forza.
213
sovente sulla sua reticenza a farsi classe politica prendendo energicamente in
mano il governo della società:
Nello studio dei rapporti, non solo nel XII secolo, ma nei secoli successivi, della borghesia con lo Stato in generale, con il governo dello Stato e gli interessi generali del paese – si legge nell’Histoire de la civilisation en Europe – non si può non essere colpiti dalla constatazione della prodigiosa timidezza dei borghesi, della loro umiltà, dell’eccessiva modestia delle loro pretese intorno al governo del loro paese […]. Nulla rivela in loro quello spirito veramente politico che aspira a influire, a riformare, a governare.287
Si tratta di quello «spirito che ha giocato un così grande ruolo nella nostra
storia – così lo descrive nel corso sulla civilizzazione in Francia – questo spirito
poco ambizioso, poco intraprendente, timido perfino, […] ma onesto, amico
dell’ordine, della regola, perseverante, attaccato ai suoi diritti, e assai abile a
farli presto o tardi riconoscere e rispettare».288 Una riflessione che ricorre a
esprimere quella che è allo stesso tempo una delle più gravose preoccupazioni e
una delle più rilevanti ambizioni dell’impresa guizotiana: spezzare la reticenza
della borghesia a farsi classe dominante, a collocarsi al cuore dello Stato.289 A
fronte dello sforzo di mostrare il carattere storicamente rivoluzionario della
borghesia, vive l’inquieta constatazione della sua riluttanza a prendere le redini
politiche della società cui essa stessa ha sostanzialmente dato vita, e in cui pare
però consumarsi la scissione fra ricchezza e cittadinanza, in cui sembra
287 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., p. 271. 288 Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., vol. IV, p. 270-271. 289 In questa descrizione del Comune borghese mi pare chiaro il parallelo con la situazione delle classi medie di fine della Restaurazione: «Lo stato delle idee e dei rapporti sociali provocò il sorgere delle professioni industriali legalmente costituite, delle corporazioni. Il regime del privilegio si introdusse all’itnerno dei Comuni, e con esso una grande ineguaglianza. Vi fu ben presto ovunque un certo numero di borghesi considerevolmente ricchi e una popolazione operaia più o meno numerosa, la quale, nonostante la sua inferiorità, esercitava una grande influenza sugli affari del Comune. I Comuni si trovarono quindi divisi in un’alta borghesia e in una popolazione soggetta a tutti gli errori, a tutti i vizi d’un volgo. La borghesia superiore si vide stretta fra la straordinaria difficoltà a governare tale popolazione inferiore e i continui tentativi dell’antico padrone del Comune di riafferrare il potere […]. due disposizioni si combattevano senza posa: nella popolazione inferiore uno spirito democratico cieco, sfrenato, feroce; e, per contraccolpo, nella popolazione superiore, uno spirito di timidezza, di transazione, una facilità eccessiva a venire a patti sia col re che con gli antichi signiri, al fine di ristabilire all’interno del Comune un po’ più di ordine, un po’ di pace» (p. 276-277).
214
continuamente sgretolarsi il legame fra interessi e politica. «Niente è più
ingannevole di questo benessere materiale dei popoli. Procura in un primo
momento al potere un riposo assai dolce, ma non è sufficiente per procurargli la
forza»:290 questo pensatore – il cui nome è rimasto impigliato all’esortazione
«enrichissez-vous!» – non smette di denunciare il carattere politicamente
deleterio del solipsismo e dell’individualismo borghese. Fare del borghese un
cittadino – si potrebbe dire parafrasando la riflessione marxiana sulla Questione
ebraica – pare emergere come il problema centrale che Guizot si pone tanto sul
piano teorico che su quello politico, tanto di fronte alla timidezza delle classes
moyens quanto rispetto alla difficoltà delle istituzioni fondate dalla Carta di
penetrare e governare il sociale. Rosanvallon ha parlato di una sorta di Lenin o
di Gramsci della borghesia:291 organizzare politicamente l’egemonia sociale con
cui le classi medie hanno mosso il corso della storia, romperne le esitazioni,
mutarne le attitudini impolitiche, porle al centro delle istituzioni che la loro
lotta secolare ha realizzato è l’orizzonte che muove tanto la riflessione degli
anni 1820 quanto la sua iniziativa nei primi anni del governo di Luglio. Si tratta
sostanzialmente di pensare e mettere in opera macchine politiche in grado di
istituire un rapporto attivo di reciprocità fra le istituzioni della Carta e quella
che nel 1820 guarda preoccupato come una «grande massa di cittadini che non
aspirano a governare, che si dedicano a delle affezioni o a degli interessi privati,
che vogliono solamente che l’atmosfera dove vivono sia tale che essi vi possano
respirare agevolmente e prosperare». 292 Il regime di Luglio, che sancisce
l’ennesima vittoria storica della borghesia, deve saper incrinare tali attitudini:
per questo, nel marzo 1834, Guizot insiste a richiamare l’attenzione dei deputati
sul fatto che «quello che manca tra noi alla classe media, è una fiducia
290 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 86. 291 «I dottrinari si pensano come organizzatori di egemonia, coscienza chiara e volontà determinata di un movimento sociale ancora miope. […] Guizot è in effetti in questa prospettiva una sorta di Lenin della borghesia. È un parallelo che viene pressochè naturale», Rosanvallon, Le momento Guizot cit., p. 171. Le Gramsci della bourgeoisie è invece il titolo della prefazione che Rosanvallon scrive alla Histoire de la civilisation (1985) cit., pp. 9-18. 292 Du gouvernement de la France depuis la Restauration et du ministère actuel cit., p. 140.
215
sufficiente in se stessa, nel suo diritto e nella sua forza. Essa è ancora timida,
incerta; non sa esercitare, con sufficiente risoluzione, tutto il potere politico che
le appartiene e non può che appartenere ad essa». 293 E invece bisogna
definitivamente farla entrare in politica, farne una classe politica, fare della
guizotiana invenzione storica della classe media un meccanismo di
intellegibilità, organizzazione e governo del reale: «Noi abbiamo bisogno di
una classe essenzialmente politica».294 Così si riassumono venticinque anni di
impegno teorico-politico: «dal 1814 al 1848, sotto il governo della
Restaurazione e sotto il governo di Luglio, io ho altamente sostenuto e talvolta
ho avuto l’onore di portare io stesso, questa bandiera delle classi medie che era
naturalmente il mio», ricorda Guizot dopo aver chiarito che il senso di tale
sforzo consisteva nel tentativo di «porre il potere politico» nella «regione» ove
si trovavano gli interessi legittimamente consacrati dal corso della storia.295 Il
governo della società nata dalla Rivoluzione non può che appartenere alla
classe media, pena la sua inefficacia politica: per questo il problema non è porre
alla guida dello Stato un gruppo dirigente che risponda e aderisca al primato
della borghesia, come a tradurre e sancire politicamente una situazione di
egemonia storica, sociale ed economica.296 La questione riguarda al contrario
l’esigenza di dispiegare tecnologie politiche in grado di reclutare a funzioni di
governo il principio dinamico che ha mosso lo sviluppo della società francese e
di spezzare così il carattere separato del politico che ha dato vita ai
debordamenti rivoluzionari. Si tratta di costituire nella società una classe
politica la cui esistenza è in grado di mutare radicalmente le caratteristiche della
vita pubblica imbricando nel funzionamento dello Stato i principi e le influenze
che muovono il corso della società civile, articolando il potere politico sui 293 Discorso del 12 marzo 1834, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. II, pp. 223-224. 294 Discorso del 5 ottobre 1831, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 318. 295 Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps cit., pp. 80 e 79. 296 punto di vista economico: questo ambito non cattura mai il suo interesse (ed è questo uno degli elementi che gli impedisce di leggere l’emergenza di nuove soggettività sociali del lavoro), la funzione della borghesia è storico-politica come lo è il suo concetto di classe e la funzione che intende assegnargli, la politica esibisce una compiuta autonomia dall’ambito economico, anche se deve essere invece concepita come inseparabile da quello sociale.
216
principi di regolazione e sviluppo di quest’ultima. Il tema non ha dunque a che
fare semplicemente con l’attitudine remissiva della borghesia post-
rivoluzionaria, ma ha una dimensione eminentemente teorica e riguarda
anzitutto le tecnologie di potere in grado di agire su una società genericizzata,
individualizzata e spoliticizzata che già è regolata e organizzata dall’influenza e
dalle attività delle classi medie: si tratta di pensare e articolare i dispositivi in
grado di tradurre in governo politico tutti questi frammenti di potere che
attraversano e disciplinano il sociale difendendolo dai rischi di dissoluzione.
Per questo negli anni 1820, se da un lato Guizot prova a incrinare la
timidezza politica soggettiva della classe media e spingerla a giocare un ruolo
attivo (Aide-toi le ciel t’aidera è il significativo nome dell’associazione cui dà
vita per attivare l’elettorato allo scopo di sconfiggere i reazionari alle elezioni
del 1827), 297 dall’altra, anche quando ne attacca con tenacia la condotta
reazionaria, non smette di spronare il governo della Restaurazione a poggiare la
propria iniziativa sugli interessi di cui la Carta ha sancito la vittoria storica,
perché essi «sono forti; e, per godere della loro forza, hanno bisogno di allearsi
con il potere. Sono legittimi; il potere che lo riconosce consacra la sua
legittimità unendola alla loro». 298 Pur ricacciato all’opposizione, Guizot
297 Iniziativa che consegue il suo obiettivo, Guizot è per un periodo presidente di questa associazione a cui aderiscono anche molti di coloro che diventeranno poi esponenti della Société des Amis du Peuple, nel cui manifesto infatti si legge: «questo diritto [elettorale] che M. Guizot il dottrinario reclamava per sé, sei mesi fa, quando presiedeva una società riunita per ottenere delle elezioni costituzionali» (Manifeste de la Sap cit., p.15. 298 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 146, «essi possiedono; non hanno da domandare la conservazione; la condizione del potere è la stessa». Finchè il governo non istituisce la propria coimplicazione con interessi, attitudini e ambizioni della forza storica che ha mosso il corso della civilizzazione, e della cui vittoria storica la Carta rappresenta la cristallizzazione istituzionale, esso rimane una macchina politica esteriore alla società e perciò incapace di un’iniziativa incisiva. «Ecco degli uomini che hanno dell’importanza, dell’influenza, della clientela, fatene dei magistrati […] invece di cercare vanamente come governare senza di essi, obbligateli a governare per voi» «Rifiuteranno di essere vostri agenti. Costringeteli ad essere vostri alleati» ( Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 182). scrive agitando il motivo che muove tutto questo testo intorno al tentativo di istituire un legame irrevocabile fra classi medie e quelli che si sforza di pensare come mezzi di governo all’altezza della società dell’uguaglianza civile. «Invece di mostrarvi così inquieti dell’influenza della classe media, adottate questa influenza; aiutatela a intendersi, a costituirsi […] Invece di comprimere timidamente il movimento ascendente di questa classe; assecondatelo; ciò che gli manca è esattamente di compiersi. È abbastanza in alto da non scendere mai più, ancora non abbastanza. […] Guardate l’ardore con cui i giovani di questa classe si precipitano verso gli studi seri, le
217
continua a ragionare in termini di governo, lavora a indicare a quest’ultimo le
tecniche di potere che ritiene le uniche in grado di far funzionare le istituzioni
fondate dalla Carta istituendo un rapporto di penetrazione e coimplicazione con
le influenze che reggono il sociale e con gli interessi che hanno mosso il corso
della storia francese. Ogni dipartimento, ogni città, ogni luogo, racchiude un certo numero di uomini che non hanno e non vogliono neppure avere con il Governo, alcun rapporto stretto, alcun legame positivo, ma che esercitano intorno a loro una influenza più o meno decisiva, più o meno estesa. Sono dei proprietari, degli avvocati, dei manifatturieri, dei commercianti che si tengono lontani dagli affari pubblici per consacrarsi ai loro, ma non di meno hanno un’esistenza considerevole, non si perdono nelle masse al di fuori delle quali essi si elevano e si fanno notare per la loro importanza e il loro credito […] questo vasto insieme che costituisce il vero governo della società […] queste influenze, questo cemento, che fanno di una moltitudine una società e la rendono capace di preservarsi dall’anarchia senza ricorrere al potere assoluto.299
Le influenze che le classi medie esercitano dentro la società civile sono il
vero potere che la costituisce, la muove e la governa quotidianamente,
disciplinandola e formando l’insieme di norme che la preservano e difendono
dai rischi di dissoluzione e tirannia. Guizot definisce questo pouvoir social
come la legge che regola le volontà individuali nelle loro relazioni sociali e allo
stesso tempo la forza che fa rispettare questa legge: esso è condizione stessa di
esistenza della società, e deve sussistere in permanenza.300 È la «sottomissione
– così lo spiega Pierre Macherey – di tutti i membri della società a una regola
comune che non si contentano di subire, ma che accettano perché ne
professioni che procurano la considerazione […]. Impadronitevi di questo ardore», Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., 154. 299 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., pp. 179 e 180, corsivi miei. 300 Guizot, De la souveraineté cit., p. 358, questo potere deve tendenzialmente andare a coincidere con il governo stesso, inoltre «il progresso morale della società consiste nel rendere meno frequente l’intervento del potere sociale, nella misura in cui i poteri individuali, vale a dire la ragione e la volontà dei cittadini, si affinano e progrediscono» (ibid.).
218
riconoscono, e anzitutto ne conoscono, la verità».301 L’essenza del potere è
sociale, la sua matrice si trova in quelle diseguaglianze naturali che il buon
senso e la ragione non indugiano a distinguere e ammettere fra gli uomini. La
regola dei fatti mostra come vi siano delle superiorità reali che agiscono
socialmente intorno a sé, che si fanno riconoscere ed esercitano perciò influenze
che danno forma a potere e società: 302
Tra gli uomini liberati a se stessi e alle leggi della loro natura, il potere rivela e accompagna la superiorità. Facendosi riconoscere essa si fa obbedire. È qui l’origine del potere; non ce ne sono altre. Tra uguali il potere non sarebbe mai nato. La superiorità sentita e accettata, è il legame primitivo e legittimo delle società umane; è nello stesso tempo il fatto e il diritto; è il vero, il solo contratto sociale.303
L’unica uguaglianza che Guizot riconosce è quella civile, legale, quella dei
diritti universali – «droits égaux pour tous, diritti che sono inerenti l’umanità e
di cui nessuna creatura può essere spogliata» – che la Rivoluzione francese ha
«l’onore» di aver proclamato e attuato come risultato della civilizzazione
moderna. 304 Questa uguaglianza ha l’effetto di permettere alle superiorità
301 Macherey, Aux sources des «rapports sociaux» cit., p. 30. 302 «È questo un fatto di cui dispone, ad ogni istante, lo spettacolo del mondo. Il coraggioso si fa seguire da soloro che sono capaci di associarsi al suo coraggio. L’abile si fa obbedire da coloro che sono capaci di sentire la sua abilità, il sapiente se fa credere da coloro che sono capaci di apprezzare la sua scienza. Ogni superiorità ha una certa sfera di attrazione nella quale agisce e raggruppa intorno a sé delle inferiorità reali, ma in grado di sentire e di accettare la sua azione», Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 407. 303 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 125. 304 Discorso del 5 ottobre 1831, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, pp. 307-308. «Sans doute, il y a des droits universels, des droits égaux pour tous, des droits qui sont inhérents à l'humanité et dont aucune créature humaine ne peut être dépouillée sans iniquité et sans désordre. C'est l'honneur de la civilisation moderne d'avoir dégagée ces droits de cet amas de violences et de résultats de la force sous lequel ils avaient été longtemps enfouis, et de les avoir rendus à la lumière. C'est l'honneur de la Révolution française d'avoir proclamé et mis en pratique ce résultat de la civilisation moderne. Je n'entreprendrai pas ici l'énumération de ces droits universels, égaux pour tous; je veux dire seulement qu'à mon avis ils se résument dans ces deux-ci le droit de ne subir, de la part de personne, une injustice quelconque, sans être protégé contre elle par la puissance publique; et ensuite le droit de disposer de son existence individuelle selon sa volonté et son intérêt, en tant que cela ne nuit pas à l'existence individuelle d'un autre. Voilà les droits personnels, universels, égaux pour tous. De là l'égalité dans l'ordre civil et dans l'ordre moral.».
219
legittime e naturali di manifestarsi e affermarsi, di divenire criterio per
l’esercizio dei diritti variabili (quello elettorale anzitutto), senza mai
cristallizzarsi nel privilegio in cui le superiorità già «istituite» cercano sovente
di installarsi estendendo illegittimamente una disuguaglianza originariamente
legittima. 305 Il «segreto delle rivoluzioni» – scrive ancora Guizot – è
esattamente di tradurre in diritto il fatto delle superiorità divenute legittime (che
saranno chiamate a provarlo continuamente e a meritare il potere che la società
conferisce loro), sostituendole a superiorità divenute false o «antisociali».306 I
dottrinari strappano così il concetto di legittimità all’avversario ultrarealista per
farne una nozione politica, dotata di profondità storica nel senso che deve
essere continuamente sottoposta a una verifica morale e sociale: la costituzione
plurale della civilisation europea può in effetti essere letta come l’alternarsi di
differenti principi di legittimità che insediano élites e gruppi alla guida della
società, senza tuttavia che nessuno riesca a cristallizare definitivamente il
proprio dominio arrestandone così lo sviluppo. Rimproverando alla nobiltà di
voler mantenere, con i privilegi, un potere di diritto ove esso non è più di
fatto,307 Guizot lavora a decostruire e appropriarsi, lavorandola storicamente e
politicamente, anche della nozione di aristocrazia. «Ci sono delle classi molto
più ricche, molto più illuminate, più influenti di altre. È questo che si chiama
aristocrazia? Se è questo che si chiama aristocrazia […] ce n’è sempre stata, ce
ne sarà sempre e non si arriverà ad abolirla»,308 perché «la vocazione e la
305 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., pp. 122-23: «Le superiorità naturali, le preminenze sociali non devono ricevere dalla legge alcun appoggio fittizio. I cittadini devono essere liberati al loro proprio merito, alle loro proprie forze; […] noi non respongiamo le superiorità, le influenze; noi pensiamo al contrario che la condotta degli affari sociali gli appartiene; vogliamo che siano riconosciute […]. Ma domandiamo […] che le leggi gli impongano la costante necessità di legittimarsi […]. È la nostra dottrina; è là anche il pensiero della carta quando ha inscritto l’uguaglianza nel numero dei diritti pubblici dei francesi» e può diventare un energico mezzo di governo. 306 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., pp. 125-126. 307 «Riconoscere l’esistenza ab origine dei rapporti di comando e obbedienza non significa tuttavia cristallizzarli e sottrarli ad una loro vita evolutiva. In effetti, è proprio questa la critica principale che Guizot muove alle aristocrazie d’antico regime», scrive Alberto Clerici (Contro l’uguaglianza, contro il privilegio cit., p. 64). 308 Discorso del 3 gennaio 1834, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, pp. 190-191. «Io penso che in un grande e vecchio paese come la Francia, ci sono profonde
220
tendenza della società è in effetti di essere governata dai migliori, da coloro che
conoscono il meglio e vogliono più fermamente la verità, la giustizia».309 I
dottrinari si fanno autorevoli interpreti di una tendenza generale comune alla
propria epoca in questo mettere in questione le condizioni e i criteri per
l’affermazione di nuove élites dopo che la Rivoluzione ha disabilitato le
gerarchie cetuali. Questa nuova, vera e legittima aristocrazia – che dovrà
continuamente provare i requisiti che le danno diritto a governare – è ciò di cui
la Francia ha bisogno per chiudere la vicenda rivoluzionaria e riconciliare
uguaglianza civile e superiorità naturali nel compromesso fra autorità e libertà.
Tale aristocrazia della ragione è allo stesso tempo un segmento sociale e una
classe immediatamente politica, quella che Luca Scuccimarra definisce «élite
naturale chiamata a svolgere quel lavoro di autoriflessione sociale che
costituisce lo specifico contenuto del sistema rappresentativo».310
Tornerò sulla concezione dottrinaria di questo potere – pensato sul modello
di quello paterno – che fluisce nel sociale dandogli forma e istituendone la
piena coestensività con la dimensione del politico, su questa radicale messa «in
causa della distinzione fra la società civile e lo Stato» in cui Pierre Manent
individua la specificità della filosofia politica guizotiana.311 È ciò che Aurielian
diversità tra le differenti classi di cittadini, delle diversità naturali, storiche, delle diversità di fortuna, di educazione, di lumi, delle diversità di ogni genere. Io penso che da queste diversità, risulta che ci sono delle classi molto più illuminate, più influenti delle altre. È questo che si chiama l’aristocrazia? Se è questo che si chiama aristocrazia, come ho avuto l’onore di dire all’atra Camera, ce n’è stata sempre e ce ne sarà sempre, e non si arriverà alla sua abolizione»( in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. II, p. 190-191) È importante questo passaggio che Guizot pronuncia poco dopo perché rivela la funzione che Guizot assegna a tale aristocrazia: «i1 y a des classes diverses, mais sans aucun privilège; elle sont, comme la population tout entière soumises à la liberté de la presse, à la concurrence pour les charges publiques; ils sont soumises à l’égalité de l'impôt, à 1’élection, à la participation au pouvoir. Vous avez introduit le principe éléctif dans les differents degrés de là société pour diffèrentes fonctions. Vous avez l'aristocratie départementale, l'aristocratie municipale comme l'aristocratie politique, vous avez fait des électéurs, des eligibles differents, ce sont deux; trois, quatre aristocraties que vouts avez faites et ce sont ces airistocraties que j'approuve, jé veux pàs d'âutres. Je n’en n’ai jamais olu autres» (p. 191) Si veda in merito anche il già più volte citato discorso del 5 ottobre 1831 sull’eredita del titolo di pari di Francia, in cui Guizot (sostenendo la nomina regia e l’ereditarietà), parla di una «aristocrazia costituzionale» che deve essere costantemente sottomessa al controllo «della democrazia» e che deve essere costantemente reclutata fra la democrazia (in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 317). 309 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 100 310 L. Scuccimarra, Il cuneo bonapartista cit., p. 129. 311 P. Manent, Histoire intellectuelle du libéralisme. Dix LeCons, Calman-Levy, Paris
221
Craiutu legge, rispetto al liberalismo classico, come una profonda
«reinterpretazione della relazione fra il potere e la società fondato su una teoria
originale dei ‘nuovi mezzi di governo’»:312 cercherò di analizzare anche alcuni
di questi «mezzi», dei concreti dispositivi di sapere-potere che i dottrinari
mettono in opera nei primi anni del regime di Luglio. Per il momento mi
interessa invece sottolineare come il potere politico – cui è demandata la
funzione di orientamento storico, di direzione generale della società
nell’attuazione del compromesso fra autorità e libertà – possa svolgere il
compito cui è chiamato solo operando un rapporto di costante autoriflessione e
comunicazione con tali influenze. Pensare e disporre tecniche e tecnologie in
grado di cooptare e far agire questo potere sociale dentro la macchina di
governo, farne un suo mezzo, è dunque il cuore della teoria politica dottrinaria,
che individua nel principio di capacità il dispositivo fondamentale di
organizzazione politica di tale potere, vale a dire quello che permette di istituire
la classe sociale, che con la sua attività e le sue influenze regola e governa la
società civile, in classe politica posta al cuore della macchina statuale, ove essa
ha diritto di agire e dovere di farlo nell’interesse della società.
«Tutti i buoni governi, e soprattutto il governo rappresentativo, hanno per
oggetto di far uscire dal seno della società questa aristocrazia vera e legittima
dalla quale essa ha il diritto di essere governata e che ha il diritto di
governarla», 313 afferma Guizot nel corso d’Histoire des origines du
gouvernement représentatif, e in uno scritto del 1827 sottolinea che esso, «nei
1987, p. 216. 312 Craiutu, Liberalism under siege cit., p. 169. in ambito anglosassone cfr. anche J. Jennings, Revolution and the Republic. A History of Political Thought in France since the Eighteenth Century, Oxford University Press, Oxford 2011, pp. 169-180. Aurelian Craiutu, Liberalism under siege. The political Thought of the French Doctrinaires, Leington, Oxford, 2003: «Per la comunità accademica della teoria politica nel mondo anglosassone, il pensiero politico dei dottrinari è rimasto terra incognita» (p. 2), Craiutu spiega di esserci arrivato studiando la democrazia in america di Tocqueville, chiedendosi come sgli avesse potuto scrivere un'opera tanto importante a 25 anni e andando così ad indagare gli ambienti in cui egli si era formato. «gli scritti dei dottrinari francesi sono ancora capaci di sorprenderci e di istruirci. Essi ci aiutano a ripensare la natura del politico» (p. 3). 313 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 100. Dalla società il sistema rappresentativo deve «estrarre dalla società tutta la ragione, la giustizia, la verità che essa possiede, per applicarle al suo governo» (p. 98).
222
suoi elementi generali, come in tutti i dettagli della sua organizzazione», deve
lavorare a «raccogliere, concentrare tutta la ragione che esiste sparsa nella
società e di applicarla al suo governo».314 È questo lo «scopo ultimo», il
«principio fondamentale» del sistema rappresentativo: cercare nella società e
costituire in classe politica dirigente questa legittima aristocrazia, e imporle poi
senza sosta di provare di essere «conforme alla verità delle cose», così da
«stabilire, tra la società e il potere la loro relazione naturale e legittima, vale a
dire di impedire che il potere non rimanga in diritto ove non è più di fatto, di
farlo costantemente cadere in mano alle superiorità reali».315 Nella società del
passato ove «gli uomini [erano] classificati e disciplinati; le influenze solide e
riconosciute», 316 tale processo poteva prendere forma nelle tradizionali
macchine politiche «esteriori», che si limitano cioè a lambire la superficie del
sociale. Queste tecnologie di potere risultano obsolete nella nuova società degli
uguali, in cui il politico è chiamato a penetrare il sociale per riconoscervi
superiorità, influenze e capacità, ad elaborarne la mappa cognitiva per reclutarle
all’attività di governo. «La prodigiosa trasformazione che si è operata»,317
disabilitando legittimamente e irrevocabilmente i corpi intermedi che
organizzavano gerarchicamente il corpo sociale, e scatenando il movimento di
un’uguaglianza che individualizza, spoliticizza e genericizza il genere umano,
costringe il potere a penetrare la società per conoscere, studiare e mettere «a
profitto regolandole»318 le influenze che la attraversano e mettono in forma. Il
314 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 406. 315 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., pp. 154, 122-123 e 126. Il governo rappresentativo è «sistema ammirabile, perché è conforme alla verità delle cose, perché risolve il problema dell’alleanza del potere con la libertà; da una parte non accordando il potere che alla superiorità, dall’altra imponendo alla superiorità la legge di provarsi essa stessa, di farsi costantemente accettare» (p. 126). Lo scopo del potere politico è dunque quello di «fornire alla società e al potere questa vera, questa legittima aristocrazia di cui l’uno e l’altra hanno bisogno» imponendole al tempo stesso di mostrare continuamente la propria legittimità (p. 154). 316 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 170. 317 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 169. 318 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition dans l’état actuel de la France cit., p. 73.
223
problema è come operare questa traduzione attraverso dispositivi di messa in
forma politica del sociale, le elezioni costituiscono allora il più importante e
decisivo fra i mezzi di governo che permettono di perseguire un tale scopo. Il
processo cognitivo, di comunicazione e autoriflessione, che il politico è
chiamato a svolgere nel sociale impone uno scarto fondamentale: costringe a
imbricare l’analisi sociologica nel funzionamento di un potere che gli strumenti
classici della filosofia politica sono insufficienti a descrivere, impone cioè di
pensare una teoria politica che non è più sociologicamente indifferenziata. «Il
politico non è un’istanza separata che fino al momento in cui la società si trova
essa stessa ad essere organicamente e strutturalmente divisa»,319 scrive Pierre
Rosanvallon, interpretando il corso della civilisation guizotiana come il lento e
progressivo rimodellamento della distinzione fra sociale e politico, fra pubblico
e privato: «la nascita della sociologia può essere compresa come una risposta a
ciò che è percepito come il fallimento della filosofia politica classica (dal XVI
al XVIII secolo). Essa è il tentativo di dare forma e intellegibilità a una società
che non ha più prese da cui essa possa allo stesso tempo essere compresa e
condotta […]. Filosofia politica e sociologia diventano così indissociabili».320
Vittima annunciata di tale sforzo di conferire profondità sociale alla filosofia
politica è in primis la nozione di popolo, cui i dottrinari non smettono di
manifestare la propria ostilità in ragione del potenziale deleterio che su di essa
carica il codice costituente della sovranità di diritto. La nozione socialmente
caratterizzata di classe permette di cogliere le concrete striature di una società
che la teoria politica dottrinaria non pensa più nella sua generalità e globalità
attraverso figure astrattamente politiche come uomini/popolo. Il principio di
capacità opera poi la traduzione politica della nozione di classe sociale
permettendo di pensare il suffragio elettorale come il più potente dispositivo di 319 Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 41. «Il potere non può essere concepito come principio di regolazione esterno al sociale», p. 41 320 Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 96 e 240. «È dunque sul terreno della sociologia e non di una filosofia politica indifferenziata che superano i limiti del liberalismo utopico. I dottrinari concepiscono il potere in termini di classe (interessi nuovi versus interessi antichi) e aboliscono così la contraddizione classica fra Stato produttore della società e Stato prodotto dalla società. Il governo di classe è il riassunto della vita sociale», Rosanvallon, Le moment Guizot cit., pp. 49-50.
224
elaborazione della mappa cognitiva che il potere deve continuamente produrre
per governare il sociale.
«Questo sovrano collettivo non ha né forma, né residenza né maestà. Non è
neppure questo popolo visibile che lavora, circola nei campi e nelle strade. È il
popolo, ma solamente in idea, un popolo astratto che non si lascia né intendere
né vedere, a cui la teoria sola attribuisce l’essere e la volontà»:321 la critica
all’ineffettualità sociale del concetto di popolo serve a nutrire una
preoccupazione costante del percorso politico e teorico di Guizot, la critica del
principio della sovranità popolare. L’attribuzione in via definitiva della
sovranità di diritto a un soggetto, singolo o collettivo, è per lui sempre foriera di
potere assoluto, reca germi di dispotismo. Quando si vuole collocare il popolo
in tale posizione la cosa si complica ulteriormente, perché, con «uno strano
abuso delle parole», si chiama unico e indivisibile ciò che in realtà è un
soggetto collettivo e se ne fa un sovrano chiamato allo stesso tempo a
comandare e a ubbidire. 322 «Ci sono non so dire quanti popoli che si
proclamano superiori al potere; finché ciò sussiste, non c’è governo possibile»,
afferma alla Camera dei deputati di fronte al persistere dei tumulti dopo il 1830,
sfidando le forze che «in nome del popolo» tentano di «invadere la società».323
Assumere il popolo come attore politico significa negare i punti di
qualificazione e di valorizzazione interni alla società, minacciandola con
l’insieme degli infiniti significati possibili per il suo astratto nome. La sovranità
del popolo non è altro che «il diritto della maggioranza numerica sulla
321 Guizot, De la souveraineté cit., p. 339. 322 «Quando la sovranità, ritirata al governo, è stata trasferita al popolo, la difficoltà è divenuta immensa. Il nuovo sovrano governerà? È suo diritto; nessun governo sarà legittimo se non è il suo. Ma il popolo non saprebbe governare, ben più, deve obbedire. E a chi? A un governo di cui lui è, non cesserà di essere il sovrano. Così ecco un sovrano che obbedisce sempre, eccetto quando si tratta di creare o distruggere il potere che gli dà le leggi» Guizot, De la souveraineté cit., p. 329-330. Il principio democratico è quello di «un governo che comanda al suo padrone, a un padrone assolutamente legittimo e che ha, sul servitore a cui obbedisce, diritto di vita e di morte», Guizot, De la souveraineté cit., p. 330. «Quando un popolo si è contato per testa, e ha proclamato l’onnipotenza del numero, ha fondato ugualmente la tirannide», Du gouvernement de la France depuis la Restauration et du ministère actuel cit., p. 201. 323 Discorso del 19 febbraio 1831, in in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 221.
225
minoranza»,324 il sistema democratico, si limita a prendere «in considerazione
tutti gli individui [il popolo] per il fatto stesso che esistono senza domandargli
niente di più»:325 il governo rappresentativo disabilita invece questa scissione
fra il nome e la cosa calando il potere dentro la società e imponendogli di
riconoscerne le striature concrete. «Esso considera qual è l’atto sul quale stanno
per essere consultati gli individui: esamina qual è la capacità necessaria per tale
atto; chiama in causa in seguito gli individui che si presume posseggano questa
capacità, tutti costoro e solo loro. E cerca infine la maggioranza tra i capaci».326
Ciò che Sandro Chignola chiama la disabilitazione del «codice costituente delle
teorie del contratto», la disattivazione «del monopolio del politico, cui la
rappresentanza pretende da quando si è modernamente arrogata il diritto di
parlare per un intero del popolo altrimenti invisibile ed assente»,327 passa
pertanto attraverso l’affermazione del principio di capacità come criterio per
concorrere alla macchina politica della rappresentanza che costringe il governo
a un processo cognitivo in grado di determinarne la coimplicazione con il
sociale. È quanto Guizot spiega ai suoi colleghi deputati, affermando che «è
senza dubbio all’introduzione della capacità politica, alla sua sostituzione al
principio falso e bugiardo del suffragio universale che noi dobbiamo […] i
mezzi per difenderci e salvarci» da ogni «menzogna e tirannia in nome del
popolo».328 Nel regime discorsivo dei dottrinari, il richiamo alle classi medie
permette invece di mantenere sempre attivo il riferimento alle concrete striature
della società, e il principio di capacità rappresenta la «scoperta» dello strumento
attraverso cui operare la trascrizione di tale elemento sociale nella verità
politica della Carta e del governo rappresentativo da essa fondato.329 È la forma
324 Guizot, De la souveraineté cit., p. 363. 325 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 110. 326 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 110. 327 Chigola, Il tempo rovesciato cit., pp. 70 e 105. Si insiste inoltre sul fatto che l’essenza del governo non è la coazione, ma il processo scambio e comunicazione con la società, che non induce però assolutamente a un’attitudine passiva, «per il semplice fatto che impensabile è quella secca separazione tra Stato e società, tra pubblico e privato, dalla quale muove la moderna nozione di rappresentanza» (p. 102). 328 Discorso dell’8 febbraio 1831, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 217 329 Rosanvanllon scrive pertanto che Guizot «si pone come scopo insegnare alla borghesia
226
finalmente trovata in grado di fondare un ordine gerarchico delle diseguaglianze
politiche in un quadro di uguaglianza civile, e inscrivere così il movimento
dell'égalité in un destino di ordine. Nello scacco, da loro di fatto avallato in
nome della stabilità del ministero Périer, cui tale principio va incontro nella
discussione della legge elettorale promulgata il 19 aprile 1831,330 si può allora
riconoscere – insieme alle agitazioni che, come la rivolta lionese, seguono
l’avvento del nuovo regime – uno snodo in cui misurare la torsione
dell’iniziativa dei dottrinari verso il mero tatticismo parlamentare volto
all’ordinaria gestione dell’esistente.
Esiste in ogni società una certa somma di idee giuste. Questa somma di idee giuste è dispersa negli individui che compongono la società e ripartita in modo diseguale tra loro […]. Il problema è di raccogliere ovunque i frammenti sparsi e incompleti di questo potere, di concentrarli e di costituirli in governo. In altri termini, si tratta di scoprire tutti gli elementi di potere legittimo disseminati nella società e di organizzarli in potere di fatto, vale a dire di concentrarli, di realizzare la ragione pubblica, la morale pubblica e di chiamarle al potere. Ciò che si chiama rappresentanza non è altro che il modo di arrivare a questo risultato. Non è affatto una macchina aritmetica destinata a raccogliere e a contare le volontà individuali. È una procedura naturale.331
Quello elettorale, non è un diritto, ma un potere che deve essere esercitato
nell’interesse della società e funzionare in maniera armonica con gli altri
poteri.332 Il criterio di accesso al suffragio è il principio di capacità, vale a dire
a riconoscere il suo vero partito», e sottolinea come le divisioni fra i liberali durante la Restaurazione in differenti partiti non smettano di agitare questo pensatore perché gli paiono produrre nell’artificio della politica la separazione di quelli che sono identici interessi sociali (Le moment Guizot cit., pp. 216-217). 330 La legge del 19 aprile 1831 abbassa il censo per l’elettorato attivo a 200 franchi e, nella formulazione iniziale prevede, oltre al censo, il diritto di voto a svariate categorie di cittadini considerate dotate di «capacità» politica. Con le parole di Odilon Barrot: «Le condizioni essenziali di questa capacità sono l’interesse e l’intelligenza […], perché non è l’imposta che fa l’elettore, ma la capacità che questa imposta suppone […] più la civilizzazione cammina, più questa influenza esclusiva della proprietà diminuisce» (Mémoires posthumes, tome I, Charpentier et C., Paris 1875, p. 255). 331 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. II, pp. 149-150. 332 «Cos’è l’esercizio del diritto, o, se si vuole, del potere elettorale isolato da ogni altro potere?», Guizot, Elections cit., p. 383.
227
la facoltà di agire secondo ragione. 333 La rappresentanza è la funzione
attraverso la quale «frammenti» incompleti di potere che sono «sparsi» nella
società vengono reclutati, cooptati e concentrati nel potere politico: è ciò che
Scuccimarra chiama «un’interpretazione funzionale della rappresentanza».334 È
un mezzo di governo il cui scopo è, ancora una volta, imbricare nella macchina
politica dello Stato le influenze, i saperi, le superiorità, insomma il potere
sociale che attraversa la società, le dà forma e ne impedisce la dissoluzione
organizzando, disciplinando, gerarchizzando bisogni e interessi. Tali elementi
preesistono al dispositivo elettorale, è compito del governo dispiegare e
mantenere attivo un processo cognitivo che costantemente consenta di
riconoscerli: «ci sono, nella società, degli elettori naturali, legittimi, degli
elettori già fatti, la cui esistenza precede il pensiero del legislatore e che questi
deve solamente applicarsi a scoprire».335 Le elezioni sono il principale mezzo
attraverso cui il potere deve conoscere e costituire quell’élite, quell’aristocrazia
legittima che sola può governare la società secondo i suoi bisogni e interessi.336
Il suffragio incarna dunque il più importante meccanismo di comunicazione e
autoriflessione di governo e società, dal momento che il primo, per far sì che la
macchina elettorale sia un moltiplicatore del proprio potere, deve
incessantemente «cercare e riconoscere nella società le classi, le persone in cui
risiede la capacità che conferisce i diritti elettorali».337
Al formalismo della moderna rappresentanza che raccoglie e conta le
volontà incarnandole nei rappresentanti, e conferendo di fatto a tale dimensione
il monopolio di un politico separato dalla società, che è supposto costituirla e
sovraordinarla, i dottrinari oppongono un processo cognitivo che impone al 333 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 385. 334 Scuccimarra, Il cuneo bonapartista cit., p. 130, interpretazione «centrata su una netta divisione del corpo sociale tra soggetti capaci di agire secondo ragione e mera moltitudine» (ibid.). 335 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 384. 336 Le elezioni non sono altro che «una maniera di scoprire e costituire la vera, la legittima aristocrazia, quella che accettano liberamente i popoli sui quali si deve esercitare il suo potere», Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 395. 337 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 388.
228
politico un rapporto continuo e diretto con il sociale, rapporto in cui è
quest’ultimo a produrre e detenere i meccanismi regolatori del politico, le
capacità. La società agisce un rapporto di generazione nei confronti di un potere
politico che è continuamente chiamato a comunicarsi e riflettersi in essa, e
dunque a produrla a sua volta. «Ogni elezione è il risultato di influenze»:338 non
si tratta di incarnare le volontà e istituirle in quanto dimensione politica, ma di
chiamare eletti ed elettori a svolgere nell’interesse della società la funzione di
reclutare e cooptare al governo le influenze che regolano e organizzano il
sociale (ovvero la «somma di idee giuste» che lo attraversano).339 Se gli eletti
devono essere capaci di ben comprendere gli interessi che sono chiamati a
trattare, anche gli elettori devono essere «capaci di ben eleggere»,340 dal
momento non esercitano un diritto, ma svolgono anch’essi una funzione di
governo, sono cioè chiamati a partecipare alla costruzione di quella mappa
cognitiva che il potere politico deve senza sosta produrre per conoscere le
legittime superiorità che hanno il diritto e il dovere di guidare la società, e
chiamarle a farlo. 341 Eletti ed elettori partecipano pertanto a quella
fondamentale funzione di comunicazione che consente al governo di «dire la
verità» sulla società, di conoscerla e lavorare secondo il suo attuale stato, i suoi
bisogni e interessi. Per questo «i diritti politici sono dei poteri sociali; un diritto
politico è una porzione di governo».342 Il loro esercizio non riguarda, come nel
caso dei diritti universali, dell’uguaglianza civile, delle libertà pubbliche,
338 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 401. 339 Michèle Riot-Sarcey definisce Guizot «il grande ordinatore della rappresentazione politica», Le réel de l’utopie cit., p. 59. 340 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 401. 341 Particolarmente importante è perciò secondo Guizot la determinazione dei collegi elettorali, la cui estensione deve «fondarsi sul rispetto e il mantenimento delle relazioni e delle influenze naturali», vale a dire che deve consentire agli elettori di conoscere direttamente alcuni elementi di coloro che sono chiamati a eleggere. «La sfera deve essere abbastanza larga affinchè l’elezione produca dei deputati capaci di svolgere la loro missione pubblica, abbastanza stretta affinchè il più gran numero dei cittadini che concorrono all’elezione agiscano con discernimento e libertà», Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., pp. 396 e 398. 342 Discorso del 5 ottobre 1831, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 308 (corsivo mio).
229
l’esistenza individuale, «non si tratta dell’umanità in generale, ma della società,
della sua organizzazione, dei mezzi della sua esistenza. Di qui segue che i diritti
politici non sono universali, uguali per tutti; sono speciali, limitati».343 Il loro
esercizio presuppone la necessità di una prova della capacità di esercitarli
nell’interesse della società, che è la dimensione su cui essi agiscono:
Ben lontano dunque dall’essere [l’uguaglianza] il principio dei diritti politici, esso ne è l’ineguaglianza; i diritti politici sono necessariamente ineguali, inegualmente distribuiti. […] In materia di libertà, ci sono dei diritti universali, dei diritti uguali; in materia di governo non ci sono che diritti speciali, limitati, ineguali.344
La prova è ancora una volta affidata al buon senso, all’opinione comune,
all’autorità della storia e alla regola dei fatti, i quali mostrano che in ogni
società l’età, il sesso e altri criteri sono sempre stati utilizzati come
discriminanti per l’esercizio di diritti e dei poteri che riguardano l’interesse di
tutta la collettività. Almeno i minori e le donne sono sempre stati esclusi
dall’esercizio dei diritti politici. È ancora per opposizione, attraverso il
riferimento all’alterità radicale che si prova la verità di un diritto-potere, di cui
Guizot, anche qui, non esita tuttavia ad affermare il potenziale universalizzante:
«il limite di questa ineguaglianza può variare all’infinito […] secondo una
moltitudine di circostanze diverse».345 Dal momento che tutti sono dotati di
ragione, la possibilità di dimostrare la propria capacità è tendenzialmente
generale. Il diritto di suffragio è dunque per sua natura variabile e complesso,
dipende dalla materia oggetto della consultazione, dagli affari che i
rappresentanti sono chiamati a trattare e, più in generale e dal «grado della
civilisation» e dallo stato della società.346 Sarebbe un gravissimo «errore di
343 Discorso del 5 ottobre 1831, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 308. 344 Discorso del 5 ottobre 1831, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, pp. 308-309. 345 Discorso del 5 ottobre 1831, in Guizot, Histoire parlementaire de France cit., vol. I, p. 309. 346 «Se la società si estende, il diritto di suffragio si restringe, se la capacità diviene più generale fra gli uomini, il diritto di suffragio si allarga […] il suo limite legittimo si riposiziona
230
pretendere di legare la capacità politica a qualche segno immutabile e sempre lo
stesso attraverso le vicissitudini della società».347 In questo senso la capacità si
oppone al privilegio perché impone di provare e verificare costantemente le
superiorità che di fatto abitano il sociale prima di tradurle in diritto. E anche il
censo rappresenta un criterio di accesso ai diritti politici solo nella misura in cui
esso viene interpretato e riconosciuto come prova di influenza e autorevolezza,
vale a dire come segnale di capacità: «non è l’imposta che fa l’elettore – scrive
Odillon Barrot –, ma la capacità che questa imposta suppone […] più la
civilizzazione cammina, più questa influenza esclusiva della proprietà
diminuisce».348 La capacità deriva dalle superiorità reali, che consentono di
esercitare la funzione rappresentativa nell’interesse della società, essa consiste
anche nel saper riconoscere le superiorità altrui: è questo il criterio per
l’esercizio dell’elettorato attivo. Al di sotto di un certo livello di intelligenza
degli affari generali, viene meno la capacità di riconoscere la superiorità, di
instaurare un rapporto intellettuale di verità con essa, è qui che cessa la capacità
politica, 349 che è «sinonimo» del diritto di concorrere all’elezione dei
deputati.350
La capacità politica coincide con «la capacità di agire liberamente e
ragionevolmente nell’interesse sociale», 351 di comprendere il lavoro della
ragione nella storia e dunque di aiutare a realizzarlo, definisce l’intelligenza
sociale e la recluta all’attività di governo. Il diritto di suffragio risulta da qualità
continuamente in ragione dello sviluppo materiale e morale della società […] è in presenza dei fatti e secondo le circostanze di tempo, di luogo, secondo la natura e il grado della civilizzazione che essa deve essere risolta», Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., pp. 388 e 391. 347 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 392. 348 M. C. Odilon Barrot, Mémoires posthumes, tome I, Charpentier et C., Paris 1875, pp. 255. 349 «Il limite ove cessa la facoltà di riconoscere e di accettare la superiorità che costituisce la capacità di essere un buon deputato è quella ove deve cessare il diritto di eleggere, perché è quello ove cessa la capacità di essere un buon elettore», Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 408. 350 Questi «diritti variabili sono tutti contenuti nel diritto di suffragio», Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 387). 351 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 389.
231
oggettive che sono indipendenti, preesistono alle leggi, le quali devono limitarsi
a riconoscerle attivando un processo di comunicazione che abolisce la distanza
fra diritto naturale e diritto positivo: la capacità è «il principio naturale, la
condizione necessaria del diritto».352 Costituisce la frontiera che distingue
globalmente diritti sociali e diritti politici, rappresenta il dispositivo che
permette di pensare il governo della società civile, individualizzata e
genericizzata, degli uguali, regolata secondo il principio della democrazia
mantenendo attivo un principio, le capacità, di organizzazione gerarchica della
società politica.353 È questo il cuore dell’impresa dottrinaria, che verrà travolta
proprio in corrispondenza della sottovalutazione del portato e della potenza,
anche antropologica, del primo principio, tale da rendere, a breve, utopico il
progetto di mantenere indefinitamente operativa una divaricazione fra
uguaglianza civile e uguaglianza politica.
Piuttosto che incarnare le volontà degli individui nei rappresentanti e
indicare in questi il politico, il principio di capacità costringe quest’ultimo ad
andare in cerca della ragione che si è incarnata in alcuni individui per costituirli
come legittima aristocrazia. In questo senso il principio di capacità rappresenta
anche il fondamentale dispositivo di traduzione politica del sociale. Perché esso
agisce sulla base del riferimento di classe sociale individuandola
immediatamente come classe politica, segmento sociale che ha già diritto a
governare la società perché già vi esercita un potere legittimo e di fatto.354 È in
particolare nella voce Elections redatta nel 1826 per l’Encyclopedie progressive
che Guizot si sforza di delineare alcuni criteri attraverso cui riconoscere i segni
e le prove della capacità, non a caso è qui che si trova anche l’unico abbozzo di 352 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 387. «È dunque la capacità che conferisce il diritto, e la capacità medesima è un fatto indipendente dalla legge, che la legge non può creare né distruggere per volontà, ma che deve applicarsi a riconocere con esattezza per riconoscere il diritto che ne deriva», Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 385. 353 «La democrazia regola la società civile e il principio di ‘capacità’ regola la società politica. […] democrazia sociale e ‘capacità’ non sono incompatibili», Rosanvallon, La rivoluzione dell’uguaglianza cit., p. 257. 354 «È la parte di ragione che si è incarnata in essi [i capaci] che li costituisce collettivamente in classe legittimamente dirigente. Essi costituiscono una classe nel senso moderno del termine, senza formare né una corporazione, né un corpo privilegiato, né un’associazione che somma interessi privati», Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 97.
232
definizione delle classi sociali.
Egli dichiara anzitutto – coerentemente con il suo realismo antropologico
fondato sull’assunto della necessaria imperfezione umana e del carattere
trascendente di una verità che nella sua pienezza permane inaccessibile
all’uomo – che le determinazioni della capacità cui il potere politico può
giungere saranno necessariamente inesatte, 355 e procede dunque a una
definizione di questo ambito di verità del politico determinando la soglia, il
«limite» oltre il quale la capacità politica «cessa comunemente e nei fatti, nelle
società umane».356 Piuttosto che allo svolgimento di una teoria, ancora una
volta Guizot si affida alla regola dei fatti e si sforza di cogliere all’altezza del
«generalmente si riconosce», del si dice, del criterio del buon senso e
dell’opinione comune una tassonomia delle classi sociali attraverso la quale
ricavare per opposizione e differenziazione i parametri di internità al principio
di capacità. Una «classificazione» che si articola sui due elementi che
costituiscono il fatto della civilizzazione: da una parte la si deve definire
«considerando la società nell’ordine materiale»; a tale criterio poi corrisponde
(corrisponde, non deriva) una classificazione, analoga, svolta invece
considerando «l’ordine morale». Così, secondo l’opinione comune, si possono
riconoscere tre classi sociali357 (simili a quelle indicate da Marx nell’abbozzo di
355 Si riconosce in questo passaggio una forma tipica dell’approccio di questo pensatore alle cose umane e alla vita politica: «d’altra parte, la legge opera su delle masse. Le sue determinazioni saranno necessariamente inesatte, e ciononostante bisogna che esse siano rigorose. […] È l’imperfezione della scienza umana; lo sforzo della saggezza è quello di racchiuderla nei suoi più stretti limiti», Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 389. Alberto Chierici osserva come tale attitudine antropologica guizotiana sia in sostanza da ricondurre al protestantesimo che segna in modo importante la sua biografia e la sua concezione di una verità trascendente mai pienamente afferrabile dall’essere umano, «la conseguenza, sotto il profilo antropologico, è un atteggiamento fortemente realistico riguardo l’uomo e la politica. A ben vedere, inoltre, dietro alla critica che Guizot muove sia alla monarchia di diritto divino che alla democrazia popolare sta la complessità dell’animo umano, diviso tra due aspirazioni parimenti legittime: il desiderio di distinguerci da coloro che riteniamo inferiori a noi, e il bisogno di essere trattati in maniera uguale a coloro che si ritengono nostri superiori», Contro l’uguaglianza, contro il privilegio cit, p. 53. 356 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 389. 357 «Ogni società contiene queste tre classi di uomini in proporzioni e relazioni differenti», Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 390.
233
cinquantaduesimo capitolo del terzo libro del Capitale).358 Vi sono in primo
luogo i proprietari fondiari e quei capitalisti che affittano i loro capitali vivendo
di rendita: a tale condizione materiale corrisponde, nell’ordine morale, il fatto
che il lavoro permette loro «di liberarsi quasi esclusivamente alla coltura della
loro intelligenza». Secondariamente vi sono coloro che svolgono una qualunque
attività, con capitali propri o in affitto, la quale permette loro di trarre un
guadagno e di assicurare la sussistenza di un certo numero di impiegati: la
condizione sociale di queste persone, il loro lavoro, li obbliga a conoscere idee
ed elementi che gli consentono, nell’ordine morale, di potersi elevare
all’intelligenza di rapporti e interessi generali. Infine gli uomini che, non
possedendo capitale né fondi per affittarlo, provvedono alla propria sussistenza
attraverso il lavoro: questo impedisce loro di «uscire dal cerchio stretto degli
interessi individuali, limitati alla soddisfazione giornaliera dei bisogni della
vita».359 La capacità politica «risulta» dai lumi e dall’indipendenza, perciò, «in
generale», essa non può appartenere alla «classe che non lavora che per vivere e
non vive che per lavorare»360 (una riflessione non troppo diversa troviamo
anche in Chateaubriand).361 Come scrive Pasquale Pasquino, «Guizot rovescia
lo schema cittadinanza/lavoro stabilito da Sieyès. Per quest’ultimo, il lavoro è il
fondamento stesso dell’appartenenza al terzo stato, costituisce a tal punto la
base sociale della nazione che il non-lavoro è un principio di esclusione. Per
Guizot, al contrario, il lavoro comporta una riduzione drastica della sfera della
cittadinanza».362 La capacità politica viene dunque in prima battuta definita
358 Marx parte dall’ipotesi che sia «l’identità dei loro redditi e delle loro fonti di reddito» il criterio di determinazione dell’appartenenza degli individui a una classe, ma si trova subito a doverla smentire. 359 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., pp. 389-390 360 Guizot, Elections, ou de la formation et des opérations des collages électoraux cit., p. 390. 361 «I Francesi, indipendentemente dalle divisioni politiche, naturali e necessarie a una monarchia, si dividono ora in due grandi classi: quelli che non sono occupati per vivere, e quelli che la loro fortuna mette in uno stato di dipendenza. Occupati della loro vita fisica, i secondi hanno bisogno solo di buone leggi, ma i primi, con le buone leggi, hanno bisogno di considerazione», R. de Chateaubriand, La Monarchie selon la Charte, in Oeuvres complètes, vol. VII, Paris 1859, p. 256. 362 P. Pasquino, Sur la théorie constitutionnelle de la monarchie de Juillet, in M. Valensise, F. Guizot et la culture politique de son temps, Paris, Seuil, 1991, p. 119. «I dottrinari restano
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fissando la soglia che definisce l’incapacità: il lavoro manuale, l’intreccio che
esso produce fra condizione materiale e intelligenza sociale, è il criterio di
forclusione dalla verità del politico che è prodotta e si produce continuamente
nel lavoro di autoriflessione fra governo e società. Esso è il criterio che nega a
una classe sociale la possibilità di essere classe politica.
Dai fisiocratici Guizot riprende il concetto di classe sociale per condurlo sul
terreno dell’analisi storico-politica e farne il principio di intellegibilità
dell’intero divenire della civilisation europea. Tale concetto, declinato intorno
alla secolare vicenda della borghesia moderna, incarna il principio «attivo» e
«decisivo» che muove il corso della civilisation e permette di ricavare dai fatti
del passato il comporsi della perfetta necessità di un presente che li compendia
nel più perfetto intreccio di fatti e idee, nella più armonica relazione fra la vita
interiore dell’uomo e le sue relazioni sociali. Proprio il carattere aperto,
dinamico e generale della classe media segna la specificità della moderna
vicenda europea rispetto alle grandi civiltà antiche e orientali, permette di
riconoscere nel presente l’enunciarsi di tale universale nella sua verità: la
tendenza generale che essa ha imposto al corso della civilisation si incarna nella
codificazione costituzionale dei principi di uguaglianza civile e nell’avvento del
libero governo rappresentativo. Quest’ultimo può inaugurare una nuova era
della vita politica abolendo la sua distinzione dal sociale, perché consente di
sussumere dentro la macchina del potere politico statuale l’elemento sociale
dinamico che ha mosso il corso della storia: permette di cooptare nel potere
politico il potere sociale delle classi medie, rompendo e superando l’obsoleta
separatezza delle tecnologie di potere che si limitano a operare sulla superficie
del sociale, e allo stesso tempo disabilitando, attraverso il concetto socialmente
qualificato di classe, il codice costituente della sovranità del popolo, concetto
insensibili al problema della rottura dell’omogeneità sociale» (ibid.). «Il sociale – scrive ancora Chignola – è stratificazione qualitativa di gradazioni e di livelli di un ‘pouvoir social’ al quale si tratta di adattare la rappresentanza forcludendo di nuovo, e definitivamente, la potenza costituente del lavoro; pura superficie di inscrizione di interessi e di reti di influenza da captare politicamente», Il tempo rovesciato cit., p. 107.
235
astrattamente e separatamente politico, privo di valore euristico e di presa sulle
concrete striature della realtà sociale ove il potere concretamente agisce. Per
tradurre in diritto questo potere di fatto è necessario un dispositivo in grado di
trascrivere l’esistenza sociale di una classe dentro quella che ho chiamato la
verità del politico per indicare le istituzioni fondate dalla Carta come esito
necessario del corso della civilisation. Il principio di capacità dà forma al primo
utilizzo politico del concetto di classe, traducendo la sua essenza sociale in una
tecnologia di potere. La capacità riflette una condizione sociale di classe, e allo
stesso tempo, per il tramite dell’intelligenza sociale che a quest’ultima è
connaturata ne fa immediatamente una classe politica, quella élite che è
naturalmente chiamata a guidare la società. Rispetto a tale intelligenza sociale,
che funge da criterio di autorizzazione degli enunciati ad essere nella verità del
politico, il lavoro manuale è il criterio assoluto di forclusione, la soglia globale
di esclusione dalla possibilità, per il soggetto enunciante, di essere dentro la
verità del politico.
L’ipotesi che vorrei ora provare ad argomentare riguarda la possibilità che
l’emergenza storica del concetto di classe operaia consista in un paradigma
analogo ma diametralmente opposto. Che nella storia francese ed europea il
concetto di classe operaia emerga come un discorso, come una formazione
discorsiva che interviene a lavorare i margini e i confini della verità del politico
attraverso il processo di politicizzazione del lavoro operaio. Che tale concetto
rappresenti nel moderno uno dei più poderosi dispositivi di risignificazione del
politico, di riarticolazione della soglia che ne definisce lo statuto di verità.
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Terzo Capitolo La classe operaia e le frontiere del politico: il discorso nascente del
socialismo I democratici hanno fatto della parola «popolo» una parola sacra, voi fate lo stesso con la parola «proletariato» e come per i democratici, anche per voi le parole sostituiscono i fatti.
Karl Marx, intervento del 15 settembre 1850 alla Lega dei comunisti.
Le pagine che seguono si propongono, attraverso l’analisi del discorso
nascente del socialismo, di sviluppare l’allusione, che ha chiuso il precedente
capitolo, alla possibilità di leggere l’emergenza della nozione di classe operaia
nella Francia pre-quarantottesca come una formazione discorsiva che ha per
oggetto una ridefinizione della soglia che delimita gli ambiti di verità del
politico. E di spingere inoltre l’indagine verso il momento che ho detto
rappresentarne al tempo stesso l’orizzonte e il margine esterno, l’altro polo –
opposto al frammento 1831-32 – della «periodizzazione evenemenziale» che
costituisce l’oggetto della presente ricerca.
Alexis de Tocqueville ricorderà la rottura del giugno 1848 inscrivendovi una
sorta di torsione nel significato stesso della nozione di politica: «non fu, a dire il
vero, una lotta politica (nel senso che abbiamo dato fino allora a questa parola),
ma un combattimento di classe, una specie di guerra servile».1 Ritroviamo la
1 A. de Tocqueville, Souvenirs (1851); trad. it. Ricordi, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 141: «gli insorti combatterono senza grido di guerra, senza capi, senza bandiere, e tuttavia con una mirabile coesione e un’esperienza militare che sorprese i più vecchi ufficiali. Quel che del pari la distinse fra tutti gli eventi del genere succedutisi da noi negli ultimi sessant’anni, è il
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medesima espressione – guerra servile – utilizzata da Louis Blanc e da Victor
Hugo per dare nome all’insurrezione lionese del novembre 1831.2 «Il preteso
diritto del lavoro, tanto discusso nel 1848 – scrive Sant-Marc Girardin –, fece la
sua prima apparizione nel 1831 a Lione». 3 Si tratta di un parallelo
esplicitamente proposto nel giugno 1848 sulla «Neue Rheinische Zeitung» da
Friedrich Engels (pur attribuendo il motto della prima révolte des canuts alla
seconda):
La rivoluzione di giugno – scrive nell’articolo Der 23 Juni – offre lo spettacolo di una lotta accanita, come Parigi, come il mondo non l’aveva ancora vista. […] gli operai del 23 giugno lottano per la loro esistenza, la patria ha perduto per loro ogni significato. […] La storia offre solo due momenti che presentano qualche somiglianza con la lotta che probabilmente si conduce ancora in questo momento a Parigi: la guerra degli schiavi romani e l’insurrezione lionese del 1834. Anche la vecchia parola d’ordine di Lione ‘vivere lavorando o morire combattendo’ è risorta all’improvviso dopo quattordici anni ed è stata scritta sulle bandiere.4
Non rileva ai fini della presente indagine sondare consistenza e tenuta di tale
parallelo. Ciò che qui interessa è invece pensare il campo di tensione e di
problemi che si è aperto fra i due avvenimenti immaginando il tornante 1831-32
come l’affiorare di una problematica, e la vicenda quarantottesca come la fatto che essa ebbe lo scopo non di cambiare la forma di governo, ma di alterare l’ordine della società» (ibid.). Tocqueville definisce l’insurrezione operaia di giugno 1848, «la più grande e la più singolare che vi sia stata nella nostra storia e forse in qualsiasi altra»: il carattere di rottura è indicato nel fatto che essa non aveva per oggetto la forma di governo, ma l’«ordine della società». 2 Cfr. supra §§ 1.1 e 3.2. 3 S-M. Girardin, Souvenirs et réflexions politiques d’un journaliste, Michel Lévy Frères, Paris 1859, p. 143. 4 F. Engels, Der 23. Juni, in «Neue Rheinische Zeitung» Nr. 28 vom 28, Juni 1848 (in MEW, V, pp. 118-122); trad. it. Il 23 giugno, in Marx-Engels Opere, vol. VII, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 127-128: «quello che distingue la rivoluzione di giugno da tutte le rivoluzioni fatte finora è l’assenza di ogni illusione, di ogni entusiasmo. […] La ‘Marsellaise’ e tutti i ricordi della grande Rivoluzione sono spariti. Popolo e borghesi presagiscono che la rivoluzione nella quale entrano è più grande di quella del 1789 e 1793. […] La rivoluzione di giugno è la rivoluzione della disperazione, e si combatte con il rancore silenzioso, con il cupo sangue freddo della disperazione; gli operai sanno che conducono una lotta per la vita o la morte», segue la cronaca militare dello scontro. È Engels che in questi giorni riporta e commenta le notizie della battaglia provenienti da Parigi, il 29 giugno sarà la volta di Marx con l’articolo La rivoluzione di giugno.
238
rottura di un’evidenza che segna un avvenuto mutamento in tale problematica.
Al primo estremo – a partire dall’analisi dell’interpretazione dell’insurrezione
lionese proposta nell’ordine dei discorsi repubblicano e liberale tesa a misurarvi
l’operatività di una riflessione sullo statuto del politico e la funzione in essa
svolta da significanti e concetti che ruotano intorno alla nozione di classe – si è
cercato di mostrare l’entrata in campo di un insieme di nomi e categorie, la
cristallizzazione di tutta una serie di regimi discorsivi dentro i quali, attraverso i
quali e contro i quali, la nozione di classe operaia andrà istituendo il proprio
regime di verità. Si propone qui di scorgere nella vicenda quarantottesca la
prima e provvisoria «evenemenzializzazione» di tale regime di verità: una
prima affermazione dello statuto politico del lavoro operaio, della politicità di
alcuni comportamenti sociali collettivi del mondo del lavoro che si determina
nell’intersezione di avvenimenti ed enunciati di differente natura, dalla
costituzione di febbraio 18485 alla rivolta di giugno, dalla commissione del
Lussemburgo agli ateliers nationaux, dai clubs operai alla pubblicazione del
Manifesto. Una volta dispostisi a riconoscere nel confine che separa «sociale» e
«politico» – o meglio nella produzione della soglia che conferisce significato a
quest’ultimo definendo le condizioni di verità cui gli enunciati devono
rispondere per vedersi riconosciuti interni di tale ambito – la frontiera mutevole
e labile che per un importante segmento dell’Ottocento è oggetto di conflitti che
ne ridefiniscono forme e ragioni, si può scorgere nel tornante quarantottesco la
legge singolare di un’apparizione, l’irruzione di una singolarità storica: la
5 La costituzione della Seconda repubblica è considerata la prima costituzione giuslavorista, alla cui stesura partecipano anche operai, e nella cui discussione ha svolto un ruolo maggiore il tema del «diritto al lavoro», conducendo alla formula finale del «diritto all’assistenza» (che afferma comunque il dovere della Repubblica di procurare lavoro ai cittadini «nei limiti delle sue risorse»). L’art. IV del preambolo riconosce comuque le Travail come «base» della Repubblica (insieme a Famille, Propriété e Ordre public). Gli artt. VII e VIII affermano il dovere e il diritto al lavoro, l’art. 13 del secondo Chapitre recita: «La Constitution garantit aux citoyens la liberté du travail et de l'industrie. La société favorise et encourage le développement du travail par l'enseignement primaire gratuit, l'éducation professionnelle, l'égalité de rapports, entre le patron et l'ouvrier, les institutions de prévoyance et de crédit, les institutions agricoles, les associations volontaires, et l'établissement, par l'Etat, les départements et les communes, de travaux publics propres à employer les bras inoccupés; elle fournit l'assistance aux enfants abandonnés, aux infirmes et aux vieillards sans ressources, et que leurs familles ne peuvent secourir».
239
politicità del lavoro operaio.
Il punto di partenza della presente ricerca, l’insurrezione lionese del 1831,
ripeto, viene qui indagato nella sua dimensione di «avvenimento» facendo con
questo termine riferimento non solo e non tanto ai «fatti» che ho cercato di
narrare al primo capitolo, né allo statuto che la storiografia del movimento
operaio ha voluto conferirgli, ma soprattutto al campo di forze, di concetti, di
discorsi che intorno ad esso sono andati comparendo, organizzandosi,
confrontandosi. È avvenimento perché, sfuggendo alle rappresentazioni
acquisite, interviene sull’ordine del discorso politico che si era andato
costruendo nella Francia post-rivoluzionaria, dando luogo ad avvenimenti di
parola che inducono a reinterpretare verità e immagini del mondo condivise.
Perché attraversa e scuote sensibilmente l’esperienza e il pensiero dei primi
movimenti e pensatori socialisti, producendo alcuni di quelli che si è soliti
chiamare cortocircuiti fra pratiche e teorie. È da questo urto che il presente
capitolo prende le mosse. Da una sintetica analisi del modo in cui
l’avvenimento lionese attraversa e scuote l’esperienza dei primi movimenti
socialisti, in particolare dei sansimoniani. E tuttavia – anche allo scopo di non
riprendere e ripetere osservazioni già svolte nel primo capitolo analizzando il
discorso operaio e repubblicano –il modo in cui nomi e categorie che ruotano
intorno alla nozione di classe operaia funzionano e lavorano nel discorso
nascente del socialismo viene ora indagato allontanandosi parzialmente dal
tornante 1831-32 per volgere progressivamente lo sguardo in direzione della
rottura quarantottesca, che ho dichiarato rappresentare al tempo stesso
l’orizzonte e il margine esterno della presente ricerca. Non è infatti – lo si è
visto – questo specifico frammento l’oggetto della presente indagine, ma il
tentativo di misurare in esso – in quanto «serie» di avvenimenti di parola ed
extradiscorsivi – il prendere forma di operazioni di nominazione storica della
lunga durata, l’emergere di strutture concettuali destinate a segnare i decenni
successivi, nomi e categorie dispiegati lungo la traiettoria popolo-classe-
proletariato-operai. Per questo ho ritenuto necessario convocare a
rappresentante del discorso nascente del socialismo l’autore a partire dalla cui
240
opera tale costellazione concettuale, in particolare la nozione di classe, andrà,
per importante segmento della contemporaneità a produrre i più significativi
effetti di verità, Karl Marx.
Si arriverà dunque a lambire la rottura quarantottesca – che fende
l’Ottocento francese in due campi di problemi per molti versi distinti –
osservandola in particolare attraverso la lettura che di esso e della società
francese offre l’autore che più ha contribuito all’elaborazione e valorizzazione
del concetto di classe nel pensiero politico moderno. E si cecherà dunque di
sondare la tenuta delle ipotesi avanzate riguardo l’emergere della nozione di
classe operaia in quanto formazione discorsiva in un segmento della riflessione
di Karl Marx: non perché lì si trovi la «verità» del concetto di classe, ma perché
è a partire dalle sue formulazioni che tale concetto andrà producendo nella
storia i più importanti effetti di verità, ivi compresa l’interpretazione
storiografica dell’insurrezione lionese in quanto prima parola del moderno
movimento operaio. Trattandosi di uno spostamento significativo nella presente
indagine è bene chiarirne ulteriormente metodo, ragioni, contenuti e intenzioni.
«La sfiducia riguardo al materiale storico, alla realtà storica, e il loro rispetto
infinito per il testo»: questo uno dei rimproveri che Michel Foucault muoveva
nei suoi ricorrenti confronti con gli studiosi marxisti, sostenendo la necessità di
indagare alcune problematiche da essi sollevate non nella sola lettera del testo
marxiano, ma «a partire da un avvenimento della realtà storica che Marx stesso
ha permesso di pensare, di cui ha individuato un certo numero di livelli, di
meccanismi, di modi di funzionamento».6 Si cerca qui di guardare a queste
indicazioni alla scopo di proporre, più che un’interpretazione del testo
marxiano, l’attivazione di un gioco di rimandi fra questo e la vicenda storica e
politica francese degli anni 1830-40. Si parte dunque dal modo in cui
l’insurrezione lionese del 1831, la sua interpretazione, interviene nell’itinerario
di pensiero marxiano, per andare a sondare, da lì, la tenuta delle ipotesi che, a
partire da tale avvenimento, si sono avanzate intorno al significato storico e
6 M. Foucault, De l’archéologie à la dynastique, intervista a S. Hasumi (1972), in Id. Dits et écris, tome II, Gallimard, Paris 1994, p. 407.
241
politico dell’emergere della nozione di classe operaia. L’intento non è di andare
alla ricerca della «verità» del concetto di classe in Marx per poi misurarne la
prossimità con quello che si cerca qui di fare emergere dall’analisi del
frammento 1831-32, ma di valutare se delle ipotesi qui avanzate si possa
trovare traccia nell’esperienza teorica e pratica che questo autore fa della
vicenda francese e di cui in parte i suoi scritti testimoniano. Machine Marx è
l’affascinante metafora che un recente libro di Pierre Dardot e Christian Laval
propone (riprendendola da una lettera marxiana alla figlia Laura) per descrivere
il bulimico lavoro di lettura, assimilazione e trasformazione di testi che
caratterizzerebbe tutto il percorso di Marx. Piuttosto che all’althusseriano
«figlio senza padre», inventore delle proprie teorie, questo autore somiglierebbe
dunque a una macchina che assimila e trasforma una miriade di testi ed
esperienze di pensiero che incontra lungo il proprio cammino.7 Mi permetterò
di riprendere questa metafora per estenderla anche al campo dell’esperienza che
Marx fa della realtà sociale e politica francese per ritrovarne traccia nei suoi
scritti sulla vicenda quarantottesca.
Si tratta dunque qui di richiamare, o di dar forma a, un Marx «francese».
Tale in primo luogo perché si comincia dalla sua lettura della révolte des canuts
e, con essa, del nascente movimento operaio francese. Perché si cerca di far
emergere il significato e il decisivo rilievo – per la sua attitudine riguardo le
categorie oggetto della presente ricerca – del soggiorno a Parigi fra ottobre
1843 e febbraio 1845, evidenziando l’influenza che pensatori francesi degli
anni 1830 esercitano in realtà anche prima di questo momento. Perché si indaga
il suo pensiero nel decennio 1842-52, ove la vicenda storica della Francia
agisce da riferimento costante e forma la sua concezione del politico. E
soprattutto perché è la sua analisi della società francese proposta nei testi sul
quarantotto che si intende mettere di fronte alle osservazioni svolte sul tornante
1831-32.
L’operazione che qui si propone – dopo aver nel primo paragrafo sondato 7 Una «macchina» che continuamente opera un doppio «lavoro di assimilazione e di trasformazione dei testi che lo precedono», P. Dardot, C. Laval, Marx, prénom: Karl cit. Gallimard, Paris 2012. pp. 26, 29 e 31.
242
anche il discorso sansimoniano e avanzato alcune ipotesi sull’oggetto della
presente indagine – convocando questo Marx «francese» a rappresentare il
discorso nascente del socialismo è analoga a quella svolta nei due precedenti
capitoli. Si tratta in primo luogo di analizzare la sua interpretazione
dell’insurrezione lionese. A partire da essa si procede poi a vedere come in tale
discorso lavorano e producono reciprocamente il proprio significato nomi e
categorie dispiegate lungo l’asse popolo-classe-proletariato-operai. Si cercherà
infine di trovare anche qui le tracce di un discorso di verità del politico rispetto
al quale sondare – nell’autore che più ha contribuito alla valorizzazione di tale
nozione nel pensiero politico moderno – la tenuta delle osservazioni svolte
sull’emergenza storica della nozione di classe operaia come formazione
discorsiva che ha per oggetto il regime di verità del politico. Ripeto ancora che
non si tratta di misurare tali ipotesi di fronte al concetto marxiano di classe, ma,
più modestamente, al modo in cui la machine Marx riproduce, testimonia,
«fotografa» la realtà francese che interpreta e attraversa. Si tratta di una postura
che nel corso dell’ultimo paragrafo, a partire dall’analisi di alcuni aspetti dei
testi sul quarantotto, consentirà di volgersi ancora al tornante 1831-32 e
aggiungere qualche elemento alle ipotesi avanzate sui concetti in esame.
3.1 Saint-Simon a Lione
A fronte del lungo oblio dei dottrinari nella storia del pensiero, troviamo la
loro onnipresenza nel dibattito degli anni 1830: giornali e riviste discutono la
loro esperienza teorica e politica, non c’è discorso di opposizione che non
chiami in causa i loro i principi di governo, non c’è teoria politica che si
sottragga al confronto con la loro concezione della monarchia costituzionale e
della rappresentanza capacitaria. Solo il punto di vista dei sansimoniani pare
243
richiamare altrettanto l’attenzione dell’opinione pubblica.8 A ben guardare, si
tratta di due discorsi politici che si sviluppano a partire da alcune
preoccupazioni di fondo comuni, che hanno preso forma all’interno
dell’esperienza politica del liberalismo dei primi anni della Restaurazione, e
sono riconoscibili fin nella biografia di alcuni protagonisti. Basti pensare alla
vicenda di Augustin Therry, segretario e allievo prediletto di Saint-Simon negli
anni fondamentali di sviluppo della sua dottrina,9 prima di diventare il grande
storico della borghesia francese, o a quella di Michel Chevalier che, dopo la
carcerazione come dirigente sansimoniano, diverrà esponente del regime di
Luglio.10 Ma anche al giornale «Le Globe», che nel 1831 diviene Journal de la
religion saint-simonienne dopo aver rappresentato un importante laboratorio di
rinnovamento del pensiero liberale, il cui redattore in capo della politica era
stato Charles de Rémusat. 11 Significative sono le parole che quest’ultimo scrive
8 Per esempio, una delle rubriche più importanti che la «Revue des deux mondes» pubblica in questi mesi sono le Lettres philosophiques adressés à un Berlinois di Lerminier, tese a ricostruire le più importanti caratteristiche della società francese. La prima lettera si domanda se quest’ultima possa essere definita «scettica», la seconda discute il significato dei passaggi rivoluzionari, la terza di pace e guerra, le ultime tre sono dedicate alla «scuola» dei dottrinari e alle «questioni sollevate dai sansimoniani». 9 Come noto, l’essenziale della dottrina di Saint-Simon viene elaborata fra 1814 e 1824. L’intensa collaborazione con Thierry comincia nel 1814 e si interrompe nel 1817, anni in cui insieme lavorano alla scrittura di: De la réorganisation de la société européenne (1814), Opinion sur les mésures à prendre contre la coalition (1815) e al contributo all’Industrie dal titolo Des nations et de leurs rapports mutuels; ce qu’il sont aujourd’hui; et quels principes de conduite en derivent (1817). 10 Michel Chevalier (1806-1879) aderisce al sansimonismo al termine degli studi di ingegneria al Politecnico di Parigi. Abbandonata la carriera di ingegnere minerario, diviene direttore del giornale sansimoniano «Le Globe» (cfr. infra nota successiva, a nome Chevalier sono archiviate in Bnf la maggior parte delle pubblicazioni sansimoniane del 1831-32) ed entra nella comunità di Menilmontant, di cui diviene amministratore dei beni: in estate 1832 è condannato alla prigione per le iniziative del movimento. Qui si allontana dalla dottrina sansimoniana (resterà tuttavia sempre legato al suo industrialismo), e dopo sei mesi viene graziato dal conte Molé, che lo invia in missione governativa negli Stati Uniti (ove terrà una corrispondenza per il «Journal des débats»). Aderisce al regime di Luglio e diviene consigliere di Stato nel 1838, due anni dopo sostituisce Pellegrino Rossi sulla cattedra di economia politica del Collège de France e viene eletto all’Accademia delle Scienze Morali e Politiche. Nel 1848 sul «Journal des débats» anima una dura polemica contro le posizioni di Louis Blanc, e aderisce poi al golpe bonapartista. 11 Il giornale «Le Globe», fondato nel 1824 da Paul-François Dubois e Pierre Leroux, fu uno dei più importanti tentativi di rinnovamento del pensiero liberale durante la Restaurazione, per poi passare nel gennaio 1831 sotto la direzione dei sansimoniani (Enfantin lo aveva acquistato nel settembre 1830) e divenire Journal de la doctrine de Saint-Simon e poi, da agosto, Journal de la religion saint-simonienne, fino alla chiusura il 20 aprile 1832 per difficoltà finanziarie. Per una lettura politica delle lettere inviate al Globe nel 1831-32 cfr. M.
244
a Barante a proposito della révolte des canuts, affermando che i sansimoniani
«non indicano che rimedi insensati, ma almeno sono dentro la questione».12 Sia
il discorso dottrinario che quello sansimoniano sono in effetti mossi da
un’interrogazione profonda sulle patologie storiche che paiono segnare la
Francia dal 1789, dalla preoccupazione di terminare la rivoluzione, e si
interrogano perciò sui talenti e le intelligenze – sulle «capacità» o
«competenze» – a partire da cui ricostruire il legame sociale e dare forma
politica a una società scompaginata dal poderoso movimento dell’uguaglianza.
Nelle parole d’ordine del movimento sansimoniano – a ciascuno secondo la sua
capacità, a ogni capacità secondo le sue opere e il miglioramento della sorte
morale, fisica e intellettuale della classe più numerosa e più povera –
ritroviamo la centralità dei concetti di capacità e di classe che muovono il
discorso dottrinario. La ricerca di nuove élites in grado di guidare la Francia
post-rivoluzionaria, il tentativo di pensare una classificazione della società
rifondando un ordine delle gerarchie sociali è una preoccupazione centrale tanto
di Guizot quanto di Saint-Simon, che rivendicherà la primogenitura del
dispositivo della lotta delle classi nell’analisi della storia francese: 13 il
riferimento alle due differenti nazioni presenti sul suolo francese è un altro
elemento comune. Pierre Macherey ha provato a misurare la prossimità di
questi due autori intorno alla nascente e decisiva nozione di rapporti sociali,
riconoscendo un nucleo comune «che si situa al cuore della definizione di
questo concetto».14 In cosa le capacità care a Guizot – nota Riot-Sarcey –
Riot-Sarcey, Le réel de l’utopie, cit., pp. 141-201. Si deve ricordare che alla morte di Saint-Simon nel 1825, alcuni discepoli avevano fondato il giornale «Le Producteur» (cui partecipavano, fra gli altri, Carrel, Buchez e Auguste Comte). 12 Lettera di Rémusat del 13 dicembre 1831, in Barante, Souvenirs du Baron de Barante cit., p. 400: «l'insurrezione di Lione non sarebbe accaduta durante la Restaurazione, ma se fosse accaduta sarebbe stata una rivoluzione». 13 Cfr. Doctrine de Saint-Simon. Exposition. Première année, Au bureau de l’Organisateur, Paris 1829, pp. 103 sgg., vi si ricorda che Sant-Simon «ringraziava» Guizot di aver popolarizzato un’idea che lui aveva formulato già nelle Lettres de Genève del 1802. 14 Macherey, Aux sources des «rapports sociaux» cit., p. 43: l’elemento comune consisterebbe nell’«idea secondo cui l’insieme di questi rapporti costituisce un ordine simbolico, che non è riducibile nè a determinazioni economiche, nè a determinazioni giuridiche o politiche. In altri termini, questi rapporti sono essenzialmente dei rapporti ideologici, che devono in primo luogo essere pensati in termini di comunicazione».
245
sarebbero fondamentalmente differenti da quelle che definisce Saint-Simon? Il
grande stabilimento dell’industria sognato da Saint-Simon avrebbe mobilitato
gli stessi talenti, le stesse intelligenze del governo rappresentativo dei
dottrinari».15 E Giovanna Procacci ha sottolineato come sia solo la critica
dell’individualismo che conduce i sansimoniani a «rompere con il riformismo
liberale, avvicinandol[i] piuttosto al socialismo e, appunto, al positivismo
sociale».16
Al momento della rivolta lionese i sansimoniani sono impegnati in un acceso
dibattito interno sui contenuti della dottrina che sfocia in una scissione del
movimento – o meglio in uno «scisma» in seno alla nuova «religione»17 (anche
l’insurrezione repubblicana del 6 giugno 1832 li troverà distanti e indifferenti,
impegnati, mentre a Parigi infuria la battaglia, a celebrare il proprio ritiro – la
«presa d’abiti» – nella comunità di Menilmontant).18 I discepoli sansimionani
sviluppano dalla morte del maestro nel 1825 un lavoro di organizzazione e
educazione, in particolare attraverso la pubblicazione dell’Exposition della
Doctrine de Saint-Simon, in cui viene evidenziata l’idea di un antico 15 Riot-Sarcey, Le réel de l’utopie cit., p. 121: «la comunità ideale dei dottrinari/liberali non era meno utopica dei partigiani dell’età dell’oro – a venire –, concepita come uno stato di perfezione dell’ordine sociale. […] Il pubblico dei sansimoniani era identico a quello dei liberali». 16 Procacci, Governare la povertà cit., p. 134. 17 Dopo la rivoluzione di Luglio, Olindo Rodriguez – insieme a Comte il discepolo più in vista del maestro Saint-Simon – aveva lasciato il ruolo di guida della «scuola» a Prosper Enfantin e Saint-Amand Bazar. Questi si proclamano «papi» e danno al movimento una coloritura sempre più religiosa («panteista»), ma ben presto si scatena un forte dissidio fra i due. Oggetto ne è soprattutto il fatto che Enfantin proclamava come una necessità religiosa l’emancipazione della donna e la sua partecipazione al potere supremo attraverso l’istituzione della couple-prêtre (coppia-sacerdotale), incaricata di imporre agli altri la potenza del suo amore, «era il sensualismo impiegato come mezzo di governo», scrive Louis Blanc (Histoire de dix ans cit., p. 368, sui sansimoniani cfr. pp. 358-374). Su questo punto matura il dissenso di Bazard, che dà vita a un lungo dibattito dai toni e le forme teologiche che impegna il movimento in infinite discussioni e tentativi di mediazione. Fino allo scisma che si consuma il 19 novembre 1831 con la proclamazione di Enfantin a padre supremo e l’uscita dal movimento di Bazard e altri importanti esponenti come Leroux, Lechevalier e Transon e, qualche mese dopo, lo stesso Olindo Rodriguez. 18 Il 6 giugno 1832 mentre a Parigi infuria la battaglia scatenata dall’insurrezione repubblicana, Prosper Enfantin celebra con quaranta «figli» la ritirata, la «presa d’abiti» nella comunità di Menilmontant (proprietà che aveva ereditato dalla madre, sita all’incrocio fra rue Menilmontant e rue de Pixérécourt). I raduni domenicali riuniranno fino a 2.000 persone, i membri della comunità indossano un’eccentrica uniforme blu, bianca e rossa, e si dedicano ai lavori domestici e agli studi scientifici, tesi alla redazione del misterioso e mai pubblicato Livre Nouveau.
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antagonismo e assoggettamento che prosegue in Francia anche dopo 1789,
come testimoniano la condizione della classe operaia e della donna.19 L’Appel à
la Femme libre pubblicato sul «Globe» nel novembre 1831, le forme sempre
più eccentriche da setta religiosa che l’affermazione della leadership di Prosper
Enfantin conferisce al movimento, i provvedimenti giudiziari che li colpiscono
per oltraggio alla morale e ai costumi,20 fanno in questi mesi dei sansimoniani
l’oggetto di vivaci satire e pungenti ironie, che forse in parte contribuiscono a
oscurare la profondità e la cogenza delle proposte che essi si sforzano di porre
al centro del dibattito politico. «Fu dato a questa scuola di riabilitare il principio
di autorità in mezzo ai trionfi del liberalismo; di proclamare la necessità di una
religione sociale; quando la società era divenuta atea. […] L’influenza che essa
esercitò fu grande e dura ancora […] i sansimoniani mostravano un’intelligenza
perfetta delle leggi che, nell’avvenire, dovevano reggere l’umanità», scrive
Louis Blanc contestando a questa dottrina solamente la centralità del principio
di capacità come dispositivo di regolazione sociale.21 Le loro idee appaiono in
effetti coerentemente inserite nella cornice politica e teorica dell’epoca, che la
loro iniziativa attraversa in maniera importante raccogliendo un’adesione
sempre più vasta intorno a un progetto di riforma della condizione della «classe
più povera e più numerosa» che verte essenzialmente su due assi fondamentali.
Da una parte la critica dell’ordine della proprietà con la proposta di abolizione
dell’eredità come strumento che perpetra la diseguaglianza permettendo ad
alcuni di vivere del lavoro altrui, e dall’altra la critica dell’ordine della famiglia,
che pone al centro la questione dell’emancipazione femminile. Ho già
19 Doctrine de Saint-Simon cit.: si tratta di testi scritti sulla base dell’esposizione orale di Saint-Amand Bazard redatta da Carnot, Fournel e Duveyer sotto la supervisione di Prosper Enfantin. 20 In gennaio 1832 l’anfiteatro dell’Hôtel de Gesvres, in rue Taitbout, ove i sansimoniani tenevano i loro incontri e predicazioni viene perquisito e posto sotto sequestro, i principali esponenti del movimento sono denunciati per reati d’associazione, estorsione e oltraggio ai costumi. Il 27 e 28 agosto si tiene il processo che vedrà la condanna a un anno di reclusione di Prosper Enfantin, Michel Chevalier et Charles Duveyrier per costituzione di associazione vietata dalla legge, e pubblicazione di scritti oltraggianti la pubblica morale. Il dibattimento richiama l’attenzione dell’opinione pubblica soprattutto per il comportamento dei discepoli che rispondono alle domande del giudice solo dopo aver ricevuto l’autorizzazione a parlare da parte di Enfantin. La carcerazione dei dirigenti condurrà di fatto alla dissoluzione del movimento. 21 Blanc, Histoire de dix ans cit., pp. 360 e 364.
247
sottolineato come gli sforzi di pensare la politica al di fuori degli schemi del
contratto e della sovranità conducano a conferire importante rilievo politico alla
questione della morale come strumento per rifondare il legame sociale (la
discussione parlamentare nel dicembre 1831 di un progetto di legge tendente a
ristabilire il divorzio rappresenta plasticamente tale attitudine).22 La critica
sansimoniana dell’eredità e il discorso sull’«uguaglianza assoluta» fra i sessi
vengono pertanto qualificati come una sorta di «attentato alla società» teso a
distruggere le fondamenta – proprietà e famiglia – della pubblica morale, e ciò
contribuisce a marginalizzarli dal discorso politico. A questo tema Michèle
Riot-Sarcey ha dedicato uno studio volto ad analizzare il modo in cui tali
contingenze abbiano contribuito a qualificare come «utopico» un discorso che
era in realtà oggetto di una coerente iniziativa riformista in un tempo
complessivamente segnato dall’incertezza di teorie intente a creare o rifondare
le categorie politiche e sociali («tutto il periodo è utopico», sostiene questa
studiosa).23 L’insurrezione lionese non cattura immediatamente l’attenzione del
movimento sansimonano, il quale, per il carattere riformista e pacifico della
propria dottrina, non può che condannare la violenza dell’avvenimento;24 e
22 La proposta di legge del deputato Schonen sul ristabilimento del divorzio sarà respinta. Nel dibattito parlamentare il primo intervento afferma: «il divorzio non tendeva che a portare disordine nella società, con lo spergiuro, la rovina delle famiglie provenienti da matrimonio legittimo, e la riprovazione di queste masse di secondi matrimoni senza che ne risultino vantaggi per la società» («Journal des débats», 10 dicembre 1831, p. 3). 23 Riot-Sarcey, Le réel de l’utopie cit., p. 161. Il titolo di questo libro fa rifermento al tentativo di «restituire la storicità delle utopie negli effetti concreti che hanno provocato» (p. 261), di cogliere la realtà di questi movimenti al di qua del processo che li ha rubricati alla voce «utopie» mostrandone la coerenza rispetto al campo di problemi posti dal loro tempo: «le metamorfosi sociali erano attese, ricercate, dibattute da tutti» (p. 121). 24 Il categorico rifiuto della violenza – la «politica pacifica e conciliatrice che Saint-Simon ci ha lasciato in eredità e che noi sviluppiamo senza sosta» – stride con i riferimenti all’insurrezione lionese, prestando il fianco alle critiche. E alla pungente satira del «Figaro» che scrive: i sansimoniani vogliono unire «gli industriali di tutte le classi, gli uomini della pace, gli uomini dell’ecomomia… Impresa faticosa, ardua, difficile, perché tra gli industriali di tutte le classi, si deve contare gli operai in seta di Lione, che sono certamente uomini dell’economia, ma che, per il momento almeno, non sono certamente uomini della pace» («Figaro», 26 novembre 1831, p. 3). «Lione è in mano agli operai; del sangue è stato sparso, delle case bruciate. […] In mezzo all’inquietudine, soli fra tutti, […] i sansimoniani sono calmi e fiduciosi. È nella loro farmacia che si trova il rimedio al male. […] Il capo della dottrina saint-simoniana, a Lione, scrive ai suoi padri di Parigi: ‘la città è nel più grande travaglio: dal momento che la mia è una missione di pace, sono fuggito’» («Figaro», 29 novembre 1831, p. 3). Il movimento sansimoniano (insieme all’oziosità delle sedute parlamentari) pare in effetti il bersaglio prediletto di questo quotiano satirico vicino alle posizioni del governo di Luglio.
248
tuttavia, il modo in cui la révolte des canuts attraversa tale discorso politico
interroga, a mio avviso, in modo eloquente alcuni aspetti e significati di ciò che
ho chiamato l’emergenza storica della classe operaia come formazione
discorsiva e il modo in cui essa lavora la ricca pluralità di esperienze sociali e di
pensiero su cui va a innestarsi e ad agire.
All’indomani della rivolta, Michel Chevalier raccoglie e pubblica in un
opuscolo alcuni estratti del Globe sul tema e la corrispondenza intervenuta fra
Peiffer, capo della «chiesa» sansimoniana lionese, e i «padri» parigini. Le
Instructions che questi ultimi inviano riguardo al linguaggio da tenere nei
confronti dei proletari insorti e quello con cui parlare ai borghesi, cominciano
lodando la scelta degli apostoli di non partecipare e non prendere posizione
nella vicenda insurrezionale: «il vostro posto non poteva essere in effetti né fra i
ranghi dei borghesi né fra quelli degli operai; esso era fra i due».25 Si tratta di
parole che restituiscono il senso di un significativo spostamento se confrontate
con quelle dell’opuscolo che il movimento pubblica in occasione del primo
anniversario dell’insurrezione – «l’anno scorso, Lione, questo grande lavoratore
[…] colpì la terra con il piede, e la terrà tremò» – e che titola con l’esortazione
A Lyon! 23 novembre 1832: Per noi la politica teorica è finita; la vita politica pratica comincia. La praticheremo a Lione, perché laggiù delle cose nuove vanno sbocciando. […] Siamo divenuti proletari: il giorno del salario, il giorno del battesimo è venuto. […] Lasceremo Parigi, la città del consumo e del lusso, la città dei piaceri, […] andremo a cercare l’aria che si respira e il vento che soffia nel più grande focolare di produzione e di economia di cui inorgoglisca il continente europeo. Andremo là dove un milione di braccia si muove quattordici ore al giorno per uno stesso scopo, produrre; laddove cinquecentomila teste non hanno che un pensiero, produrre, quando non sono attraversate da pensieri di disordine civile, da pensieri di collera e spavento. […] È a questo potente lavoratore che noi andremo a
25 M. Chevalier (dir.), Événements de Lyon, impr. Éverat, Paris 1831, p. 10: «noi siamo, come diceva un nostro predicatore, vicino ai poveri la voce delle classi superiori, vicino ai ricchi la voce delle classi inferiori» (ibid.). Anche in questo opuscolo – come in quello della Société des Amis du Peuple – il tema delle imposte svolge un ruolo maggiore nell’indicazione di cause e soluzioni dei mali degli operai lionesi: «la conclusione più naturale, più pacifica, più semplice, degli avvenimenti di Lione, è l’abolizione delle imposte dirette» (p. 14).
249
chiedere il battesimo del salario. […] Andremo a lui con i proletari di Parigi come compagni.26
Si annuncia la partenza dei primi missionari alla volta di Lione per insediarvi
l’«armata pacifica dei lavoratori», fraternizzare con gli operai e attendere
insieme un nuovo ordine sociale.27
Nel cercare di organizzare la presente ricerca intorno alla dimensione
dell’«avvenimento», e nel designare con questo termine l’insurrezione del 1831
intendo fare riferimento non solo e non tanto alle vicissitudini narrate all’inizio
del presente capitolo, quanto al campo di forze, di concetti, di discorsi che
intorno ad esse sono andati comparendo, organizzandosi e confrontandosi. Ciò
significa provare a posizionare l’indagine all’altezza del campo di tensione che
si dispiega fra l’irruzione della singolarità di un avvenimento che sfugge alle
rappresentazioni condivise e l’ordine dei discorsi politici su cui esso interviene
dando luogo ad avvenimenti di parola che segnalano la messa in discussione di
categorie, immagini del mondo e verità condivise. Se è vero che il lavoro è al
centro della dottrina di Saint-Simon, è altrettanto vero che l’insurrezione di
novembre interviene a mutare l’ordine del discorso politico del movimento
sansimoniano, riorganizzandolo, concentrando e orientandone in maniera
inedita l’attenzione verso le soggettività proletarie e il lavoro specificamente
«operaio» (qualcosa di simile si potrebbe dire anche riguardo ai fourieristi e a
Proudhon).28 Mi pare che anche attraverso questa lente possano essere lette
26 M. Chevalier (dir.), A Lyon! 23 novembre 1832, impr. de E. Duverger, Paris 1832, pp. 2-8. Dal novembre 1831 la propaganda sansimoniana a Lione si era andata intensificando: è del febbraio 1832 uno specifico indirizzo-appello «Ai lionesi» rivolto a «tutte le classi», industriali, commercianti e operai, agli artisti e alle donne (cfr. Rude, Les révoltes des canuts cit., pp. 76-83, Id. Le mouvement ouvrier à Lyon de1827 à 1832, Domat-Montchrestein, Paris 1944, pp. 697-711, e Rancière, La nuit des proletaires, cit., pp. 442-443). Si può d’altra parte notare già dalla fine del 1831 una progressiva penetrazione delle dottrine saint-simoniane fra i canuts, agilmente misurabile nel lessico di alcuni articoli de «L’Écho de la fabrique» che, a partire dal 6 novembre 1831, sempre più spesso ospita anche estratti del «Globe». 27 L’esperienza avrà portata piuttosto limitata (fra 7 novembre e 15 dicembre 1832 partono cinque distaccamenti per un totale di circa quaranta persone), e durerà soltanto fino all’aprile 1833 con lo scioglimento della «famiglia» sansimoniana lionese, che aveva dato vita al Compagnonnage de la femme e si era poi disposta alla spedizione in Egitto: il 15 settembre 1833 il giornale dei tessitori lionesi saluta con calore la partenza degli apostoli alla volta dell’Egitto. 28 Cfr. infra § successivo.
250
diverse pagine degli affascinanti lavori – La Nuit des prolétaires su tutti – che
Jacques Rancière ha svolto intorno ai proletari parigini degli anni 1830 e 1840,
provando a restituire incontri e confronti fra giovani operai e apostoli
sansimoniani. Dalla ricostruzione e interpretazione di tali dialoghi, dagli scritti
di proletari – spesso avvicinatisi al sansimonismo in cerca di una nuova
famiglia e di una nuova religione per fuggire le sofferenze del lavoro operaio e
riconoscersi come «essere vocato ad altra cosa che allo sfruttamento» –29
emergono più volte i loro interrogativi, dubbi, una messa in questione della
proposta che gli apostoli avanzano loro di un mondo nuovo da costruire proprio
a partire da quella condizione di lavoro.30 Anche attraverso un confronto critico
con gli studi di new social history degli anni 1970 e primi 1980 sul ruolo e il
significato giocato dal lavoro e dall’orgoglio di mestiere artigiano nella
29 Rancière, La nuit des prolétaires cit., p. 32. Incontri che risultano animati anzitutto dalla ricerca operaia della possibilità di un diverso modo di relazione fra gli uomini, di una famiglia e di una religione nuove, di un legame differente rispetto a cui la condizione di un lavoro alienato emerge progressivamente come incapace di suscitare i sentimenti necessari alla propaganda e alla comunione. «La parola che attira questi uomini verso la Dottrina, prima che Lavoro e Associazione è Amore» (p. 168), una famiglia nuova in cui – nell’intreccio di storie di vita e di pensiero operai con la critica sansimoniana del matrimonio e del ruolo della Femme – si possano incontrare anime fraterne con cui dividere la sofferenza dello sfruttamento e il piacere di appartenere alla setta di coloro che ne conoscono il segreto. Una religione nuova che si fonda sul rifiuto della vecchia, ma anche sul rigetto del puro materialismo in quanto filosofia della borghesia che consacra l’ordine esistente. Religione ambigua, terrestre e celeste, «comunione mistica di una società di fratelli» e «organizzazione empirica di una protezione della debolezza» (p. 193). 30 «Per questi proletari […] l’immagine del lavoratore-soldato potrebbe essere ben più pericolosa del male che essa pretende guarire» (ivi, p. 20): fra le pagine di giornali come L’Atelier e La ruche populaire, Rancière ritrova tutto il solco dell’amarezza e del rifiuto del lavoro. «Niente affatto la bella armonia di un’intelligenza attenta seguita da una mano abile», ma movimenti di un corpo sempre più esangue, abbrutito, assente, che finisce per abbandonarsi passivamente al lavoro per dimenticare – secondo la medesima logica dell’ebbrezza – di essere obbligato a farlo senza altro scopo che nutrire il corpo affinché possa ancora lavorare. Ma anche pena di un’anima le cui esigenze sono prigioniere di bisogni che lo costringono al lavoro, suggerendo radicali interrogativi sulle immagini di un mondo nuovo costruito «attorno a un centro che i suoi occupanti non ambiscono che a fuggire» (p. 11). Questione insomma della frontiera che separa coloro che vengono destinati al pensiero da coloro che lo sono al lavoro, racconto dell’ambiguo rapporto a un universo borghese rispetto a cui si vorrebbe «da un lato cancellare i segni di una specificità operaia […] per acquistare cittadinanza nella civilizzazione borghese», e dall’altro «denunciare nei comportamenti le stigmati borghesi dell’egoismo e dello sfruttamento» (pp. 58-59). Questi Archivi del sogno operaio restituiscono allora le notti di sarti parigini che nell’ottobre 1833 scioperano per affermare l’obbligo del padrone di togliere il cappello entrando nell’atelier, per rivendicare il diritto a fumare sul posto di lavoro e a uno spazio per la lettura dei giornali. E scelgono come portavoce André Tironcin perché meglio incarna «la doppia e irrimediabile esclusione di vivere come gli operai e di parlare come i borghesi» (p. 9), perché la sua estrazione gli consente di comunicare alla pari con i maîtres.
251
formazione del movimento operaio francese,31 la ricerca di Rancière mi pare
avere il merito problematizzare, di restituire profondità e complessità storica al
modo in cui il lavoro operaio si è affermato al centro dei progetti di
emancipazione sociale. Nel ricostruire gli incontri-confronti che in ambito
sansimoniano si sviluppavano fra intellettuali mezzo-proletari e «operai
aspiranti intellettuali» questo filosofo presta particolare attenzione al modo in
cui essi sembrano talvolta produrre una messa in questione – quelli che chiama
«cortocircuiti» – del «normale» rapporto fra pratiche e teorie.32 Proprio a questa
dimensione mi pare si possa riferire anche la citata dichiarazione «per noi la
politica teorica è finita; la vita politica pratica comincia», espressione che si
organizza intorno alla problematizzazione del significato stesso della parola
politica che la rivolta di Lione pare aver interrogato e posto in discussione.
Problematica che da parte sua il prefetto del Rodano Dumolard intendeva
sciogliere – proprio attraverso una sorta di anticipazione della rancièriana
distinzione fra police e politique – nei termini così scritti al capo del governo:
«avrò cura di tenervi informato dello svolgimento di questo affaire, a cui
l’autorità non assiste che nell’interesse della police generale […] convint[a] che
la politique sia del tutto estranea alla fermentazione che si manifestava fra gli
operai».33
Parlando dell’emergere della classe operaia come formazione discorsiva
faccio dunque riferimento a tutto un processo di significazione di interessi e
bisogni delle masse popolari e di loro concentrazione e unificazione intorno alla
figura forte del lavoro operaio, e, di qui, a tutto un discorso di politicizzazione
di quest’ultimo che naturalmente chiama in causa la nozione stessa di politica e
il suo significato. L’«invenzione della classe operaia» è un dispositivo di
unificazione e politicizzazione che lavora all’interno di una battaglia per i nomi 31 Rancière, The Myth of the Artisan cit. Le pagine di La nuit des prolétaires sono perciò abitate da operai precari che non si identificano in una professione e cambiano sovente un lavoro che il più delle volte gli appare semplicemente come un male necessario. 32 Notti proletarie dunque di incontri maldestri e furtivi fra questi selvaggi troppo civilizzati, intellettuali di contrabbando, operai marginali innamorati delle notti borghesi e questi borghesi marginali profeti di un nuovo giorno, intellettuali mezzi-proletari innamorati di tutto lo chagrin delle giornate di lavoro operaio che vogliono curare. 33 Dumolard, Compte rendu cit., pp. 13-14.
252
e per l’autorizzazione a conferire significato alle parole che qualificano le
forme di vita di figure sociali e popolari emergenti. La cifra delle ipotesi che
qui vorrei avanzare è scritta nelle parole – un estratto del «Globe» del 30
novembre 1831 – che chiudono il citato opuscolo sansimoniano sulla révolte
des canuts: Gli avvenimenti di Lione hanno cambiato il senso della parola politica; l’hanno allargato. Gli interessi del lavoro sono decisamente entrati nella sfera politica e vanno a estendervisi sempre di più.34
Laddove gli storici indicheranno la prima parola del moderno movimento
operaio, il Journal saint-simonien registra anzitutto l’effetto di un allargamento
della soglia che definisce la possibilità degli enunciati di essere nella verità del
politico, e la sua estensione alle questioni inerenti il lavoro operaio.
Analizzando il modo in cui tale avvenimento è intervenuto sull’ordine di alcuni
discorsi politici – quello repubblicano, quello dottrinario e quello sansimoniano
– si è visto come in essi abbia in qualche modo sempre attivato
un’interrogazione sul significato della nozione di politica (e lo abbia fatto
mobilitando tutta una serie di categorie e significanti dispiegati lungo la
traiettoria popolo-classe-operai-barbari etc. dentro un fitto tessuto di operazioni
di significazione svolte per assimilazione o differenziazione). In particolare le
strategie discorsive con cui il governo ha risposto all’insurrezione sono segnate
dal prevalere di uno sforzo interpretativo teso all’affermazione della non-
politicità dell’avvenimento, alla sua evacuazione dal politico, a produrre una
partizione fra vero e falso del politico che pone la révolte des canuts sul
secondo versante e definisce il primo per opposizione ad esso. Di qui la
proposta di pensare l’emergenza della classe operaia come una formazione
discorsiva il cui regime di verità ha per oggetto esattamente il ribaltamento di
tale razionalità attraverso la messa in discussione e ridefinizione di frontiere e
contenuti del politico. L’«invenzione» della classe operaia nella Francia degli
34 Chevalier, Événements de Lyon cit., p. 16.
253
anni 1830 emerge come dispositivo discorsivo che interviene intorno alla
produzione della soglia che definisce la possibilità degli enunciati di essere
nella verità del politico, e ne lavora i margini. Richiamo in tal senso anche le
parole che nell’agosto 1832 colui al quale si è soliti attribuire la primogenitura
della categoria politica di socialismo – Pierre Leroux, fondatore del Globe
allontanatosi dal sansimonismo con la scissione del novembre 1831 –35 scrive
sulla «Revue Encyclopédique»: si deve «mostrare ai politici che si ostinano a
isolare la politica da tutte le altre questioni che essi camminano in senso
contrario rispetto allo scopo della politica».36 Tale perimetrazione di una verità
del politico – svolta attraverso l’esclusione di «tutte le altre questioni» –
coincide con la razionalità discorsiva con cui il governo ha risposto
all’avvenimento in cui la storiografia del movimento operaio inscriverà la prima
parola di quest’ultimo: parola che riguarda proprio la decostruzione di tale
razionalità. Per quanto tale ipotesi paia collocarsi sul terreno della semantica
piuttosto che su quello «duro» delle «strutture sociali» cui a lungo è stato
rubricato il concetto di classe operaia, mi pare che questo campo di problemi sia
ben presente nella discussione che i contemporanei dispiegano intorno
all’insurrezione lionese. E che emerga in particolare nell’articolo che i canuts –
una volta preso atto dell’attitudine del governo nei confronti della loro
iniziativa – pubblicano sull’«Écho de la fabrique» nel gennaio 1832:
Ieri ancora, ieri, le pallottole fischiavano nelle orecchie, il sangue scorreva dalle due parti, la miseria era là, odiosa, flagrante, alle prese con la ricchezza; un problema sociale dalla portata immensa si posava davanti ai nostri legislatori: quello di armonizzare le esigenze
35 Leroux si allontana dal gruppo in corrispondenza della scissione fra Bazard e Enfantin, critica in particolare la parola d’ordine a ciascuno secondo le sue capacità, a ogni capacità secondo le sue opere, ritenendola foriera dell’attitudine a costituire una nuova aristocrazia. Si avvicina poi alla romanziera George Sand, rivendicherà la paternità del termine socialismo e il suo pensiero politico continuerà ad essere segnato da sfumature religiose (cfr. infra prossimo §). «Il termine socialismo, la cui primogenitura fu rivendicata da Leroux, che lo aveva usato nel 1833» (B. Accarino, voce Socialismo in Esposito, Galli, Enciclopedia del pensiero politico cit., p. 783), Leroux «rende di uso corrente il termine socialismo» (E. Greblo, voce Leroux, in Esposito, Galli, Enciclopedia del pensiero politico cit., p. 461). 36 P. Leroux, De la Philosophie et du Christianisme, in «Revue Encyclopédique», Tome LV, Paris 1832, p. 281.
254
della fame con quelle della concorrenza, di dare del pane all’operaio senza rovinare il commerciante; questa petizione si presentava alle Camere annerita dal fumo del combattimento, calda ancora di sangue francese; centinaia di vittime erano morte, prova irrevocabile dell’urgenza di un rimedio. Che derisione! Abbiate fiducia capitalisti! Rassicuratevi, operai! Commercianti prendete coraggio! I vostri mandatari e i vostri governanti si sono occupati non del rimedio da apportare, ma delle cause dei vostri mali, e grande consolazione sarà la vostra sapendo che questo movimento non aveva in sé nulla di politico! Niente di politico, pensano loro! Eh! La nostra propria politica non è il benessere delle nostre donne e dei nostri bambini?37
Notre politique à nous: questa espressione allude in modo significativo al
campo di tensione che in questo tornante storico pare aprirsi fra emergenza
della questione sociale, di nuove figure e soggettività popolari, da una parte, e
discorso di verità del politico dall’altra. «Non ‘l’ambiguità’ del linguaggio, ma
la lotta per l’appropriazione delle parole»:38 richiamo ancora il lavoro che
Jacques Rancière ha svolto sull’emergere in questi anni di pratiche e parole
operaie perché esso vi ha ritrovato anzitutto le coordinate di una «battaglia per i
nomi»,39 l’irruzione di un conflitto che ha per oggetto il «diritto a nominare», e
nei documenti, proclami e scritti proletari ha fatto emergere ciò che interpreta
come l’apertura di una «contestazione del potere stesso di qualificare gli
operai».40 A partire dall’analisi di tali dinamiche, processi e conflitti di parola,
questo pensatore propone dunque di interpretare la soggettivazione di classe
nella Francia di prima metà Ottocento come l’invenzione di nomi per
37 «L’Écho de la fabrique», 22 gennaio 1832, p. 2. Si deve notare che per un certo periodo i canuts avevano anch’essi sostenuto la tesi dell’«impoliticità» dell’insurrezione, sperando evidentemente anche che essa potesse attutire le conseguenze del loro gesto. Da questo punto di vista pare pertanto di poter registrare un progressivo quanto significativo mutamento di prospettiva da parte dei tessitori. Il 27 novembre «L’Écho de la fabrique» infatti scriveva: «che la Francia sappia che questo lungo duello non è stato provocato che dagli insulti e dall'egoismo indirizzati alla miseria; che nessuno scopo politico ha fatto muovere gli operai» (p. 4). E il 4 dicembre ribadiva: «tutto infine prova che nessuno scopo politico ha diretto questa sfortunata vicenda […]. Lasciamo ai fogli politici la cura di scovare fra gli atti dell’amministrazione quello che riguarda le categorie di resistenza o di movimento, di estremo o di juste milieu; la nostra missione è tutta industriale» (p. 3). 38 Faure, Rancière, La parole ouvirère cit., p. 15. 39 Rancière, Savoirs hérétiques, p. 37. 40 Faure, Rancière, La parole ouvirère cit., pp. 29 e 13: «è agli operai soli che spetta di nominare la loro situazione e la loro rivolta» (p. 13).
255
l’assunzione di alcuni atti di parola che intervengono sul rapporto fra ordine del
discorso e ordine delle condizioni sociali, dal momento che il peso dei nomi e
della loro assenza, delle parole dette e scritte ciò «determina la vita degli esseri
parlanti, quanto e più del peso del lavoro e della sua remunerazione»41 (si è
visto che il processo a Blanqui viene convocato a rappresentare
emblematicamente queste tesi).
Ho cercato, nei precedenti capitoli, di restituire alcuni tratti del modo in cui,
nei mesi intorno all’insurrezione lionese e al processo ai dirigenti della Société
des amis du peuple, abbia preso forma tale conflitto per l’appropriazione sociale
dei nomi, per l’autorizzazione a qualificare figure sociali e popolari emergenti.
Tale conflitto agisce sul campo costituito dallo spettro di concetti e significanti
che si dispiegano lungo l’arco che va dai cittadini agli iloti, dal popolo ai
barbari, e che pare continuamente debordare sul terreno dei significati del
politico.42 È proprio il prendere forma di questo conflitto che a mio avviso
permette di cogliere nel frammento di storia in esame l’emergenza della
nozione di classe operaia (sintagma che fin qui, almeno al singolare, pare di
assai poco rilievo e scarsamente ricorrente) come formazione discorsiva che –
anche attraverso la «mediazione» della nozione di proletariato – ha per oggetto
la continua messa in discussione di confini, soglie e criteri che definiscono il
regime di verità della nozione di politica. Sono questi i mesi nei quali è
possibile indagare anche il cristallizzarsi di tutta una serie di razionalità
discorsive, politiche e governamentali che vanno a occupare una posizione di
rilievo nella politica francese almeno fino alla rottura del 1848, e dentro le
41 Rancière, Le parole della storia cit., p. 144. 42 «Lungo tutto il XIX secolo, l’azione delle ‘classi inferiori’ ha costretto i grandi a contenere sempre il politico nei limiti che essi stessi avevano fissato […]. Le interpretazioni riduttrici del politico hanno avuto la meglio», scrive ancora Riot-Sarcey (Le réel de l’utopie cit., p. 192). Questa studiosa osserva il processo di definizione del politico principalmente in termini di negazione di parola ai soggetti subalterni, al «popolo» e alle «donne»: la presente ricerca prova piuttosto a concentrarsi sul modo in cui prendono forma i processi di significazione del politico agiti per opposizione e differenziazione. «Prima del conflitto di Lione – questa la tesi di Riot-Sarcey – era agevole pensare la rappresentazione politica scartando il più gran numero, naturalmente rappresentati dagli uomini di ragione. L’insurrezione fa sorgere una nuova componente nell’organizzazione sociale. Ma in una società cloisonnée ove la tassonomia gerarchica è il fondamento del contratto, la questione sociale, messa in luce dai riformatori, resta una preoccupazione dei filantropi e non un problema politico» (p. 191).
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quali, attraverso le quali, contro le quali il concetto di classe operaia va
emergendo e producendo il proprio regime di verità. Assumo, collocandomi nel
solco di consolidati canoni storiografici, la frattura quarantottesca come
orizzonte e, allo stesso tempo margine esterno della presente ricerca poiché in
essa – nell’intersezione di avvenimenti ed enunciati di differente natura, dai
contenuti della costituzione di febbraio agli ateliers nationaux, dalla
pubblicazione di grandi testi alla violenza dell’insurrezione di giugno – mi pare
possibile scorgere la prima e provvisoria emergenza di tale regime di verità: lo
statuto politico del lavoro operaio. Vale a dire che, una volta dispostisi a
riconoscere nel confine che separa «sociale» e «politico» – o meglio nella
produzione della soglia che conferisce significato a quest’ultimo definendo le
condizioni di verità cui gli enunciati devono rispondere per vedersi riconosciuti
interni a tale ambito – la frontiera mutevole e labile che per un importante
segmento dell’Ottocento diviene terreno di conflitti che la rimettono
continuamente in discussione ridefinendone forme e ragioni, si può scorgere nel
tornante quarantottesco il momento di evenemenzializzazione di una verità: la
legge singolare di un’apparizione, l’irruzione di una singolarità storica. È la
politicità del lavoro: la costruzione storica di questa verità è l’oggetto
dell’emergere, in quanto formazione discorsiva, della nozione di classe operaia.
«Per quale fatalità la parola lavoro, tanto gloriosa per la civilizzazione moderna,
è oggi, tra noi, un grido di guerra»: la domanda che François Guizot, dopo esser
stato costretto a riparare in Inghilterra, pone a commento della rivoluzione del
1848 interroga esattamente tale scandalosa irruzione del lavoro operaio
nell’ambito del politico. De la démocratie en France, pubblicato nel gennaio
1849, sembra mettere in questione esattamente il processo di significazione che
il termine lavoro acquisisce nel suo rapporto con il politico. «Guardate da
vicino al senso che porta abitualmente la parola lavoro in questa guerra
antisociale», si tratta della «deplorabile menzogna» che riduce il significato del
lemma lavoro a quello manuale per istituire il legame fra esso e i diritti e
istigare gli operai a far valere la propria condizione in politica.43 43 F. Guizot, De la démocratie en France, Plon-Masson, Paris 1849, pp. 86-89: «non è
257
Nel 1958 Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm ha proposto la categoria di
«pre-politico» per indicare gruppi e movimenti che «ancora non hanno trovato
(o soltanto cominciano a trovare) un preciso linguaggio con il quale esprimere
le proprie azioni».44 In Primitive rebels tale categoria viene utilizzata anche per
osservare nell’Ottocento francese il processo di «evoluzione» che dagli
«arcaici» rituali e forme del compagnonnage e delle confraternite segrete
conduce alle organizzazioni del movimento operaio («prettamente moderne» e
«a base assolutamente razionale», quindi compiutamente «politiche»),
passaggio che giungerebbe a compimento intorno al 1848, quando tali
movimenti cominciano ad agire «secondo la teoria rivoluzionaria», «si
collocano nell’ambito della corrente storica del proletariato».45 Richiamo questa
pionieristica ma ormai molto datata ricerca per il modo in cui in essa si fa
riferimento al concetto di politica (all’aggettivo politico), assumendo tale
significante in modo referenziale, vale a dire considerandolo portatore di un
significato dato (che fa riferimento alle nozioni di razionalità, coscienza, e a
un’idea di modernità che sottintende un’unità strutturale e direzionale del
processo storico), rispetto a cui è possibile misurare un dentro e un fuori, un già
e un non-ancora cui riportare natura, significato e consistenza storica di alcuni
movimenti (come noto, tale concezione è stata oggetto di una critica che ha
svolto un ruolo importante nello sviluppo dei cosiddetti Subaltern Studies).46
del lavoro e dei suoi interessi e diritti che si tratta nell’agitazione suscitata in suo nome […] è del solo lavoro materiale che ci si preoccupa, è quello che si presenta incessantemente come il lavoro per eccellenza, quello davanti al quale si cancellano tutti gli altri. Si parla in modo da fare nascere e rimanere, nello spirito degli operai dediti al lavoro materiale, il sentimento che è il loro solo lavoro che merita questo nome e ne possiede i diritti». 44 E. J. Hobsbawn, Primitive Rebels. Studies in Archaic forms of Social Movements in the 19th and 20th Centuries; trad. it. I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino 2002, p. 5. 45 Ivi, pp. 216 e 219. 46 A partire dall’indagine delle rivolte contadine in India fra 1783 e 1900, Ranajit Guha ha criticato la categoria hobsbawmiana di «gruppi pre-politici» affermando che essa stabilirebbe un’equazione fra ciò che è cosciente e ciò che è politico, negando per questa via politicità e coscienza a determinati comportamenti collettivi che vengono perciò designati come spontanei e pre-politici. Ma, sostiene il fondatore della scuola dei Subaltern Studies, «la nozione di rivolte contadine pre-politiche aiuta ben poco a capire l’esperienza dell’India coloniale. Dal momento che nulla c’era nei movimenti militanti di quelle masse rurali che fosse
258
Come si è visto, il percorso che qui si propone ha in qualche modo segno
opposto: si prefigge infatti di indagare se e come determinati avvenimenti di
parola ed extradiscorsivi abbiano avuto la capacità di chiamare in causa e
mettere in discussione significati comuni della nozione di politica. Se e come il
problema di interpretare, qualificare, dare un nome a figure sociali e
comportamenti collettivi che irrompono nel dibattito pubblico abbia scosso i
contorni delle immagini condivise del politico. La tesi è che il nome classe
operaia, dispositivo di unificazione e politicizzazione di una molteplicità di
forme di vita popolari e comportamenti collettivi, sia stato nel Moderno il più
poderoso esempio di un tale processo. Richiamo un noto passo di Carl Schmitt
a descrivere gli effetti di senso indotti sul significato del lemma politica dal più
imponente dispositivo di soggettivazione politica della modernità, lo Stato.
Per il linguaggio odierno, Stato è lo Status politico di un popolo organizzato su un territorio chiuso. […] È raro trovare una chiara definizione del ‘politico’. […]. In generale ‘politico’ viene assimilato, in una maniera o nell’altra, a ‘statale’ o quanto meno viene riferito allo Stato. Allora lo Stato appare come qualcosa di politico, ma il politico come qualcosa di statale.47
Si tratta degli esiti di una poderosa opera di accentramento del significato del non politico». Il carattere locale settario ed etnico, assolutamente non secolare né nazionale, del concetto di potere sotteso alle rivolte dei paesant non ne nega in alcun modo, secondo Guha, il carattere politico, ma al contrario lo definisce specificandone limiti e confini (R. Guha, Elementary Aspects of Peasant Insurgency in Colonial India (1983), Duke University Press, Durham and London, 1999). Dipesh Chakrabarty interpreta lo studio svolto da Hobsbawm attraverso la categoria di «pre-politico» come rivelatore dei limiti storicisti della storiografia marxista occidentale e pone al centro del progetto dei Subaltern Studies la necessità di ripensare il concetto stesso di «politico» per come lo si è ereditato dalla tradizione storiografica marxista anglofona, impregnata di un’idea del movimento storico generale come percorso direzionale da stadi premoderni verso la modernità. È questo che consentirebbe a Hobsbawm di nominare «arcaiche» o «primitive» le azioni di determinati gruppi sociali, attribuendo così di fatto «una sottesa unità strutturale (se non totalità espressiva) al processo storico e al tempo che rende possibile nel presente identificare alcuni elementi come anacronistici», collocare la condizione e la vita di alcune popolazioni in una sorta di «sala d’attesa della storia», ovvero «di trasformare la storia stessa in una versione di questa sala d’attesa, dal momento che siamo tutti diretti a una medesima destinazione, anche se qualcuno ci arriva prima e qualcun altro rimane meno moderno e quindi meno politico» (D. Chakrabarty, Provincializing Europe, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2000, pp. 8-15 e La storia subalterna come pensiero politico, in «Studi culturali», n. 2, I, dicembre 2004, pp. 238-248) 47 C. Schmitt, Der Begriff des Politischen (1932); trad. it. Il concetto di ‘politico’, in Id., Le categorie del ‘politico’ , a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, p. 103.
259
politico intorno allo statuale, che già Marx registrava nel 1843 scrivendo:
«attenzione particolare una questione la suscita solo appena diventa questione
politica, cioè o dal momento che può esservi connessa una questione
ministeriale […] l’essenza politica di una questione consiste insomma nel
rapporto di essa ai diversi poteri dello Stato politico […] politico, cioè
determinato dall’insieme dello Stato».48 A partire dal riferimento a questa
coestensività che l’Ottocento vede stabilire fra il significato del politico e la
dimensione del soggetto statuale, vorrei concludere il presente paragrafo
richiamando brevemente il modo in cui alcuni contemporanei hanno voluto
interpretare la vicenda insurrezionale del 1831 attivando i medesimi dispositivi
categoriali che si erano andati affermando per pensare il potere politico dello
Stato moderno.
René Chateaubriand non nasconde il proprio disorientamento e sgomento
alla «vista di questi operai che avevano cacciato una guarnigione, […] sospeso
le imposte, […] che avevano fatto del prefetto il loro segretario, che dettavano
condizioni ai fabbricanti, di questi operai che negoziavano, inviando
ambasciatori, trattavano da pari a pari con la monarchia di luglio».49 E Jules
Favre, avvocato dei canuts, afferma che il tarif era la loro propria Charte,
abbattuta da un «colpo di Stato» che li aveva costretti a darsi
un’organizzazione: «supponete che lo Stato sopprima gendarmi e polizia
giudiziaria, ognuno difenderà la sua vita a mano armata […]; ci si assocerà per
essere più forti; e più l’associazione sarà numerosa e franca, meglio la sicurezza
dei suoi membri sarà garantita. Gli operai non hanno fatto altra cosa. Diseredati
di protezione legale, si sono intesi per vivere e resistere all’oppressione».50
48 K. Marx, Kritik des Hegelschen Staatsrechts (1843P, 1927, MEW I, pp. 201-333); trad. it. di G. della Volpe Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 19632, p. 134. Come indicato in bibliografia, con la sigla MEW faccio riferimento a Marx-Engels, Werke, 43 Bd. und 1 Erg. Bd., Dietz Verlag, Berlin/DDR 1982-90, indicando l’anno di prima pubblicazione (preceduto nel caso delle opere postume dall’anno di stesura seguito dalla lettera P), poi il numero del volume e le pagine. 49 Chateaubriand, À Mm. les redacteurs de la Revue Européenne cit., p. 4. 50 J. Favre, De la coalition des chefs d’atelier de Lyon cit., pp. 12 e 19. Favre aggiunge poi che in questo semplice fatto «c’è una vasta e bella tesi che la filosofia ha recentemente posto ai suoi disquisitori, e che la sommossa inscriverà di forza all’ordine del giorno dei nostri legislatori» (p. 27).
260
Nella prima grande storia delle révoltes des canuts pubblicata nel 1834 da Jean-
Baptiste Monfalcon, uomo del juste-milieu, medico e storico, studioso della
popolazione e pubblicista politico lionese,51 si legge che «una delle più fatali
conseguenze degli avvenimenti di novembre» fu quello di «fare degli operai
lionesi una classe politica», nefasta conseguenza di «un ardore diabolico [nel]
confondere la questione politica e la questione industriale».52 Per spiegare il
processo attraverso il quale gli «operai lionesi» sono divenuti una «classe
politica» – la classe operaia – Monfalcon attiva sostanzialmente i dispositivi
categoriali – lo schema volontà-potere legale, e quello autore-attore – attraverso
cui la vicenda rivoluzionaria aveva cercato di tradurre in istituzioni statuali i
concetti del moderno contrattualismo:
questa grande e potente associazione dei tessitori […] si era posta come un potere di fronte al potere legale, faceva dell’interesse di 80.000 individui un solo interesse, delle loro volontà una sola volontà e dava alla loro classe immensa l’unità di pensiero e di azione di un solo uomo. […]
51 Jean-Baptiste Monfalcon (1792/3-1874) è convinto sostenitore della monarchia di Luglio e delle posizioni dei fabricants lionesi, decisamente avverso alle idee repubblicane ed egualitarie e alle coalizioni operaie, condanna però anche le tendenze autoritarie e conservatrici di alcuni uomini del juste-milieu e sostiene il carattere liberale e costituzionale del regime orleanista che auspica agire, pur con mano ferma nella repressione, in direzione di diritti e libertà moderne (cfr. Histoire des insurrections de Lyon cit., pp. 37-44, 146 e 155-161): «bisogna insegnare ai ricchi come possono diventare poveri e ai poveri come possono diventare ricchi; bisogna spezzare le barriere che li separano, insegnare ai proletari il rispetto della legge, senza il quale non c’è società possibile, e ispirare loro l’amore dell’ordine e del lavoro, senza il quale non c’è nessun mezzo d’acquisire e conservare la proprietà» (Ivi, p. 41). La formazione, l’intreccio di saperi che muove la scrittura e la riflessione di Monfalcon è rappresentativa di una certa figura di intellettuale dell’epoca. Egli è anzitutto un medico, lavora a lungo all’ospedale di Lione, e intreccia il sapere medico con la passione per la storia e lo studio della popolazione (nel 1823 scrive un Essai pour servir à l'histoire des fièvres adynamiques et ataxiques, nel 1826 l’Histoire médicale des marais: et traité des fièvres intermittentes, causées par les émanations des eaux stagnantes, nel 1827 un Précis de bibliographie médicale, nel 1837 l’Histoire statistique et morale des enfants trouvés, l’anno dopo le Nouvelles considérations sur les enfants trouvés, nel 1846 l’imponente Traité de la salubrité dans les grandes villes; suivi de l'hygiène de Lyon). Diviene bibliotecario della città di Lione e pubblica studi sulla storia urbana (scriverà nel 1846 un Discours sur l'histoire de Lyon, l’anno dopo le Lettres à M. l'abbé Cattet sur l'histoire des guerres de religion à Lyon pendant le seizième siècle e una Histoire de la ville de Lyon, fino ai nove volumi della Histoire monumentale de la ville de Lyon del 1866). Traduce inoltre infrancese l’opera completa di Orazio (1834), è redattore capo del Courrier de Lyon fra 1832 e 1834, e membro dell’Académie des sciences, belles-lettres et arts de Lyon. La sua storia delle insurrezioni lionesi è una fonte particolarmente preziosa perchè la sua analisi esibisce l’intreccio di sapere medico, storico e politico nell’analisi della società che è caratteristico del suo tempo e di cui cerco più avanti di indagare alcuni elementi. 52 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 99.
261
La classe pressoché intera dei tessitori si era costituita in società deliberante e agente, […] che procede, di fronte alle autorità legali, come un potere nuovo, fra tutti, il meglio obbedito. […] L’associazione è un vero potere, e quello di cui gli ordini sono i meglio eseguiti.53
Propongo queste citazioni perché mi pare degno di nota rilevare come,
indagando le reazioni di alcuni contemporanei all’avvenimento in cui gli storici
riconosceranno la prima parola del moderno movimento operaio, si possa
osservare che per interpretarlo essi istituiscono un parallelo con il potere
politico e si trovano ad attivare i medesimi apparati categoriali con cui si è soliti
pensare il più poderoso processo di soggettivazione politica del Moderno, lo
Stato. «Classe operaia» è il nome che ha designato l’irrompere nella storia di un
altro soggetto che ha varcato la frontiera del politico per andarsi a disporre
accanto allo Stato moderno, in un processo i cui esiti Walter Benjamin descrive
efficacemente, interpretando così nel 1921 la traduzione costituzionale della
lotta di classe nel diritto di sciopero: «la classe operaia organizzata è oggi,
accanto agli Stati, il solo soggetto giuridico a cui spetti un diritto alla
violenza».54 La dialettica fra queste due soggettività lungo un significativo arco
53 Ivi, pp. 2, 149 e 151. 54 W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt (1921); trad. it. Per la critica della violenza, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962, p. 10. Lo sciopero operaio viene qui interpretato come diritto alla violenza – sebbene soltanto rappresentata nella forma della «minaccia» – a partire da una riflessione tesa a mostrare il rapporto mimetico che lega la violenza e l’ordinamento giuridico dello Stato moderno, il carattere intrinsecamente violento del diritto: «ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto. Se non pretende a nessuno di questi due attributi rinuncia da sé ad ogni validità» (p. 16). La violenza è presente in ogni contratto giuridico, come risultato (nella minaccia della sanzione, nella pena) e come origine («rappresentata» nel potere che garantisce il contratto). Per dimostrare queste tesi Benjamin ricorre all’indagine di tutte quelle situazioni in cui alla violenza «è ancora permesso di manifestarsi anche secondo l’ordinamento giuridico attuale» (p. 9). Ciò si verifica nel diritto di guerra: la violenza bellica ha sempre lo scopo di creare una nuova situazione di diritto, una «pace» la cui finalità prima e originaria è la sanzione dei vinti. Il servizio militare obbligatorio è allora «l’obbligo dell’impiego universale della violenza come mezzo ai fini dello Stato» (p. 13). Il potere che conserva il diritto è poi quello che minaccia la violenza delle sanzioni, che trovano la propria forma originaria nella pena di morte, il cui potere conferisce al diritto la propria conferma più alta. La polizia, nel far rispettare la legge, conserva il diritto ma anche, in qualche modo, lo pone ogni volta che «interviene, ‘per ragioni di sicurezza’, in casi innumerevoli in cui non sussiste una chiara situazione giuridica» (p. 16), e anche il parlamentarismo manifesta il carattere violento dell’ordinamento giuridico statuale nella ricerca costante e ossessiva del compromesso che è «pur sempre compreso nella mentalità della violenza, perché […] anche se liberamente accettato, ha essenzialmente carattere coattivo» (p. 17). Il diritto di sciopero
262
temporale della contemporaneità europea ha indotto una significativa
ridefinizione di forme e confini del politico determinando quella che Carlo
Galli chiama una «rivitalizzazione interna della spazialità politica moderna»,
costituendo, dopo la crisi di inizio Novecento, «una nuova legittimazione» che
ha dato «nuova vita al gioco moderno delle spazialità del soggetto e dello Stato
[…]. Pur restando artificiale (com’è ovvio nella modernità), lo Stato sociale
cessava di essere ‘vuoto’ e liscio». 55 Il «discorso» della classe operaia,
ponendo, sia pure in maniera conflittuale, tale soggetto politico al fianco dello
Stato moderno, ne ha determinato non pochi elementi, «incarnando» in una
soggettività l’orizzonte normativo della democrazia e ridisegnando con ciò
forme, ragioni e confini del politico. Il lavoro che la presente ricerca propone su
contenuti e significati politici dell’emergere storico del concetto di classe
operaia inteso come formazione discorsiva, non ha l’intento di riproporre la
validità di tale discorso nel presente, di «ricondurre – per dirla con Foucault – il
presente a una forma riconosciuta del passato che si suppone valida anche per il
presente».56 Ma, al contrario, di sondare alcune caratteristiche del politico
contemporaneo proprio a partire dal tramonto, dall’assenza di tale discorso (e
dunque semmai di «lasciare agire il sapere del passato sull’esperienza e sulla
pratica del presente»),57 di posizionarsi lungo il margine esterno che delimita gli
ambiti del «politico» moderno, per osservarne, da lì, i confini, riconoscerne la farebbe allora della classe operaia il solo soggetto al di fuori dello Stato cui è concesso un qualche diritto alla violenza, sebbene solo nella forma della minaccia tesa al mutamento dei rapporti giurdici, e riconosciuto dallo Stato al solo scopo di evitare maggiori violenze. «Il momento della violenza interviene, come ricatto, in un’omissione siffatta, quando essa ha luogo nella fondamentale disposizione a riprendere come prima l’azione interrotta a certe condizioni […]. E in questo senso, secondo la concezione della classe operaia che è opposta a quella dello Stato, il diritto di sciopero è il diritto di usare la violenza per imporre determinati scopi» (p. 10). Un assunto in qualche modo restituito dal filosofo tedesco Peter Sloterdjik con la formula secondo cui se «è vero che la sovranità designa la capacità di minacciare in modo attendibile, allora i partiti dei lavoratori dipendenti e i sindacati occidentali raggiunsero i loro massimi effetti di sovranità attraverso la minaccia del diritto di sciopero» (Zorn und Zeit. Politisch-psychologischer Versuch [2006]; trad. it. Ira e tempo. Saggio politico-psicologico, Meltemi, Roma 2007, p. 258). 55 C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 128-129. 56 M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, trad. it. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, p. 114. 57 Ibid.
263
forma e l’estensione, sondarne la tenuta e ricostruirne le ragioni presenti e
passate, e quindi disporsi anche ad indagare quei vuoti che oggi sembrano
intaccarne le frontiere e crescervi in forma di voragine.
3.2 Monsieur Marx
Senza dubbio anche la riflessione di Charles Fourier è stata «lavorata» dalla
sua esperienza professionale nella manifattura lionese, ove è rimasto fino al
1828 maturandovi l’ostilità verso il mondo dei commercianti (la «pirateria
sociale»). I riferimenti alla fabrique ricorrono nei due volumi de La fausse
industrie (1835-36), ove le sollevazioni dei canuts sono indicate come una
«guerra», conseguenza drammatica quanto inevitabile delle forme in cui è
organizzata la società. 58 Come i saint-simoniani, pure Fourier vede nella
sommossa un segnale importante ma ne rifiuta il carattere violento. La sua
teoria delle piccole comunità produttive – le falangi raccolte in falansteri –
deve forse qualcosa al sistema degli ateliers artigiani lionesi: il Prospectus de
«La Réforme industrielle ou le Phalanstère», che – grazie in particolare
all’attivismo di Victor-Prosper Considérant – a partire dal 1832 diffonde la
dottrina fourierista annuncia che il giornale «ha per oggetto di provocare la
sostituzione di un modo di lavoro votato all’incoerenza di sfruttamento che
regna nelle culture, fabbriche e famiglie. Il mezzo che propone è lo stabilimento
di una prima associazione di 2-300 famiglie che procuri risultati tanto
58 «Di tutte queste imposte la più pesante per l’autorità è il traffico di sofismo, le complicazioni che causa, le spese di polizia, le sommosse e spesso le guerre, come l’ultima di Lione», C. Fourier, La fausse industrie morcelée, répugnante, mensongère, et l'industrie naturelle, combinée, attrayante, véridique, donnant quadruple produit, Bossange, Paris 1835-1836, p. 324. Fourier sta qui enumerando gli inutili sprechi di entrate fiscali da parte dei pubblici poteri. Nel testo ritornano analisi e proposte di mezzi atti a sostenere l'industria lionese, si trovano riferimenti alle condizioni e abitudini dei canuts (pp. 289 e 367), e la commessa reale di stoffe disposta nel 1831 in seguito all'insurrezione viene più volte richiamata a rappresentare l’utilizzo irrazionale delle finanze pubbliche (pp. 11, 624 e 799-800).
264
vantaggiosi da indurre un’imitazione generale».59 Se nel corso del 1832 si
riconosce chiaramente la penetrazione del lessico sansimoniano nell’«Écho de
la fabrique», a partire dall’agosto 1833 si assiste invece a un marcato
riorientamento dell’organo dei tessitori verso il fourierismo. Le ragioni sono
probabilmente da ricercare nel fatto che tale dottrina sembrava ai canuts
insistere in modo più convinto sul lavoro, valorizzandone lo statuto e
delineando l’orizzonte di una democrazia artigianale non priva di legami con le
forme del mutualismo lionese.60 La nascita nel 1835 a Lione di una cooperativa
di consumo – il Commerce véridique et social – è certamente ispirata alle idee
fourieriste.
«Era la sanguinosa dimostrazione dei vizi economici del regime industriale
inaugurato nel 1789»: anche Louis Blanc nella sua Histoire de dix ans 1830-
1840 assegna all’insurrezione lionese «un carattere e una portata formidabili»,
definendola – è l’espressione che Victor Hugo riprenderà nei Miserabili – una
«vera guerra servile» dispiegata dagli «schiavi dei tempi moderni», in cui «era
facile scorgere quali tempeste il XIX secolo portava in seno».61 Di grande
rilevo è poi la relazione fra la fabrique lionese, l’esperienza associativa dei
canuts e la biografia e il pensiero di Pierre-Joseph Proudhon, che pare aver
tratto spunti decisivi dal movimento mutualista lionese e dal sistema dei piccoli
laboratori tessili: esiste un «rapporto omologico – sostiene Pierre Ansart – fra le
evidenze fondamentali di Proudhon e l’universo morale di questi operai
gestionari il cui modello tipico ci è dato dal chef d’atelier lionese, artigiano e
59 La Réforme industrielle ou le Phalanstère, journal des intéréts géneraux, de l’industrie et de la proprieté, Prospectus général. Questo settimanale del venerdì – animato dalla parola d’ordine dell’association – appare nel giugno 1832, cesserà le pubblicazioni nell’aprile 1834 per poi riprenderle con il titolo La Phalange. Insieme a Considérant svolge un ruolo importante nella sua redazione anche Jules Lechevalier, oltre a quelli di Fourier, si segnalano gli interventi di Charles Pecqueur. 60 Sul tema cfr. L. Frobert, Les Canuts ou la démocratie turbulente. Lyon, 1831-1834, Tallandier, Paris 2009, pp. 213 sgg. 61 «Non era, in realtà, né in nome di Enrico V o di Napoleone II, né per conto della repubblica che gli operai di Lione si erano sollevati. L’insurrezione, stavolta aveva un carattere e una portata ben altrimenti formidabili. Perché era la dimostrazione cruenta dei vizi economici del regime inagurato nel 1789», era «una vera guerra servile; e la potenza che avevano dispiegato questi schiavi dei tempi moderni, lasciava facilmente indovinare quali tempeste il XIX secolo porti in seno» (Blanc, Histoire de dix ans cit., pp. 356-357).
265
operaio, indipendente e salariato».62 Proudhon vive e lavora a Lione fra il 1843
e il 1847, anni in cui ha modo di frequentare anche Parigi, ove incontra, fra gli
altri, Michail Bakunin e, soprattutto, Karl Marx, con cui instaura un intenso
scambio segnato dalla reciprocità. Da una parte pare infatti vi fosse
l’esposizione dei principi dell’hegelismo ancora poco noti in Francia, dall’altra
di quelli del «socialismo scientifico» di Qu’est-ce que la propriété (1840), che
ebbe un’influenza importante sulla riflessione marxiana dei primi anni
Quaranta: nella Sacra famiglia (1845) questo testo verrà definito un «manifesto
scientifico» del proletariato francese scritto da un uomo interno a tale mondo
(ma già nel 1847 la pubblicazione di Misère de la philosophie sancirà la rottura
e aprirà il lungo conflitto politico di Marx con i proudhoniani).63
Nel 1843, adducendo motivi personali, Proudhon nega un suo contributo agli
«Annali Franco-tedeschi», per realizzare i quali, in collaborazione col filosofo
radicale e democratico Arnold Ruge, Marx si era stabilito a Parigi aprendo un
passaggio fondamentale nella propria biografia intellettuale. Qui Marx termina
62 P. Ansart, Sociologie de Proudhon, PUF, Paris 1967, p. 188, sul tema cfr. anche le pp. 59-66, 45-51, 141-182, e Id. Proudhon et les canuts lyonnais, in AA. VV. Lyon et l'esprit proudhonien. Actes du colloque de Lyon des 6 et 7 décembre 2002, Société Proudhon-Université solidaire, Lyon 2003. «Secondo Proudhon, la giustizia emana dai rapporti tra queste imprese e piccoli ateliers di artigiani e operai che si organizzano tra loro per resistere alla concorrenza. Esse faranno una forte impressione su di lui dal momento che osserverà l’organizzazione dei Canuts a Lione», B. Frère, Une organisation politique libertaire est-elle possible?, on line: http://www.contretemps.eu/interventions/organisation-politique-libertaire-est-elle-possible. E anche Fernand Rude mostra come talune formulazioni di Proudhon siano già «in germe in questo sindacalismo» (Les révoltes des canuts cit., p.117). 63 Cfr. infra § 3.2 sull’influenza del proudhoniano Qu’est-ce que la propriété sulla riflessione marxiana del 1843, in questo testo si suole indicare un primo utilizzo del termine «socialismo scientifico». Già nel suo intervento sul «Vorwärts!» del 10 agosto 1844 (cfr. infra il presente §), Marx esprimeva un giudizio positivo su Proudhon. Dopo il nulla di fatto per la collaborazione agli Annali franco-tedeschi, nel 1846 Marx rivolge ancora a Proudhon la proposta di partecipare al Comitato comunista di corrispondenza istituito con Engels a Bruxelles, incontrando un nuovo rifiuto (cfr. lettera di Marx a Proudhon del 5 maggio 1846 e la risposta del 17 maggio, il carteggio restituisce efficamente i temi del disaccordo che va maturando). La rottura fra i due è sancita dalla pubblicazione, a Parigi e Bruxelles, nel luglio 1847 di Misère de la philosophie, Réponse à la philophie de la misère de M. Proudhon, testo in cui Marx sottopone a una critica radicale le tesi del Système des contradictions économiques ou philosophie de la misère pubblicato da Proudhon l’anno precedente. Gli scontri fra Marx e i proudhoniani francesi segneranno tutta la prima fase di vita della Associazione internazionale dei lavoratori. Sui rapporti fra i due segnalo l’interpretazione di Fabio Frosini che imputa la rottura all’adesione di Proudhon a un modo «tedesco» di fare teoria che lo allontana dal concreto dispiegarsi dell’iniziativa politica (Da Gramsci a Marx. Ideologia, verità, politica, DeriveApprodi, Roma 2009, pp. 91-95).
266
la Questione ebraica, fondamentale messa a punto della sua critica della
(teologia) politica, e redige poi il suo secondo pezzo per i «Deutsch-
französische Jahrbücher», l’Introduzione alla Critica della Filosofia del diritto
di Hegel: è qui che si assiste all’irruzione nel suo pensiero del concetto di
proletariato. È a quest’altezza della biografia e dell’opera di Marx che si
incontra il primo riferimento alla révolte des canuts. La sommossa dei tessitori
slesiani di giugno 1844 è l’occasione per declinare sul concreto volgere della
storia i dispositivi teorici su cui ha lavorato nel 1843, e rendere pubblica la
rottura con Ruge, che è intervenuto sul «Vorwärts!» stigmatizzando
l’avvenimento.64 A differenza di quanto vorrebbe quest’ultimo – risponde Marx
sullo stesso giornale – gli interventi amministrativi dello Stato non possono
risolvere i problemi sollevati dai tessitori: la critica marxiana della politica
come sfera artificiale e separata si fa qui denuncia dello Stato,
dell’amministrazione, dei partiti in quanto istituzioni politiche che fondano la
loro esistenza sulla scissione del proprio ambito dalla sfera privata, dalla vita
sociale, su cui sono quindi per definizione incapaci di agire se non alla
paradossale condizione di eliminarle in quanto ambito separato. Obiettivo
dell’intervento di Marx è rinvenire nella rivolta dei tessitori slesiani la prima
grande iniziativa del proletariato tedesco, la prima parola in Germania di un
movimento di lavoratori «allo stato embrionale», perciò – contro Ruge che la
giudica un avvenimento locale privo di portata e di «anima» politica – si sforza
di mostrarne gli elementi di maturità. A tale scopo propone di «paragonare la
prima configurazione, l’inizio del movimento dei lavoratori francesi e inglesi,
con il movimento tedesco ora iniziato», paragone che svela il vigore di
quest’ultimo, immediatamente in grado di cogliere il carattere sociale del
problema senza illudersi in una soluzione demandata esclusivamente alla
politica. Non si può dire lo stesso riguardo alle «prime rivolte del proletariato
64 Il «Vorwärts!» era un giornale edito a Parigi in lingua tedesca destinato al pubblico degli immigrati dalla Germania. Gli articoli di Ruge vi compaiono il 24 e 27 luglio, quelli di Marx il 7 e 10 agosto 1844. La rottura fra i due si era consumata a marzo in seguito all’uscita degli Annali, quando le divergenze sulle prospettive della rivista e sul tema del comunismo si erano a unite a un litigio sul poeta Herweg.
267
francese», quelle in cui gli operai di Lione – sostiene Marx facendo
evidentemente riferimento agli esiti della seconda insurrezione dei canuts del
1834 – finirono per schiacciare la propria iniziativa sulle tematiche
repubblicane.65 Rispetto ad esse l’insurrezione dei tessitori slesiani del 1844 ha
un «carattere» più «teorico e consapevole», essa «comincia proprio laddove
terminano le rivolte dei lavoratori francesi e inglesi», perché, esibendo la
«classica vocazione» tedesca «per la rivoluzione sociale quanto è incapace di
una rivoluzione politica», dimostra di avere «coscienza di quel che è l’essenza
del proletariato».66
È dunque da questo confronto fra il movimento dei tessitori slesiani degli
anni Quaranta e quello dei tessitori lionesi del decennio precedente – svolto a
partire da una riflessione sulla distinzione fra sociale e politico e sull’«essenza»
della nozione di proletariato – che si deve prendere le mosse. È per il momento
importante notare che Marx – a differenza dei sansimoniani, di Fourier e
Proudhon – avalla lo strumento della «rivolta industriale», la quale, per quanto
parziale possa apparire, sarebbe in grado di porre il tema della scissione che il
lavoro produce fra l’uomo e la sua stessa vita fisica e spirituale, fra l’uomo e la
comunità umana.67 È questo il primo riferimento di Marx all’esperienza dei
canuts (rimarrà anche quello più significativo dal punto di vista teorico): esso
appare denso di significato ai fini della presente ricerca. In primo luogo per la
costellazione concettuale che intorno ad esso viene mobilitata, le cui coordinate
possono sostanzialmente essere inscritte nel campo di tensione che si apre fra la
nozione di popolo, quella di proletariato e gli elementi di un’interrogazione
radicale sullo statuto del politico (ovvero le medesime categorie attraverso cui
nei precedenti capitoli l’interpretazione dell’insurrezione lionese è stata
analizzata nell’ambito di altri discorsi politici). Secondariamente è degno di
nota che questo intervento si collochi nel cuore della prima esperienza di Marx
65 K. Marx, Kritische Randglossen zu dem Artikel «Der König von Preußen und die Sozialreform. Von einem Preußen» (1844, in MEW, I, pp. 392-409); trad. it. Glosse critiche in margine all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale. Di un prussiano», in Marx-Engels, Opere, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 218-222. 66 Ivi, p. 219. 67 Torno su questo tema all’inizio del § 3.4.
268
a Parigi. Comincio svolgendo alcune considerazioni su questo secondo
elemento e rimando ai prossimi paragrafi l’indagine delle coordinate teoriche
del primo. L’obiettivo, ripeto, è sondare la tenuta delle ipotesi avanzate nel
precedente paragrafo di fronte al modo in cui questo autore sviluppa il concetto
di classe attraversando e interpretando l’esperienza storica, politica e teorica
francese.
Questo primo riferimento ai tessitori lionesi si colloca nell’estate 1844, fra la
stesura della Einleitung alla critica del diritto pubblico hegeliano, pubblicata in
febbraio sugli Annali, e quella degli Ökonomisch-philosophischen Manuskripte,
terminati intorno a settembre. Categorie e nomi dispiegati lungo la traiettoria
popolo-classe-proletariato-operai, la loro posizione reciproca all’interno di
processi di significazione svolti nell’ambito di un’interrogazione sullo statuto
del politico: rispetto a questi elementi, intorno ai quali si è finora svolta l’analisi
di altri discorsi politici, si avanza qui l’ipotesi che sia possibile parlare,
nell’ordine del discorso marxiano, di un «momento» francese del 1844. Con tale
termine si vuole indicare una discontinuità nel modo in cui Marx utilizza e
dispone le categorie oggetto della presente indagine, ovvero, con Sandro
Chignola, «il determinarsi di una rottura […] delle continuità, degli universali,
attraverso i quali viene immaginato, forse letteralmente inventato […]
l’inverarsi di un senso».68 Osservando il movimento del pensiero di Marx nel
decennio che va dal 1842 al 1852 (anno di pubblicazione del 18 brumaio di
Lugi Bonaparte) si propone cioè di considerare il momento francese del 1844
come una «piattaforma girevole» (termine in prestito da Habermas) che segna
un mutamento di problematica rispetto all’oggetto della presente indagine, ossia
alla costellazione semantico-linguistica popolo-classe-proletariato-operai, al
68 Chignola, Il tempo rovesciato cit.,, pp. 13-14. In questi anni, in questi mesi, il pensiero di Marx pare sottoposto a una pressione e a repentine accelerazioni che – a partire dalla pubblicazione a cavallo fra gli anni 1920 e 1930 di alcuni grandi inediti – hanno impegnato gli studiosi in un verace dibattito teso a individuare momenti di discontinuità, le rotture, ciò che Althusser definirà come «rottura epistemologica». L’operazione che qui si propone ha carattere assai più modesto: si tratta di verificare la possibilità di indicare in corrispondenza della riflessione svolta nel corso del 1844 una discontinuità nella riflessione marxiana rispetto all’insieme di termini, nozioni e categorie che la presente ricerca ha finora mobilitato lungo la traiettoria popolo-classe-proletariato.
269
significato e alla posizione reciproca degli elementi che la compongono, al loro
ruolo all’interno dell’eventuale operatività di un discorso di verità del politico.
Rispetto a quest’ultima si cercherà di mostrare in corrispondenza del testo che
confronta l’insurrezione slesiana e quella lionese un mutamento fra il modo in
cui la problematica era posta nei testi precedenti e come lo sarà in quelli
successivi. Prima di tale scritto, la Einleitung aveva determinato la brusca
elisione dal discorso marxiano del concetto di popolo in favore di quello di
proletariato. Dopo di esso, i Manoscritti segneranno l’avvento e una prima
centralità della figura dell’operaio. Come sottolinea Étienne Balibar, è
«incontro teorico ma anche incontro personale e vissuto»69 quello di Marx nel
1844 con le nozioni di proletariato e di operai. Sui termini di questo «incontro»
parigino si deve spendere ancora qualche parola.
Se avesse senso indicare le svolte concettuali del pensiero di un autore con
delle date come si fa con i tornanti della storia, mi pare che l’11 ottobre 1843
dovrebbe segnare, per Marx, uno di questi passaggi. È il giorno in cui, insieme
a Jenny in cinta, arriva a Parigi e si stabilisce al 23 di rue Vanneau, in una casa
«in comune» con German Mäurer, dirigente della Lega dei giusti, e la famiglia
Ruge. Qui lavora agli «Annali franco-tedeschi», rivista il cui progetto lo
impegnava dalla fine dell’esperienza nella «Gazzetta renana», soppressa nel
febbraio 1843 dalla censura.70 Quest’ultima rendeva impossibile realizzare gli
Annali in Germania, il trasferimento a Parigi è dunque frutto della decisione di 69 É. Balibar, La crainte des masses. Politique et philosophie avant et après Marx (1997); trad. it. La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, Milano, Mimesis, 2001, p. 123. 70 L’arrivo di Marx a Parigi l’11 ottobre 1843 è indicato come data di arrivo di Marx a Parigi in una lettera che, questo stesso giorno, Julius Fröbel (direttore della Literatisches Comptoir, la casa che edita gli Annali) scrive a Oppenheim, cfr.anche la lettera a Feuerbach del 3 ottobre 1843, in cui Marx si dichiara in procinto di partire e indica il suo indirizzo di destinazione a Parigi, ove sarà anche corrispondente della «Gazzetta di Colonia». La gran parte delle informazioni biografiche indicate in queste pagine provengono dai lavori di Auguste Cornu: fino al maggio 1844: Karl Marx et Friedrich Engels. Leur vie et leur oeuvre (1818/1820-1844) [1955]; trad. it. Marx e Engels dal liberalismo al comunismo, Feltrinelli, Milano 1971, e fra maggio 1844 e febbraio 1845 Karl Marx et Friedrich Engels leur vie et leur oeuvre. Tome III Marx à Paris, PUF, Paris 1962. Fra i testi biografici vanno ricordati i pionieristici lavori di F. Mehring (Karl Marx, Geschichte seines Lebens [1918]; trad. it. Vita di Marx, Rinacita, Roma 1953), e di D. B. Rjazanov (trad. it. Marx ed Engels: lezioni tenute al corso di marxismo dell'Accademia socialista di Mosca nel 1922, Samonà e Savelli, Roma 1969).
270
collocarvi la redazione della rivista. Nella lettera indirizzata a Ruge poco prima
di partire, Marx espone lo stato d’animo con cui si accinge a questa esperienza
nella «nuova capitale del mondo nuovo», dove vuole dar vita a un «centro di
raccolta per le menti realmente operose e indipendenti», perché «da tempo il
mondo possiede il sogno di una cosa di cui non ha che da possedere la
coscienza, per possederla realmente»:71 nell’estate 1844 per essa adotterà il
nome di comunismo. La scelta di Parigi è certo favorita dalla massiccia
presenza di un potenziale pubblico di immigrati tedeschi, ma essa ha anche uno
statuto teorico, testimoniato dall’insistenza di Marx affinché gli Annali non
fossero più solo tedeschi, ma franco-tedeschi.72 Così nell’invitare Feuerbach a
collaborare al progetto insiste sulla «necessità d’una alleanza scientifica franco-
tedesca» di cui questi era stato uno dei primi promotori.73 È bene ricordare da
ora il peso che nella riflessione marxiana degli anni Quaranta esercita lo schema
della «triarchia europea», in particolare nella formulazione di Moses Hess, che
immaginava una sorta di divisione dei compiti nel processo di trasformazione
sociale fra i popoli inglese, tedesco e francese, assegnando a quest’ultimo il
terreno della «vera politica».74
Il primo e unico, doppio, numero degli Annali pubblica, nel febbraio 1844,
parte del carteggio che Marx, Ruge, Bakunin e Feuerbach avevano intrattenuto
sul progetto della rivista. Oltre ai loro (escluso Feuerbach che alla fine declina),
compaiono interventi di Engels, Hess, Herweg, Bernays, Heine e gli atti del 71 Lettera di Marx (da Kreuznach) a Ruge (a Dresda) del settembre 1843 (in MEW, I, pp. 337-346); trad. it. in Annali franco-tedeschi. Deutsch-französische Jahrbücher, a cura di G. M. Bravo, Edizioni del Gallo, Milano 1965, pp. 79-83. 72 Cfr. in part. la lettera di Marx (da Colonia) a Ruge (a Dresda) del 13 marzo 1843 (in MEW, XXVII, pp. 416 sgg.). 73 Lettera di Marx (da Kreuznach) a Feuerbach (a Bruckberg) del 3 ottobre 1843 (in MEW, pp. 419-421), trad. it. in Marx-Engels, Opere, vol. II, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 379. 74 In Die europäische Triarchie del 1841, Hess (nel 1842 condirettore della Rheinische Zeitung) attaccava l’astrattezza dei Giovani hegeliani, rivendicando una filosofia dell’azione di matrice hegeliana ma orientata verso una critica della proprietà privata e dell’«aristocrazia del denaro». Questo testo annunciava una nuova rivoluzione che avrebbe dovuto prendere piede in Inghilterra, dove lo sviluppo economico aveva reso più evidenti le contraddizioni sociali, dopo che la Germania, con la Riforma e la filosofica tedesca, aveva indicato la via della liberazione spirituale e la Francia rivoluzionaria di quella politica e dei costumi. Tale riflessione sui «popoli» inglese francese e tedesco influenza il pensiero di Marx e lo segna in maniera importante nel corso degli anni Quaranta.
271
processo a Jacoby per un testo del 1841. Falliscono però tutti i tentativi di avere
contributi di intellettuali francesi: al di là delle specifiche motivazioni di
ognuno,75 interessa sottolineare la loro generale diffidenza nei confronti della
prospettiva anti-religiosa degli Annali76 (vero motore della riflessione marxiana
nel 1843).77 Oltre a Proudhon, proposte di collaborazione erano state rivolte al
cattolico Félicité-Robert de Lamennais, fondatore nel 1830 del giornale
«L’Avenir», e ad Alphonse de Lamartine, che già nel 1831 aveva esposto sulla
«Revue Européenne» i suoi principi di Politique rationelle che indicavano nella
morale di origine cristiana il fondamento di una legittima azione politica votata
alla libertà e all’uguaglianza.78 E poi, ai già citati Pierre Leroux, Étienne Cabet,
Victor Considérant e Louis Blanc. Quest’ultimo contesta ai redattori degli
Annali di essere atei legati al materialismo del diciottesimo secolo, in Francia
superato e largamente rifiutato. Ho cercato nel precedente capitolo di restituire
alcune coordinate di tale atteggiamento nei confronti di dottrine considerate
responsabili dei debordamenti seguiti alla vicenda rivoluzionaria, postura che
conduceva a poggiare la politica sulla morale allo scopo di rifondare il legame
sociale nella società individualizzata degli uguali. Per questo i movimenti
socialisti sorti in Francia all’indomani del 1830 condividono marcate coloriture
religiose, rivendicano la filiazione con la tradizione cristiana, e tendono a
presentarsi come il «vero cristianesimo» tradito dalla chiesa. Così Leroux si era
allontanato dal liberalismo per aderire alla religione sansimoniana, 79 il
fourierismo di Considérant, dopo la morte del maestro nel 1837, interpretava i
falansteri anche come riconciliazione – «Harmonie» – dell’uomo con Dio e
75 Leroux e Proudhon declinarono avanzando motivi personali, Lammenais discusse a lungo con i promotori, ma alla fine si riservò di vedere il primo numero della rivista. 76 Cfr. G. M. Bravo, Introduzione a Annali franco-tedeschi cit., pp. 7-26. Gli Annali si proponevano invece di liberare i tedeschi dall’oppressione politica e i francesi da quella religiosa 77 Cfr. infra § successivo. 78 A. de Lamartine, Lettre à M. le redacteur de la Revue Européenne sur la politique rationelle, in «Revue Européenne», tome I, Paris 1831, pp. 125-143. Una sintesi estremamente chiara ed efficace sulle posizioni degli autori francesi citati nel presente paragrafo è V. Collina, Le democrazie nella Francia del 1840, D’Anna, Firenze 1990. 79 Leroux (su cui cfr. anche supra § precedente) si allontana poi nel 1831 dal movimento sansimoniano denunciando la deriva verso un nuovo «dispotismo papale» e contrapponendovi la «democrazia religiosa».
272
l’universo,80 Cabet rivendicava esplicitamente per il suo movimento lo statuto
di discepoli di Gesù e del suo vangelo,81 e la nozione di comunismo emergeva
in Francia in prima battuta a partire da quella di comunione. Si è visto,
soprattutto nel primo capitolo, il rilevo del tema della morale politica
nell’interpretazione della révolte des canuts, e le tonalità mistiche che
coloravano l’utilizzo di categorie come quella di popolo nel discorso
repubblicano. Questa sarà sottoposta a una critica verticale nei testi marxiani sul
quarantotto, e lungo tutti gli anni Quaranta Marx ed Engels dispiegano una
tenace opposizione agli orientamenti religiosi dei movimenti degli operai
francesi e degli artigiani tedeschi, contrapponendo, come noto, alle nervature
religiose di alcuni concetti, la loro fondazione scientifica.82
A Parigi, fra agosto e settembre 1844, Marx frequenta Engels, incontro
suggellato dalla pubblicazione della Die heiligie Familie contro la sinistra
hegeliana raccolta intorno alla «Allgemeine Literatur-Zeitung» dei fratelli
Bauer.83 Le pagine dedicate in questo testo all’analisi dei Mystères de Paris di
Eugène Sue – romanzo d’appendice che nel 1842-43 aveva suscitato una
clamorosa attenzione fra le masse urbane – affrontando le varie questioni in
esso presenti, da quella femminile alla criminale, testimoniano l’attenzione di
Marx verso la realtà sociale parigina in cui si immerge.84 Così anche la
80 Di qui il rifiuto della prospettiva rivoluzionaria e delle agitazioni operaie in nome della «politica larga e pacifica» che dal 1843 Considérant propugna nel giornale «Démocratie pacique». 81 Nel 1846 Cabet pubblicherà La vrai Christianisme suivant Jésus-Christ. 82 Cfr. anche la polemica del 1846 contro Kriege e il comunismo sentimentale e la battaglia condotta fra giugno e dicembre 1847 in seno alla Lega dei Comunisti per la modifica dello statuto e la rimozione dei riferimenti religiosi. 83 K. Marx, F. Engels, Die heiligie Familie. Kritik der kritischen Kritik. Gegen Bruno Bauer und Konsorten (1845, in MEW, II, pp. 7-223); trad. it. La sacra famiglia. Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, in Id, Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma 1972. Terminato nel novembre 1844, il testo fu pubblicato alla fine di febbraio 1845. In realtà al novembre 1842 risale il primo incontro fra i due, a Colonia, dove Engels era di passaggio per andare in Inghilterra (credendolo ancora vicino ai «Liberi», Marx gli riserva un’accoglienza fredda). Alla fine di agosto 1844 Engels percorre il viaggio a ritroso fermandosi a Parigi per incontrare i collaboratori del «Vorwärts!» e Marx in particolare, che lo attendeva dopo avere apprezzato i suoi interventi sugli Annali: La situazione dell’Inghilterra (recensione a Past and present di T. Carlyle) e soprattutto l’Abbozzo di critica dell’economia politica, che molti anni dopo Marx definirà «geniale» indicandolo come motivo di inizio del loro carteggio (Prefazione cit., p. 6). 84 Nei personaggi popolari dei Mystères de Paris Marx ritrova traccia delle questioni
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recensione per il «Gesellschaftspiegel» di un testo di Peuchet sul suicidio, in cui
è lodata la «superiorità» della critica francese della società, meritevole di
indagare, con impareggiata originalità e «un immediato calore di vita», «tutte le
zone e le forme delle relazioni odierne». 85 Nella capitale francese Marx
frequenta i circoli operai, le società segrete e la Lega dei giusti, animata da
immigrati e profughi tedeschi in gran parte artigiani.86 Il portato teorico di
questi incontri vissuti è efficacemente restituito in un passaggio dei Manoscritti
economico-filosofici: Quel movimento, che nel pensiero sappiamo già come tale che sopprime se stesso, nella realtà percorrerà un processo molto aspro e lungo. […] Quando operai comunisti si riuniscono, il loro scopo è innanzitutto la dottrina, la propaganda, ecc. Ma al tempo stesso acquistano con ciò un nuovo bisogno, il bisogno della società, e quel che appare un mezzo diventa uno scopo. Questo movimento pratico lo si vede nei suoi risultati più splendidi quando si osservano degli ouvriers socialisti francesi riuniti. Fumare, bere,
sociali che essi segnalano per svelare la ristrettezza della visione del mondo di Sue, animata, piuttosto che da una tensione «umana», dalla «brutalità cristiana» di una «ipocrisia religiosa» che serve a mascherare la completa sudditanza nei confronti del regime borghese: «il mezzo miracolo con il quale Rodolfo opera tutte le sue redenzioni e tutte le sue cure miracolose, non sono le sue belle parole, ma il suo denaro contante» (Marx, Engels, La sacra famiglia cit., p. 224). Questa polemica verso il riformismo filantropico, sentimentale e socialisteggiante di Eugène Sue tornerà all’indomani della rivoluzione del ’48 quando la sinistra lo sceglierà come candidato a Parigi. 85 Marx recensisce il capitolo LVIII dedicato al suicidio e le sue cause del testo di J. Peuchet Mémoires tirés des archives de la police de Paris, pour servir à l’histoire de la morale et de la police dépuis Louis XVI jusqu’à nos jours (6 voll. Levasseur, Paris 1838). «La critica francese della società possiede almeno in parte il grande pregio di aver riscontrato le contraddizioni e l’innaturalità della vita moderna non soltanto in rapporto alla situazione di classi particolari, ma in rapporto a tutte le zone e le forme delle relazioni odierne, e di averne parlato inoltre con un immediato calore di vita, una ricca visione del contenuto, una finezza da gente di mondo e un’audace originalità di spirito, quali invano si cercherebbero in ogni altra nazione. Si confrontino ad esempio le esposizioni critiche di Owen e Fourier, quando trattano della vita di relazione per farsi un’idea di tale superiorità dei francesi» (trad. it. in Marx-Engels, Opere, Editori Riuniti, vol. IV, Roma 1972, pp. 546). 86 Ancora nella lettera a Ruge del settembre 1843 Marx dichiarava l’atteggiamento con cui intendeva affrontare l’esperienza francese: «nulla ci impedisce quindi di collegare la nostra critica alla critica politica, alla partecipazione politica, perciò alla lotte reali, e di identificarle con esse» (in Annali franco-tedeschi cit., p. 80). Di qui l’immediata attenzione verso la realtà politica e sociale francese, verso il popolo e le sue lotte passate e presenti. La pionieristica e ancora oggi importante ricerca di Auguste Cornu sulla biografia umana e intellettuale di Marx, non ha dubbi nell’affermare l’importanza di questo primo incontro con la realtà sociale parigina: «il suo contatto diretto e attivo […] con la visione del nuovo mondo rivelatogli da Parigi, dettero un profondo e rapido impulso allo sviluppo del suo pensiero» (Marx e Engels cit., p. 582).
274
mangiare, etc. non sono ivi mezzi di unione o associativi: la società, l’unione, la conversazione, che la loro società ha per scopo, bastano loro, la fraternità umana non è una frase, ma la verità presso di loro, e la nobiltà dell’umanità ci splende incontro da quelle figure indurite dal lavoro.87
È a Parigi che Marx fa suo il tema dell’emancipazione operaia, esprime la
propria adesione politica al comunismo sull’onda di esperienze e motivi che qui
incontra e attraversa, come testimoniano le parole che nell’agosto 1844
indirizza a Feuerbach: Avrebbe dovuto assistere ad una delle assemblee degli ouvriers francesi, per poter credere alla freschezza virginale, alla nobiltà che promana da questi uomini induriti dal lavoro […] la storia prepara fra questi «barbari» della nostra società civilizzata l’elemento pratico dell’emancipazione dell’uomo.88
L’utilizzo della dicotomia barbarie/civilizzazione per parlare degli ouvriers
francesi richiama le strategie discorsive già osservate in seguito all’insurrezione
lionese nel discorso dei dottrinari, strategie che si è qui supposto cristallizzarsi
nel tornante 1831-32 e poi permanere nel dibattito pubblico fino alla rottura
quarantottesca. Come noto, il confronto di Marx con François Guizot non ha a
che fare solo con il decreto di espulsione che quest’ultimo, allora ministro degli
esteri, gli commina nel febbraio 1845 in seguito alle insistenze prussiane, e con
il riferimento al «quartetto» papa-zar-Metternich-Guizot che apre il
Manifesto. 89 Si tratta anche di un incontro teorico foriero di importanti
conseguenze. A Parigi Marx approfondisce i suoi studi sulla Rivoluzione,
progetta un testo sulla Convenzione, e abbozza il piano di uno scritto sullo
87 K. Marx, Ökonomisch-philosophischen Manuskripte aus dem Jahre 1844 (1844P, 1932, in MEW, XL, pp. 465-567); trad. it. di G. della Volpe Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili Editori Riuniti, Roma 19632, p. 148, pp. 242-243. 88 Lettera di Marx a Feuerbach dell’11 agosto 1844 (in MEW, XXVII, pp. 425-428); trad. it. in Marx-Engels, Opere, vol. III cit., p. 385 (corsivi miei). «Anche il proletariato inglese fa progressi giganteschi, ma gli manca quel carattere aperto alla cultura dei francesi. Ma non mi è lecito dimenticare di sottolineare i meriti teorici degli artigiani tedeschi in Svizzera, a Londra e Parigi. Solo che l’artigiano tedesco è ancora troppo artigiano» (ibid.). 89 Cfr. supra l’introduzione al Secondo capitolo. In seguito alla pubblicazione degli Annali il governo prussiano aveva cominciato a premere su Guizot perchè espellesse i redattori dal territorio francese.
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Stato costruito su mezzo secolo di storia francese immergendosi nella lettura
dei testi di Thierry, Mignet, Thiers, Guizot,90 verso cui matura un debito che
egli stesso non esiterà a dichiarare in una nota lettera del 1852 a Joseph
Weydemeyer, ove, contestando le posture di alcuni democratici scrive:
Costoro farebbero meglio a prendere conoscenza della letteratura borghese prima di abbaiare contro chi ne è l’antagonista. Questi signori per esempio dovrebbero studiare le opere storiche di Thierry, Guizot, John Wade ecc., per informarsi sulla passata «storia delle classi». […] non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi […]. Quando le opinioni che noi oggi diffondiamo a proposito delle classi, saranno diventate banali, quel villano [Heinzen] le proclamerà con grande fracasso.91
Si notino in proposito le parole che Guizot spendeva tre anni prima a
commento della recente vicenda rivoluzionaria: «quando si sarà definitivamente
ben riconosciuto e ammesso che le classi diverse che esistono fra noi, e i partiti
politici che gli corrispondono, sono degli elementi naturali profondi della
società francese, si sarà fatto un grande passo».92 D’altra parte nei corsi
guizotiani sulla civilisation troviamo più di una formula che ai nostri orecchi
evoca immediatamente il materialismo storico di Marx: «una società non si
dissolve che perché una nuova società fermenta e si forma nel suo seno».93
90 Cfr. C. Mazauric, Histoire de la Révolution française et la pensée marxiste, PUF, Actuel Marx Confrontation, Paris 2009. L’indice dello scritto sullo Stato comincia con un capitolo titolato Storia della nascita dello Stato moderno ovvero la Rivoluzione francese, prosegue con La proclamazione dei diritti dell’uomo e la Costituzione dello Stato, e poi ancora Lo Stato rappresentativo e la Charte (trad. it. in Marx-Engels, Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 658). 91 Lettera di Marx (da Londra) a Wyedemeyer (a New York) del 5 marzo 1852 (in MEW, XXVII, pp. 510-512), trad. it in Marx-Engels, Opere, vol. XXXIX lettere 1852-1855, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 535-536 e 537. 92 Guizot, De la démocratie en France cit., p. 97. 93 Guizot, Histoire de la civilisation en France, tome I cit., p. 251. Nel primo libro del Capitale Marx sosterrà che «una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dar corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza» (K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie [1867, in MEW il libro primo è il Band XXIII]; trad.it. di D. Cantimori, Il capitale Libro primo, introduzione di
276
Poiché l’accostamento che la presente ricerca propone fra questi due autori non
ha lo scopo di misurare forme e dimensioni dell’«influenza» che i lavori storici
del primo hanno esercitato sulla formazione della concezione classista del
secondo, non intrattengo ulteriormente il lettore su alcune clamorose
prossimità,94 rimandando alla consistente letteratura marxiana sul tema, dai
lavori di Plekhanov 95 fino al citato testo in cui Dardot e Laval parlano
addirittura di un «quasi plagio» che Marx ed Engels operano nelle prime righe
del Manifesto costretti dalle urgenze della lotta.96 Si tratta di un libro – Marx,
prénom: Karl – teso a leggere l’opera marxiana analizzando la tensione che in
«ogni testo» si instaura fra l’oggettivismo della logique du capital da una parte
e la logique stratégique de l’affrontement della guerra di classe dall’altra:
rispetto a questa seconda «logica» – su cui, è bene chiarirlo, la presente
indagine su un Marx «politico» e pre-quarantottesco si concentra – Dardot e
Laval lavorano a svelare il decisivo ruolo svolto da Thierry e Guizot, e, poi, da
Saint-Simon e i suoi discepoli, «traghettatori» verso il socialismo della
M. Dobb, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 958) 94 È certo degna di nota la clamorosa prossimità fra alcune formulazioni di Guizot nella settima lezione della storia della civilizzazione europea analizzata nel precedente capitolo, e certi passaggi dell’Ideologia tedesca o del Manifesto. Non rileva tuttavia misurare tali prossimità ai fini della presente indagine, che si propone invece di valutare la «compatibilità» delle ipotesi che, a partire dall’analisi del frammento di storia francese 1831-32, ho avanzato sul significato e le forme dell’emergere storico del concetto di classe operaia rispetto al modo in cui due autori sembrano «adoperare» il concetto di concetto di classe per analizzare la società e la vicenda storica francese. 95 G. Plekhanov, Les premières phases d'une théorie: la lutte des classes, Id. Essai sur le développement de la conception moniste de l’histoire, e Id. Les historiens français de la Restauration in Id. Oeuvres philosophiques, tomi I e II, éditions du progrès, Paris 1974. Sul tema si veda anche R. Fossaert, La théorie des classes chez Guizot et Thierry, in «La Pensée», gennaio-febbraio1955, B. Reizov, L’Historiographie romantique française 1815- 1830. In ambito italiano si segnala in particolare il lavoro di L. Dal Pane, Intorno alle origini del materialismo storico, in «Giornale degli economisti e anali di economia», 1, 1939, (1. Stein e Marx e 2. Considerant e Marx, pp. 424-444, e 3. La dottrina della lotta delle classi, pp. 874-885), e 3, 1941 (4. La concezione storica di Agustin Thierry pp. 71-83), E. Cantimori Mezzomonti, Introduzione a K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Einaudi, Torino 1948. 96 Dardot, Laval, Marx, prénom: Karl cit., p. 229. «Un testo di battaglia, e il Manifesto è tale, riunisce un fascio di fatti, di formule e di idee destinate a rafforzare il carattere performativo della sua enunciazione stessa» (p. 57). All’inizio del testo viene indicato il modo in cui il termine «plagio» deve essere inteso: «non siamo nel registro della proprietà ma in quello della trasformazione. Questo lavoro di produzione, assimilazione, e di trasformazione, è anche quello della produzione di un soggetto. Altrimenti detto, bisogna anche pensare questo processo di scrittura come un processo di soggettivazione» (p. 30).
277
problematica degli storici liberali97 (nel 1844 Marx legge anche l’Exposition
della dottrina sansimoniana).98 È bene infine ricordare che il concetto marxiano
di «classe» prende forma in questo primo soggiorno parigino da un’intersezione
fra la nozione storico-giuridica hegeliana di Stände, quella storico-politica
guizotiana di classes e le class mutate dall’analisi economica di Smith e
Ricardo,99 secondo traiettorie efficacemente restituite da Tullio de Mauro in
uno studio che mostra la rivoluzione semantica indotta da tale snodo nella
«vita» di questa parola in tutta Europa.100
Termino qui questo sommario tentativo di restituire alcune coordinate di
quello che ho chiamato il momento francese del 1844 per usarlo come
«piattaforma girevole» nell’osservare forme e movimento della costellazione
linguistico-concettuale dispiegata lungo la traiettoria popolo-classe-proletariato-
operai nella riflessione di Marx e nel suo, eventuale, discorso di verità del
politico. Il prossimo paragrafo intende dunque indagare, a partire 97 Ivi, p. 238. «Non è incongruo considerare Marx in persona come uno dei discepoli più compiuti del maestro» Saint-Simon (p. 45), scrivono Dardot e Laval sottolineando come Marx abbia attinto dalla teoria sansimoniana alcuni enunciati decisivi inerenti la teoria della storia e della società per poi non abbandonarli mai più (sul debito teorico di Marx nei confronti di Saint-Simon e dei suoi discepoli cfr. in part. pp. 43-62 e 238-241). 98 O almeno, nella biblioteca parigina di Marx era presente copia della citata Exposition de la Doctrine de Saint-Simon nella terza edizione del 1831. 99 De Mauro, Storia e analisi semantica di ‘classe’ cit., pp. 216, 219-223: «quando Marx, dopo gli anni del giovane hegelismo, conclusosi (o maturatosi) nel ’43 […], abbandonata la Germania si recò a Parigi, nel cuore intellettuale e politico dell’Europa, la sinonimia tra Klasse e Stand non determinò, ma certo favorì il processo di unificazione fra le idee hegeliane sullo Stand, che dominavano la sua mente, le idee degli economisti e le idee sulle classes sociales esposte dagli storici e dai rivoluzionari francesi. […] Gli Stände hegeliani erano realtà storiche e giuridiche; le classes di Guizot erano realtà storiche e politiche: a questi concetti Marx cercò di dare rigore scientifico: l’analisi economica di Quesnay, di Smith, e soprattutto di Ricardo gli si offerse come lo strumento per guadagnare questo rigore […] Questo è certamente uno dei motivi per cui Marx, pur attribuendo alle classi la stessa realtà che avevano gli Stände hegeliani, e pur negando esplicitamente che esse potessero essere concepite come classi funzionali alla maniera degli economisti, preferì parlare non di Stand ma di Klasse […]. D’altro canto egli, pur usando talvolta Klasse nella accezione funzionale, legò al termine le possibilità sintagmatiche di Stand, consolidando così gli usi già apparsi in Guizot: la classe nasce e cresce, prende coscienza di sè, crea ed utilizza la ricchezza o ne defrauda altre classi, vinte e sottomesse, avanza e vince, domina. Nel Capitale, come noto, manca una precisa definizione della ‘classe’, ma dall’uso che Marx fece del termine è sufficientemente chiaro che egli la concepì come una consapevole realtà i cui membri sono legati dalla coscienza di un fine comune, il potere politico». 100 «Con la diffusione dei testi marxiani, la nuova accezione, storica e politica, di classe si è diffusa e stabilita in tutte le lingue d’Europa: essa, da fatto linguistico individuale, frutto d’un particolare modo d’assumere ai fini espressivi un patrimonio dato, è divenuta un fatto di lingua, funzionalità stabilmente connessa a una parola di cui tutti ci serviamo indipendentemente da ogni distinzione intellettuale e politica» (Ivi, p. 224).
278
dall’interpretazione marxiana dell’insurrezione lionese, posizione reciproca e
significato di tali categorie prima e durante questo «momento», analizzando in
particolare il processo di sostituzione della nozione di popolo con quella di
proletariato, la funzione che in essa svolge il concetto di classe e la forma con
cui quest’ultimo interviene in prima battuta nell’itinerario marxiano. Il
paragrafo successivo cercherà di sondare la possibilità di osservare, a partire dal
1844, l’operatività di un discorso di verità del politico nella riflessione
marxiana per farne la lente attraverso cui, successivamente, analizzare i testi sul
quarantotto francese.
3.3 Bürgherliche Gesellschaft
Nel 1834 lo «storico ufficiale» delle insurrezioni lionesi – Monfalcon –101
lamentava il «malessere dei tempi» per dire come la questione da industriale
fosse divenuta politica: l’insurrezione di Lione del novembre 1831 e quella appena conclusa, non sono due avvenimenti isolati […] sono due parti di un medesimo fatto. Ma durante i trenta mesi di intervallo tra l’una e l’altra, la questione non si è presentata sotto lo stesso volto. All’inizio puramente industriale, essa è divenuta poco a poco industriale e politica, e il malessere dei tempi ha voluto che essa prendesse infine pressoché esclusivamente il carattere di un affare di partito.102
La disposizione della relazione fra questioni politiche e sociali nell’ordine
del discorso dei tessitori lionesi è la griglia che dieci anni dopo anche Marx
adotta per interpretare le révoltes des canuts:
101 Così lo definisce Riot-Sarcey (Le réel de l’utopie cit., p. 183). 102 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 1.
279
Quanto più evoluto e generale è l’intelletto politico di un popolo, tanto più il proletariato – almeno all’inizio del movimento – consuma le sue forze in insensate, inutili sommosse soffocate nel sangue. […] Gli operai di Lione credevano di perseguire unicamente scopi politici, di essere soltanto i soldati della repubblica, mentre in verità erano soldati del socialismo. Così il loro intelletto politico rese loro oscure le radici della miseria sociale, così esso falsò la loro conoscenza dei loro scopi reali, così il loro intelletto politico ingannò il loro istinto sociale.103
La lettura si riferisce agli esiti complessivi delle due insurrezioni,104 ma ciò
che interessa qui evidenziare è che in essa ritroviamo intatti gli elementi finora
mobilitati per svolgere l’analisi delle strategie discorsive attivate intorno
all’avvenimento del 1831. Ritroviamo un accostamento delle nozioni di popolo
e proletariato istruita utilizzando come prisma il politico – la contrapposizione
fra «intelletto politico» e «istinto sociale». Rimando al prossimo paragrafo
l’indagine di questo secondo elemento, e procedo a osservare significato e
relazione reciproca dei concetti di popolo e proletariato in questo segmento
della riflessione marxiana, o meglio il processo attraverso cui l’irruzione del
secondo determina la brusca elisione del primo, e – come nell’ordine dei
discorsi politici già considerati – il ruolo che in esso svolge la «mediazione»
affidata alla nozione di classe.
103 Marx, Glosse critiche cit., pp. 221-222. 104 L’insurrezione lionese del 1834 è legata in maniera diretta e lineare al percorso associativo che ha animato quella del 1831, essa tuttavia ha la propria scintilla in una legge nazionale sulle associazioni, e vede quindi una naturale saldatura con la lotta propriamente politica portata avanti dai repubblicani. La rivolta del 1834 inoltre si estende a Parigi, ove si conclude con un drammatico massacro degli insorti e dà vita a un processo che avrà grande eco, soprattutto per il duro trattamento riservato – a differenza del 1831 – agli imputati. Su questa seconda insurrezione lionese cfr. in part. R. J. Bezucha, The Lyon uprising of 1834. Social and political conflict in the Early July Monarchy, Harvard University Press, Cambridge 1974, studio che lavora a mettere in discussione – a partire da un’indagine delle continuità che segnano l’industria tessile di Lione dalla fine dell’Ancien régime agli anni 1830 – la classica partizione fra rivolta industriale del 1831 e rivolta politica del 1834, ricostruendo la genesi di quest’ultima all’interno di un’indagine particolarmente attenta alle concrete forme del tessuto produttivo e del mondo del lavoro lionese, la tesi è che «complessivamente, l'insurrezione di Lione del 1834 può essere vista come un punto di riferimento nello sviluppo della violenza collettiva […], la concentrazione protoindustriale e la cosciente organizzazione della comunità dei lavoratori lionesi rivelano che questa è stata la prima insurrezione moderna nella storia europea» (p. ix). Dello stesso autore si veda anche The Revolution of 1830 and the City of Lyon, in Merriman, 1830 in France cit. e The French Revolution of 1848 and the Social History of Work, in «Theory and Society», 12, 4, luglio 1983.
280
Sebbene il popolo non svolga alcun ruolo concettualmente rilevante nel
pensiero di Marx complessivamente considerato,105 esso non è tuttavia affatto
assente né marginale in tutta una prima fase della sua opera, appunto, fino al
1844. «La libertà di stampa […] rappresent[a] la voce schietta, l’immagine
palese dello spirito storico del popolo»:106 le parole che Marx utilizza nel
proprio esordio da giornalista del maggio 1842 segnano il punto di partenza, un
concetto di Volk cui gli scritti di questi mesi consegnano un ruolo assolutamente
centrale, assumendolo hegelianamente in una dimensione unitaria, organica,
olistica, corpo collettivo portatore di propria razionalità, eticità e volontà,
soggettività nazionale produttrice di cultura, una «comunità storica» che
«esprime nella stampa il suo spirito».107 Si è già fatto cenno alla soppressione
della «Gazzetta renana» nel febbraio 1843: Marx si ritira allora a Kreuznach,
immergendosi in letture di carattere eminentemente storico-politico, da
105 Ed è anzi vero che questo autore contribuisce in maniera importante a mettere in discussione il peso e il significato che tale categoria era andata acquistando nel pensiero dell’Ottocento. Basti qui notare che tra i dizionari marxiani da me consultati il lemma popolo (Volk, peuple, people) è presente solo in F. Papi (dir.), Dizionario Marx-Engels (Zanichelli, Bologna 1983) e in W. Buchenberg, Karl-Marx-Lexikon (VWF, Berlin 2009). E non si trova invece in: A. Barjonet, Vocabolario dei termini marxisti (Coines, Roma 1974); T. Bottomore, A dictionary of marxist thought (Blackwell, London 1983); G. Duménil, M. Löwy, E. Renault, Les 100 mots du marxisme (PUF, Paris 2009), W-F. Haug (dir.), Historisch-Kritisches Wörterbuch des Marxismus (Argument Verlag, Hamburg 2001, ma l’opera arriva solo alla lettera J); G. Labica (dir.), Dictionnaire critique du marxisme (PUF, Paris 1982); E. Mascitelli (a cura di), Dizionario dei termini marxisti (Vangelista, Milano 1977); E. Renault, Le vocabulaire de Marx (Ellipses, Paris 2001); J. Russel, Marx-Engels dictionary (Greenwood, Westport 1980). Come contributi specifici sul tema posso poi segnalare soltanto gli articoli J. Gertler, Zur Bedeutung der Kategorien Volk und Nation in den frühen Schriften von Karl Marx und Friedrich Engels, in «Forschungen zur osteuropäischen Geschichte», 20, 1973, e P. Chaskiel, De Rousseau à Marx: les métamorphoses du peuple, in «Hermés», 42, 2005. 106 K. Marx, Debatten über Preßfreiheit und Publikation der Landständischen Verhandlungen (1842, MEW I, pp. 28-77); trad.it. Dibattiti sulla libertà di stampa e sulla pubblicazione delle discussioni alla Dieta, in Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Einaudi, Torino 1975, pp. 84 e 108. Nel 1841, dopo il periodo berlinese, Marx è rientrato in Renania, e qui si muove fra Treviri, Bonn e Colonia. 107 Ivi, p. 84. In queste espressioni sarebbe lecito riconoscere l’influenza della Scuola storica del diritto di Friedrich Carl von Savigny, i cui corsi Marx aveva seguito a Berlino e le cui tracce passeggere si riconoscono nella lettera al padre del 10 novembre 1837. Si deve tuttavia ricordare l’ostilità già maturata da Marx nei confronti di questa scuola, sancita poi dall’articolo contro Gustav Hugo pubblicato il 9 agosto 1842 (Das philosopihsche Manifest der historischen Rechtsschule, MEW I, pp. 109-147; trad. it. Il manifesto della scuola storica del diritto, in Scritti politici giovanili cit., pp. 157-169). In questo testo compare già una sorta di anticipazione dello schema della triarchia europea che segna tutta la riflessione marxiana degli anni Quaranta: «la filosofia di Kant è da considerare la teoria tedesca della Rivoluzione francese» (p. 162).
281
Machiavelli a Montesquieu a Rousseau. 108 Se ne avvertono gli echi nel
manoscritto Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (redatto
nell’estate 1843 ma rimasto inedito fino al 1927)109 che, in tutta l’opera
marxiana, rappresenta il momento in cui più ampio spazio viene dedicato al
discorso sul popolo e sul suo rapporto con il diritto e lo Stato.110 Esso presenta
una riflessione sul concetto di sovranità popolare (Volkssouveränität) e dispiega
lo sforzo di pensare il nesso fra popolo e costituzione politica (politische
Verfassung) intorno all’idea di una democrazia radicale e non rappresentativa.
Contrapponendo alla critica hegeliana del concetto rousseauviano di sovranità
108 Gli appunti di questi mesi riguardano in particolare: Il contratto sociale di Rousseau, Lo spirito delle leggi di Montesquieu, I discorsi di Machiavelli e diverse opere storiche inerenti la Rivoluzione francese (Marx si reca a Kreuznach per raggiungere la fidanzata Jenny che a breve sposerà). Sui Quaderni di Kreuznach cfr. E. Screpanti, Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843), Collana del dipartimento di economia politica, Siena 2011, pp. 99-144. 109 Si tratta di una dettagliata analisi dei §§261-313 dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel inerenti lo Stato; 131 fogli di manoscritto di cui probabilmente sono andati persi i primi quattro sui §§257-260 che costituivano l’inizio della trattazione hegeliana su Lo Stato, della quale Marx svolge anzitutto una critica filosofica alla logica che la presiede. L’essenza della critica marxiana riguarda la «sostantificazione» dell’idea – l’«ipostasi» secondo la terminologia dellavolpiana: il procedimento che considera la realtà, il soggetto reale, come determinazione (Bestimmung), predicato, prodotto dell’idea astratta. Così la «razionalità del reale» altro non è che la sua possibilità d’esser dissolto in elementi logico-astratti: Hegel non indaga la «logica del corpo politico», ma vuole piuttosto dimostrare la propria logica attraverso il corpo politico, dare «alla sua logica un corpo politico» (p. 28). Tale inversione (Umkehrung) di soggetto e predicato, di reale e astratto, non è tuttavia priva di importanti conseguenze politiche, conducendo ad assumere lo stato presente delle cose come la verità dell’idea. Dopo la prima pubblicazione del manoscritto nel 1927, si dovrà attendere il 1950 per la prima traduzione italiana, ad opera di Galvano della Volpe. Questo studioso e la sua «scuola» lavoreranno poi al riconoscimento di un importante rilievo di questa Critica nella biografia intellettuale marxiana, indicandovi il punto di definitiva rottura con la filosofia hegeliana e l’apertura di alcune tematiche destinate a segnare tutta l’opera di Marx. L’affermazione della scientificità del marxismo, le categorie di «ipostasi» e di «astrazione determinata» segnano il lavoro di della Volpe e dei suoi allievi, fra i quali si deve citare Lucio Colletti (fra i testi di della Volpe cfr. La libertà comunista del 1946, La logica come scienza storica del 1950 e Rousseau e Marx del 1957). Su questa fase dell’opera marxiana si vedano, in ambito italiano, anche i più recenti lavori di F. S. Trincia e R. Finelli, in particolare Critica del soggetto e aporie dell’alienazione. Saggi sulla filosofia del giovane Marx (1982). 110 Si può averne un’idea, per il periodo 1842-51, con un colpo d’occhio sulla voce Volk nel lessico che R. Guastini propone in appendice a Marx: dalla filosofia del diritto alla scienza della società. Il lessico giuridico marxiano (1842-1851), Il Mulino, Bologna 1974, pp. 521-522. Guastini sottolinea come nella lettura di Marx il diritto pubblico hegeliano «ha necessariamente il risultato che acriticamente viene assunta un’empirica esistenza come la reale verità dell’idea» (p. 51), si tratta cioè della «struttura logica di un’ideologia politica» (p. 148): è il conservatorismo che per Marx segna tutta la concezione hegeliana del diritto e dello Stato ed è sintetizzato nell’apologia della costituzione cetuale fondata sulla centralità politica della proprietà fondiaria tramandata secondo il principio del maggiorasco.
282
popolare,111 il discorso democratico della volontà generale, Marx afferma che il
popolo è il dato reale esistente che precede lo stesso concetto di Stato, e che
deve dunque essere inteso come il fondamento della costituzione e del potere
legislativo: «come non è la religione che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea la
religione, così non la costituzione crea il popolo, ma il popolo la
costituzione».112 È all’altezza del rapporto fra popolo e sovranità, fra popolo e
poteri dello Stato che Marx si sforza di svelare le incongruenze dello
Staatsrecht hegeliano e di porre il Volk al centro della politische Verfassung.
Questo popolo, fondamento reale della sovranità statuale, è protagonista della
politica e soggetto delle trasformazioni storiche, come mostra la riflessione
sulla Rivoluzione francese svolta nella Questione ebraica (il primo dei due
scritti di Marx per gli Annali): la Dichiarazione del 1791 è il proclama di un
«popolo» che «inizia appena a liberarsi, ad abbattere tutte le barriere tra i
differenti membri del popolo».113 Si tratta di un concetto inteso come figura
della totalità, un «popolo-genere» espressione della «specie umana», corpo
omogeneo latore dell’interesse pubblico, agente collettivo dotato di propria
razionalità e volontà. Screpanti parla di un «popolo quale soggetto olistico
potenzialmente razionale della politica […] corpo collettivo portatore di
un’eticità»,114 Abensour lo definisce un «demos totale» di origine metafisica.115
111 «Il popolo, considerato senza il suo monarca e senza l’organizzazione necessariamente e immediatamente connettiva della totalità, è la moltitudine informe», rimane solo un’«astrazione indeterminata», G. W. F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821); trad. it. di F. Messineo Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1972, pp. 279-280. 112 Marx, Opere filosofiche giovanili, p. 41. «È necessario che […] il reale sostegno della costituzione, il popolo, diventi il principio della costituzione. […] Il potere legislativo ha fatto […] le grandi rivoluzioni organiche generali […] precisamente perché il potere legislativo è stato il rappresentante del popolo, della volontà generale» (pp. 69-70). 113 K. Marx, Zur Judenfrage (1844, in MEW I, pp. 347-377); trad. it. di M. Tomba in B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, manifestolibri, Roma 2004, p. 195. Zur Judenfrage è il titolo con cui furono pubblicate sui «Deutsch-französische Jarbücher» le recensioni di Marx a due scritti di Bruno Bauer che criticavano l’emancipazione ebraica in quanto legittimazione politica di interessi religiosi particolari. Sulla polemica contro le posizioni di Bauer e del suo circolo Marx ritorna diffusamente sia nella Sacra famiglia che nell’Ideologia tedesca. Allievo di Hegel e animatore dei Giovani hegeliani a Berlino, Bauer viene prima trasferito a Bonn e poi destituito dall’insegnamento accademico per le sue posizioni di critica religiosa. Marx lo frequenta e ne viene influenzato durante il periodo berlinese, ma matura la rottura con il suo circolo dei «Liberi» già nel 1842 (cfr. le lettere del novembre-dicembre di Meyen e Bauer a Marx, i due si frequenteranno ancora a Londra nell’inverno 1855-56). 114 E. Screpanti, Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843), Collana del
283
Gareth Stedman Jones fa riferimento di costruire intorno ad esso la
combinazione fra umanesimo feuerbachiano e socialismo francese. Così
l’attenzione tributata nella Kritik al tema della proprietà privata segnalerebbe il
peso della lettura del Proudhon del Qu’est-ce que la propriété e di scritti di
Pierre Leroux e Victor Considerant. E nell’analisi che la Judenfrage propone
della Rivoluzione francese sarebbe poi possibile trovare traccia
dell’interpretazione di Louis Blanc, che nell’Organisation du travail la leggeva
come processo di edificazione di una società ad immagine e somiglianza della
borghesia.116
Se la riflessione del 1843 è dunque significativamente segnata dal
riferimento a un concetto di popolo che Marx pare aver mutuato da una parte
dal linguaggio hegeliano, e dall’altra dal pensiero politico democratico, è però
vero che questo tornante registra uno dei suoi esiti più importanti nel fatto di
sancire il «primato» della nozione di società civile, che, come figura forte della
totalità, si pone di fronte a quella di popolo producendone un primo
svuotamento di valore costitutivo. Tale spostamento si determina in forza di ciò
che si suole chiamare la fase marxiana di «critica della politica» per indicare il
combinato teorico di Kritik e Judenfrage,117 che – nel ribaltamento dell’edificio
giuridico-politico hegeliano e nell’analisi degli esiti della grande Rivoluzione –
determina la centralità del concetto di bürgherliche Gesellschaft.118 La critica
marxiana della politica prende infatti piede dallo sforzo di svelare il carattere
dipartimento di economia politica, Siena 2011, pp. 60 e 63. 115 M. Abensour, La Démocratie contre l’État. Marx et le moment machiavélien (2004); trad. it. La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, Cronopio, Napoli 2008, p. 137. 116 G. Stedman Jones, Introduction a K. Marx, F. Engels, The Communist Manifesto, Penguin, London 2002, pp. 110 sgg. 117 Su questa fase del pensiero marxiano in quanto peculiare riflessione sulla politica, il riferimento è anzitutto a É. Balibar, C. Luporini, A. Tosel, Marx et sa critique de la politique (Maspero, Paris 1979). Un’efficace rassegna delle interpretazioni di questa fase marxiana accompagnata da orginali tesi sulle sue connotazioni anarchiche è B. Bongiovanni, L’universale pregiudizio. Le interpretazioni della critica marxiana della politica (la salamandra, Milano 1981). 118 La traduzione letterale è «società borghese», tuttavia bürgherliche Gesellschaft ha qui ancora un significato del tutto analogo al modo in cui viene usato da Hegel, come ambito specificamente moderno separato dallo Stato: è giusto perciò tradurlo e intenderlo come «società civile».
284
illusorio della Vermittlung, della, con Carlo Galli, «mediazione teologico-
politica hegeliana»,119 vale a dire la frattura fra Idea e realtà storica esattamente
all’altezza dell’architrave su cui era poggiato tutto lo Staatsrecht hegeliano, il
rapporto fra Stato e società civile: mostrando cioè che «lo Stato non risiede
nella, ma fuori della società civile» e i due ambiti appaiono spesso come
«armate nemiche».120 Attraverso la messa in opera dei dispositivi di critica
della religione – mutuati non solo dal Feuerbach di L’essenza del cristianesimo
(1841) e delle Tesi provvisorie per la riforma della filosofia (1843), ma anche
dalle letture spinoziane del periodo berlinese –121 l’unità dialettica della sintesi
hegeliana non è solamente confutata, ma rovesciata nei suoi termini costitutivi,
svelando un’asimmetria radicale in cui la società civile, l’ambito dei bisogni
privati e del mercato, determina e sovraordina la dimensione della vita politica
statuale, ponendosi come suo presupposto e fondamento ultimo: non è il
«cittadino» dello Stato politico ma l’uomo della società civile il vero latore dei
predicati, la «realtà» che precede l’«idea». L’uomo concreto per farsi soggetto
della politica deve operare una scissione, spogliarsi di tutte le determinazioni
sociali concrete e proiettarsi nella figura astratta del citoyen, «membro
immaginario di una sovranità fantastica».122 La Kritik svela dunque, nel citoyen,
la dimensione politica fondata dalla sovranità statuale moderna come forma di
119 C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna 20102, p. 35. 120 Marx, Opere filosofiche giovanili cit., pp. 62-63: «il più profondo in Hegel è che egli sente come una contraddizione la separazione di società civile e società politica. Ma il falso in lui è ch’egli si appaga dell’apparenza di questa soluzione e la spaccia per la cosa stessa» (p. 87). 121 Sul rapporto di Marx a Spinoza cfr. «Cahiers Spinoza», I, 1977 (in particolare gli interventi di Rubel, Marx à la rencontre de Spinoza, e di Matheron, Le Traité Théologico-Politique vu par le jeune Marx), Abensour, La democrazia contro lo Stato cit. e l’Introduzione di B. Bongiovanni a K. Marx, Quaderno Spinoza 1841, Bollati Boringhieri, Torino 1987. Gli appunti spinoziani del giovane Marx consistono in un vero e proprio «montaggio» di 160 estratti dal Tractatus, che ne sconvolge l’ordine, depurandone alcuni aspetti e valorizzandone altri fino a far intuire il tentativo di adattare il testo spinoziano all’attualità del suo tempo. L’influenza di Spinoza emerge soprattutto nella critica della religione, fondamentale dispositivo motore del pensiero di Marx, e, nella Kritik si manifesta nella proposta di una democrazia non rappresentativa che si dilata fino a dissolvere lo Stato. Sui Quaderni di Berlino e il loro rilievo nella biografia intellettuale marxiana cfr. Screpanti, Marx dalla totalità alla moltitudine cit., pp. 33-56. 122 Marx, La questione ebraica cit., p. 184. Nella kritik la condizione del cittadino veniva definita «vita aerea […] eterea regine della società civile» (Opere filosofiche giovanili cit., p. 93).
285
alienazione: la Judenfrage prosegue tale lavoro conducendo la critica fin dentro
la società civile, il «luogo» in cui l’uomo, politicamente libero, effettivamente
vive, e indagandone la realtà concreta, quella del bourgeois, per indicare
l’orizzonte della emancipazione umana. Vengono qui analizzati esiti e
significati della grande Rivoluzione per mostrare come l’homme delle
Dichiarazioni del 1791 e del 1793 non sia altro che il membro della società
civile, i cui diritti alla libertà, alla proprietà, all’uguaglianza, alla sicurezza si
riassumono nel diritto a godere liberamente della proprietà privata: «non
l’uomo come citoyen, bensì l’uomo come bourgeois viene considerato l’uomo
vero e proprio. […] la vita politica si dimostra essere un puro mezzo, il cui
scopo è la vita della società civile».123
Con un movimento che allo stesso tempo si colloca nel solco e indica la
direzione di un mutamento di paradigma caratteristico del suo secolo – e di cui
egli stesso sottolineerà nel 1859 il rilievo nella propria biografia intellettuale –124 Marx chiama da ora il concetto di bürgherliche Gesellschaft a svolgere un
ruolo sempre più cruciale, sottoponendolo anche a un processo di dilatazione
che gli farà progressivamente perdere, esplicitamente o implicitamente, il
connotato civile/borghese. Jürgen Habermas conferisce a questo passaggio del
1843 un rilievo tale da andare a determinare «d’ora innanzi l’interpretazione
che la filosofia della prassi offre della modernità» intorno alla prospettiva di
un’«autorganizzazione della società che supera la scissione fra l’uomo pubblico
e quello privato».125 È dunque in prima battuta come figura della totalità che il
123 Marx, La questione ebraica cit., pp. 193-196: sono i diritti dell’uomo egoista che trascorre la sua vita materiale nella moderna società civile, «principio realizzato dell’individualismo». 124 Nella prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859, tornando sulla Kritik del 1843, Marx scrive: «la mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di ‘società civile’; e che l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica» (K. Marx, Vorwort a Zur Kritik der Politischen Ökonomie (1859, MEW XIII, pp. 7-11), trad. it. Prefazione a Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 19713, pp. 4-5). 125 J. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesugen (1985); trad. it. Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 54. La tesi è che, avendo Hegel fondato il problema della modernità in quanto epoca che per prima si
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concetto di popolo viene, ancorché solo implicitamente, svuotato di valore
costitutivo di fronte a quello di società civile – all’interno del quale potrà agire
l’elemento parziale delle classi. Si è visto come il bourgeois, l’uomo reale, il
vero latore dei predicati sia infatti il membro della società civile; si potrebbe
allora sostenere che la sua astratta rappresentazione nella figura del citoyen sia
il membro del popolo, che si mostra ora come concetto soltanto politico, opaca
rappresentazione del primo ambito di cui è però incapace di restituire
l’intrinseca pluralità e complessità. È importante sottolineare il ruolo che in
proposito può aver giocato il punto di vista elaborato da Lorenz von Stein in
una ricerca del 1842 sul socialismo francese che ebbe grande eco nella sinistra
tedesca, e la morfologia delle cui categorie appare, nonostante la differente
prospettiva, più simile a quella marxiana rispetto alla concettualità, per così
dire, «misticheggiante» o «soltanto politica» di alcuni socialisti francesi o del
discorso repubblicano-sociale indagato nel primo capitolo.126 All’interno di
quest’ultimo ho cercato di evidenziare anche la tensione fra tutto e parte che
costituisce la nozione stessa di popolo: tensione che è momento decisivo di
tutto il pensiero marxiano, lo scuote e ne determina numerosi spostamenti, ivi
compreso quello che ora pare «esternalizzarla» dal popolo verso la polarità
società-classi. Secondo un movimento restituito in modo particolarmente
efficace in questo passaggio della Einleitung del 1844 – l’Introduzione alla
Critica della filosofia del diritto di Hegel, il secondo pezzo scritto a Parigi per
gli Jahrbücher:
concepisce come tale e pone la questione dell’autoaccertamento della propria normatività, oggi «noi persistiamo ancora in quella condizione di coscienza che i giovani hegeliani hanno prodotto quando si distanziarono da Hegel» (ibid.). La prospettiva marxiana di ricomporre Stato e società civile riproporrebbe l’idea di una totalità etica fondata «piuttosto nella prassi del soggetto produttore che nella riflessione di un soggetto conoscente» (p. 65). Con «filosofia della prassi» Habermas intende non soltanto tutte «le diverse versioni del marxismo occidentale […], bensì anche le varietà radicaldemocratiche del pragmatismo americano (G.H. Meade, J. Dewey) e della filosofia analitica (Ch. Taylor)» (p. 64 n.1). 126 Grande influenza ebbe su Marx e altri pensatori della sinistra tedesca la pubblicazione alla fine del 1842 del libro di Lorenz von Stein Sozialismus und Communismus des heutigen Frankreich (Socialismo e comunismo nella Francia contemporanea), che esprimeva, fra l’altro, la concezione del proletariato come prodotto storico della società moderna. Sulla ricezione di quest’opera in Germania dopo la sua pubblicazione, ma anche per una corposa rassegna delle interpretazioni del rapporto fra il pensiero di Stein e quello di Marx cfr. F. De Sanctis, Crisi e scienza. Lorenz Stein alle origini della scienza sociale, Jovene, Napoli 1976.
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In Francia ogni classe del popolo è politicamente idealista. […] la funzione di emancipatore passa dunque successivamente […] alle differenti classi del popolo. In Germania, invece, […] nessuna classe della società civile ha il bisogno e la capacità dell’emancipazione universale, finché non sia obbligata dalla sua situazione immediata, dalla necessità materiale, dalle sue stesse catene.127
Il tema della «necessità materiale», il passaggio del discorso attraverso il
filtro dei «bisogni»,128 contribuisce a far sì che questa Einleitung segni lo
svuotamento della nozione di popolo anche in quanto attore politico della
trasformazione, rimuovendo la centralità finora assegnatagli in favore della
figura più nettamente parziale della classe. Come nei testi precedenti, lo
svolgimento del discorso pare qui assegnare al «popolo» il decisivo ruolo di
soggetto dell’emancipazione, salvo alla fine vederlo «inciampare» sul suo
ingombrante erede, il proletariato. 129 Marx introduce qui un concetto di
rivoluzione pensato sul modello del 1789 come processo in cui «una
determinata classe», in quanto parte della società civile, «intraprende, partendo
dalla propria situazione particolare, l’emancipazione generale della società», il
«momento» – accelerazione del tempo storico – in cui essa da parte diviene
tutto, «fraternizza e si confonde con la società in generale, s’identifica con
127 K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Enileitung (1844, MEW I, pp. 378-391); trad. it. di A. Chiarloni Introduzione a Critica della filosofia del diritto di Hegel, in Annali franco tedeschi. Deutsch-französische Jahrbücher, Edizioni del Gallo, Milano 1965, p. 140 (corsivi miei, nel testo non c’è il capoverso e in corsivo sono le parole: politicamente idealista, emancipatore, immediata, materiale e stesse catene). 128 «La teoria si realizza in un popolo soltanto nella misura in cui essa costituisce la realizzazione dei bisogni di tale popolo», Ivi, p. 136. 129 Ivi, p. 126. Al soggetto popolo – nel duplice senso di assoggettato al dominio e necessario protagonista della propria liberazione – Marx guarda nel ribadire la centralità della critica della religione, «oppio del popolo», «felicità illusoria del popolo», la cui soppressione «è il presupposto della sua vera felicità». L’ennesima polemica contro la Scuola storica del diritto parla di «carne tagliata dal cuore del popolo». E i «popoli moderni» sono il riferimento di una riflessione sulla miseria politica del presente tedesco che impegna direttamente il tema del processo direzionale della storia: «se nego la situazione tedesca del 1843, mi trovo, secondo la cronologia francese, appena al 1789 […]. Anzi la storia tedesca vanta un movimento che nessun popolo all’orizzonte della storia ha avuto prima e che nessuno potrà imitare. Noi infatti abbiamo condiviso le restaurazioni dei popoli moderni senza condividerne le rivoluzioni. Abbiamo subíto la restaurazione in primo luogo perché altri popoli osarono tentare la rivoluzione, e poi perché altri popoli subirono una controrivoluzione» (p. 127).
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essa».130 Afferma Jean Hyppolite che «questa introduzione indica l’inizio di
una evoluzione del pensiero di Marx. Costituisce un primo manifesto
comunista»:131 dopo aver svelato, nel dispositivo di critica della politica, il
carattere illusorio della totalità etica hegeliana, la frattura fra Idea e realtà
storica, l’interrogazione su quale «classe della società civile ha il bisogno e la
capacità dell’emancipazione universale»,132 pone ora – è questa una delle
discontinuità del 1844 – il tema della «leva» che consenta di volgersi verso
l’universale realizzando l’unità di pensiero e pratica. Marx la «scopre» nella
negatività propria del proletariato:
Una classe che sia la dissoluzione di tutte le classi, una sfera che, per la sua sofferenza universale, possieda carattere universale e non rivendichi un diritto particolare, perché non ha subito un torto particolare, bensì l’ingiustizia di per sé, assoluta, […] una sfera infine che non possa emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipandole di conseguenza tutte […]. Questa decomposizione della società, in quanto classe particolare, è il proletariato. 133
Negatività, dissoluzione, esclusione radicale: questi i termini attraverso cui il
concetto di proletariato fa irruzione nel lessico marxiano, a Parigi dodici anni
dopo che Blanqui lo aveva «professato» di fronte alla corte d’assise della
Senna. «Ciò che forma il proletariato, infatti, non è la povertà sorta
naturalmente, ma quella prodotta artificialmente, non è la massa di uomini
oppressa meccanicamente dal peso della società, ma la massa risultante
dall’acuta dissoluzione della società»:134 come Blanqui, anche Marx pone
l’accento sul meccanismo di esclusione che «produce» e trasforma il povero in
proletario. Ma se nel 1832 tale esclusione ineriva anzitutto la dimensione dei 130 Ivi, p. 138: «viene sentita e riconosciuta come la rappresentante universale di tale società, un momento nel quale le sue esigenze e i suoi diritti sono diritti ed esigenze della società stessa». 131 J. Hyppolite, Études sur Marx et Hegel (1955); trad. it. Saggi su Marx e Hegel, Bompiani, Milano 1965, p. 127. Secondo Hyppolite questo testo «costituisce un primo manifesto comunista» e la sua lettura è indispensabile alla corretta comprensione del Capitale (pp. 127 e 115). 132 Marx, Introduzione cit., p. 140. 133 Ivi, p. 141. 134 Ibid.
289
dritti politici, in questa Einleitung essa riguarda la proprietà privata, di cui il
proletariato rappresenta la negazione in quanto figura specificamente e
squisitamente moderna, figlia dell’industrializzazione (si può anche qui far
cenno all’influenza di Stein).135 Al di là di questa, pur fondamentale, differenza,
interessa qui sottolineare come il proletariato intervenga in prima battuta nel
discorso marxiano come figura della negatività e dell’esclusione. Non a caso
Rancière – nella sua interpretazione della soggettivazione proletaria degli anni
1830-40 come «eterologia», logica dell’altro, identificazione con chi è
designato come escluso – cita questo brano di Marx per convocare le parole di
Blanqui del 1832 a rappresentare l’idea di una «classe che si dichiara nella
semplice invocazione dell’illimitatezza del suo numero […] una collettività
incontabile, impossibile da identificare».136 Il filosofo francese propone dunque
di «rinnovare il significato» di questa formula giovane-marxiana per
contrapporre a un’idea della lotta di classe come «classificazione» di individui
che condividono un certo numero di proprietà comuni, «il lavoro
dell’emancipazione [che] è provare instancabilmente, con la parola e l’azione,
l’inanità di ogni discorso e di ogni pratica fondata sulla divisione delle
classi».137
Il movimento che nel 1844 determina l’elisione del popolo dal discorso
marxiano vede irrompere una nozione di proletariato enunciata ancora in
assenza delle categorie di lavoro salariato, capitale, rapporti di produzione,
mera figura dell’esclusione dalla proprietà privata. Il proletariato è una classe
solo nella misura in cui esaudisce la ricerca di una classe che sia la
«dissoluzione» di tutte le classi, di una «classe della società civile che non sia
una classe della società civile».138 La classe viene convocata a svolgere un
135 «Il proletariato comincia a costituirsi in Germania solo attraverso l’irrompente industrializzazione; ciò che forma il proletariato […] non è la povertà sorta naturalmente, ma quella prodotta artificialmente» (Ibid.). Su Stein cfr. supra, nota 126 del presente capitolo. 136 Rancière, Le parole della storia cit., p. 139: «una classe che non è più una classe ma ‘la dissoluzione di tutte le classi’. La formula, come sappiamo, è del giovane Marx. Ma è possibile rinnovarne il significato separandolo dalle immagini di decomposizione che egli vi associa». 137 Rancière, La scène révolutionnaire et l’ouvier émancipé cit., p. 62. 138 Marx, Introduzione cit., p. 141.
290
lavoro di «decomposizione», di «dissoluzione» della società civile, di
decostruzione e negazione del discorso che la ordina. Oltre al criterio
dell’esclusione dalla proprietà, a definire il proletariato è solo la sua missione
rivoluzionaria: più che di un concetto si tratta dell’«invenzione» di un corpo in
cui incarnare l’unità di teoria e pratica per intraprendere il cammino verso
l’universale non più nel cielo della speculazione ma nella materialità della
storia: «la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali».139 Dopo la fase
di «critica della politica», l’irruzione del proletariato è anche – questa l’ipotesi
che qui si propone di seguire – l’invenzione della leva attraverso cui riportare la
politica dentro la società civile, conferire senso politico all’analisi sociale. «Per
la sua missione rivoluzionaria, per la missione inscritta nel suo essere – scrive
Miguel Abensour – questa classe fuoriesce decisamente da una localizzazione e
da una determinazione sociologica. Nuova figura della negatività storica […], il
proletariato appare come la classe per cui il sociale, il suo essere sociale, è
indissociabile dal politico, dal suo essere politico».140 Il combinato disposto nel
1843 da Kritik e Judenfrage ha condotto Marx a collocare il centro della propria
riflessione in corrispondenza di un nuovo continente, la società civile, che è
anzitutto politicamente liscio, indifferente, spoliticizzato dalla
monopolizzazione statuale delle funzioni della sovranità. «La rivoluzione
politica soppresse» – questa l’interpretazione che la Questione ebraica propone
di 1789 – «il carattere politico della società civile»141 spezzandola nelle sue
parti costitutive elementari, gli individui, le cui determinazioni sociali
particolari non esibiscono più alcuna politicità e non vengono perciò intaccate
dal processo rivoluzionario, rappresentandone anzi l’essenza reale, il
«fondamento naturale». Vorrei dunque provare a ripercorrere il percorso che
dal 1844 conduce fino agli scritti sul quarantotto francese cercando di rinvenire
nello svolgimento del pensiero marxiano lo sforzo di svelare il debordare della
politica dalla sfera statuale della sovranità a quella della società, di mostrare la
139 Ibid.: «la filosofia non può realizzarsi senza l’eliminazione del proletariato, il proletariato non può eliminarsi senza la realizzazione della filosofia». 140 Abensour, La democrazia contro lo Stato cit., p. 142. 141 Marx, La questione ebraica cit., p. 197.
291
politicità dell’esistenza sociale, di rendere politicamente striata la società civile
vergando nel suo seno confini, linee e traiettorie di politicità. Un’operazione
critica rispetto all’apparato linguistico e semantico del politico moderno, tesa a
rivelare la politicità di alcune espressioni della vita collettiva negate dalla
poderosa operazione ideologica che permette la scissione del politico in quanto
ambito separato dell’esistenza umana. «Denunciando le differenti forme di
questa negazione del politico – Scrive Emanuel Renault – la critica afferma
dunque la politicità di quello che sembra non politico».142 Si vuole insomma
sostenere, con Sandro Mezzadra, che quella marxiana è «una politica che
incorpora al proprio interno l’elemento che la eccede e ne mostra
continuamente il limite».143 Il concetto di classe, di proletariato, l’«invenzione»
della classe operaia, sono gli «arnesi» fondamentali di tale operazione, quelli
che permettono di denunciare l’ineffettualità sociale di alcuni elementi
fondamentali del lessico politico moderno, e quindi di cancellarli, riscriverli e
tradurli. Gli strumenti che consentono di disporre la griglia ermeneutica
attraverso cui fondare la politicità di alcuni concetti senza farli passare
attraverso la «mediazione» falsante del linguaggio politico-statuale.
È questa traccia che vorrei provare a seguire per andare in cerca nella
riflessione marxiana di un discorso di verità del politico scritto attraverso le
nozioni che ruotano intorno a quella di classe, in grado di condurre fino ai testi
sul quarantotto francese, da leggere dunque non tanto come estemporaneo
ritorno sul politico messo tra parentesi dopo la critica del 1843, ma in quanto
esito di tale riflessione.144 «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno
142 E. Renault, Le vocabulaire de Marx, Ellipses, Paris 2001, p. 45. 143 S. Mezzadra, dispense del corso «Le frontiere della cittadinanza» a. a. 2012-13. 144 Si ricordi che nei testi di Marx sul quarantotto francese si è soliti indicare il luogo maggiore della sua riflessione specificamente politica. «Non è vero […] che non esiste un pensiero politico di Marx; è vero invece che questo pensiero politico è tutto fuori […] dalla critica marxiana dell’economia politica. […] Troviamo il suo pensiero politico nelle opere storiche (e non a caso), lo troviamo nell’attività pratica», M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano 1977, p. 67. «Marx ha proposto nel 1845 a un editore tedesco il progetto di un’opera in due volumi che si sarebbe intitolata Critica della politica e dell’economia politica. […] Considerando questo titolo e questo progetto di lavoro, i numerosi scritti politici di Marx (anche solo pensando a quelli che riguardano la Francia) […] possono
292
in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze
che essi si trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla
tradizione»:145 questa formula del Diciotto brumaio è solitamente chiamata a
dare plastica rappresentazione dell’irriducibile ambiguità del politico marxiano,
su cui, prima di procedere nella direzione indicata, è utile qualche sintetica
osservazione. Da una parte per chiarire che ogni sforzo di analisi del politico
marxiano è necessariamente scelta parziale che valorizza uno specifico versante
di quella che spesso appare un’indecidibile oscillazione. Dall’altra per mostrare
la prossimità, in Marx, fra la riflessione sul politico e quella sulla vicenda
storica francese.
Il momento della rottura irrompe nella storia quando una classe conquista
«quell’audacia rivoluzionaria che getta in faccia all’avversario questa sfida: io
non sono nulla e dovrei essere tutto»:146 nella Einleitung Marx richiama i
termini di Sieyès per scrivere la missione del proletariato. Il riferimento alla
grande Rivoluzione è motore fondamentale del pensiero di Marx lungo tutti gli
anni Quaranta, i mutamenti nella sua interpretazione modellano e riflettono il
polisemico e inafferrabile concetto di politica, oscillando fra l’idea di una
rivoluzione della società civile borghese (che sarà l’interpretazione «marxista»)
e quella di una rivoluzione del politico che non cessa di riaprirsi e dispiegare le
proprie conseguenze.147 Nella Questione ebraica la Rivoluzione è il «momento»
legittimamente apparire come la realizzazione, proseguita per tutta la vita, del progetto del 1845», Abensour, La democrazia contro lo Stato cit., p. 146. «La riflessione politica di Marx è contenuta non solo nelle sue opere maggiori, ma anche negli scritti sulla storia politica della Francia», B. Accarino, voce Marx in Esposito, Galli, Enciclopedia del pensiero politico cit., p. 515. 145 K. Marx, Der achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte (1852, MEW VIII, pp. 111-207); trad.it. di P. Togliatti Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 19742, p. 44. 146 Marx, Introduzione cit., p. 139. 147 «La ‘teoria critica’ del 1844 ci appare come la teoria di una rivoluzione politica sul modello di quella del 1789-94, ma con questa differenza: invece del ‘popolo’ incontriamo […] il ‘proletariato’», scrive George Lichtheim per descrivere quella marxiana come una «concezione socio-politica che si ispira all’esperienza storica della rivoluzione francese» e al giacobinismo (Marxism. An Historical and Critical Study [1969]; trad. it. Il marxismo, Il Mulino, Bologna 1971, p. 107). Utile per indagare il multiforme carattere delle analisi marxiane della Rivoluzione francese è il testo di F. Furet Marx et la Révolution française (1986), in particolare la seconda parte curata da L. Calvié che presenta e commenta 31 brani marxiani sulla vicenda rivoluzionaria. Si vedano in merito anche gli importanti lavori di Bruno
293
in cui «lo Stato politico viene generato con violenza dalla società civile»: da qui
l’arco temporale in cui 1789 viene dispiegandosi è sottoposto – in particolare
attraverso la nozione di rivoluzione permanente – a una progressiva dilatazione
che abbraccia prima la fase del Terrore,148 e poi, nella Sacra famiglia, anche il
primo Impero e la Restaurazione, finchè solo la rivoluzione di Luglio avrebbe
sancito nello Stato politico «l’espressione ufficiale» della potenza esclusiva
della borghesia.149 Nel 18 brumaio la grande Rivoluzione diviene condizione di
intellegibilità del secondo Impero bonapartista, ove la smisurata crescita del
potere esecutivo risulta possibile solo in forza dell’accentramento prodotto dalla
«prima rivoluzione francese, a cui si poneva il compito di spezzare tutti i poteri
indipendenti di carattere locale», e trasformare ogni interesse comune in
oggetto dell’attività di governo. 150 L’oscillazione nell’interpretare la
Bongiovanni, Le repliche della storia. Karl Marx tra la Rivoluzione francese e la critica della politica, Bollati Boringhieri, Torino 1989, e Democrazia, dittatura, lotta di classe. Appunti su Marx e la rivoluzione francese, in «Studi Storici», 4, 1989, pp. 775-802. 148 Marx, La questione ebraica cit., p. 186. La fase del terrore è il tentativo della vita politica di schiacciare, appropriarsi, rendersi dominante rispetto alle altre sfere della vita civile, di farsi essa stessa vita reale, dichiarando permanente la rivoluzione. lo schema della rivoluzione permanente verrà successivamente assunto come modello prima, nella vicenda quarantottesca dell’inziativa del proletariato (che «va sempre più raggruppandosi intorno al socialismo rivoluzionario, al comunismo […]. Questo socialismo è la dichiarazione della rivoluzione in permanenza, la dittatura di classe») e in seguito, nei Grundrisse, della stessa dialettica del capitale (che «attua una rivoluzione permanente, abbatte tutti gli ostacoli, la dilatazione dei bisogni, la varietà della produzione»). 149 Ovvero «la consacrazione politica dei suoi interessi materiali», K. Marx, F. Engels, Die heiligie Familie. Kritik der kritischen Kritik. Gegen Bruno Bauer und Konsorten (1845, MEW II, pp. 7-223); trad. it. La sacra famiglia. Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, in Id., Opere cit., vol. IV, p. 138: «Napoleone è stato l’ultima lotta del terrorismo rivoluzionario contro la società civile, proclamata anche questa dalla rivoluzione e contro la sua politica», una lotta condotta rimpiazzando «la rivoluzione permanente con la guerra permanente». 150 «Ogni interesse comune fu subito staccato dalla società e contrapposto ad essa come interesse generale, più alto, strappato all'iniziativa individuale dei membri della società e trasformato in oggetto di attività del governo. […] Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla. I partiti che successivamente lottarono per il potere considerarono il possesso di questo enorme edificio dello Stato come il bottino principale del vincitore», Marx, Il 18 brumaio cit., p. 206. In seguito al golpe bonapartista «la macchina dello Stato si è talmente rafforzata di fronte alla società borghese […] che lo Stato sembra esser diventato completamente indipendente», (ivi, pp. 206-207). Un processo di «concentrazione della sovranità del politico nello Stato»: questo il prevalente che Bruno Bongiovanni enuncia ripercorrendo le interpretazioni marxiane della grande Rivoluzione (L’universale pregiudizio cit., p. 71). Un punto di vista che non sarebbe probabilmente dispiaciuto al Tocqueville di L’Ancien régime et la Révolution, e sui cui Marx tornerà anche nello scritto del 1871 sulla Comune di Parigi in cui afferma che in Francia «dopo ogni rivoluzione che segnava un passo in avanti nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello Stato risultava in
294
Rivoluzione francese riflette fedelmente quella inerente la dimensione del
politico. «Marx non ha mai potuto rendere stabile il suo discorso riguardo il
concetto di politica», scrive Balibar parlando di una contraddizione
permanente, incertezza onnipresente che «attraversa ognuno dei suoi concetti e
delle sue tesi fondamentali». 151 L’insolubile rompicapo del rapporto fra
l’iniziativa dei soggetti e il corso della storia è la carne di tale contraddizione: la
soluzione non smette di oscillare fra oggettività e soggettivismo, eteronomia e
autonomia della trasformazione proletaria, secondo lo schema bifronte per cui
«le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le
circostanze». L’espressione «interventi realmente storici della politica nella
storia»152 restituisce efficacemente il carattere essenzialmente «temporale» – o
«temporaneo», «intermittente» – del politico marxiano, che emerge anzitutto
come un problema di «ritmo» della storia, la cui «lentezza» pare continuamente
agitare la riflessione di Marx.153
modo sempre più evidente. La rivoluzione del 1830, che fece passare il potere dai grandi proprietari ai capitalisti, lo trasferì dai più lontani antagonisti degli operai ai loro antagonisti diretti», K. Marx, Der Bürgerkrieg in Frankreich. Adresse des Generalrats der Internationalen Arbeiterassoziation (1871, MEW XVII, pp. 313-365); trad. it. di P. Togliatti in La guerra civile in Francia, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 77-78. 151 Balibar, La paura delle masse cit., pp. 127 e 95. 152 K. Marx, F. Engels, Die Deutsche Ideologie. Kritik der neuesten deutschen Philosophie in ihren Repräsentanten Feuerbach, B. Bauer und Stirner, und deutschen Sozialismus in seinen verschiedenen Propheten (1845-46P, 1932, MEW III, pp. 9-530); trad. it. di F. Codino L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti, Editori Riuniti, Roma 19672, p. 33. Nell’Ideologia tedesca la «liberazione reale» è talvolta attuata esclusivamente «da» condizioni storiche («la schiavitù non si può abolire senza la macchina a vapore»), dallo sviluppo oggettivo delle forze produttive, e talaltra possibile solo a condizione che si dia «la formazione di una massa rivoluzionaria che agisce rivoluzionariamente» (pp. 15 e 31). Tale ambivalenza si manifesta nel modo più chiaro all’altezza della polisemia che il verbo entrare assume se riferito al rapporto dei soggetti con la storia: «individui determinati che svolgono un’attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali e politici», cosicché «l’organizzazione sociale e lo Stato risultano costantemente dal processo della vita di individui determinati» (p. 12). 153 Il politico marxiano appare in buona sostanza come il momento in cui l’oggettivo del processo economico viene ribaltato nel soggettivo della trasformazione proletaria, in cui la Praxis intreccia, rovesciandolo, il «processo» storico: ciò fa sì che esso appaia e scompaia, sembri balenare e inabissarsi nell’interpretazione marxiana della storia. Si potrebbe dire che se in Marx la storia non è mai la politica nel lungo periodo talvolta la politica può essere la storia nel breve periodo.
295
3.4 La scrittura sociale del politico
«Il proletariato tedesco è il teorico del proletariato europeo, così come il
proletariato inglese ne è l’economista e il proletariato francese il politico»:154
Marx utilizza lo schema della triarchia europea – ponendo il proletariato ove
finora si trovava il riferimento ai tre popoli – per istruire nel 1844 il confronto
fra l’insurrezione slesiana e quelle lionesi. Quanto l’intelletto politico sia incapace di scoprire la fonte della miseria sociale lo abbiamo già dimostrato […] Poichè esso pensa nella forma della politica, scorge il fondamento di tutti i mali nella volontà e tutti i mezzi per rimediarvi nella violenza e nel rovesciamento di una determinata forma di Stato. Dimostrazione: le prime rivolte del proletariato francese. Gli operai di Lione.155
Se 1789 – la rivoluzione (soltanto) politica – denunciava la separazione dei
cittadini francesi dalla comunità statuale, la «rivolta industriale» dei tessitori
denuncia una separazione, un isolamento ben più «universale», quello che il
lavoro induce fra il lavoratore e la comunità umana: «una rivolta contro di esso,
è tanto più infinita quanto più infinito è l’uomo rispetto al cittadino e la vita
umana rispetto alla vita politica». Solo nel suo essere sociale la rivoluzione si
trova «dal punto di vista della totalità», perché incarna la «protesta dell’uomo
contro la vita disumanizzata», perché sua materia è «la vita stessa, la vita fisica
e spirituale, la moralità umana, l’attività umana, l’umano piacere, l’essenza
umana».156 Emerge qui (come nei citati brani sulle riunioni degli ouvriers
154 Marx, Glosse critiche cit., p. 219. 155 Ivi, p. 221. 156 Ivi, pp. 222-223. Per «lacerare il tessuto di errori» – concentrati nella denuncia della mancanza di «anima politica» nella rivolta dei tessitori – che Ruge esibisce nella sua concezione di sociale e politico, Marx afferma che «ogni rivoluzione dissolve la vecchia società; in questo senso è sociale. Ogni rivoluzione rovescia il vecchio potere; in questo senso è politica» (p. 223). «La rivolta industriale, perciò può essere parziale fin che si vuole, essa racchiude in sé un’anima universale; la rivolta politica può essere universale finchè si vuole, essa cela sotto le forme più colossali uno spirito angusto» (p. 222). Traspare l’aderenza all’umanesimo feuerbachiano e la prossimità ai Manoscritti economico-filosofici che in questo stesso periodo vengono redatti e in cui è Marx stesso a dichiarare il proprio debito intellettuale definendolo l’autore della più significativa «rivoluzione teoretica» dopo Hegel.
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francesi)157 la traccia di una riflessione su un’altra politica, che rivendichi
un’istanza diversa da quella del potere, dopo che, si potrebbe dire, Kritik e
Judenfrage hanno provato la non-verità sociale del politico statuale. Per provare
a descrivere le coordinate di tale riflessione si può adesso riprendere lo scarto
concettuale dal popolo al proletariato allo scopo di indagare il ruolo che in esso
svolge un’interrogazione sul politico articolata ora lungo la traiettoria critica-
Praxis-rivoluzione, e, per questa via, osservare anche il modo in cui nel 1844
irrompe nel lessico marxiano un altro dei «nomi» attorno a cui si è andata
organizzando la presente indagine: il lemma operai.
«Se nego la situazione tedesca del 1843, mi trovo, secondo la cronologia
francese, appena al 1789»: la Einleitung indaga la situazione politica tedesca, il
«passato» della condizione dei popoli moderni, osservandola nello specchio di
quella francese, emblema della loro condizione «presente».158 Dall’inizio del
testo è il «popolo» il soggetto chiamato a rompere l’incantesimo del passato sul
presente: compito della critica è di «insegnare al popolo ad aver paura di se
stesso, per dargli coraggio».159 Ma è proprio questa nozione di «critica» che va
ora a determinare la repentina elisione del popolo dall’intero orizzonte di Marx
(come egli stesso chiarisce nel 1847 scrivendo: «il popolo, o meglio il
proletariato – per usare l’espressione precisa al posto di quella generica e
vaga»). 160 In Germania il lavoro della critica ha da svolgere un doppio
movimento. Da una parte deve realizzare (verwirklichen) la «filosofia
speculativa del diritto, questa immagine astratta e deformata dello Stato
157 Cfr. supra § 3.2. 158 Marx, Introduzione cit., p. 127: «la storia tedesca vanta un movimento che nessun popolo all’orizzonte della storia ha avuto prima e che nessuno potrà imitare. Noi infatti abbiamo condiviso le restaurazioni dei popoli moderni senza condividerne le rivoluzioni. Abbiamo subíto la restaurazione in primo luogo perché altri popoli osarono tentare la rivoluzione, e poi perché altri popoli subirono una controrivoluzione». 159 Ivi, pp. 129-130. La critica deve «rendere ancora più dura l’oppressione reale, aggiungendovi la consapevolezza di essere oppressi». 160 «Non il popolo di cui parla Federico Guglielmo, […] ma il popolo reale, i proletari, i piccoli contadini e la plebe», K. Marx, Der Kommunismus der «Rheinischen Beobachters» (1847, MEW IV, pp. 191-203), trad. it. Il comunismo della «Rheinischen Beobachters», in Marx-Engels, Opere cit., vol. VI, pp. 236 e 247 (si tratta di un articolo pubblicato sulla «Deutsche-Brüsseller-Zeitung» contro quello che il Manifesto definirà il «socialismo feudale» di matrice aristocratica).
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moderno, la cui realtà rimane un al di là […] del Reno».161 Dall’altra, e nello
stesso tempo, deve negare la filosofia tedesca del diritto, lo Stato moderno che
essa ha pensato e altri popoli hanno costruito: realizzandola deve operarne la
soppressione (aufheben nel senso hegeliano di sopprimere superando).
Essendo nemica dichiarata del modo precedente della coscienza politica tedesca, la critica della filosofia speculativa del diritto non si esaurisce in se stessa ma in compiti, la cui soluzione non è data che da un unico mezzo: la prassi.162
L’interrogazione sullo statuto della critica determina l’avvento della
categoria di Praxis, attraverso la quale si va da ora scrivendo il discorso
marxiano di verità del politico, e la cui unica forma «all’altezza umana» – vale
a dire in grado di realizzare l’emancipazione non solo politica ma universale –
porta il nome di rivoluzione. Il sentimento della critica è l’«indignazione», suo
compito è mutare le condizioni intellettuali che determinano la comprensione di
un’epoca, perciò assume la stessa forma dell’attività pratica con cui gli uomini
trasformano questa stessa epoca: non si risolve nella speculazione ma
necessariamente deborda sul terreno della lotta contro il mondo esistente.163 Di
qui uscirà la filosofia marxista come, con Karl Löwith, «una teoria
immediatamente pratica», ove «la filosofia in quanto tale si supera, entra nella
prassi della non-filosofia presente».164 Di qui maturerà anche il distacco da
Feuerbach, il cui materialismo indaga sì la realtà piuttosto che l’idea, ma si
limita a nominare genericamente la contraddizione del fondamento mondano
senza cogliere l’uomo come «prodotto storico» nella dimensione essenziale dei
rapporti sociali. Ecco nelle Thesen über Feuerbach l’adagio «i filosofi hanno
161 Marx, Introduzione cit., pp. 133-134. 162 Ivi, p. 134: si deve operare il superamento/soppressione «della filosofia avutasi finora, della filosofia in quanto tale» (p. 133). 163 La svolta sta tutta in questa piccola ma dirompente «scoperta»: «la teoria si trasforma in forza materiale [materiellen Gewalt] non appena penetra tra le masse». Di qui la necessità della prassi rivoluzionaria, perchè «l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi, la forza materiale non può essere abbattuta che dalla forza materiale» (p. 134). 164 K. Löwith, Von Hegel zu Nietzsche (1941); trad. it. Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi, Torino 1974, pp. 150-151.
298
soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo»,165 e
quello dell’Ideologia tedesca «la rivoluzione è la forza motrice della storia,
anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria».166
Critica-Praxis-rivoluzione: questa la traiettoria concettuale che muove la
sostituzione della nozione di popolo con quella di proletariato e lungo la quale
deve essere cercato il discorso marxiano di verità del politico.
Il «piano dell’opera», il significato della critica, era già scritto nella «lettera
di intenti» inviata a Ruge prima di partire per Parigi: «ciò che dobbiamo attuare,
e cioè la critica radicale di tutto ciò che esiste» consiste in un lavoro di «auto-
chiarificazione (filosofia critica) del nostro tempo in relazione alle sue lotte e ai
suoi desideri. […] Si tratta di una confessione, non d’altro. Per farsi perdonare
le sue colpe, l’umanità non ha che da dichiararle per ciò che esse sono». Si può
dunque leggere la concezione marxiana della critica come un discorso di verità,
teso a «rendere il mondo consapevole di sé», a «spiegargli le proprie azioni».167
Ed essendo l’uomo – al contrario di quanto sostiene Hegel –168 assai più
materiale che spirituale, tale discorso non si limita a denunciare l’alienazione
riconducendo la forma estraniata a quella reale, la sua essenza alienata al
soggetto, ma fa della critica un’energia pratica che agisce nella storia per
ricomporre tale scissione. La critica è dunque un dispositivo di verità, lavora a
rimuovere il velo che occulta il reale, ed essendo la prassi la sua necessaria
forma attuale, si può, con Fabio Frosini, riconoscere «la ridefinizione del
concetto di ‘verità’ in termini di ‘praxis’», e interpretare il «concetto di praxis
come processo costitutivo di verità».169 «Diremo che la critica è lettura. Il testo
165 K. Marx, Thesen über Feuerbach (1845P, 1888, MEW III, pp. 5-7); trad. it. in Marx-Engels, Opere cit., vol. V, p., p. 5: è nei rapporti sociali che «l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero» (p. 4). 166 Marx, Engels, L’ideologia tedesca cit., p. 30. Qui la riflessione sullo statuto della critica si traduce in proposta epistemologica generale: «con la rappresentazione della realtà la filosofia autonoma perde i suoi mezzi d’esistenza. Al suo posto può tutt’al più subentrare una sintesi dei risultati più generali che è possibile astrarre dall’esame dello sviluppo storico degli uomini» (p. 14). 167 Lettera di Marx a Ruge, in Annali cit., pp. 80-83. La critica è già qui Praxis: «non si spaventa né di fronte ai risultati ai quali perviene né di fronte al conflitto con le forze esistenti». 168 Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 il concetto di critica viene messo ulteriormente a fuoco rileggendo la Fenomenologia dello spirito hegeliana. 169 F. Frosini, Da Gramsci a Marx. Ideologia, verità e politica, DeriveApprodi, Roma
299
che essa esamina è quell’esperienza il cui soggetto è l’umanità […]. La
funzione della critica è dire o leggere – secondo la metafora scelta – la
contraddizione, di dichiararla per ciò che essa è», scriveva Jacques Rancière nel
suo contributo al collettaneo althusseriano Lire le Capital, ove si sforzava di
mettere a fuoco la nozione di critica del 1844 definendola come «elaborazione
del linguaggio in cui si esprime l’esperienza umana».170 Il procedimento della
critica nei Manoscritti economico-filosofici 1844 viene analizzato come un
lavoro di «traduzione» delle leggi economiche, dei termini dell’economia
classica, in quelli del discorso critico antropologico che vi ritrova l’essenza
umana non alienata.171 Sia per il momento sufficiente prendere nota di questa
definizione della critica come «lettura», «elaborazione del linguaggio»,
«traduzione» per osservare ora il significato con cui il lemma operai fa il suo
ingresso nella riflessione marxiana dei Manoscritti economico-filosofici del
1844, e l’eventuale operatività in essi di un discorso di verità del politico.
Cifra fondamentale di questo testo è lo sforzo di declinare il dispositivo di
«critica della politica» sull’economia politica. Attraverso la categoria di
alienazione – della quale la «produzione» viene ora assunta a «legge generale»,
di cui «religione, famiglia, Stato, diritto, morale, scienza, arte etc. sono soltanto
2009, pp. 22 e 43: la verità/praxis corrisponderebbe dunque «alla potenza di affermare praticamente, mondanamente, in modo immanente la dignità e il valore di un modo di essere del mondo contro tutti gli altri» (p. 22). «Teoria e pensiero si differenziano essenzialmente: il pensiero appartiene alla pratica, non alla teoria», e la critica emerge come «principio di unità […] della filosofia e della politica», (pp. 52 e 31). 170 J. Rancière, Le concept de critique et la critique de l’économie politique. Des «Manuscripts» de 1844 au «Capital» (1965); trad. it. Critica e critica dell’economia politica. Dai «Manoscritti del 1844» al «Capitale», Feltrinelli, Milano 1973, pp. 28-29 e 43. Rancière intepreta il concetto marxiano di critica sostenendo che nel periodo 1842-45 essa viene tematizzata e rappresenta «il concetto centrale» della riflessione di Marx. Il testo che la critica è chiamata a leggere sarebbe costituito dalle contraddizioni che segnano lo sviluppo dell’esperienza umana. Naturalmente il debito teorico e il legame che in questo periodo Marx esibisce nei confronti di Feuerbach fanno sì che sia l’uomo, l’umanità l’oggetto centrale della lettura della critica e che quest’ultima possa definirsi tale nella misura in cui coglie dietro le contraddizioni l’esistenza dell’alienazione, vale a dire la proiezione da parte dell’uomo dei predicati che lo riguardano su un oggetto esterno che gli diviene estraneo e si pone in quanto vero soggetto facendo dell’uomo il suo oggetto. 171 «La critica è la traduzione, la tavola delle anfibologie è il dizionario», ivi, p. 43. Con «anfibologia» Rancière designa il procedimento di «trasposizione» delle leggi economiche in leggi antropologiche, dei termini dell’economia politica in quelli di un discorso critico antropologico che li riporta alla dimensione umana non alienata.
300
particolari modi» –172 Marx rintraccia un rapporto isomorfico fra il processo di
lavoro e la forma politica moderna: la medesima versione profana
dell’alienazione religiosa realizzata nel potere politico statuale che si separa e si
pone al di sopra dell’esistenza sociale degli individui, si dà nella produzione
capitalista di merci, entità divenute indipendenti e ostili in cui l’uomo aliena la
propria forza creatrice. Emerge così un’immane opera di spoliticizzazione del
sociale: la sovranità statuale, garantendo l’istituto della proprietà privata,
permette l’alienazione del lavoro operaio nel dispositivo di scambio con il
salario, e allo stesso tempo consente di occultare la politicità di tale scambio
regolato giuridicamente dalle istituzioni autorizzate dalla sovranità, e codificato
dall’economia cui, proprio in forza di tale spoliticizzazione, si può attribuire lo
statuto di scienza: siamo sulla soglia del concetto di ideologia, e il progetto di
critica dell’economia politica è inaugurato.173 È nei Manoscritti che Marx
dichiara la propria adesione politica al comunismo «in quanto effettiva
soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo», 174
negazione della negazione, istanza che abolisce il carattere alienato del lavoro e
riporta alla loro qualità umana le relazioni estraniate e oggettivate nei rapporti
di produzione e scambio.175
172 Marx, Opere filosofiche giovanili cit., p. 226: «l’alienazione religiosa come tale si produce soltanto nel dominio della coscienza, dall’interno dell’uomo, ma l’alienazione economica è l’alienazione della vita reale». È in quest’opera che, per la prima volta dal 1842, il popolo è pressochè assente (se si escludono le citazioni da altri autori che in ogni caso, da economisti, usano assai più il termine «popolazione»), non solo come luogo concettuale ma anche come semplice lemma (fa parziale eccezione l’utilizzo del termine al plurale, «popoli», che Marx sembra aver preso in prestito dalla temperie in cui si è formato senza poi più abbandonarlo). 173 Il testo fu pubblicato per la prima volta solo nel 1932. Oltre alla consueta diade Feuerbach-Hegel, riferimenti certi per quest’opera sono Il movimento della produzione di W. Schulz, lungamente citato nelle prime pagine, L’essenza del denaro di M. Hess, ma a anche il suo La filosofia dell’azione (pubblicato nel 1843 sulla rivista «Ventun fogli dalla Svizzera») e gli articoli di Engels sugli Annali: La situazione dell’Inghilterra (recensione a Past and present di T. Carlyle) ma soprattutto l’Abbozzo di critica dell’economia politica che molti anni dopo Marx definirà «geniale» indicandolo come il motivo di inizio del loro carteggio (Prefazione cit., p. 6). Nei quaderni parigini si trova traccia delle voraci letture degli economisti inglesi e francesi, in particolare J. B. Say, F. Skarbek, D. Ricardo, J-R. Mac Culloch, A. L. C. Destut de Tracy, J. Lauderale, F. List, H-F. Osiander, P. de Boisguillebert, J. Law e F. Buret. 174 Marx, Opere filosofiche giovanili cit., p. 225. In questa seconda parte, Proprietà privata e comunismo, del terzo manoscritto, Marx analizza rapidamente le teorie dei più rilevanti teorici socialisti francesi: Proudhon, Fourier, Saint-Simon, Cabet. 175 È esplicito fin dall’introduzione il magistero esercitato da Feuerbach su questi scritti,
301
La questione della «traduzione» del linguaggio politico si trova qui
esplicitamente tematizzata: «l’eguaglianza non è altro che il tedesco Io=Io,
tradotto in forma francese, cioè politica. L’eguaglianza come fondamento del
comunismo è la sua fondazione politica, ed è lo stesso che se il tedesco
giustificasse il comunismo in quanto concezione dell’uomo quale generale
autocoscienza».176 Marx «sta lavorando sul crinale tra filosofia, religione e
politica, traducendo il linguaggio della religione e della filosofia in quello della
politica», scrive Fabio Frosini, invitando a leggere i testi di questo periodo
«come campo di battaglia linguistico, come riqualificazione semantica di
termini variamente utilizzati e disponibili».177 A questo orizzonte mi pare si
possa ascrivere anche il lavoro intorno alla nozione di operaio svolto nei
Manuskripte. «Siamo partiti dai presupposti dell’economia politica. Abbiamo
accettato il suo linguaggio» e «le sue parole»:178 a differenza di quanto avverrà
in seguito, Marx non mette in discussione i concetti dell’economia politica, ma
indaga il significato che essa gli conferisce per sottoporlo al lavoro della critica.
È questo il caso della nozione di operaio:
evidente nella centralità del concetto di alienazione e del riferimento all’uomo e all’umanità: «la critica positiva in genere, dunque anche la critica positiva tedesca dell’economia politica, deve la sua vera fondazione alle scoperte Feuerbach […], gli unici scritti, dalla Fenomenologia e dalla Logica di Hegel in poi, nei quali è contenuta un'effettiva rivoluzione teoretica» (Marx, Opere filosofiche giovanili cit., p. 148). Ciò che interessa sottolineare è la coestensività fra questa dimensione umana e quella sociale: «esistenza umana, cioè sociale». Il comunismo è pertanto «ritorno completo, consapevole […] dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano». E ancora: «la società è la compiuta consustantizzazione dell’uomo con la natura, la vera resurrezione della natura, il realizzato naturalismo dell’uomo e il realizzato umanismo della natura […] la mia propria esistenza è attività sociale, e però ciò che io faccio da me lo faccio da me per la società e con la coscienza di me come ente sociale […] È da evitare innanzitutto di fissare la ‘società’ come un’astrazione di fronte all’individuo. L’individuo è ente sociale» (pp. 228-230). Proprio su questo punto Marx insiste con Feuerbach scrivendogli nell’agosto 1844: «lei ha – non so se di proposito – fornito al socialismo una base filosofica e i comunisti hanno subito interpretato in tal senso questi lavori. L’unità dell’uomo con l’uomo, che si fonda sulla differenza reale degli uomini, il concetto del genere umano calato dal cielo dell’astrazione sulla terra reale cosa è se non il concetto della società!» (Lettera di Marx a Feuerbach dell’11 agosto 1844, in Marx-Engels, Opere cit., p. 384). Nei Manoscritti si osserva poi anche la collocazione in posizione sempre più centrale del concetto di Praxis, anche a scapito di quello di alienazione, destinato ad esaurire il proprio valore costitutivo in corrispondenza del progressivo congedo da Feuerbach. 176 Marx, Opere filosofiche giovanili cit., p. 242: «in Germania l’autocoscienza, in Francia l’eguaglianza perché [domina] la politica». 177 Frosini, Da Gramsci a Marx cit., p. 50. 178 Marx, Opere filosofiche giovanili cit., p. 193.
302
L’economia politica non conosce, dunque, l’operaio disoccupato, l’uomo-operaio che si trova fuori da questo rapporto di lavoro. Il ladro, il mariuolo, il mendicante, il disoccupato, l’affamato, il lavoratore miserabile e delinquente, sono figure che non esistono per essa economia politica, bensì solo per altri occhi, per quelli del medico, del giudice, del becchino, del birro etc.; come fantasmi fuori del suo regno.179
Come lo Stato politico considera l’uomo solo nell’astratta figura del citoyen,
così il «linguaggio dell’economia politica» fa con colui che lavora, riducendolo
a un «individuo a cui toglie ogni concretezza per fissarlo come capitalista o
operaio». Quest’ultimo è nell’economia politica il nome del processo attraverso
cui il lavoratore è «mentalmente e fisicamente abbassato a una macchina, e da
uomo diventa un’astratta attività e un ventre», ma, si chiede Marx, «che senso
ha, nello svolgimento dell’umanità, questa riduzione della maggior parte di essa
a lavoro astratto?».180 Lo schema dell’alienazione religiosa uomo/Dio viene qui
proiettata sul rapporto fra l’operaio e il prodotto – «résumé» della sua attività,
oggetto esterno ove aliena la propria essenza e che gli diviene estraneo,
«potenza indipendente» e ostile –181 e fra l’operaio e il suo lavoro – anch’esso
179 Ivi, p. 209. «L’economia politica considera soltanto come lavoratore il proletario, cioè colui che, senza capitale e senza rendita fondiaria, vive puramente del suo lavoro, e di un lavoro unilaterale, astratto. […] Non lo considera come uomo, nel tempo in cui non lavora; ma lascia questa considerazione alla giustizia criminale, ai medici, alla religione, alle tabelle statistiche, alla politica e agli sbirri dell’accattonaggio […] il lavoro compare nell’economia politica soltanto nella figura dell’attività di guadagno» (p. 159). 180 Ivi, pp. 246, 155-156 e 159. 181 Ivi, p. 197. Vale la pena di riportare per esteso, almeno in nota, il modo in cui Marx definisce e interpreta la miseria operaia (la quale a suo avviso «consegue dunque dalla essenza dell'odierno lavoro stesso», p. 159) perchè si tratta nei fatti del suo primo intervento su ciò che allora in Francia si andava definendo come «questione sociale» per andare a occupare il centro del dibattito politico degli anni Quaranta, e perchè vi si avverte la lettura del testo di Buret su cui mi soffermo nel prossimo capitolo. «Evitiamo di trasferirci come l’economista politico, quando vuole spiegarsi, in un inventato stato originario. […] Noi partiamo da un fatto economico, attuale. L’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza e estensione. L’operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la sua svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere. Questo fatto non esprime nient’altro che questo: che l’oggetto, prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro. […] Quanto più l’operaio lavora
303
merce altrui in cui aliena la propria forza creatrice in cambio di un salario che è
mero mezzo «affinchè la razza dei lavoratori non muoia». 182 Il discorso
dell'economia politica «occulta l’alienazione che è nell’essenza del lavoro»,183
operaio è il nome che in tale linguaggio indica ciò che il linguaggio della critica
chiama uomo.
Come il proletariato, così anche la figura dell’operaio irrompe nella
riflessione marxiana in prima battuta in termini di negatività, antitesi della
ricchezza e della proprietà privata, nome della forma più generale
dell’alienazione. Non siamo ancora di fronte a positività, a concetti definiti
attraverso la messa a punto dei predicati che li qualificano, ma a elementi
determinati per opposizione, «leve», strumenti che permettono di decomporre
linguaggi e discorsi altrui, in operazioni semantiche che hanno effetti
immediatamente politici. «L’intera servitù umana è coinvolta nel rapporto
dell’operaio alla produzione, e tutti i rapporti di servitù sono soltanto
modificazioni e conseguenze di questo rapporto», ne «consegue […] che
l’emancipazione della società dalla proprietà privata eccetera, dalla servitù, si
esprime, nella forma politica dell’emancipazione operaia», che non riguarda
solo l’operaio, poiché in essa «è implicita la generale emancipazione
umana».184 Se nella Judenfrage la Rivoluzione francese veniva analizzata come
modello di un’emancipazione «soltanto politica», troviamo ora la proposta di tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, ch’egli si crea di fronte, e tanto più povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, tanto meno egli possiede. Come nella religione. Più l’uomo mette in Dio e meno serba in se stesso. L’operaio mette nell’oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all’oggetto. Ciò che è il prodotto del suo lavoro, esso non lo è. Quanto maggiore dunque questo prodotto, tanto minore è egli stesso. L’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui» (Ivi, pp. 194-195). Rancière nota come Marx osservi l’impoverimento dell’operaio, la pauperizzazione economica svelandola come la traduzione nello «specchio» dell’economia politica dell’alienazione umana, la manifestazione dell’alienazione dell’operaio nel suo prodotto. «La pauperizzazione (economica) è divenuta l’alienazione (antropologica)» (Critica e critica dell’economia politica cit., p. 37). 182 Ivi, p. 210. Un lavoro «barbarico», «bestiale», forzato, costrittivo, che nega l’operaio, non è soddisfazione di un bisogno ma mezzo di soddisfarlo, il lavoro non è dell’operaio, ma di un altro. «Quanto più è raffinato il suo oggetto e tanto più è imbarbarito l’operaio, e quanto più è potente il lavoro e tanto più è impotente diventa l’operaio» (ivi, p. 196). 183 Ivi, p. 196. 184 Ivi, pp. 204 e 203.
304
un’altra interpretazione del significato dell’emancipazione politica, che diviene
generale nella misura in cui si fa negazione della negatività propria dell’operaio
in quanto figura universale dell’alienazione. Essa prende il nome di
comunismo, «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente», «azione»
specifica del proletariato che «sopprime il lavoro e abolisce il dominio di tutte
le classi insieme con le classi stesse», 185 secondo la celebre formula
dell’Ideologia tedesca. L’ipotesi che qui si propone è che a partire da questo
manoscritto – redatto con Engels «a Bruxelles, dove ero emigrato in seguito a
un decreto di espulsione del sig. Guizot», ma abbandonato fino al 1932 alla sola
«rodente critica dei topi» –186 la nozione di classe funzioni compiutamente
come strumento per riscrivere il politico tracciando dentro la società linee,
confini, traiettorie di politicità, e imbastendo così un’operazione critica
sull’intero impianto del lessico politico moderno.
Come noto, in questo testo Louis Althusser ha voluto indicare la «rottura
epistemologica» corrispondente alla fondazione marxiana di una teoria
scientifica della storia.187 Emanuel Renault parla del passaggio dalla critica
della politica a una critica sociologica della politica,188 Maximilien Rubel della
fondazione di una «scienza della società di orientamento pragmatico e
antispeculativo», «sociologia critica le cui premesse sono i fatti più evidenti».189
185 Marx, Engels, L’ideologia tedesca cit., p. 29. 186 Marx, Prefazione cit., pp. 4 e 6. 187 La pubblicazione di Pour Marx di Louis Althusser (La Découverte, Paris 1965) determina l’inizio di un importante scarto dentro il marxismo francese rispetto al profilo hegeliano, umanista e/o esistenzialista che esso, da Kojève a Sartre, aveva assunto da alcuni decenni. Althusser muove alla ricerca della differenza specifica della filosofia di Marx, delle discontinuità con la precedente coscienza filosofica, rinvenendo la «rottura epistemologica» – «il mutamento avvenuto nella problematica teorica, contemporaneo alla fondazione di una nuova disciplina scientifica» tale da segnare l’inizio di una nuova concezione della filosofia – all’altezza dell’Ideologia tedesca. La specificità di questo lavoro consiste nel tentativo di applicare la filosofia marxista a Marx, provando a rileggere tutta la sua opera attraverso «una teoria marxista della natura differenziale delle formazioni teoriche e della loro storia, ossia una teoria della storia epistemologica, che è poi la filosofia marxista stessa» (pp. 25-32). Con i suoi allievi Althusser dà vita a una «scuola» destinata a segnare potentemente il dibattito marxista, essa trova la propria più celebre espressione nella pubblicazione dell’opera collettanea Lire le Capital (2 vol., Maspero, Paris 1965), nella prima edizione compaiono i contributi di Althusser, J. Rancière, P. Macherey, É. Balibar, R. Establet. 188 Cfr. Renault, Le vocabulaire de Marx, cit., pp. 43-45. 189 M. Rubel, Karl Marx. Essai de biographie intellectuelle, Marcel Rivière et C., Paris 1971, pp. 245 e 178. Rubel ha ripercorso questi sviluppi ipotizzando che, a un certo punto,
305
È ancora il lavoro svolto sul concetto di bürgherliche Gesellschaft a giocare un
ruolo decisivo: La forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi, e che a sua volta le determina è la società civile. […] Questa società civile è il vero focolare, il teatro di ogni storia, e si vede quanto sia assurda la concezione della storia finora corrente, che si limita alle azioni dei capi e di Stati e trascura i rapporti reali.190
Lo scarto fondamentale consiste nel fatto che la società non è più intesa
hegelianamente come sfera privata specificamente moderna separata dallo Stato
e formata da individui indipendenti: essa è invece pensata ora come composta
da classi sociali il cui antagonismo è la verità del politico colta al di qua della
sua traduzione falsante nel linguaggio delle istituzioni statuali.191 Ed è tale
antagonismo politico a costituire e muovere l’esistenza delle classi sociali: «i
singoli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta
comune contro un'altra classe».192 È attraverso questa messa a punto del
rapporto classi/società che Marx va adesso definendo la propria posizione nei
confronti dei concetti attraverso cui la filosofia ha cercato di dar nome alla
politica in età moderna. A differenza di quanto vorrebbero i teorici del
contrattualismo, «l’unione che si è avuta finora» non era affatto volontaria, ma
l’antropologia feuerbachiana si sia rivelata inservibile nell’indagine della società civile, e che perciò si sia dato lo scarto verso la «concezione materialistica della storia», che egli definisce come «sociologia pragmatica e storica», p. 149. 190 Marx, Engels, L’ideologia tedesca cit., p. 26. 191 La nozione di società civile è sottoposta a una dilatazione storica (il Manifesto si proporrà di parlare della «storia di ogni società esistita fino a questo momento», dall’antica Roma, alla feudalen Gesellschaft, fino alla moderne bürgerliche Gesellschaft) che continua tuttavia a convivere con l’altro significato, che designa la forma specificamente moderna – bürgerliche nel senso di «borghese» – delle relazioni sociali: «il termine società civile sorse nel secolo diciottesimo, quando i rapporti di proprietà si erano già fatti strada fuori del tipo di comunità antico e medioevale. La società civile come tale comincia a svilupparsi con la borghesia; tuttavia l’organizzazione sociale sviluppantesi immediatamente dalla produzione e dagli scambi, la quale forma in tutti i tempi la base dello Stato e di ogni altra sovrastruttura idealistica, continua ad essere chiamata con lo stesso nome» (Marx, Engels, L’ideologia tedesca cit., p. 66). «Marx coglie la pretesa ‘civil society’ come ‘bourgeois society’: una società che poggia sulla contrapposizione delle classi, una società nella quale il borghese esercita il suo dominio economico, e per ciò stesso politico e culturale, sulle altri classi sociali», K. Korsch, Karl Marx (1938), trad. it. Laterza, Bari 1970, p. 10. 192 Marx, Engels, L’ideologia tedesca cit., p. 48..
306
«necessaria», fondata dalle condizioni sociali materiali, da forze produttive e
rapporti di produzione. La legge e il diritto hanno origine non dalla «libera»
«volontà generale», ma nella trama reale della divisione del lavoro e delle
diverse forme della proprietà.193 Per comprendere la formazione dello Stato non
si deve dunque ricorrere alle categorie di contratto e volontà, legge e sovranità,
ma si deve guardare piuttosto alla moderna proprietà privata e all’esistenza
politica delle classi, di cui quella egemone traduce il proprio dominio nelle
istituzioni statuali. L’essenza del potere non risiede nello Stato, ma nel potere
sociale, la «forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la
cooperazione dei diversi individui», che però si erge poi di fronte ad essi come
una potenza estranea, «un potere che è diventato sempre più smisurato e che in
ultima istanza si rivela come mercato mondiale».194 Di questo potere sociale il
«potere politico» non è altro che la rappresentazione, la forma «apparente» di
cui tuttavia una classe che voglia rendersi dominante deve appropriarsi per
poter rappresentare il proprio interesse come universale. «Tutte le lotte
nell’ambito dello Stato» sono dunque le forme illusorie «nelle quali vengono
condotte le lotte reali delle diverse classi».195 L’intento di Marx è eliminare tale
mediazione della rappresentazione politico-statuale e cogliere il significato
politico che emana direttamente dalla società: Balibar parla perciò del problema
di pensare una «politica senza ideologia politica, cioè senza un discorso sullo
Stato».196
Misère de la philosophie specifica tale prospettiva: «società», ora spesso
sans phrase, è qui definita come l’insieme dei «rapporti sociali basati
sull’antagonismo delle classi», antagonismo che organizza l’intero sistema di
193 Si noti che la volontà generale nella Kritik era, classicamente, il dispositivo teorico su cui poggiare la centralità politica del popolo, e adesso invece è nulla più che un’«illusione giuridica» (ivi, p. 68). Lo Stato è ora «la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità […], al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi» (pp. 57 e 67). 194 Ivi, pp. 24 e 28. 195 Ivi, pp. 55 e 23. L’interesse collettivo che nella società si contrappone all’interesse dei singoli è stato illusoriamente rappresentato come interesse generale, universale, e «imbrigliato» «sotto forma di Stato», «comunità illusoria» ma pur sempre fondata «sulla base di legami esistenti» (pp. 23-24). 196 Balibar, La paura delle masse cit., p. 105.
307
produzione e di scambio. «Il potere politico è precisamente riassunto ufficiale
dell’antagonismo nella società civile»: la politica appare adesso compiutamente
in termini di trascrizione del sociale, e Marx intende coglierla al di qua della
sua traduzione nel linguaggio dello Stato.197 La nozione di proletariato consente
di svolgere tale operazione perché incarna lo snodo in cui la teoria dello
sfruttamento intreccia quella politica della rivoluzione: «di tutti gli strumenti di
produzione, la più grande forza produttiva è la classe rivoluzionaria stessa».198
Dentro il rapporto economico di capitale, di fronte al capitale, la classe operaia
è in sé già immediatamente forza politica contro il capitale, la posizione sociale
nel rapporto di produzione è già posizionamento politico e necessita solo di una
traduzione nei termini della coalizione e della lotta, che dispongono in discorso
politico quella «vera guerra civile» che è la contesa sul salario. «Il rapporto di
lavoro (come rapporto di sfruttamento) è immediatamente economico e
politico», scrive ancora Balibar, è la «duplice caratteristica del rapporto di
produzione che ne conferma la natura indistintamente ‘economica’ e ‘politica’,
o piuttosto, nè economica né politica, nel senso che queste categorie hanno
nell’ideologia borghese». E parla in proposito di una frontiera «a un tempo
immaginaria nelle sue giustificazioni e affatto reale nei suoi effetti» che lo Stato
moderno deve continuamente riprodurre per funzionare come strumento di
comando della classe dominante, e in forza della quale «la condizione
proletaria, le rivendicazioni proletarie sono subito percepite, nello spazio 197 K. Marx, Misère de la philosophie. Réponse à la «Philosophie de la misère» de M. Proudhon (1847, l’opera fu scritta in francese, la versione tedesca è in MEW IV, pp. 63-182); trad. it. di F. Rodano Miseria della filosofia. Risposta alla filosofia della miseria del signor Proudhon, Editori Riuniti, Roma 19713, p. 67. È l’antagonismo fra le classi a determinare anche il sistema di produzione e con esso lo scambio individuale, non a caso, è solo qui che troviamo i primissimi spunti di definizione del concetto di classe. Frosini rintraccia in questo testo un peculiare «approccio genealogico e costruttivo» che interpreta la storia in modo strutturalmente politico come scontro fra le classi, in cui solo l’affermarsi dell’egemonia politica di una classe determina il mutamento storico, «riscrivendo» e «traducendo» in lingua diversa tutta una molteplicità di fattori e circostanze che trovano la propria unificazione solo sul piano politico: la genesi del capitalismo sarebbe pertanto «un processo politico e solo in quanto tale […] un processo economico» (Da Gramsci a Marx cit., pp. 98-104). 198 Marx, Miseria della filosofia cit., p. 146. «Gli scioperi hanno sollecitato regolarmente l’invenzione e l’applicazione di nuove macchine. Le macchine erano […] l’arme che usavano i capitalisti per abbattere le ribellioni del lavoro specializzato» (p. 141): la politica delle lotte operaie si fa linguaggio separato, non smette invece di abitare il rapporto economico di capitale, fino a determinare talvolta linee e traiettorie del suo sviluppo.
308
dell’ideologia dominante come ‘non-politiche’, anche se, per ottenere questo
risultato occorre dispiegare tutto un arsenale di mezzi e di sforzi statali».199 La
produzione della soglia che delimita gli ambiti di verità del politico escludendo
le questioni del lavoro e dello sfruttamento è una funzione fondamentale del
dominio borghese, che si legittima attraverso l’ideologica spoliticizzazione dei
rapporti sociali. Pare dunque possibile leggere alcuni elementi della riflessione
marxiana di questi anni indagandola anche nei termini di una radicale messa in
questione di tale soglia attraverso un lavoro di risignificazione politica di alcuni
comportamenti collettivi e sfere dell’esistenza sociale. La politicità di
quest’ultima viene colta direttamente nel suo emanare dall’antagonismo delle
classi sociali, prima della traduzione nel linguaggio del potere politico,
rintracciando nella storia l’istantaneità, la coestensività di movimento
economico e movimento politico, di «evoluzioni sociali» e «rivoluzioni
politiche».200 «La lotta di classe contro classe è una lotta politica […]. Non si
dica che il movimento sociale esclude il movimento politico. Non vi è mai
movimento politico che non sia sociale nello stesso tempo»:201 così le ultime
pagine di Miseria della filosofia presentano le coordinate di un’iniziativa di
riscrittura sociale del politico che nel Manifesto istituisce l’unità di società,
storia e politica: La storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi. […] Ma ogni lotta di classi è lotta politica.202
Non si tratta semplicemente di affermare la politicità delle lotte operaie, ma
di ritrovare la verità del politico al di qua della sua enunciazione – ideologica
perché occulta gli antagonismi sociali che muovono il corso della storia – nel
199 Balibar, La paure delle masse cit., pp. 132, 133 e 134. 200 Così un mutamento delle forze produttive è necessariamente coevo al mutamento della classe rivoluzionaria in senso conservatore, come lo sono la crescita economica dell’industria moderna alla crescita politica del proletariato rivoluzionario che si coalizza («perché fare delle coalizioni non è forse fare politica?») e quest’ultima al superamento del carattere utopico delle sue dottrine, Marx, Miseria della filosofia, pp. 147, 104, 105, 141 e 107. 201 Ivi, pp. 145 e 146. 202 K. Marx, F. Engels, Manifest der kommunistischen Partei (1848), in MEW, bd. IV, pp. 459 e 468.
309
linguaggio delle istituzioni statuali, rimuovendo così la mediazione falsante fra
la parola e la cosa operata dal lessico politico moderno. Si può allora, con
Gaetano Rametta e Maurizio Merlo, rintracciare nella riflessione che Marx
imbastisce dal 1843 «un’operazione critica rispetto all’intero assetto della
filosofia politica moderna»,203 tesa in ultima analisi a frantumare l’assetto
dicotomico pubblico/privato garantito dal potere moderno che, sotto la
metafisica idealista della sovranità, agisce come nuova forma e funzione di una
disuguaglianza che consente il dominio dell’uomo sull’uomo. Obiettivo di
Marx tuttavia non pare – vi tornerò nell’ultimo paragrafo – tanto di abolire la
frontiera che delimita gli ambiti di verità del politico, affermare che «tutto è
politico», che il sociale è in sé la verità del politico, quanto di ridislocarla
dentro la società, rendendo quest’ultima politicamente striata. La
politicizzazione del lavoro operaio attraverso il dispositivo della lotta di classe
è il congegno teorico che consente questa operazione, gettando le basi affinché
accanto allo Stato moderno si ponga la classe operaia come soggettività storico-
politica. Un’«invenzione» destinata a segnare la storia dei successivi
centocinquant’anni, e a condurre il riconoscimento della politicità di alcuni
comportamenti collettivi operai (come gli scioperi) fin dentro le costituzioni
democratiche occidentali.
Mi pare che proprio tale riflessione sul politico, proprio l’articolazione di
questo discorso di verità del politico, possa essere convocata a rendere conto
della posizione che Marx matura verso i pensatori e movimenti socialisti
francesi richiamati all’inizio presente capitolo. Nel Manifesto si fa riferimento a
sansimoniani e fourieristi rimproverando loro di obliterare il terreno del
politico, di mettersi «in cerca di una scienza sociale, delle leggi sociali» senza
riuscire a scorgere «dalla parte del proletariato nessuna spontaneità storica,
nessun movimento politico che gli sia proprio», intendendolo solo come la
203 «Ivi compreso quel pensiero della volontà generale che, da Rousseau ai giacobini era comunque rimasto incluso all’interno di una problematica della sovranità e del potere come forme di attuazione dell’unità politica», G. Rametta, M. Merlo, Potere e critica dell’economia politica in Marx, in G. Duso (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Carocci, Roma 20093, p. 364.
310
«classe dei sofferenti», e dunque rigettando «qualsiasi azione politica»,
levandosi «accanitamente contro qualunque movimento politico dei lavoratori».
Socialismo e comunismo utopici sono tali perché si concentrano esclusivamente
sul sociale senza comprendere né agire il carattere antagonista del lavoro
dell’emancipazione, l’«organizzazione del proletariato in classe».204 Nei testi
sul quarantotto francese tali posizioni si traducono nel sostegno alla posizione
dei blanquisti e nella condanna dei socialisti che spingono il proletariato verso
«esperimenti dottrinari, banche di scambio e associazioni operaie, cioè a un
movimento in cui rinuncia a trasformare il vecchio mondo coi grandi mezzi
collettivi che gli sono propri, e cerca piuttosto di conseguire la propria
emancipazione alle spalle della società, in via privata, entro i limiti delle sue
meschine condizioni d’esistenza, e in questo modo va necessariamente al
fallimento».205 Il citato testo di Dardot e Laval lavora a mostrare alcuni
fondamentali debiti che Marx ha maturato nei confronti di Saint-Simon e dei
suoi discepoli, ma mi pare che proprio sulla considerazione del terreno politico
sia possibile scorgere uno scarto fondamentale.206 L’idea di un coordinamento
funzionale in cui dalla spontanea divisione del lavoro secondo il principio di
capacità emerge la selezione dei migliori chiamati a governare razionalmente
questa impresa solidale di industriali, questo Stato divenuto una semplice
«associazione di lavoratori» restituisce i tratti della forclusione del politico dalla
prospettiva sansimoniana che punta a sostituire l’amministrazione delle cose al
governo degli uomini. Ora, come nota Abensour a partire dalla Kritik del 1843,
«Marx non intende annunciare che l’amministrazione delle cose sostituirà il
governo degli uomini, ma affermare – coi Francesi moderni – che l’avvento
della democrazia significa la scomparsa dello Stato politico».207 Se è possibile
rintracciare un discorso marxiano di verità del politico, pare insomma assai
arduo pensarlo nei termini di una coestensività col sociale che elide il terreno
204 Marx, Engels, Il manifesto cit., p. 45. L’organizzazione del proletariato in classe è «il lungo lavoro necessario, che si forma poco per volta» e a cui gli utopisti vorrebbero surrogare «una organizzazione della società tutta nuova di sana pianta». 205 Marx, Il diciotto brumaio cit., p. 60. 206 Cfr. supra, § 3.1. 207 Abensuor, La democrazia contro lo Stato cit., p. 20.
311
dell’antagonismo e del conflitto politico.
È sulla scia di questo ragionamento che vado ora a considerare l’analisi della
società francese proposta da Marx negli scritti sulla vicenda quarantottesca,
cercando di mostrarli come sforzo di declinare sul concreto volgere della storia
questo discorso di verità del politico che utilizza il dispositivo di classe per
tradurre concetti e nozioni del lessico politico moderno riscrivendo dentro il
sociale linee, traiettorie e confini di politicità. Si è detto che la frattura del
quarantotto rappresenta al tempo stesso il margine esterno e l’orizzonte della
presente ricerca perché si suppone che in essa, nell’intersezione di una serie di
avvenimenti di differente natura, sia possibile riconoscere una prima e
provvisoria affermazione, o «evenemenzializzazione», di quel regime di verità
– la politicità del lavoro operaio – che si è lavorato a mostrare in quanto oggetto
della formazione discorsiva che prenderà il nome di classe operaia e di cui si è
cercato di rintracciare i tratti di un’emergenza in corrispondenza del tornante
1831-32. Convocando Marx – l’autore che più ha contribuito all’elaborazione e
valorizzazione del concetto di classe operaia nel pensiero politico moderno – a
svolgere la funzione di «volano» verso tale margine esterno, si intende sondare
la tenuta di queste ipotesi nel modo in cui egli si fa testimone e interprete della
realtà sociale francese. Non si tratta pertanto di andare alla ricerca della
«verità» del concetto di classe in un segmento della riflessione marxiana
(sarebbe comunque difficile conseguire un’indicazione univoca), di sforzarsi di
mostrare, contro l’interpretazione «marxista», la prevalenza della
configurazione politico-discorsiva di tale nozione rispetto a quella socio-
economica, né di stabilire in che misura essa sia una parola d’ordine militante,
una categoria sociologica, un concetto politico e/o una congiuntura storica.208
Ci si propone qui, più semplicemente, di valutare se nella traduzione in testo
che la «macchina Marx» opera della sua esperienza, diretta o indiretta, della
società francese sia possibile reperire conferma dell’ipotesi avanzata sul
funzionamento e significato dell’emergere storico della nozione di classe
208 Cfr. F. Jameson, Representing Capital. A Reading of Volume One, Verso, London 2011, pp. 7 sgg.
312
operaia nella Francia pre-quarantottesca. In Die Klassenkämpfe in Frankreich –
raccolta di quattro pezzi scritti nel corso del 1850 per la «Neue Rheinische
Zeitung. Politisch-ökonomische Revue» – e nel Der 18te Brumaire des Louis-
Napoleon – pubblicato fra maggio e luglio 1852 sulla rivista newyorkese «Die
Revolution» – si va pertanto in primo luogo a interrogare l’eventuale operatività
di un discorso di verità del politico, di ciò che ho chiamato un lavoro di
traduzione o riscrittura sociale di alcuni concetti del lessico politico moderno,
per poi osservare la funzione che in esso svolgono le nozioni che ruotano
intorno al concetto di classe.
3.5 Lotte in Francia.
Forzando, piegando l’itinerario teorico marxiano alle esigenze espositive
della presente indagine, si potrebbe affermare che, come la «critica della
politica» imbastita nel 1843 sostiene l’interpretazione della révolte des canuts,
che è coeva a un mutamento di problematica nella concezione del politico.
Così, fatte le debite – siderali – proporzioni, l’indagine della vicenda
quarantottesca in Francia potrebbe essere letta non come l’estemporaneo ritorno
sul terreno del politico messo fra parentesi in seguito alla critica del 1843, ma in
quanto declinazione sul concreto volgere della storia della riflessione sullo
statuto del politico imbastita a partire dal 1844 attraverso i concetti di critica e
Praxis, in uno snodo, quello del 1848-52, che marca il più notevole
spostamento dell’intera biografia teorica e politica di Marx.
Come nella vita privata si fa distinzione tra ciò che un uomo pensa e dice di sé e ciò che dice e fa in realtà, tanto più nelle lotte reali della storia si deve far distinzione fra le frasi e le pretese dei partiti e il loro organismo reale e i loro interessi, tra ciò che essi si immaginano di essere e ciò che in realtà sono.209
209 Marx, Il 18 brumaio cit., p. 94.
313
Così il 18 brumaio indica la prospettiva attraverso cui leggere la distinzione
fra legittimisti e orleanisti smascherando il «titolo politico del loro dominio»,210
ma questo brano indica in realtà la postura che orienta tutta l’interpretazione
marxiana del quarantotto francese. Come noto, essa fa esplicito riferimento alle
metafore teatrali della tragedia e della commedia, e si propone di scrivere gli
avvenimenti «smascherandone» gli attori, dicendo la loro identità reale
occultata sotto la forma e il lessico del politico statuale: criticando il «nome»
per fare emergere la «cosa». Si tratta di rileggere gli avvenimenti rimuovendo
continuamente «questa apparenza superficiale che nasconde la lotta di
classe»,211 verità del politico che muove ogni singolo snodo della vicenda
rivoluzionaria, pur mascherata nella forma illusoria dei partiti e delle istituzioni.
Come si vede, una volta rimossi i riferimenti feuerbachiani sostituendoli con le
classi e la prassi della loro lotta, ritroviamo intatto l’orizzonte della scrittura
della critica come compito politico che Marx enunciava nel 1844. In questo
senso Le lotte di classe in Francia e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte possono
essere letti come svolgimento di tale progetto piuttosto che digressione, o
ritorno, sul terreno specificamente politico. Ai fini della presente indagine si
tratta, ripeto, di scrutare in tali scritti l’operatività del lavoro di trascrizione
sociale del politico e il ruolo che in esso svolge la nozione di classe per sondare
la possibilità di ritrovare nel modo in cui la machine Marx traduce in testo la
realtà francese tracce delle ipotesi avanzate analizzando il tornante 1831-32.212
Buona parte dell’interpretazione marxiana si organizza intorno all’impietosa
denuncia del clamoroso fallimento delle strategie dei repubblicani (in
particolare del «National» di cui nel primo capitolo ho analizzato
210 Questa distinzione in effetti indica già la difficolta di svolgere l’analisi utilizzando la nozione di classe borghese come univoco riferimento a una struttura sociale. Nell’opposizione fra rendita fondiaria e capitale finanziario che a loro volta si trovano in conflitto con la piccola borghesia si trova già disattivato lo schema binario della lotta di classe. 211 Marx, Il 18 brumaio cit., p. 92. 212 Si tratta di leggere i testi sul quarantotto francese anche come testi, appunto, storici e politici, vale a dire che in essi Marx cerca anche di restituire la storia di una vicenda che conosce bene, in cui si sente coinvolto anche per averla attraversata due volte di persona, nel 1848 e nel 1849.
314
l’interpretazione dell’insurrezione lionese),213 vittime di linguaggi e concetti,
mutuati dalla retorica della grande Rivoluzione e dalla teoria politica moderna,
di cui sono incapaci di riconoscere l’ineffettualità sociale e l’inefficacia
politica. Gli istituti della repubblica rappresentativa che prendono forma dopo
la rivoluzione di febbraio sono l’oggetto degli strali di Marx poiché essi
servono, con Guastini, al «più vasto consenso sociale che il dominio borghese,
per il loro tramite ottiene (o sembra ottenere), dando alla volontà della
borghesia appunto il crisma di ‘legge’, di ‘volontà generale’ del popolo-nazione
nella sua interezza». 214 L’Assemblea nazionale costituente svolge la mera
funzione di «tradurre in linguaggio politico» («la borghesia non ha re») la
vecchia divisa del terzo stato («il denaro non ha padrone»): la costituzione
repubblicana doveva semplicemente «elaborare questa forma», «il resto […] era
opera di terminologia»215. Così il «cretinismo parlamentare» – «malattia che
relega quelli che ne sono colpiti in un mondo immaginario e toglie loro ogni
senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo mondo esteriore» –216 è
esattamente l’incapacità di comprendere la realtà del potere sociale che le
istituzioni rappresentative traducono in linguaggio politico separandolo dalla
società e consegnandogli un profilo ideologico di neutralità. Ecco perché,
rispetto alla rivoluzione delle istituzioni politiche di febbraio, l’insurrezione
operaia di giugno «è la rivoluzione brutta, la rivoluzione ripugnante, perché al
posto della frase è subentrata la cosa». 217 Si può dunque, seguendo
l’indicazione di Frosini, leggere questi testi anche come un «campo di battaglia
linguistico»,218 in cui vengono punto su punto criticati i concetti e la retorica
responsabili dello scacco delle strategie democratico-repubblicane. Cosicché fra
gli effetti della grande rivolta del proletariato parigino, Marx annovera anche la 213 Cfr. supra § 1.4. 214 Guastini, Marx: dalla filosofia del diritto alla scienza della società cit., p. 369. 215 K. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich 1848-1850 (1895, in MEW, XXII, pp. 509-527); trad. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma 19704, pp. 159-161: Marx indica qui nella repubblica la forma più autentica del dominio della borghesia: si tratta perciò di «sbattezzare il calendario cristiano per farlo repubblicano, cambiare san Bartolomeo in san Robespierre». 216 Marx, Il 18 brumaio cit., p. 157. 217 Ivi, p. 140. 218 Frosini, Da Gramsci a Marx cit., p. 45.
315
svolta semantica in forza della quale «rivoluzione significava dopo giugno:
rovesciamento della società borghese, mentre prima di febbraio aveva
significato: rovesciamento della forma dello Stato».219 È possibile chiamare a
rappresentare l’insieme di tale operazione la critica che Marx dispiega sul
concetto di popolo, astratto strumento politico-linguistico che occulta la verità
degli antagonismi di classe.220
Agendo sul piano collettivo la stessa funzione/finzione che gli scritti di
«critica della politica» avevano demandato, sul piano individuale, al citoyen, il
popolo svolge la fondamentale funzione ideologica di mediazione fra l’astratta
unità della sovranità statuale e la realtà di una società divisa in classi
antagoniste, realizzando di quest’ultima un’illusoria rappresentazione
unitaria.221 Democratici, repubblicani, radicali mostrano la loro subalternità
esattamente nello scambiare questa illusione ottica, questa finzione linguistica
con la realtà sociale dell’antagonismo politico fra le classi. È questo strabismo
la causa della loro disfatta, tanto alle urne – ove «invece del popolo
immaginario, le elezioni trassero alla luce del giorno il popolo vero, cioè i
rappresentanti delle diverse classi in cui esso si divide» –222 quanto nel tentativo
insurrezionale del 13 giugno 1849 – ove «come avviene di solito nelle grandi
azioni democratiche, i capi avevano la soddisfazione di poter accusare il loro
‘popolo’ di diserzione e il popolo aveva la soddisfazione di poter accusare i
suoi capi di averlo gabbato».223 La critica dell’illusione ottica che la nozione di
popolo induce nelle interpretazioni politiche dei democratici è il perno di una
critica generale del lessico e della concettualità organizzati intorno al moderno
Stato rappresentativo.
219 Marx, Le lotte di classe in Francia cit., p. 147. 220 Marx ritorna in questi scritti sul concetto di popolo dopo averlo sostanzialmente ignorato in seguito al suo svuotamento concettuale nel 1843-44. 221 Ecco la tagliente ironia con cui Marx utilizza (fra virgolette) il termine «rappresentante del popolo», ove la rappresentanza è rappresentazione atta a celare la realtà della sua oppressione («ver- und zertreten» rappresentare e opprimere, scriverà nel testo sulla Comune del 1871, K. Marx, Der Bürgerkrieg in Frankreich. Adresse des Generalrats der Internationalen Arbeiterassoziation [1871, MEW XVII, pp. 313-365]; trad. it. di P. Togliatti in, La guerra civile in Francia, Editori Riuniti, Roma 19772, p. 92). 222 Marx, Le lotte di classe in Francia cit., p. 133. 223 Marx, Il 18 brumaio cit., p. 102.
316
I democratici […], con tutto il resto della nazione che li circonda, costituiscono il popolo. Ciò che essi rappresentano è il diritto del popolo; ciò che li interessa è l’interesse del popolo. Essi non hanno dunque bisogno, prima di impegnare una lotta, di saggiare gli interessi e le posizioni delle diverse classi. […] Se poi, all’atto pratico, i loro interessi si rivelano non interessanti e la loro forza un’impotenza, la colpa è di quegli sciagurati sofisti che dividono il popolo indivisibile in diversi campi nemici.224
Naturalmente lo strumento di questa critica, la «cosa» contrapposta
all’astratto «nome» del popolo, è il concetto di classe, in cui fin dalle prime
pagine de Le lotte di classe in Francia, Marx indica il principale dispositivo
attraverso cui intende interpretare la vicenda quarantottesca: «tutte le classi
della società francese furono gettate di colpo nella cerchia del potere
politico».225 L’insurrezione «operaia» di giugno 1848 è la prima vera grande
traduzione politica della guerra civile che si svolge dentro il rapporto di
produzione, dello scontro fra il potere sociale borghese, «riassunto», «tradotto»,
«rappresentato» nel potere politico statuale, e l’istanza sovversiva di carattere
proletario.226 E tuttavia lo schema di scontro di classe bipolare, esposto nel
Manifesto, sembra poi continuamente sgretolarsi tra le mani di Marx
nell’indagine della vicenda francese. Nel 18 brumaio si assiste infatti, ancora
con Balibar, a «una vera e propria decomposizione del concetto di classe […].
Non solo esplodono in una serie di suddivisioni gli schemi a ‘due classi’ o a ‘tre
224 Ivi, p. 104. «Dopo la sconfitta del 1849 – ricorderà Engels – non condividemmo in nessun modo le illusioni della democrazia volgare. Questa contava su una vittoria rapida, decisiva, una volta per tutte, del ‘popolo’ sugli ‘oppressori’; noi su una lunga lotta, dopo l’eliminazione degli ‘oppressori, tra gli elementi contraddittori che si celvano precisamente in questo ‘popolo’», F. Engels, Einleitung zu K. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich 1848-1850 (1895, in MEW, XXII, pp. 509-527); trad. it., Introduzione alla prima ristampa del 1895, in K. Marx, Le lotte di classe in Francia cit., p. 51. 225 Marx, Le lotte di classe in Francia cit., p. 107. 226 Pare adattarsi assai bene a questo frangente l’asserzione di Habermas secondo cui «Marx postula un movimento sociale, molto prima che esso potesse assumere un aspetto storicamente comprensibile nel movimento europeo dei lavoratori» (Il discorso filosofico della modernità cit., p. 62). In effetti su giugno 1848 Marx sembra agire una potente operazione di «nominazione» per imporre nel concreto volgere della storia la griglia ermeneutica di politicizzazione del lavoro operaio (sulla eterogenea composizione di giugno sia dal lato dell’insurrezione che della repressione cfr. Gossez, Diversité des antagonismes sociaux vers le milieu du XIXe cit.).
317
classi’, ma, soprattutto, si affaccia l’idea sorprendente secondo cui le situazioni
di crisi (e le rivoluzioni) sono quelle in cui le classi si decompongono in quanto
gruppi sociali definiti da ‘interessi’ semplici e distinti, suscettibili di trovare
un’espressione o una rappresentazione politica dirette». Da tale
«decomposizione» della nozione di classe (si noti che questo studioso riprende
il termine che nel 1844 descriveva l’essenza della classe proletaria), Balibar
deduce che la polarizzazione rivoluzionaria non sorgerebbe direttamente
dall’esistenza delle classi, ma da processi più complessi «la cui materia prima è
fatta di movimenti, di pratiche e di ideologie di massa».227 Si tratta di un
elemento approfondito anche nel citato lavoro di Dardot e Laval, in cui si
sostiene che il periodo 1848-52 rappresenta per Marx una «vera sfida posta alla
dialettica», e agli stessi schemi interpretativi del Manifesto, di cui alcuni
elementi si troverebbero a essere quasi rovesciati. «Un’altra interpretazione»
viene qui opposta allo schema classico che legge le lotte operaie come effetto
del movimento economico: a «dominare» la lettura marxiana della vicenda
quarantottesca sarebbe una «linea di pensiero» che «fa dipendere dalla lotta la
produzione stessa delle classi. […] Le classi non preesistono alla lotta che sono
chiamate a combattere, esse si costituiscono nel loro rapporto reciproco. […] La
lotta genera i combattenti, costringe le forze in lotta a definirsi, a trovare la loro
identità, la loro forma politica, il loro discorso».228 La tesi è insomma che, assai
più del movimento del capitale e delle evoluzioni economiche, sia
l’accelerazione del conflitto sociale a dare forma evidente, riconoscibile alle
classi sociali, le quali paiono sempre emergere in prima battuta
dall’antagonismo all’iniziativa di altri gruppi. Dardot e Laval sottolineano che
Marx pare qui applicare lo schema secondo cui il processo di concentrazione
del capitale genera l’antagonista che lo distruggerà al meccanismo di
accentramento statuale del potere esecutivo del secondo Impero destinato a
suscitare e rafforzare l’antagonismo proletario (è la marxiana negazione della
negazione à la française, cioè politica). Su questo terreno mi permetto una
227 Balibar, La paura delle masse cit., p. 136. 228 Dardot, Laval, Marx, prénom: Karl cit., pp. 247 e 261-262.
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brevissima digressione muovendo dall’analisi del testo marxiano verso quella
storica per richiamare ancora l’importante ricerca sulla formazione del
movimento operaio francese di William H. Sewell, Work and Revolution in
France. Facendo riferimento all’analisi della centralizzazione politica del
Tocqueville de L’Ancien régime et la Révolution, questo studioso ha messo in
rilievo la sfasatura fra il lento e tardivo andamento dello sviluppo economico
francese, e i ritmi battenti delle lotte, che paiono sintonizzati non sul lungo
corso delle strutture economiche, ma sul rapido e intermittente scandirsi degli
eventi politici: sarebbero in ultima analisi questi – e in particolare la rivoluzione
di luglio 1830 – la vera determinante cui guardare per studiare la nascita del
movimento operaio in Francia.229 Vale la pena di richiamare in proposito anche
la ricerca di Charles Tilly sull’insurrezione operaia del giugno 1848, svolta in
esplicito dialogo con l’interpretazione marxiana e tesa a evidenziare il ruolo di
provvedimenti e iniziative governative ostili alle organizzazioni di mestiere di
ispirazione democratica e socialista nel determinare il corso dell’intera vicenda
rivoluzionaria lungo il periodo 1846-52.230
229 Sewell, The Language of Labor from the Old Regime to 1848 cit. 230 C. Tilly, L. Less, Le peuple de Juin 1848, in «Annales. Èconomies, Sociétés, Civilisations», 5, 1974, pp. 1061-1091. L’analisi del profilo e della composizione degli insorti di gugno 1848 viene svolta a partire dalla contestualizzazione dell’evento all’interno di una ricostruzione del livello generale di mobilitazione (numero di incidenti violenti che coinvolgono almeno 50 persone) negli anni 1846-1852, si sottolinea poi nella vicenda quarantottesca il legame fra le agitazioni operaie e i provvedimenti del governo ostili alle organizzazioni di mestiere di ispirazione democratica e socialista. Avendo indicato nel giugno 1848 il «margine esterno» della presente ricerca, ed avendolo già incontrato come importante termine di paragone, spendo ancora qualche parola sull’interpretazione propostane da Tilly e Less. Lo strumento centrale dell’analisi è la lista degli 11.722 processati e di coloro che furono poi condannati per l’insurrezione. Tali dati vengono analizzati domandandosi se giugno 1848 rappresenti «un prolungamento di quel tipo di insurrezione urbana che apparve nel 1789» (p. 1062) oppure, come suggerito da Marx, un punto di discontinuità. Tilly e Less propendono per questa seconda ipotesi mostrando che sono ora le industrie strutturate in unità produttive più grandi a fornire la più significativa concentrazione di insorti. «Le manifestazioni di primavera e la lotta finale del 1848 non ripeterono semplicemente le grandi giornate del 1789-1795. I problemi posti e gli attori erano cambiati. Le sezioni e i sans-culottes avevano fatto spazio a delle società di mestiere, a dei meccanici e degli operai edili appartenenti a una forza lavoro sempre più proletarizzata. La contestazione in Francia si modernizzava» (p. 1091). Si sottolinea la massiccia partecipazione degli operai edili, del metallo e del cuoio all’insurrezione, e l’apparentemente scarso ruolo giocato dalle «classi pericolose» così come dai clubs politici (espressione di strati sociali più elevati). Anche Remi Gossez nel 1956 (Diversité des antagonismes sociaux vers le milieu du XIXe cit.) aveva ampiamente fatto ricorso alle medesime fonti, affiancandovi anche un’indagine della composizione delle forze schierate sul
319
Le rivoluzioni proletarie criticano continuamente se stesse; interrompono ad ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi […] delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad essi.231
Questo passaggio del Diciotto brumaio è degno di nota almeno sotto due
punti di vista. In primo luogo si vede il terreno della lotta politica, degli
avvenimenti, imporsi come spazio obbligato di verifica degli assunti teorici: di
qui la posizione di Marx nella vicenda rivoluzionaria, ove prende le distanze dai
vari capi e «sistemi» del socialismo – impegnati in dissertazioni teoriche e in
vari, politicamente subalterni, «esperimenti dottrinari» –232 per aderire alla
parola d’ordine della «rivoluzione in permanenza», indicando, in ragione della
pratica politica, nei blanquisti i portabandiera del proletariato parigino.233 Il
«nome di Blanqui» è quello che «la borghesia stessa ha inventato» per
designare il comunismo: gli attori reali della vicenda storica – è questo il
secondo elemento – emergono sempre dalla contrapposizione,
dall’antagonismo, dal gesto dell’avversario che li fa «levare», «sorgere» gli uni
«di fronte» agli altri. Il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo
versante della repressione (in particolare le guardie nazionali), giungendo però a conclusioni parzialmente differenti e cercando di mostrare come gli antagonismi esplosi nell’insurrezione di giugno fossero irriducibili alla sola e semplice dualità borghesia-proleriato. 231 Marx, Il 18 brumaio cit., p. 52. 232 Ivi, p. 60. 233 «Mentre la lotta dei diversi capi socialisti tra di loro rivela che ciascuno dei cosiddetti sistemi non è altro che la pretenziosa sottolineatura di uno dei punti della trasformazione sociale a preferenza degli altri, il proletariato va sempre più raggruppandosi intorno al socialismo rivoluzionario, al comunismo, per il quale la borghesia stessa ha inventato il nome di Blanqui. Questo socialismo è la dichiarazione della rivoluzione in permanenza, la dittatura di classe del proletariato, quale punto di passaggio necessario per l'abolizione delle differenze di classe in generale, per l'abolizione di tutti i rapporti di produzione su cui esse riposano, per l'abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste relazioni sociali», Marx Marx, Le lotte di classe in Francia cit., pp. 268-69.
320
sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario.234
Ancora emerge il tema della «velocità» della storia, il cui ritmo ha a che fare
in primis con forme e intensità degli antagonismi politici, vero motore del
«costituirsi» e palesarsi delle classi sociali. Motore in grado di determinare
radicali alterità nella natura stessa del tempo, che può farsi «turbine di
movimento […] drammatico flusso e riflusso di passioni» in cui «le diverse
classi della società francese erano costrette a calcolare le epoche del loro
sviluppo a settimane, come prima le avevano contate a mezzi secoli».235 oppure,
al contrario, «storia senza avvenimenti, una evoluzione la cui unica molla
sembra essere il calendario e che stanca per la ripetizione costante degli stessi
momenti».236 È dunque dal momento che impongono agli attori reali del
mutamento storico, le classi, di formarsi e palesarsi sul terreno dello scontro che
«le rivoluzioni sono le locomotive della storia». 237 Le vicende di piccola
borghesia e contadini sono emblematiche non solo della decomposizione dello
schema di polarizzazione a due classi, ma anche della difficoltà di pensare le
caratteristiche delle classi sociali, la struttura dei loro interessi e bisogni, al di
qua della dimensione politica dello scontro, delle alleanze, della produzione di
tattiche, discorsi, strategie e linguaggi:238 «il corso della rivoluzione aveva con
tanta rapidità fatto maturare la situazione, che i riformisti d'ogni tinta, le pretese
234 Ivi, p. 89. 235 Ivi, p. 208. «In questo turbine di movimento, in questa tormentosa inquietudine storica, in questo drammatico flusso e riflusso di passioni, speranze, delusioni rivoluzionarie»: si tratta qui del periodo che va dal 14 ottobre 1848 – data di revoca dello stato d’assedio proclamato in seguito all’insurrezione operaia di giugno – fino alla farsa insurrezionale dei democratici piccolo-borghesi del 13 giugno 1849. 236 Marx, Il 18 brumaio cit., p. 87. «Passioni senza verità, verità senza passione, eroi senza azioni eroiche, […]. Se mai epoca della storia è stata dipinta in grigio su grigio è ben questa»: Marx parla ora del periodo «della repubblica costituzionale o parlamentare», compreso fra l’elezione dell’Assemblea legislativa del 29 maggio 1849 e il colpo di Stato del 2 dicembre 1851. 237 Marx, Le lotte di classe in Francia, p. 260. 238 «Così parlavano i socialisti in opuscoli, in calendari, in pubblicazioni d’ogni genere. Questo linguaggio diveniva più comprensibile al contadino grazie agli scritti contrari del partito dell’ordine, che a sua volta si indirizzava a lui, e colle rozze esagerazioni, con l’interpretazione e con la rappresentazione brutale degli intendimenti e dei concetti socialisti, trovava il vero tono adatto al contadino», Ivi, p. 259.
321
più modeste delle classi medie, erano forzati a stringersi attorno alla bandiera
del partito sovversivo estremo».239 I contadini compongono «la classe più
numerosa della società francese […] la massa del popolo francese», e tuttavia,
nella misura in cui l’isolamento reciproco impedisce loro di rappresentare
collettivamente i propri interessi, «essi non costituiscono una classe», ma una
«semplice somma di grandezze identiche».240 Sono una «massa», un segmento
sociale numericamente egemone che, pur esprimendosi nel linguaggio del
potere politico attraverso il voto, a causa dell’isolamento che impedisce loro
un’iniziativa collettiva sul terreno politico della lotta, non si costituiscono in
quanto classe, a meno di arrivare a riconoscere i propri interessi come
contrapposti a quelli della borghesia e quindi di istituire un’alleanza con il
«proletariato urbano» come «dirigente».241 È ancora il terreno politico della
lotta l’ambito in cui la classe si istituisce e rende intellegibile. «Capire cosa la
classe operaia è non si può se non si vede come essa lotta», scrive Mario
Tronti.242 E la stessa borghesia si costituisce al singolare solo unendo gruppi e
istanze differenti nel momento in cui si tratta di battersi contro il comune
nemico proletario, in un conflitto politico che determina bruschi e paradossali
esiti. Come quello del secondo Impero, che realizza una situazione di dominio
della borghesia in cui lo Stato politico pare sovrastare completamente la società
civile borghese, la quale era stata «spinta dalla sua stessa situazione di classe
[…] a rendere irresistibile il potere esecutivo che le era ostile».243 E a sua volta,
239 Ivi, p. 266. 240 Marx, Il 18 brumaio cit., pp. 207, 209 e 208. «Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura da quelli di altre classi e li contrappongono ad esse in modo ostile, esse formano una classe. Ma nella misura in cui tra i contadini piccoli proprietari esistono soltanto legami locali e la identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe. Sono quindi incapaci di far valere i loro propri interessi nel loro proprio nome», pp. 208-209. 241 Ivi, pp. 214-215. 242 M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966, p. 200. Si tratta di un testo che insiste molto sul carattere politico ben prima e più che socioeconomico del concetto di classe: «il sociologo comincia a leggere il Capitale dalla fine del III libro e interrompe la lettura quando si interrompe il capitolo sulle classi. […] Ma il capitolo sulle classi non è rimasto a caso incompleto», ivi, p. 228. 243 «Ma l'interesse materiale della borghesia francese è precisamente legato nel modo più stretto al mantenimento di quella grande e ramificata macchina statale. Qui essa mette a posto la
322
sostiene Marx, è proprio la smisurata crescita di quest’ultimo a determinare, per
antagonismo, la ripresa della rivoluzione, che ora «se lo pone di fronte come
unico ostacolo per concentrare contro di esso tutte le sue forze». 244 È
l’inimicizia politica il filtro che determina il processo rivoluzionario, che
conferisce ritmo politico al divenire storico: «la controrivoluzione aveva
violentemente centralizzato, aveva cioè predisposto il meccanismo della
rivoluzione».245 Pare insomma di poter sostenere che nell’analisi marxiana del
quarantotto francese le classi sociali, non sembrano emergere da una struttura
socio-economica data, ma costituirsi invece dentro processi dispiegati anzitutto
sul terreno politico dell’antagonismo e del conflitto. Pare cioè che,
differentemente da alcune formulazioni del Manifesto, nella lettura degli
avvenimenti quarantotteschi in Francia sia possibile cogliere il funzionamento
della nozione di classe anzitutto all’altezza della dimensione politico-
discorsiva, ove essa agisce anche come strumento per decostruire il lessico
politico della sovranità e dello Stato e operarne una riscrittura in grado di
«striare» politicamente la società civile. Il dispositivo di classe permette cioè di
tradurre e riscrivere le frontiere del politico dentro il sociale, ove le classi si
costituiscono, si organizzano e lottano disegnando il profilo di un’altra politica
che non è però coestensiva all’intera società, al mero insieme delle classi sociali
e della loro lotta.
Attraverso il volano dell’interpretazione istruitane da Karl Marx, siamo
sua popolazione superflua; qui essa completa, sotto forma di stipendi statali, ciò che non può incassare sotto forma di profitti. interessi, rendite e onorari. D'altra parte il suo interesse politico la spingeva ad aumentare di giorno in giorno la repressione, cioè i mezzi e il personale del potere dello Stato. […] Così la borghesia francese era spinta dalla sua stessa situazione di classe, da un lato, ad annientare le condizioni di esistenza di ogni potere parlamentare, e quindi anche dei suo proprio, dall'altro lato a rendere irresistibile il potere esecutivo che le era ostile», Marx, Il 18 brumaio cit., p. 114. 244 È qui una delle più celebri formule marxiane. «La rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo […] prima ha elaborato alla perfezione il potere parlamentare, per poterlo rovesciare. Ora che ha raggiunto questo risultato, essa spinge alla perfezione il potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo pone di fronte come unico ostacolo, per concentrare contro di esso tutte le sue forze di distruzione. E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l'Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato, vecchia talpa!», ivi, p. 205. 245 Marx, Le lotte di classe in Francia cit., p. 264.
323
dunque giunti – con il presente capitolo – a toccare il momento che dall’inizio
si è dichiarato rappresentare al tempo stesso l’orizzonte e il margine esterno
della presente ricerca: la rottura quarantottesca. Pensando questo autore anche
come una sorta di «macchina» che traduce in testo la propria esperienza, diretta
e indiretta, della realtà francese, sono dunque andato in cerca, nei suoi testi sul
quarantotto, di un concetto di classe che funziona e agisce anzitutto sul terreno
politico-discorsivo, di una nozione la cui «fisionomia» sia cioè in grado di
confermare le ipotesi avanzate all’inizio del presente capitolo a partire
dall’interpretazione sansimoniana dell’insurrezione del 1831 intorno alla
possibilità di considerare l’emergere della nozione di classe come una
formazione discorsiva che ha per oggetto le frontiere del politico. Si è d’altra
parte svolto riguardo all’itinerario marxiano, la medesima operazione proposta
nei capitoli precedenti sul discorso repubblicano e quello dottrinario: si è
cercato di ritrovare l’operatività di un discorso di verità del politico a partire
dall’interpretazione della révolte des canuts e da quello che ho chiamato il
momento francese del 1844. Un discorso che non intende, una volta denunciata
nel 1843 la non-verità del politico statuale, inscriverne la verità nel sociale
affermando che il sociale è il politico, che tutto è politico, ma che ho cercato di
mostrare nei termini di un lavoro di risignificazione politica di alcune sfere
collettive dell’esistenza sociale, svolto utilizzando il concetto di classe come
strumento di una traduzione, o trascrizione di elementi del lessico politico
moderno. Mi pare che si possa chiamare a rappresentare plasticamente i tratti di
una tale postura teorica in particolare l’utilizzo marxiano della nozione di
Lumpenproletariat. Questa rappresenta infatti un segmento del sociale
radicalmente impolitico, posto cioè al di là della frontiera del politico che Marx
intende riscrivere dentro la società. Posizione esemplificata già nel Manifesto,
ove il sottoproletariato (questa l’usuale traduzione italiana) è presentato come
una classe (risultante dalla «putrefazione passiva degli strati infimi della società
esistente») che può indifferentemente prestarsi tanto al corso della rivoluzione
che alle manovre della reazione.246 Se è possibile rintracciare dal «momento 246 Marx, Engels Il manifesto cit, p. 28. Si noti che il termine era già stato usato da Engels
324
francese del 1844» un discorso marxiano di verità del politico che intende non
affermare che il sociale è in sé la verità del politico, ma – istituendo il concetto
di classe come griglia ermeneutica che consente di leggere la politicità del
sociale – fondare la politicità di alcuni comportamenti collettivi operai
(coalizioni, scioperi, rivolte etc.), allora si può chiamare a rappresentare tale
discorso la radicale impoliticità del Lumpenproletariat, che definisce un ambito
di attitudini, comportamenti, soggetti posti al di fuori della frontiera concettuale
del politico una volta che questa è stata ridislocata, trascritta dentro il sociale.
Leggendo i testi sul quarantotto come sforzo di declinare sul concreto volgere
della storia tale discorso di verità del politico, non è un caso che proprio qui
Marx si trovi a dover fare un uso sempre più ampio del termine
Lumpenproletariat, chiamandolo a rendere conto dei due eventi di maggior
rilievo dell’intera vicenda 1848-52, l’insurrezione operaia di giugno e il colpo
di stato bonapartista: tornerò diffusamente nel prossimo capitolo su questo
elemento.
È ora possibile domandarsi quale sia il nome del soggetto intorno a cui Marx
costruisce la propria interpretazione della vicenda quarantottesca, e svolgere
perciò una breve disamina della posizione reciproca di nozioni e significanti
dispiegati lungo la traiettoria popolo-classe-proletariato-operai. Si è già
osservato l’esaurimento del valore costitutivo del primo termine, e tuttavia il
lemma popolo continua a ricorrere – in particolare prima e durante le giornate
di febbraio 1848 e poi nella farsa insurrezionale di giugno 1849 – per designare
la presenza sulla scena di un corpo collettivo, «soggetto politico di una lotta in
funzione democratica»,247 che rimane però attore solo generico, astratto, in
qualche modo passivo. Presenza che cede il posto a «proletariato» e «operai» ed è presente nell’Ideologia tedesca ma solo con riferimento all’antica Roma. Per una disamina dei diversi utilizzi di questa categoria cfr. anzitutto H. Raymond, Marx et Engels devant la marginalité: la découverte du lumpenproletariat, in «Romantisme», 59, 1988, pp. 5-17, e poi: H. Draper, The concept of the lumpenproletariat in Marx and Engels, in «Economies et Sociétés», 6, 12, 1972, pp. 285-312, voce Lumpenproletariat in G. Labica (dir.) Dictionnaire historique et critique du marxisme, cit., p. 525-26, P. Vercauteren, Les Sous-prolétaires. Essai sur une forme de paupérisme contemporain, Bruxelles 1970. 247 Chiodi, voce popolo, in Papi, Dizionario Marx-Engels cit., pp. 291-292.
325
quando – come nei mesi successivi la rivoluzione di febbraio – le classi si
dispongono sul terreno della lotta.248 Ma qual è la posizione reciproca di questi
due termini? Il governo si pose all'opera. Al principio del febbraio 1850, provocazioni del popolo con l'abbattimento degli alberi della libertà. Invano. […] Il governo fece sì che il 24 febbraio venisse ignorato dal popolo. Il proletariato non si lasciò provocare a nessuna sommossa, perché aveva l'intenzione di fare una rivoluzione. Senza lasciarsi turbare dalle provocazioni del governo […] il comitato elettorale, interamente sotto l'influenza degli operai, presentò tre candidati per Parigi. […] Era una coalizione generale contro la borghesia e il governo, come nel febbraio. Ma questa volta il proletariato era la testa della lega rivoluzionaria.249
Il generico e astratto riferimento al «popolo», lascia il posto al «proletariato»
non appena si dà uno scontro politico, oppure al corpo vivo degli «operai»
quando si tratta di descrivere il dipanarsi concreto degli avvenimenti. «Durante
tutto il 13 giugno, il proletariato mantenne lo stesso atteggiamento di scettica
osservazione, e attese una battaglia seria, irrevocabile […]. Gli operai parigini
avevano imparato alla scuola sanguinosa del giugno 1848».250 «Operai» sono la
carne viva, gli uomini che si battono nelle strade: «proletariato» è il nome
collettivo che essi assumono quando si presentano come soggettività storica che
agisce e formula rivendicazioni sul terreno della politica, soggettività chiamata
anche a dispiegare il complesso gioco delle «alleanze» di classe. «Una massa di
20 mila operai marciò sull’Hotel de Ville al grido di: Organizzazione del
lavoro!», i soggetti concreti della lotta sulla scena politica prendono
collettivamente il nome di proletariato: «Raspail si recò all’Hotel de Ville in
248 In Le lotte di classe in Francia, l’espressione popolo, presente prima e durante la rivoluzione di febbraio, scompare in seguito a favore di proletariato e operai e poi riappare nella descrizione della farsa insurrezionale di giugno 1849 (è il «popolo» che rumoreggia dai marciapiedi, è al «popolo» che viene impedito di fare barricate, è il popolo a rappresentare una soggettività che non produce politica). 249 Marx, Le lotte di classe in Francia cit., pp. 269-271, corsivi miei. 250 Ivi, p. 220: «La repubblica di Febbraio fu conquistata dagli operai con l’aiuto passivo della borghesia. I proletari si consideravano a giusto titolo come i vincitori di Febbraio»,
326
nome del proletariato parigino».251 «Il carattere particolare della merce forza-
lavoro si presenta, dopo il giugno del ’48 nel suo essere, sul terreno politico,
proletariato», scrive Mario Tronti, affermando che «da questo momento il
discorso su lavoro e forza-lavoro, sul valore e sul capitale, s’incastra
definitivamente con l’analisi politica dei movimenti degli operai».252
Il nome del soggetto di cui Marx narra e interpreta la vicenda negli scritti sul
quarantotto francese è quello di «proletariato», serve a scrivere atti collettivi
con cui il corpo plurale degli «operai» interviene sul terreno della politica
costituendosi perciò in classe. «Il proletariato decimato per giunta dal colera,
cacciato fuori da Parigi in massa ragguardevole dalla disoccupazione»:253 è
anche il nome di un fenomeno urbano che Marx ha «incontrato» nel 1844
conoscendone la configurazione migrante drammaticamente legata alle
dinamiche demografiche della capitale francese. Proletariato è dunque la forma
lessicale maggiore di questi testi, che lo utilizzano insieme al nome plurale
operai per indicarne azioni e pratiche politiche collettive: in questo senso
ritroviamo ricorrenze e significati non troppo dissimili da quelli osservati
nell’ordine dei discorsi indagati al primo capitolo, cui la «macchina Marx»
parrebbe aderire anche per quanto riguarda la scarsa incidenza, in questi scritti,
del sintagma «classe operaia». Come noto, gli anni 1850-60 vedranno il
ribaltamento di tale rapporto. A separare i primi tre testi delle Lotte di classe in
Francia dall’ultimo e dal 18 brumaio c’è l’estate 1850, durante la quale Marx si
convince della chiusura del ciclo rivoluzionario, del fatto che «una nuova
251 Ivi, pp. 110 e 107: «gli operai questa volta erano decisi a non tollerare una mistificazione come quella del luglio 1830 […] Louis Blanc e Albert, avevano la missione di scoprire la terra promessa, di annunciare il vangelo e di intrattenere il proletariato parigino», pp. 106 e 111. 252 «Da questo momento, nessuno che si richiami al punto di vista operaio di Marx può più dividere tra loro questi due livelli», Tronti, Operai e capitale cit., pp. 161-162. 253 Marx, Le lotte di classe in Francia cit., p. 220. E nel 18 brumaio scrive: «ai quattro milioni di poveri (compresi i bambini, etc.) di poveri ufficialmente riconosciuti, di vagabondi, di delinquenti e di prostitute che conta la Francia, si devono aggiungere cinque milioni che si trascinano sull’orlo dell’abisso e vivono in campagna oppure si trasferiscono continuamente, coi loro stracci e coi loro bambini, dalla campagna alle città e dalle città alla campagna» (p. 215, è questa massa di popolazione nomade che viene esclusa dal suffragio con la restrizione nel 1850).
327
rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi».254 Sono
probabilmente anche gli enigmi dispiegati dalla vicenda quarantottesca a
orientarlo, da ora, a tentare la fondazione di una teoria scientifica della
trasformazione sociale: è la critica dell’economia politica, che vedrà, in
particolare con la pubblicazione primo libro del Capitale, l’elisione del
riferimento al proletariato in favore di quello alla «classe operaia».255 «Il
proletariato delle prime opere di Marx – forza dissolutrice del vecchio mondo –
è diventato qui classe operaia, potenza sociale», scrive ancora Tronti.256 Il
Capitale è un testo sulla classe operaia, industriale, le cui caratteristiche sono
anche frutto di un netto spostamento dell’attenzione dalla vicenda storica
francese verso quella inglese e di una più marcata messa «in dissolvenza» del,
pur sempre indecidibile, politico: si tratta perciò di una nozione in parte
differente da quella sull’emergenza della quale si è qui cercato di sviluppare
alcune ipotesi. Saranno quegli apparati categoriali a contribuire in maniera
decisiva al modo in cui il concetto di classe operaia verrà pensato lungo il
segmento più ampio della sua esistenza. E anche a dar forma all’interpretazione
che la storiografia del movimento operaio proporrà dell’insurrezione lionese in
termini di «origine».
254 Marx, Le lotte di classe in Francia cit., p. 286. L’ultimo articolo, di novembre 1850, di questa raccolta si chiude annunciando la quiete «sino a che le condizioni economiche stesse abbiano un'altra volta raggiunto il punto di sviluppo in cui un nuovo scoppio mandi all'aria tutti quanti questi partiti in eterno conflitto, insieme con la loro repubblica costituzionale» (p. 305). Tale spostamento coincide, fra l’altro, con l’apertura di una polemica nella Lega dei comunisti contro il volontarismo dei seguaci di Willich, che Marx attacca con le parole già citate in esergo: «i democratici hanno fatto della parola ‘popolo’ una parola sacra, voi fate lo stesso con la parola ‘proletariato’ e come per i democratici, anche per voi le parole sostituiscono i fatti». 255 Sull’elisione della categoria di proletariato dalla critica marxiana dell’economia politica cfr. la lettura proposta da Balibar, La paura delle masse cit., pp. 123 sgg. 256 Tronti, Operai e capitale cit., p. 199. Tronti parla qui dello scritto sulla comune di Parigi, ove tuttavia l’utilizzo del termine classe operaia in luogo di proletariato rimanda probabilmente anche allo scontro politico con proudhoniani e blanquisti.
328
Appendice: Da Marx al marxismo, il nome e l’avvenimento
«Il proletariato cittadino suonò la campana a martello a Lione»: queste le
parole con cui il primo libro del Capitale (1867) fa cenno all’avvenimento del
1831.257 Il riferimento ritorna poi in un breve scritto politico, il Rapporto del
Consiglio generale che Marx redige per il quarto congresso dell’Associazione
internazionale dei lavoratori convocato a Basilea nel settembre 1869. Vi
ripercorre i recenti episodi di «guerriglia» fra capitale e lavoro in diversi paesi
europei, il ruolo che vi ha giocato l’Internazionale, e quello che le hanno
attribuito polizia, governi e giornali ministeriali. «Poco dopo il massacro di
Ricamarie, la danza delle rivolte economiche veniva aperta a Lione dai tessitori
della seta, in maggioranza donne»: si tratta di un conflitto che ha visto il
prezioso intervento dei membri dell’Internazionale, in grado di conquistare
all’associazione migliaia di nuovi aderenti «fra quell’eroica popolazione che
più di trent’anni fa scrisse sulla sua bandiera il motto del moderno Proletariato:
‘Vivre en travaillant ou mourir en combattant!’».258
Che l’autore del Capitale abbia scorto nel drappo nero che sventolava sopra
le barricate di novembre 1831 il motto del proletariato moderno, contribuirà
certamente a guadagnare all’avvenimento l’attenzione degli storici. Ma sarà
soprattutto la riflessione di Friedrich Engels a mediarne (come per molti altri
temi) successive interpretazioni nell’ambito del movimento operaio e socialista, 257 Marx, Il capitale cit., libro I, pp. 652-653. L’avvenimento lionese viene richiamato per marcare il momento in cui, nel dibattito economico sulla ripartizione del plusvalore fra reddito e accumulazione di capitale, suona «l’ora dell’economia volgare» e viene spazzata via la tematica della divisione dell’accumulazione fra capitalista industriale e proprietario fondiario. «La dotta contesa […] ammutolì con la rivoluzione di luglio. Poco dopo il proletariato cittadino suonò la campana a martello a Lione, e il proletariato agricolo in Inghilterra fece spiccare il volo al ‘gallo rosso’. Al di qua della Manica imperversava l’owenismo, al di là il sansimonismo e il fourierismo. Era suonata l’ora dell’economia volgare» (quest’ultima richiama il tema dell’«astinenza» che il capitalista dovrebbe praticare sul reddito per dedicarsi completamente all’accumulazione di capitale). 258 K. Marx, Report Of the Fourth Annual Congress Of the International Working Men's Association, held at Basle, in Switzerland (1869, il testo viene a breve tradotto in tedesco, Bericht des Generalraths der Internationalen Arbeiter-Association an den IV, allgemeinen Congress in Basel, in MEW, XVI, pp. 370-382), on line: http://www.marxists.org/archive/marx/iwma/documents/1869/basle-report.htm#n16. È infine degna di nota la lettera a Bernstein del 25 ottobre 1881, in cui Engels sostiene che Marx ritenesse un’assurdità teorica la rivendicazione di un tarif, di un minimum salariale.
329
consegnandogli, con l’Antidüring del 1878, una specifica posizione nel
«divenire-scienza» del materialismo storico e un significato più univoco
rispetto alle polisemiche allusioni marxiane. Al novembre lionese viene qui
attribuito un ruolo fondamentale all’interno di quella genealogia del
materialismo storico in quanto scienza proposta all’inizio del testo assegnango
una funzione maggiore al tornante segnato da Hegel con la dialettica storica. Di
qui il rilievo dell’accento posto sul periodo e sulle ragioni che inducono il
superamento del suo carattere idealista, sui «fatti storici che determinarono una
svolta decisiva nella concezione della storia»: l’iniziativa cartista del 1838-42 in
Inghilterra e l’insurrezione lionese del 1831, «la prima sollevazione di
operai».259. Avvenimenti determinanti nel rovesciamento materialista della
dialettica storica: «i nuovi fatti costrinsero a sottoporre ad una nuova indagine
tutta la storia precedente e si vide allora che tutta la storia precedente era la
storia della lotta delle classi, che queste classi sociali che si combattono
vicendevolmente sono di volta in volta risultati dei rapporti di produzione e di
scambio, in una parola dei rapporti economici della loro epoca; che quindi di
volta in volta la struttura economica della società costituisce il fondamento a
partire dal quale si deve spiegare in ultima analisi tutta la sovrastruttura».260 Il
significato conferito all’avvenimento in questa autorevole interpretazione
contribuirà di fatto a mediarne le successive all’interno di una cornice che
assume la rivoluzione industriale – sviluppo della grande industria e dominio
politico della borghesia – come fondamentale motore di discontinuità storica
cui riferire la configurazione delle prime iniziative del moderno movimento
operaio.261 Nel 1880 Paul Lafargue scrive sulla Comune di Parigi accostandola
all’insurrezione del 1831, e indica in quest’ultima la prima iniziativa autonoma
ed esclusiva della classe operaia (attribuzione che segna molte interpretazioni
259 F. Engels, Herrn Eugen Dührings Umwälzung der Wissenschaft (1878); trad. it. Antidüring, Edizioni Rinascita, Roma 1950, p. 32. 260 Ibid. 261 «La lotta di classe tra il proletariato e la borghesia si presentava in primo piano nei paesi più progrediti d’Europa, nella stessa misura in cui in quei paesi si sviluppavano da una parte la grande industria e dall’altra il dominio politico che la borghesia aveva di recente conquistato», Ibid.
330
successive).262 Sono anni in cui nel pensiero si è saldamente affermato il
primato dell’universale «società» attraverso cui disporre e dare coerenza alla
gran parte delle immagini del mondo e delle relazioni fra individui e gruppi, per
dirla con Gianluca Bonaiuti, la «metafora» dominante «nel designare l’essere
insieme degli uomini in un elemento comune».263 Un mutamento di paradigma
che Maurizio Ricciardi restituisce affermando che «se un tempo la creazione
dello Stato artificiale era stata considerata il presupposto necessario per la
fuoriuscita dallo stato di natura, ora la riconosciuta centralità del concetto di
società diviene l’antefatto logico per comprendere il dissolvimento della
condizione naturale di tipo comunitario».264 La forza delle determinazioni
sociali va comunque apparendo sempre più assiomatica: in quanto sistema di
relazioni quasi-naturali che gli individui intessono tra di loro, la società esiste,
rappresenta in modo convincente e definitivo l’oggetto originario e unitario
intorno a cui si vanno riorganizzando scienze e concetti sociali. Le varie
rappresentazioni di tale universale – figura egemone della totalità di cui
concettualizzare i principi di unità e di coerenza strutturale fra gli elementi che
ne sono parte – sono generalmente concordi nel far giocare al suo interno
l’elemento, parziale, delle classi. E tutto l’insieme di fenomeni solitamente
rubricati alla voce «seconda rivoluzione industriale», le trasformazioni che
intervengono nelle forme dell’accumulazione e nella composizione tecnica di
lavoro e capitale, l’immagine omogenea che risulta dalla concentrazione di
manodopera in grandi stabilimenti industriali, sostengono l’iniziativa di chi
lavora a conferire al concetto di classe operaia attributi che gli consegnano una
configurazione e un significato ben più unitari rispetto al passato.265 E ne fanno
262 «L’Égalité», 2 giugno 1880, p. 2 (si tratta dell’organo del Partito operaio francese). «La rivoluzione del 18 marzo [1871] non ha avuto, come il sollevamento lionese del 1831, il carattere esclusivo di una lotta di classe – ed è là l'onore eterno della popolazione operaia di Lione, di avere per prima sollevato la bandiera della lotta proletaria: vivre en travaillant ou mourir en combattant» (Ibid.). 263 G. Bonaiuti, Il dilemma del parassita. Uno studio sul concetto di «società», in «Fenomenologia e società», 3, 2008, pp. 49-50. 264 M. Ricciardi, La società come ordine. Storia e teoria politica dei concetti sociali, eum, Macerata 2010, pp. 59-60. 265 Si deve sottolineare come in Francia sia possibile distinguere solamente molto tardi nell’Ottocento lo sviluppo del cosiddetto «modo di produzione capitalistico industriale». La rete
331
la rappresentazione in cui buona parte del mondo del lavoro agevolmente si
riconosce, secondo un processo, si badi bene, che, lungi dal rispondere alla
lineare «naturalità» delle determinazioni economiche, è figlio anche di un
poderoso sforzo di accentramento delle identità e soggettività popolari intorno
alla figura forte della classe operaia industriale. Cercherò nel prossimo capitolo
di ripercorrere una serie di elementi che contribuiscono a cristallizzare le
condizioni di possibilità di questa rappresentazione unitaria, e di mostrare come
essa si vada determinando nell’intersezione ibrida fra gli elementi che
compongono un processo di soggettivazione politica di un segmento del mondo
del lavoro e un insieme di pratiche e dispositivi che lavorano a oggettivare la
figura operaia nell’ambito di una strategia liberale di governo della questione
sociale. Mi accingo invece a terminare il presente capitolo provando a mostrare
il modo in cui questa rappresentazione unitaria ha organizzato l’interpretazione
del frammento di storia in esame.
È negli ultimi decenni dell’Ottocento che si assiste in Francia – anche in
seguito alla disfatta politica della Comune di Parigi – all’emergere e al
progressivo consolidarsi di quel complesso di istituzioni ed esperienze
politiche, sociali e di pensiero che, organizzandosi intorno all’obiettivo della
costruzione di partiti e confederazioni sindacali su scala nazionale, prende il
nome di movimento operaio, rivendicando con esso il titolo di portatori,
ferroviaria non ha alcuna consistenza significativa prima del secondo Impero (prima del 1857 in particolare), la popolazione agricola continua a lungo ad essere assolutamente predominante (il 75% della popolazione francese vive nelle campagne nel 1850, il 68% nel 1880), ancora nel 1880 la produzione industriale, pur essendo in trent’anni aumentata significativamente, è estremamente ridotta rispetto a quella di Inghilterra e Germania (1,3 milioni di cavalli-vapore contro 7,6 e 5,1 milioni; 19,4 milioni di tonnellate di carbone contro 147 e 59,1 milioni; 3,8 milioni di tonnellate di acciaio contro 25,1 e 12 milioni). Generalizzado si può sostenere che è solo nell’ultimo ventennio del XIX secolo e in corrispondenza con l’allargamento dell’impero coloniale che in Francia la grande industria comincia ad assumere una qualche consistenza all’interno di un tessuto produttivo ancora egemonizzato dalle piccole e medie aziende artigiane e in un quadro economico dominato dall’agricoltura da una parte e dai capitali finanziari dall’altra (cfr. M. L. Salvadori, Storia dell’età contemporanea. Dalla restaurazione a oggi. Loescher, Torino 1990, pp. 333-338 e 398-409; e W. Abendroth, Sozialgeschichte der europäischen Arbeitbewegung [1965]; trad. it. Storia sociale del movimento operaio europeo, Einaudi, Torino 1971, pp. 35-36).
332
rappresentanti e promotori degli interessi propri della classe operaia.266 A
partire da questa esigenza si organizza nell’ambito del movimento operaio ciò
che potremmo chiamare un sapere per indicare tutta una serie di enunciati,
studi, proposizioni e pratiche discorsive che – senza rivendicare lo statuto di
dottrina o disciplina, e per quanto di natura anche estremamente differente –
trovano tra loro dei principi di coordinazione e coerenza, hanno la comune
caratteristica di essere situati, di provenire cioè da soggetti che collocano la
propria parola nell’ambito della classe operaia (organizzata).267 Rispetto a
quest’ultima, il movimento operaio ambisce a una sorta di isomorfismo,
rivendica un’aderenza che si suole misurare nella breve distanza che separa
l’«in sé» dal «per sé», cosicché la classe operaia è allo stesso tempo l’oggetto
del discorso e il soggetto in nome del quale si aspira a parlare. Indagare questo
sapere significa anche misurare il modo in cui il movimento operaio ha
«inventato» e «prodotto» la classe operaia non meno di quanto si sia dato il
processo inverso.
Il «sapere della classe operaia su se stessa» produce effetti di verità che sono
oggetto di lotte politiche. Esso dispiega lo spazio all’interno del quale si può
schierarsi per parlare dell’oggetto in questione, si tratta di un sapere in cui il
gesto della conoscenza è coestensivo al prendere posizione: riconoscere
interessi e composizione delle classi operaie nazionali significa 266 Nel 1871 l’Associazione internazionale dei lavoratori promulga una risoluzione in cui suggerisce agli operai dei paesi industrializzati la costituzione di partiti politici su scala nazionale. Si devono aspettare gli anni 1880 affinchè in Francia prendano qualche consistenza le iniziative in tal senso dei vari Jules Guesde (principale promotore nel 1879 del Parti Ouvrier Français), Lafargue, Brousse, Allemane, Vaillant e, più tardi, Jaurès; nel 1905 le più importanti esperienze trovano unificazione nella Section française de l'Internationale ouvrière. Solo nel 1884 la legge Waldeck-Rousseau sopprime definitivamente il divieto di coalizione, cosicchè nel 1886 nasce la Fédération National des Syndacats, del 1895 è poi l’iniziativa unitaria della Confédération générale du travail. Le leggi del 1894 e del 1898 sulle assicurazioni sociali per il settore minerario e la protezione contro gli infortuni rappresentano i primi importanti risultati del movimento operaio francese, raggiunti nonostante i difficili rapporti fra la componente partitica e quella sindacale. Una sintesi storica efficace e comparata, per quanto talvolta datata nelle interpretazioni, è quella di W. Abendroth, Storia sociale del movimento operaio europeo cit., pp. 51-62 (in questo testo la lettura dell’insurrezione lionese oscilla fra l’espressione degli ultimi rigurgiti dei movimenti di resistenza alla meccanizzazione [p. 16] e l’espressione dei «primi grandi scioperi» della «classe operaia francese» [p. 25]). 267 Una posizione particolare deve essere in questo ambito conferita al diritto del lavoro, rispetto al quale si potrebbe indagare la relazione reciproca fra il suo accedere allo statuto di «disciplina» e il formarsi di questo campo di sapere.
333
immediatamente poter indicare l’opzione politica che gli è conforme. E, in
ragione dell’intimo rapporto che la problematica del soggetto sempre intrattiene
con quella dell’origine, il sapere storico della classe operaia su se stessa – la
storiografia del movimento operaio (e socialista) – assume presto una posizione
di rilevo in tale ambito. Così, ad esempio, Jean Jeaurès, negli anni in cui le sue
posizioni si vanno affermando dentro il movimento operaio francese, si occupa
di dirigere e pubblicare i tredici tomi della Storia socialista della Francia
contemporanea. 268 Dire la verità storica sulla classe operaia significa
riconoscerne la provenienza per poterne distinguere più chiaramente i contorni,
il profilo e saper misurare la portata delle sfide del presente.269 È a tutto questo
campo di sapere e alle diverse opzioni che vi intervengono che si devono
adesso riferire analisi e letture di novembre 1831. Per motivi di spazio, di
opportunità e di interesse, l’intento dell’indagine che vado adesso a svolgere
non è tuttavia ricostruire come tali lotte si siano riflesse e abbiano prodotto
differenti interpretazioni dell’avvenimento lionese, è invece rinvenire alcuni
denominatori teorici che sembrano essere comuni a tali differenti opzioni.270 Si
268 J. Jaurés (dir.), Historie socialiste 1789-1900, J. Rouff, Paris 1901-1903. È soprattutto dopo la mancata rielezione a deputato nel 1898 che Jaurès lavora all’opera, per completarla poi in corrispondenza della partecipazione alla fondazione del Parti socialiste français e al ritorno alla Camera come vicepresidente dell’assemblea e capo del gruppo socialista che sostiene il governo Combes (1902). Scriverà sei dei tredici tomi (quelli inerenti la Rivoluzione, la guerra franco-tedesca e le conclusioni), gli altri autori sono G. Deville, P. Brousse, G. Renard, A. Thomas, C. Andler, L. Dubreuilh, J. Labusquière È. Fournière. È opera di quest’ultimo il settimo volume, Le règne de Louis-Philippe 1er 1830-1848, che al terzo capitolo tratta dell’insurrezione del 1831 senza conferire particolare significato all’avvenimento (pp. 142-163). Nel 1904 Jaurès fonda poi il quotidiano L’Humanité di cui è direttore fino al 1914, quando un nazionalista lo uccide per punire le sue posizioni pacifiste. 269 Si deve comunque sottolineare che le prime storie «delle classi lavoratrici», «delle condizioni degli operai», «dei lavoratori» appaiono in Francia nella seconda metà dell’Ottocento non nell’ambito del nascente movimento operaio, ma di quello sforzo di dare forma a una conoscenza scientifica del sociale di cui parlo nel terzo capitolo. Si tratta principalmente di inchieste commissionate da istituzioni o da privati, mi limito qui a richiamare l’Histoire des classes ouvrières en France (Hachette, Paris 1867) di Émile Levasseur che gli vale l’elezione a membro dell’Accademia delle scienze morali e politiche in seguito alla premiazione dell’opera da parte di tale istituzione. Nel secondo tomo (Depuis 1789 jusqu'à nos jours) si legge: «l'insurrezione di Lione è, durante questa agitata epoca [i primi anni della monarchia di Luglio], la sola presa d'armi che abbia avuto per occasione e per unica bandiera una questione di lavoro» (p. 9). 270 Rimando a J. Rancière, The Myth of the Artisan Critical Reflections on a Category of Social History, in «International Labor and Working-Class History», Vol. 24, 1983, pp. 11-13 per una riflessione su come la storiografia francese del lavoro si sia sviluppata essenzialmente
334
tratta cioè di mostrare come lungo un certo segmento del secolo scorso un
determinato significato attribuito al nome «classe» abbia organizzato la
rappresentazione degli avvenimenti del frammento di storia in esame in quanto
fatti storici.
Mi pare che la storiografia francese del movimento operaio dei primi
decenni del XX secolo si orienti a interpretare novembre 1831 anzitutto in
quanto punto di comparsa sul palcoscenico politico pubblico della nuova
questione sociale operaia. È il caso del lavoro di Octave Festy sul movimento
operaio all’inizio della monarchia di Luglio (1908): «fino all'insurrezione di
Lione, vale a dire fino al mese di novembre 1831, la questione operaia, sotto la
sua forma economica o la sua forma politica, non si era dunque imposta né
all'attenzione dei poteri pubblici, ma neanche, in generale, all'attenzione degli
operai»;271 opinione sottoscritta da Édouard Dolléans, che la cita nella prima
grande storia del movimento operaio francese (1936).272
Nell’ambito dell’opzione avanzata dai bolscevichi all’interno del movimento
operaio internazionale si può riconoscere la medesima interpretazione, ma essa
in quanto «forma indiretta di discorso politico» agita da fazioni interne al movimento operaio, e per un’analisi delle declinazioni di tale discorso e delle sue conseguenze storiografiche. Rancière osserva in particolare i primi anni del Novecento, avanzando la tesi che siano state le componenti indebolite o sconfitte sul piano della battaglia politica interna a sviluppare un maggiore protagonismo sul terreno della storiografia. Per sostenere alcune sue posizioni (cfr. infra § 1.2.5) fa riferimento all’importante testo di Maxime Leroy, La coutume ouvrière. Syndicats, bourses du travail, fédérations professionnelles, coopératives, doctrines et institutions (Giard & Brière, Paris 1913). 271 O. Festy, Le mouvement ouvrier au début de la monarchie de juillet (1830-1834), Cornely, Paris 1908, p. 79 (sul novembre 1831 cfr. pp. 90-120). Cfr. anche O. Festy, L’insurrection de Lyon en 1831 in «Annales des sciences politiques», 25, 1910, pp. 85-104. 272 É. Dolléans, Histoire du mouvement ouvrier cit., tome I 1830-1871, p. 69 (sul novembre 1831 cfr. pp. 57-69). Il giudizio di Festy viene citato e condiviso nonostante si sottolinei anche il carattere «puramente corporativo» della rivolta di operai che continuano a proclamare la loro fedeltà alla monarchia di Luglio (p. 67). I tre volumi di quest’opera che copre il periodo 1830-1953 fanno di Édouard Dolléans (1877-1954) pioniere e figura di spicco nella storiografia francese del movimento operaio (cfr. anche È. Dolléans et G. Devohe, Histoire du travail en France. Mouvement ouvrier et législation sociale [1953], Tome 1er Des origines à 1919. Consultare inoltre J. M. Thompson, Lévy-Schneider, Alazard, Duatacq, Cfr. inoltre Daniel Halévy cit. in Rude p. 8). Nell’avvenimento del 1831 si tende insomma a rilevare in primo luogo – per dirla con Michelle Riot-Sarcey – il momento in cui «la questione operaia, problema di filantropi e moralisti, faceva la sua entrata in politica», (Riot-Sarcey, Le réel de l’utopie cit., p. 190).
335
viene qui tinta anche di una sfumatura più soggettiva. L’attenzione tributata in
Urss alla prima révolte des canuts si deve probabilmente ai riferimenti presenti
nell’opera di Marx ed Engels, ma anche all’articolo in cui, nel 1913, Lenin
segnala sulla Pravda il novembre 1831 come rappresentazione emblematica del
primo dei «due grandi periodi» del movimento socialista e democratico.273 È fra
il 1928 e il 1937 che l’Accademia sovietica delle scienze e l’istituto Marx-
Engels di Mosca promuovono la pubblicazione di due studi sul tema. Il primo –
una «storia della classe operaia in Francia» dalla fine dell’Impero
all’insurrezione lionese – è dello storico Evgenij Viktorovič Tarle, e l’ultimo
capitolo verrà tradotto e pubblicato in Francia sulla Revue marxiste: In questa insurrezione gli operai non erano, come nel corso della rivoluzione di luglio, i principali partecipanti, ma i soli, non dei gregari, ma degli iniziatori; le loro parole d'ordine non erano ricevute, ma gli appartenevano in proprio. […] l’insurrezione lionese del 1831 costituisce una svolta nella storia della classe operaia, non soltanto in Francia, ma nel mondo intero. Si è detto che l'operaio russo dopo il 9 febbraio 1905 e prima del 9 febbraio sono due uomini diversi, che non si assomigliano neppure. Si può dire altrettanto dell'operaio francese prima e dopo l'insurrezione lionese […] un tornante nella storia della classe operaia non solamente francese ma di tutto il mondo.274
273 V. I. Lenin, August Bebel in «Severnaia Pravda», num. 6, 8 agosto 1913; trad. it in Id., Opere complete, tomo 19 marzo-decembre 1913, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 267: «si possono distinguere due grandi periodi nella storia della social-democrazia internazionale. Il primo periodo è il periodo in cui nascono le idee socialiste e i primi germi della lotta de classe del proletariato. La lotta lunga e tenace fra le numerosissime dottrine socialiste e le sette. Il socialismo cerca la sua strada, cerca se stesso. La lotta di classe del proletariato, che appena comincia a distinguersi dalla massa generale del 'popolo', ha il carattere di scoppi isolati, come la sommossa degli operai tessili di Lione. Anche la classe operaia in questo periodo sta appena cercando la sua strada». Ma cfr. anche Nikolaï Gavrilovitch Tchernichewsy, Monarchie de juillet, 1860. 274 E. V. Tarle, L'insurrection ouvrière de Lyon, in «La Revue Marxiste», 2, marzo 1929, p. 133: « La prima generazione dei socialisti, e tra loro Marx, Engels, Proudhon e Blanqui, aveva senza sosta sentito nella sua giovinezza il ricordo e le eco di questa prima battaglia rivoluzionaria puramente operaia». Tarle era membro dell'Accademia delle scienze dell'Urss, il suo studio (Rabotchii klass vo Frantsii v pervye vremena machingo proizvodsta ot kontsa Imperii do vosstaniia rabotchike v Lione, la cui trad. it. sarebbe «La classe operaia in Franca all'inizio della produzione meccanizzata, dalla fine dell'Impero all'insurrezione degli operai a Lione») viene pubblicato nel 1928 a Mosca dall’Istituto Marx-Engels, il capitolo pubblicato in francese, l’ultimo, riguarda appunto l’insurrezione di novembre. Fernand Rude scrive: «è la prima volta che uno storico ha messo in rilievo in maniera tanto netta 'l'importanza mondiale' della sollevazione dei canuts» (L’insurrection lyonnaise de novembre 1831. Le Mouvement
336
La constatazione dell’attenzione tributata in Urss alla révolte des canuts,
motiverà e incoraggerà il lavoro di Fernand Rude, lo storico che, dopo aver
pubblicato nel centenario dell’insurrezione un primo studio sul tema, vi
lavorerà per oltre mezzo secolo, recando il contributo più importante alla
conoscenza dell’avvenimento.275 È infatti un soggiorno in Russia che aggiunge
importanti elementi alle ricerche per la sua tesi di dottorato,276 pubblicata nel
1944 con il titolo L’insurrection lyonnaise de novembre 1831. Le Mouvement
ouvrier à Lyon de 1827 à 1832 – rappresenta ancora oggi la monografia più
completa e il riferimento indispensabile per ogni studio sul tema. Si tratta di un
lavoro votato anzitutto allo sforzo di consegnare dignità propria e autonomia
ouvrier à Lyon de 1827 à 1832, prefazione di È. Dolléans Domat-Montchrestien, Paris 1944, p. 33). Si ritrova il senso delle parole con cui già Lafargue indicava nell’avvenimento del 1831 la prima iniziativa autonoma della classe operaia francese. Giudizio ribadito nel 1937 da F. Potemkine nella sua ricerca sulle insurrezioni lionesi del 1831 e 1832. Il lavoro di F. Potemkine, Lioniske vosstania 1831 i 1834 («le insurrezioni lionesi del 1831 e 1834»), viene pubblicato a Mosca nel 1937 dall'Accademia delle scienze dell'Urss. Qui l'insurrezione del 1831 è indicata come: «uno degli avvenimenti più importanti della storia del movimento operaio in Europa occidentale» (cit. in Rude, L’insurrection lyonnaise de novembre 1831 cit., p. 36). 275 Fernand Rude (1910-1990), giovane studioso e militante comunista, in occasione del centenario dell’insurrezione ne scrive su «L’Humanité» e pubblica la monografia L’insurrection ouvrière à Lyon de 1831 (Bureau d'éditions, Paris 1931, firmato con lo pseudonimo di Pierre Froment, il libro verrà poi tradotto in russo da A. Molok), in cui valorizza, con impostazione ortodossa, gli elementi di anticipazione rispetto ai futuri sviluppi del movimento operaio e socialista. Fra 1933 e 1935 soggiorna in Russia: avendovi conosciuto le purghe staliniane, al rientro in Francia lascia il partito comunista e aderisce alla CGT e alla corrente di sinistra del Partito socialista, pubblica ancora articoli sui canuts sulle riviste «La Révolution de 1848» e «Revue historique». Nel 1944, dopo aver partecipato alla resistenza, discute la tesi di dottorato, pubblicata col titolo L’insurrection lyonnaise de novembre 1831. Le Mouvement ouvrier à Lyon de 1827 à 1832 (cit.). Insegna poi a Grenoble, accentua il suo profilo libertario e continua a scrivere sui canuts, pubblicando C’est nous les canuts (1953, cito qui la seconda edizione, Maspero, Paris 1977) e Le Mouvement ouvrier à Lyon (Fédérop, Lyon 1977, testo divulgativo sul movimento operaio lionese nel corso di oltre un secolo). Nel 1979 è «consigliere storico» per la realizzazione del film tv Charles Clément, canut de Lyon (prodotto da Antenne 2 con la regia di R. Kahane). L’ultimo lavoro sui canuts è del 1982, Les révoltes des canuts (cit.). Su Rude cfr. C. Latta, Fernand Rude (1910-1990), in «Revue d’histoire du XIXe siècle», 1990; M. Moissonnier, Fernand Rude in Dictionnaire biographique du mouvement ouvrier français, ed. ouvrières, Paris 1914-39; L. Frobert, «L’historien s’engage comme le partisan»: Fernand Rude et les révoltes des canuts, postfazione a Rude, Les révoltes des canuts cit. 276 Oltre ad allontanarlo dall’ortodossia marxista-leninista collocandolo da ora nell’ambito di quella tradizione eretica del movimento operaio che è il sindacalismo rivoluzionario. Posizione che evidentemente motiva e orienta il suo lavoro di storico verso la prosecuzione di studi tesi a valorizzare l’esperienza dei canuts in quanto espressione originaria di un movimento operaio autonomo, spontaneo, di matrice rivendicativa e insurrezionalista, da opporre alla configurazione più «politica» e «verticale» figlia del terzinternazionalismo.
337
storica all’avvenimento, chiudendo ogni possibilità di leggervi una rivolta della
fame, impolitica e priva di consapevolezza, da rubricare al «da sempre» dei
tumulti alimentari. Rude rintraccia e valorizza perciò i tratti di impegno e
maturità politica dei canuts servendosi di un vasto diorama di fonti che
consente di soffermarsi sulla concreta esperienza, sui nomi e sui «volti» dei
protagonisti, sulle peculiarità del tessuto lionese. La scelta di ricostruire la
genesi dell’insurrezione a partire dal 1827 – dalla nascita del primo mutalismo
canut – svolge la funzione di marcare una discontinuità col passato e consente
di scorgere nella vicenda del 1831 «una società di resistenza dallo spirito
realmente moderno, analogo ai sindacati contemporanei».277 La frattura con il
vecchio apre immediatamente la possibilità del nuovo, di segnare l’irruzione di
una nuova soggettività, consegnando all’insurrezione di novembre lo statuto di
«punto finale di un periodo e punto di partenza di un altro», 278 con il
conseguente corollario di metafore ostetriche a lungo care alla storiografia
marxista:279 in questi giorni di febbre, niente era ancora maturo, certo, ma tutto era in germe. […] Il sindacalismo era in germe con il Mutualismo […] un «partito politico dei lavoratori» era in germe con i Volontari del Rodano […]. I grandi storici liberali della Restaurazione, come Augustin Thierry e Guizot, avevano messo in luce solo l'«antagonismo sociale dei Franchi e dei Galli» […]. Ora, le Tre Gloriose erano appena arrivate a consacrare la disfatta dei «Franchi» e il trionfo dei «Galli» che una scissione si produceva nei ranghi dei vincitori. Una terza casta antagonista faceva la sua apparizione armi alla mano. Dietro la fase borghese dell'evoluzione umana, si poteva già intravedere una fase proletaria. […] Gli avvenimenti di Lione hanno nutrito della loro sostanza le idee essenziali del materialismo storico. […] Non è esagerato dire che questo movimento è una delle più importanti tappe, una 'cerniera', della storia sociale del nostro paese e anche della storia universale.280
277 Rude, L’insurrection lyonnaise de novembre 1831 cit., p. 43. 278 Ivi, p. 22. 279 Sul tema cfr. i riferimenti nell’introduzione di Dardot e Laval, Marx, prénom: Karl cit. 280 Rude, L’insurrection lyonnaise de novembre 1831 cit., pp. 736-739, agevolmente si riconosce il debito verso le tesi proposte da Engels nell’Antidüring (cfr. supra).
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Rude è il grande storico delle lotte dei tessitori lionesi, contribuisce in
maniera decisiva a statuire il rilievo di novembre 1831 e ad affermare la tesi che
si debba datare ai primi anni 1830 la nascita del movimento operaio francese.
«La rivolta dei canuts è entrata nella leggenda dorata del socialismo», può
affermare – una decina d’anni dopo la pubblicazione della sua opera maggiore –
in C’est nous les canuts, ribadendo ancora un’interpretazione di matrice
engelsiana: «la lotta di classe tra proletari e borghesi appariva sul primo piano
della scena in uno dei paesi che decidono la sorte d’Europa e del mondo», e
così «la base del materialismo storico era gettata. […] Una nuova filosofia della
storia andava nascendo e doveva rovinare la vecchia concezione idealista».281
Impostazione confermata – pur mutando il rilevo dei diversi fattori che
compongono l’avvenimento – fino all’ultimo testo del 1982, in cui nelle
révoltes des canuts si indica lo snodo in cui «una forza sociale nuova, la classe
operaia, da classe ‘in sé’ si afferma in classe ‘per sè’».282
Nel 1958 lo storico capo dei comunisti francesi, Maurice Thorez, designa
novembre 1831 come il «primo intervento sulla scena della storia dei proletari
in quanto classe».283 Tale pare la cifra fondamentale dell’interpretazione che la
281 Rude, C’est nous les canuts cit., pp. 253 e 225. La risonanza e notorietà dell’avvenimento («una cerniera storica, punto finale di una evoluzione e nuovo punto di partenza», p. 260) vengono accostate a quelle della Comune di Parigi. Questo testo si limita a sintetizzare i risultati della precedente opera, l’unica differenza significativa riguarda l’ultima parte inerente, appunto, la risonanza storica dell’avvenimento. 282 Rude, Les révoltes des canuts cit., p. 187. Con questo ultimo libro sul tema, Rude ribadisce il primato del rilievo da conferire all’insurrezione del 1831 («la prima grande battaglia operaia» [p. 8] e «uno dei primi modelli di guerriglia urbana» [p. 168]) e al mutualismo (punto di passaggio dall’associazione corporativa a un sindacalismo di spirito moderno) all’interno della vicenda politica e sociale dei canuts, nella quale si sforza ancora di mostrare «le bouillonnement des idées nouvelles», di valorizzare cioè gli elementi anticipatori dei futuri sviluppi del movimento operaio e delle teorie socialiste («genesi del socialismo, sintesi delle dottrine saint-simoniane, fourieriste e neobabouviste, di una mistica sociale e repubblicana e della pratica operaia […], creazione di un diritto, di una filosofia della storia e di un ideale nuovo» [p. 188]). «Quindici anni prima dell’appello di Marx, l’idea è là e praticamente la formula», afferma, ad esempio, commentando l’articolo di un canut (p. 114). Particolare attenzione viene dedicata al proclama dello stato maggiore provvisorio del 23 novembre 1831 (cfr. supra § precedente), in cui si indicano alcuni elementi che saranno della teoria rivoluzionaria di Marx e di Blanqui e di alcune misure prese dalla Comune nel 1871. La pubblicazione di questo testo era stata anticipata nel 1980 dall’articolo Lyon en 1830-1834. Aux origines du syndicalisme et du socialisme (in «Romantisme», 28-29, 1980): l’esperienza dei canuts è qui «formazione della terminologia, abbozzo della teoria e della strategia del movimento operaio francese» (p. 237). 283 Maurice Thorez (1900-1964) fu segretario del Partito comunista dal 1930 al 1964 e
339
storiografia francese del movimento operaio offre dell’insurrezione ancora
lungo i primi decenni del secondo dopoguerra: essa è manifestazione storica di
una nuova soggettività collettiva del lavoro e – allo stesso tempo e perciò –
«rivelazione della questione sociale», come scrive Georges Lassere
nell’Histoire du syndicalisme ouvrier.284 Una lettura insomma che non smette
di esibire qualche debito verso le tesi di Engels: l’avvenimento lionese mostra,
secondo Jean-Pierre Aguet, «la lenta evoluzione delle masse operaie parallela
allo sviluppo industriale», ma anche l’importanza «delle forme rivoluzionarie
che era capace di prendere la rivendicazione operaia»,285 e Jacques Droz
sottolinea, con l’Histoire Générale du socialisme, la sua importanza nel far
«maturare i socialisti della nuova generazione» imprimendo un’accelerazione a
teorie ancora vaghe e astratte.286 L’Histoire du mouvement ouvrier français
(1968) di Jean Bron pone invece l’accento su un altro elemento che mi sembra
particolarmente importante: il ruolo di Lione 1831 nel rivelare alla borghesia il
carattere potenzialmente antagonista di un mondo operaio ancora membro del governo francese fra 1945 e 1947. Il testo citato è una lettera indirizzata a Maurice Moissonier e da questi pubblicata all’interno del suo La révolte des canuts. Lyon, novembre 1831 (èditions sociales, Paris 1974[2], p. 13), testo in cui afferma: «Lione apre in novembre 1831 l'era delle grandi lotte operaie del XIX secolo» (p. 16). 284 G. Lasserre, Histoire du syndicalisme ouvrier, Partie I Jusqu’en 1914, Domat-Montchrestien, Paris 1949-50, p. 56: l’insurrezione «ha avuto un'enorme importanza storica, non solamente in Francia, ma anche in tutta l'Europa, perchè essa era la rivelazione della questione sociale a una borghesia che, fino a quel momento, non dubitava della sua esistenza». Ma la svolta riguarda anche l’evoluzione soggettiva del movimento operaio: «è verso il 1830 che le idee cambiano nella classe operaia, […] gli operai si rivolgono più direttamente contro i padroni e, nello stesso tempo, contro l'autorità», ed è a partire dalla vicenda lionese che «i lavoratori hanno sentito la loro solidarietà» (pp. 56-57). 285 J-P. Aguet, Contribution à l'histoire du mouvement ouvrier français: Les grèves sous la Monarchie de Juillet (1830-1847), Droz, Genève 1954, p. 47. Vengono qui ancora una volta evidenziati il parallelo con i cartisti inglesi e la capacità dell’insurrezione di rivelare «l’importanza capitale delle questioni sociali»; si sottolinea inoltre come «in numerosi scioperi che si produrranno dopo quello di Lione, ritroveremo la parola d'ordine dei combattenti lionesi 'vivere lavorando o morire combattendo', perchè l'insurrezione degli operai in seta restò un evento significativo che aveva colpito l'insieme del popolo e di cui il ricordo si trasmise nella lunga tradizione delle lotte operaie e sociali» (ibid.). 286 J. Droz (dir.), Histoire générale du socialisme, Tome I Des origines à 1875, Presses Universitaires de France, Paris 1972, p. 361. «Che dei lavoratori abbiano potuto in tre giorni – le loro tre gloriose – rendersi padroni di una città come Lione, ecco che brutalmente, mette in luce degli antagonismi che fino ad allora i teorici affrontavano da un punto di vista astratto o che consideravano come secondari rispetto al confronto fra quelli che Saint-Simon aveva chiamato 'gli industriali' e 'gli oziosi', 'les abeilles' e 'les frenelons'» (ibid.). Negli anni Settanta si segnala anche la pubblicazione dell’opuscolo di J. Perdu, La révolte des canuts 1831-1834, Spartacus, Paris 1974.
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sostanzialmente sconosciuto e in costante espansione.287
Mi sono attardato sul modo in cui la storiografia novecentesca del
movimento operaio ha conferito significato al novembre 1831 per indagare
adesso ragioni e caratteristiche di tale gesto teorico che pare orientato anzitutto
a inscrivervi un’origine (inscrizione compiuta nell’ambito di ciò che ho
chiamato un sapere per indicare il carattere situato di enunciati che si vogliono
formulati all’interno del campo largo della classe operaia organizzata).288 La
problematica dell’origine convoca la possibilità di una rappresentazione
bipolare del vecchio e del nuovo, di far emergere un punto di rottura, di
discontinuità, di dispiegare e ordinare il campo dei non più, permettere ai
soltanto adesso di manifestarsi per dischiudere lo spazio dei da ora che
designano l’irruzione di una soggettività. La révolte des canuts è allora
anzitutto comparsa sul palcoscenico storico della nuova questione sociale, figlia
legittima e dolorosa di quel mastodontico movimento storico di discontinuità
che ha nome rivoluzione industriale, come lo sono l’emersione e lo sviluppo
della classe operaia e delle sue lotte. La cifra di questa interpretazione pare
dunque essere quella di ascrivere l’insurrezione degli artigiani lionesi della seta
direttamente alla «classe operaia», di cui sarebbe la prima iniziativa
autonoma.289 Indagare un’origine ha spesso lo scopo di ricercarvi indizi e tracce
287 J. Bron, Histoire du mouvement ouvrier français, Tome I Le droit à l'existence du debut du XIXe siècle à 1884, Èditions ouvrières, Paris 1968, p. 61. Questa «prima grande insurrezione operaia» per la borghesia «designa soprattutto un nuovo pericolo: fino ad allora in effetti la classe dirigente aveva avuto soprattutto a che fare con delle sommosse contadine, delle jacqueries […]. Adesso essa comincia a rendersi conto che il nemico è altrove, in questo mondo operaio poco conosciuto e perciò inquietante, i cui effettivi crescono ogni giorno nella misura in cui si moltiplicano le fabbriche e i profitti industriali» (pp. 65-66). 288 La comprensione che – fino e oltre la metà del ventesimo secolo – la storiografia del movimento operaio ha offerto del novembre 1831 è complessa e poliforme, irriducibile a un’interpretazione e un significato univoci, e ha saputo cogliere e analizzare molti e differenti aspetti dell’avvenimento (in particolare con il lavoro di Rude). Nonostante ciò, ho qui provato a mostrare una tendenza piuttosto evidente e trasversale che consiste nel consegnare a questo evento lo stigma di una sorta di atto di nascita, battesimo politico, prima parola della moderna classe operaia. 289 Tale attribuzione si dà attraverso l’inscrizione di una doppia discontinuità. La prima riguarda l’ambito dei non più: si deve anzitutto lavorare a mostrare l’alterità dell’iniziativa degli operai lionesi rispetto alla scia senza fine delle sommosse della fame che avevano accompagnato e seguito la costruzione dei mercati nazionali quasi ovunque in Europa. Anche i
341
della natura del soggetto: registrando al novembre 1831 l’atto di nascita, la
prima parola politica della classe operaia, la storiografia del movimento operaio
mette allora in moto tutta una meccanica tesa a ritrovare nell’avvenimento il
presente che già cercava di farsi strada, tutto il «ciò che già c’era» di
un’immagine esattamente adeguata a se stesso, una razionalità storica in cui è il
punto finale a render conto e dare significato al principio. È la «sovranità del
presente nel racconto» della storia:290 all’avvenimento-origine viene consegnato
un destino – il movimento operaio organizzato – intorno a cui i diversi elementi
vengono ora disposti e acquistano senso e intellegibilità storica. Così nel
mutualismo dei canuts si rintracciano i tratti del sindacalismo operaio, la
vicenda del tarif diviene, a seconda dell’opzione politica che la interpreta,
l’articolazione di una moderna piattaforma di lotta, di uno sciopero industriale,
o di una grève insurrectionnelle, negli articoli de «L’Ècho de la fabrique» e nei
proclami degli insorti si ritrovano tracce e anticipazioni di quelle che saranno le
teorie socialiste «mature», e via dicendo. La discontinuità introduce la
possibilità del presente nella storia, ed è dall’attualità che si tesse ora la trama di
un tessuto di continuità ideale che conduce a ritroso fino al 1831. Una
teleologia della classe operaia organizzata che conferisce «direzione» alla
storia, strappa l’avvenimento alla sua singolarità per inscriverlo in una curva
evolutiva che conferisce significato agli eventi che la compongono ed elide le
deviazioni accidentali.
Se mi soffermo sull’analisi di un gesto storiografico di matrice
essenzialmente politica e oggi legittimamente consegnato agli archivi del
modernariato non è per denunciarne i limiti, ma, al contrario, perché proprio
tale interpretazione di novembre 1831 mi ha spinto a collocare qui il principio
tumulti alimentari, come la révolte des canuts, erano un gesto autonomo dei ceti subalterni, ma di carattere «pre-politico», privo di consapevolezza, pressochè irrazionale, e comunque incommensurabile perché al di là dello spartiacque storico della rivoluzione industriale. Dall’altra parte si tratta di evidenziare la discontinuità rispetto alle precedenti vicende rivoluzionarie (1789 e 1830) in cui era stata la borghesia il titolare dell’iniziativa storica: novembre 1831 è l’emergere del da ora della possibilità di un’iniziativa autonoma della classe operaia cosciente dei propri interessi. 290 J. Rancière, Les mots de l’histoire. Essai de poétique du savoir (1992); trad. it. di Y. Melaouah, Le parole della storia, il Saggiatore, Milano 1994, p. 28.
342
della presente ricerca. Interrogare le modalità con cui le istituzioni che della
classe operaia si volevano isomorfiche rappresentanti hanno riconosciuto il
battesimo e la matrice del proprio discorso, potrebbe infatti indicare un
itinerario attraverso cui sondare non solo alcune caratteristiche proprie a tale
discorso, ma anche il modo in cui esso ha mediato e contribuito alla definizione
del concetto stesso di classe operaia. Temi su cui mi limito per adesso a
nominare due suggestioni. Pare in primo luogo degna di nota la circostanza per
cui il discorso del movimento operaio riconosce la propria prima espressione in
corrispondenza di una presa di parola extradiscorsiva, dispiegata attraverso il
linguaggio della violenza della rivolta. Si può scorgervi i tratti di
un’autointerpretazione nei termini di una strategia e pratica di civilizzazione
della violenza, rappresentazione che prendo in prestito (rimaneggiandola), fra
gli altri, da Étienne Balibar291 e da Mario Tronti,292 e di cui vi è traccia già in
una riflessione engelsiana del 1895.293 «Non deve succedere al proletariato ciò
che successe ai Germani che conquistarono l’impero romano; essi ebbero
vergogna della loro barbarie e si sottoposero alla scuola dei retori della
291 Cfr. in part. É. Balibar, voce Gewalt, in W-F. Haug (dir.), Historisch-Kritisches Wörterbuch des Marxismus, Vol. V Gegenöffentlichkeit bis Hegemonialapparat, Argument Verlag, Hamburg 2001. Se ne trova traduzione francese, insieme ad altri sei importanti interventi sul tema, in Id., Violence et civilté. Wellek Library Lectures et autres essais de philosophie politique, Galilée, Paris 2010. Si sottolinea come la lotta di classe non possa che tendere verso l’orizzonte di una confrontazione ultima, necessariamente violenta, fra le forze antagoniste, ma nella quale la violenza di parte proletaria alluderebbe alla necessità stessa di un suo superamento (pp. 263-266). Tornerò su questi testi nel corso del prossimo capitolo. 292 M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009: «La lotta di classe operaia è stata civilizzazione della guerra. […] Ecco perché, entro la loro [degli operai] tutto sommato breve apparizione simbolica – da poco prima la metà dell’Ottocento a poco dopo la metà del Novecento – la funzione intellettuale che si è sintonizzata sul loro punto di vista, ha avviato un processo al tempo stesso di specializzazione e di politicizzazione: la buona conoscenza per una migliore produttività del conflitto. […] Organizzare il conflitto e al tempo stesso civilizzarlo. Fare in modo che l’eccedenza necessaria del pensiero per capire non si trasformi in una trappola di parole che fatalmente porti ad un cattivo agire. […] Operai e capitale: una guerra, anzi un’età delle guerre. […] una guerra ‘messa in forma’, civilizzata, combattuta sotto il modello dello jus publicum europaeum. La regolazione del conflitto, abbandonata a livello di politica internazionale, venne conservata sul terreno delle politiche nazionali. […] La lotta di classe è stata guerra civilizzata, non guerra civile, sempre, tranne quando è stata assunta nello stato d’eccezione della costruzione del socialismo in un paese solo, o quando è stata piegata a una risposta obbligata alla soluzione totalitaria capitalistica» (pp. 17 e 79-80). 293 F. Engels, Einleitung zu K. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich 1848-1850 (1895, in MEW, XXII, pp. 509-527); trad. it. di P. Togliatti, Introduzione a Marx, Le lotte di classe in Francia cit., pp. 39-85, in part. 71 e sgg.
343
decadenza latina: non ebbero di che lodarsi di essersi voluti civilizzare»:294
scrive nel 1908 Georges Sorel, restituendo efficacemente i termini di questo
processo, che si configura anzitutto come processo di integrazione e di cui
vorrei nel prossimo capitolo avanzare un’interpretazione indagandolo nei punti
di intersezione fra il processo di soggettivazione politica del movimento operaio
e alcune pratiche e dispositivi che lavorano a oggettivare la figura operaia
nell’ambito di una strategia liberale di governo della questione sociale.
294 G. Sorel, Réflexions sur la violence; trad. it. Riflessioni sulla violenza, in Scritti politici, UTET, Torino 1996, p. 288.
344
Quarto Capitolo I «nuovi barbari»: un’interpretazione sociale del politico.
La vostra società non è una società, non ne è nemmeno l’ombra, ma un’accozzaglia di esseri che non si sa come chiamare, […] un parco, un gregge, un ammasso di bestie umane. F. de Lamennais, Le Pays et le Gouvernement,
1840
«Se esistono certezze per la storia, il senso degli avvenimenti del 1848 ne fa
parte: in Francia una struttura sociale si è affermata e si è d’accordo
nell’osservare che la struttura presa allora dalla società francese rimane ancora
la sua fisionomia presente», scrive Rémi Gossez nel 1956.1 Più tardi, William
H. Sewell osserva tale passaggio affermando che «non si può parlare di un
movimento nazionale degli operai animati dalla coscienza di classe che nella
primavera 1848. Ciononostante gli anni 1830-1834 spiccano come il periodo
più importante a livello dell’apertura concettuale», quelli in cui si crea «lo
spazio intellettuale, linguistico e organizzativo».2 Vengono qui convocati i due
più importanti utensili concettuali – «struttura sociale» e «coscienza di classe»
– che a lungo hanno orientato gli storici del movimento operaio
nell’interpretazione del significato del tornante quarantottesco. Si è qui
piuttosto fatto riferimento alle nozioni di discorso – di formazione e pratica
discorsiva – per analizzare l’emergenza storica del concetto di classe operaia
1 Gossez, Diversité des antagonismes sociaux vers le milieu du XIXe cit., p. 439. Giovanna Procacci interpreta tale passaggio come il momento in cui «la lettura morale cede il passo ad un’interpretazione sociale della miseria» (Governare la povertà cit. p. 21). 2 «Gli avvenimenti del 1830-1834 danno alla mentalità degli operai una forma distinta e durevole che persiste fino al 1848 e ben al di là», Sewell, La confraternité des prolétaires cit., p. 667.
345
interpretando 1848 come una rottura di evidenza che segna l’affermazione di
uno specifico regime di verità – la politicità del lavoro operaio. Si è pertanto
cercato di pensare e aprire un campo di tensione fra il frammento 1831-32, ove
una serie di avvenimenti induce l’irruzione nel dibattito pubblico di figure e
profili sociali che i contemporanei si sforzano di designare con nomi e categorie
(il diritto all’attribuzione del cui significato è anch’esso oggetto di una lotta
politica), e il tornante quarantottesco, interpretato come una rottura di evidenza
la cui forza consegna loro uno specifico regime di verità: è l’irruzione di una
singolarità storica che impone una torsione di significato su alcune strutture
concettuali della lunga durata. Mi pare che alcuni termini di una tale
quarantottesca produzione di verità come avvenimento emergano anche, ad
esempio, in alcuni passaggi dell’analisi proposta da Louis Chevalier nella sua
celebre «demobiografia» della Parigi di prima metà Ottocento.
Da quel momento [1848] in poi sarà impossibile giudicare e descrivere il proletariato come in passato; durante quelle giornate l’operaio assume ai propri occhi e a quelli altrui un’identità nuova, un diverso valore, un diverso significato e addirittura un altro aspetto.3
Sebbene in questo testo appaiano spesso come sinonimi, vorrei mettere a
valore, ai fini della presente indagine, tale scelta di utilizzare prima l’immagine
del proletariato per designare giudizio e descrizioni del «passato» che precede
la rottura quarantottesca, e poi quella l’operaio per nominare colui che acquista
ora identità, valore, aspetto e significato nuovi. Si tratta di una discontinuità che
Chevalier cerca di cogliere all’altezza dei mutamenti nelle rappresentazioni
sociali e nell’opinione:
Solo allora [a partire dal 1848] i sistemi sociali si trasformeranno in fatti, diventando opinione e condizionando gli atteggiamenti; allora, e solo allora, diventeranno, da un punto di vista storico, una realtà, e meriteranno di essere descritti, giacché si fonderanno, o meglio si amplificheranno in un pensiero collettivo che costituirà un fatto
3 Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose cit., p. 163.
346
storico.4
Come noto, questo fatto/pensiero storico/collettivo avrà nome classe
operaia. A partire dal quarantotto, tale categoria va a istituire un campo unitario
all’interno del quale gli operai diventano classe-della-società, assumendo così
un «diverso significato» agli occhi propri e altrui. Allo scopo di interpretare tale
processo, il presente capitolo lavora allora a istituire un campo di tensione fra la
categoria di «proletariato urbano» e quella di «classe operaia». Con la prima
espressione si intende fare riferimento alla figura della pura esclusione sociale e
politica che abbiamo incontrato prima nelle parole di Blanqui a processo nel
gennaio 1832, e poi nelle immagini di «decomposizione della società» e
«dissoluzione di tutte le classi» che Marx compone nei mesi in cui fa il suo
incontro vissuto con la realtà urbana e popolare di Parigi. Il sintagma classe
operaia viene invece qui convocato per alludere a un processo di integrazione:
di inclusione delle tematiche del lavoro operaio all’interno degli ambiti di verità
del politico che la rottura quarantottesca contribuisce a riscrivere. È
l’articolazione politico-discorsiva di un ambito aperto in cui determinati
segmenti sociali, forme di vita, comportamenti collettivi possono divenire
classe della-e-nella società spezzando una condizione di esclusione sociale e
politica. Si tratta, per usare le espressioni di Jacques Rancière, di spostare
l’ordine del discorso dalla «gerarchia delle forme di vita» alla «divisione in
classi» della società.5 È questo movimento che il presente capitolo si propone di
interrogare sottolineandone due aspetti in particolare.
Se nella storia il nome classe operaia designa anche un processo di
integrazione sociale – oltre che, ovviamente, di soggettivazione politica –, si
suppone che esso funzioni anche attraverso la produzione e rappresentazione
discorsiva di un fuori rispetto a cui si va determinando. Il presente capitolo si
propone anzitutto di ricostruire – facendo ancora riferimento in particolare al
frammento 1831-32 – alcune coordinate di ciò che, per semplificare, chiamo «il
fuori della classe operaia» per designare elementi e categorie che non solo 4 Ibid. 5 Rancière, La nuit des prolétaires cit., p. 104.
347
rimangono esclusi da tale processo di integrazione e soggettivazione politico-
discorsiva, ma anche contribuiscono a definirlo attraverso relazioni di
reciproca differenziazione. «La categoria universale di classe, come l’universale
categoria di lavoratore, assicura la sua universalità attraverso una serie di
opposizioni», scrive Johan Wallach Scott indagando il carattere sessuato di quel
making of the working class, che nello strutturare identità, rivendicazioni e
rappresentazioni di interessi e bisogni della classe operaia consegna
all’invisibilità tematiche di genere ed esperienza femminile.6 Il campo di
problemi inerenti alla famiglia, al lavoro domestico e alle stesse rivendicazioni
specificamente femminili in ambito operaio, sono a lungo rimaste di fatto
escluse da una politica di classe che si definiva come tale anche attraverso
differenziazione rispetto ad altri soggetti e questioni relegati al di fuori delle
frontiere del politico travolte e riscritte dalla politicità del lavoro operaio (si
potrebbe interrogare, ad esempio, il ruolo svolto dai processi di «utopizzazione»
dei discorsi sansimoniani su uguaglianza di genere e critica della famiglia).7
Non mi soffermerò su questo insieme di temi che rappresenta il più clamoroso –
nella misura in cui le donne erano anche operaie – e indagato momento di
esclusione nel processo di formazione della moderna classe operaia, per
interrogare invece altri momenti e questioni ove è possibile scorgere la figura e
6 «Se guardiamo da vicino ai ‘linguaggi di classe’ del diciannovesimo secolo troviamo che essi sono costruiti con, in termini di, riferimento alla differenza sessuale», Scott, Gender and the Politics of History cit., p. 60. Il carattere sessuato di tale making of the working class consegna le donne ad una condizione di invisibilità che può assumere le caratteristiche o dell’essere implicitamente sottintese nella categoria di classe operaia che si intende universale nonostante il suo carattere sessuato, o dell’apparire come un’eccezione che turba poiché avanza rivendicazioni differenti da quelle egemoni in tale Gender politics of class formation. È il caso delle sarte parigine a cui è dedicato il saggio Work Identities for Men and Women: The Politics of Work and Family in the Parisian Garment Trades in 1848 ove si sottolinea come differenti intepretazioni della propria esperienza professionale vadano a strutturare lotte e piattaforme differenti secondo il genere dei lavoratori. Se i sarti avanzavano rivendicazioni contro il lavoro domestico legate alla loro professionalità, capacità, alla loro attività nei laboratori artigiani, le sarte non ponevano problemi riguardo il luogo di lavoro ma sull’abbassamento del prezzo del prodotto cercando di promuovere accordi collettivi, le opposizioni di genere strutturavano i programmi di lotta intendendo in maniera differente le opposizioni lavoro/famiglia, casa/laboratorio, madre/produttore, secondo le differenti intepretazioni dell’esperienza di lavoro. si sottolinea la distinzione fra rivendicazioni dei sarti uomini e delle cucitrici, sottolineando come le opposizioni di genere strutturano differenti programmi e rivendicazioni dei lavoratori evidenziando anche i conflitti interni ai lavoratori. 7 Sul tema e per alcuni riferimenti bibliografici cfr. supra terzo capitolo § 3.1.
348
la «classe» degli operai emergere dal più vasto e variegato ambito di forme di
vita, comportamenti collettivi, fenomeni sociali rubricati alla voce proletariato
urbano. Comincio analizzando, nel primo paragrafo, il processo di
cristallizzazione dell’opposizione operaio/delinquente, per poi introdurre, in
quello successivo, una serie di avvenimenti e fenomeni sociali che dovrebbero
essere in grado di restituire l’estrema pluralità di campi di forze e di lotte, di
profili sociali, di regimi discorsivi, tattiche e strategie su cui la classe operaia si
innesta e agisce come dirompente dispositivo di unificazione e politicizzazione.
Il terzo paragrafo convoca e indaga poi quell’immagine della pura esteriorità
che – rispetto alla dimensione stessa della società – è rappresentata dalla
metafora dei barbari, attivata dai pubblicisti liberali di fronte all’insurrezione
lionese del 1831. Elemento che introduce il secondo aspetto del lavoro che il
presente capitolo intende svolgere, indagando il processo di formazione ed
emergenza della classe operaia non solo e non tanto attraverso la produzione di
discorso endogena al mondo operaio, ma anche e soprattutto chiamando in
causa e interrogando strategie discorsive e pratiche di governo che di fronte
all’insieme di temi e problemi posti dalla quesitone sociale vengono attivati
nell’ambito della razionalità politica del liberalismo dottrinario e del regime di
Luglio.
Si è cercato, nei precedenti capitoli, di studiare l’emergenza storica della
nozione di classe operaia come una formazione e pratica discorsiva che ha per
oggetto frontiere, significato e regime di verità del politico. Si è dunque provato
a restituire – utilizzando la dimensione dell’avvenimento come punto di
intersezione fra storia e teoria – le condizioni di formazione di un processo di
soggettivazione articolato sul terreno discorsivo che istituisce la
rappresentazione di una soggettività collettiva dei lavoratori, la quale andrà per
un importante segmento della storia contemporanea a porsi al fianco dello Stato
condizionandone sensibilmente alcuni meccanismi di funzionamento, in
particolare attraverso quell’insieme di pratiche e dispositivi che prende il nome
di Stato sociale. Il presente capitolo intende osservare l’altro versante di questo
processo: la «classe operaia», la produzione del soggetto operaio, come lavoro
349
di oggettivazione, dispositivo di messa in ordine, di «classificazione», governo
e disciplinamento di quella nebulosa di figure sociali, temi e problemi che negli
anni 1830 prende il nome di questione sociale. Campo unitario a partire dal
quale dispiegare quella specifica declinazione del politico che avrà nome lotta
di classe, la classe operaia pare aver funzionato anche come macchina di
recupero, apparato di cattura che agisce sulla pluralità di forme di vita e
comportamenti collettivi del proletariato urbano nella Francia di prima metà
Ottocento. Riprendendo da dove lo si è lasciato il filo degli avvenimenti che
compongono il frammento di storia in esame, si cerca qui, soprattutto nella
seconda parte del capitolo, di analizzare condizioni e ragioni, razionalità e
pratiche di governo, tattiche e strategie attraverso cui una specifica razionalità
politica liberale si sforza di fissare oggettivare, istituire la figura operaia come
campo di sapere-potere per produrne l’integrazione sociale facendola
funzionare da dispositivo di contenimento delle tendenze disgregatrici di quella
nebulosa di temi e questioni che, da un certo momento, prende il nome
minaccioso di pauperismo.
4.1 Il «fuori» della classe operaia
La decomposizione, lo sgretolamento cui il concetto di classe come sistema
di riferimento a una struttura sociale data di interessi e bisogni pare incorrere
all’interno dell’analisi che Marx propone della vicenda quarantottesca francese
contribuisce probabilmente a determinare il significativo ricorso in tali scritti
alla nozione di Lumpenproletariat, utilizzata come strumento di intellegibilità
dei due avvenimenti maggiori di questo tornante storico, l’insurrezione operaia
di giugno e il golpe bonapartista. Nella prima la borghesia riesce ad avere la
meglio scagliando contro gli operai quel segmento sociale
che in tutte le grandi città forma una massa nettamente distinta dal proletariato industriale, nella quale si reclutano ladri e delinquenti
350
di ogni genere […] gente senza un mestiere definito […] diversi secondo il grado di civiltà della nazione cui appartengono […] Facilmente influenzabili per l’età giovanile […] questi elementi erano perfettamente capaci tanto delle più grandi azioni eroiche e della più esaltata abnegazione, quanto dei più volgari atti di banditismo e della più sordida venalità.8
Dimensione urbana, attitudine alla delinquenza e volatilità del rapporto con
il lavoro sono i principali attributi di un «sottoproletariato» che emerge, in
prima battuta,9 tanto come il segmento più marginale del proletariato, quanto
come insieme di attitudini e comportamenti. Di qui il termine
Lumpenproletariat è poi sottoposto a una dilatazione semantica che spazia dalla
nozione tedesca di Pöbel da una parte, a quella francese di boheme dall’altra,
consentendogli di spiegare fenomeni differenti, e finendo per designare assai
meno un segmento sociale che un insieme di «condotte», di cui pare emergere
anzitutto l’impoliticità e l’attitudine delinquenziale: «il sottoproletariato, sia
esso nobile o plebeo».10 Così esso diviene anche il vettore di concentrazione
degli elementi in grado di spiegare il golpe di Luigi Bonaparte, che conduce «al
potere il sottoproletariato, guidato dal capo della Società del 10 dicembre».11
Quest’ultima – lo strumento della vittoria bonapartista – raccoglie tutto il
Lumpenproletariat parigino, che è ora definito la feccia, la «schiuma di tutte le
classi», composta da «volponi in dissesto, dalle risorse e dalle origini
equivoche; […] avventurieri corrotti, feccia della borghesia, […] vagabondi,
8 Marx, Le lotte di classe in Francia cit., p. 127. La borghesia riesce a uscire vittoriosa dalla sfida lanciatale dagli operai nel giugno 1848 solo scagliando contro gli insorti i 24 battaglioni della guarda mobile composti di uomini fra 15 e 20 anni: essa adotta la strategia di «opporre una parte dei proletari all’altra», scrive Marx mostrando di considerare in prima battuta il Lumenproletariat come un segmento del proletariato, concezione che pare in seguito mutare. 9 Si tratta del primo articolo delle Lotte di classe in Francia, scritto all’indomani dell’insurrezione di giugno 1848. 10 Marx, Il 18 brumaio cit., p. 122: Luigi Bonaparte «come bohèmien e come principe sottoproletario, aveva […] il vantaggio di poter condurre la lotta con mezzi volgari» (p. 148). «L’aristocrazia finanziaria, nelle sue forme di guadagno come nei suoi piaceri, non è altro che la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese […]. Nel 1847 sulle scene più elevate della società francese pubblicamente rappresentati gli stessi spettacoli che regolarmente conducono il sottoproletariato nei bordelli, nei ricoveri di mendicità e nei manicomi, davanti al giudice, al bagno e alla ghigliottina, il popolo gridava» (Marx, Le lotte di classe in Francia, p. 96). 11 Marx, Il 18 brumaio cit., p. 199.
351
soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti,
lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, ruffiani, tenitori di postriboli, facchini,
letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una
parola, tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano
la bohème».12
La mancanza di sua permanenza e sviluppo sistematico nel complesso
dell’opera di Marx, l’assai scarso valore euristico e teorico di tale concetto –
ammesso che di concetto si possa parlare – gli sono valsi ben poca attenzione
da parte degli studiosi. Esso può tuttavia acquistare qui un qualche interesse se
si cerca di piegarlo ai fini della presente ricerca, per almeno due motivi. Il
primo lo si è già detto nel capitolo precedente: l’insieme di soggetti, attitudini e
comportamenti rubricati al nome di Lumpenproletariat esemplifica il progetto
marxiano di striatura politica del sociale perché compone un’eccedenza che,
ponendosi al di fuori della frontiera di politicità che solca ora la società
dall’interno, contribuisce a descriverla e delimitarla. In secondo luogo vorrei
ancora richiamare la metafora della machine Marx, proposta da Pierre Dardot e
Christian Laval,13 per interpretare il significativo ricorrere di questa espressione
nei testi sul quarantotto francese non solo come strumento che consente di
svolgere l’operazione teorica sulle frontiere del politico di cui ho cercato di
restituire le coordinate, ma anche in quanto «fotografia» di una problematica
che – a partire dall’esperienza parigina del 1844 –14 Marx «trova», assimila e
traduce declinando sulla sua nozione di proletariato la classica distinzione
francese fra peuple e populace. L’affermazione secondo cui il sottoproletariato
forma «una massa nettamente distinta dal proletariato industriale», più che una 12 Marx, Il 18 brumaio cit., p. 133: «con questi elementi a lui affini, Bonaparte aveva costituito il nucleo della Società del 10 dicembre. ‘Società di beneficenza’, in quanto i suoi membri, al pari di Bonaparte, sentivano il bisogno di farsi della beneficenza alle spalle della nazione lavoratrice. Questo Bonaparte, che si erige a capo del sottoproletariato; che soltanto in questo ambiente ritrova in forma di massa gli interessi da lui personalmente perseguiti, che in questo rifiuto, in questa feccia, in questa schiuma di tutte le classi riconosce la sola classe su cui egli può appoggiare senza riserve» (ibid.). 13 Cfr. supra, terzo capitolo, in particolare l’introduzione. 14 Si è già fatto cenno a come il primo soggiorno parigino abbia indotto Marx a frequentare i circoli operai e a interessarsi anche a tematiche legate alla marginalità, al rapporto fra subalterni e penalità, con l’analisi e il commento dei Misteri di Parigi di Sue e della ricerca di Peuchet sugli archivi di polizia, cfr. supra terzo capitolo § 3.2.
352
constatazione sarebbe allora la rappresentazione di un lavoro di opposizione e
differenziazione che ha tutta una storia, teorica nell’itinerario marxiano – la
politicizzazione del lavoro operaio in opposizione alla volatile impoliticità di
altri comportamenti collettivi del proletariato urbano e di alcune posizioni del
socialismo «utopico» –, ma anche concreta nel processo di formazione di quello
che si chiamerà mouvement ouvrier. L’ipotesi è che il concetto di classe operaia
come formazione discorsiva che ha per oggetto le frontiere del politico vada
affermando il proprio regime di verità anche attraverso un lavoro di
opposizione e differenziazione nei confronti dell’impoliticità di altre forme di
vita e comportamenti di taluni segmenti subalterni della popolazione urbana.
Tale formazione e pratica discorsiva – che istituisce il campo unitario in cui gli
operai diventeranno classe – assicura il proprio statuto politico anche attraverso
la produzione di senso e discorso che pone al di là dei confini del politico
pratiche, enunciati, forme di vita, questioni e temi che esulano dalla centralità
della dimensione del lavoro.15 Fra essi, si è detto, un ruolo di primo piano è da
accordare a genere e famiglia – al centro, ad esempio, del discorso
sansimoniano –, ma è poi possibile richiamare anche tematiche inerenti a
penalità e forme di vita della marginalità urbana. Su queste si concentra il
presente paragrafo, nel tentativo di osservarvi il processo di emergenza politico-
discorsiva della nozione di classe operaia nel punto di intersezione fra un 15 Si può, a mio avviso, trovare traccia di tali elementi anche in molti lavori di storiografia del movimento operaio. Gli storici della cosiddetta new social history, ad esempio, che hanno studiato la composizione sociale di sommosse e rivoluzioni nella Francia di prima metà Ottocento – fra i testi citati, Rudé a proposito della grande Rivoluzione e della «folla pre-industriale», Pinkney del luglio 1830, Tilly sulla vicenda quarantottesca, De Francesco riguardo le révoltes des canuts – lavorano a sottolineare lo scarso rilievo assunto in tali momenti dei lumpenproletari, dei segmenti più marginali della popolazione urbana, evidenziando invece il decisivo ruolo degli artigiani qualificati, di «capifamiglia e cittadini onesti, certo di umile condizione e spesso disoccupati, ma tra i quali ladri, vagabondi, prostitute, la feccia della società insomma, aveva nel complesso un peso insignificante » (Rudé, La folla nella storia cit., p. 219). Così, rileva Étienne Balibar, «è solamente a proposito di società ‘pre-capitaliste’ che degli storici marxisti (Hobsbawm) si sono arrischiati a questionare la frontiera fra violenza politica (‘rivolta’) e violenza criminale (‘delinquenza’), ma non […] a proposito delle forme ‘sviluppate’ della lotta di classe» (É. Balibar, Violence et civilté. Wellek Library Lectures et autres essais de philosophie politique, Galilée, Paris 2010, p. 294). Insomma, si potrebbe dire che ha tutta una storia la constatazione di Giovanna Procacci secondo cui «la storiografia della povertà offre in sostanza due figure di povero, il marginale a un passo dalla delinquenza e l’operaio in via di proletarizzazione» (Governare la povertà cit., p. 17), e che tale distinzione ha a che fare con il modo in cui si pensa la soglia che delimita gli ambiti di verità del politico.
353
movimento di soggettivazione politica e un insieme di pratiche che lavorano a
oggettivare la figura operaia come dispositivo di governo della nascente
questione sociale. La riscrittura dei confini del politico indotta dall’irruzione
storica della classe operaia come insieme di posizioni discorsive sul mondo e di
rappresentazioni di interessi e bisogni popolari, per funzionare come processo
di produzione di una soggettività collettiva degli operai, istituisce tutto un
«fuori», un’eccedenza di forme di vita e comportamenti popolari, attivando un
processo di differenziazione e «classificazione» che è coevo, e per alcuni versi
complementare, a tutto un lavoro di oggettivazione delle figure operaie volto a
farne un dispositivo di messa in ordine, disciplinamento e governo del plurale e
minaccioso insieme di fenomeni e attori solitamente rubricati alla voce
«questione sociale».
La relazione reciproca fra classi lavoratrici e pericolose, fra militantismo
operaio e il poliforme universo della marginalità urbana è certamente
complesso e plurale, così come il processo che conduce a ciò che Marx chiama
una «netta distinzione» sembra in Francia tutt’altro che lineare e frutto di
dinamiche mai univocamente decidibili. La «demobiografia» della Parigi di
prima metà Ottocento proposta da Louis Chevalier in Classi lavoratrici e classi
pericolose è, in ultima analisi, cronaca di questo processo di distinzione,
separazione, divaricazione, che, a partire da un sostanziale isomorfismo iniziale
– rappresentato dalla metafora dei «nuovi barbari» –, vede le seconde declinarsi
progressivamente al singolare classe operaia, operando un «radicale
rovesciamento della posizione dei lavoratori» nell’ordine del discorso, «nei fatti
e nelle idee», che si cristallizza in corrispondenza della rottura quarantottesca
(solo «dopo le giornate del 1848 le classi popolari parigine cessano di essere
chiamate ‘plebaglia’»). 16 Ma «il nuovo e trionfante concetto dell’operaio
adorno di ogni virtù […] cui persino l’opinione borghese dovrà allinearsi e per
cui professerà il massimo rispetto – sarebbe completamente inspiegabile»,
conclude Chevalier, se non a partire dalla comprensione della iniziale
prossimità nelle rappresentazioni – borghesi quanto popolari – di proletario e 16 Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose cit., pp. 508 e 478.
354
criminale, di classi lavoratrici e pericolose.17 Si intende qui proporre alcune
considerazioni sull’articolarsi di tale processo facendo ancora una volta
riferimento al campo di tensione aperto fra la serie di avvenimenti che marca il
tornante 1831-32 e la rottura quarantottesca. Se in quest’ultima – nello scontro
di giugno 1848 fra operai insorti e guardia mobile – si possono fotografare i
contorni di un’avvenuta scissione fra militantismo operaio e marginalità urbana,
è d’altra parte vero che all’indomani della rivoluzione di Luglio ritroviamo una
qualche incidenza dei temi legati alla penalità nell’ordine del discorso politico
di alcuni movimenti emergenti, e anche i termini di una – pur sempre ambigua e
ambivalente – prossimità fra attivismi proletari e «illegalismi popolari» (si
pensi allo stesso lemma misérables, che, all’inizio del secolo utilizzato per i
malfattori, era poi progressivamente venuto a indicare più in generale coloro
che versano in povertà, rappresentando così la frontiera incerta e mobile fra
crimine e miseria). Mi pare che nel frammento 1831-32 sia possibile indicare
due avvenimenti che contribuiscono a dispiegare le condizioni di possibilità di
tale processo di opposizione e differenziazione.
Il 4 febbraio 1832 la ghigliottina viene rimossa da Place de Grève, ove dal
quattordicesimo secolo si consumava quel pubblico spettacolo delle esecuzioni
che, richiamando grandi masse della popolazione urbana, era venuto a costituire
un momento di spontanea solidarietà fra le classi lavoratrici e quei membri, in
fin dei conti, della loro stessa «razza» colpiti, talvolta ingiustamente, dalla
violenza eccessiva del potere.18 Si tratta di una misura (vi tornerò nel prossimo
paragrafo) legata e in qualche modo conseguente alla legge di riforma del
codice penale e del codice di procedura criminale la cui discussione impegna la
Camera dei deputati nei giorni immediatamente successivi l’insurrezione
lionese di novembre 1831. È uno dei grandi provvedimenti legislativi della
monarchia di Luglio: affermando la generalità della pena della detenzione,
17 Ivi, p. 508: «le classi popolari […] accettano e condividono l’opinione che le concerne e riconoscono la condizione che gli si attribuisce […] non solo inferiore e umiliante ma virtualmente criminale». 18 Le esecuzioni avvenivano storicamente in pieno pomeriggio: la ghigliottina viene ora trasferita alla barriera di Saint-Jacques, dove esse avranno luogo all’alba.
355
aprendo il dibattito sull’internamento cellulare, sancendo distinzioni fra reati
politici e comuni, e introducendo le circostanze attenuanti, questa riforma
organizza le condizioni necessarie a oggettivare il mondo della criminalità
distinguendolo più nettamente dagli altri segmenti popolari, e apre la strada al
dibattito sul lavoro carcerario che lungo gli anni Quaranta pare aver costituito
un motivo maggiore di contrapposizione fra associazionismo operaio e detenuti
di diritto comune. La riforma abolisce pene corporali quali la gogna, la berlina,
la marca, toglie la pena di morte per nove casi di reato, sopprime la mutilazione
del pugno, riduce la detenzione per debiti e numerose altre pene, introduce una
distinzione fra quelle politiche e di diritto comune, attenua la recidiva e contrae
la deportazione in favore della detenzione, che diventa pena generale per i reati
che non prevedono la morte. Le circostanze attenuati sono elemento importante
di questa riforma, che le qualifica «indefinibili e illimitate», consentendo al
giudice di ridurre arbitrariamente la pena prevista dalla legge sulla base di
elementi – quali la provenienza sociale o l’estrema miseria – inerenti biografia,
condotta e profilo dell’imputato. 19 Una forma di individualizzazione
antropologica in forza della quale quest’ultimo viene ora considerato, osservato
e studiato nel suo profilo di «delinquente» prima e al di là del reato, e che
agisce nell’ambito dell’organizzazione di uno specifico sapere amministrativo
sul mondo criminale che consente di oggettivarlo e istituirlo come campo di
analisi e di pratiche. Sono anni in cui l’ordine del discorso politico è
significativamente attraversato dal proliferare di progetti, riflessioni, studi,
inchieste su temi legati alla penalità. È nel marzo 1832 che rientrano dagli Stati
Uniti i due giovani magistrati cui il governo aveva commissionato un’indagine
sul sistema penitenziario del paese che aveva compiutamente realizzato il
19 La discussione alla Camera dei deputati ha luogo fra 25 novembre e 7 dicembre 1831, la riforma passa con 212 favorevoli e 34 contrari, la legge verrà poi promulgata il 28 aprile 1832. La pena di morte viene abolita per: complotto senza attentato, falsa moneta, contraffazione dei sigilli di stato, certi incendi involontari, furto con circostanze particolarmente aggravanti. Fra le cause più frequenti delle circostanze attenuanti è poi possibile citare: la buona condotta precedente al reato, la cattiva educazione ricevuta, l’età, il pentimento, il movente, l’ascendente esercitato dai complici, l’ignoranza della legge, la miseria estrema, la mancanza di premeditazione. Sul tema cfr. E. Garçon, Code pénal annoté. Première édition, Paris 1901, in particolare l’articolo 463.
356
moderno principio della pura e semplice privazione della libertà come forma
generale della pena. Alla fine dell’anno Alexis de Tocqueville e Gustave de
Beaumont pubblicano la memoria Du système pénitentiaire aux États-Unis et
de son application en France,20 conducendo nel vivo il dibattito sulla riforma
penitenziaria, ove essi oppongono al «debole» approccio della «falsa
filantropia» una prospettiva più «scientifica» e orientata all’imperativo della
«difesa della società». L’internamento cellulare da essi perorato pone il
detenuto «solo contro la società intera»,21 e agisce da strumento generale di
messa in forma del sociale garantendo la certezza del rigore della pena agli
onesti cittadini e utilizzando la paura della sanzione come forma di
disciplinamento delle condotte. «Ciò che conduce quasi tutti gli uomini al
crimine è la pigrizia. Non ci sono molti ladri tra i buoni operai», scrive nel 1838
Tocqueville per sostenere il «modello di Filadelfia», ove la solitudine
dell’isolamento ha il pregio di «far desiderare» al detenuto di lavorare,
sostituendo alla frusta (adoperata nel regime carcerario di Auburn) questo
invisibile quanto potente dispositivo di interiorizzazione, moralizzazione e
controllo.22 Si vede dunque emergere il tema dell’opposizione fra delinquente e
operaio, la produzione e organizzazione della frontiera che rende possibile
distinguere e separare nettamente il povero ma onesto lavoratore dal marginale
tendenzialmente criminale che il carcere deve escludere dalla società da esso
minacciata e trasformare attraverso l’isolamento e l’abitudine al lavoro. Come
20 Si tratta di un documentatissimo rapporto teso in particolare a confrontare il regime cellulare del «sistema di Filadelfia» e quello più «comunitario» della prigione di Auburn. Il dibattito pubblico sul tema vedrà Tocqueville e Beaumont sostenere il modello cellulare di Filadelfia contro gli approcci «filantropici» rappresentati in particolare da Charles Lucas (il cui Du système pénal et du système répressif en général, de la peine de mort en particulier, era stato premiato nel 1828 dalla Società di Morale Cristiana). Sul tema cfr. (anche per i molti riferimenti bibliografici) Chignola, Fragile cristallo cit., pp. 511-527. Si noti che si deve in particolare alle ricerche degli anni 1820 di Louis René Villermé (su cui cfr. infra § 4.4) l’inaugurazione di un nuovo approccio statistico allo studio del problema carcerario. 21 Lettera di Tocqueville a Langlois, in «Moniteur universel», 1 ottobre 1838; trad. it. in A. de Tocqueville, Scritti note e discorsi politici 1839-1852 a cura di A. Coldagelli, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 138. 22 Ivi, pp. 138-139. «È d’altra parte una questione grande e difficile quella di sapere fino a che punto conviene che lo Stato, servendosi dei criminali che gli si affidano, diventi industriale e istituisca una concorrenza spesso rovinosa con l’industria degli operai onesti e liberi» (p. 141).
357
sottolinea Sandro Chignola, la riflessione tocquevilliana sulla riforma
penitenziaria testimonia di un mutamento di prospettiva nella concezione
liberale delle relazioni sociali che si trova ora a dover pensare dispositivi di
controllo della libertà degli individui come condizione stessa di esistenza di una
società «costitutivamente erosa dalle tensioni che tendono a svuotarla
dall’interno […]. Il problema della società si dischiude a Tocqueville sulla base
della soglia oltre la quale l’individuazione dei rapporti sociali si tramuta nella
loro dissoluzione». 23 Di qui l’attenzione verso la marginalità delle classi
popolari di questo autore che nel relazionare la legge sull’internamento
cellulare nel 1843 insiste sugli effetti benefici del lavoro carcerario (contro cui i
giornali operai protestano) e designa i criminali come una «piccola nazione in
seno alla grande», organizzati in «associazioni», in «società»:24 termini non
neutrali in cui si può forse riconoscere un riferimento polemico alle esperienze
dell’associazionismo operaio degli anni 1840. Il tema degli illegalismi e della
delinquenza consente insomma di osservare l’emergere storico della formazione
discorsiva che avrà nome classe operaia nel punto di intersezione fra le
molteplici determinanti di un processo di soggettivazione politica e alcune
strategie di governo della questione sociale che interrogano mutamenti e
tensioni interne alla razionalità politica liberale.
Tematiche legate alla penalità paiono tutt’altro che assenti nell’ordine del
discorso politico di alcune associazioni operaie e società repubblicane
all’indomani della rivoluzione di Luglio. Ad esse i dirigenti della Société des
amis du peuple conferiscono un grande rilievo nelle arringhe pronunciate di
fronte alla corte che li processa nel gennaio 1832. «Il codice penale è stato
redatto esclusivamente nell’interesse di un potere dispotico»,25 afferma Raspail,
23 Chignola, Fragile cristallo cit., pp. 515 e 525. 24 A. de Tocqueville, Rapport fait à la Chambre des députés au nom de la commission chargée d'examiner le projet de loi sur les prisons (séance du 5 juillet 1843), in Id., Scritti note e discorsi politici 1839-1852 cit., pp. 150-154. 25 Société des Amis du peule, Au peuple, in Id. , Procès des quinze, cit., p. 44. Il diritto del procuratore di decretare la carcerazione prima del giudizio viene definita una «barbarie della nostra legislazione» (ibid.), e più avanti viene affrontato il tema della condizione dei detenuti carcerari: «nello stato incompleto della nostra civilizzazione la prigione sembra corrompere anche l’uomo più onesto».
358
che, come presidente della Sap, fa della «lotta contro le iniquità del nostro
sistema penitenziario» e del sostegno ai detenuti una delle principali attività
dell’associazione,26 e che al tema dedicherà le Lettres sur les prisons de Paris.27
Sebbene questo campo di problemi sia sostanzialmente assente in Saint-Simon
e Fourier (ma non in Louis Blanc e Proudhon), si deve poi sottolineare il rilievo
che ad esso conferirà nel discorso fourierista Victor Considérant dopo la morte
del maestro, facendo della polemica antipenale uno dei grandi argomenti della
«Phalange». Nel dicembre 1833 sulla «Tribune des Femmes» Pauline Roland
designa gli atti di taluni criminali come «energica protesta contro l’ordine di
cose in cui vivono»,28 e nelle sue Mémoires l’operaio sansimoniano Vinçard
critica e mette in questione «ciò che chiamiamo uomo onesto» stigmatizzando
«la facilità con cui anatemizziamo queste nature eccezionali, le più interessanti
talvolta dal punto di vista generale», e domandandosi se «la loro bruciante
attività», i «loro coraggiosi sforzi» non potrebbero volgersi al miglioramento
della società.29 I muratori «costruiscono contro se stessi quelle celle spaventose,
perché è la loro razza che nutre il mostro», scrive il falegname-poeta Garbiel
Gauny Agli operai che costruiscono prigioni cellulari, affermando che «la
diseguaglianza delle condizioni, la disoccupazione di lungo termine, la
ripugnanza che ispira un lavoro sovrasfruttato o contrario ai nostri gusti,
l’assenza di educazione, un sopruso, un confronto, una vertigine fanno talvolta
combattere i più deboli e i più forti della plebe contro la società che li
disereda».30 Jacques Rancière analizza questi scritti per indagare il «rapporto
privilegiato del proletario al criminale», componendo ritratti di operai che si
fanno ladri per fuggire il rigore della propria sorte, e indagando il rapporto fra il 26 Raspail, Les Avenues de la République cit., pp. 154 sgg. Ogni membro della Sap poteva prendere in carico alcune famiglie di detenuti facendosene avvocato e precettore dei bambini, e si organizzavano raccolte fondi per i prigionieri repubblicani, la società provvedeva inoltre a procurare avvocati ai più poveri. 27 F-V. Raspail, Réforme pénitentiaire. Lettres sur les prisons de Paris, 2 voll., Tamisey et Champion, Paris 1839. 28 P. Roland, Un mot sur Byron, in « Tribune des Femmes», dicembre 1833, cit. in Rancière, La nuit des prolétaires cit., p. 101. 29 J. Vinçard, Mémoires épisodiques d'un vieux chansonnier saint-simonien, Dentu, Paris 1878, pp. 148 e 149. 30 G-L. Gauny, Aux ouvriers qui construisent des prisons cellulaires, cit. in Rancière, La nuit des prolétaires cit., p. 100
359
mondo della «manifattura ove soffrono i mercenari, privati dei mezzi o della
forza per affrancarsi», e quello della «prigione che rinchiude coloro che si sono
perduti lungo i cammini della libertà».31 Dalle fonti operaie Rancière ricava
l’immagine del criminale come agente singolare di una protesta globale che
rappresenta il popolo dal versante dell’odio invece che da quello della
sofferenza, e che riguarda l’impossibilità fatta al proletario di un’esistenza
all’altezza delle sue facoltà e vocazioni. Ne emerge un rapporto poliforme e
ambivalente, diviso fra la condanna di un ribelle mancato che ha ceduto alla
febbre del consumo e della merce (ma anche il disgusto dei militanti condannati
a subire in prigione la promiscuità con una popolazione degenerata), e il legame
mitologico con il grande criminale che sfida la società e finisce da questa
condannato e brutalmente ucciso sul patibolo di Place de Grève (rituale in cui
questa ambigua relazione tende dunque a dislocarsi sul versante della
solidarietà). Risulta insomma difficile studiare l’emergere del movimento
operaio francese senza fare riferimento al complesso rapporto di prossimità o di
differenziazione che i nascenti movimenti di emancipazione attivano con
tematiche e pratiche di illegalità, che le forme di vita operaie intrattengono con
quelle criminali – come testimonia anche la ricerca di De Francesco sul mondo
del lavoro lionese dedicando ampio spazio alla «nascita del fenomeno
delinquenziale».32 Nella multiforme complessità della questione, pare possibile
registrare un avvenuto mutamento nelle rappresentazioni della problematica fra
i primi anni 1830 e quelli intorno alla rottura quarantottesca. È un processo che
mi pare d’altra parte acquistare piena intellegibilità solo se osservato nei punti
di intersezione fra gli elementi che, attraverso la produzione di discorso
endogena al mondo operaio, concorrono a un movimento di soggettivazione
politica, e le importanti riforme penali di questi anni che lavorano nel più
31 Rancière, La nuit des prolétaires cit., p. 97. 32 De Francesco, Il sogno della repubblica cit., p. 243. De Francesco sottolinea che di fronte all’insurrezione del 1831 «le autorità cercarono di nascondere la preoccupante verità, individuando nei vagabondi, nei galeotti, nel popolaccio insomma, i soli sostenitori della protesta dei ‘canuts’» (p. 373), e, come Chevalier, sostiene che in questi anni «la linea di demarcazione tra gruppi laboriosi e pericolosi si presenta dunque sfumata, di difficile interpretazione» (p. 254).
360
generale quadro di una razionalità politica liberale tesa a oggettivare il sociale
per governarlo e produrne l’integrazione.
«La posizione reciproca del proletariato e della plebe urbana dovrebbero
essere studiati», scrive Michel Foucault sviluppando in Sorvegliare e punire
una riflessione sull’emergere della nozione di delinquenza nel «momento in cui
la percezione di un’altra forma di vita viene ad articolarsi su quella di un’altra
classe», e proponendo un’interpretazione che aggiunge elementi preziosi alle
tematiche finora introdotte. 33 La parte centrale del testo – la poderosa
prestazione sul concetto di disciplina – è introdotta e seguita da
un’interrogazione sulla razionalità politica che, in un breve arco di tempo e
nonostante la generale diffidenza dei riformatori verso le disfunzioni sociali
indotte dalla prigione, conduce all’affermazione di quest’ultima come forma
generale della punizione legale per tutti i reati che non meritano la morte.34 La
grande riforma penitenziaria di primo Ottocento – che sposta il diritto di punire 33 M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison (1975); trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, pp. 317 e 277. Si noti che con il termine plebe Foucault pare alludere non tanto a un segmento sociale quanto a un insieme di attitudini e comportamenti, in qualche modo a una forma di vita: «non esiste ‘la’ plebe, c’è ‘della’ plebe. C’è nei corpi e nelle anime, negli individui, nel proletariato e nella borghesia»: la plebe è quel qualcosa che sfugge in certo modo alle relazioni di potere, «nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli individui stessi», perciò «assumere questo punto di vista della plebe, che è quello dell’inverso e del limite rispetto al potere, è indispensabile per fare l’analisi dei suoi dispositivi», Pouvoirs et stratégies; trad. it. Poteri e strategie, in «aut aut», 164, 1978, p. 25. 34 La prigione «pone in opera dei processi di addestramento del corpo» (Sorvegliare e punire cit., p. 143): in sostanza Foucault afferma che la grande riforma penitenziaria consente al carcere di funzionare come un apparato di sapere riferito a ogni singolo individuo delinquente, il quale viene investito da un potere disciplinare che, controllando i corpi, fabbrica individui ubbidienti aperti e disposti a ricevere l’esercizio del potere. Il filosofo francese ripercorre gli argomenti dei riformatori che lavoravano a sostituire la brutalità dei supplizi con altre forme di castigo, manifestando però una generale diffidenza nei confronti del dispositivo carcerario, accusato di creare e riprodurre attitudini criminali, e domanda pertanto: «in quale modo la detenzione, così visibilmente legata a quell’illegalismo denunciato perfino nel potere del principe, ha potuto, e in così poco tempo, divenire una delle forme più generali dei castighi legali?», ivi, p. 131. «In meno di vent’anni, […] il principio, così chiaramente formulato alla costituente, delle pene scientifiche, adeguate, efficaci, che siano, in ciascun caso, lezione per tutti, è divenuto il principio della detenzione per ogni infrazione importante, quando non merita la morte. A quel teatro punitivo sognato nel secolo XVIII, e che avrebbe giocato essenzialmente sullo spirito dei giustiziandi, si è sostituito il grande apparato uniforme delle prigioni, la cui rete di immensi edifici sta per estendersi su tutta la Francia e l’Europa», ivi, p. 126. Due momenti vengono chiamati a rappresentare l’avvento di quella razionalità penale di cui Sorvegliare e punire traccia le genealogia: il giugno 1837, quando la vettura cellulare subentra alla catena dei forzati (che univa il cammino verso la prigione a un cerimoniale da supplizio: la sua descrizione segna alcune delle pagine più vivide dei Miserabili), e il gennaio 1840, l’apertura ufficiale della colonia penale di Mettray.
361
dalla vendetta del sovrano alla «difesa della società» e nel giro di vent’anni
induce la «colonizzazione» delle pene da parte della prigione – viene indagata
convocando una problematica che il filosofo francese definisce come gestione
degli «illegalismi»: essa articolerebbe anche una risposta strategica all’intreccio
di illegalismi di differente natura, e alla contiguità che si andava producendo fra
alcuni di essi e i movimenti che «intersecano i conflitti sociali, le lotte contro i
regimi politici, la resistenza al movimento di industrializzazione, gli effetti delle
crisi economiche». 35 Fra tali pratiche illegali vengono sottolineate quelle
operaie, sempre più estese a causa della legislazione restrittiva contro scioperi,
coalizioni e associazioni, cosicché, da una parte le condotte illegali operaie
vanno a lambire e incrociare la delinquenza comune, e dall’altra si ha uno
«sviluppo della dimensione politica degli illegalismi», indotta anche dalla
dialettica fra lotte operaie e discorso politico repubblicano. «Tutta una serie di
illegalismi si inscrive nelle lotte […] essi sono stati sufficientemente precisi da
servire come supporto alla grande paura nei confronti di una plebe che si ritiene
criminale e sediziosa insieme».36 In questo contesto, la prigione avrebbe avuto
l’effetto di creare, ritagliare e isolare una particolare forma di illegalismo, la
35 Ivi, p. 301. 36 Ivi, pp. 301-302. «Questa dimensione politica degli illegalismi diverrà insieme più complessa e più marcata nei rapporti tra il movimento operaio ed i partiti repubblicani nel secolo XIX, nel passaggio dalle lotte operaie (scioperi, coalizioni proibite, associazioni illecite) alla rivoluzione politica. In ogni caso, all’orizzonte di queste pratiche illegali – e che si moltiplicano sotto legislazioni sempre più restrittive – si profilano lotte propriamente politiche […]. D’altra parte, attraverso il rifiuto della legge o dei regolamenti, si riconoscono facilmente le lotte contro coloro che li stabiliscono, conformemente ai propri interessi: […] è proprio contro il regime della proprietà fondiaria – instaurato dalla borghesia approfittando della rivoluzione – che si è sviluppato tutto un illegalismo contadino […]; è contro il nuovo regime dello sfruttamento legale del lavoro, che si sviluppano gli illegalismi operai all’inizio del secolo XIX: dai più violenti, come spaccare le macchine, ai più duraturi, come costituire associazioni, fino ai più quotidiani, come l’assenteismo, l’abbandono del lavoro, il vagabondaggio, le frodi sulle materie prime, sulla quantità e qualità del lavoro finito. Tutta una serie di illegalismi si inscrive nelle lotte, e in esse si ha coscienza di affrontare nello stesso tempo la legge e la classe che questa legge ha imposta. […] abbiamo potuto assistere, negli ultimi anni del secolo XVIII, alla ricostruzione di certi legami o allo stabilirsi di nuove relazioni […] perché le nuove forme del diritto […] moltiplicavano le occasioni di infrazioni, e facevano passare dall’altra parte della legge molti individui […]; è sullo sfondo anche di una legislazione o di regolamenti molto pesanti […] che si è sviluppato il vagabondaggio operaio che incrociava spesso la delinquenza comune. Tutta una serie di pratiche […] sembrano ora riannodarsi tra loro per formare una nuova minaccia»: l’insieme di questi elementi avrebbe così concorso a formare quel «mito della classe barbara immorale e fuorilegge che, dall’Impero alla monarchia di Luglio, ossessiona il discorso dei legislatori, dei filantropi o degli studiosi della vita operaia» (ivi, pp. 300-302).
362
delinquenza, consentendo di usarla strumentalmente contro gli altri illegalismi
popolari. 37 Il carcere trasforma l’individuo in delinquente, istituisce la
delinquenza come campo di sapere-potere, contribuisce a formare tutta «una
zoologia delle sottospecie sociali, una etnologia delle civiltà dei malfattori», e
consente così di «erigere la barriera che avrebbe dovuto separare i delinquenti
dagli strati popolari» (è qui che Foucault, alludendo all’«utilizzazione politica
dei delinquenti», richiama il 18 brumaio di Marx facendo riferimento al
lumpenproletariato bonapartista). 38 Queste pagine foucaultiane confermano
l’ipotesi di un graduale processo di divaricazione, indicando «l’epoca in cui
comincia a cristallizzarsi l’opposizione tra operaio e delinquente»39 intorno agli
anni 1840-45, che vedrebbero il formarsi di un’ostilità operaia nei confronti
degli ex detenuti di diritto comune, e del lavoro in carcere, contro il quale, in
ragione del suo effetto sui salari, si organizzano anche scioperi e una campagna
in cui giornali operai come «L’Atelier» ospitano lettere tese a rimarcare la
distanza fra i reprobi giustamente puniti dalla legge e gli onesti cittadini
lavoratori. Sebbene Foucault non vi faccia riferimento, mi pare che la riforma
penale del 1832 – affermando la centralità della detenzione e attivando con le
circostanze attenuanti una forma di sapere sull’individuo-criminale –
rappresenti un momento importante in questo processo di oggettivazione del
fenomeno della «delinquenza» come insieme di illegalismi rispetto a cui – con
differenti modalità – emerge poi una contrapposizione del mondo
specificamente operaio. Essa segna una torsione dal potere di punire verso
quello disciplinare di sorvegliare che pare orientare anche la rimozione della
ghigliottina da Place de Grève, la cui razionalità politica rinvia, anch’essa, agli
sforzi di rompere l’incontro e intreccio fra diverse forme di illegalismi e profili
popolari che si determinava in occasione delle pubbliche esecuzioni.40
37 «l’opposizione strategica passa tra gli illegalismi» popolari e la delinquenza, che differenziandosene viene a «pesare» su di essi, ivi, pp. 305-307. 38 Ivi, pp. 277, 279, 315, 308 e 309. Foucault sottolinea anche il ruolo di una certa narrativa popolare (fra cui lo stesso I misteri di Parigi) nel dipingere la delinquenza come un nemico interno e senza volto appartenente a un mondo completamente diverso e separato. 39 Ivi, p. 263. 40 Cfr. infra § successivo.
363
L’analisi foucaultiana dei dispositivi attraverso i quali la riforma
penitenziaria della prima metà Ottocento interviene e lavora sulla complessa
costellazione di illegalismi, attitudini, condotte e discorsi politici degli strati
popolari urbani, suggerisce dunque di osservare il processo di emergenza di una
soggettività collettiva del mondo del lavoro guardando anche ai punti di
interferenza fra le articolazioni del discorso operaio e le tattiche e strategie che
lavorano a mettere ordine nella disordinata pluralità di temi, questioni e
comportamenti che segnano l’emergere della questione sociale per trovarvi i
punti di innesto di pratiche di governo in grado di intervenire sulle sue
minacciose attitudini tumultuanti. È di un segmento di questa pluralità (che in
parte costituisce ciò che ho chiamato il «fuori della classe operaia») che vorrei
ora restituire alcuni tratti tornando sulla specifica dimensione dell’avvenimento
e riprendendo il frammento di storia 1831-32 dal punto in cui lo abbiamo
lasciato, allo scopo di osservare alcuni profili e modalità con cui la questione
sociale irrompe nell’ordine del discorso politico all’indomani della rivoluzione
di Luglio. Ho voluto cominciare richiamando il processo di
opposizione/differenziazione fra attivismi operai e «delinquenza» perché mi
pare che esso dica di come la centralità della questione del lavoro operaio
emerga progressivamente – tanto nell’ambito dei movimenti politici di
emancipazione, quanto in quello delle strategie liberali di intervento sulla
questione sociale – attraverso un progressivo lavoro di messa a fuoco della
figura operaia di cui il presente capitolo intende ricostruire alcune ragioni e
coordinate nell’ambito di una specifica razionalità di governo.
4.2 Lo spazio politico della grande paura.
A partire da Marx, il discorso del movimento operaio sarà anzitutto una
politica del tempo – durata della giornata lavorativa, rapporto salario/orario, ma
anche tempi di «maturazione» della storia e di «sviluppo» del capitalismo. Nel
364
più generale quadro di spoliticizzazione della dimensione spaziale che segna la
vicenda dello Stato moderno,41 la «politica» della classe operaia sembra aver
lasciato ai margini le contraddizioni che attraversano strutture e mutamenti
dello spazio urbano, le forme di vita e i comportamenti collettivi che paiono
emergere come una sorta di caratteristica specifica di quelle grandi città in cui
Marx indica il milieu peculiare del Lumpenproletariat. E tuttavia, il tema delle
trasformazioni e della morfologia del tessuto urbano paiono non essere assenti
dal dibattito che accompagna l’emergere della questione sociale (si pensi anche
al rilievo che il tema ha in Fourier – che pensava i falansteri come alternativa
radicale al disordine urbano – e poi ai progetti di riforma urbanistica di Parigi
sviluppati dai fourieristi Considérant e Perreymond, ma anche dal sansimoniano
Duveyrier).42
All’insurrezione dei tessitori che cacciano le autorità da Lione, il regime di
Luglio risponde con due provvedimenti in particolare: l’annullamento dei
libretti operai (che analizzo nel prossimo paragrafo), e una misura di ordine
spaziale, la messa in atto del progetto di fortificazione della città, un sistema di
forti edificati a breve distanza e un’enorme caserma costruita sulla Place des
Bernardines, che va di fatto a separare il sobborgo operaio della Croix-Rousse
dal centro della città.43 Un vivace dibattito si accende immediatamente intorno
41 Cfr. Galli, Spazi politici cit. 42 Cfr. C. Fourier, Décadence de la civilisation, in «La Rèforme industrielle ou le Phalanstere» tome I, 22, 25 ottobre 1832, dopo la morte del maestro, sul giornale fourierista «La Démocratie Pacifique» progetti di riforma urbana di Parigi verranno avanzati da Perreymond (pseudonimo dell’ignoto autore di un corposo studio sul tema) e da Victor Considérant (guida dei fourieristi e dal 1843 consiegliere municipale del X arrondissement). Cfr. F. Moret, Penser la ville en fouriériste. Le projets pour Paris de Perreymond, in K. Bowie, La modernité avant Hausman. Formes de l’espace urbain à Paris 1801-1853, Éditions Recherches, Paris 2001, pp. 95-109, e N. Papayanis, L’emergence de l’urbanisme moderne à Paris, in ivi, pp. 82-94. Sui progetti di riforma urbanistica di Duveyrier, sansimoniano che voleva riprogettare Parigi in forma di corpo umano con differenti architetture secondo le diverse funzioni dei quartieri cfr. J. Coutrier de Vienne, Paris moderne: plan d’une ville modèle que l’auter a appellée Novutopie, Librairie du Palais-Royal, Paris 1860. 43 Ufficialmente il progetto, celermente realizzato sotto la guida del generale Fleury, ha scopi militari di difesa dai soldati stranieri, data la posizione strategica e quasi di confine della città. Al classico sistema del muro di cinta continuo viene preferito il più duttile dispiegamento a breve distanza di forti, in due anni ne vengono costruiti cinque. Fra questi ha particolare rilievo la caserma-cittadella costruita sulla place des Bernardines che segna il confine fra la città e la Coix-Rousse. La ricerca di Antonino De Francesco sul mondo del lavoro lionese di prima metà Ottocento sottolinea il rilievo dell’ambiente urbano, affermando che la nascita del mito
365
alla realizzazione di tale sistema di difesa militare, interpretato come strumento
di marginalizzazione degli strati popolari, disposto più contro le iniziative
operaie che contro le armate straniere. «Sì, l’autorità, piazzando intorno a Lione
una linea formidabile di difesa, ha pensato al nemico interno tanto quanto ai
sardi e agli austriaci», scrive Monfalcon restituendo efficacemente i termini
della discussione, «sì, il suo sistema di fortificazione porta l’influenza dei
ricordi di novembre fortemente impressa».44 A partire dal 1833, il progetto di
nuove fortificazioni di Parigi scatena una campagna di petizioni e infiamma un
vivace dibattito che si protrae fino e oltre la legge dell’aprile 1841. Su questa, a
più riprese, interviene Alexis de Tocqueville, parlando di fortificazioni «mortali
per la libertà», denunciando gli effetti di potere di provvedimenti tesi a «fare di
Parigi, in ogni circostanza, un’immensa piazza d’armi», e cogliendo la funzione
eminentemente interna di tale riorganizzazione dello spazio urbano come
ulteriore atto di separazione fra masse popolari ed élites capacitarie.45 «I
ministri», scrive Félicité de Lamennais nel pamphlet che gli costa la condanna a
un anno di prigione, «temono il risveglio della Francia e la sua troppo giusta
indignazione. Per loro il nemico non è alla frontiera, è a Parigi; vi concentrano
centomila uomini e la circondano di cittadelle per schiacciarla se tenta di
agitarsi».46 Pierre Rosanvallon sottolinea l’«enorme importanza simbolica» che
la questione va subito acquistando, infiammando l’immaginazione di una
delle classes dangereuses è certamente associata in maniera decisiva al fenomeno migratorio, ma invitando a leggere, più che nell’immigrazione, nella stessa struttura urbana le cause di tale emergenza: «conviene sottolineare come – nei fatti e non nelle parole – l’immigrazione fosse sì un motivo di turbamento dell’ordine sociale, che trovava però favorevoli condizioni all’interno della stessa struttura urbana […]. L’impressione è che nel corso del primo Ottocento si siano precisate o create ‘ex nihilo’ delle sacche urbane dove proliferava il fenomeno delinquenziale» (Il sogno della repubblica cit., pp. 243 e 253). 44 «E quella della previsione di un nuovo attacco a mano armata degli operai contro le nostre istituzioni», Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon, p. 115. 45 A. de Tocqueville, Fortifications de Paris. Ce qu’a volu l’opposition; ce que veut le gouvernement, articolo apparso anonimo sul «Commerce» del 12 aprile 1845; trad. it. in Id., Scritti, note e discorsi politici cit., pp. 71 e 68 (Tocqueville era già intervenuto alla Camera sul provvedimento nel marzo 1844 e nell’aprile 1845). Le tensioni con l’Inghilterra sulla «questione d’Oriente» avevano indotto il governo Thiers ad accelerare la realizzazione del progetto di fortificazione. 46 F. R. de Lamennais, Le pays et le gouvernement, Pagnerre, Paris 1840, p. 62: «o, al bisogno, per ridurla alla fame. Vogliono farne la loro Varsavia». Sul tema cfr. anche l’opuscolo della Société des droits de l’homme, Des fortifications de Paris, Herhan, Paris 1833.
366
popolazione urbana che incarna nelle fortificazioni i propri sentimenti di
emarginazione.47 L’abnorme espansione demografica – dovuta in particolare
all’immigrazione – delle grandi città e soprattutto della capitale francese, è uno
dei volti più appariscenti e inquietanti con cui la questione sociale si presenta ai
contemporanei.48 Più che da una rivoluzione industriale, la Parigi di questi anni
pare segnata da una rivoluzione demografica che nel giro di mezzo secolo
raddoppia la popolazione di una città del tutto inadeguata ad accogliere il
dirompente flusso migratorio. Come sottolinea Bernard Marchand, è a partire
da questo fenomeno nuovo e violento di una popolazione che aumenta in
maniera esponenziale che devono essere osservati tutti gli altri fatti urbani, ivi
compresa la contingenza che in «nessun altro momento, i contrasti fra ricchi e
poveri furono altrettanto evidenti e anche pericolosi».49 L’immigrazione dal
nord e dalle campagne, iniziata all’indomani della Rivoluzione, assume la
dimensione più imponente nei primi anni della monarchia di Luglio,
producendo un radicale mutamento nella composizione della popolazione in
termini sociali, di età e di sesso: così Parigi viene ora rappresentata come una
«nuova Babilonia», una prostituta, «Sodoma», una società urbana degradata ad
47 Rosanvallon, La rivoluzione dell’uguaglianza cit., p. 267: «le prime discussioni sulla costruzione di fortezze sparse per proteggere Parigi infiammano, sin dal 1833, l’immaginazione popolare. […] Il dibattito sulle fortificazioni di Parigi ravviva periodicamente la sensazione di emarginazione del popolo, nutrendola di immagini forti. In un primo tempo, la questione era di natura meramente tecnica», ma ben presto il popolo «teme l’erezione di nuove bastiglie suscettibili di bombardare la capitale. Si parla allora di ‘fortificazioni liberticide’». 48 Sia sufficiente qui ricordare che in mezzo secolo Parigi raddoppia la sua popolazione passando dai 547.736 abitanti del 1801 a 1.053.262 del 1851, il flusso migratorio è costituito in particolare da giovani uomini in cerca di occupazione. La parte centrale della ricerca di Louis Chevalier (Classi lavoratrici e classi pericolose cit.) è ricca di dettagli in merito, soprattutto riguardo al rapporto fra espansione demografica e fenomeno migratorio. Dati ampiamente richiamati e discussi anche in B. M. Ratcliffe, C. Piette, Vivre la ville. Les classes populaires à Paris (1ere moitié du XIX siècle), La Boutique de l’histoire éditions, Paris 2007. Un fenomeno analogo si registra a Lione, ove la popolazione cresce di circa 80.000 abitanti in una quarantina di anni, principalmente nei faubourgs: fra 1790 e 1846 gli abitanti della Croix-Rousse, di Vaise e della Guillotière quadruplicano o quintuplicano, con un aumento vertiginoso nel periodo 1825-1835 (cfr. De Francesco, Il sogno della repubblica cit., pp. 273 sgg.). 49 B. Marchand, Paris, Histoire d’une ville XIXe-XXe siècle, Seuil, Paris 1993, p. 9. Marchand sottolinea come fra 1831 e 1836 la popolazione aumenti – anche nonostante la devastante epidemia di colera del 1832 – del 10%. Fra le cause di tali migrazioni questo studioso esclude il rilievo dello sviluppo della rete ferroviaria e della rivoluzione industriale, in questi anni ancora appena agli albori, e affermando invece il rilievo delle trasformazioni culturali e dei costumi e gli effetti della centralizzazione politica prodotta dalla Rivoluzione e poi dall’Impero.
367
«accampamento di nomadi». Le stesse forme dello spazio urbano vengono
modificandosi, con strade strette e sempre più buie a causa di proprietari che −
per approfittare della domanda di alloggio dei nuovi venuti e grazie alla
mancanza di regolamenti urbani − aggiungono piani ai propri palazzi, facendo
della stessa luce del sole una risorsa per molti assai scarsa. Malattia, crisi,
patologia urbana sono alcuni dei termini più ricorrenti con cui gli urbanisti
restituiscono questo segmento di storia di una città che guarda se stessa e
produce le proprie rappresentazioni e razionalità di governo a partire dalle
statistiche su delinquenza, infanticidi, prostituzione, ospizi e ospedali.
Tale crisi contribuisce a far sì che – come nota Nicholas Papayanis – si possa
datare a questi anni l’elaborazione «dei principi chiave dell’urbanismo
moderno», e il momento in cui esso «comincia a essere visto come un’impresa
potenzialmente scientifica».50 Le istanze di organizzazione e razionalizzazione
dello spazio urbano corrispondono ad analoghe istanze inerenti allo «spazio
sociale», allo sforzo di oggettivare e produrre rappresentazioni delle informi e
spasmodiche popolazioni delle grandi città. La discussione sulle fortificazioni
di Parigi irrompe nel dibattito politico perché questa sorta di frontiere che
solcano la città dall’interno dicono di una specifica razionalità di governo della
questione sociale, che lavora a perimetrare categorie e gruppi sociali per
arginare gli spettri di dissoluzione della società incarnati dalle immagini di
degradazione della popolazione e dello spazio urbano. La questione sociale si
presenta con il volto di una nuova umanità strutturalmente in eccesso che si è
rapidamente insediata nel cuore della capitale francese – i quartieri più poveri e
popolosi sono ora quelli più centrali, la Cité, la zona dell’Hôtel de Ville, l’Île
Saint-Louis –,51 forme di vita popolari che eccedono ogni rappresentazione
acquisita alimentando una nuova percezione dell’ambiente urbano come spazio
di rischio e pericolo aleatorio. Sentimenti di paura e disgregazione che
intrecciano le determinanti sociali della miseria, quelle biologiche delle
50 Papayanis, L’emergence de l’urbanisme moderne à Paris cit., pp. 83 e 82. 51 Nel 1832 metà della popolazione totale di Parigi è concentrata nel 25% centrale del territorio cittadino.
368
epidemie e quelle politiche, terreno su cui continuamente debordano le
patologiche attitudini popolari alla sommossa. È proprio da quest’ultimo
versante, per così dire, tumultuante, che vado a restituire alcune manifestazioni
dell’emergente questione sociale nel frammento di storia in esame, mostrando il
carattere immediatamente politico di alcuni problemi che essa pone al regime di
Luglio. L’intenzione è suggerire la possibilità di osservare l’emergere della
nozione di classe operaia, che su di esse si viene a innestare e comincia ad
agire, tanto come processo di soggettivazione che ridisegna frontiere e
significati del politico, quanto come dispositivo di oggettivazione,
disciplinamento e governo della pluralità di forme di vita proletarie che nello
spazio urbano inducono percezioni di pericolo e situazioni di disordine al tempo
stesso sociale, biologico e politico.
Comportamenti e attitudini popolari all’indomani della rivoluzione di Luglio
mettono ben presto in discussione le aspettative di conciliazione e ordine di cui
essa era stata investita, conferiscono sfumature nuove ai motivi apocalittici e
alle suggestioni di dissoluzione sociale dando vita a una lunga scia di tumulti
che il ministro dell’istruzione Montalivet definisce un «pericolo che minacciava
la società intera».52 Le Tre gloriose contribuiscono anzitutto ad alimentare
speranze di un miglioramento delle condizioni del lavoro e il settembre 1830
vede un’imponente ondata di scioperi (e la nascita dei primi, seppur effimeri,
giornali operai).53 Si noti che tali iniziative non devono essere interpretate,
utilizzando categorie successive, come «lotte operaie», ma si iscrivono piuttosto
nell’ambito degli «illegalismi», dato il quadro giuridico ostile a scioperi,
associazioni e coalizioni di lavoratori costituitosi a partire dalle leggi Le
Chapelier del 1791. 54 Alain Faure – in uno studio teso a mostrare la
52 M-C. B. de Montalivet, Fragments et souvenirs, tome I 1810-1832, Calmann-Lévy, Paris 1899, p. 300. 53 De «L’Artisan. Journal des classes labourieuses» escono quattro numeri (26 settembre-17 ottobre 1830), il «Journal des Ouvriers» dura ventiquattro numeri (19 settembre e 12 dicembre) così come «Le Peuple, journal général des ouviers, rédigé par eux-memes» (30 settembre-10 novembre). 54 Isaac Le Chapelier, avvocato e deputato di Rennes agli Stati generali, fu fondatore del
369
straordinaria intensità dell’iniziativa operaia nel 1830-34 – sottolinea come
queste «lotte» assumessero sovente la forma di cortei intimidatori o boicottaggi
di ateliers, distruzione di macchine, manifestazioni di ostilità verso gli
immigrati che lavoravano per salari più bassi. 55 «Era la sommossa
club dei Foglianti e sostenitore di una monarchia costituzionale censitaria, poi ghigliottinato nel 1794 con l’accusa di essere un agente dell’Inghilterra. La legge da lui proposta fu votata all’unanimità dalla Costituente il 14-17 giugno 1791. Questa legge, promulgata anche in risposta al moltiplicarsi, in un periodo di forte oscillazione dei prezzi, delle mobilitazioni di lavoratori per la fissazione di tarifs, proibisce di ricostituire le corporazioni, vieta gli scioperi e le coalizioni, ammette riunioni di cittadini «di uno stesso stato» solo a condizione che non prendano deliberazioni inerenti i loro comuni interessi. L’articolo 1 recita: «l'annientamento di ogni specie di corporazione di cittadini dello stesso stato è una delle basi fondamentali della costituzione francese». L’articolo 2 vieta le coalizioni: «gli operai e compagnons di una qualsiasi arte, non potranno, dal momento che si troveranno insieme, né nominare presidenti, né segretari, ne syndics, tenere dei registri, prendere decisioni o delibere, formare dei regolamenti sulle loro pretese comuni». L’articolo 4 dichiara «incostituzionali, attentatorie alla libertà e alla dichiarazione dei diritti dell'uomo, e nulle di fatto» tutte le deliberazioni e convenzioni fra «cittadini legati alle medesime professioni, arti e mestieri […] tendenti a rifiutare di concerto, o a non accordare che a un prezzo determinato il soccorso della loro industria o del loro lavoro». L’articolo 8 dichiara sedizioso «ogni attruppamento composto di artigiani, operai, compagnons, giornalieri o istigato da essi contro il libero esercizio dell'industria e del lavoro». La legge del 12 aprile 1803 sulla regolamentazione del lavoro nelle manifatture e nei laboratori rinnova poi il divieto di coalizione e disciplina il libretto operaio che verrà istituito nel dicembre dello stesso anno (legge 22 germinale dell’anno XI, cfr. infra § successivo). L’articolo 1781 del codice civile (21 marzo 1804) sancisce che la parola del padrone prevale in tribunale su quella dell’operaio in caso di contesa sul salario. L’articolo 415 del codice penale del 1810 punisce il delitto di coalizione al fine di sospendere o impedire collettivamente il lavoro con una pena da uno ai tre mesi di carcere per i partecipanti e dai due ai cinque anni per i promotori (fra il 1825 e il 1852 vengono pronunciate più di 11.000 condanne in merito). Le agitazioni operaie dei primi anni della monarchia di Luglio saranno una delle cause della legge del 10 aprile 1834 che rafforza le sanzioni contro le associazioni e contribuisce a provocare in aprile la seconda révolte des canuts. Tale quadro giuridico continua a vigere per molti decenni, finché la legge Ollivier del 25 maggio 1864 abolisce il delitto di coalizione e la legge Waldeck-Rousseau del 21 marzo 1884 legalizza i sindacati abrogando la legge Le Chapelier. Su quest’ultima cfr. H. Burstin, Un itinerario legislativo: le leggi Le Chapelier del 1791, in Id. (a cura di), Rivoluzione francese. La forza delle idee e la forza delle cose, Guerrini, Milano 1990. Un contributo originale alla storia del diritto del lavoro in Francia è quello di Jacques Le Goff, Du silence à la parole. Droit du travail, société, État (1830-1989), Calligrammes/La digitales, Quimper 1985. 55 A. Faure, Mouvements populaires et mouvement ouvrier à Paris (1830-1834), in «Le mouvement social», 88, luglio-settembre 1974, pp. 51-92: si sottolinea anzitutto come questi primissimi anni della monarchia di Luglio siano teatro di lotte «la cui violenza e profondità non ebbero equivalente […] che sotto l’una e l’altra Comune». Nei quattro anni considerati, Faure rileva come l’autunno segni sempre un picco delle mobilitazioni operaie (novembre in particolare) e lo imputa alla importante presenza di manodopoera migrante che arrivava in primavera per tornare nei dipartimenti all’inizio dell’inverno (il fenomeno riguarda in particolare gli operai edili). Il biennio 1832-33 segna rispetto a quello precedente una ripresa dell’attività economica, e dall’analisi dei dati Faure conclude che la crisi economica rappresentava un freno considerevole alle mobilitazioni e che lo sciopero era un «movimento di prosperità», rispetto ad altre forme di lotta operaia come la distruzione delle macchine, le azioni contro le assunzioni clandestine, l’ostilità verso i lavoratori immigrati, il boicottaggio di ateliers attraverso il rifiuto di lavorarvi, i cortei a fini intimidatori, la rivendicazione di diminuzione
370
costantemente sospesa, come la tempesta, sopra la società», scrive Levasseur,
autore per l’Accademia delle scienze morali e politiche di una delle prime
Storie delle classi operaie.56 Ben presto anche la politica estera – le cause della
Polonia, del Belgio e dell’Italia – diviene oggetto di agitazioni, cortei e
disordini.57 Il tema della guerra contro le monarchie assolute è centrale nel
discorso politico repubblicano, e segmenti della popolazione urbana
cominciano a considerarlo una via per porre rimedio alla disoccupazione
dilagante, partecipando in massa alle iniziative internazionaliste: la
manifestazione del 17 settembre 1831 davanti al ministero degli esteri grida Du
pain ou la guerre!, saldandosi così a una mobilitazione dei tessitori contro
l’introduzione di macchine tagliatrici.58 Dopo anni di silenzio imposto, le
società repubblicane vivono il proprio rinascimento in un fermento permanente:
della giornata di lavoro (questa è anche oggetto di numerosi scioperi degli operai pagati a giornata e non a cottimo). I motivi di sciopero in questi anni sono: le rivendicazioni salariali (la fissazione di un tarif su minimum anzitutto), il rifiuto delle macchine, il malfunzionamento del pubblico collocamento. Il cuoio e la metallurgia sono i settori di avanguardia delle lotte. Riferimenti indispensabili sugli scioperi di questi anni sono anche: O. Festy, Le mouvement ouvrier au début de la monarchie de juillet (1830-1834), Cornély, Paris 1908, J-P. Aguet, Contribution à l'étude du mouvement ouvrier français. Les grèves sous la Monarchie de Juillet (1830-1847), Droz, Genève 1954. 56 É. Levasseur, Histoire des classes ouvrières en France depuis 1789 jusqu'à nos jours, Hachette, Paris 1867, p. 9. Questa opera gli vale l’elezione nel 1868 a membro dell’Accademia delle scienze morali e politiche (vi sostituisce Duchatel), e rappresenta il seguito di quella pubblicata otto anni prima anni prima, Histoire des classes ouvrières en France depuis la conquête de Jules César jusqu'à la révolution (Guillaumin, Paris 1859). Ciò testimonia l’attenzione che l’Accademia delle Scienze morali e politiche rivolge, fin dalla sua riscostituzione alla fine del 1832 allo sforzo di oggettivare le nuove figure sociali del lavoro (cfr. infra § 4.5). Levasseur sottolinea come in questi anni l’insurrezione lionese rappresenti il solo significativo conflitto violento che ha per oggetto il lavoro. 57 All’indomani della rivoluzione, la minaccia di una nuova guerra da parte delle potenze firmatarie dei trattati del 1815 pesa sulla Francia (tali trattati impegnavano solidarmente le potenze firmatarie a mantenere in Francia il governo della branca anziana dei Borbone), e secondo Odilon Barrot «fra le masse, il sentimento del pericolo sussisteva sempre e vi manteneva una esaltazione» perenne (M. C. Odilon Barrot, Mémoires posthumes, tome I, Charpentier et C., Paris 1875, p. 245). Il silenzio del regime orleanista sull’insurrezione polacca duramente repressa dallo zar di Russia, sull’indipendenza del Belgio che l’Olanda nega sostenuta dalle potenze conservatrici, sulla politica papale in Italia contro patrioti che reclamavano l’intervento francese, causano manifestazioni e disordini in particolare in marzo, aprile e settembre 1831. 58 Il primo giugno 1831 era stata fondata la Société philanthropique des ouvriers tailleurs de Paris, e nello stesso periodo manifestazioni contro l’introduzione delle macchine erano state organizzate a Nantes, Saint-Étienne, Bordeaux, Le Havre. Fra il 7 e il 17 settembre i licenziamenti seguiti all’introduzione di macchine tagliatrici danno vita a dieci giorni di mobilitazione degli operai tessili, una manifestazione di 1.500 lavoratori dà vita a violenti scontri.
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la vicenda del giovane genio matematico Evariste Galois rappresenta
efficacemente la penetrazione dei clubs repubblicani fra gli studenti, in
particolare del Politecnico,59 in un’attività che – unendo ora alle manifestazioni
internazionaliste e celebrazioni politiche le iniziative sociali nei faubourgs in
fermento per la crisi economica – vede una prima saldatura fra questi milieux e
gli strati popolari urbani. È proprio questo elemento – la sopravvenuta
prossimità fra il discorso politico repubblicano e gli illegalismi del proletariato
urbano – che i pubblicisti ministeriali denunciano nell’insurrezione parigina di
giugno 1832, e come nefasta conseguenza dell’insurrezione lionese del 1831:
Tutto quello che la populace di una grande città ha di più abietto – scrive Monfalcon – si è riunito intorno alla sua bandiera [del «partito» repubblicano]; esso ha reclutato aderenti nel fango della società, lo si è visto piazzare fra i suoi ranghi forzati liberati, e fare collette a profitto di individui condannati al bagno per furto con scasso, così come in alcuni dipartimenti esso è stato sorpreso marciare dietro a un uomo che portava il sigillo dell’infamia. […] queste idee repubblicane non le comprendo e non le concepisco più dopo l’insurrezione di Lione e le giornate di giugno a Parigi. […] Mi stupisco che quei repubblicani che sono uomini di pensiero e di ordine, siano tanto ciechi da non vedere che gente gli va dietro […] una torcia di miserabili, l’obrobrio e la feccia delle grandi città.60
Situata nel cuore di Parigi, Place de Grève incarna in uno spazio fisico le
molte tensioni sociali, le differenti immagini di disordine, violenza ed
esuberanza degli strati popolari urbani. Luogo deputato di cortei, cerimonie e
59 Evariste Galois (1811-1832) morì in duello a soli vent’anni e fu uno dei più grandi matematici moderni, autore di un importante lavoro sulla risolvibilità delle equazioni. Cacciato dalla Scuola normale per la sua fervente passione repubblicana che lo porta a trascorrere in carcere la maggior parte dell’ultimo anno e mezzo della sua vita. Arrestato per aver brindato al re con un coltello in mano e indossando abusivamente l’uniforme dell’artiglieria della guardia nazionale in occasione della celebrazione repubblicana del primo anniversario della rivoluzione di Luglio, testimonia da prigioniero al processo della Sap. Il suo funerale alla fine di maggio 1832 era stato scelto dai repubblicani come occasione per sollevare Parigi, ma la cosa verrà poi rimandata alle esequie del generale Lamarque. I Mémoires delle grandi figure repubblicane, da Raspail a Alexandre Dumas dedicano numerose pagine a ricordare la romantica figura di questo giovanissimo genio incompreso. Anche la cerimonia repubblicana tesa a piantare alberi della libertà in occasione dell’anniversario della presa della Bastiglia aveva dato, sempre nel 1831, luogo a tafferugli. 60 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., pp. 146-148.
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tumulti, ma anche raduno di lavoratori in attesa di un impiego a giornata –
soprattutto operai portuali ed edili immigrati dalle regioni centrali che
alimentano le retoriche dei nomadi accampati al centro della città –,61 essa darà
il nome francese allo sciopero (la gréve):62 «la Place de Grève, ultimo vestigio
della tratta degli schiavi, gremita di uomini pallidi e smunti», scrive Martin
Nadaud.63 Ma soprattutto, dal quattordicesimo secolo, la piazza era teatro delle
pubbliche esecuzioni, che si svolgevano nel pomeriggio richiamando grandi
masse della popolazione urbana dopo esser state annunciate dagli urlatori per le
vie cittadine. «D’estate, andremo alla Ghiacciaia, con Navet, un mio compagno,
faremo il bagno nella darsena […] E poi vi condurrò a teatro […] E poi
andremo a veder ghigliottinare. Vi farò vedere il boia […] ci divertiremo
meravigliosamente!»:64 così nei Miserabili il piccolo Gavroche enumera fra i
grandi spettacoli della vecchia Parigi questi rituali ambigui che nel corso del
tempo avevano dato forma a una lunga scia di quelle «sommosse da patibolo»
che per alcuni decenni vanno a rappresentare – insieme ai tumulti alimentari
causati dalle oscillazioni del prezzo del pane – una delle forme più tipiche delle
agitazioni popolari, in cui le molte figure del proletariato urbano si incontrano e
finiscono per solidarizzare con i loro simili colpiti dall’eccessiva durezza della
legge. Ad essi, alla «paura politica di fronte all’effetto» di queste cerimonie,
Foucault attribuisce un peso decisivo nella razionalità che conduce a forme di
«castigo senza supplizio»,65 e Peter Linebaugh – studiando però la Londra
61 Casey Harison ha studiato il rapporto fra questo segmento dello spazio urbano, le mobilitazioni degli operai dell’edilizia (in prevalenza immigrati che si trattengono nella capitale al massimo nove mesi l’anno) e le iniziative repressive, The Rise and Decline of a Revolutionary Space: Paris’ Place de Greve and the Stonemasons of Creuse, 1750-1900, in «Journal of Social History», vol. 34, n. 2, 2000, pp. 403-436. 62 Faire la grève significava restare inoperosi in piazza per mancanza di lavoro, di qui gli scioperanti verranno poi definiti grévistes. Per un’analisi di questo spazio urbano lungo quattro secoli di storia francese e del suo rapporto con i movimenti popolari cfr. il terzo capitolo di Tilly, La Francia in rivolta cit., pp. 63-112. 63 M. Nadaud, Mémoires de Léonard, ancien garçon maçon (1895), Hachette, Paris 1976, p. 77: gli uomini in attesa di lavoro vengono descritti «nelle loro bluse da contadino di poco conto o nelle loro giacche lise, mentre battevano i piedi sull’acciottolato per riscaldarsi» Si noti che dal 1802 il nome ufficiale era in realtà divenuto Place de L’Hôtel de Ville, ma lungo buona parte dell’Ottocento si continua a usare il nome antico. 64 Hugo, I miserabili cit., p. 883. 65 Questa «paura» è dunque possibile «incarnarla» in razionalità politica ricorrendo
373
settecentesca – ha lavorato a mostrare le esecuzioni al Tyburn come «l’evento
centrale nel conflitto urbano fra le classi».66 Il timore nei confronti delle scene
di tumulto popolare indotte dal macabro spettacolo gioca probabilmente un
ruolo decisivo nel provvedimento che, nel febbraio 1832, conduce allo
spostamento del patibolo alla periferica barriera di Sant-Jacques, ove le
esecuzioni si terranno all’alba, misura in grado di attirare le ire di Vicor Hugo,
che denuncia l’ipocrisia e la paura da cui è mossa.67 Si è detto sopra del rilievo
che le tematiche legate alla penalità paiono assumere in questo periodo nel
dibattito e nel confronto politico: anch’esse non mancano di agitare la
popolazione parigina, che, all’indomani della rivoluzione di Luglio, interpreta
la proposta di legge per l’abolizione della pena di morte in materia politica
come una manovra per salvare i ministri di Carlo X a giudizio, e il 17 ottobre
cerca di strapparli alle forze dell’ordine, dando vita ad agitazioni che si ripetono
a dicembre in occasione del processo (si contesta che a giudicarli sia la Camera ancora all’interpretazione foucaultiana della grande riforma della penalità come tattica generale di assoggettamento che utilizza la delinquenza in quanto campo di sapere-potere da usare contro la saldatura fra illegalismi popolari, lotte politiche e forme di vita operaie. Fra questi momenti di «saldatura», Foucault conferisce particolare rilevo a quelle «piccole ma innumerevoli» agitazioni spontanee «nate intorno alla pratica punitiva», in cui il popolo, «attirato ad uno spettacolo fatto per terrorizzarlo, può coagulare il suo rifiuto del potere punitivo, e talvolta la sua rivolta» in forme di inversione violenta della apparecchiatura penale. «Lo spavento dei supplizi accendeva in effetti focolai di illegalità […] La solidarietà di tutto uno strato della popolazione con quelli che noi chiameremmo piccoli delinquenti – vagabondi, falsi mendicanti, poveri infidi, borsaioli, intercettatori, spacciatori – si era manifestata con una certa continuità: la resistenza ai picchetti di polizia, la caccia agli informatori, gli attacchi contro la ronda notturna o gli ispettori lo testimoniavano. Ora era proprio la rottura di questa solidarietà che stava per divenire l’obiettivo della repressione penale e di polizia. […] Ed i riformatori del secolo XVIII e XIX non dimenticheranno che le esecuzioni, in fin dei conti, al popolo non facevano paura», Foucault, Sorvegliare e punire cit., pp. 67, 64 e 69. 66 P. Linebaugh, The London Hanged. Crime and Civil Society in the Eighteenth Century, Verso, London-New York 2006, p. XIX. Tyburn era il luogo delle pubbliche esecusioni capitali. In un dialogo critico con le tesi del testo di Foucault, questo libro, attraverso una lettura del significato politico della pubblica esecuzione come ripristino e rinnovo del contratto sociale e dei crimini puniti come attacchi alla proprietà, lavora a mettere a fuoco il complesso ruolo della criminalità urbana nel processo di formazione della working class, sostenendo la tesi che, nella Londra settecentesca, le pubbliche esecuzioni rappresentassero il luogo del conflitto urbano fra le classi. 67 «A Parigi si ritorna al tempo delle esecuzioni segrete […] perché si ha paura, perché si è vigliacchi […] Voi abbandonate la Grève per la porta di Saint-Jacques, la folla per la solitudine, il giorno per il crepuscolo. Non fate più con fermezza ciò che fate. Ve lo ripeto, vi nascondete!», V. Hugo, Preface alla seconda edizione (1832) di Le dernier jour d’un condamné (1829); trad. it. in Id. Contro la pena di morte, con un saggio di E. Cantarella, prefazione di C. Giardini, Bur, Milano 2009, pp. 68-73: «ma voi veramente credete di dare l’esempio quando sgozzate miserabilmente un pover’uomo nell’angolo più deserto dei boulevards esterni?».
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dei pari). È questo il primo grande tumulto successivo alla rivoluzione, la prima
incrinatura popolare dell’immagine conciliatrice di Luglio, che spinge Guizot a
pronunciare il citato discorso contro gli «spettri del potere costituente» agitati
nelle strade.68 «Su un gran numero di altri punti del territorio, e per cause il più
delle volte puerili, […] scoppiarono disordini simili», scrive Guizot ricordando
la sommossa che nel marzo 1832 vede la folla cacciare per alcuni giorni
l’esercito da Grenoble, dopo che esso era intervenuto per interrompere una
sfilata in maschera che dileggiava re e governo: «era poco reprimere tali
disordini una volta scoppiati, si doveva assolutamente prevenirli; a questa
condizione sola la società poteva ritrovare fiducia nel proprio riposo».69
Non solo le immagini della povertà, dell’indigenza operaia, di ospizi e
prostituzione, ospedali e orfanotrofi, ma anche il continuo debordare della
miseria sul terreno della sommossa e del tumulto compongono la
rappresentazione di una questione sociale che esprime pericolose quanto
inopportune pressioni sul politico, e che anche per questo deve essere
oggettivata per governarla ripiegandola su un terreno meno minaccioso. «Si può
dire che a quell’epoca la società sembrava procedere verso una completa
disorganizzazione», si legge nei Souvenirs di Montalivet;70 «mai si è lavorato
68 Cfr. supra Secondo capitolo § 2.4. 69 Guizot, Mémoires cit., pp. 169 e 171. L’11 marzo 1832 a Grenobe la popolazione celebra la Dimanche des brandons, una sorta di continuazione del carnevale. Sfilano maschere rappresentanti il re, il capo del governo e alcuni ministri: su ordine del prefetto, la polizia ferma il corteo e ordina alcuni arresti. La folla allora chiama un charivari, manifestazione notturna che viene violentemente attaccata dall’esercito. La mattina seguente il popolo di Grenoble costringe quest’ultimo ad allontanarsi dalla città per due giorni. L’avvenimento produce un certo dibattito nel paese, anche per l’energica risposta del governo. Cfr. Trois journees de Grenoble: relation des evenemens qui se sont passes a Grenoble pendant les journe'es des 11, 12 et 13 mars 1832, Impr. de Viallet, Grenoble 1832, Déclaration des habitants de Grenoble au sujet des troubles de mars 1832 qui ont éclaté dans leur ville, S. l. n. d., 1832, e C. Breunig, Casimir Perier and the «Troubles of Grenoble», March 11-13, 1832, in «French Historical Studies», Vol. 2, No. 4, 1962, pp. 469-489. 70 Montalivet, Fragments et souvenirs cit., p. 313. «Il ministero di Casimir Perier ebbe a subire più di ottanta processi di stampa imposti da appelli incessanti alla rivolta contro le leggi; più di quaranta giornate di disordini pubblici e di sommosse, i tentativi di sei complotti delle frazioni legittimista, repubblicana, bonapartista, separate o riunite, e tre insurrezioni» (p. 381). Inoltre, aggiunge Montalivet, si deve considerare «che il socialismo, che aveva fatto la sua apparizione nei clubs politici dal mese di settembre 1830, continuava e sviluppava la sua opera sotto diversi nomi, saint-simoniani, falansteriani, icariani etc.; che il partito repubblicano cominciava a trincerarsi nelle società segrete; che il partito legittimista di azione si preparava alla lotta a Parigi, nell’Ovest e al Sud […]; che il partito bonapartista comincava a mostrarsi e
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con tanto ardore al rovesciamento di un governo e alla dissoluzione della
società», annota sul suo diario l’ambasciatore austriaco Apponyi,71 registrando
un regime discorsivo particolarmente in voga che rappresenta la società come
un organismo continuamente minacciato dal virus di passioni, attitudini e
comportamenti popolari, e della cui salute il potere politico deve farsi garante e
tutore anche attraverso un minuzioso e scientifico lavoro di osservazione e
conoscenza. L’«Écho de la fabrique» parla di «uomini della paura, che vedono
sempre le masse pronte a saccheggiare tutto e la società pronta a dissolversi».72
È come se, dei motivi apocalittici indagati nel secondo capitolo individuandone
la matrice nella riflessione sul disordinato fluire della vicenda storica successiva
a 1789,73 fosse in atto una trascrizione, per così dire, «biologica», nel senso che
essi vengono ora incarnati nelle forme di vita e nei comportamenti di segmenti
della popolazione urbana. La scia di sommosse contro simboli e luoghi di culto
alimenta queste immagini e retoriche di dissoluzione sociale: il 13 febbraio
1831, mossa da voci di un complotto legittimista, la folla interrompe la
funzione religiosa che celebra l’anniversario dell’omicidio del duca di Berry e
devasta la chiesa di Saint-Germain-Auxerrois. Il giorno dopo, l’arcivescovato di
Parigi viene saccheggiato e raso al suolo, seguono agitazioni anticlericali anche
nelle province:74 «l’empietà ridente della gioventù delle écoles – scrive Louis
Blanc – si maritava alla rude licenza del popolo».75 L’avvenimento ha un forte
impatto emotivo, e induce il re alla nomina del nuovo governo guidato da
Casimir Périer e decisamente votato alla «resistenza».76 Odilon Barrot viene
aveva già un organo di stampa» (p. 330). 71 Apponyi, Vingt-cinq ans à Paris cit., p. 91. 72 «L’Écho de la fabrique», 20 novembre 1831, p. 1. 73 Cfr. supra secondo capitolo § 2.1. 74 Si verificano disordini a Lille, Nimes, Arles, Perpignan, Angouleme. Prima dei fatti di Sant-Germain l’Auxerrois, edifici di culto erano già stati attaccati a Reims, Nacy, Orléans, Chartres, Nevers, Bourges, Noirt, Narbonne, Tolosa. 75 Louis Blanc imputa le cause del tumulto al concorso di una «folla sempre avida di rumore» e di «agitatori ministeriali», Histoire de dix ans cit., pp. 260-265. 76 «Bisogna tener presente come l’ordine, il governo, le istituzioni, le persone fossero sotto attacco», scrive Rémusat per giustificare le energiche misure del nuovo ministero, la cui vocazione all’ordine pubblico non sembra però produrre gli effetti sperati (Rémusat, Mémoires de ma vie cit., p. 529). Un’energica azione della forza pubblica è certamente iniziativa significativa di questo ministero. Charles Didier pubblica sulla «La Revue Encyclopédique» un articolo sui dottrinari in cui scrive «ci si domanda perché questa guarnigione nuova in una città
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rimosso da prefetto della Senna e sostituito con il banchiere Gisquet, che è però
presto al centro di sospetti perché la «Revue des deux mondes» gli imputa di
aver architettato l’incendio delle torri di Notre-Dame, cospirazione
repubblicana di cui i giornali inglesi avevano dato notizia due giorni prima che
accadesse.77 «Tali episodi si sono ripetuti centinaia di volte ai miei occhi»,
ricorda il prefetto testimoniando le ambiguità dell’iniziativa poliziesca: «si
argomentava continuamente per stabilire che la polizia sapeva […] e se ne
concludeva che la polizia aveva fatto tutto».78
«Sotto Babeuf, il popolo fiutava Gisquet», ironizza Victor Hugo: «erano
appena trascorsi venti mesi dalla rivoluzione di Luglio e l’anno 1832 s’era
aperto con un aspetto d’imminente minaccia».79 Durante la celebrazione della
morte di Napoleone un bonapartista viene ucciso in Place Vendôme dopo uno
scontro a fuoco con la polizia. E anche i legittimisti contribuiscono ad
alimentare il clima di disordine: in febbraio viene sventata una loro
cospirazione – detta della rue de Prouvaires – contro la famiglia del re.80 Ma è
già in pace e ben controllata da una guarnigione permanente di trentamila soldati e da una guardia municipale a piedi e a cavallo, e da ottantamila guardie nazionali. Ci si domanda in virtù di quale legge si fa di una città un campo di battaglia» (Ch. Didier, Les doctinaires et les idées, in «La Revue Encyclopédique», vol. 55, 1832, p. 351). L’ambasciatore austriaco annota il 14 dicembre 1831 sul suo diario: «ecco dunque più di novemila uomini per controllare Rouen al posto di 1.500, 60.000 per Parigi e i sette dipartimenti che formano la divisione, 45.000 per la Vandea e 26.000 per Lione, in tutto 140.000 uomini di truppa, senza parlare di 80.000 guardie nazionali per mantenere l’ordine. Questa notte, si è saccheggiata una manifattua di carta nel faubourg Saint-Antoine. C’è stato del tumulto nel Faubourg Saint-Marceau; questa mattina son stati richiesti non so bene quante vetture per trasportare gli émeutiers fermati» (Apponyi, Vingt-cinq ans à Paris cit., p. 89). 77 «Non so quante pagine Gisquet pretenda di occupare nella storia di Francia con la cospirazione delle torri di Notre-Dame», scrive Janin, domandando come si debba concepire il fatto che il Times ha riportato in Inghilterra cronaca dell’evento «quarantotto ore prima che il crimine sia consumato!» («Revue des Deux Mondes», Tome I, vol. I, 1831, pp. 274-275). 78 H. Gisquet, Mémoires de M. Gisquet, ancien préfet de police, écrits par lui-même, Marchant, Paris 1840, tome I, pp. 369 e 366-367: «tutte le cattive azioni erano così perdonabili e perdonate, non doveva restarne nel pubblico che un sentimento universale di riprovazione contro l’infame polizia». Così René de Chateaubriand ricorda il proprio passaggio presso la prefettura di Gisquet: «vedevo rientrare gli spioni, in differenti travestimenti come il mercoledì delle Ceneri […]. Alcuni erano vestiti da mercanti di insalata, da urlatori, da carbonari […] straccivendoli, giocatori d’azzardo; altri erano pettinati con parrucche sotto le quali apparivano capelli di un altro colore, altri avevano barba, baffi e favoriti posticci; altri trascinavano le gambe come rispettabili invalidi […]. Si affrettavano in una piccola corte e ben presto tornavano sotto altri costumi» (Mémoires d'outre-tombe cit., vol. V, p. 284). 79 Hugo, I miserabili cit., pp. 776 e 773. 80 Cfr. P. Barthélemy, H. Gisquet, Cour d'assises, conspiration de la rue des Prouvaires,
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soprattutto in alcune province del sud e nella Vandea che i carlisti riescono a
mantenere uno stato di costante agitazione grazie alla penetrazione e al
consenso che riscuotono presso i ceti popolari. «I nemici del governo nazionale
cercano di sfruttare a loro profitto la miseria delle classi povere, ed approfittare
del pretesto delle imposte per diffondere il malcontento e l’irritazione fra il
popolo», denuncia il «Journal des débats»: «dei manifesti sono stati attaccati e
diffusi in gran numero durante la notte […] essi contengono queste parole: è
vietato pagare le imposte […]. Un foglio legittimista che si pubblica nel paese
contiene in ciascun numero degli appelli al popolo […]. Non stupisce che Noirt
divenga focolaio di intrighi: questa città è alle porte della Vandea». Nel rivelare
questi tentativi di utilizzo politico degli illegalismi popolari, l’articolo
testimonia delle aspettative che affidano alla «classe» operaia un ruolo di argine
al disordine dilagante: «senza dubbio mezzi tanto miserabili rimangono senza
effetto sulla classe operaia di città devota all’ordine, ma lasciano un segno sugli
spiriti di campagna più facili a scuotere».81 Le ferventi attività e propaganda
legittimiste nelle regioni del sud e dell’ovest si spingono fino tentativo di
sollevazione della Vandea del 5 e 6 giugno 1832:82 «la civilizzazione ha fatto
troppi progressi perché scoppi una di queste guerre intestine dai grandi esiti,
risorsa e flagello di secoli al tempo stesso più cristiani e meno illuminati»,
scrive Chateaubriand, che pure verrà messo agli arresti in seguito a tale
iniziativa.83 Sono gli stessi giorni in cui a Parigi – mentre i sansimoniani
audience des 12 et 13 juillet 1832, Cordier, Paris 1832. Alcune decine di uomini intendevano introdursi verso la mezzanotte al Louvre e da lì penetrare nei palazzi reali, ove sarebbe stata in corso una festa e uccidere Luigi-Filippo e la sua famiglia. 81 «Journal des débats», 11 dicembre 1831. 82 La duchessa du Berry, rientrata segretamente da alcuni mesi in Francia, scatena una disperata insurrezione legittimista nelle regioni della Francia occidentale, è il punto culminante di alcune sollevazioni che si ripetono da settimane. Nelle province del sud e dell’ovest i mesi di aprile e maggio avevano visto scontri fra i legittimisti e l’autorità fra cui si segnala in particolare il tentativo di sollevare Marsiglia la notte del 30 aprile, represso dall’esercito in poco più di un giorno. Cfr. I. de Saint-Armand, La duchesse de Berry en Vendée, à Nantes et à Blaye, Dentu, Paris 1893, A. de Courson, Le dernier effort de la Vendée (1832), Emile-Paul, Paris 1909, Id., L'insurrection de 1832 en Bretagne et dans Le Bas-Maine, Emile-Paul, Paris 1910, L. Morival, Le légitimisme en Vendée, 1830-1840. Actions, organisations, répressions, in «Revue d'histoire du XIXe siècle», 22, 2001, T. Rouchette, La folle équipée de la duchesse de Berry. Vendée, 1832, Centre vendéen de recherches historiques, 2004. 83 Chateaubriand, Mémoires d'outre-tombe cit., vol. V, p. 247: «la pubblicità del pensiero
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celebrano il ritiro nella comunità di Menilmontant –84 i repubblicani, scatenano,
in occasione dei funerali del generale Lamarque, la più imponente insurrezione
degli anni della monarchia di Luglio.85 Marciando in uniforme sotto la pioggia,
gli artiglieri della guardia nazionale guidano migliaia di insorti in armi, che, in
poche ore, occupano gli snodi nevralgici della capitale e sono pronti ad
affrontare un’armata di 40.000 uomini fra soldati e guardie nazionali. Raspail e
i dirigenti della Société des Amis du Peuple sono reclusi a Sainte-Pélagie,
Armand Carrel rifiuta di prendere la guida politica di una sommossa che ritiene
votata alla sconfitta, le redazioni dei giornali repubblicani vengono
sequestrate:86 seppur dirompente, l’insurrezione è priva di una direzione, e
l’accanimento nella lotta delle guardie nazionali borghesi decide le sorti della
battaglia. Dopo due giorni, un pugno di insorti resiste ancora asserragliato nel
Cloître Saint-Merry: è la barricata narrata da Hugo nei Miserabili, dove
Gavroche trova la morte, si suole indicarvi il primo utilizzo tanto dell’artiglieria
contro il popolo parigino, quanto del drappo rosso fra le fila degli insorti.87 La
battaglia lascia sul terreno 300 morti, e spinge il «partito della resistenza» a
proclamare uno stato di assedio che dura fino al 29 giugno con 1.500 arresti.88
Pauperismo, proletariato, salario, educazione, penalità,
distruggerà l’influenza delle società segrete; è l’opinione pubblica che adesso opererà in Francia ciò che le congregazioni occulte compivano presso i popoli non ancora emancipati». Chateaubriand aveva in realtà più volte manifestato alla duchessa di Berry la propria contrarietà all’iniziativa insurrezionale (sulla sua prigionia, sconta in realtà gli arresti a casa del prefetto Gisquet cfr. ivi pp. 280-305). 84 Cfr. supra terzo capitolo § 3.1. 85 Cfr. Procès des vingt-deux accusés du cloître Saint-Méry; événements des 5 et 6 juin 1832; suivi de pièces justificatives. (23-31 octobre) Rouanet, Paris 1832. Thomas Bouchet è autore di numerose ricerche sul tema: La barricade des Misérables, in A. Corbin, J-M. Mayeur, La barricade - Actes du colloque organisé les 17, 18 et 19 mai 1995 par le Centre de recherches en histoire du XIXe siècle et la Société d'histoire de la révolution de 1848 et des révolutions du XIXe siècle, Sorbonne, Paris 1997, Le roi et les barricades, une histoire des 5 et 6 juin 1832, Seli Arslan, Paris 2000, Histoire d'un cheminement vers l'oubli, 1832-1862, in «Revue d'histoire moderne et contemporaine», 47, 1, 2000, pp. 113-130. 86 La sede del «National» è sottoposta al sequestro così come quella della «Tribune» e del legittimista «La Quotidienne». 87 E. Hazan, L’invention de Paris. Il n’y a pas de pas perdus, Seuil, Paris 2002, pp. 314-319. 88 Lo stato d’assedio verrà a breve invalidato nei fatti da una sentenza della Corte di cassazione che giudicherà i tribunali militari incompetenti a giudicare gli insorti: la misura verrà formalmente revocata il 29 giugno.
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prostituzione, destino della donna, ricchezza, miseria, produzione, consumo, ripartizione, scambio, moneta, credito, diritto del capitale, diritto del lavoro, tutte queste questioni s’andavan moltiplicando al di sopra della società, formando uno strapiombo terribile. […] Taluni pensatori meditavano, mentre il suolo, ossia il popolo, attraversato dalle correnti rivoluzionarie, tremava sotto di essi con non so quali vaghe scosse epilettiche […] Tutto questo fermento era pubblico, si potrebbe quasi dire naturale. L’insurrezione imminente preparava il suo uragano con calma, in faccia al governo; e nessuna singolarità mancava a quella crisi ancor sotterranea, ma già percettibile. I borghesi parlavano tranquillamente agli operai di quanto si stava preparando; si diceva: ‘come va la sommossa?’ col tono in cui si sarebbe detto: ‘come sta vostra moglie’? […] Mentre una battaglia [l’insurrezione repubblicana di giugno] ancora politica andava preparandosi […] mentre la gioventù, le società segrete, le scuole, in nome dei principi e la classe media, in nome degli interessi, stavano per cozzare fra loro, per ghermirsi e per atterrarsi […], nel più profondo delle insondabili cavità di quella vecchia Parigi miserabile, nascosta sotto lo splendore della Parigi felice e opulenta, si sentiva brontolare sordamente la cupa voce del popolo. Voce spaventosa e sacra.89
Con la vivida intensità della lingua letteraria e romantica, Hugo richiama
profili e conflitti sociali «epilettici» perché appaiono e scompaiono sull’onda di
un complesso, multiforme, indecidibile campo di problemi agitati da figure
sociali opache che prepotentemente vengono ad abitare il dibattito pubblico
mostrando tutta la propria reticenza a essere inscritte nei confini classici che
disegnano la, pur ambigua e polisemica, nozione di popolo. È quello
«strapiombo terribile» che il «moltiplicarsi di questioni» provenienti da «cavità
insondabili» forma sopra la società attraverso un movimento, che appare allo
stesso tempo «epilettico» e «quasi naturale»: difficile rappresentare con
maggiore forza espressiva l’irriducibile pluralità di questioni e tensioni, di
traiettorie di azione e pensiero, su cui quel discorso, quella formazione e pratica
discorsiva, che si chiamerà «classe operaia» si viene a innestare e ad agire come
dirompente dispositivo di unificazione di identità e forme di vita popolari 89 Hugo, I miserabili cit., pp. 770, 780 e 1031.
380
intorno alla figura forte del lavoro operaio, alla produzione discorsiva e alla
politicizzazione dei suoi interessi e bisogni. Ma la scia di disordini che qui ho
cercato di restituire in un breve frammento di storia, mi pare possa già suggerire
come l’urgenza di articolare dispositivi di oggettivazione e messa in ordine di
questa pluralità − e delle sue attitudini tumultuanti − si ponga anche per il del
regime di Luglio, ove la manifesta insufficienza e inefficacia delle misure di
ordine pubblico contribuisce ad alimentare gli argomenti di chi intende
disinnescarne la minaccia «agganciando – per dirla con Chignola – la
soggettività operaia al sistema di ‘esprit et habitudes’ della proprietà».90 La
miseria urbana, il disordine prodotto da forme di vita e comportamenti popolari
deborda continuamente, attraverso la sommossa, sul terreno del politico, e
contribuisce a incrinare alcuni assunti del liberalismo classico rivelando con
drammatica urgenza che fra lo Stato e la libera attività degli individui non c’è
uno spazio vuoto e liscio, ma un terreno vischioso che − per assicurare la tenuta
della società rispetto a tendenze che ne minano l’esistenza stessa − deve essere
non solamente governato, ma continuamente messo in forma, oggettivato,
prodotto. Mi pare che si possa guardare all’emergere storico della nozione di
classe operaia anche da questa prospettiva, convocando alcune strategie di
governo della questione sociale che ambiscono a ridurne la tensione centrifuga
mettendo progressivamente a fuoco la figura dell’umile ma onesto ouvrier per
circoscrivere, ridurre, arginare la complessa nebulosa di tensioni scatenate da
povertà, marginalità e diseguaglianze.
Nel secondo capitolo si è cercato di mostrare come l’inscrizione di governo
del liberalismo dottrinario, nel tentativo di edificare un’ossatura teorica per la
monarchia di Luglio, si sforzi di circoscrivere saldamente significato e confini
del politico in corrispondenza delle istituzioni fondate dalla Carta. Si lavora
dunque a sottrarre queste ultime allo statuto di compromesso frettoloso e
circostanziale per indicarvi invece l’esito radioso di secoli di civilizzazione che
dispiegano ora la possibilità di pacifica conciliazione dell’intera vicenda storica
90 Chignola, Fragile cristallo cit., p. 486.
381
di Francia intorno all’universale delle classi medie, conducendo così il discorso
partigiano della guerra delle razze sul terreno dialettico della filosofia della
storia. Si capisce dunque come la scia di tumulti finora descritta configuri ben
più di un problema sociale e di ordine pubblico, mettendo invece in questione la
stessa verifica dell’avvenuta e compiuta chiusura del ciclo della storia e della
lunga transizione post-rivoluzionaria. Essa rappresenta il ritorno della guerra
dentro la società, e non stupisce allora che per descriverne gli attori venga
riattivata la figura dei barbari, tanto importante nella teoria della storia della
guerra delle razze, e che si trova, in seguito all’insurrezione lionese del 1831, di
nuovo proiettata al centro del dibattito politico. È questa metafora dei «nuovi
barbari» che mi propongo ora di indagare a partire dall’ipotesi che essa
rappresenti, anche qui, la produzione discorsiva di un «fuori» del sociale per
opposizione e differenziazione al quale far emergere la figura degli operai
(classe della e nella società) come dispositivo di disciplinamento e autogoverno
morale della miseria. Immagine in negativo di un soggetto operaio che si lavora
a fissare, oggettivare, mettere a fuoco. «Sono state commesse devastazioni e
crudeltà degne di orde barbare, noi vogliamo attribuirle non agli operai della
seta stessi ma a un ammasso della più vile canaglia accorsa da ogni lato fattasi
ausiliaria degli operai solo nella speranza di un saccheggio generale»,91 scrive il
«Journal des débats» attivando la contrapposizione fra operai e orde barbare.
L’editoriale del giorno successivo − che vado ora ad analizzare − è quello,
celebre, che impone la metafora dei nuovi barbari al centro del dibattito
pubblico.
4.3 Una società da difendere
Torniamo dunque brevemente all’avvenimento collocato al principio della
presente indagine, osservando ancora, come nel primo capitolo, l’insurrezione 91 «Journal des débats», 7 dicembre 1831, p. 1.
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lionese del 1831 attraverso la lente del «dibattito di interpretazione» che oppone
«Le National» al «Journal des débats».
Ci stupiamo – scrive «Le National» – della specie di soddisfazione e sicurezza che il governo e i suoi amici trovano nel dire: l’insurrezione non è per nulla politica. […] Un’insurrezione contro lo stato attuale della società, quando ottiene un così formidabile successo […] è la più triste prova che la società e il governo non si assomigliano per niente; che il governo è pressoché uno straniero nel paese che è chiamato a reggere.92
Dalla deplorabile catastrofe di Lione – replica il «Journal des débats» – una controversia assai strana si rinnova ogni mattina. Gli uni dicono: l’avvenimento non ha niente di politico; è una scossa popolare che non attacca il governo. […] Gli altri ripetono, con mal nascosta soddisfazione: l'avvenimento è peggio che politico, è sociale! […] Noi traiamo altre conclusioni. […] Questo governo […] è il difensore legale della società; può agire quando ne ha bisogno, con tutta la forza che gli è confidata.93
L’«evacuazione dal politico», indagata nel secondo capitolo come il
prevalente discorsivo che i milieux dottrinari adottano di fronte all’insurrezione,
non si traduce in una mera iscrizione di questa all’ambito del sociale
(l’artificiale separazione del politico da quest’ultimo, fra l’altro, è considerata
un pericoloso retaggio delle teorie del secolo precedente).94 Gli uomini del
regime di Luglio – intenti a rappresentarlo come nuovo potere in grado di
terminare la rivoluzione facendo del governo un operatore dinamico immerso
dentro la società, che in essa si riflette e, in qualche modo, «le assomiglia» –
attivano piuttosto strategie discorsive tese ad ascrivere l’avvenimento in una 92 «Le National», 27 dicembre 1831, p. 1: «il governo si rallegra di non dover cominciare una guerra di partiti […] ciò che va a fare è più grave, più più difficile, più pericoloso, per lui e per noi. Va a cominciare una guerra di classi; che non si sbagli, è peggio di una guerra politica». 93 «Journal des débats», 1 dicembre 1831, p. 1: i sostenitori del carattere sociale dell’avvenimento argomenterebbero che esso «denuncia l'ostilità e la forza delle classi inferiori. È l’inizio di una guerra intestina tra possessori e lavoratori; è il primo atto di una grande riforma della proprietà che coinvolgerà ben presto il governo e che al momento lo marchia d’impotenza». È ancora l’«identità» fra società e governo a legittimare l’azione di quest’ultimo: «quando gli interessi sono identici tra la proprietà del gran numero e il governo, l'ordine sociale può ancora essere violentemente agitato; ma è invincibile». 94 Cfr. infra § 4.5.
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dimensione di paradossale esteriorità allo stesso ambito della società:
all’evacuazione dal politico si unisce l’evacuazione dal sociale. 95 La rivolta
lionese, così come la scia di tumulti di cui al precedente paragrafo, non
rappresentano un fenomeno «sociale», ma una negazione del sociale, una sorta
di residuo storico: il «Journal des débats» parla di «disordine anti-sociale», di
«attentato contro la società», 96 per il ministro dell’istruzione Montalivet
l’evento «mette in pericolo le basi stesse di tutto l'ordine sociale»,97 si parla di
anarchia e di «ultimo giorno della società»,98 la Camera licenzia un atto di
appoggio all’iniziativa del governo del re per «affermare i principi sacri sui
quali riposa l'esistenza stessa della società». 99 Per mettere in atto tale
operazione – per rappresentare come corpi estranei alla società degli
avvenimenti che evidentemente si producono nel suo seno – vengono attivate
due strategie discorsive complementari. Da una parte la metafora medica della
malattia, della piaga, di un virus che penetra nel corpo sociale,100 dall’altra,
considerando la società borghese in termini di civilizzazione, si produce la
riattivazione della figura dei barbari, ripresa dal discorso storico-politico della
teoria della guerra delle razze. «Un attentato contro la società è il più grande
attentato contro il potere», dice il capo del governo introducendo il dibattito alla
95 Ascrivere l’insurrezione lionese alla dimensione della società significherebbe in altre parole riconoscere una mancanza nella politica della monarchia orleanista che si vuole potere di tipo nuovo in grado di terminare la rivoluzione realizzando l’armonia e il più compiuto intreccio di governo e società. 96 «Journal des débats», 27 e 28 novembre 1831. 97 Montalivet, Souvenirs cit., p. 362. Per il nuovo prefetto del Rodano Gasparin, la rivolta scuote «le fondamenta dell'ordine sociale» (cit. in «Journal des débats», 6 dicembre 1831, p. 2), secondo Chateaubriand esso «mina le fondamenta della società» (Lettre cit., p. 5). 98 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 120. «L’ultimo giorno della società sarà quello in cui si arriverà a dimostrare che essa si compone di due classi necessariamente nemiche; quelli che hanno qualcosa e quelli che non hanno niente» (p. 38). 99 L’indirizzo della Camera al re sui fatti di Lione, approvato il 26 novembre 1831 recita: «la sicurezza delle persone è stata violentemente attaccata; la proprietà è stata misconosciuta nel suo principio; la libertà dell’industria minacciata di distruzione; la voce dei magistrati non è stata ascoltata. Bisogna che questo disordine cessi al più presto, bisogna che tali attentati siano energicamente repressi. Siamo felici, Sire, di offrirvi a nome della Francia il concorso dei deputati per ristabilire la pace ovunque ella sia disturbata, soffocare tutti i germi di anarchia, affermare pricipi sacri sui quali riposa l'esistenza stessa della società, mantenere l'opera gloriosa della rivoluzione di luglio, e assicurare ovunque forza alla giustizia e rispetto alla legge» (cit. in «Journal des débats», 27 novembre, p. 3, e in Blanc Histoire de dix ans cit., pp. 356-357). 100 Cfr. infra § successivo.
384
Camera,101 ove il deputato Tracy parla della rivolta come sintomo di «queste
cause profonde di malattia che travagliano la società».102 «Siamo oggi in
presenza di questa doppia difficoltà, di un governo da costruire e di una società
da difendere», 103 afferma in tale dibattito François Guizot esprimendo
l’imperativo della difesa della società che funziona in questo periodo tanto da
retorica di fronte ai disordini popolari, quanto da razionalità politica di molti
provvedimenti amministrativi (vi si è già fatto cenno in merito al tema della
riforma penitenziaria).104 Un discorso che presuppone la rappresentazione di un
«fuori» della società, da cui essa è minacciata e deve essere difesa, e per
rappresentare il quale emerge la riattivazione del nome e del riferimento ai
barbari. Una volta che Guizot è chiamato a incarichi ministeriali, la sua cattedra
di storia è affidata al giornalista liberale Saint-Marc Girardin, 105 che l’8
dicembre 1831 pubblica sul «Journal des débats» il noto editoriale.
101 Comunicazione di Périer alla camera del 17 dicembre 1831, in «Journal des débats», 18 dicembre 1831: «questa insurrezione, veramente antisociale, non ha ciononostante alcun carattere di cospirazione politica. Questa circostanza non ne diminuisce la gravità. […]. Che la fiducia pubblica si aggiunga alla forza del potere; che la società sostenga quelli che la difendono ». 102 Moniteur Universel, 21 dicembre 1831. 103 Moniteur Universel 22 dicembre 1831. 104 Cfr. supra § 4.1. 105 Saint-Marc Girardin (1801-1873), svolge a Parigi studi letterari, ma il suo liberalismo lo costringe lontanto dall'Università fino al 1826, quando entra come professore al liceo Louis-le-Grand, nel 1827 riceve un importante premio per il suo Eloge de Bossuet. Nel 1828 debutta al Journal des débats (con cui collaborerà per 45 anni) con un importante e vivace articolo sui fatti della Rue-Saint Denis, dove Villèle, in seguito alla vittoria elettorale dei liberali, aveva fatto sparare sulla folla. Da questo momento è ardente la sua polemica contro il governo della Restaurazione e contro i gesuiti. Nel 1827 viaggia in Italia e Germania, ove si lega a Hegel e Gans (sul quale pubblicherà un testo nel 1844). Nel 1830 aderisce convintamente alla rivoluzione di Luglio e viene nominato professore di storia alla Sorbona in sostituzione di Guizot, ma a breve si sposterà alla cattedra di letteratura, i suoi corsi ricevono un grande successo di pubblico. Nel 1835 viene eletto alla Camera dei deputati, ove rimane fino al 1848. Dopo esser stato il relatore del progetto di legge sull’istruzione secondaria di Guizot, nel 1837 è nominato membro del consiglio dell'istruzione pubblica. I suoi articoli sul Journal des débats e sulla Reue des deux mondes gli varranno nel 1844 la nomina all’Académie Francaise (come giornalista fu il grande oppositore del democraticismo di Armand Carrel). Ministro per un solo giorno, quello precedente la rivoluzione di febbraio 1848, sarà costretto ai margini della politica sia durante la seconda repubblica che durante il Secondo impero, a cui si oppone in maniera moderata ma costante. Nel 1871 verrà di nuovo eletto in parlamento ove assumerà una posizione di rilievo nel centrodestra opponendosi alla repubblica e a Thiers. (cfr. voce Saint-Marc Girardin in Grand dictionnaire universel du XIXe siècle, Francais, historique, géographique, littéraire, artistique, scientifique etc., Tomo XIV, Slatkine, Genève-Paris 1982, pp. 76 sgg.).
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La nostra società commerciale e industriale ha la sua piaga come tutte le altre società. Questa piaga, sono i suoi operai […] Le concorrenze commerciali hanno oggi l’effetto che avevano in altri tempi le migrazioni di popoli. La società antica è morta, perché i popoli si sono mossi nei deserti del nord, e si sono scontrati gli uni agli altri, finché via via, vennero a cadere sull’impero romano. Oggi i Barbari che minacciano la società non sono nel Caucaso né nelle steppe tartare; sono nei sobborghi delle nostre città manifatturiere. […] Non si tratta qui né di repubblica né di monarchia, si tratta della salvezza della società.106
Si vede giocare l’elemento medico (la «piaga», la salut della società)
insieme al motivo storico-politico dei barbari, centrale nella storiografia che
leggeva la formazione della nazione francese in termini di guerra delle razze e
sottoposto ora a un processo di risemantizzazione che lo rende idoneo a
designare alcune forme di vita proletarie, in particolare quella condizione
nomadica, migrante, chiamata nel dibattito pubblico a incarnare tutti i mali
della nascente questione sociale. L’ipotesi qui proposta è che Girardin utilizzi il
significante barbari anzitutto allo scopo di evocare, per opposizione, la figura e
la condotta del buon operaio, dell’umile ma onesto lavoratore, per tracciare le
regole e il sentiero della sua integrazione a venire. Nessun diritto politico né
armi della guardia nazionale – questo in sostanza l’argomento del giornalista –
a chi non possiede nulla, ma istruzione e civilizzazione dei proletari attraverso
un progressivo accesso alla proprietà.107 Qualche mese dopo Girardin torna
sulle polemiche suscitate dal suo editoriale: «non è insultare nessuna porzione
della specie umana paragonarla ai Barbari: è dire solamente che questa porzione
è fuori della società attuale». Ma il paragone ha anzitutto lo scopo di mettere a
tema il come «fare entrare in questa società» – attraverso «un’ammissione
regolare e graduale» – coloro che oggi per essa sono un «pericolo», una «piaga
dolorosa» a causa della «superfetazione degli operai», della «crescita indefinita
106 «Journal des débats», 8 dicembre 1831, p. 1. 107 «Nessun diritto politico fuori della proprietà e dell’industria, ma che chiunque possa agevolmente arrivare all’industria e alla proprietà. […] Tutto ciò che faciliterà la divisione della proprietà e dell’industria sarà salutare alla società moderna» (ibid)
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della loro classe per l’emigrazione perpetua degli uomini della campagna nella
manifatture».108 Il lavoro degli operai nelle fabriques è necessario affinché la
società non «languisca, si fermi, muoia», e allora per la «salute» della società,
per il suo «riposo», si deve riuscire a far sì che coloro i quali, per le proprie
sofferenze, oggi le stanno di fronte come «nemici», appunto come barbari,
questa «popolazione proletaria che vive di giorno in giorno», ne diventi parte: si
tratta, anzitutto – con l’educazione, la moralizzazione e il «noviziato della
proprietà» – di «cercare di consolidare, in qualche modo, questa population
flottante».109
È tale aggettivo – fluttuante, instabile – a indicare il cuore del problema che
si vuol designare con il nome «barbari», termine che – come ha sottolineato la
ricerca di Louis Chevalier – diviene centrale nel dibattito di questi anni insieme
alle espressioni «selvaggi» e, appunto, «nomadi».110 La metafora dei barbari
incarna quell’instabilità, quel nomadismo – figlio in particolare della tradizione
del compagnonnage – con cui la nuova figura del lavoratore deve rompere
definitivamente per collocarsi nell’alveo della missione civilizzatrice di cui la
pubblicistica liberale investe la proprietà e l’industria. «Tramontato il regime
corporativo che controllava i ‘compagnonages’ – scrive Antonino De Francesco
– questi rappresentavano soltanto una perniciosa comunanza di vita, di interessi,
di aspettative e mentalità, configurandosi, in definitiva, alla stregua di una
perniciosa escrescenza dell’antico mondo sul tessuto di quello nuovo».111
Nell’ordine del discorso politico della Francia di questa prima metà Ottocento
la rappresentazione dei mali sociali viene progressivamente organizzandosi
all’altezza dell’intreccio fra i massicci flussi migratori e la crescita del
fenomeno delinquenziale: invasore, nomade, distruttore, espropriatore, la figura
del barbaro è allora immediatamente capace di alludere a tale intreccio, e al
massiccio intervento nella vita cittadina di individui non abituati alle sue regole.
Essa è immagine dell’alterità radicale − minacciosamente ritratta in un
108 «Journal des débats», 18 aprile 1832, p. 1. 109 «Journal des débats», 8 dicembre 1831 e 18 aprile 1832. 110 Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose cit. 111 De Francesco, Il sogno della repubblica cit., p. 252.
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paradossale «fuori» della società − che serve però anzitutto a evocare il suo
opposto, l’operaio onesto, laborioso e stabile, la cui condotta potrebbe costituire
il più potente argine al disordine di forme di vita e comportamenti del
proletariato urbano: «cercavo, nel 1832, come facilitare all’operaio l’accesso
alla proprietà […] contavo evidentemente – ricorderà Girardin nel 1858 – sugli
sforzi individuali, sull’intelligenza e l’economia degli operai, sulla loro buona
condotta».112
La metafora dei nuovi barbari catalizza invece l’insieme delle cattive
condotte di cui il proletario deve sapersi definitivamente liberare, accanto alla
mobilità, al nomadismo, esse sono in particolare: rifiuto del lavoro e della
proprietà, libertinaggio, pigrizia, vizio, insalubre esistenza urbana. Rispetto a
questi elementi il lavoro (ma anche la famiglia, come ha mostrato Jacques
Donzelot in un’importante ricerca)113 è chiamato a svolgere una funzione
civilizzatrice che le élites devono filantropicamente sostenere e favorire, pena la
«morte della società» borghese. «Bisogna dunque mettere i barbari al lavoro,
questo lavoro per il quale, lungo la storia, e nel più profondo della loro natura,
hanno manifestato una grande ripugnanza», scrive Pierre Michel,114 che al tema
ha dedicato un’imponente studio teso a mostrare tanto la pregnanza della
ricorrenza barbara nel pensiero francese di primo Ottocento, quanto un
«processus de clichage», quel «glissement» che all’inizio degli anni 1830 fa
emergere la figura dei nuovi barbari interni, utilizzandola anche come
immagine in chiaroscuro: «la Civilisation disconosce i Selvaggi e i Barbari, e
così conosce se stessa».115 La riattivazione della metafora dei barbari − non più
storici ma appunto metaforici − lavorando all’interno dell’opposizione
concettuale con la nozione di civilizzazione, può dunque essere interpretata
come l’immagine intorno a cui concentrare la rappresentazione delle forme di
vita, attitudini e condotte di cui il proletario deve liberarsi per essere integrato 112 Girardin, Souvenirs cit., p. 160. 113 J. Donzelot, La police des familles, postfazione di G. Deleuze, Éditions de Minuit, Paris 1977. 114 Michel, Les barbares cit., p. 215. 115 Michel, Les barbares cit., pp. 53, 95 e 75: : «è la solita difficoltà a pensare l’altro altimenti che il medesimo-altrimenti» (p. 94).
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nel movimento della civilizzazione in quanto lavoratore operaio.
Si tratta di tematiche che attraversano anche gli sguardi critici nei confronti
dell’economia liberale, come il noto studio di Eugène Buret sulla misère des
classes laborieuses (1841): la miseria viene qui interpretata come fenomeno
specifico della civilizzazione moderna, ma allo stesso tempo come una sorta di
esclusione dalla storia, un ritorno dell’état de barbarie nel cuore di tale
civilizzazione, ove «impone i vizi dello schiavo e del barbaro»:116 L’estrema miseria rigetta le popolazioni che colpisce nella vita selvaggia […] i miserabili assomigliano a queste bande sassoni che, per fuggire al giogo della conquista normanna, andranno a nascondere sotto gli alberi delle foreste la loro nomade indipendenza. […] L’incertezza dell’esistenza è il primo tratto di somiglianza che avvicina il povero al selvaggio. […] Questa inquieta mania di movimento e oziosità pare essere una delle caratteristiche conservate della vita libera del selvaggio […] La mendicità è il vagabondaggio dell’uomo adulto: è un ritorno premeditato verso la barbarie.117
La certezza e la stabilità del lavoro, la sua giusta remunerazione che
consente l’indipendenza economica, rappresentano l’unica soluzione al
proliferare nel «focolare della civilizzazione» di queste forme di vita, la cui
descrizione intreccia qui –a partire dal legame fra barbarie e libertà – i
riferimenti storici con quelli di sapore antropologico alla vita primitiva delle
popolazioni selvagge d’oltremare. I nuovi barbari rappresentano un’umanità
che, nel suo essere antisociale, è ipernaturale, la natura colta allo stato bruto, la
memoria di una libertà mai socializzata, la cui descrizione vede l’alleanza del
vocabolario morale, sociale, naturale, medico e antropologico. Essi incarnano,
scrive Métral, «una sorta di razza ermafrodita, non appartengono né alla natura,
dal momento che non sono come i selvaggi, né alla società, dal momento che
116 «Là, nel focolare della civilizzazione, incontrerete migliaia di uomini ricaduti, a forza di abbrutimento, nella vita selvaggia; là infine, percepirete la miseria sotto un aspetto così orribile che essa vi ispirerà più disgusto che pietà», E. Buret, De la Misère des classes laborieuses en Angleterre et en France : de la nature de la misère, de son existence, de ses effets, de ses causes, et de l'insuffisance des remèdes qu'on lui a opposés jusqu'ici, avec les moyens propres à en affranchir les sociétés, Paulin, Paris 1840, vol. I, pp. 67-68. 117 Buret, De la Misère des classes laborieuses cit., vol. II, pp. 1-8.
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non sono civilizzati».118
A partire da questi elementi – dall’ipotesi che la figura del barbaro funzioni
in qualche modo come rappresentazione in negativo del buon operaio di cui si
vuole attivare un processo di integrazione nella società – vorrei nel presente
paragrafo fare riferimento ancora a due ordini di questioni. Avendo assunto
mobilità e nomadismo come principale problematica cui tale metafora fa
riferimento, vorrei anzitutto introdurre quello che pare aver costituito in questi
anni il principale strumento di governo e controllo della mobilità operaia: quel
livret ouvrier che mi sembra rappresentare nel modo più efficace anche lo
sforzo di oggettivazione della figura dell’operaio come dispositivo di messa in
ordine e governo della questione sociale. In secondo luogo proverò a svolgere
qualche ipotesi sui riferimenti che vanno a comporre la rappresentazione dei
nuovi barbari operando quello che ho chiamato un processo di
risemantizzazione rispetto al modo in cui essa era stata utilizzata nel discorso
della storiografia francese della guerra delle razze.
Si noti anzitutto che la misura più importante con cui il governo risponde
all’insurrezione di novembre 1831 – oltre alla citata fortificazione della città –119 è l’annullamento di tutti i libretti operai dell’agglomerato lionese, che – pena
venir puniti come vagabondi o essere espulsi dalla città – gli operai devono
rinnovare entro tre giorni previa certificato di buona condotta del commissariato
di polizia.120 Dispositivo che riguarda il controllo al tempo stesso della mobilità
e della condotta dell’operaio, il libretto lavora sulla formazione della disciplina
al lavoro e nel lavoro di − con Jacques Donzelot − «queste masse ‘pre-
118 A. Métral, Description naturelle, morale et politique du cholèra morbus à Paris, Didot, Paris 1833, p. 24. 119 Cfr. supra § 4.2. 120 L’ordinanza impone agli chefs d’atelier di fare dichiarazione degli ouvriers compagnons che occupano, e a questi ultimi di fare, entro tre giorni, richiesta al sindaco per il rilascio di un nuovo libretto. Gli operai senza occupazione che non possono rinnovare il libretto, così l’articolo 6 dell’ordinanza del ministro Soult, riceveranno «passaporti da indigenti validi solo per il tempo necessario al loro ritorno nel paese natale, o al loro arrivo alla frontiera se sono nati fuori dalla Francia», cit. in «L’Ècho de la fabrique», 11 dicembre 1831, p. 3.
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industriali’ che fanno le grandi rivolte del XIX secolo».121 Osserviamone
brevemente storia, disciplina e funzioni. In nome della libertà di industria, la
Rivoluzione aveva definitivamente abolito i vecchi strumenti corporativi simili
al libretto e compiuto quella vera rivoluzione giuridica che è rappresentata dal
libero accesso al lavoro.122 La libertà del mercato del lavoro favoriva anche la
mobilità di lavoratori che, facendo giocare a proprio vantaggio la concorrenza
salariale, spesso non assolvevano gli impegni presi con i datori, i quali
lamentano questa generale attitudine operaia e la propria dipendenza nei
confronti di una manodopera rara quanto indisciplinata, mobile e irregolare. Di
qui, durante l’Impero, uno studio del consiglio di Stato teso a ricercare
dispositivi in grado di rendere praticabili rapporti salariali fondati sulla
libertà.123 Come sottolinea François Ewald, il ministro Chaptal − agli Interni nel
1800-1804 −, a partire dal problema del rapporto con l’enorme potenza
commerciale dell’Inghilterra, assume per la prima volta l’industria come un
affare nazionale di interesse pubblico, facendo della sua libertà il correlativo di
una pratica di governo tesa a organizzarne le condizioni di possibilità e di
messa in movimento. «Da qui la creazione da parte di Chaptal […] di un
dispositivo destinato ad articolare in insieme armonico, in sistema di mutuo
appoggio, l’azione di governo, l’iniziativa degli industriali e il lavoro degli
operai».124 La legge 22 germinale dell’anno XI (1 dicembre 1803) stabilisce
all’articolo 12 che «nessuno potrà […] assumere un operaio, se non è provvisto
di un libretto recante certificato di quietanza dei suoi impegni, rilasciato da 121 Donzelot, La police des familles cit., p. 79. 122 Cfr. H. Bernard, Le livret ouvrier. Thèse pour le doctorat devant la Faculté de Droit de l'Université de Lyon, Rousseau, Paris 1903. Antecedenti del libretto operaio si registrano nelle corporazioni medioevali, essi erano poi stati disciplinati da un provvedimento del consiglio di Stato reale del 1740, la cui disciplina era stata estesa da un editto di Turgot del 1776. È solo fra il 1791 e il 1807 che gli operai potranno liberamente entrare e uscire dagli atelier in cui lavorano. 123 «Decretando la libertà più assoluta dell'industria, l’Assemblea costituente non poteva prevedere le frodi. L’abitudine di violare gli impegni relativi al lavoro è divenuta così universale tra gli operai che non si può più contare sulla loro cooperazione; da dove risulta che i fabbricanti sono impediti nello stipulare intese di lavoro dalla paura di vedersi obbligati a rinunciarvi prima di averle consumate», cit. in Bernard, Le livret ouvrier cit., p. 11. 124 F. Ewald, L’État providence, Grasset, Paris 1986, p. 113: «è garantendo la sicurezza delle imprese che la libertà di industria produrrà i suoi effetti utili. Con ciò, in ogni caso, questa libertà non è un fine in se ma uno strumento di governo» (ibid.).
391
colui da cui se ne è andato», e ne rinvia la disciplina a un regolamento
amministrativo. L’Arrêté du 9 frimaire an XII sistematizza l’obbligatorietà del
libretto, che ora funge anche da passaporto da far vidimare dall’autorità a ogni
cambio di residenza: «ogni operaio – recita l’articolo 3 – che viaggerà senza
essere munito di un libretto vidimato sarà reputato vagabondo e potrà essere
arrestato e punito come tale». Il libretto registra tutti i rapporti di lavoro e
attesta il rispetto degli impegni presi verso i datori, che non possono assumere
un operaio se non ha onorato debiti e oneri con quelli precedenti:125 si tratta
dunque, come sottolinea il giurista Sauzet, di uno strumento di disciplina
contrattuale a garanzia di una sola parte contraente.126 Ma il libretto sembra
aver funzionato soprattutto come «misura di police»: peculiarità della norma è
infatti, spiega Alexadre Plantier, di non prevedere una specifica sanzione penale
per la mancanza di libretto, se non in forza dell’eventuale assimilazione al reato
di vagabondaggio,127 poi invalidata dalla Cassazione nel 1829.128 Questa norma,
125 Libretto gratuito rilasciato dal commissariato di polizia a Parigi, Lione e Marsiglia, dal sindaco nelle altre città e dal ministero degli Interni per i lavoratori stranieri, con l’indicazione dei dati dell’operaio e il nome del datore. Il libretto viene rilasciato su presentazione della licenza di apprendistato, su domanda del datore di lavoro, oppure su parola di due cittadini patentati della sua professione. Al momento della cessazione del rapporto di lavoro i datori devono registrare il congedo e il fatto che l’operaio ha onorato debiti e impegni, quest’ultimo per laciare la città deve poi far vidimare il congedo dal sindaco e indicare il luogo ove vuole recarsi. L’operaio deve far scrivere il giorno della sua assunzione, e se il padrone lo richiede lasciare nelle sue mani il libretto. Era prevista una multa verso ogni datore che assumesse un operaio senza libretto e che non constatasse che questi aveva onorato tutti gli imegni e debiti con il datore precedente. Cfr. M. Sauzet, Le Livret obligatoire des ouvriers, Paris 1890, Id., Essai historique sur la legislation du travail en France, in «Revue d'économie politique», tome 7, VI, 1892, pp. 353-471, A. Plantier, Le livret des ouvriers thèse de droit, Paris 1900 e P. Cère, Livret d'ouvrier, précédé d'un petit Manuel à l'usage des ouvriers, Libraire du Conseil d’Ètat, Paris 1853 (rappresenta un esemplare di libretto dopo la riforma del 1851 redatto dall ex prefetto Cére: otto fogli numerati preceduti da un piccolo manualetto-glossario). 126 Sauzet, Le Livret obligatoire des ouvriers cit. e Essai historique sur la legislation du travail en France cit. 127 Plantier, Le livret des ouvriers cit., p. 68. Sul tema cfr. S. L. Kaplan, Réflexions sur la police du monde du travail (1700-1815), in «Revue historique», janvier-mars 1979, e J.-P. de Gaudemar, L’ordre et la production. Naissance et formes de la discipline d’usine, Dunod, Paris 1982. 128 Con la sentenza del 9 luglio 1829, la Corte di cassazione stabilisce che da un punto di vista giuridico l’assimilazione al in forza del solo Arrêté du 9 frimaire an XII è da considerarsi nulla, la norma aveva pertanto anzitutto una «dimensione simbolica», e pare fosse del tutto inapplicata nelle zone rurali, mentre a Parigi vi sono provvedimenti prefettizi per rafforzare i controlli, cfr. J-P. Le Crom, Le livret ouvrier au XIXe siècle entre assujettissement et reconnaissance de soi, P. U. de Rennes, Rennes 2003, pp. 92-94 (viene qui sottolineato che gli operai parigini reputavano umiliante questa normativa che pareva di fatto accomunarli a
392
la cui applicazione risulta estremamente eterogenea nel tempo e nello spazio
(poco applicata nelle campagne, rafforzata da ordinanze comunali nelle grandi
città), pare così giocare sul terreno simbolico delle rappresentazioni sociali,
tracciando e registrando la laboriosità e moralità dell’operaio.129 E proprio la
discrezionalità nei controlli consente di essere dispositivo dinamico di governo
della manodopera a questo strumento il cui utilizzo è durante la monarchia di
Luglio oggetto di studi e discussioni. Fra cui il celebre Tableau de l'etat
phisique et moral des ouvriers di Louis René Villermé, che lo definisce «il
migliore di tutti i mezzi che sono stati immaginati per impegnare gli operai,
predisporre la loro assunzione, moralizzarli, e avere una garanzia della loro
fedeltà». All’istituzione del libretto operaio viene qui attribuito «il buon sistema
di police che regge oggi le nostre manifatture»,130 ma se ne denunciano alcune
distorsioni, fra cui le nefaste conseguenze del diritto del datore di registrarvi i
debiti − di lavoro o denaro − contratti dall’operaio e di non restituirgli il libretto
fino alla completa loro liquidazione. Proprio sugli elementi analizzati e discussi
da Villermé − sull’annotazione dei debiti e la possibilità di trattenere il libretto
− intervengono le leggi del 14 maggio 1851131 e 22 giugno 1854,132 che
riformano ma anche confermano la vigenza, estentendola anche a donne e
lavoratori domestici, di questo strumento, rimasto in vigore fino al 1890 (anni
in cui il lavoro operaio si è ormai affermato come una stabile certezza nel
sistema sociale francese).
Funzionando nei fatti da vero e proprio documento di identità, il libretto potenziali delinquenti). 129 «Certificat honorable de sa moralité et de sa capacité», scrive Plantier, Le livret des ouvriers cit., p. 68. 130 L. R. Villermé, Tableau de l'etat phisique et moral des ouvriers employés dans les manifactures de coton, de laine et de soie, Renouard, Paris 1840, Vol. II, pp. 140 e 139. 131 Questa legge abolisce il diritto del datore di trattenere il libretto in caso di non rimborso degli anticipi, ma lo mantiene nel caso in cui l’operaio non abbia «terminato e consegnato» il suo lavoro, e ammette la scrittura degli anticipi sul libretto solo quando superiori a 30 franchi. 132 Questa legge sopprime completamente il diritto del datore di trattenere il libretto e vieta le annotazioni sui debiti, ma estende il libretto anche alle donne e ai lavoratori a domicilio. Introduce inoltre una sanzione penale (da 1 a 5 giorni di prigione) sia per gli operai sprovvisti di libretto che per i padroni che li assumono. Sulle leggi del 1851 e 1854 (ma anche sulla normativa del livret più in generale) cfr. C. Arnaud, Du livret d'ouvrier, Camoin, Marseille 1856.
393
operaio è particolarmente efficace nell’alludere a tutta una serie di pratiche di
governo che lavorano a fissare, oggettivare e produrre dall’alto una soggettività
esclusivamente operaia. 133 Strumento di disciplina contrattuale, misura di
police, dispositivo di moralizzazione e soprattutto di controllo degli
spostamenti degli ouvriers nomades, il libretto qualifica, oggettiva, identifica
l’individuo, il povero, il proletario in quanto operaio attestandone la moralità e
la condotta, «incorporandogli», con le parole di Ewald, «questo essere che gli
manca e che solo lo renderà veramente produttivo».134 Accanto ai regolamenti
di officina (tesi in particolare a una dura sanzione delle assenze), alle casse di
risparmio, ma da un certo momento degli anni Quaranta anche alle società di
mutuo soccorso e, più tardi, al regime del patronage, il libretto operaio
rappresenta in modo estremamente efficace una strategia di governo della
questione sociale attraverso la «fissazione» − geografica ma anche sociale −
della figura dell’operaio. Il libretto garantisce la condotta del proletario in
quanto buon operaio, e, facendo della sua mobilità l’oggetto di un controllo
amministrativo, lavora a fissarlo al suolo, a territorializzarlo per socializzarlo, a
fargli preferire la sicurezza alla libertà, oppure, ancora con Ewald, «la libertà
con e nell’assoggettamento».135 Esso rappresenta in questi anni un dispositivo
decisivo di governo e disciplinamento della manodopera, ma anche di
oggettivazione della figura operaia nell’ambito di forme di vita proletarie, dalle
quali è chiamato a estirpare quell’insieme di condotte solitamente rubricate alla
voce vagabondaggio, che, come sottolinea Giuseppe Campesi, non implicava
«solo l’idea di uno spostamento demografico nello spazio», ma si riferiva più
complessivamente a coloro che si sottraevano alla disciplina della famiglia e del
lavoro, «anche indipendentemente dalla loro effettiva mobilità spaziale».136
133 Vale d’altra parte la pena di sottolineare per inciso che se il libretto operaio ha senz’altro giocato un ruolo nell’oggettivazione della figura operaia, è vero anche che, in quanto dispositivo di «imbrigliamento» della libertà di movimento della manodopoera, lo hanno giocato in un senso diverso – e per certi aspetti opposto – rispetto alla medesima figura all’interno del «movimento operaio». 134 Ewald, L’État providence cit., p. 120. 135 Ivi, p. 129. 136 G. Campesi, Genealogia della pubblica sicurezza. Teoria e storia del moderno dispositivo poliziesco, ombre corte, Verona 2009, p. 150.
394
Vagabondo è, con Robert Castel, colui che minaccia l’ordine pubblico perché
ha «rotto il patto sociale – lavoro, famiglia, moralità, religione –» toccando il
«limite di un processo di disaffiliazione».137 Ripercorrendo la storia del diritto
del lavoro in Francia dal 1830, Jacques Le Goff indica nel livret ouvrier una
tecnologia giuridica tesa in questi anni soprattutto a fare installare in un luogo il
lavoratore, che funziona nel quadro di una razionalità di governo orientata a
«separare il grano dal loglio, dissociare il ‘buon sociale’ dal ‘cattivo’ e dunque
rinforzare il primo per meglio contenere il secondo».138 L’instabilità geografica,
il nomadismo, rappresenta una preoccupazione centrale non solo per le
conseguenze che produce sul tessuto urbano, ove raffigura il centro di
gravitazione delle minacce all’ordine pubblico, ma anche perché è «ostacolo
grave allo sviluppo di un modo di attività che richiede imperiosamente
regolarità e stabilità». Chiamata dunque a rappresentare questo versante cupo e
oscuro del sociale, la figura del «barbaro» è infine l’avatar dell’«operaio ancora
mal degagé delle abitudini del passato e/o spaesato dalla mutazione in corso, è
l’operaio instabile, geograficamente e moralmente».139
137 R. Castel, Les Métamorphoses de la question sociale, une chronique du salariat, Gallimard, Paris 1995, p. 152. Si tratta ancora del «più grave problema che il capitalismo ebbe da affrontare all’inizio dell’industrializzazione: fissare l’instabilità operaia» (p. 412). 138 J. Le Goff, Du silence à la parole. Droit du travail, société, état (1830-1985), Calligrammes/La digitales, Quimper 1985, p. 61. Il buon sociale sarebbe un modo di essere in comune nel quale le relazioni tra gli individui sono limitati a rapporti di pura esteriorità, sociale di addizione, di somma, in una visione in cui solo l'economico e il politico sono investiti del privilegio di realtà e di senso (il sociale passa paradossalmente attraverso l'individualizzazione e assume i tratti di una sorta di privato allargato). «Calcato sul modello del privato ove l'individuo è re, precauzionalmente e fermamente tenuto a distanza della malignità del sociale politicizzato, del sociale pubblico, il ‘buon’ sociale liberale non è alla fine nient’altro che il ricettacolo neutro e l’emolliente dell’economico e del politico»: il sociale è trasparente, ma fino al punto di diventare invisibile (p. 64). 139 Ivi, pp. 31-32: «si ritrova qui il fantasma del vagabondo portatore di miasmi e disordine nella società» (p. 41). Gli anni 1830 segnerebbero, secondo Le Goff, la «messa in opera di una tecnologia giuridica che è anzitutto una tecnologia dei corpi, del corpo dell'operaio, sottomesso, protetto, atomizzato» (p. 24). Viene poi sottolineato «il ruolo decisivo del sociale, del culturale, del simbolico, e, diciamolo, del politico nel senso largo del termine, nella messa in opera di una strategia di mobilitazione della società attraverso il diritto del lavoro a due livelli: -a livello della società globale, a livello societale attraverso il suo ruolo nel modellare un nuovo spazio-tempo in rottura con l'antico spazio-tempo di tipo artigiano-rurale, -a livello dell'impresa attraverso il suo contributo all'instaurazione di un nuovo sistema di potere» (p. 26).
395
Vorrei ora svolgere alcune considerazioni sugli elementi e i riferimenti che
vanno a comporre la figura di questo avatar, immagine in negativo della
condotta del buon operaio, icona di alterità radicale posta al di fuori delle
rappresentazioni del sociale. Vorrei cioè interrogare le determinanti del
processo di risemantizzazione di una nozione che – come scrive lo stesso
Girardin – viene mutuata dal lungo dibattito della storiografia francese
richiamato nel secondo capitolo,140 dagli autori liberali che nell’Ottocento
interpretano la vicenda rivoluzionaria traducendo dialetticamente in lotta delle
classi la griglia interpretativa della guerra delle razze.
In Guizot la barbarie rimanda fondamentalmente a una situazione di
disordine, una sorta di confusione della natura in cui prevale l’individualità, e in
cui, dunque, ancora non esiste società. La dimensione politica dei barbari è il
regno di una libertà generale che si esercita per il tramite della forza, ma dalla
quale nasceranno le libertà moderne. Vi è un sentimento, un fatto – si legge nell’Histoire de la civilisation en Europe – che occorre innanzitutto intendere bene per poterci raffigurare in maniera verace ciò che era un Barbaro: e precisamente il gusto dell’indipendenza individuale, il piacere di adoperare la propria forza e la propria libertà in mezzo alle possibilità del mondo e della vita; le gioie dell’attività che non conosce lavoro; il gusto di un destino avventuroso, pieno di imprevisto, di ineguaglianza, di pericolo. […] nonostante questo miscuglio di brutalità, di materialismo, di egoismo stupido, il gusto dell’indipendenza individuale è un sentimento nobile, morale […]. Signori, proprio per opera dei Barbari della Germania s’introdusse nella civiltà europea questo sentimento, sconosciuto al mondo romano, alla Chiesa cristiana, a quasi tutte le civiltà antiche.141
Nelle forme di vita delle popolazioni barbare è dunque da ricercare la
140 «Già da tempo tutte le idee sui Barbari sono cambiate. I Barbari del quarto e quinto secolo non sono più delle specie di mostri scatenati un bel giorno sulla terra. L’invasione dei Barbari è il rinnovamento del mondo, ed essa concorre, con l’insediarsi del cristianesimo, a fondare una nuova civilizzazione di cui noi siamo eredi e depositari. Da tempo già i Goti, gli Eruli, i Franchi, sono riabilitati nella storia», Girardin, Souvenirs cit., p. 156. 141 Guizot, Storia della civiltà in Europa cit., pp. 150-151. Al contrario della prospettiva liberale individualista, per Guizot, la barbarie è la predominanza dell’individualità: il movimento della civilizzazione produce un tipo nuovo, l’individuo sociale.
396
matrice di una libertà che il corso della civilizzazione – realizzando il sempre
più armonico equilibrio fra ragione e realtà, uomo sociale e morale, ordine
intellettuale e reale, e rendendo giustizia al fatto della conquista conciliando, in
seguito alla Rivoluzione, i due popoli in una sola nazione – ridisloca in un
presente ove essa non si esercita più per il tramite della forza, ma della
proprietà. La libertà dell’uomo guerriero si è tradotta in quella codificata del
proprietario, in grado ora di soddisfare lo spirito di indipendenza che fondava
l’antica libertà barbara, matrice e origine di quella moderna ma rispetto alla
quale Guizot invita i suoi studenti a non nutrire nostalgie.142 «La storia della
civilizzazione – scrive Pierre Rosanvallon – è naturalmente quella
dell’epurazione progressiva della barbarie, attraverso la separazione del
principio positivo di questa (l’indipendenza individuale, l’uguaglianza) dal suo
principio negativo (la confusione e l’anarchia)».143 È ciò cui Michel Foucault fa
riferimento parlando di «modelli di filtraggio del barbaro» per interpretare le
diverse razionalità storiche che si confrontavano nel diciottesimo secolo,
differenti prospettive riguardo a quali elementi della barbarie rigettare e quali
promuovere in una nuova costituzione della società: la storiografia liberale di
primo Ottocento si sarebbe organizzata riprendendo una distinzione elaborata
da Bréquigny e Chapsal fra la cattiva barbarie germanica e quella buona delle
originarie libertà galliche.144 In queste ultime Augustin Thierry pare in effetti
proiettare l’immagine della moderna libertà codificata e morale del proprietario,
del capofamiglia borghese: quella degli antichi Galli era la «libertà di andare e
142 È il rapporto alla proprietà della terra che permette alle popolazioni barbare di entrare in un tempo nuovo in cui la libertà non ha più necessità di essere praticata attravrerso la forza. Nella prima lezione del corso sulla civilizzazione francese, Guizot invita così i suoi studenti a non avere rimpianti per le «grandi virtù dell’uomo che hanno brillato nei tempi che chiamiamo barbari», virtù di energia e di coraggio cui la maggior perfezione della civilizzazione impone di manifestarsi sotto altre forme passando attraverso l’ordine intelluale, di provare di essere nella ragione (Histoire de la civilisation en France cit., I, pp. 25-26). 143 Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 86 nota 2. 144 In «Bisogna difendere la società» cit., Foucault analizza la figura del grande barbaro, introdotta e valorizzata in particolare dalla storiografia nobiliare di Boulainvilliers contro quella del «selvaggio», propria al discorso del contrattualismo e dell’economia politica, da cui si distingue radicalmente perchè non esiste se non in rapporto a una storia e a una civilizzazione che cerca di distruggere e/o appropriarsi, ma che è allo stesso tempo portatrice di certe libertà e diritti originari da rivendicare.
397
venire, di vendere e di comprare, di essere padroni a casa propria, di lasciare i
propri beni ai figli […] la sicurezza personale, la sicurezza quotidiana, la facoltà
di acquisire e conservare».145 Le principali caratteristiche attribuite ai nuovi
barbari accampati alle porte delle città manifatturiere invece sembrano poi
riflettere quelle della cattiva barbarie germanica, segnata da vizio, sporcizia,
promiscuità, nomadismo, violenza, comunione di donne e di beni, ostilità al
lavoro e alle regole, passione della distruzione. E tuttavia, in questo discorso
storiografico la cifra fondamentale della figura storica dei barbari rimane quella
della libertà e dell’indipendenza, come sottolinea Pierre Michel, indicando le
coordinate fondamentali di questo «mito romantico» nella «dialettica della
barbarie e della civilizzazione, e [nel] legame paradossale di barbarie e
libertà».146 Di fronte al ritorno della guerra nella società, si fa dunque nel 1831
ricorso a uno strumento classico che la storiografia francese aveva utilizzato per
interpretarla, ma su di esso si deve allo stesso tempo operare un sensibile
slittamento semantico per renderlo atto a designare il disordine delle forme di
vita proletarie e non più la matrice storica delle moderne libertà borghesi.
Attraverso quali riferimenti si opera lo slittamento dalla figura storica dei
barbari, primi portatori delle libertà moderne, verso quella dei nuovi barbari
metaforici dell’«esterninterno» sociale? Dove articolare il processo di
significazione di questo dispositivo discorsivo una volta venuta meno la
possibilità e l’opportunità di poggiarlo sul terreno della storia?
L’ipotesi che qui si propone è che tale spostamento nella figura chiamata
anche a costruire per opposizione la rappresentazione della condotta dell’umile
ma onesto lavoratore, a fare del lavoro il dispositivo di moralizzazione e di
messa in ordine della questione sociale, si operi attraverso una trascrizione
dallo storico al biologico dell’immagine del barbaro. Essa viene adesso
accostata a quella del selvaggio, non più il selvaggio metaforico del contratto e
dell’economia politica, ma le popolazioni selvagge d’oltremare e delle colonie.
Si noti in proposito il modo in cui – nel corso sulla civilizzazione in Francia – 145 A. Thierry, XIV lettre sur l’histoire de France, in Id., Lettres sur l’histoire de France, Lacrosse, Buxelles 1836, p. 158. 146 Michel, Les barbares cit., p. 23.
398
Guizot propone, data l’esiguità di fonti disponibili, di reperire le caratteristiche
essenziali dei popoli germanici che invasero il territorio francese. Non conosco che un mezzo di arrivare a rappresentarsi con qualche verità lo stato sociale e morale delle peuplades germaniche: è di paragonarle alle peuplades che, nei tempi moderni, su differenti punti del globo, nell’America settentrionale, nell’interno dell’Africa, nell’Asia del nord sono ancora a un grado di civilizzazione pressappoco simile, e conducono pressappoco la stessa vita. Essi diventano per noi come uno specchio davanti al quale si rivela e dove si riproduce l’immagine degli antichi Germani. Io ho intrapreso un lavoro di questo genere […] e sarete stupiti della rassomiglianza dei costumi dei Germani e di quelli dei Barbari più moderni.147
Ibridando il discorso storico con un’etnologia comparata, Guizot presenta
ventuno elementi di paragone, soprattutto inerenti l’ordine morale e il ruolo
delle donne nel consesso sociale. Sono le popolazioni native delle colonie
americane e africane chiamate qui a rappresentare quell’immagine dei «barbari
moderni» che a breve servirà a indicare anche il proletariato urbano. «Bisogna
tornare indietro dodici secoli per trovare in un altro ordine di fatti qualcosa di
simile a questo, allorché i barbari imponevano tributi agli imperatori», scrive
ancora a proposito dell’insurrezione lionese René Chateaubriand, che in
Voyage en Amerique paragona l’indigenza delle tribù indiane a quella dei
proletari francesi.148 Mentre L’«Ècho de la fabrique» accusa i commercianti di
ritenere l’operaio «simile al servo delle colonie»,149 Eugène Buret paragona la
vocazione all’alcolismo degli strati popolari più marginali a quella «delle razze
147 Guizot, Histoire de la civilisatione en France cit., I, p. 199. 148 Chateaubriand, Lettre aux redacteurs de la Revue Européenne cit., p. 4. In questo articolo Chateaubriand dice che le differenze di proprietà assomigliano sempre di più alle differenze di ceto e che pertanto anch’esse sembrano destinate a scomparire, che la differenza di reddito sembrerà un giorno uguale a quelle di casta. E profetizza una società del livellamento totale e della mediocrità: «verrà un tempo in cui non si concepirà che vi fu un ordine sociale in cui un uomo contava un milione di reddito, mentre uno non aveva di che pagare la sua cena. […] quando si sarà alla divisione uguale della proprietà e dell’intelligenza […] nessun grande movimento potrà più formarsi […] quando le emulazioni e le passioni saranno spente nella dolce mediocrità del focolare domestico […] allora la società gioirà di una felicità incomparabile. Dio grazie! Io mi sarò salvato fra i morti dei giorni cattivi» (ivi, p. 8). 149 «Ècho de la fabrique», 13 novembre 1831, p. 5. Sul numero del 4 dicembre si descrive l'attitudine dei commercianti, dopo la fissazione del tarif, nei confronti degli operai: «li si tratta da canaille», con «minacce degne di cannibali», (p. 2).
399
indigene dell’America del Nord» e del «negro della costa d’Africa [che] vende
i suoi figli e se stesso per una bottiglia di acquavite».150 E, se riprendiamo
l’intervento di Saint-Marc Girardin, vediamo che esso convoca un’altra figura,
accanto ai barbari del Caucaso e delle steppe tartare, a designare l’avvenimento
lionese: Ogni fabbricante vive nella sua fabrique come il coltivatore delle colonie in mezzo ai suoi schiavi, uno contro cento; e la sedizione di Lione è una specie di insurrezione di Santo-Domingo.151
Mi pare che a rappresentare con efficacia questo processo di «razzizzazione»
cui la figura del barbaro viene sottoposta per designare alcune forme di vita
proletarie, si possa convocare ancora la storia delle insurrezioni lionesi di Jean-
Baptiste Monfalcon, medico e storico, studioso della popolazione e uomo del
juste-milieu sostenitore dell’integrazione del proletariato attraverso l’accesso
progressivo alle abitudini della proprietà.152 Anticipando il canone più classico
delle prime inchieste sulla condizione operaia, il testo procede anzitutto a
un’analisi della «costituzione fisica e morale» dei canuts. Questi esibiscono uno
«sviluppo irregolare del corpo» segnato da membra inferiori spesso deformate
di cui si vede traccia nell’andatura incerta e sgraziata, «una tinta pallida,
membra gracili o gonfiate dai succhi linfatici, carni molli e colpite d’atonia, e
una statura in generale al di sotto della media».153 Dal punto di vista delle
«abitudini morali», domenica e lunedì «essi consumano in piaceri di ogni natura
il salario del lavoro della settimana intera. La libertà di costumi è grande fra
loro».154 Vengono infine osservate le «influenze igieniche» di sobborghi operai
malsani con strade strette e case basse, sovraffollate, promiscue, senza
150 Buret, De la misère des classes labourieuses cit., vol II, p. 13. 151 «Journal des débats», 8 dicembre 1831, p. 1. 152 Cfr. supra § 3.1, nota 51. 153 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., p. 26: «i giovani delle campagne vicine a Lione che arrivano in questa città per abbracciare la professione di tessitore di stoffe di seta non tardano a perdere la loro freschezza e pinguitudine». 154 Ivi, pp. 27-28.
400
illuminazione, da cui «esala abitualmente un odore acido»:155 sono quei miasmi
popolari che tanto rilievo hanno nella importante letteratura igienista di questi
anni. Nel narrare la vicenda insurrezionale, Monfalcon denuncia gli atti
compiuti da «miserabili operai a cui il furore non lascia più niente di umano», e
come prova di tale «barbarie» convoca anzitutto il ruolo giocato da donne a
bambini nella rivolta. Come i barbari, questi ultimi mostrano «il più grande
sprezzo del pericolo, e talvolta un totale disprezzo della vita», e le donne sono
«vere e proprie furie» che si occupano di finire, sgozzandoli, i nemici feriti:
«mai guerra di Beduini fu più atroce».156 La barbarie è poi naturalmente
personificata anche dalla populace criminale: «filles de joie e miserabili della
feccia del popolo che incitavano i combattenti con le loro esortazioni e
imprecazioni. A ogni colpo andato a segno la folla batteva le mani con una
gioia barbara». Ma vi è un elemento su tutti che Monfalcon chiama a raffigurare
quella «moltitudine forsennata e barbara» che si agita «contro la società»,
plebaglia peggiore degli Algochini e degli Irochesi, selvaggi americani ebbri
«dell’odore di sangue»:157 Mostrerò questo orribile [hideux] negro, questo Stanislas, che sceglieva dal Pont Morand le sue vittime, con l’occhio infuocato, la bocca schiumante, le braccia insanguinate, lanciando un grido barbaro e saltando di gioia ogni volta che il suo piombo […] rovesciava un dragone o un artigliere della guardia nazionale.158
Il colore emerge così come il vettore più efficace per rappresentare la
radicale alterità che la figura del barbaro è chiamata a incarnare. La presenza
del negro Stanislas – arrestato nel corso della rivolta – viene più volte
convocata – parlando anche di «razze straniere» e «cannibali» – nelle cronache
e rappresentazioni che alcuni giornali fanno dell’insurrezione lionese. Essa mi 155 Ivi, pp. 29-30 (una descrizione non troppo dissimile si trova anche in «L’Écho de la fabrique» del primo gennaio 1832, p. 2). 156 Monfalcon, Histoire des insurrections de Lyon cit., pp. 81, 74, 33, 82, 71. «Come un bambino – scrive Sandro Chignola – o come un barbaro, secondo la metafora che traduce, nell’Ottocento francese, la marginalità del proletario alla civiltà borghese, i quali letteralmente non conoscono il valore della vita» (Fragile cristallo cit., p. 448). 157 Ivi, pp. 84, 124 e 148. 158 Ivi, p. 82.
401
pare anche quella rappresentata al centro della più celebre (forse l’unica nota)
raffigurazione della révolte des canuts, la tela anonima Le combat du pont
Morand:159
Dettaglio:
La risemantizzazione del motivo dei barbari pare insomma operarsi
attraverso uno spostamento dallo storico al biologico che passa anche per il
159 La tela è oggi custodita al museo Gadagne di Lione ed è accessibile in digitale su Gallica all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84147608.
402
riferimento alla razza (che a sua volta non rimanda più solo a elementi etnico-
linguistici ma anche fisici e biologici). Si tratta di una problematica centrale in
Classi lavoratrici e classi pericolose, ricerca volta a mostrare il «carattere
essenzialmente razzista dell'antagonismo sociale della Parigi di quegli anni»:
«conflitto di classi, certo, ma sotteso da un antagonismo che i contemporanei
stessi sentono e descrivono come un conflitto di razze, una guerra fra
popolazioni diverse sotto ogni aspetto e soprattutto nel corpo, e perciò diverse
non solo socialmente ma anche biologicamente». 160 La ricerca di Louis
Chevalier mostra non solo il rilievo che nell’ordine del discorso assumono i
significanti «barbari», «nomadi», «selvaggi», ma anche la matrice
essenzialmente biologica cui essi rimandano e cui in qualche modo anche
l’emergere della nozione di proletari fa in prima battuta riferimento: «nei fatti,
è ancora strettamente legata a caratteristiche che non hanno nulla di
economico, è ancora intrisa delle rivalità etniche e fisiche che fomentano le
violenze da noi descritte […]. Ce lo dimostra l’opera di Balzac, in cui il
proletariato non è tanto una classe, quanto una razza e in cui questa parola
connota un modo di vivere barbaro e selvaggio più che una determinata
distribuzione professionale o certe caratteristiche economiche».161 Parole che
paiono dare consistenza allo iato che qui si cerca di mostrare fra l’emergere
della nozione di proletario e una certa rappresentazione della figura
dell’operaio che pare affiorare e venir prodotta all’interno del più vasto campo
delle forme di vita proletarie come dispositivo di integrazione. «Popolo uscito
dal popolo, nazione nella nazione, razza spaesata», così Alphonse de
Lamartine, «casta flottante i cui contorni sono spezzati […]. È ciò che si
chiama propriamente i proletari, razza destinata a popolare il suolo».162 Le
160 Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose cit., pp. 526 e 560. 161 Ivi, p. 469. «Non solo la condizione e il modo di vita dei lavoratori sono descritti come analoghi alla condizione dei selvaggi, ma i vari aspetti della rivolta operaia e i conflitti di classe sono esposti in termini di razza», p. 464. 162 A. de Lamartine, Oeuvres oratoires et écrits politiques, tome IV, p. 109, cit. in Castel, Les métamorphoses cit., p. 370. Si noti anche che, all’inizio degli anni Quaranta, Luois Blanc ricorda la vicenda dei canuts parlando di «una razza a lungo asservita», considerata «come una razza inferiore e degradata», «proscritti della civilizzazione moderna» (Histoire de dix ans cit., pp. 354 e 345).
403
osservazioni finora svolte vorrebbero suggerire la possibilità che la matrice
«razziale» degli antagonismi cui la metafora dei barbari fa riferimento si operi
attraverso uno spostamento dallo storico al biologico nutrita di immagini che la
vicenda della colonizzazione contribuisce a veicolare nel dibattito pubblico, e
che consentono adesso di accostare la figura del barbaro a quella del
«selvaggio» delle colonie. «La modernizzazione della storia e questa etnologia
comparata […] impongono uno stereotipo razziale del Barbaro», sostiene
Pierre Michel, che indica inoltre la colonizzazione dell’Algeria iniziata nel
1830 come strategia di détournement della nuova invasione barbarica (a cui
non sarebbe estranea una certa prospettiva sansimoniana che pensa «una
società europea fondata sulla gerarchia di meriti» cui «deve corrispondere una
società mondiale fondata sulla gerarchia delle razze»).163
Per designare la razionalità politica del «Bisogna difendere la società» – che
dà il titolo al più volte richiamato corso al Collège de France –, Michel
Foucault fa riferimento a un mutamento nella teoria della guerra delle razze che
enuncia ora la necessità di lottare «contro tutti i pericoli biologici di quell’altra
razza» che non è più quella venuta da altrove e che «per un certo tempo ha
trionfato e dominato, ma è invece quella che, in permanenza e incessantemente,
si infiltra nel corpo sociale, o piuttosto si riproduce incessantemente all’interno
e a partire dal tessuto sociale. […] O ancora: a partire da una razza, la
riapparizione del suo proprio passato». 164 Attraverso la mediazione della
storiografia borghese, si produrrebbe in questi anni ciò che Foucault chiama un
«embranchement (biforcazione) essenziale», una doppia trascrizione della
teoria della guerra delle razze. Da una parte una trascrizione francamente
biologica, che si opera ben prima di Darwin, una trascrizione propriamente
«razzista» (attraverso cui si darà poi l’iscrizione del razzismo nei meccanismi
di Stato). Dall’altra parte la trascrizione che va a operarsi a partire dal tema e
163 Michel, Les Barbares cit., pp. 95, 196 e 259. 164 Foucault, «Bisogna difendere la società» cit., p. 58. «Appare allora l’idea di una guerra intestina come difesa della società contro i pericoli che nascono all’interno del suo stesso corpo e dal suo stesso corpo»: qui Foucault parla del «grande rovesciamento dallo storico al biologico, dal costituente al medico nel pensiero della guerra sociale» (p. 187).
404
dalla teoria della guerra sociale, che tende a eliminare tutti i riferimenti al
conflitto fra razze per definirsi come lotta di classe. Gli elementi che le ultime
pagine hanno provato a restituire (ma anche e soprattutto quelli di cui al
paragrafo successivo) vorrebbero suggerire come una genealogia della nozione
di classe operaia e di lotta di classe si troverebbe probabilmente a convocare
entrambi questi due poli della «biforcazione essenziale», che in un primo
periodo, immediatamente successivo alla rivoluzione di Luglio, paiono
concorrere nell’interpretazione degli antagonismi sociali, e partecipare
entrambi a comporre la rappresentazione del neologismo proletario. La
risemantizzazione del riferimento ai barbari da una sottesa matrice storica a
una biologica, che ho qui supposto prodursi anche attraverso un riferimento,
implicito o esplicito, alle forme di vita delle popolazioni «selvagge» delle
colonie, mi sembra insomma far sì che per analizzare l’emergenza della
nozione di classe si debba operare un’analisi dei punti in cui pare emergere
l’intreccio fra sommosse politiche, conflitti sociali e antagonismi biologici. Un
punto di vista che, più di ogni altro avvenimento, può essere rappresentato dal
colera del 1832, il quale, posizionando su un terreno propriamente biologico gli
antagonismi che solcano lo spazio urbano, compendia e offre ulteriori
argomenti a molte delle considerazioni svolte nel presente paragrafo, e può
essere in qualche modo chiamato a rappresentare una matrice, per così dire,
biologico-razziale di quella che sarà la storia e la nozione di lotta di classe.
4.4 La malattia della civiltà.
Probabilmente più di ogni spettacolo di povertà e miseria urbana, più di
qualsiasi sommossa popolare o fenomeno criminale, è l’esperienza del colera a
consolidare espressioni, categorie e regimi discorsivi cui si è finora fatto
riferimento, e ad affermare percezioni di disgregazione sociale, scatenando La
405
grande peur de 1832,165 e fissando l’immagine della Paris malade – pièce
teatrale di Eugène Roch il titolo del cui primo atto, L’invasion, restituisce la
prossimità fra le rappresentazioni dell’immigrazione popolare e quelle
dell’arrivo dell’epidemia.166 Ma soprattutto, quest’ultima sembra indurre una
nuova e diversa percezione della questione sociale, e una sorta di mutamento di
paradigma nel modo di osservarla e indagarla.
Il 29 marzo 1832 le autorità proclamano la presenza a Parigi del morbo che
in dieci giorni miete 814 vittime, 12.733 nel solo mese di aprile, e 18.402
complessivamente. Emerge immediatamente l’enorme disuguaglianza sociale di
fronte alla morte, e nella popolazione urbana si diffonde il timore che la
malattia sia uno strumento del governo e dei ceti abbienti – élites effettivamente
impegnate a discutere le teorie malthusiane sull’equilibrio della popolazione e
le teorie igieniste sulla gestione dello spazio urbano – per eliminare parte di
quell’umanità in eccesso che la pubblicistica dell’epoca rappresenta già di per
sé come un flagello sociale. «Improvvisamente – ricorda Louis Blanc – voci
sinistre si diffondono fra questo popolo in subbuglio. Si racconta che un
complotto infernale è stato orchestrato; che non esiste colera a Parigi; che degli
scellerati se ne vanno in giro gettando veleno negli alimenti, nel vino,
nell’acqua delle fontane».167 Gruppi di decine di uomini percorrono i quartieri
popolari in cerca degli avvelenatori, diversi individui sono linciati, gettati nella
Senna, mutilati, uccisi, vengono presi di mira anche i medici, accusati di usare i
poveri come cavie per curare i ricchi,168 gli ammalati rifiutano il ricovero in
ospedale, e anche «Le National» denuncia tentativi di avvelenamento.169 Alle
misure di salute pubblica, alle tecnologie di sicurezza che investono la città
165 J. Lucas-Dubreton, La grande peur de 1832 (le cholèra et l’émeute), Gallimard, Paris 1932. 166 E. Roch, Paris malade: esquisses du jour, Moutardier, Paris 1832. 167 Blanc, Histoire de dix ans cit., p. 404. 168 «Accusavano semplicemente i ricchi, nobili, i borghesi, non solo di non morire come gli altri di colera, ma di ‘intendersela con medici e preti per avvelenare il popolo […] in effetti il viso di un coleroso somigliava molto a quello di un individuo intossicato dal veleno », Dubreton, La grande peur de 1832, p. 67. 169 Cfr. il testo anonimo, La vérité tout entière sur les empoisonnements. Cruautés exercées sur les malheureuses victimes. Sanglants excès de la fureur populaire, Impr. de Chassaignon, Paris 1832.
406
rispondono tumulti popolari. La sera del primo aprile e quella successiva, i
1.800 chiffonniers (straccivendoli) di Parigi insorgono contro le nuove misure
igieniche bruciando i carri delle pulizie e facendone barricate: l’ulteriore turno
serale di pulizia urbana li priva infatti degli unici mezzi del loro sostentamento,
rafforzando i sospetti che l’epidemia sia un espediente per «assassinare il
popolo». Uguali timori fanno sì che il medesimo primo di aprile un prigioniero
trovi la morte nel carcere di Sainte-Pélagie durante una rivolta scoppiata a causa
delle condizioni sanitarie nella prigione e immediatamente appoggiata
dall’intervento esterno di duecento repubblicani allo scopo di provocare
un’evasione. Il gerente del quotidiano «La Tribune» è condannato a tre mesi di
prigione per aver fomentato la rivolta accusando il governo di aver assassinato
il prigioniero e di far morire di fame gli straccivendoli, e Victor Considérant
denuncia le speculazioni dei borghesi sui prezzi dei rimedi a un male che
colpisce soprattutto i ceti meno abbienti. «Mai le passioni politiche erano state
più pronte a combattere», racconta Louis Blanc, «sotto il colera – scrive
Dubreton – covava la rivoluzione».170 Il prefetto Gisquet, nel tentativo di
affermare una verità ufficiale e convincere il popolo che il colera «esiste»,
emana una circolare in cui denuncia gli «eterni nemici dell’ordine» come
responsabili degli avvelenamenti, contribuendo così ad alimentare confusione e
disordine.171 Sospetti e agitazioni popolari che si placano solo quando si
diffonde la notizia della malattia del presidente del consiglio Casimir Périer
che, colpito dal morbo dopo aver fatto visita con il principe ai malati dell’Hôtel
de Dieu, ne muore il 16 maggio, dicendo, pare, sul letto di morte «sono ben
malato, ma il paese è più malato di me».172 Parole che testimoniano come la
vicenda del colera contribuisca ad alimentare e fissare le metafore mediche già
ampiamente utilizzate per designare forme di vita e disordini popolari, mali
locali che producono una disfunzione nel corpo sociale in grado di alterarne
l’equilibrio complessivo, così come, a partire dall’infiammazione di un organo,
l’intestino, il colera agisce sull’intero corpo umano (secondo le discusse teorie 170 Dubreton, La grande peur de 1832, p. 55. 171 Circolare del 2 aprile 1832, cit. in «Revue médicale», III, 1832, p. 160. 172 Cit. in Dubreton, La grande peur de 1832, p. 136.
407
di François Broussais).
Se nell’immaginazione popolare il colera alimenta sospetti nutriti dalla
percezione dell’ostilità di governo e ceti abbienti, da parte loro questi ultimi
difficilmente riescono a liberarsi dal timore che gli strati più umili della
popolazione urbana siano naturalmente portatori di una malattia le cui cause i
medici riferiscono anche ad attitudini e comportamenti sociali e morali. I
miasmi popolari vengono accreditati come principali responsabili del contagio:
«la povertà in cui il popolo viene lasciato languire – afferma Métral – attrae,
genera e nutre la mortale malattia».173 Le teorie mediche del contagio, che
sostengono misure di isolamento e ispirano alcuni spietati provvedimenti
amministrativi tesi a salvare il salvabile, testimoniano, tanto quanto alcuni
scritti di pubblicisti borghesi, di una paura letteralmente fisica, biologica, nei
confronti di una nebulosa umana dai tratti ancora largamente oscuri che nel giro
di mezzo secolo si è insediata nel cuore dello spazio urbano ridisegnandone
radicalmente profili e abitudini.174 «Mia madre si è finalmente decisa a lasciare
Parigi; cinque persone erano già morte all’angolo della via che abitiamo»,175
scrive il 10 aprile Tocqueville a Beaumont, testimoniando del vero e proprio
esodo che in pochi giorni spinge coloro che possono lasciare una città sempre
più percepita come ambiente di rischio e pericolo aleatorio. «Cosa possiamo
contro questo nemico invisibile […]? Fuggire», scrive Jules Janin sulla «Revue
des deux mondes»: «è ciò che ha già fatto la gran parte dei più prudenti;
cionondimeno la massa rimane. Per forza o per volontà».176 La Société des Amis
du Peuple invita allora gli indigenti a occupare le case dei ricchi abbandonate
per difendersi dall’epidemia e da «questo mostruoso egoismo delle classi
possidenti e accaparranti […] razza tradizionale e conservatrice dei miasmi
173 Métral, Description naturelle, morale et politique du cholèra cit., p. 160. 174 Essa viene ora associata all’odore di cloruro e di morte che pervade una città ossessionata dal problema di liberarsi da cadaveri che giacciono sulla pubblica via dopo esser caduti da carri funebri eccessivamente carichi e che nessuno vuol più condurre. 175 A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1984, tomo IV, p. 115. 176 J. Janin, Cronique de la quinzaine du 30 avril 1832, in «La Revue des deux mondes», tome VI, 1832, p. 373.
408
morali».177 La paura del contagio si unisce così a quella degli antagonismi
sociali e del disordine politico nel determinare l’esodo dei ceti abbienti. E i
giornali legittimisti alimentano tale intreccio sottolineando il ruolo
dell’insurrezione di Varsavia del novembre 1830 e dei rifugiati politici polacchi
nella marcia verso occidente di un morbo che il clero ritrae come punizione
divina contro l’empietà religiosa e politica di una popolazione che l’anno prima
si era spinta fino al saccheggio dell’arcivescovato. Esplicite affermazioni
sull’esistenza di un legame fra la malattia e le passioni rivoluzionarie del
popolo si uniscono così a quelle che la associano alle sue forme di vita,
comportamenti, attitudini, in un discorso sull’epidemia che appare sempre più
senza soluzione di continuità al tempo stesso medico, biologico, sociale e
politico. Tesi che trovano cittadinanza nell’ambito stesso di un sapere medico
che, intento a cercare soluzioni per un male in gran parte ancora oscuro,
annovera fra le possibili sue determinanti le «emozioni violente», le «passioni
dell’anima», e quindi anche le pulsioni rivoluzionarie, i disordini politici. «Non
c’è nulla di più favorevole alla diffusione e sviluppo dell’epidemia – scrive il
medico chirurgo de Frayssinet – che lo stato di esaltazione che prevale nelle
popolazioni soggette agli eccessi politici […]. Il ritorno del colera fra la
popolazione di Parigi dopo gli eventi di giugno è un cupo esempio di questa
triste verità»:178 l’insurrezione interviene dunque a fornire nuovi argomenti a
tali congetture mediche.
Oltre al capo governo, di colera muore anche un uomo simbolo
dell’opposizione, il generale Lamarque: i repubblicani scelgono i suoi funerali
per scatenare la grande sommossa del 5 e 6 giugno.179 «Non credo – scrive
Henri Heine – si sia combattuto più coraggiosamente alle Termopili che
all’entrata delle piccole vie Saint-Merri e Aubry-le-Boucher […] I pochi che
non soccombettero non domandarono la grazia […] corsero, il petto scoperto,
177 Société des amis du peuple, De la civilisation Auguste Mie, Paris 1832, p. 4. 178 J-A. Delpech de Frayssinet, Mémoire sur le choléra-morbus, pour servir à l'histoire de cette maladie sur le territoire français, Pitrat, Lyon 1833, pp. 167-169. 179 Cfr. anche supra § 4.2.
409
davanti ai loro nemici e si fecero fucilare»:180 scintilla e fattezze di questa
insurrezione rendono assai difficile non scorgervi traiettorie di continuità diretta
con l’esperienza del colera, non ritrovare nella sua genesi, forme ragioni – in
filigrana dietro motivazioni e proclami repubblicani – l’azione di antagonismi
preesistenti nello spazio urbano che l’epidemia ha contribuito a esasperare. «È
chiaro in effetti che il colera ha giocato il suo ruolo nella battaglia», conclude
Lucas-Dubreton,181 è «la morbosità della città popolare – scrive Rancière – che
fa circolare alla stessa velocità i miasmi del colera e quelli dell’insurrezione».182
Insorti e soldati cadono nelle stesse vie ove due mesi prima il colera aveva
colpito con più violenza, nell’accanimento della lotta, nello sprezzo del pericolo
e della vita, nel rancore che manifestano tanto i rivoltosi quanto le divisioni
borghesi della guardia nazionale che li combattono con spietata tenacia, nel
sentimento di paura che di nuovo assale la capitale, si riflettono le immagini e
l’esperienza della malattia. «La sommossa di giugno, verificatasi subito dopo
l’epidemia, altro non è, sotto ogni aspetto, che la continuazione politica di una
medesima crisi», afferma Louis Chevalier: «il terremoto politico è sempre la
pura e semplice somma di una serie di scossoni di altra natura […]. Il colera
evidenzia le basi biologiche di certi antagonismi religiosi o sociali di cui la
storia tradizionale si limita a descrivere gli aspetti ideologici». Provocando una
nuova e più vivida consapevolezza della disuguaglianza sociale, il colera è
esperienza di un’ingiustizia fondamentale e di una profonda fraternità popolare:
«come ha potuto la storia sociale tradizionale, così attenta a evidenziare in
questi anni i primi segni della coscienza di classe, ignorare l’indubbia influenza
esercitata dalla mortalità da colera?». 183 In effetti solamente quando il
proletariato parigino sarà stato decimato dalla malattia e il ciclo economico
potrà riprendere fiato, gli antagonismi, per così dire, «biologici» cedono il passo
a quelli economici e politici con la grande ondata di scioperi del 1833.
180 Heine, De la France cit., p. 217. 181 Dubreton, La grande peur de 1832, p. 231. 182 Rancière, La Nuit des prolétaires cit., p. 83. 183 Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose cit., pp. 18-21: «il colera non solo restituisce alla rivolta politica quelle molteplici forme di cui in altri momenti quasi non ci si avvede […] ma conferisce inoltre a tale rivolta la sua profonda unità cronologica».
410
Da questo punto di vista allora l’espressione classi pericolose – utilizzata da
Chevalier per indicare l’universo della criminalità urbana, inizialmente
prossimo e promiscuo, e poi progressivamente distinto rispetto a quello delle
«classi lavoratrici» – pare assumere un significato che va ben oltre il
riferimento alla dimensione della delinquenza, e può essere invece chiamata a
rappresentare la percezione di un pericolo più vasto, il quale – prima ancora che
a determinanti sociali e attitudini criminali – farebbe riferimento al minaccioso
intreccio di elementi medico-biologici e politico-tumultuanti che emergono
sempre più come una sorta di caratteristica oggettiva degli strati popolari
urbani. Della nuova specie umana che ha rapidamente occupato il cuore delle
grandi città e che si tratta perciò con urgenza di studiare, conoscere, classificare
per individuare i punti di innesto di pratiche in grado di ridurre il rischio
sociale, biologico e politico.
Dati questi elementi, per cercare di indagare alcuni nessi più specifici fra
l’avvenimento del colera e l’oggetto della presente indagine, vorrei ora svolgere
due ordini di considerazioni. Il primo ha a che fare con quanto detto nel
paragrafo precedente, e interroga il modo in cui nell’ordine del discorso politico
il dramma dell’epidemia chiama in causa la coppia concettuale
barbarie/civilizzazione. Il secondo introduce le considerazioni dei paragrafi
successivi osservando alcune possibili relazioni fra l’esperienza del colera e
l’emergere di quelle scienze sociali che fanno del pauperismo e della miseria il
proprio primo oggetto specifico, lavorando – questa è la mia tesi – a mettervi a
fuoco la figura e il profilo dell’operaio per istituirlo come campo di sapere-
potere in grado di mettere ordine in tale confusa nebulosa e nella pluralità di
questioni che essa mobilita. Si deve a tal fine fare un passo indietro e attardarsi
molto brevemente sul modo in cui la società parigina si preparava a
un’epidemia il cui arrivo era largamente annunciato.
Diversi studi erano in effetti stati promossi sul «viaggio asiatico» che il
colera aveva intrapreso a partire dall’India nel 1817-24, fermato probabilmente
411
dai rigori dell’inverno russo (prima pandemia),184 e poi di nuovo, a partire dal
1826, muovendo dalla valle del Gange e toccando presto Afghanistan e Persia.
Ispettori erano stati inviati in Russia, Polonia e Ungheria, ove l’epidemia era
giunta intorno al 1830 scatenando, anche qui, il tumulto di un popolo che si
credeva avvelenato dal cloruro somministratogli dalle autorità.185 Si ritiene che
siano state le truppe russe, in seguito alla battaglia contro gli insorti di Varsavia,
a veicolare poi il morbo verso Austria e Germania – ove il 14 novembre 1831
miete la sua vittima più eccellente, Friedrich Hegel – e poi ancora fino
all’Inghilterra (ma a Londra farà assai meno morti che nella capitale francese).
In luglio 1831 a Parigi vengono istituite quarantotto commissioni di quartiere,
dodici di arrondissement e una centrale: è importante notare che, su indicazione
di una commissione sanitaria che riunisce i grandi nomi della medicina, queste
si occupano soprattutto di «visitare» migliaia di abitazioni ritenute insalubri
(iniziativa che, sulla scia di istanze provenienti dal mondo della filantropia e
dall’igienismo, contribuisce a consolidare determinate pratiche e razionalità di
intervento sulla povertà).186 In marzo 1832 le autorità diffondono un’Instruction
Populaire su come prevenire il colera, che testimonia tutte le difficoltà a
definire il morbo, le sue cause, i suoi sintomi, sminuendone la portata («meno si
ha paura e meno si rischia»), proponendo generiche indicazioni di «pulizia»,
«sobrietà», «moderazione», e consigliando di evitare condizioni e
comportamenti cui gli strati popolari si trovavano in realtà costretti
dall’indigenza.187 «Prescrizioni assai sagge, senza dubbio, ma – sottolinea Louis
184 È la prima pandemia di colera, che fra 1817 e 1824 tocca l’Asia, l’Africa orientale e la Russia (si è soliti segnalare come essa colpisse violentemente anche le specie animali), cfr. C. Hamlin, Cholera, the Biography, Oxford University Press, Oxford 2009, N. Longmate, King Cholera: the Biography of a Disease, Hamish Hamilton, London 1966 e R. Pollitzer, Cholera, O.M.S., Genève 1960. 185 Cfr. R. Baehrel, La haine de classe en temps d’épidémie, in «Annales. Economies, Sociétés, Civilizations», VII, 1952, pp. 562-593. Questa seconda pandemia del «colera asiatico» muove dal Delta del Gange a partire dal 1826, tocca la Cina nel 1828 e la Persia nel 1829, Poi, nel 1831 Polonia, Ungheria, Prussia, Germania, Austria, e Inghilterra. 186 Cfr. infra § 4.6. 187 Instruction Populaire sur les principaux moyens a employer pour se garantir du Cholèra-Morbus, et sur la conduite à tenir lorsque cette maladie se declare, Paris 1832. Si raccomanda di non dormire in molti nella stessa stanza, indossare lana e non lasciare i piedi nudi, lavare i vestiti e fare spesso bagni caldi, evitare gli acolici e il vino di bassa qualità e i comportamenti libertini.
412
Blanc – derisorie per questa porzione del popolo a cui una civilizzazione iniqua
misura con tanta avarizia il pane, la dimora, i vestiti e il riposo».188 In realtà si
possono già riconoscere in questa Instruction le tracce di quella che sarà la
tendenza a istituire un legame diretto fra il diffondersi dell’epidemia e quelle
forme di vita urbana complessivamente rappresentate attraverso la metafora dei
nuovi barbari (ivi comprese le condotte morali, a pieno titolo rubricate fra le
possibili determinanti della malattia).189 Ma intanto «ciascuno continuava a
badare ai suoi affari, e le sale di spettacolo erano piene. […] Un brillante sole,
l’indifferenza della folla, il corso ordinario della vita che continuava ovunque,
davano a questi giorni di peste un carattere nuovo», scrive Chateuabriand:190 la
popolazione cittadina in effetti continuava incurante ad affollare teatri, caffé,
osterie e a celebrare il carnevale, finché improvvisamente, proprio a un ballo in
maschera, si assiste a un’ondata di repentini decessi. La verità, come sottolinea
Lucas-Dubreton, è che «in fondo i Parigini non credevano che il colera sarebbe
arrivato fino a loro, e i medici, molto prudentemente, lavorano a dargliene
fiducia».191 È importante analizzare gli argomenti che sostengono questa fiducia
nonostante l’inesorabile marcia della malattia: il più significativo fra questi
ruota intorno alla dicotomia barbarie/civilizzazione.
188 Blanc, Histoire de dix ans cit., p. 400. 189 Cfr., ad esempio, H. Boulay de la Meurthe, Histoire du choléra-morbus dans le quartier du Luxembourg, ou précis des travaux de la commission sanitaire et du bureau de secours de ce quartier, suivi de documens statistiques sur les ravages que la choléra y a exercés, Renouard, Paris 1832, ove si suggerisce che il colera «potrebbe scegliere» le sue prede fra coloro che hanno vissuto a lungo in modo insalubre o hanno condotto vite «moralmente squallide» (p. 116). 190 Chateaubriand, Mémoires d’outre-tombe cit., vol. V, p. 262. L’attitudine della popolazione, ma soprattutto dell’amministrazione, nei confronti dell’epidemia viene qui descritta come l’inesorabile segno dei tempi: «Se questo flagello fosse caduto fra noi in un secolo religioso, cosa si sarebbe diffuso nella poesia dei costumi e delle credenze popolari, avrebbe lasciato un quadro emozionante. […] Niente di tutto ciò: il colera ci è arrivato in un secolo di filantropia, di incredulità, di giornali, di amministrazione materiale. Questo flagello senza immaginazione non ha incontrato né vecchi chiostri né cripte né tombe gotiche; come il terrore nel 1793, ha passeggiato con aria beffarda al chiaro del giorno in un mondo tutto nuovo accompagnato dal suo bollettino che raccontava i rimedi che si erano impiegati contro di lui, il numero delle vittime che aveva fatto, dove era stato, la speranza che si aveva di vederlo finire, le precauzioni che si doveva prendere per mettersene al riparo, cosa si doveva mangiare, come era bene vestirsi» (ibid.). 191 Lucas-Dubreton, La grande peur de 1832, p. 38. La prima morte per colera si registra in effetti l’8 febbraio 1832, ma anche per la difficoltà di identificare con certezza il morbo, le autorità scelgono di tacere per non alimentare il clima di paura.
413
«La situazione topografica della Francia è così vantaggiosa che c’è poco da
temere in questo paese del colera […]. Oggi in nessun altro paese del globo
civilizzazione, industria e commercio hanno raggiunto un più alto grado di
perfezione […]. I lumi si sono diffusi così largamente in tutte le classi della
società che ognuno è ben consapevole delle precauzioni da prendere contro le
cause della malattia», scrive il medico militare Larrey in una memoria sul
colera del 1831.192 Si vede qui far giocare il motivo storico-politico della
civilisation sul discorso medico, al quale a sua volta l’epidemia contribuisce a
conferire piena cittadinanza nel dibattito politico e nell’analisi sociale. Prima
che il morbo varchi i confini nazionali, la popolazione francese viene
rassicurata da discorsi – attivati in particolare dai rapporti dell’Accademia
Reale di Medicina – che all’analisi dei tratti geografici, naturali e sociali del
paese focolare del morbo, l’India, e delle forme di vita dei popoli selvaggi della
valle del Gange, contrappongono le «superiori» caratteristiche della civiltà
occidentale: attraverso il concetto di milieu, si stabiliscono relazioni di causalità
diretta fra «salute» e «civilizzazione», la condizione topografica e climatica del
territorio francese unitamente alla cultura scientifica e ai costumi «evoluti»
vengono considerati un potentissimo argine al morbo.193 «Presso quale popolo –
domanda «La Gazette médicale» in novembre 1831 – il colera ha prodotto
devastazioni? Presso i Barbari o semi-barbari; ma siate certi che troverà nella
nostra avanzata civilizzazione un formidabile ostacolo. La civilizzazione,
vedete, è il mezzo migliore per combattere tutte le epidemie».194 Attribuendo al
colera la denominazione «asiatico», si sottolineava la sua provenienza da
regioni ove le asperità climatiche e morfologiche si univano a retrogradi regimi
dispotici e a forme di vita selvagge, contrapposte alla perfezione della
civilizzazione francese, ove le immagini delle epidemie apparivano quasi un 192 D. J. Larrey, Mémoire sur le Choléra-morbus, Huzard, Paris 1831, pp. 27-33, cit. in F. Delaporte, Disease and Civilization, The Cholera in Paris, 1832, introduzione di P. Rabinow, Massachusetts Institute of Technology, Cambridge-London 1986, pp. 1-2. 193 Cfr. ad esempio F. Dubois, Choléra morbus. Examen des conclusions du rapport de M. Double sur le choléra morbus (adoptées par l'Académie royale de médecine dans sa séance du 6 aout 1831), Billière, Paris 1831. 194 Cit. in A-P. Leca, Et le cholèra s’abattit sur Paris 1832, Albin Michel, Paris 1982, p. 77.
414
medievale anacronismo. Pensavamo – ricorda Charles de Rémusat – che queste grandi pesti di cui parlano gli storici non appartenessero che al Medioevo. Esse non potevano più penetrare in una società tanto avanzata: il nostro clima, la salubrità del nostro paese, i nostri regolamenti di police, i progressi della scienza ce ne avrebbero preservato. Come supporre che una città magnifica come Parigi sarebbe stata, come le città miserabili dell’Oriente, preda di un contagio indocinese?195
Così, quando il flagello invade Parigi si riattiva quasi spontaneamente,
naturalmente, quella torsione interna e metaforica del riferimento ai barbari già
operata in occasione dell’insurrezione lionese, e assume qui vivida chiarezza il
suo accostamento alla figura del selvaggio, ai barbari contemporanei dell’India
e dell’Oriente, che riscrive – con l’immediata evidenza del morbo – sul terreno
biologico (e non più solo etnico-linguistico) della razza i riferimenti a
comportamenti e forme di vita della popolazione parigina. Dopo le prime
agitazioni provocate dal colera, Guizot afferma che la civilizzazione riposa su
un abisso di barbarie, e racconta che di fronte a queste «deplorabili scene di
credulità feroce», il capo del governo Périer affermava: «non è il pensiero di un
popolo civilizzato, è il grido di un popolo selvaggio».196 L’epidemia diviene
così il punto di articolazione del parallelo fra la miseria urbana e la condizione
delle popolazioni selvagge svolto attraverso l’immagine di una barbarie che non
fa più riferimento a categorie storico-politiche, ma biologico-razziali. Regimi
discorsivi cui in qualche modo aderisce anche il veemente opuscolo sul colera –
De la Civilisation – della Société des Amis du Peuple, che accusa di «barbarie»
governo e borghesia, colpevoli di lasciare con indifferenza divorare il popolo
dal morbo orientale: «siamo a Costantinopoli, o siamo a Parigi? […]
L’ammirabile popolo di Parigi, che resiste eroicamente al colera della miseria
[…] non è fatto per servire da pasto al Colera d’Asia, e morire del male degli
195 Rémusat, Mémoires de ma vie cit., tome II, p. 556: «dal 22 marzo una triste e crudele smentita era stata data alla sicurezza e all’orgoglio della nostra civilizzazione». 196 F. Guizot, Mémoires pour servir a l’histoire de mon temps, Lévy, Paris 1859 (altrove ho citato l’altra edizione, antologica, che non riporta questo capitolo), tome II, cap. XIII, p. 314.
415
schiavi» 197 (argomenti ricorrenti anche nelle brochures sansimoniane che
invitano il governo a fare dell’epidemia l’occasione per dare un decisivo
impulso allo sviluppo e razionalizzazione della società).198
L’epidemia di colera mostra dunque in maniera vivida la traiettoria su cui il
motivo storico dei barbari viene ora riattivato in forma di metafora atta a
designare gli insorti lionesi così come le forme di vita di alcuni segmenti delle
popolazioni urbane, attraverso uno spostamento sul terreno biologico, razziale,
svolto per il tramite del riferimento alle popolazioni «selvagge» di India, Africa
o Nordamerica. L’epidemia attiva strategie discorsive clamorosamente simili a
quelle osservate riguardo alla révolte des canuts e ai disordini di cui al secondo
paragrafo, malattia e sommossa appaiono così come due forme di un medesimo
rischio, di un medesimo «contagio», le cui descrizioni sociali vedono l’alleanza
fra vocabolario scientifico, medico e morale. Se all’indomani della rivolta
lionese, «Le Temps» metteva in guardia affermando che «i movimenti degli
operai sono contagiosi»,199 durante l’epidemia Armand Carrel polemizza ancora
con il «Journal des débats» denunciando «questa maniera di comprendere la
società […] trasposta dagli avvenimenti di Lione alle circostanze della terribile
malattia che sconvolge Parigi»,200 e rappresentata dal riferimento ai barbari.
Colera e insurrezione, miseria e malattia, epidemia e tumulto: è come se si
trattasse dei due differenti volti di una medesima «malattia sociale», di uno
stesso contagio con la barbarie. Contagio con i popoli barbari della valle del
Gange e contagio con i migranti interni dei sobborghi operai, considerati in
qualche modo portatori biologici e morali della malattia. «Le classi lavoratrici
stavano alle classi privilegiate come l’India alla Francia. In seno alla società
francese il proletariato costituiva un’altra razza – una razza singolarmente
197 Société des Amis du Peuple, De la Civilisation cit., p. 4. Le osservazioni di Raspail sul tema sono raccolte in F. V. Raspail, Extrait des ouvrages de F.-V. Raspail. Choléra, impr. de R. Sézanne, Lyon 1854. 198 Cfr. M. Chevalier, Religion saint-simonienne. Le choléra morbus, Éverat, Paris 1832 e S. Flachat, Religion saint-simonienne. Le choléra. Assainissement de Paris, Éverat, Paris 1832. 199 «Le Temps», 26 novembre 1831. 200 «Le National», 15 aprile 1832.
416
vulnerabile», scrive François Delaporte.201 La rilevanza delle rappresentazioni
del sociale attraverso le metafore mediche della malattia denunciano una
specifica concezione della società (in cui tumulti e insurrezioni popolari
vengono compiutamente assimilati a un morbo nel corpo sociale), ma
esprimono allo stesso tempo una diversa consapevolezza e volontà di attivare
nuove strategie di immunizzazione, tutela e assicurazione per fare i conti con
quella minaccia di cui malattia, miseria e tumulti rappresentano solo differenti
momenti. È su queste strategie che vorrei ora soffermarmi indagando i possibili
nessi fra l’epidemia del 1832 e il lavoro che le scienze sociali si apprestano a
svolgere sulla miseria degli operai.
Algido, blu, asfittico, passivo, asiatico, spasmodico, tifoide, contagioso,
infiammatorio, epidemico, astenico: in maniera non dissimile dalla questione
sociale, anche il colera emerge come un oggetto proteiforme e nebuloso che i
medici fanno fatica a identificare e definire specificamente in quanto
«malattia»: di fronte ad esso si confrontano allora diverse «pratiche mediche»
che chiamano sempre direttamente in causa considerazioni di ordine sociale e
politico.202 L’ampio ricorso a metafore mediche per dare nome ai fenomeni di
tumulto e ad alcune forme di vita delle popolazioni urbane – virus che mettono
in discussione la salute dell’intero «corpo» sociale minacciandolo di morte –
testimoniano già di una cittadinanza del sapere medico nell’ordine del discorso
politico e nell’interpretazione della società – un tutto organico suscettibile di
malattia come l’organismo umano – che il colera non fa che rafforzare. Il
pauperismo emerge in questi anni come il primo oggetto specifico delle
nascenti scienze sociali, e l’epidemia del 1832 fornisce un impulso decisivo allo
201 Questo studio di Delaporte sul colera del 1832 titola, significativamente, Disease and (cit., p. 12, il libro, pubblicato in prima battuta in America, uscirà poi in una versione largamente rivista anche in Francia con il titolo Le savoir de la maladie, essai sur le choléra de 1832 à Paris, Presses universitaires de France, Paris 1990). 202 Sanguisughe, carbone, acqua fredda, punch, oppio: i dibattiti medici sulle «cure» adatte alla malattia riflettono l’estrema confusione sul tema, che fa oggetto di numerose rappresentazioni satiriche, sulle quali, e sulle altre immagini del colera cfr. P. Bourdelais, A. Dodin, Visages du Cholèra, Belin, Paris 1987, e P. Bourdelais, J-Y. Raulot, Une peur bleue. Histoire du choléra en France 1832-1854, Payot, Paris 1987.
417
sviluppo di queste ultime, contribuendo a formarne il quadro epistemologico
sotto l’egida di un sapere medico-igienista. Orientando in una prospettiva
medica l’analisi della povertà, che si rivolge ora all’osservazione della
«condizione fisica e morale» degli indigenti, il colera contribuisce ad affermare
con inedita evidenza che il potere politico deve essere chiamato a mantenere e
tutelare l’esistenza stessa della società facendosi carico di alcune condizioni di
vita di popolazioni urbane che devono dunque essere osservate e studiate con
più attenzione. Al centro del dibattito pubblico emergono figure come il
patologo François Broussais, medico del capo del governo che promuove
durante l’epidemia lezioni pubbliche sulle sue discusse teorie di fisiologia tese a
identificare l’origine del colera in un’infiammazione dell’intestino, su cui si
tratta di intervenire solo con mezzi esterni come il ghiaccio e, soprattutto, le
sanguisughe. Sostenitore delle posizioni anticontagioniste, le sue tesi
sull’identità di fisiologico e patologico, saranno in parte riprese da Auguste
Comte, Claude Bernard e nell’ambito della frenologia. E poi, su tutti, Louis-
René Villermé, il capo di quel «partito dell’igiene»203 che, nello studio dei mali
e delle cure alle «patologie» urbane e industriali, propone un terreno di incontro
diretto fra sapere scientifico ed elaborazione delle iniziative amministrative:
«l’igiene pubblica […] è l’arte di conservare la salute agli uomini riuniti in
società», e deve perciò istituire un’«associazione» con la filosofia e la
legislazione.204 Fondate nel 1828, le Annales d’hygiene publique lavorano a
sviluppare e promuovere questa alleanza fra medico e politico nello sviluppo di
nuove strategie di immunizzazione dal rischio sociale: «la tendenza medica è il
complemento necessario alla tendenza industriale, perché l’influenza che
quest’ultima ha dovuto esercitare sulla salubrità è fuori dubbio, nel senso che
essa ha dovuto moltiplicare il numero dei pericoli a cui le popolazioni
manifatturiere sono in generale molto più esposte dei popoli agricoli».205 Come
203 Cfr. W. Coleman, Death Is a Social Disease: Public Health and Political Economy in Early Industrial France, University of Wisconsin Press, Madison 1982, pp. 292 sgg. 204 L. R. Villermé, De la mortalité dans les divers quartiers de la ville de Paris, in «Annales d’hygiène publique et de médicine légale», III, 1830, p. 294: «le mancanze e i crimini sono delle malattie della Società che bisogna lavorare a guarire». 205 Annales d’hygene publique et de médicine légale, preambolo al tome I, 1828.
418
sottolinea Giovanna Procacci, l’igienismo contribuisce a fare della medicina
una scienza sociale «elaborando un approccio fisiologico allo studio della
società centrato sulla patologia sociale», assumendo quest’ultima come il
negativo in grado di fornire le informazioni indispensabili che costituiscono il
positivo della norma.206 Ciò che qui interessa sottolineare in modo specifico è
l’itinerario di ricerca intrapreso da Villermé, che, anche in forza dei lavori
precedentemente svolti – una pionieristica indagine sulle condizioni di salubrità
delle carceri francesi e uno studio sul rapporto fra la mortalità e le condizioni di
vita delle differenti classi sociali –,207 assume con l’epidemia un ancor più
significativo rilievo nella discussione pubblica (sul tema scrive due importanti
memorie nel 1833-34):208 è in seguito al colera che Villermé si immerge nel
decennale lavoro di inchiesta teso a redigere il celebre tableau della
«condizione fisica e morale degli operai». La scelta di questo nuovo oggetto mi
pare alludere efficacemente a un più generale lavoro di focalizzazione,
chiarimento e definizione della questione sociale che si va concentrando intorno
all’indagine della figura specificamente operaia. Un processo di messa a fuoco
(su cui mi soffermerò nell’ultimo paragrafo e che pare registrare nel tornante
1831-32 – nell’intersezione fra le poliformi escrescenze dell’insubordinazione
urbana e l’esperienza dell’epidemia – uno punto di svolta decisivo) che non si
limita, a mio avviso, a rispondere semplicemente all’oggettiva evidenza dei
fatti, ma può testimoniare di una specifica strategia di intervento sulla questione
206 Procacci, Governare la povertà cit., pp. 156-157. E facendo dello «spazio sociale» di trasmissione dell’epidemia lo snodo nevralgico dell’intervento di «una medicina che, per le sue basi empiriche e metodologiche, aspira a diventare una scienza sociale» (p. 156). 207 L. R. Villermé, Des prisons telles qu'elles sont et telles qu'elles devraient être, par rapport à l'hygiène, à la morale et à la morale politique, Méquignon-Marvis, Paris 1820, Id., Mémoires sur la mortalité en France, dans la classe aisée et dan la classe indigente, in «Mémoire de l’Académie royale de Médicine», I, 1828, e Id., De la mortalité dans les divers quartiers de la ville de Paris, in «Annales d’hygiène publique et de médicine légale», III, 1830. La prima inchiesta sulle prigioni domandava riforme umanitarie e igieniche e gli vale nel 1823 la nomina all’Accademia di medicina (nel 1829 scrive un secondo mémiore in cui constata l'alta mortalità dei cacerati, Note sur la mortalité parmi les forçats du bagne). Villermé (1782-1863) fu probabilmente il primo ad applicare i documenti della statistica alle questioni di igiene. 208 L. R. Villermé, Des épidémies sous le rapports de l’hygiène publique, de la statistique médicale et de l’économie politique, in «Annales d’hygiène publique et de médicine légale», IX, 1833, e Id., Note sur le ravage de cholèra a Paris, in «Annales d’hygene publique et de médicine légale», XI, 1834.
419
sociale che punta a fare della soggettività operaia un dispositivo di governo
delle molteplici forme del disordine urbano, e che trova la sua forza proprio
nella possibilità di saldarsi e utilizzare alcuni elementi dell’emergente discorso
della classe operaia.
Lo sforzo di elaborare una «teoria del colera» apre una veemente disputa
medica che senza soluzione di continuità interviene nell’ordine del discorso
politico. Da una parte vi sono coloro che individuano la causa del morbo in
germi specifici di cui si tratta di impedire il contagio, e che perciò propongono
«misure sanitarie», come la quarantena, tese a contenere la diffusione della
malattia isolando i malati e segmentando la popolazione urbana come nelle
grandi epidemie del passato. Dall’altra, gli «anticontagionisti» che, sull’onda
delle tesi igieniste, identificano cause fisiologiche legate a contesti dati ove
proliferano miasmi, e sostengono dunque «misure di salubrità» tese al
miglioramento degli ambienti malsani, delle «condizioni di vita» nei milieu
urbani ove l’infezione colerica rischia di svilupparsi. Malattia contagiosa o
infezione? Questo dibattito medico pare immediatamente rappresentare e
tradurre differenti prospettive politiche sulle classi popolari, fra chi ne
proponeva il miglioramento delle condizioni, e i sostenitori di misure che ne
riproducevano la marginalizzazione (si è già richiamata la discussione sulle
fortificazioni di Parigi).209 Ma il sostanziale fallimento del sapere medico di
fronte alla malattia, spinge l’amministrazione a forzare verso nuove direzioni di
indagine in grado di suggerire forme di intervento sull’ambiente urbano – inteso
come insieme di elementi naturali, sociali e artificiali attraverso – attraverso
dispositivi di sicurezza che sappiano far fronte alla possibilità del ritorno del
morbo riducendone le conseguenze devastanti sulla popolazione. Il trauma del
colera induce così la prima inchiesta pubblica ufficiale della storia di Francia, il
Rapport sur la marche et les effets du cholèra morbus, commissionato dalla
209 Cfr. R. Le Mée, Le choléra et la question des logements insalubres à Paris (1832-1849), in «Population», 1/2, 1998, pp. 379-397 (l’articolo istituisce un confronto fra l’epidemia del 1832 e quella del 1849). «In realtà la ragione politica ha nutrito questo confronto, di cui l’essenziale risiedeva, al di là dei principi securitari in gioco (isolamento, quarantena, e cordone sanitario per gli uni, o neutralizzazione dei focolari di infezione per gli altri), nella libertà degli scambi commerciali», pp. 395-396.
420
prefettura della Senna, firmato da Benoist de Châteauneuf ma redatto sulla base
del lavoro di una commissione cui partecipano tutti i grandi nomi della statistica
e della medicina, figure nascenti di esperti della ricerca sociale come Parent-
Duchatelet, Villermé, Villot eccetera.210 «I poveri morivano più dei ricchi»: il
rapporto insiste e ribadisce questa constatazione, forse banale ai nostri occhi,
ma portatrice allora di importanti conseguenze dal punto di vista del rapporto
fra indagine sociale e iniziativa pubblica. «Nel saturare lo spazio sociale –
scrivono Procacci e Szakolczai in La scoperta della società –, l’epidemia ne
rivelava la non neutralità: la selettività sociale dell'epidemia, che colpiva
soprattutto i più poveri, rendeva consapevoli che nello spazio sociale si
potevano creare, o meno, le condizioni di un ordine».211 Basato su un lavoro di
ispezione di centinaia di proprietà e abitazioni teso a costruire una vera e
propria «geografia» dell’epidemia, constatando ed evidenziando le profonde
diseguaglianze sociali di fronte alla morte che coincidono e riflettono quelle in
vita, induce una differente consapevolezza delle possibili conseguenze di tali
disuguaglianze e della necessità dell’amministrazione di farsene carico.212 Il
massiccio impiego della statistica contribuisce poi ad accostare le scienze
umane a quelle naturali, fornendo uno «sguardo scientifico» all’indagine sociale
che ne rafforza il carattere normativo. Il dramma della miseria, la questione
210 L-F. Benoist de Châteauneuf, Rapport sur la marche et les effets du cholèra morbus dans Paris et les communes rurales du département de la Seine, Imprimerie royale, Paris 1834. In due soli mesi la sola Commissione del Lussemburgo ispeziona 924 proprietà, il rapporto finale consta di oltre 400 pagine. Sempre sul tema delle inchieste pubbliche ufficiali si deve poi ricordare che nel 1837 il prefetto Gasparin ordina un importante Rapport au roi sur les hopitaux, ls hospices et les services de beinfaisance. Del 1832 è anche il primo tomo della Statistique géneral de la France. Nell’ambito delle grandi inchieste pubbliche si deve poi ricordare che nel 1848 la Camera di commercio di Parigi pubblica l’importante rapporto Statistique de l'industrie à Paris résultant de l'enquête faite par la Chambre de commerce pour les années 1847-1848 (sulla genesi e l’utilizzo che è stato fatto di questa fonte cfr. J. W. Scott, A Statistical Representation of Work: La Statistique de l'Industrie a Paris, 1847-1848, in Id. Gender and the Politics of History, Columbia University Press, New York 1988). Nell’ambito della produzione e pubblicazione di statistiche pubbliche ufficiali si deve invece notare che: quelle demografiche appaiono a partire dal 1821, e nel 1827, sulla spinta di Guerry de Champneuf, erano stati pubblicati i numeri della giustizia criminale sui delitti e suicidi, la prima statistica industriale è del 1839, ma praticamente si limita a enumerare gli stabilimenti. 211 G. Procacci, A. Szakolczai, La scoperta della società. Alle origini della sociologia, Carocci, Roma 2003, p. 68. 212 Calzolai, mercanti di legumi, portieri, straccivendoli, arrotini, muratori sembrano i profili professionali più colpiti dall’epidemia.
421
sociale, le «condizioni di vita» dei ceti subalterni emergono allora come un
problema che non ha più a che fare solo con beneficenza, filantropia e carità,
ma riguardano la tenuta medesima dell’ordine sociale, la vita stessa della
società. L’avvenimento del 1832 «dispone il quadro per una nuova
interpretazione delle condizioni sociali […] apre la via per nuovi discorsi
scientifici, nuove pratiche amministrative, e nuove concezioni dell’ordine
sociale», sostiene Paul Rabinow.213 Esso «segna uno spartiacque storico: il
momento in cui la necessità di importare nelle classi sfruttate un apparato
sanitario forgiato dalla e per la borghesia diventa evidente»,214 scrive Delaporte
nel testo scritto a partire dalla relazione presenta al seminario a margine del
corso tenuto da Foucault nel 1977-78 al Collège de France, ove il filosofo
francese si sofferma a lungo sul ruolo delle malattie nel conferire un ruolo
centrale alla nozione di rischio che organizza, a partire da diciottesimo secolo,
tutta una serie di nuove tecniche e tecnologie di «sicurezza».
4.5 Sovranità e società
È nota la riflessione proposta in tale corso e in quello dell’anno successivo –
in questa genealogia della governamentalità liberale – intorno al concetto di
società, alla sua emergenza in quanto «naturalità specifica dell’esistenza in
comune degli uomini». Il concetto di società emergerebbe secondo Foucault
come il correlato necessario dello Stato, che è chiamato a gestirla e assicurarla
nell’ambito delle nuove forme di governamentalità emerse nel momento in cui
l’economia politica rivendica la propria razionalità scientifica e 213 P. Rabinow, French Modern: Norms and Forms of the Social Environment, University Of Chicago Press 1995, p. 30. 214 Delaporte, Disease and civilization cit., pp. 199-200: «un apparato, inoltre, che rimaneva lo strumento dell’egemonia borghese». Delaporte sottolinea inoltre che «nel 1832 le tre funzioni di salute, legge e ordine, e accumulazione economica erano così strettamente legate che tutte e tre influenzano l’elaborazione di ogni singola parte della legislazione di salute pubblica. In altre parole, la legislazione sanitaria ha obiettivi che si estendono al di là della salute in sé» (p. 66).
422
l’amministrazione è chiamata a prendere in carico la «popolazione» nella sua
naturalità.215 Non dunque l’idea filosofica di una realtà, originaria e immediata,
separata e distinta dallo Stato che ne costituisce il limite invalicabile in quanto
spazio di autonomia dei soggetti e delle loro libere relazioni, costante storico-
naturale che funge da opposizione alle istituzioni politiche, ma piuttosto «realtà
transazionale» – oggetto storico transitorio – e ambito di riferimento proprio,
correlato necessario di quella tecnologia governamentale moderna che prende il
nome di liberalismo.216 «Concetto specifico […] per pensare l’indicizzazione
del diritto sulle dinamiche dello scambio», scrive – analizzando questo lavoro
di «dissoluzione progressiva dell’ultimo universale storico» che trova il punto
di massima caduta nell’analisi dell’ordoliberalismo tedesco – Sandro
Chignola,217 che ha proposto un contributo alla storia di tale concetto lungo un
importante segmento del pensiero ottocentesco mostrandone la «costruzione» in
quanto campo specifico di relazioni intermedie fra individuo e Stato.218 A
partire dalle indicazioni e suggestioni foucaultiane, diversi studiosi hanno
osservato il campo di riflessioni e pratiche attraverso cui il «sociale» è stato
astratto in quanto oggetto di saperi e di politiche, spazio intermedio fra
l’economico e il giuridico in grado di fornire una razionalità di governo dei
problemi legati alla diseguaglianza nella società liberale dell’uguaglianza civile.
Si è già richiamata la ricerca di Giovanna Procacci volta a indagare le
razionalità politiche entro cui la povertà è divenuta oggetto di specifiche
tecniche di governo tese a intervenire sul campo di tensione che essa portava
alla luce all’interno della teoria liberale fra le sue basi egualitarie e la necessità
215 M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France 1977-1978; trad.it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 254-262. Tali processi si sarebbero andati determinando nel corso del XVIII secolo, e Foucault sottolinea il loro rilievo nello sviluppo delle varie «escatologie rivoluzionarie» della società civile che punteranno a riassorbire in quest’ultima il potere dello Stato. 216 M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, trad. it. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 241 sgg. 217 S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France 1977-1979, Ombre corte, Verona 2006, p. 60. Chignola parla in proposito di «un autentico salto oltre le moderne categorie del Politico» (p. 11). 218 Chignola, Fragile cristallo cit.
423
fondare un ordine gerarchico delle diseguaglianze sociali: il sociale emerge
allora come una «strategia di depoliticizzazione delle diseguaglianze (rispetto
alla ricchezza e rispetto all’autorità) che attraversano la società di eguali».219
Jacques Donzelot ha ripercorso differenti modalità attraverso le quali la
famiglia – al tempo stesso «regina» e «prigioniera» del sociale – è stata
cooptata all’interno di una serie di dispositivi di police tesi a attivare una
«relazione circolare di sorveglianza» fra i diversi suoi membri, facendo della
«moglie» lo «strumento privilegiato di moralizzazione della classe operaia». 220
Ed ha poi interpretato l’«invenzione del sociale» come l’emergere di un registro
intermedio fra il civile e il politico in grado di ridurre le passioni politiche in
seguito alla delusione quarantottesca delle aspettative salvifiche affidate alla
repubblica, rivelatasi invece incapace di curare la questione sociale. 221
L’indagine del modo in cui le nozioni giuridiche di rischio, responsabilità e
assicurazione sono venute progressivamente – sotto la spinta della società
industriale del lavoro, in particolare intorno al problema degli infortuni – a
innestarsi e agire sulla teoria politica liberale, è poi la prospettiva attraverso cui
François Ewald ha ripercorso la genesi del moderno Stato sociale osservando
l’emergenza e oggettivazione della «società» come spazio in cui la nozione di
solidarietà consente di dispiegare forme di socializzazione del rischio e
tecnologie assicurative a partire dall’applicazione del calcolo delle probabilità
al governo del corpo sociale.222
Questo complesso, plurale e tuttora aperto campo di riflessioni e
problematiche trova un riferimento indispensabile nel periodo 1830-48, vero e
proprio laboratorio governamentalizzazione del politico teso a attivare il
219 Procacci, Governare la povertà cit., pp. 22-26. Il problema della povertà rappresenterebbe «la società che emerge, con le sue leggi, non meno vincolanti di quelle economiche, che l'azione politica non può ignorare» (p. 14). «Bisogna riuscire a distaccare l'analisi del politico dal tema giuridico della sovranità come da quello, istituzionale, dello stato, per riferirla piuttosto all'idea di un governo inteso come direzione delle condotte», creando una spazio comune alla figura giuridica del cittadini e a quella dell’homo oeconomicus. La genealogia del sociale «porta alla luce una strategia di depoliticizzazione dei conflitti a lui legati, capace però di porre a sua volta realtà politica nuova» (pp. 22-26). 220 J. Donzelot, La police des families, cit. 221 J. Donzelot, l'invention du social cit.. 222 Ewald, L’État providence cit., pp. 144-145.
424
rapporto fra Stato e individui su un terreno differente da quello giuridico della
sovranità, sviluppando saperi, tattiche strategie destinate però ad andare in
frantumi nel 1848 di fronte alle rivendicazioni di diritti sociali esigibili a partire
dalla condizione di lavoro. La politicità della questione sociale che tali strategie
di governo si erano sforzate di rimuovere, deborda al centro della scena
pubblica nel drammatico epilogo dell’insurrezione operaia di giugno. Credo che
proprio la capacità del discorso operaio di rivendicare la politicità della propria
condizione abbia contribuito a far sì che, nonostante la centralità assegnata alla
dimensione del lavoro, non si sia lavorato problematizzare in maniera specifica
il ruolo che può avere svolto − all’interno delle strategie e governo del sociale −
anche la produzione di una soggettività operaia (da prospettiva parzialmente
diversa lavora l’importante ricerca di Robert Castel sulle «metamorfosi del
salariato» svolta osservando le diverse cristallizzazioni della «questione
sociale» lungo quasi sette secoli di storia).223 È su questo tema che vorrei
avviarmi a concludere la presente indagine concentrandomi sugli sforzi di
messa a fuoco e oggettivazione della figura operaia svolti in particolare
nell’ambito dell’Accademia delle Scienze Morali e Politiche, ricostituita da
Guizot alla fine del 1832. Iniziativa che vorrei introdurre provando a ricostruire
la più generale razionalità politica liberale, le sue tensioni e trasformazioni, che
la orienta e in cui essa si colloca.
Da Benjamin Constant a Saint-Simon, da Royer-Collard a Chateaubriand, da
Mme de Stael a Comte a Guizot, è possibile riconoscere nella riflessione di
alcuni grandi autori di primissimo Ottocento la comune centralità di alcuni
temi, preoccupazioni e assunti specifici che vanno a costituire il nucleo di ciò
che sarà la peculiare versione francese del liberalismo politico. Si guarda
l’esperienza successiva a 1789 constatando che l’ordine politico vi è stato
assicurato solo al prezzo di regimi dispotici, e tutti gli eccessi vengono attribuiti
ai dogmi della volontà e della sovranità di diritto che, nell’artificiale
separazione dal movimento sociale, hanno condotto al Terrore e funzionato da 223 Castel, Les Métamorphoses de la question sociale cit.
425
matrice del dispotismo napoleonico. È Benjamin Constant a tracciare – a partire
da Les effets de la terreur del 1796 – il solco fondamentale di tale riflessione,
imputando i debordamenti rivoluzionari alla sconsiderata estensione del
concetto di sovranità alle classi non dotate di capacità politica e di interessi da
difendere, che consacrava il puro fatto del numero a criterio della vita
politica. 224 L’esperienza della Rivoluzione e quella napoleonica lo hanno
condotto a invocare una sfera individuale della libertà radicalmente
indisponibile al potere della sovranità, all’esorbitante ruolo che questa ha
condotto ad attribuire allo Stato fomentando l’odio verso la società. Il pensiero
liberale degli anni della Restaurazione è così segnato dalla doppia
preoccupazione di assumere – nella centralità della Charte – i principi di 1789
scongiurando il ritorno a una società organica di ordini, e di respingere, allo
stesso tempo, le prospettive costruttiviste del politico che istituiscono
l’artificiale separazione dalla società. Assumere 1789 significa dichiarare che la
Rivoluzione ha aperto un differente stato sociale del mondo (il termine è di
Tocqueville), un’epoca radicalmente nuova della politica europea, e articolare
perciò un progetto di governo di una libertà che produce individuazione,
spoliticizzazione e isolamento, e di un processo democratico considerato
tendenza irresistibile al livellamento delle differenze fra gli esseri umani.225
Liberarsi dal costruttivismo politico impone invece, contro Rousseau, di
pensare il legame sociale sotto una forma altra da quella del contratto, e istruire
il rapporto fra potere e società su un terreno differente da quello della sovranità,
liberando il politico dalla centralità della nozione di volontà e sottraendolo così
al dominio delle passioni.226 Come rileva efficacemente Maria Laura Lanzillo,
224 «È il numero che inquieta», scrive Pierre Rosanvallon: «in questa paura del numero si radicano tutte le evocazioni della decomposizione sociale. Immagine di una società inafferrabile, puro magma umano, totalmente serializzata. Visione della folla rivoluzionaria incontrollabile, della massa indistinta e imprevedibile, mostro senza viso e senza contorni, fondamentalmente irrappresentabile perché grado zero dell'organicità. Il numero, forza barbara e immorale che non può che distruggere. Si pensa di poter scongiurare questo spettro respingendo l'idea della sovranità del popolo, per finirla con l'oscillazione fra l'uno e l'informe, la tirannia personale o diffusa di cui essa è gravida», Rosanvallon, Le moment Guizot cit., pp. 76-77. 225 Chignola, Il tempo rovesciato cit., p. 14. 226 «Non esiste sovranità assoluta da nessuna parte; la libertà non deriva dal diritto
426
«l’utilizzo delle passioni ‘calde’ come strumento di governo che il Terrore
giacobino rivela, rimane nel corso del XIX secolo come una delle minacce […]
a cui le élites borghesi che, dopo la Rivoluzione, si trovano al governo della
società europea cercano di dare risposta».227 Chiudere la Rivoluzione non
rinnovandone gli errori, produrre uno scarto sostanziale rispetto alle teorie dei
philosophes del diciottesimo secolo obliterando definitivamente il codice
costituente di sovranità e volontà, governare razionalmente per mettere ordine,
organizzare un’analisi scientifica della società, rifondare il legame sociale nel
tempo nuovo aperto dalla Rivoluzione pensando un senso condiviso delle
gerarchie sociali attraverso una nuova morale pubblica e principi come quello
di capacità: questo dunque il campo di temi e questioni che permette di parlare
al singolare del liberalismo della Restaurazione, di fare riferimento, come
Rosanvallon, a un’«unità» o «comunità problematica». 228 Oppure, ancora,
all’«archivio della politica impura del liberalismo governamentale francese»,
con Sandro Chignola, che vi indica il luogo in cui è possibile ritrovare una
consapevolezza assai più vivida «rispetto a processi che disegnano il quadro di
una modernità postsovrana, di quanto sia dato rinvenire in molti classici della
filosofia»:229 così, in Guizot, il tema del governo configurerebbe un’«autentica
via di fuga dal circuito logico che la modernità politica sottende tra sovranità e
rappresentanza».230
politico, come si supponeva nel diciottesimo secolo», afferma Chateaubriand alla Camera all’indomani della rivoluzione di Luglio La «sovranità del popolo» viene qui definita «scempiaggine della antica scuola, che prova che, dal punto di vista politico, i nostri vecchi democratici non hanno fatto più progressi dei veterani della royauté» e si sostiene che la libertà «viene dal diritto naturale, ciò che fa sì che essa esista in tutte le forme di governo, e che una monarchia può essere libera e molto più libera di una repubblica» (discorso del 7 agosto 1830, in Archives parlamentaires, II serie, tome 63, pp. 85-87). E proprio Saint-Marc Girardin dedicherà nel 1848 un importante corso accademico alla critica sistematica delle teorie rousseaviane fomentatrici d’odio verso la società. 227 M. L. Lanzillo, Paura. Strategie di governo di una «strana passione», in «Filosofia politica», 1, 2010, p. 42. 228 Cfr. Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 45. 229 Chignola, Il tempo rovesciato cit., pp. 13-15: si parla qui di un «momento teorico-politico» del liberalismo francese della Restaurazione in grado quasi di anonimizzare i singoli autori e di attivare un «un dispositivo di argomentazione non assegnabile», ove «si innesca un profondo effetto di risonanza tra logiche e testi, tra aporie e punti di inceppo, tra interi blocchi di senso». 230 Chignola, Il tempo rovesciato cit., p. 76.
427
Proprio su questo terreno, intorno al concetto di governo e alla sua relazione
con la dimensione della società, l’esperienza dottrinaria produce uno scarto
rispetto al solco del liberalismo classico, che pensava una sorta di spazio vuoto
fra lo Stato e gli individui, ergendosi a difensore dell’autonomia di questi ultimi
rispetto alle pretese del potere politico. In tale solco Guizot si colloca nello
svolgere la propria critica verticale al concetto di sovranità, a cui dedica il suo
unico, mai pubblicato, scritto di filosofia politica, ove, come nel resto della sua
riflessione, denuncia i rischi di dispotismo insiti in ogni attribuzione in via
definitiva del potere politico e nell’inopinata estensione del principio di
sovranità di diritto.231 Essendo la sovranità per definizione unica e indivisibile,
la sua attribuzione di diritto a una figura individuale o collettiva induce – quale
che sia la forma di governo – la fondazione di un potere assoluto che reca germi
di dispotismo. 232 Alla sovranità popolare – così come al diritto divino – Guizot
contrappone pertanto il principio del governo rappresentativo, che deve
costantemente provare la propria legittimità e legittimazione, perché «non
attribuisce la sovranità di diritto a nessuno, tutti i poteri si agitano nel suo seno
per la scoperta e la pratica fedele della regola che deve presiedere la loro
azione».233 Ma la critica della dominazione e dell’«idolatria» politica celate nel
concetto di sovranità di diritto, non conduce i dottrinari alla concezione di un
potere politico da ridurre ai minimi termini, né al mero sostegno dei principi di
autoregolazione e autonomia della società civile. Rispetto al liberalismo
classico, l’esperienza dottrinaria marca allora una discontinuità che dal punto di
vista filosofico si esprime nel rifiuto dell’individualismo settecentesco,
dell’idea di un soggetto isolato e provvisto di diritti naturali che precede la
società, e da un punto di vista politico nello sforzo, teorico e pratico, di
iscrivere i principi liberali in iniziativa di governo: la vicenda del regime di 231 Guizot, De la souveraineté cit. 232 Guizot, scrive Claude Lefort, «è stato uno dei più sottili analisti della dominazione politica e dei fondamenti che essa trova nella credenza collettiva […] cerca di far uscire il giusto sentimento che si nasconde sotto l'illusione della sovranità di diritto: è che il potere non deve appartenere a nessuno», Libéralisme et démocratie, in S. Stuurman (réd.), Les libéralismes, la theorie politique et l'histoire, Amsterdam University Press, Amsterdam 1994, p. 12. 233 Guizot, Histoire du gouvernement représentatif cit., vol. I, p. 93.
428
Luglio segna in questo senso un vero spartiacque.234 Così, fra gli storici del
liberalismo francese, André Jardin parla di una sorta di eresia, di un
«liberalismo extra-muros»,235 Françoise Mélonio di un «liberalismo minimo»
per ciò che concerne la considerazione «dell’autonomia dell’individuo»,236 e
Pierre Manent indica in Guizot «l’autore che si è sforzato, nella maniera più
netta e più ampia, di sbarazzare il liberalismo dalle abitudini di opposizione che
lo trascinanvano e, per così dire, lo avvolgevano. Il liberalismo aveva vissuto di
opposizione; Guizot lo vuol rendere governante».237 Si è visto come – in Des
moyens de gouvernement et d’opposition – questo autore contesti al regime
della Restaurazione il suo timore, la sua diffidenza nei confronti della società,
che gli impedisce di trovarvi i propri mezzi di governo: 238 una critica
simmetrica vi si trova poi rivolta a quella tendenza astratta e accademica
dell’opposizione liberale a considerarsi rappresentante della società contro il
potere, intendendo quest’ultimo come terreno altrui, senza comprendere che «il
governo è il suo scopo necessario».239
«Il problema della politica era allora questo: creare un libéralisme
gouvernamental», scrive Charles de Rémusat ricordando la nascita del «partito»
dottrinario alla vigilia degli anni 1820.240 È intorno alla produzione di una
teoria del governo, e poi alla sua messa in opera, che i dottrinari articolano e
traducono la critica liberale al dispositivo concettuale sovranista. «Non ci sono
234 Si noti che il termine «orleanismo» è usato per designare l’inscrizione politica, di governo, della sensibilità liberale. 235 Un’eresia che modernizza la chiesa del liberalismo francese sforzandosi di «dare un’ossatura dogmatica all'empirismo del regime», Jardin, Histoire du liberalisme politique cit., p. 250. 236 F. Mélonio, Les libéraux français et leur histoire, in S. Stuurman (réd.), Les libéralismes, la theorie politique et l'histoire, Amsterdam University Press, Amsterdam 1994, p. 44. 237 P. Manent, Histoire intellectuelle du libéralisme. Dix leçons, Calman-Levy, Paris 1987, p. 202. «È una cultura politica imbricata in una pratica di governo che si deve afferrare, ciò che si chiama in Italia una ‘cultura di governo’», scrive Rosanvallon (Le moment Guizot cit., p. 266). 238 Cfr. supra Secondo capitolo § 2.6. 239 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition cit., p. 215: «non dite che non siete incaricati del governo. È vero che non l’avete oggi, ma pensate che chi lo ha oggi non lo deve conservare, se lo perdono bisognerà che qualcuno lo prenda. […] La politica non si nutre di critiche e di parole […] l’opposizione è tenuta ad avere un sistema e un avvenire». 240 Rémusat, Mémoires de ma vie cit., tome I, p. 324.
429
che governi», 241 scrive Guizot in un passaggio che restituisce un dato
fondamentale dell’intera sua biografia politica e intellettuale, e che sottolinea
ancora come la sua opera debba essere colta anche osservandone la «messa in
opera» nel governo della monarchia orleanista. È allora su alcuni elementi –
lasciati in ombra nel secondo capitolo – della concezione dottrinaria delle
nozioni di potere, governo e società che vado brevemente a soffermarmi, per
introdurre poi la loro «messa in opera» in alcune iniziative e pratiche di
governo attivate dal regime di Luglio che inducono effetti a mio avviso
significativi sulle problematiche al centro della presente indagine. Si tratta
ancora di mettere a fuoco determinanti e declinazioni di una specifica
razionalità liberale di governo della questione sociale che mira a mettervi
ordine e disattivarne le tensioni centrifughe e disgregatrici attraverso tutto un
lavoro vischioso di tutoraggio, indagine, classificazione, oggettivazione e
perimetrazione di identità e categorie all’interno del quale è possibile osservare
anche l’emergere di un soggetto operaio convocato ad agire come strumento di
disciplinamento e moralizzazione del variegato mondo della miseria. Società e governo, questi due fatti – afferma Guizot nel corso sulla storia del governo rappresentativo – si implicano l’un l’altro; non c’è società senza governo tanto quanto non c’è governo senza società. L’idea di società implica necessariamente l’idea di regola, di legge comune, vale a dire di governo. […] Questa coesistenza necessaria della società e del governo mostra l’assurdità dell’ipotesi del Contratto sociale. Rousseau pretende di mostrare gli uomini già riuniti in società, ma senza regola, e intenti a crearsene una, come se la società non presupponesse una regola che la faccia esistere. Se non v’è regola non ci può essere società; non vi sono che individui raggruppati e tenuti assieme dalla forza. Questa ipotesi di un contratto primitivo, sola fonte legittima della legge sociale, riposa dunque sull’ipotesi di un fatto necessariamente falso e impossibile. […] L’idea di società implica necessariamente un’altra idea, quella di governo; e l’idea di governo ne contiene necessariamente altre due, l’idea di una collezione di individui, e quella di un regola che è loro
241 Guizot, De la souveraineté cit., p. 327.
430
applicata.242
La critica del dispositivo sovranista disattiva il momento costituente del
contratto fra volontà esautorando tanto l’idea di un rapporto fondativo del
potere nei confronti della società quanto quella di una precedenza degli
individui rispetto a quest’ultima. Il legame morale di reciproco riconoscimento
attraverso una regola che la ragione consente di assumere insieme ai rapporti
che essa istituisce e riflette, stabilisce di fatto l’esistenza della società e la sua
coesistenza con il governo che di tale regola è espressione, in una relazione
continua di coimplicazione e interdipendenza che oblitera il momento e il ruolo
costituente della volontà. Come si è visto, tale regola rimanda a ciò che Guizot
chiama pouvoir social per indicare la legge che disciplina le attività individuali
nelle loro relazioni sociali e allo stesso tempo la potenza che fa rispettare questa
legge, che deve sussistere in permanenza affinchè si dia società.243 È l’autorità
paterna a fornire il paradigma di un potere la cui legittimità non è data da
un’attribuzione di diritto, ma dalla capacità di ragione necessaria a riconoscere
il suo diritto/dovere di tutela. Una ragione che non è legata, come in Kant o nei
philosophes, all’autonomia della volontà, ma all’evidenza della regola stessa,
che il corso della civilisation rende progressivamente intelligibile a un numero
sempre più vasto di individui, illustrando al tempo stesso la dinamica di un
potere che di volta in volta si concentra nelle istituzioni quando queste captano
e riflettono le necessità del sociale, ma viene poi riassorbito dalla società nei
momenti di più rapido suo sviluppo e mutamento. 244 Il potere politico altro non
è che uno dei molti poteri imbricati nel sociale, la cui estensione ed efficacia
può e deve variare secondo la sua capacità di aderire ed esprimere la
moltitudine dei poteri sociali, delle influenze e superiorità naturali che
242 Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif cit., vol. I, pp. 86-88. 243 Guizot, De la souveraineté cit., p. 358, questo potere deve tendenzialmente andare a coincidere con il governo stesso, inoltre «il progresso morale della società consiste nel rendere meno frequente l’intervento del potere sociale, nella misura in cui i poteri individuali, vale a dire la ragione e la volontà dei cittadini, si affinano e progrediscono» (ibid.). 244 «Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che [Guizot] è anzitutto e principalmente uno storico della società», sottolinea giustamente Pierre Macherey (Aux sources des rapports sociaux cit., p. 50).
431
organizzano la società e ne garantiscono l’esistenza. Il riconoscimento della
verità, della regola che legittima e fa agire tali superiorità e influenze istituisce
senza soluzione di continuità dal potere nella «più dolce delle società», la
famiglia, fino a quello dello Stato. È questa concezione sociale e, per così dire,
naturale del potere che consente di dismetterne l’assegnazione sovrana, di
liberarsi dall’utopia della fondazione, dalla problematica dell’«origine» del
politico, di produrre uno scarto sostanziale rispetto all’idea dell’ordine politico
come «artificio» che fonda la moderna distinzione fra Stato e società civile
disabilitando il rilievo e la pertinenza politica delle disuguaglianze naturali. La
società semplicemente esiste, prima degli individui, il potere «non fa la società,
la trova»:245 alle retoriche della sovranità, Guizot contrappone una pragmatica
del potere che abolisce la distanza fra Stato e società civile, e la funzione
«costitutiva» del potere politico nei confronti di quest’ultima: «di qui – scrive
Pierre Manent – egli rompe con tutta la tradizione della filosofia moderna».246
Si può dunque parlare, ancora con Sandro Chignola, di «un registro
sociologico che innesta la nozione di potere a tutti i circuiti d’azione in cui si
esprime la vocazione societaria dell’uomo»,247 e, utilizzando i termini di Pierre
Rosanvallon, di una concezione del potere in termini di flusso più che di
stock.248 «La potenza ha lasciato gli individui, le famiglie; è uscita dai focolari
che abitava un tempo; si è diffusa nella società tutta intera; vi circola
rapidamente, appena visibile in ogni luogo ma ovunque presente», scrive
Guizot nel 1822 spiegando come le grandi trasformazioni sociali sancite dalla
245 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition cit., p. 105. «Cos’è il potere? Quando lo si è nominato non si è detto niente; non risiede in una parola» (p. 43). 246 P. Manent, Histoire intellectuelle du libéralisme cit., p. 216: «la distinzione fra la società civile e lo Stato suppone il ruolo politico fondatore della volontà: perché lo Stato possa essere lo strumento della società, bisogna che abbia la sua fonte non nella natura – in questo caso sarebbe anch'egli naturale e la distinzione senza fondamento – ma nella sovranità della volontà, sola capace di dare esistenza a qualcosa che non ha la sua radice nella natura. Anche la critica radicale che Guizot indirizza alla divinizzazione moderna della volontà umana mette radicalmente in causa la distinzione tra la società civile e lo Stato». 247 Chignola, Il tempo rovesciato cit., p. 77: «la società produce la propria articolazione rappresentativa e, attraverso quest’ultima, il proprio ‘governo’» (p. 78). Chignola parla di un «codice autoriflessivo» in base a cui la società verifica la legittimità del governo e questo da parte sua riconosce i bisogni sociali, codice che disabilita «il quadro categoriale de pone fuori corso la nozione di volontà che agisce, per essa, da fondamento» (p. 82). 248 Rosanvallon, Le moment Guizot, pp. 57 e 234.
432
Rivoluzione abbiano reso del tutto inefficace ai i fini del governo comminare la
pena di morte a singoli avversari politici.249 La Rivoluzione, spezzando la
divisione organica della società, ha rotto l’autonomia del potere politico, che
non deriva più da diseguaglianze statuite giuridicamente, nè dal mero possesso
degli strumenti amministrativi. «Non si lotta contro i fatti sociali»:250 si deve
prendere atto che il potere politico non è più indipendente né distinto dal
sociale, e che pertanto i «veri mezzi di governo» risiedono ora in seno alla
società stessa: «è là che bisogna cercarli, è là anche che bisogna lasciarli per
servirsene».251 È la critica delle macchine politiche «esteriori», cui Guizot
oppone un’arte di governo in grado di «entrare dentro questa società che la
rivoluzione ci ha fatto; bisogna sondarla fino in fondo, percorrerla in tutti i
sensi», perché è solo la società che «possiede e produce essa stessa i suoi più
sicuri mezzi di governo; li presta volentieri a chi sa maneggiarli, ma è a lei che
bisogna rivolgersi per ottenerli. È vano pretendere di reggerla attraverso delle
forze esteriori alle sue, con delle macchine distese sulla sua superficie ma che
non hanno radici nelle sue viscere e non vi attingono il principio del loro
movimento».252 Il potere politico deve pertanto attivare una relazione costante
di interpenetrazione e autoriflessione con la società, mostrare a quest’ultima di
comprendere e assecondare i suoi bisogni, e così far sì che essa, riconoscendolo
come legittimo, si «rifletta» e «riassuma» in lui.253
Governo è allora il nome dell’incessante rapporto di comunicazione e
scambio fra società e potere politico che statuisce la legittimità di quest’ultimo:
esso appare come una relazione sociale, un dispositivo mobile di regolazione
dei flussi di potere. Rosanvallon parla di un «operatore sociale dinamico» che
svolge una «mediazione non separata»,254 perché costituisce direttamente in
249 Guizot, De la peine de mort en matière politique cit., p. 102. 250 Ivi, p. 114. 251 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition cit., p. 106: «Il potere è spesso preso da uno strano errore. Crede di bastare a se stesso, di avere la sua propria forza, la sua propria vita, non solamente distinte, ma indipendenti da quelle della società su cui si esercita». 252 Ivi, pp. 106-107. 253 «Quando la società crede questo capo legittimo, è in lui che viene a riassumersi e a manifestarsi la vita sociale», Ivi, p. 130. 254 Rosanvallon, Le moment Guizot, pp. 55 e 71.
433
potere politico le influenze e superiorità che attraversano il sociale senza
passare attraverso il filtro della sovranità e della rappresentanza, la quale viene
piuttosto a costituire – attraverso il principio di capacità – un momento
fondamentale del processo di riconoscimento e adattamento del potere politico
ai bisogni sociali, «codice autoriflessivo»255 agito anche dalla libera stampa e
dalla pubblicità dei dibattiti parlamentari e degli atti amministrativi. La
«missione» del governo è precisamente di «soddisfare i bisogni che trova nella
società ove si stabilisce, non solo i bisogni permanenti e universali di ogni
società, ma, anche e forse soprattutto, i bisogni speciali della sua epoca».256
Non più una teoria astratta del potere che ne elabora le condizioni generali di
esercizio in operazioni di ingegneria istituzionale, ma l’agire in situazione di un
governo in grado di cogliere e adattarsi alla contingenza ordinando i rapporti
sociali alla verità della «regola».257 «Quando dico governo comprendo sotto
questa parola i poteri di ogni genere che esistono nella società, dai poteri
domestici che non escono dalla famiglia, fino ai poteri pubblici che sono posti
alla testa dello Stato».258 Al codice costituente della sovranità di diritto subentra
il principio di una governamentalizzazione del potere che fa della società una
dimensione già immediatamente politica perché attraversata e organizzata dai
flussi di potere che la costituiscono e ne assicurano l’esistenza. La società è la
«forza generale» da cui viene la «forza» del governo, e «tutto lo richiama
incessantemente verso la società», di cui esso è «il rappresentante»: 259
espressione che mi pare debba essere pensata meno attraverso le categorie
255 Chignola, Il tempo rovesciato cit., p. 82. 256 Guizot, De la peine de mort en matière politique cit., p. 135. 257 Il potere legittimo, scrive Chignola, risulta così essere «un’incognita variabile perché va costantemente ricercato assumendo in situazione la mobilità dei fattori sociali e il loro far maturare diverse costellazioni di egemonia» (Il tempo rovesciato cit., pp. 84-85) 258 Guizot, Histoire de la civilisation en France cit., tome III, p. 272. 259 Guizot, De la peine de mort en matière politique cit., p. 143: «se siete in armonia con la società», essa tutta «si concentra e contempla in voi», ma «nessuna legge può salvare» il governo che se ne separa. È un punto su cui insiste l’atto di accusa al governo che l’ex presidente della Société des amis du Peuple Ulysse Trélat pronuncia nel processo di gennaio 1832 parlando delle agitazioni sociali a Parigi e Lione: «secondo noi, un governo che afferra bene le tendenze della sua epoca è facile, perché non deve che applicarle. Quello al contrario che disconosce e rompe i bisogni attuali si consuma in sforzi vani. […] Essendo ogni governo la testa della società, ci pare responsabile degli scarti che provoca, delle forze che perde» (Société des Amis du Peuple, Procés des Quinze pp. 107-108).
434
politiche che come vera e propria «rappresentazione» fisica, immagine
dell’isomorfismo a cui esso deve tendere rispetto alla fisionomia e ai bisogni
sociali reali. Governo e società «sono un solo e medesimo essere»:260 così
quando Guizot designa il primo come «il capo della società»,261 tale metafora
può essere compresa anche facendo riferimento all’immagine della testa nel
corpo umano, alla funzione di direzione che il cervello vi svolge poiché
possiede «l’intelligenza generale» dei bisogni del corpo umano così come il
governo legittimo di quelli del corpo sociale. A differenza di quanto vorrebbero
il materialismo del diciottesimo secolo e quei politici che pretendono di
governare «scomponendo la società» fra la dimensione delle opinioni e quella
degli interessi, esse sono «strettamente tessute insieme; una sorta di
suscettibilità nervosa le è comune e le unisce […] perché nel corpo sociale
come nel corpo umano, niente è insensibile e tutto si tiene».262 Ritroviamo
dunque – passando stavolta attraverso il lavoro di disabilitazione e messa fuori
corso delle categorie proprie al dispositivo concettuale sovranista – una
concezione e rappresentazione «fisiologica» della società, le condizioni del cui
ordine si cerca adesso di comprendere secondo un modo biologico e non più
meccanico.263 Il governo è allora chiamato a svolgere anche una funzione
260 Guizot, Du conseil d'état, in «Archives philosophiques, politiques et littéraires», tome 1, n. 3, settembre 1817, p. 278. Si tratta dunque di «costituire il governo attraverso la società e la società attraverso l’azione del governo» (ivi, tome 2, n. 6, dicembre 1817, p. 184, cit. in Rosanvallon, Le moment Guizot cit., pp. 41-42). 261 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition cit., p. 130. «È solo dal momento che lo stato morale e lo stato materiale della società sono in armonia, dal momento che, nel sistema del suo governo, essa vede le cause del suo benessere nello stesso tempo che essa ne gioisce […] è solamente allora che il potere può promettersi vigore e sicurezza» (p. 86). 262 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition cit., p. 112. 263 Rosanvallon parla della «costituzione di una vita propria del sociale» in grado di affermare una «forma inedita del legame sociale» nella società degli eguali post-rivoluzionaria, (Le moment Guizot cit., pp. 40 e 39). «Concependo la società organicamente costituita, porre la questione della sovranità era qualcosa di simile alla ricerca se nel corpo umano la sovranità spetti al cervello, al cuore o allo stomaco, che son tutti egualmente necessari alla vita», scrive Adolfo Omodeo spiegando che «nel linguaggio dell’epoca» della Restaurazione il termine «sociale» viene così a designare «tutto ciò che mantiene fra gli uomini una naturale gerarchia» (Studi sull’età della Restaurazione cit., p. 66 e 96). Viene qui anche sottolineato il carattere ancora squisitamente politico che durante la Restaurazione hanno le nozioni di classe e di società. «Mai come nel primo trentennio del secolo XIX si parlò della società e della sua restaurazione dopo il crollo rivoluzionario, e delle diverse classi e della loro funzione e della politica degl’interessi, sia aristocratici che rivoluzionari. Ma ad un’onesta e attenta filologia questi termini si presentano ancora spogli di ogni contenuto economico, han riferimenti
435
«medica» di diagnosi e tutela della salute della società: «è soprattutto con le
malattie sociali che esso deve trattare; la sua arte consiste nel trovare nella
società stessa il punto di appoggio di cui ha bisogno».264
Come si è già sottolineato nel secondo capitolo indagando il meccanismo
della rappresentanza capacitaria,265 tale concezione del rapporto fra governo e
società costringe a imbricare l’analisi sociologica nella teoria del potere, in una
riflessione politica che non è più sociologicamente indifferenziata: «sono i
bisogni – scrive Guizot già nel 1820 – che si deve studiare, di cui si deve
sondare la natura».266 Esercizio del potere politico e conoscenza del sociale
appaiono ora indissociabili: il governo deve indagare le pieghe concrete della
società per dare attuazione al principio di capacità che ne costituisce la
legittimità elaborando i criteri di inclusione/esclusione dai diritti politici nella
società degli uguali, per cogliere i movimenti dell’«opinione pubblica» e
attivare il codice autoriflessivo che deve orientare l’intera sua iniziativa, per
conoscere i mali morali e materiali della società di cui è chiamato a farsi carico.
Elementi di cui si trova traccia, più che nell’opera di Guizot, nella sua messa in
opera in una serie di pratiche di governo attivate negli anni della monarchia di
Luglio che agiscono sul terreno della messa in forma del sociale. Si pensi alla
grande riforma dell’istruzione primaria – la legge del 28 giugno 1833 che conia
il termine corpo insegnante, apparato amministrativo completamente immerso
nella società – cui Guizot fa seguire un poderoso progetto di inchiesta sulla sua
attuazione. 267 Ma soprattutto interessa qui richiamare la riapertura
dell’Accademia delle Scienze Morali e Politiche (Asmp), uno dei laboratori più
importanti e fecondi di un nuovo approccio all’indagine della società, che,
meramente politici. Fan parte della teoria della classe dirigente. ‘Società’, nel linguaggio dell’epoca designa la forma che il consorzio umano assume al di fuori dello stato e di cui lo stato deve tener conto (si ricordi la formula dottrinaria di costituire lo stato secondo la società e di riformare la società secondo lo stato) […]. Così pure il termine ‘interessi’: gl’interessi altro non sono che i diritti legittimi, secondo i dottrinari. […] Manca il legame fra il concetto di classe e l’interesse economico » (ivi, pp. 96 e 97). 264 Guizot, Des moyens de gouvernement et d’opposition cit., pp. 117-118. 265 Cfr. supra Secondo capitolo § 2.6. 266 Guizot, Du gouvernement de la France cit., p. 155. 267 Il Tableau de linstruction primaire verrà realizzata dal ministro Villemain nel 1841 (sui metodi del progetto cfr. Rosanvallon, Le moment Guizot cit., pp. 258-260).
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attraverso il ricorso sempre più rilevante alla statistica, accosta le scienze
umane a quelle naturali nell’interpretazione del sociale.
Istituita dalla Rivoluzione e poi soppressa da Napoleone nel 1803,
l’Academie des sciences morales et politiques,268 viene riaperta nell’ottobre
1832 su iniziativa di Guizot, che ne redige il regolamento affermando il
principio dell’elezione fra pari a partire dagli antichi membri ancora in vita (fra
cui Sieyès e Tayllerand),269 indicandone le principali funzioni nel realizzare
mémoires e bandire premi per ricerche – secondo un paradigma tipicamente
liberale che faceva appello alla ricerca privata tramite bandi e concorsi –, e
dividendola in cinque sezioni: filosofia, economia e statistica, storia, morale,
diritto.270 Queste ultime due si occupano del dibattito sul sistema penitenziario e
268 Fu fondata con la legge del 25 ottobre 1795 che organizzava l’Istituto Nazionale, di cui le scienze morali e politiche erano una delle tre classi, a sua volta divisa in sei sezioni (una denominazione senza precedenti nell’Ancien régime). Il 3 pluvosio dell'anno XI (1803 un provvedimento del governo porta le classi a quattro, ma fra esse non vi sono è più quella di scienze morali e politiche (i cui membri vengono divisi fra le altre classi), soppressa in ragione delle sue tendenze repubblicane. Il 21 marzo 1816 un’ordinanza reale muta il nome «classe» in «accademia». Su questa prima esperienza dell’accademia fra 1795 e 1803 cfr. J. Simon, Une Académie sous le Directiore, Paris 1885. 269 Pare sia stato in particolare su consiglio e pressione di Victor Cousin che Guizot, allora ministro dell’istruzione, prende l’iniziativa che conduce, con il decreto reale del 27 ottobre 1832 alla riapertura dell’Accademia. Guizot si spende con cura nella redazione del progetto, costruendola con l'antico doyen Roederer (il decimo e ultimo articolo del decreto firmato da Luigi-Filippo e Guizot recita: «il ministro dell’Istruzione è incaricato dell’esecuzione dell’ordinanza). I membri vengono portati da 12 a 30 e divisi in cinque sezioni, nominati a scrutinio segreto da ciascuna sezione, ha cinque associati esteri, e dei corrispondenti il cui numero non può superare 40. Le cinque sezioni, che più precisamente si chiamano: filosofia; morale; legge, diritto pubblico e giurisprudenza; economia politica e statistica; storia generale e filosofica. Cfr. E. Seillière, Une académie à l'époque romantique, Leroux, Paris 1926. Vengono qui tracciate le coordinate teorico-politiche dell’Accademia: «l’ASMP ricostituita dal governo di Luigi-Filippo credeva […] la Francia definitivamente ingaggiata dalla monarchia costituzionale sincera nella carriera delle riforme misurate, progressive, ragionate e, perciò, durevoli che avevano sognato i più illuminati dei Costituenti, nel 1789. Gli toccò rendersi conto che il misticismo naturista, principale agente degli eccessi rivoluzionari, non era stato per nulla disarmato, che tendeva a riportare il paese ai metodi del governo del 1793» (p. 155). 270 Per dare misura della trasversalità e del rilievo di questa istituzione è bene soffermarsi, almeno in nota, sui membri che la vanno a comporre. Sono ristabiliti i membri ancora vivi che ne facevano parte al momento della sua soppressione (Dacier, Daunou, Garat, Cessac, Merlin, Pastoret, Reinherd, Roederer, Sieyès, Tayllerand) i corrispondenti della classe poi divenuti membri dell’istituto (Destut de Tracy, de Gérando), quattro nuovi membri eletti fra i membri dell'istituto, L’Accademia così costituita eleggerà poi gli altri sette membri, poi se ne eleggeranno altri sette, eleggerà poi un segretario e proporrà al ministro dell'istruzione le cinque sezioni in cui dividersi e il regolamento. Il 28 ottobre 1832 i soli cinque antichi membri in condizione di farlo (Roederer, Danou, Reinhar, Merlin, Gérando), si riuniscono e eleggono ancora: Cousin, Dupin ainé, Laborde, Naudet. Il 23 novembre una nuova riunione nomina (fra
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la prigione cellulare ospitando interventi di Lucas e Bérenger, ma la più attiva e
rilevante è senza dubbio la sezione di economia politica, che concentra le
proprie indagini su cause e conseguenze della questione sociale, mettendovi
rapidamente a fuoco il tema della condizione operaia come oggetto privilegiato
di inchiesta e osservazione. Le parole con cui Guizot ricorda la sua iniziativa
restituiscono le coordinate della problematica teorica in cui essa può essere
iscritta: «viviamo in una società allo stesso tempo dissolta e concentrata, che
mostra ovunque l’individuo isolato di fronte all’unità onnipotente dello Stato
[…]. Le accademie sono oggi, nell’ordine intellettuale, il rimedio naturale e
pressoché unico a questo grave difetto della nostra società generale».271 Se la
teoria liberale classica immaginava fra Stato e individui – fra potere politico e
libera iniziativa dei soggetti – uno spazio vuoto, la sua iscrizione di governo si
trova a dover fare i conti con le tensioni centrifughe alla dissoluzione,
dispersione, polverizzazione che lavorano tale spazio dall’interno e di cui la
questione sociale fornisce le rappresentazioni più drammatiche. Per arginare le
spinte disgregatrici, il potere politico deve non solo governare la moderna
società dei privati ma produrne l’integrazione, sostenerla, crearla, elaborando e
attivando strategie di governo intermedie fra il livello dello Stato e quello degli
individui. Emerge così il sociale:272 non regno impolitico dell’attività privata,
limite esterno e invalicabile dell’iniziativa statuale, ma terreno di sapere e di 63 candidati): Laromiguiere, Charles Dupin, Dunoyer, Bérenger, Bignon, Guizot, il Duca di Bassano. Il 29 novembre si completa con Broussais, Siméon, Villermé, Droz, Edwards, Charles Comte, Mignet. Il regolamento prevedeva poi cinque membri liberi: Feullet, Victor de Broglie, Carnot, Benoist de Chateneuf, Blondeau. E cinque associati stranieri: Lord Brougham, Ancillon, Livingston, Sismonde de Sismondi, Malthus. Gérando poi Mignet e poi (1837) Charles Comte sono nominati segretari. Della sezione di Economia politica, probabilmente la più attiva, faranno parte personalità quali Sieyès, Talleyrand, Charles Dupin, Villermé, Charles Comte, Faucher, Duchatel, Adolphe Blanqui, Laborde, Pellegrino Rossi, Michel Chevalier. A collaborare con la sezione di storia generale e filosofica troviamo Naudet, Amédée Thierry, Michelet, Thiers, Guizot, Mignet, fra gli stranieri c'è anche Savigny. Dal 1838 verrà eletto e vi svolgerà un ruolo rilevante anche Alexis de Tocqueville. 271 Guizot, Mémoires cit., tome III, p. 158. «La Rivoluzione», afferma Royer-Collard, «non ha lasciato in piedi che gli individui; la dittatura che l’ha terminata ha compiuto, da questo punto di vista, la sua opera», Barante, La vie politique de M. Royer-Collard cit., tome II, p. 131. 272 «Il ‘sociale’ è un insieme di pratiche che mirano ad attenuare il deficit che caratterizza lo stato materiale, ma ancor più morale, delle classi inferiori della società», scrive Robert Castel, che propone di distinguere «sociale» da «societale», laddove quest’ultimo termine farebbe più direttamente riferimento alla categoria di società (Castel, Les Métamorphoses de la question sociale cit., p. 390).
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istituzioni, di scienza e di governo. Come sottolineano, ad esempio, le ricerche
di Donzelot e Procacci, il sociale non viene configurandosi in una relazione di
autonomia e contrapposizione con il politico, ma piuttosto dispiega il campo
ove rendere governabile quest’ultimo liberandolo dalle passioni che si
scatenano intorno al codice costituente della sovranità, «il carattere politico del
sociale non è un effetto aggiunto dalle lotte di cui è stato la posta in gioco: il
sociale nasce come uno spazio politico, come il risultato di un progetto, che va
lentamente precisandosi, di governare la società ‘da vicino’».273 Le strategie
discorsive che rispondono all’eterogenea scia di disordini popolari riportati nel
corso della presente indagine rappresentandoli – attraverso la metafora dei
nuovi barbari – in una dimensione di paradossale esteriorità rispetto alla società
stessa, dicono di questa tensione: si tratta di istituire il sociale come oggetto di
sapere e terreno di governo e pratiche amministrative per farne lo spazio ove la
questione sociale può essere affrontata dissociandola dalle forme di protesta
popolare in cui trova espressione. L’Accademia delle Scienze Morali e
Politiche rappresenta senza dubbio uno dei più significativi ambiti in cui tale
razionalità politica e di governo si va articolando, precisando e dispiegando.
In un periodo ove le accademie, assai più delle università, assumono il ruolo
di organismi semi-ufficiali che svolgono la funzione di consiglieri e ispiratori
dichiarati di molte misure di governo, l’Asmp vede lo Stato addentrarsi sul
terreno delle nascenti scienze sociali facendosi al tempo stesso sociologo e
arbitro del sapere sociologico.274 Committente pubblico ma autonomo, essa
concentra nuove figure di scienziati esperti della ricerca sociale, la cui
cooperazione produce effetti di verità trasversali su differenti ambiti di sapere e
sui diversi snodi amministrativi in cui essi agiscono. Le «condizioni fisiche e
morali» di segmenti e categorie sociali divengono oggetto di un’osservazione
sempre più regolare e organizzata, che spazia dalla costituzione biologica (si
sono già richiamate le determinanti del rilievo dell’approccio medico-
antropologico all’indagine sociale), fino alle manifestazioni della volontà per 273 Procacci, Governare la povertà cit., p. 25. 274 «Erigendo progressivamente – scrive Rosanvallon – la sua teoria della società a giudice dei fatti sociali stessi», Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 261.
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arginarne i debordamenti sul campo del disordine delle passioni politiche. Il
nome, l’oggetto dell’Accademia – le scienze morali e politiche – testimonia
così dell’innesto della morale sul politico, coevo agli sforzi di rifondare
quest’ultimo su un terreno differente da quello della volontà ove diviene
ostaggio delle passioni. L’Asmp segna da questo punto di vista un mutamento
di paradigma rispetto alle sociétés savantes del secolo precedente, che ne
concentra le funzioni intorno alla diffusione della morale più che dei lumi (ciò
che Guizot chiama gouvernement des esprits). La «moralizzazione» –
l’indicazione delle misure atte «a ristabilire una condizione di moralità» – è
preoccupazione centrale nelle inchieste sulle «classi inferiori», ove la tematica
del lavoro viene chiamata a svolgere un ruolo maggiore all’interno di indagini
tese anche a fornire criteri di distinzione fra il «cattivo sociale», le classes
dangereuses al tempo stesso immorali, oziose e sediziose, e la povertà umile ma
laboriosa, conseguenza del regime industriale cui la società ha il dovere,
appunto morale e politico, di prestare soccorso. Ciò che qui interessa
sottolineare è un punto di svolta che la ricostituzione dell’Asmp pare segnare
nell’osservazione e interpretazione della questione sociale, focalizzando e
concentrando da subito la pluralità degli approcci precedenti intorno alla
centralità dell’inchiesta sulla condizione e miseria degli operai. Traiettoria di
ricerca che conduce fino alle celebri indagini di Adolphe Blanqui – incaricato
dell’Accademia, su richiesta del governo, all’indomani della rivoluzione del
1848, di «constatare la situazione esatta» delle «classi operaie» allo scopo di
«ristabilire l’ordine morale» –,275 e poi di Frédéric Le Play, che nel 1855
pubblica Les ouvriers européens, considerato un vero punto di svolta nella
metodologia dell’inchiesta sul lavoro e le sue forme di organizzazione.276
275 A. J. Blanqui, Des classe ouvrières en France pendant l’année 1848, Paris 1849. «Date le conseguenze del turbamento rivoluzionario, il potere esecutivo domanda all'accademia delle Scienze Morali e Politiche il suo concorso a ristabilire l'ordine morale»: così comincia questo testo, in cui Adolphe Blanqui – fratello di Auguste e successore di J. B. Say sulla cattedra di economia politica al conservatorio delle arti e dei mestieri – cerca di dimostrare, contro le tesi dei socialisti, i miglioramenti che gli anni hanno visto nella condizione degli operai. 276 Les ouvriers européens: étude sur les travaux, la vie domestique et la condition morale des populations ouvrières de l'Europe; précédées d'un exposé de la méthode d'observation,
440
«Le agitazioni del 1831 e 1834 hanno fortemente contribuito a scatenare
questo bisogno di inchiesta», scrive Rosanvallon: «la paura delle classi
pericolose, il timore di una nuova irruzione dei barbari nelle profondità del
sociale si coniugano per fare dell’inchiesta sociale uno dei pivots di una nuova
governamentalità che si va elaborando».277 L’Accademia delle Scienze Morali e
Politiche ne rappresenta un laboratorio importante, e il campo di problemi
mobilitati intorno alla questione sociale polarizza l’attenzione di questi studiosi,
che lavorano a disopacizzarla attraverso la «classificazione» e l’organizzazione
della rappresentazione dei suoi attori: la condizione operaia appare come la
traiettoria di indagine più significativa lungo la quale si ora va disponendo
l’analisi della miseria. A Louis René Villermé viene presto delegata una prima
ricerca sul tema: un lungo lavoro di inchiesta nelle più importanti manifatture
del paese conduce così nel 1840 alla pubblicazione del suo celebre Tableau de
l'état physique et moral des ouvriers,278 e nello stesso anno viene assegnato il
premio, bandito sei anni prima, al citato studio di Buret sulla Misère des classes
labourieuses, dei cui assunti si trova traccia importante nel primo lavoro
marxiano intorno al concetto di operaio nei manoscritti del 1844. Ipotizzando
che anche questi lavori abbiano svolto un ruolo rispetto agli elementi della cui
emergenza storica e significato politico si è qui cercato di rendere conto, vorrei
dunque concludere la presente ricerca ripercorrendo brevemente alcuni dei
passaggi che conducono, al principio degli anni 1840, a concentrare intorno alla
condizione operaia l’analisi e alcune strategie di governo della questione
sociale.
Imp. Impériale, Paris 1855. Nonostante l’approccio decisamente conservatore, questo studio, redatto sulla base di un lungo lavoro di inchiesta in fabbriche e miniere, è generalmente considerato segnare un radicale punto di svolta nell’ambito dell’inchiesta sociologica sulla condizione operaia, costituire, con la sua osservazione sistematica, la base materiale di una nuova scienza positiva e sistematizzare i principi dei patronage che durante il secondo Impero diviene la dottrina ufficiale di quell’insieme di saperi e studiosi che precedentemente si trovavano insieme rubricati alla voce «economia sociale» (Cfr. P. F. Lazarsfeld, Notes on the History of Quantification in Sociology. Trends, Sources and Problems, in «Isis», Vol. 52, n. 2, 1961, pp. 277-333). 277 Rosanvallon, Le moment Guizot cit., p. 261: «la tradizione del viaggio continua […] ma cambia d'oggetto: sono dei viaggi interiori che si sente la necessità di fare. Come se ci fosse qualche cosa di estraneo-straniero nel seno stesso del paese che si governa». 278 Cfr. infra § successivo.
441
4.6 Il «sociale» come sapere e tecnica di governo.
«In Inghilterra […] il pauperismo si è venuto configurando come
un’istituzione nazionale ed è quindi inevitabilmente divenuto oggetto di una
ramificata e assai estesa amministrazione, un’amministrazione la quale, però,
non ha più il compito di eliminarlo, bensì quello di disciplinarlo ed
eternarlo»,279 scrive Marx nell’articolo del 1844 sull’insurrezione dei tessitori
slesiani. Vi si avverte in primo luogo un motivo in voga nel dibattito francese
sulla povertà, che si sviluppa attraverso un costante confronto con la realtà
inglese.280 Confronto di cui vorrei qui restituire alcuni motivi per osservare i
differenti ruoli che, nell’interpretazione della miseria, sono stati attribuiti al
lavoro e alla figura dell’operaio. Anche questo passaggio marxiano reca inoltre
traccia della lettura della ricerca pubblicata nel 1840 da Eugène Buret, ove il
pauperismo inglese è, appunto, definito «un’istituzione nazionale» che il
governo «amministra piuttosto che combatterlo».281 Vorrei convocare questo
studio a rappresentare lo snodo a partire dal quale la questione sociale assume
la veste prevalente di questione operaia, e concludere questo mio elaborato
tratteggiando alcuni passaggi di questa messa a fuoco del soggetto operaio 279 Marx, Glosse critiche all’articolo di un prussiano, p. 213, si fa qui in realtà riferimento al caso inglese, «alla lezione generale che la politica Inghilterra ha tratto dal pauperismo». « Questa amministrazione ha rinunciato ad attivare la sorgente del pauperismo attraverso mezzi positivi; essa si accontenta di scavargli con poliziesca tenerezza la fossa, ogniqualvolta esso sgorga alla superficie del paese ufficiale». 280 L’Inghilterra rappresenta evidentemente un problema anche per la sua poderosa concorrenza commerciale e industriale. Essa viene generalmente assunta come l’indicazione di una tendenza dello sviluppo economico giudicata negativamente e a cui la realtà dell’economia agricola francese dovrebbe porre argine. 281 Buret, De la misère des classes labourieuses cit. tome I, pp. 232-234. Il pauperismo inglese viene definito un’«istituzione nazionale» frutto di tre secoli di regime di «carità legale che riconosce all’indigente il diritto assoluto ai soccorsi», ma, al di là delle pur enormi diversità, viene indicato come elemento comune sia a Francia che a Inghilterra la contingenza che «il governo accetta il pauperismo come un fatto, l’amministra piuttosto che combatterlo». Buret contesta qui la tesi degli economisti secondo cui il regime inglese di assistenza legale crea la miseria, sostenendo piuttosto che essa la fa emergere rendendola visibile, come dimostra la maggior disponibilità di dati e informazioni sui poveri inglesi rispetto alla Francia.
442
nell’ambito della povertà, analizzando alcune tattiche e strategie che hanno
condotto, passando per l’oggettivazione della figura operaia, a fare della
condizione di lavoro il supporto privilegiato di inscrizione nella struttura sociale
e di accesso a meccanismi di sicurezza che vengono emergendo. «La Francia è
povera, l’Inghilterra è miserabile», 282 scrive Buret per indicare la più
significativa differenza fra le condizioni di vita del segmento più numeroso
delle due popolazioni nazionali. Le cause di questa differenza riguarderebbero
il maggiore sviluppo dell’industria inglese da una parte, e la maggiore incidenza
e parcellizzazione del lavoro agricolo francese dall’altra. Un’osservazione che
testimonia di un importante mutamento di paradigma nell’analisi della povertà,
che non è più considerata in rapporto esclusivo, ma assume forme direttamente
inerenti e intimamente legate al lavoro, a determinate sue condizioni nelle città
manifatturiere. È dell’emergere di questa percezione che vado a tracciare alcune
coordinate storiche e teoriche. «Il pauperismo – scrive Cherbuliez nel
Dictionnaire d’économie politique – è realmente un fatto nuovo:
contemporaneo al proletariato, quest’ultimo a sua volta effetto delle medesime
cause»:283 riprendendo la distinzione concettuale proposta all’inizio di questo
capitolo fra proletariato urbano e classe operaia, vorrei dunque ripercorrere
forme e modalità attraverso le quali la figura operaia emerge come oggetto di
indagine, di saperi e di pratiche all’interno del più vasto ambito che, intorno al
periodo qui in esame assume i minacciosi nomi di «proletariato» e/o
pauperismo.
Alla fine del Settecento, la povertà pare progressivamente mutare volto e
significato. Non solo perché rispetto alla tradizionale figura del mendicante
pietoso che domanda la carità, paiono emergere con più forza quella del
282 Ivi, p. 237. 283 A. Cherbuliez, voce Pauperisme in Dictionnaire d’économie politique, Cocquelin-Guillaumin, 1873, p. 574, cit. in Tesini, Nota ai testi in Tocqueville, Il pauperismo cit., pp. 101-102: il pauperismo «designa la miseria collettiva, amplificata, generale, che riduce categorie intere di individui alla condizione di indigenti assistiti, in opposizione alla misera accidentale che deriva da cause temporanee, o che colpisce isolatamente alcuni individui appartenenti a categorie sociali del tutto diverse».
443
vagabondo minaccioso – con i suoi costi di police e di repressione – e quella
dell’indigente – che, a partire dal periodo rivoluzionario, reclama l’assistenza
dello Stato –, ponendo così problemi inerenti sia al contenimento della spesa
pubblica, sia al disciplinamento delle forme di vita delle classi popolari una
volta aboliti o venuti meno i corpi intermedi di Ancien régime. Ma soprattutto
perché la povertà sembra incarnare una contraddizione fondamentale della
società liberale dell’uguaglianza civile uscita dalla Rivoluzione, in grado di
scuoterne le fondamenta e metterne in discussione la tenuta, le condizioni stesse
di esistenza. Le diseguaglianze sociali portano alla luce tensioni interne alla
teoria liberale e ai suoi assunti egualitari, e così la povertà, dal terreno della
morale e dell’ordine pubblico – della carità e della repressione –, deborda su
quello politico, ponendo radicali interrogativi sulla coesione del corpo sociale,
sulle sue forme e condizioni e quindi sulle stesse possibilità di tenuta della
nuova architettura della società. Ripercorrendo nei secoli il modo in cui la
povertà si è presentata o meno come «questione sociale», Robert Castel indica
all’inizio del diciannovesimo secolo una «vera rottura con il passato», segnata
dal «rischio che – a meno di rinunciare all’industrializzazione – il progresso
economico conduca a una dissoluzione sociale completa»: è «il pericolo di una
disaffiliazione di massa iscritta al cuore del processo di produzione delle
ricchezze».284 Così, se la pubblicistica liberale francese condanna il sistema di
«carità legale» vigente in Inghilterra – costo esorbitante per lo Stato che finisce
per riprodurre e rafforzare le condizioni in cui la miseria si sviluppa –, essa
nondimeno riconosce la portata, morale quanto politica, che il problema ha
assunto anche in Francia, e dunque la necessità di organizzare strategie in grado
di ridurre la minaccia che esso pone alla tenuta medesima dell’ordine sociale. Si
tratta in prima battuta di attivare pratiche di soccorso ai poveri senza
riconoscere loro un diritto esigibile che – oltre a dilatare indebitamente costi e
prerogative dello Stato – sposterebbe tale assistenza dall’ordine morale a quello
– da esso non solo distinto, ma incompatibile – del dovere. Il primo Ottocento 284 Castel, Les Métamorphoses de la question sociale cit., pp. 368-369: «il pauperismo […] pone in effetti il problema del significato della modernità e della minaccia di cui essa è portatrice».
444
francese è dunque segnato da questo sforzo di matrice liberale di sviluppare
strategie di intervento sulla miseria che risultino efficaci senza mettere in
questione il libero gioco del mercato né dilatare prerogative e costi dello Stato.
«Coloro che l’hanno finora affrontato, si sono trovati pressoché tutti
d’accordo nel vedere nel pauperismo la conseguenza e il castigo della condotta
di coloro che la subiscono», scrive ancora Buret, dicendo della concezione
classica della povertà come colpa individuale, come «condotta».285 La teoria
liberale, sottolinea Ewald, postula che ciascuno porti la responsabilità della
propria condizione, e non abbia diritto a caricare su altri il peso della propria
esistenza:286 di qui l’opposizione di principio al sistema inglese della «carità
legale», e il carattere estremamente povero e limitato del sistema francese di
assistenza pubblica o para-pubblica alla miseria.287 E tuttavia, nei primi tre
decenni dell’Ottocento, il soccorso ai poveri viene a configurare un importante
terreno di dibattito, di riflessione e di pratiche, tese a sviluppare «strategie
complesse fondate sulla ricerca di risposte non statuali alla questione sociale»,
ancora con Robert Castel, che parla di una politique sans État per designare la
«mobilitazione delle élites sociali per dispiegare un potere tutelare verso gli
sfortunati e assumere una funzione di beneficenza che economizza l’intervento
dello Stato».288 Importanti segmenti del notabilato francese si attivano allora
per istruire una fitta rete di pratiche pubbliche che, senza chiamare in causa
l’intervento statuale né riconoscere ai poveri un diritto esigibile all’assistenza
(cui si fa spesso riferimento con la metafora del mendicante che chiede
l’elemosina armato di fucile), tutelino questi ultimi confermando l’esistenza del
legame sociale e garantendo la coesione della società.
«È la carità in tutte le sue differenti modalità a riunire ciò che la fortuna
separa, e, conservando ciò che l’ineguaglianza ha di necessario, o anche di utile,
285 Buret, De la misére des classes labourieuses cit., tome I, p. 78. 286 Ewald, L’État providence cit., p. 64. 287 Un sistema di soccorso volontario e poco finanziato affidato ai prefetti o alle autorità locali costituito da ospizi e ospedali per indigenti invalidi, boureaux de bienfaisance, e pochi orfanotrofi, manicomi e istituti per sordi, ciechi e muti (eterogeneo, debole e discontinuo è anche il sistema dell’assistenza parrocchiale confessionale). 288 Castel, Les Métamorphoses de la question sociale cit., p. 374.
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a spogliarla di ciò che essa ha di pericoloso e malvagio. Grazie al suo intervento
pacifico, l’armonia si mantiene […]. Tale è l’effetto delle relazioni di
benevolenza che la carità introduce; affinando la morale pubblica, esse
consolidano la società», scrive Tanneguy Duchâtel nel suo trattato teso a
istituire un’alleanza fra economia politica e beneficenza in grado di conferire
spessore morale alla prima e razionalità scientifica alla seconda.289 La carità,
l’aiuto ai poveri eccede così la dimensione dell’iniziativa individuale di
carattere esclusivamente morale o religioso, e viene a svolgere la fondamentale
funzione di primo argine agli effetti collaterali del mercato e della libera
concorrenza, ricomponendo ciò che l’interesse, motore dell’iniziativa privata,
divide, e tutelando la coesione del corpo sociale. Con la beneficenza, la società
prende nuovamente coscienza di sé, essa conferma l’esistenza del legame
sociale nella nuova realtà spersonalizzata, serializzata, genericizzata della
società degli individui, e lavora a disinnescare le pressioni sul politico della
diseguaglianza sociale. La beneficenza è chiamata dunque a svolgere una
funzione pubblica, di tutela del povero ma anche della società dai rischi di dis-
sociazione, configura in qualche modo una politica sociale (liberale) senza
l’intervento dello Stato, e deve perciò essere razionalizzata, ottimizzata,
valorizzata, unificata.290 Essa «forma un’arte, e la sua teoria una scienza»,
scrive Duchâtel elaborando le coordinate di un intervento razionale orientato a
fornire aiuto a – si badi bene – gli «infelici che non possono offrire nulla in
cambio, neppure il lavoro delle loro braccia».291 Emerge così nell’ordine del
discorso politico e nello spazio pubblico francese, la filantropia, insieme di
pratiche dispiegate su un terreno intermedio fra l’individuo e lo Stato, e che,
rispetto alla vecchia carità, si propongono un intervento più razionale, più
mirato e al tempo stesso più generale, e configurano lo spazio specifico di un
sapere, poiché «presuppongono – ancora con Duchâtel – la conoscenza delle
289 C. M. Tanneguy Duchâtel, La charité dans ses rapports avec l'état moral et le bien-être des classes inférieures de la société, Mesnier, Paris 1829, pp. 26-27. 290 Un liberalismo che dunque marca una rottura significativa rispetto al suo profilo di distruttore degli ostacoli alla libertà e diviene piuttosto restauratore dell’ordine sociale, che combatte più i fattori di disordine e dissociazione sociale che sistemi di privilegio. 291 Duchâtel, La charité dans ses rapports avec l'état moral cit., p. 18.
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leggi fisiche e morali a cui l’uomo è sottoposto: il soggetto ha dunque a che fare
allo stesso tempo con la morale e con l’economia politica».292
Si assiste dunque al proliferare associazioni filantropiche e religiose che
sviluppano pratiche e saperi tesi, al tempo stesso, al soccorso, all’assistenza e
alla moralizzazione delle classi povere. Castel interpreta questo articolato
programma di tutela come «il versante sociale di una governamentalità
capacitaria», affermando che François Guizot «è stato uno dei personaggi più
rappresentativi dell’approccio liberale alla questione sociale», non solo per la
sua attività filantropica, ma anche, per la sua stessa teoria politica.293 Questi è
nominato nel 1828 presidente della Société de la morale chrétienne, fondata
sette anni prima dai più eminenti nomi della filantropia francese, fra cui il duca
Rochefoucauld-Liancourt – presidente nel periodo rivoluzionario del comitato
per l’estinzione della mendicità e poi, dal 1818, della prima cassa di risparmio
di Francia – e Joseph-Marie de Gérando, autore di un testo che si è soliti
convocare a rappresentare razionalità e pratiche di questa nuova filantropia.294
Barone d’Impero, linguista, pedagogo, membro dell’Accademia delle Scienze
Morali e Politiche fin dalla sua prima istituzione, Gérando pubblicava nel 1799
una ricerca ad uso degli esploratori – considerata un primo manuale di
etnografia e osservazione partecipante – per lo studio dei popoli «selvaggi»,295
delineando criteri e principi su cui si sviluppa poi il celebre Le visiteur du
pauvre (1824).296 Si tratta di un vero manuale ad uso dei filantropi teso a
292 Ivi, p. 31. 293 Castel, Les Métamorphoses de la question sociale cit., pp. 379-386: Castel ricostruisce i tratti di continuità fra la teoria politica delle capacità e un piano di governamentalità delle classi inferiori in cui «il vero contratto sociale è un contratto di tutela». 294 Alle attività di questa società partecipano anche Tocqueville, Benjamin Constant, de Broglie, Lamartine. Questi notabili producono studi nel solco delle ricerche del secolo precedente sul tema della mendicità, ma ne amplificano la portata e ne riordinano differentemente le coordinate, assumendo la postura di «medici della società» che ricercano nella morale un rimedio ai suoi mali. 295 J-M de Gérando, Considérations sur les diverses méthodes à suivre dans l'observation des peuples sauvages, Société des observateurs de l'homme, Paris 1799. Il testo era in particolare destinato ai membri di una spedizione scientifica nelle terre australi. È importante tenere conto di questo incipit che traduce sui segmenti popolari dell’interno i metodi per studiare i popoli «selvaggi», insistendo sulla necessità del contatto diretto fra osservatore e osservato, e di riprendere il linguaggio di quest’ultimo. 296 J-M. de Gérando, Le visiteur du pauvre (1824), Renouard, Paris 18263. Il testo,
447
«indicare i mezzi per riconoscere la vera indigenza e rendere l’elemosina utile a
coloro che la danno come a coloro che la ricevono»,297 così da sostituire al
«distributore di elemosina» – addirittura dannoso perché incoraggia
l’«indigenza fittizia» sottraendo al povero e alla società i benefici morali e
materiali del lavoro –298 l’office du Visiteur du Pauvre, che ridefinisce il
soccorso nella forma di una libera ma «reale e attiva» tutela. «Arte» ma anche
«scienza» di una charité investigatrice che «esamina prima di agire; sorveglia,
distende lo sguardo sull’avvenire; rimonta alle cause, abbraccia tutte le
circostanze; unisce al dono la cura, le consolazioni, i consigli».299 Attraverso
una discreta ma estremamente profonda penetrazione nelle abitudini di vita del
povero e della sua famiglia, il filantropo deve procedere anzitutto a un
classement des pauvres, a una chiara definizione di reali condizioni e bisogni, e,
di qui, prendere in carico non solo una condizione materiale, ma una condotta,
lavorando alla «guarigione delle malattie morali».300 Il lavoro emerge qui
classicamente in diretto rapporto negativo con la povertà, e il filantropo deve
premiato dall’Accademia di Lione nel 1820 viene poi largamente rivisto dall’autore e ripubblicato nel 1824. 297 Così recitava il bando di concorso dell’Accademia di Lione che premia il lavoro di Gérando. 298 «Il lavoro è in sé un’educazione molto salutare per preparare l’uomo alla pratica della virtù; dispone all’osservazione dell’ordine, alla perseveranza, alla temperanza; è una sorta di ginnastica morale; abitua la creatura a camminare docilmente lungo le vie tracciate dal Creatore, e a riconoscersi come strumento della volontà celeste», ivi, p. 105. E ancora: «una vita laboriosa è un preservativo contro la dissolutezza; è qui una grande causa morale, di cui l’azione influisce in modo importante sui matrimoni e i loro effetti» (p. 208). Gérando critica inoltre le teorie malthusiane sulla popolazione, sottolinea come la mancanza di lavoro sia un fenomeno urbano assai più raro nelle zone agricole, e soprattutto attacca gli economisti politici: «no, non è necessario divenire barbaro verso il povero per preservare la società dall’immenso pericolo che la minaccia! No, non è necessario far morire di fame il povero perché il resto della società viva!», p. 195. 299 Gérando, Le visiteur du pauvre, p. 11. Si denunciano anzitutto i costi sociali della falsa miseria che inganna lo Stato e spinge all’oziosità il povero condannandolo a un futuro di privazioni. Si tratta di una questione di «immensa gravità» che impone al filantropo il dovere di sviluppare una «conoscenza esatta e approfondita della situazione del povero» compito indispensabile a realizzare l’efficienza e l’armonia di beneficenza pubblica e carità privata. 300 Ivi, pp. 39-40 e 120. Si tratta insomma di un vero prontuario di police della carità, manuale di osservazione partecipante del povero considerato anzitutto in quanto indigente non-lavoratore, e indagato nei suoi tratti fisici, morali, psicologici teso anzitutto a realizzare un vero e proprio patronage costante e duraturo, «una sorta di adozione, una vera tutela […] essi hanno bisogno di più di un benefattore, hanno bisogno di un istitutore», Ivi, pp. 68, 71 e 145. Il testo si spinge fino a dettagliatissimi consigli sul genere di alimenti, vestiti, alimenti di arredamento che conviene fornire al povero rispetto ad altri meno convenienti.
448
anzitutto verificare la reale sussistenza di una delle tre cause della «vera»
indigenza – inabilità al lavoro, insufficienza del prodotto del lavoro o mancanza
temporanea di lavoro –, e studiarne le determinanti per cogliere l’eventuale
ruolo di imprevidenza, pigrizia, vizio o dissolutezza, mali morali che egli è
chiamato a curare.301
La dimensione del lavoro emerge pertanto come il limite e la soluzione di
questo soccorso caritatevole, che interviene nei vuoti lasciati da esso, e a cui
troviamo dedite molte figure della grande letteratura popolare, fra cui il
protagonista dei Miserabili, Jean Valjean, e quello dei Misteri di Parigi
Rodolfo di Gerolstein. «I poveri – scrive Gérando – sono sotto molti aspetti
come bambini; ne hanno l’imprevidenza; ne hanno l’ignoranza; si lasciano
facilmente andare; vogliono essere sostenuti, contenuti, diretti»: 302
analogamente a quanto è dato osservare rispetto alla teoria della rappresentanza
capacitaria, questa razionalità politica liberale di intervento sulla povertà pare
insomma fare del contratto sociale un contratto di tutela che istituzionalizza la
morale. Paragonando la società a una famiglia e il povero a un bambino, la
beneficenza non afferisce alla sfera del diritto e dei rapporti giuridici, ma
configura nondimeno un obbligo, un obbligo morale che ha a che fare con la
tutela degli inferiori, dei minori come delle classi inferiori.303 Si tratta dunque
di un’iniziativa filantropica che assume forte significato e spessore politico, i
cui lavori hanno forte contenuto prescrittivo o normativo e non esitano ad
addentrarsi sul terreno della teoria svolgendo una critica, di matrice morale
cristiana, alle posizioni dell’economia politica e alle teorie di Malthus sulla
popolazione, e assumendo quasi sempre il sistema industriale anglosassone 301 La «scala dello stato sociale» è composta da tre ordini, al di sopra e al di sotto quello intermedio cui il lavoro fornisce i beni necessari alla sussistenza e determina la condizione morale, vi sono due ordini che la moralità convoca ad un’alleanza tesa a garantire la sussistenza dei membri del più basso: la società «è costituita moralmente come la famiglia […]. La povertà sta alla ricchezza come l’infanzia all’età adulta», Gérando, Le visiteur du pauvre cit., p. 9. 302 Gérando, Le visiteur du pauvre cit., p. 145. 303 L’ostilità all’espandersi delle prerogative statuali, non si fa sostegno alle teorie del lasseiz-faire ma piuttosto progetto di dispositivi che consentano di fare il sociale, di metterlo in forma per governarlo anche attraverso principi di morale pubblica. Affermare lo stato di minorità delle classi inferiori consente inoltre di disinnescare la sfida che la povertà moderna poneva alla concezione liberale e individualista della società come associazione di soggetti razionali.
449
come modello da respingere.304 Si tratta di notabili cristiani, soprattutto medici,
economisti e amministratori la cui attività istituzionale ha spinto all’incontro
con la miseria, come nel caso del prefetto Alban de Villeneuve-Bargemont,
fondatore nel 1828, con Bigot de Morogues,305 della Société des établissement
charitables, e autore del trattato Économie politique chrétienne (1834) che va a
istituire un vero canone nell’analisi e interpretazione dei problemi sociali.306
«L’influenza funesta che il sistema industriale e politico dell’Inghilterra ha
esercitato sulla Francia, sull’Europa e su gran parte dell’universo»307 è oggetto
polemico di questo studio che imputa al liberalismo inglese un radicale divorzio
dalla morale, e al suo modello di sviluppo una crescita della miseria
direttamente proporzionale a quella della ricchezza. L’industria agricola, e più
in generale la civiltà del lavoro francese che ha radici nelle antiche solidarietà
corporative è al centro della prospettiva paternalista di un’economia solidarista
e caritatevole sostenuta da Villeneuve-Bargemont.308 Questo grande notabile
legittimista è anche, sottolinea Sandro Chignola, «mediatore nei confronti di
Tocqueville» dell’analisi del problema della miseria, che viene assunto in una 304 Essa indaga spesso anche la condizione di ospizi e prigioni, cfr. i lavori di Villermé sulla condizione delle carceri del 1820 e 1829 richiamati al § 4.4, e B. Appert, Rapport sur l'état actuel des prisons, des hospices et des écoles des départemens de l'Aisne, du Nord, du Pas-de-Calais et de la Somme, etc., suivi de considérations générales sur ces sortes d'établissemens, l'auteur, Paris 1824. 305 Cfr. infra il presente §. 306 Villeneuve-Bargemont è spinto a intraprendere uno studio sul «pauperismo» dalla sua carriera di amministratore in vari dipartimenti del regno ove si era trovato di fronte manifestazioni del fenomeno che, pur nella loro differenza, gli avevano dato consapevolezza della gravità del problema. La volontà di farvi fronte con iniziative pratiche lo aveva dunque indotto alla lettura dei testi di economia politica di Smith e Say, che si affiancavano alla lettura di Malthus, A. de Villeneuve-Bargemont, Économie politique chrétienne, ou Recherches sur la nature et les causes du paupérisme en France et en Europe, et sur les moyens de le soulager et de le prévenir, Paulin, Paris 1834, Préface e Introduction. La Société des établissement charitables viene fondata nell’intento di innovare e migliorare principi e pratiche dell’antica carità religiosa. 307 Villeneuve-Bargemont, Économie politique chrétienne cit., p. 22. 308 «Comprendevo sempre di più quanto l’industria agricola fosse la base più reale e sicura del benessere delle classi inferiori» (ivi, p. 15). Si fa riferimento alla situazione inglese per indicare nello sviluppo industriale non solo la causa della grande potenza economica britannica ma anche della diffusione della miseria, e ciò ci accompagna a una polemica antiborghese contro «la classe avida e orgogliosa divenuta padrona della popolazione» (p. 21). Alla concorrenza, concentrazione, produzione infinita del modello inglese che degrada l’uomo e gli sostituisce le macchine, contrappone un modello fondato sullo sviluppo dell’agricoltura, giuste remunerazioni e rigenerazione religiosa e aiuto caritatevole. Sul tema cfr. anche F-E. Fodéré, Essai historique et moral sur la pauvreté des nations, Huzard, Paris 1825.
450
dimensione compiutamente politica, a partire da a una critica di stampo
notabilare all’economia politica e da una cultura amministrativa di antico
regime.309
Già nel testo sul sistema penitenziario statunitense, pubblicato con
Beaumont nel 1832, Tocqueville aveva inserito un’appendice sul pauperismo.
«In America come in Inghilterra, ogni essere umano in condizioni di bisogno ha
un diritto aperto nei confronti dello Stato: la carità è diventata un’istituzione
politica […]. Così la ‘casa dei poveri’ dà alloggio, al tempo stesso, agli
indigenti che non possono e a quelli che non vogliono guadagnarsi la vita con
un lavoro onesto».310 A questo sistema Tocqueville imputa anzitutto, come
sottolinea Chignola, di indurre la disattivazione del potenziale positivo della
miseria, la sua funzione disciplinare che «permette di guadagnare il povero alla
dura disciplina del lavoro […] come antidoto ad una gestione pubblica della
carità» che produce povertà perché toglie l’abitudine al lavoro offrendo quella a
vivere alla giornata.311 I viaggi del 1833 e 1835 in Inghilterra – ove Manchester
gli appare come un inferno, una «cloaca infetta» – gli consegnano una nuova e
vivida percezione della questione, che troviamo espressa in particolare nel
primo Mémoire sur le paupérisme – redatto nel 1835 per la Società reale
accademica di Cherebourg – che pare sistematizzare – per così deire, a un
livello «più alto» – molti degli assunti liberali contemporanei sulla povertà (ivi
compresa la critica del modello anglosassone della carità legale). L’analisi
tocquevilleana si concentra sul clamoroso paradosso che fa apparire le società
moderne segnate da una crescita proporzionale di ricchezza e miseria, e si
sforza di offrirne un’interpretazione di natura storica che ai secolari «progressi
309 Chignola, Fragile cristallo cit., pp. 472-477. Viene qui sottolineato come il canone retorico dell’economia morale del pauperismo rappresesenti il terreno di un’ambigua relazione fra il pensiero liberale della morale cristiana e quello socialista della pratica dell’associazione. 310 A. de Tocqueville, Il pauperismo in America, in Id., Il Pauperismo, a cura di M. Tesini, Edizioni Lavoro, Roma 1998, p. 151. 311 Chignola, Fragile cristallo cit., pp. 480-481. «La miseria deve essere funzionalizzata al dispositivo della valorizzazione, e quindi non eliminata ma messa a profitto, capitalizzata come strumento di disciplina e come spazio sociale offerto all’intervento di pratiche educative ed economico-morali. Essa rappresenta lo sfondo necessario per il prodursi di una nuova morale del lavoro» (p. 481).
451
della civilisation» associa la graduale espansione di bisogni, gusti, desideri.312
Così la miseria moderna è il riflesso immediato dello sviluppo di un classe
lavoratrice non agricola deputata alla produzione di «nuovi beni» destinati a
«bisogni secondari che mille cause possono restringere».313 È dunque lo stesso
progresso della civilizzazione a far sì che l’«ouvrier», la «classe industrielle»
siano inevitabilmente esposti al rischio della miseria, perché nella «grande
fabbrica delle società umane», hanno ricevuto «la missione speciale e
pericolosa di provvedere a proprio rischio e pericolo alla felicità materiale di
tutte le altre» classi.314 Questo riferimento che si va circoscrivendo intorno al
fenomeno nominato da Tocqueville con il sintagma «classe industriale» può
essere messo in relazione all’utilizzo – nel titolo del suo testo, come in quello di
Villeneuve-Bargemont – del termine inglese pauperismo, di cui Michelle Perrot
registra un primo utilizzo in Francia nel 1823.315
Tale spostamento lessicale segnala in realtà il cristallizzarsi di una nuova
esperienza della povertà e del suo rapporto con l’industrializzazione e con il
lavoro. «Se l’indigenza, con il nome nuovo e tristemente energico di
pauperismo, invade classi intere della popolazione, […] se essa non è più un
accidente ma la condizione forzata di una gran parte dei membri della società;
allora non si può misconoscere in tali sintomi di sofferenza generalizzata […]
l’indice prossimo delle più gravi e funeste perturbazioni», 316 afferma
Villeneuve-Bargemont, indicando la percezione di un’inedita portata della
minaccia di cui questo neologismo si fa portatore. Esso è il nome di una povertà
312 «Presso i popoli di cui ammirate l’opulenza, una parte della popolazione è obbligata per vivere a fare ricorso ai doni dell’altra», A. de Tocqueville, Mémoire sur le paupérisme, in Mémoires de la Société académic de Cherbourg, ed. Société académic de Cherbourg 1835, p. 3. 313 Ivi, pp. 22-23. 314 Ivi, pp. 23-24: «l’uomo civilizzato è dunque infinitamente più esposto alle vicissitudini del destino rispetto all’uomo selvaggio». 315 M. Perrot, Enquêtes sur la condition ouvrière en France au XIXe siècle, Hachette, Paris 1972, p. 36. Vi si legge poi di un altro elemento importante che segna la riflessione di questi anni sulla povertà: «mentre Guizot cerca l'origine delle classi nella successione delle razze e vede nel Terzo stato il discendente dei Galli, numerosi autori imputano la nascita del proletariato all'abolizione della schiavitù o del servaggio», scrive 316 Villeneuve-Bargemont, Économie politique chrétienne cit., p. 28. «In effetti, il vero pauperismo, vale a dire la miseria generale, permanente e progressiva delle popolazioni operaie è nato in Inghilterra, ed è da lì che è stato inoculato al resto dell’Europa» (p. 22).
452
non più contingente, ma durevole, permanente, «epidemica», ereditaria che non
si colloca più ai margini, ma al centro della società perché sembra
accompagnare lo sviluppo della ricchezza e il progresso della civilizzazione.317
È una condizione di indigenza che non si presenta più come, in ultima analisi,
un destino vissuto individualmente, perché abbraccia ora solidarmente interi
segmenti della popolazione. «Cercherei invano – scrive ancora Villeneuve-
Bargemont – di dare un’idea dello stato di privazione, di sofferenza, di
abiezione e di degradazione morale e fisica in cui erano gettati gli operai
indigenti delle città principali del dipartimento del Nord»:318 il pauperismo non
designa semplicemente una situazione economica e sociale individuale, ma la
forma di vita patologica di nuova specie sociale accomunata da specifici
costumi, abitudini, comportamenti. 319 Il pauperismo fornisce «costituzione
fisica e morale» alle diseguaglianze sociali, e fa emergere l’indigenza come
«questione sociale» perché pone interrogativi sulla tenuta stessa di quella forma
del consesso umano che ha preso il nome di società: «non si tratta più oggi
solamente dell’ordine politico, ma dell’esistenza della società intera».320 Il
passaggio dalla povertà alla miseria al neologismo «pauperismo» dice di una
poderosa spinta alla dis-sociazione, alla dissoluzione e disgragazione sociale:
«lo stato miserabile di queste popolazioni – scrive Eugène Buret – è
incompatibile non solamente con le speranze della civilizzazione, ma con la sua
esistenza. Si deve o trovare un rimedio efficace alla piaga del pauperismo, o 317 Cfr. E. Chevallier, voce Paupérisme in L. Say, Nouveau Dictionnaire d’économie politique, Paris 1893: «il pauperismo è realmente un fatto nuovo: contemporaneo al proletariato, quest’ultimo a sua volta effetto delle medesime cause». Il pauperismo viene indicato come uno stato nuovo la cui origine è dovuta all’organizzazione industriale che forma la maniera di essere e di vivere degli operai delle manifatture (p. 450). 318 Villeneuve-Bargemont, Économie politique chrétienne cit., p. 18. 319 Così l’importante ricerca di Giovanna Procacci in merito alla nozione di pauperismo: in quanto forma eccessiva della poverà, esso «non si contrappone alla ricchezza, come nel caso della povertà, ma direttamente alla società, e questo gli conferisce una forma destabilizzante […], il povero in questo caso pretende di avere dei diritti, reclama soccorsi, si pone come un interlocutore politico […]. Il pauperismo rappresenta dunque una povertà diventata pericolo sociale, 'il nemico della nostra civiltà', come dice Buret: evoca immagini di folla, prende i colori di un fenomeno collettivo, essenzialmente urbano […] insubordinato per definizione, il pauperismo sfugge ad ogni tentativo di domarlo; anzi, trasmette l'oscura minaccia di una folla compatta e anonima. […] Innaturale il pauperismo è in fondo antisociale» (Governare la povertà cit., pp. 167-170). 320 Villeneuve-Bargemont, Économie politique chrétienne cit., p. 25.
453
prepararsi al rovesciamento del mondo».321 Il pauperismo presenta la questione
sociale come «un’aporia fondamentale sulla quale una società sperimenta
l’enigma della sua coesione e tenta di scongiurare il rischio della sua frattura»,
scrive Robert Castel sottolineando che «questa questione è stata nominata la
prima volta come tale negli anni 1830»:322 e la risposta che ad essa si verrà
organizzando è costituita dall’«insieme dei dispositivi» di integrazione delle
«frange più desocializzate dei lavoratori».323 L’ipotesi che il presente capitolo
cerca di suggerire – o, più semplicemente, la modesta constatazione su cui si è
cercato di mettere l’accento – è che il più significativo di tali «dispositivi» sia
rappresentato dalla produzione della soggettività operaia che si articola nel
punto di intersezione fra l’emergere della classe operaia intesa in quanto
movimento di soggettivazione che produce sul terreno politico-discorsivo
unificazione e politicizzazione di comportamenti e bisogni intorno alla figura
forte del lavoro operaio, e un lavoro di oggettivazione della figura dell’operaio
che emerge nell’ambito di una strategia di governo della questione sociale, e di
cui qui cerco di illustrare alcuni tratti specifici a partire dalla sua messa a fuoco
nell’ambito di alcune studi che segnano l’emergere delle nascenti scienze
sociali.324
Analizzando le grandi inchieste sociali degli anni 1820 e primi 1830,
Michelle Perrot sottolinea, fin dagli stessi titoli, una «difficoltà a cogliere la
specificità della questione», a delimitare l'oggetto (e la imputa in primis alla
321 Buret, De la misère des classes labourieuses cit., tome I, p. 74: «la miseria è per la società attuale una causa di rovina più energica forse di quanto lo fosse la schiavitù per la società pagana». 322 Castel, Les Métamorphoses de la question sociale cit., pp. 25-26: la questione sociale è una sfida che interroga, rimette in questione la capacità di una società di esistere come un insieme legato da relazioni di interdipendenza, e «il pauperismo è un dramma che illustra questo effetto boomerang per cui ciò che pareva situarsi ai margini di una società scuote il suo equilibri d’insieme» (pp. 25 e 371). Castel sottolinea inoltre che «le descrizioni estreme del pauperismo non valgono che per una minoranza dei lavoratori della prima matà del XIX secolo. Ma questa constatazione non nega l’importanza storica del fenomeno» (p. 364). 323 324 Come sottolinea Giovanna Procacci, si pone il problema di elaborare una «strategia di inclusione dei poveri nella cinta dei ‘governati’» in grado di farne dei cittadini da implicare nel sistema produttivo, Procacci, Governare la povertà cit., pp. 9-10.
454
concezione organicista della società): di qui il carattere enciclopedico dei libri
sulla miseria, che convocano e trattano tutti i mali sociali: indigenti, mendicanti,
orfani, prostitute, invalidi, carcerati, malati, pazzi eccetera, «eroi di una stessa
storia, capitoli classici, pressoché obbligatori, delle monografie di prima metà
del secolo».325 Certo, il termine pauperismo ha la capacità di raccogliere un
vasto insieme di elementi, ma la sua ricezione testimonia anche del prendere
forma di una differente concezione del rapporto fra lavoro e povertà.
All’«handicapologia» che orientava l’analisi della miseria all’indagine
dell’inabilità al lavoro, della natura − reale o fittizia − delle cause che
impediscono all’indigente di provvedere tramite il salario alla propria
sussistenza, si affianca la percezione e l’osservazione di una povertà che può
svilupparsi non in rapporto esclusivo, ma complementare al lavoro, alle sue
nuove forme di organizzazione industriale, al «libero» lavoro salariato. Il
pauperismo differisce dalla povertà anche per questa relazione non più
oppositiva al lavoro, esso abbraccia anche una miseria che pare specifica agli
operai dei sobborghi delle città manifatturiere, per certi versi conseguente alla
distruzione delle antiche forme di solidarietà corporativa. La progressiva messa
a fuoco dell’oggetto ouvrier nell’ambito di queste inchieste sulla povertà, primo
esercizio delle nascenti scienze sociali, pare passare attraverso questo
mutamento di prospettiva e il progressivo inquadramento di un’assoluta
specificità propria alla miseria urbana rispetto a quella delle campagne. Mi pare
che anche nell’ambito di questo processo sia possibile datare al 1832 un vero
punto di svolta. In ragione della riapertura dell’Accademia delle Scienze Morali
e Politiche, ma anche perché la miseria degli operai compare per la prima volta
come oggetto specifico, nel titolo, di un’inchiesta di uno dei grandi notabili
filantropi, il barone Bigot de Morogues.
De la Misère des ouvriers et de la marche à suivre pour y remédier326
sviluppa una riflessione simile a quella tocquevilliana nel legare la nuova
325 Si sottolinea inoltre il sovrapporsi di considerazioni demografiche, economiche, igieniche, morali, Perrot, Enquêtes sur la condition ouvrière cit., p. 11, 326 P. M. S. Bigot de Morogues, De la Misère des ouvriers et de la marche à suivre pour y remédier, Uzard, Paris 1832.
455
miseria alla dilatazione dei bisogni indotta dallo sviluppo della società, e
propone una critica morale dell’economia politica, del macchinismo e dei
principi di concorrenza internazionale. Anche qui l’Inghilterra è assunta come
modello negativo in cui la crescita della grande industria a scapito della piccola
è direttamente proporzionale alla diffusione della miseria operaia, e ad esso
viene opposto un elogio dell’economia agricola e del protezionismo.327 Si tratta
di un’inchiesta sulla condizione operaia nella misura in cui Morogues fa ampio
riferimento alle statistiche. Da una parte per sviluppare un’analisi
socioeconomica del salario incrociando dati sui prezzi dei generi alimentari e
della locazione, sulle retribuzioni da lavoro e sulla popolazione. Dall’altra per
proporre un’apologia della campagna fondata essenzialmente sulle statistiche
inerenti alla criminalità, che la vedono raddoppiare negli ambienti urbani, di cui
si sottolinea l’insalubrità fisica e morale: «è dunque evidente che le popolazioni
occupate nei lavori di campagna sono assai meno portate a ogni genere di
crimine, in particolare a quelli contro la proprietà».328 Le statistiche sul rapporto
fra industria e criminalità vengono dunque analizzate per fornire
«dimostrazione matematica evidente»329 del legame fra reati contro la proprietà
e sviluppo urbano delle grandi manifatture a scapito dell’economia agricola. La
prima inchiesta sociale che assume per oggetto specifico il tema della miseria
operaia lo declina dunque attraverso una riflessione sul legame fra criminalità,
lavoro e pauperismo urbano. Problematica di cui ho cercato di restituire alcune
coordinate nel primo paragrafo, e che impegnerà anche l’Accademia delle
Scienze Morali e Politiche nel tentativo di mettere a fuoco l’universo criminale
per poterlo più efficacemente isolare dagli altri segmenti popolari e
specificamente dall’onesto mondo del lavoro. Così nel 1838 l’Asmp insignisce
lo studio di Honoré-Antoine Frégier di un premio il cui bando chiedeva di
indicare «gli elementi di cui si compone […] questa parte della popolazione che
327 «Più la ricchezza creata dalla grande industria si accrescerà in rapporto alla ricchezza creata dalla piccola, più il popolo diventerà miserabile», ivi, p. 91. Bigot de Morogues inidca inoltre nella produzione dei beni di lusso un vero indispensabile rimedio ai mali dell’economia (ivi, pp. 87-134). 328 Ivi, p. 100. 329 Ivi, p. 22.
456
forma una classe pericolosa per i suoi vizi, la sua ignoranza e la sua miseria; e
indicare i mezzi che l’amministrazione, gli uomini ricchi o agiati, gli operai
intelligenti e laboriosi potrebbero impiegare per migliorare questa classe
pericolosa e depravata».330 Già la questione messa a concorso pare dunque
suggerire l’esigenza di indicare le strategie che permettono di opporre il
problema − le classi pericolose − a una parte di coloro che possono
rappresentarne la soluzione − gli operai laboriosi.
Frégier, funzionario della prefettura della Senna, presenta il suo importante
lavoro − che pare aver contribuito a diffondere l’espressione classes
dangereuses − come «un’opera di amministrazione e di morale» redatta
avvalendosi delle indicazioni di molti commissari di polizia, e vi sviluppa una
corposa riflessione sull’utilizzo e il valore euristico dei dati statistici. «Per
governare il corpo sociale – spiega Frégier collocando esplicitamente la propria
indagine nell’ambito di quel rapporto di coestensività fra esercizio del potere
politico e indagine del sociale di cui ho detto nel paragrafo precedente –
bisogna conoscerlo, per conoscerlo bisogna studiarlo nel suo insieme e nelle sue
parti, sapere che ruolo svolge ogni parte nell’insieme».331 Certo, le «classi»
propriamente «pericolose» sono oggetto di questo studio, che tratta anche di
vagabondi, ladri, truffatori, prostitute, giocatori, forzati liberati, e
dell’organizzazione della polizia nella città di Parigi, di cui propone una
«topografia morale». Ma, a ben guardare, sono gli ouvriers il vero oggetto
dell’indagine di Frégier, che, facendo del vizio il volano che conduce questi
nell’ambito delle classi pericolose, svolge anzitutto una valutazione del numero
degli operai parigini, per avanzare poi una stima della «porzione» di essi
potenzialmente viziosi, allo scopo di studiare cause, preservativi e rimedi.332 Il
330 Il premio di 3.000 franchi viene bandito nel 1833 dalla sezione di morale su proposta di Droz, ed è assegnato, dopo una proroga, nel 1838 su relazione di Dunoyer. Sui concorsi e premi dell’Asmp fra 1834 e 1900 Cfr. G. Picot, Concours de l'Académie: sujets proposés, prix et récompenses décernés, liste des livres couronnés ou récompensés, 1834-1900, Institut de France - Académie des sciences morales et politiques, Paris 1901. 331 H-A. Frégier, Des classes dangereuses de la population dans les grandes villes, et des moyens de les rendere meilleures, Baillière, Paris 1840, tome I, p. 370. 332 Accanto agli operai, ma con un rilevo estremamente minore, Frégier studia anche il vizio presso gli straccivendoli e presso le classi agiate.
457
lavoro è naturalmente indicato come il più importante di questi, «fondamento
dell’esistenza individuale e di tutte le jouissances sociali»:333 è buona parte
dell’opera sviluppa pertanto una riflessione sull’organizzazione sociale del
lavoro, sul salario e le forme di associazione operaia.334 Differentemente da
alcuni studi finora richiamati, Frégier esprime un giudizio positivo
sull’affermarsi del regime manifatturiero, e insiste sulla necessità di rafforzare
le «cause che stabiliscono la simpatia e solidarietà tra operai e capi di
industria».335 Di qui un’apologia di quel sistema del patronage padronale a cui
si è soliti attribuire un ruolo importante nell’affermazione e fissazione del
moderno regime di lavoro salariato in Francia. La letteratura sul patronage e le
sue declinazioni concrete paiono aver indotto le prime forme di
responsabilizzazione dei datori nei confronti dei lavoratori, stimolato l’interesse
di questi ultimi a fissarsi presso un’azienda, e lavorato all’estensione del regime
della grande manifattura a scapito dei piccoli laboratori. I principi del
patronage − che si vogliono concreta declinazione dell’«economia sociale» e
troveranno compiuta sistematizzazione in particolare nell’opera di Le Play −
mirano a realizzare un’osmosi fra la fabbrica e la vita quotidiana dell’operaio e
della sua famiglia, rendendo loro assolutamente vantaggioso di rimanere nella
stessa azienda, rappresentano un primo tentativo di lotta generale contro
l’instabilità della condizione operaia, ed esortano il datore (patron e non più
maître) a farsi carico del destino dei dipendenti.336 La certezza e stabilità del
lavoro emerge come risposta fondamentale ai mali della questione sociale, e il
patronage, da una parte chiama il datore a farsene carico, dall’altra sviluppa
dispositivi in grado di ridurre l’attitudine dell’operaio alla continua mobilità
indotta dalla ricerca di salari più alti. Robert Castel afferma che tali dottrine
rappresentano la trascrizione all’interno del rapporto di lavoro dei principi del
Visiteur du pauvre, e ritiene «significativo che sia nei bastioni del patronage 333 Frégier, Des classes dangereuses de la population dans les grandes villes cit., p. 279. 334 Si condannano le coalizioni fra lavoratori, si approvano le società di mutuo soccorso pur criticandone alcuni effetti e viene perorata la diffusione delle casse di risparmio. 335 Frégier, Des classes dangereuses de la population dans les grandes villes cit., tome I, p. 284. 336 Cfr. in part. F. Le Play, De la Réforme sociale en France, Plon, Pairs 1864.
458
padronale che scoppiano, a partire dalla fine del secondo Impero, i grandi
scioperi operai».337 L’elaborazione di questi principi consente inoltre di mutare
attitudine nei confronti delle grandi unità produttive che, grazie ad essi
divengono dispositivo di moralizzazione e non più di promiscuità e miseria, e
luogo di una stabilità che non può più essere garantita dai piccoli mestieri
nomadi, e deve essere valorizzata contro i lavori stagionali che stimolano la
mobilità campagna-città. «La disciplina manifatturiera – scrive Jacques
Donzelot restituendo alcune coordinate di questa mutata attitudine − non è forse
il miglior mezzo per diffondere queste norme, per instaurare questa
pacificazione della popolazione attraverso la più grande regolarità del salario
che essa permette, la fissazione della popolazione, l’agevole verifica delle
condizioni sanitarie, la distribuzione regolata dei consigli educativi? Il pericolo
non viene, piuttosto che dall’industria, dalla popolazione che resiste ai nostri
sforzi, sprofondando nei modi di vita più barbari e malsani?».338
Si è già sottolineato come, dal momento della sua ricostituzione nel 1832
l’Accademia delle Scienze Morali e Politiche, abbia concentrato molte delle
proprie attenzioni intorno allo sforzo di mettere a fuoco e oggettivare una figura
specificamente operaia, e il decisivo ruolo che la scia di tumulti successiva alla
rivoluzione di Luglio ha svolto nell’indurre tale orientamento. La sezione di
economia politica si impegna da subito in tal senso, nominando primo delegato
sul tema il dottor Louis René Villermé,339 uno dei suoi più autorevoli esponenti,
in forza anche della popolarità acquisita dalla sua corrente igienista con il colera
del 1832. La sua lunga inchiesta nelle più importanti manifatture di Francia
conduce alla pubblicazione nel 1840 del celebre Tableau de l'état physique et
moral des ouvriers employés dans les manufactures de coton, de laine et de
soie (molto spazio vi è dedicato ai canuts lionesi). Vi troviamo, fra l’altro, i
337 Castel, Les métamorphoses de la question sociale cit., pp. 417 e 419. 338 Donzelot, La police de familles cit., p. 71. 339 Louis René Villermé ne realizza il primo mémoire – La distribution del la population francaise par sex et par état civil – e ne diviene il primo delegato per lo studio delle condizioni operaie. Nel 1849 realizzerà uno studio sulle associazioni operaie e sarà eletto presidente dell’Asmp. Si pronuncia per il miglioramento delle condizioni della classe operaia ma contro ogni forma di loro associazione dei lavoratori.
459
principi etnografici della «visita» elaborati da Gérando, approfonditi e trasposti
dal generico universo dell’indigenza alla specificità del mondo operaio: ho seguito l’operaio − scrive Villermé − dal suo laboratorio fino alla sua dimora. Vi sono entrato con lui, l’ho studiato in seno alla sua famiglia; ho assistito ai suoi pasti. Ho fatto di più; l’ho visto nei suoi lavori e nella sua vita domestica, ho voluto vederlo nei suoi piaceri, osservarlo nei luoghi delle sue riunioni. Là, ascoltando le sue conversazioni, immischiandomi talvolta, sono stato, a sua insaputa, il confidente delle sue gioie e dei suoi dolori, dei suoi rimpianti e delle sue speranze, il testimone dei suoi vizi e delle sue virtù.340
Si tratta di un’indagine che ripropone la centralità dell’elemento morale,
punta a scindere «virtù» e «vizi» operai, a organizzare le condizioni che
permettono di mettere a fuoco, valorizzare, integrare il buon operaio isolandolo
dalle classi pericolose. Osservando la realtà di Lille, ad esempio, Villermé − la
cui indagine fa riferimento a una dimensione estremamente più vasta,
approfondita, documentata e, per così dire, «scientifica» rispetto alle inchieste
precedenti − rileva una sorta di divisione spontanea degli spazi urbani secondo
le «condotte» dei segmenti popolari che li abitano, e conclude: «questa
separazione fra buoni e cattivi, in differenti quartieri, è un fatto importante».341
I lavoratori delle manifatture vengono dunque osservati con sguardo al tempo
stesso medico e conservatore da un grande borghese che considera «la
mancanza o l’oblio dei principi morali» una determinante fondamentale nella
produzione della miseria (vista, anche qui, come conseguenza necessaria del
progresso della civilizzazione), si oppone alle coalizioni operaie e affida
soprattutto all’attiva iniziativa del fabbricante il miglioramento della sorte
«materiale e morale» degli operai.342 Da quest’ultimo punto di vista, allora, le
340 L. R. Villermé, Tableau de l'état physique et moral des ouvriers cit., vol. I, p. 30. Il lavoro è frutto di lunghi giri interni alla Francia, molti dei quali svolti con Benoist de Chateuneuf, il Tableau rimarrà una delle più importanti pubblicazioni dell'Asmp. 341 Ivi, vol. II, p. 6. 342 Ivi, vol. II, p. 36. L’alcolismo viene indicato come il più importante e drammatico flagello. «Dalla nostra rivoluzione, abbiamo visto la miseria, malgrado i suoi ritorni passeggeri a livelli di grande intensità, diminuire molto. Inoltre, la ricchezza e i suoi vantaggi sono meno che mai, fra noi, il privilegio esclusivo di una sola classe: ma tutti li pretendono oggi, e per
460
più classiche considerazioni di ordine morale – il mantra dell’imprevidenza di
operai che domenica e lunedì consumano in vizi tutto il salario della settimana
– vengono qui affiancate da altre di ordine, per così dire, «ecologico», che alle
politiche di moralizzazione cominciano a unire quelle di sicurezza: è questo
elemento, più che i contenuti specifici del Tableau, che vorrei sottolineare, le
conseguenze in termini di diritto e tutela del lavoro che questa ricerca induce.
«La storia delle inchieste operaie tra 1830 e 1848 equivale alla storia di una
riforma sociale»,343 scrive Hilde Rigaudias-Weiss sottolineando il carattere
paradossale di tale esito rispetto alla prospettiva conservatrice da cui molte
inchieste erano animate. Mi interessa allora sottolineare alcuni effetti di verità e
di potere indotti da questo primo sforzo semi-pubblico di istituire un sapere
specifico sulla figura operaia.344
Si è già detto, nel terzo paragrafo, dell’importante rilievo delle osservazioni
di Villermé nell’indurre le leggi che nel 1851 e nel 1854 riformano ma anche
questo, i poveri si vedono come più sfortunati che prima, benché in realtà la loro condizione sia migliore», ivi, vol. II, p. 5. 343 H. Rigaudias-Weiss, Les Enquêtes ouvrières en France entre 1830 et 1848, Préface de C. Bouglé, Elix Alcan, Paris 1936, p. 234. Viene qui sottolineato come siano state le agitazioni popolari all’indomani di 1830 a spingere l’Accademia delle Scienze Morali e Politiche all’inchieste operaia a fini di reazione: «sebbene figlia di due rivoluzioni essa divenne una istituzione conservatrice che difendeva lo Stato, ovvero la monarchia di Luglio contro i primi tentativi degli operai di realizzare le loro rivendicaizoni economiche e sociali» (p. 25). Coinonostante Rigaudias-Weiss sostiene che le inchieste realizzate da Buret e Villermé per l’Asmp, condotte su un campo incomparabilmente più vasto rispetto alle precedenti, siano state fondamentali da una parte per la documentazione delle teorie sociali e socialiste e perchè daranno l'esempio delle inchieste operaie, dall’altra per le ripercussioni che hanno avuto sulla legislazione operaia, a partire dalla legge sul lavoro dei bambini del 1841, fino alle grandi leggi sugli scioperi, sui sindacati e sull’orario di lavoro degli anni 1860-1900. «Dalla rivoluzione di Luglio gli operai lottano per il riconoscimento dei loro diritti economici nella società moderna. Essi domandano il miglioramento della loro condizione materiale aggravata sempre di più dal sistema industriale. L'inchiesta sociale che essi reclamano deve contribuire a diffondere la conoscenza delle loro condizioni di vita. La lotta per questa condizione preliminare di una riforma sociale è nei fatti la loro lotta per la riforma sociale stessa» (p. 234). La tesi è che sia stata proprio l'attività sociale degli operai ad avere provocato le inchieste dei Villermé e dei Buret. «Quando l'Asmp da l'ordine di una inchiesta a Villermé, nel 1839, e a Blanqui ainé nel 1848 è contro l'attività crescente del movimento operaio, contro l'influenza crescente delle idee socialiste che lo fa. È ugualmente sotto l'impressione delle prime lotte rivendicative degli operai che Buret scrive la sua» (p. 235). 344 Si tratta così di mostrare un intreccio concreto – rispetto alle considerazioni di cui al precedente paragrafo – fra un sempre più ordinato lavoro di conoscenza e indagine del sociale e lo sviluppo di una razionalità politica liberale che interpreta ora la dimensione della società come spazio che deve essere non solo governato per arginarne le deleterie spinte centrifughe, ma anche continuamente messo in forma e prodotto.
461
confermano, precisano e approfondiscono la normativa sul libretto operaio,
estendendola – rimossi gli elementi più retrivi – alle donne e ai lavoratori
domestici.345 Ma il più immediato e noto effetto del Tableau è la legge del 22
marzo 1841 sul lavoro dei bambini, che vi impone limiti di età e di orario,346 ed
ha rilievo fondamentale ai fini della presente ricerca nella misura in cui segna
un primo intervento statuale all’interno del rapporto di lavoro.347 Al di là dei
suoi contenuti, ragioni e modalità di applicazione, la rottura che questa norma
rappresenta consiste nell’atto stesso di legiferare in materia di regolamentazione
del lavoro, inducendo una torsione nella razionalità politica e giuridica liberale
che vede per la prima volta il lavoratore posto sotto tutela, e il principio della
libertà di impresa limitato (ma anche l’autorità stessa del capofamiglia sul
bambino, su cui lo Stato interviene ora in nome dell’interesse generale). Per
quanto di portata e applicazione limitate, la misura promossa a partire dallo
studio di Villermé rappresentava dunque un’incrinatura simbolica del legame
fra il liberalismo e i principi dell’economia. «È il primo passo che facciamo in
una via che non è esente da pericoli, è il primo atto di regolamentazione
dell’industria, che, per muoversi ha bisogno di libertà», afferma Gustave de
Beaumont nel dibattito parlamentare, ove Victor de Broglie sottolinea che la
legge «ha per scopo di restringere per la prima volta l’autorità paterna e la
libertà del lavoro tocca[ndo] gli interessi più vivi della società».348 Si assiste
insomma a un primo allargamento della sfera del giuridico su quella del lavoro,
e interessa qui sottolineare come tale processo si sia andato sviluppando
attraverso ciò che qui si è interpretato come uno sforzo cognitivo che il potere
345 Cfr. supra § 4.3. 346 La legge sul lavoro dei bambini che viene approvata nel 1841 si applica solo alle manifatture con più di venti operai, limita l’età di lavoro a otto anni e impone il massimo di otto ore di lavoro fra otto e 12 anni, 12 ore fra 12 e 16 anni, e vieta il lavoro notturno al di sotto di 13 anni. Ma alla fine, contro il relatore della legge, sarà statuito che i controllori siano scelti fra i fabbricanti, e ciò renderà di fatto la legge inapplicata. Cfr. L. Guénau, La législation restrictive du travail des enfants, in «Revue d’histoire économique et sociale, 1927, pp. 421 sgg. 347 Le leggi Le Chapelier si proponevano un obiettivo diametralmente opposto (Cfr. supra § 4.2 nota 54), e la normativa promossa da Chaptal nel 1803 riguardava logiche e materie del tutto differenti (cfr. supra § 4.3). 348 «Moniteur Universel», 11 aprile e 23 febbraio 1840, cit. in Ewald, L’État providence cit., p. 96.
462
va dispiegando sull’ambito del sociale, che segna l’origine delle scienze sociali
in Francia, porta impressi i segni del trauma del colera e delle sommosse, e,
questa l’ipotesi che qui si propone, partecipa all’emergere di un soggettività
specificamente operaia.
François Ewald afferma che la legge del 1841 inaugura nuove politiche di
sicurezza, e rileva nel passaggio di fine anni 1830 un’«inflessione importante»
in forza della quale la strategia «non sarà più tanto quella di rendere l’operaio
proprietario quanto di fare della sua condizione di salariato – fino ad allora
sinonimo di precarietà, di incertezza e di dipendenza, porta aperta su una
povertà che restava il suo più prossimo destino – una condizione assicurata,
stabile, offrendogli una garanzia minimale per i suoi bisogni e quelli della sua
famiglia».349 E Jacques Donzelot, analizzando le strategie di gestione sociale
della famiglia, rileva come anche le campagne per la promozione del
matrimonio popolare lavorino in ultima analisi a dare stabilità al lavoratore nel
quadro di un progetto di integrazione che fa «della sfera industriale il punto di
applicazione e il supporto di una civilizzazione dei costumi, di una integrazione
dei cittadini».350 Il primo strumento che, dagli anni 1820, indica il prendere
forma di questo progetto sono naturalmente le casse di risparmio, capitolo
obbligato di ogni inchiesta sulla miseria operaia e i mezzi di prevenirla e porvi
rimedio, e poi, più tardi, i citati principi del patronage, che puntano a istituire
un legame più forte della semplice esteriorità del contratto fra operaio e
impresa. Ma ciò che qui più interessa mettere in evidenza è un mutamento che
pare determinarsi nell’attitudine verso quelle forme di associazione operaia – le
società di mutuo soccorso – che abbiamo trovato al principio della presente
ricerca analizzando la mobilitazione sfociata nell’insurrezione di novembre
1831. Di fatto vietate dalle leggi Le Chapelier, poi al massimo tollerate con
irritazione, 351 queste società paiono poi progressivamente cooptate nelle
349 Ewald, L’État providence cit., p. 206. Si sottolinea il fare ricorso, da parte della norma, all’elemento morale, ma anche qui c’è rottura poiché lo Stato si erge a garante e titolare dell’interesse pubblico alla salute dei bambini. 350 Donzelot, La police de familles cit, p. 57. 351 Nel 1834 era stato ridotto a venti il numero degli aderenti e aggravate le pene per infrazione.
463
strategie di oggettivazione e moralizzazione della miseria urbana attraverso il
lavoro, incoraggiate e sostenute a condizione che precisino e si attengano
rigorosamente al proprio oggetto.
Di fronte alla percezione della portata della minaccia che la questione sociale
pone alla nuova realtà uscita dalla Rivoluzione, mettendone in discussione le
condizioni stesse di esistenza, le tattiche e strategie tese alla conservazione della
società prendono la forma di un progetto di integrazione che si organizza tutto
intorno alla dimensione del lavoro – del lavoro operaio, generico e radicalmente
altro rispetto ai vecchi corpi di mestiere –, facendone progressivamente il
tramite principale di accesso ai sistemi di protezione e anche alle reti di
sociabilità. Istituendo insomma il lavoro come «supporto privilegiato di
iscrizione nella struttura sociale». 352 La progressiva focalizzazione delle
inchieste sulla questione sociale, dell’analisi della povertà, dice di questo
processo, lo accompagna ma anche contribuisce a determinarlo, organizzando
la rappresentazione del soggetto operaio, mettendolo a fuoco, istruendolo come
oggetto di sapere e di scienza e disponendo così le condizioni affinché esso
diventi oggetto di politiche e pratiche amministrative. Una genealogia
dell’emergenza della classe operaia nella Francia dell’Ottocento dovrebbe
allora, a mio avviso, guardare con particolare attenzione proprio alle
interferenze e alle relazioni reciproche che si attivano fra questa strategia di
governo attraverso il lavoro della questione sociale, di produzione di un
soggetto specificamente operaio come argine al disordine di forme di vita e
comportamenti del proletariato urbano da una parte, e quel progetto di
soggettivazione politica ed emancipazione che si organizza anche attraverso la
rappresentazione discorsiva di bisogni e interessi delle classi popolari intorno
alla figura forte del lavoro operaio. Si tratterebbe allora di restituire profondità
storica a uno degli elementi che in maniera più importante ha segnato la politica
negli ultimi centocinquant’anni, ritrovarvi la dimensione dell’alea e il carattere
spurio, composito, a tratti indecidibile, dei processi che hanno concorso a
352 R. Castel, Les Métamorphoses de la question sociale, une chronique du salariat, Gallimard, Paris 1995, p. 17.
464
determinarlo.
Poco dopo la missione conferita a Villermé – e all’indomani della seconda
révolte des canuts estesasi stavolta anche a Parigi ove termina con il
«massacro» della rue Transonian – l’Asmp bandisce il premio per ricerche tese
a «determinare in cosa consiste e con quali segni si manifesta la miseria». Sarà
assegnato, nel 1840, alla citata ricerca di Eugène Buret, che si concentra sulla
«miseria generalizzata, permanente e progressiva delle popolazioni operaie».353
Discepolo di Sismondi, questi è autorevole esponente della cosiddetta
«economia sociale», che lavora a innestare sistematicamente l’elemento morale
promosso dalla filantropia sull’economia. Egli colloca perciò il suo lavoro nel
quadro di una riflessione di ampio respiro sullo statuto teorico di un’economia
la cui rivendicazione di razionalità scientifica avrebbe finito per occultarne la
natura intrinsecamente politica: «essa ha limitato sempre più il suo oggetto al
punto di non essere più che la teoria astratta della produzione e dei valori».354 A
questa «ontologia della ricchezza» Buret oppone una «fisiologia della società»
che considera e studia anche l’altro fatto che alla ricchezza si accompagna: «ci
proponiamo di completare con lo studio della miseria la scienza sociale che,
sotto il nome di economia politica, ha ricercato e creduto di scoprire le leggi del
benessere delle nazioni».355 Si tratta di sviluppare un’analisi a forte vocazione
353 Buret, De la Misère des classes laborieuses cit., tome I, p. 107. La ricerca indaga il caso della Francia e dell’Inghilterra, e quest’ultima viene assunta come un «paese malato» e si impegna a studiare in cosa consista la miseria distinguendola dalla mera povertà. Il premio quinquennale Beaujour di 5.000 franchi era stato messo a concorso nell’aprile 1834, prorogato nel 1837, e infine diviso in tre differenti quote nel 1840 su rapporto di Villermé, cfr. Picot, Concours de l'Académie cit., p. 11. 354 Ivi, p. 5. Ricardo viene reputato il principale interprete di questa tendenza che vuol fare dell’economia una scienza simile alla matematica liberandosi dalla morale. Dopo Smith l’economia politica si sarebbe andata concentrando sull’esclusivo oggetto della produzione della ricchezza, abbandonando la dimensione del governo degli uomini e dell’organizzazione della loro felicità che ne aveva rappresentato l’aspirazione fondante. 355 Ivi, p. 91. Si tratta di «completare l’economia politica con lo studio dei fenomeni della miseria, che sono la critica più legittima dei fenomeni della ricchezza» (p. 54). Buret propone uno studio della «fisiologia della società» come scienza delle funzioni della vita in grado di cogliere la società nel suo funzionamento vivente, nei rapporti fra le classi sociali, in cui miseria e ricchezza si alimentano reciprocamente. A causa del suo metodo storico, questo autore prende la miseria, rovescio della ricchezza, come un male transitorio della società capitalista come lo è stato lo schiavismo, e interpreta il regime di libera concorrenza come una sorta di medioevo in
465
storica e sociale in grado di colmare la contraddizione fra il regime economico
che governa l’industria e i principi morali su cui riposa la civilizzazione.
Buret afferma il carattere specificamente operaio della questione sociale: «è
fra i ranghi di questa popolazione, molto più numerosa di quanto si pensi, che si
recluta il pauperismo, questo minaccioso nemico della nostra civiltà».356 E,
differentemente da altri autori richiamati, denuncia la radicale incapacità della
virtù privata della carità di intervenire in modo incisivo sul pauperismo,
invocando la necessità di «dare, invece dell’elemosina pubblica o privata, a tutti
coloro che subiscono la miseria, i mezzi di affrancarsene attraverso il
lavoro».357 Buret sviluppa una vera apologia del lavoro e della «redemption par
le travail»: 358 «i nostri padri hanno gloriosamente riabilitato il lavoro»
ponendolo come unico fondamento legittimo della proprietà, «dopo questa
magnifica apologia del lavoro, che non ha più nel mondo civilizzato un solo
oppositore, è conseguente, domando,[…] di sottomettere senza protezioni [il
lavoro] a tutti i capricci della concorrenza […]?». 359 Spiegazione e
giustificazione del problema della miseria è dunque l’aver considerato il lavoro
come una merce, l’averlo ridotto a tale condizione senza riconoscervi un valore
morale,360 e la soluzione di tale problema non risiede allora nella beneficenza,
ma nella garanzia di dignità, protezione, stabilità del lavoro: la questione
sociale è divenuta (e deve diventare) anzitutto questione operaia.
Buret insiste sul carattere scientifico del suo lavoro, ostile al comunismo e
cui vige un regime di libertà totale e, per certi versi, barbara (la concorrenza internazionale è paragonata alla guerra). «Questa immensa crescita di ricchezza ha piuttosto il carattere di una conquista violenta, di una vittoria, che di una creazione pacifica» (ivi, p. 67). 356 Ivi, p. 69. 357 Ivi, p. 88. 358 Ivi, p. 91. Buret si concentra sul fatto che a produrre la ricchezza che fa oggetto dell’economia politica è il lavoro. «Perché dunque non avere visto nel lavoro che un valore di scambio, perché non avervi visto con la medesima sagacità un valore morale?» (ivi, p. 44). 359 All’umanità «rimane ora, per completare il suo compito, di riabilitare il lavoro nei fatti, come lo ha già riabilitato nelle idee», ivi, p. 48. Buret denuncia la brusca e drammatica sostituzione del lavoro in famiglia con quello in fabbrica, e gli effetti deleteri della precarietà del lavoro, dei periodi di disoccupazione che toccano soprattutto alcune categorie, e la lega al fatto che le trasformazioni produttive non richiedono più un particolare mestiere o competenza professionale, configurandosi appunto come occupazioni passeggere, «in questo regime attuale, il lavoro è senza alcuna sicurezza, senza garanzia come senza protezione» (ivi, p. 70). 360 Ivi, p. 86.
466
volto a proporre pacifiche riforme positive piuttosto che l’ostilità fra le classi:361
ciononostante, premiandolo, l’Asmp gli rimprovera prossimità alle tesi
socialiste. Sono anni in cui si vanno realizzando anche le prime inchieste sociali
interne al mondo operaio e socialista,362 la documentazione e lo sviluppo delle
dottrine sociali sono nutrite di riferimenti al lavoro di Villermé e a quello di
Buret. Non appena arrivato a Parigi, Marx entra in possesso di una copia di De
la miseré des classes labourieuses, e la sua prima incursione sul terreno della
critica dell’economia politica – i Manoscritti economico-filosofici del 1844 –
pare fortemente segnata da questa lettura.363 Buret vi si trova citato tre volte
(comparirà ancora nei quaderni redatti a Bruxelles), e sembra giocare un ruolo
fondamentale nell’organizzare la concezione della contraddizione specifica
della questione sociale, e nella critica della nozione economica di salario come
mero valore di scambio che considera il lavoro astrattamente come una merce.
Nel terzo capitolo si è fatto riferimento in particolare alla figura dell’operaio 361 Buret denuncia che il regime attuale acquista la ricchezza al prezzo della miseria, ma la sua concezione fortemente storica (segnata anche da questo punto di vista dal magistero di Sismondi) lo porta a riterenerla una condizione necessariamente transitoria come lo è stata la schiavitù. «È importante che non ci si possa confondere con i nemici appassionati che la società attuale solleva contro di sé. No, noi non scriviamo per fornire argomenti, o piuttosto armi, a coloro che vogliono ancora distruggere» (ivi, p. 77). Buret insiste sulla necessità di non attribuire la «tirannia delle cose» a individui o classi, sul fatto che le riforme sollecitate non richiedono violenza e condanna il comunismo come destino di «povertà universale». 362 Fra le primissime e poinieristiche inchieste sulla condizione operaia svolte in ambito operaio o socialista si devono ricordare, oltre ai già citati scritti di Agricol Perdiguier (cfr. supra primo capitolo, § 1.2 nota 65): una sintetica inchiesta sulla «situazione dei diversi stati» che appare già nel 1830 su «l'Artisan», poi Louis Blanc per scrivere l’«Organisation di travail» (1839) raccoglie informazioni da oltre 1.500 operai in 830 ateliers, nel 1840 «l'Atelier, Journal addressé aux ouvriers par des ouvriers», di ispirazione cattolica conduce la prima vera inchiesta operaia, fatta da operai per gli operai, il 3 novembre 1844 Ledru-Rollin lancia sul «La Réforme» la Pétition des Travailleurs affinchè la Camera promuova un’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori (130.000 cittadini firmano la petizione ma non un solo deputato la sosterrà). Nel maggio 1848 la commissione lavoro dell'Assemblea Costituente ordina poi la fondamentale Enquete sur le travail agricole et industriel. 363 Sui Manoscritti Cfr. supra terzo capitolo § 3.4. Vi è poi ancora traccia di Buret nei quaderni di appunti marxiani redatti a Bruxelles fra febbraio e giugno 1845, ma si trova citato solo nei Manoscritti del 1844. Per una disamina delle «ripercussioni» dell'opera di Buret sulle teorie di Marx e Engels cfr. Rigaudias-Weiss, Les Enquêtes ouvrières en France entre 1830 et 1848. pp. 134-157. «Alcune parti della teoria sociale ed economica di Buret si ritrovano nelle idee principali delle teorie socialiste», sostiene questa studiosa (p. 114), che intende argomentare contro la tesi che sia stato Buret a ispirare il lavoro di Engels sulle classi lavoratrici in Inghilterra, sottolineando sia il carattere più artigiano e politicizzato degli operai inchiestati da Buret rispetto a quelli inglesi, sia il fatto che Engels legge De la Misère des classes laborieuses solo nel 1845 su indicazione di Marx, e comunque non lo richiamerà mai esplicitamente.
467
che emerge dai Manoscritti come nome della rappresentazione alienata che
l’economia fa dell’uomo, e ad altre immagini che richiamano le considerazioni
di Buret secondo cui gli economisti politici «non li conoscono [gli operai] come
uomini ma solamente come strumenti di produzione».364
Attraverso alcuni lavori che segnano l’origine delle scienze sociali in
Francia, ho dunque cercato di seguire i mutamenti nella concezione liberale
della povertà che conducono alla centralità della questione operaia nell’ambito
della questione sociale. Sandro Chignola ha sottolineato l’«ambiguità del
rapporto» che è possibile cogliere fra alcune declinazioni della peculiare
versione à la française del liberalismo in termini solidaristi di economia morale
o cristiana tesi ad arginare le tendenze dissociative della questione sociale, e «la
pratica dell’associazione», «il pensiero ‘organizzativo’ espresso negli anni
attorno al 1848 dalla soggettività operaia».365 Il presente capitolo ha inteso
suggerire come l’emergere di quest’ultima possa essere colta osservando i punti
di intersezione ibridi fra i processi di soggettivazione sviluppati nell’ambito del
movimento operaio e socialista, e alcune razionalità e pratiche attivate dal
liberalismo per fissare la figura operaia come dispositivo di moralizzazione e
governo della miseria urbana. Una genealogia del decisivo ruolo che la figura
del lavoro operaio è andata acquisendo nell’ambito del politico contemporaneo,
dovrebbe insomma condurre a osservare le interferenze fra gli interventi del
discorso operaio e socialista sul terreno diritto del lavoro, e quelli liberali
nell’ambito del governo del sociale.
Dopo le grandi dichiarazioni dei diritti di fine Settecento, la rivendicazione
degli operai quarantotteschi del diritto al lavoro marca una radicale
discontinuità a partire dalla quale il lavoro verrà emergendo come uno dei
principali centri di imputazione di diritti e garanzie negli ordinamenti moderni.
La produzione soggettività che da metà Ottocento si organizza intorno a una
condizione di lavoro manuale produrrà una progressiva trasformazione del
rapporto salariale in rapporto giuridico. Da figura dell’esclusione sociale,
364 Ivi, p. 68. 365 Chignola, Fragile cristallo cit., p. 475.
468
l’operaio – attraverso lo statuto giuridicamente riconosciuto del salariato che
contribuisce anche a provocare una rivoluzione semantica sullo stesso lemma
ouvrier – diviene soggetto politico-giuridico. Facendo del diritto del lavoro il
proprio «sapere» specifico,366 il «movimento operaio» organizzerà attorno alla
figura operaia l’insieme delle rappresentazioni del mondo del lavoro e non solo.
L’emergere della classe operaia come formazione discorsiva è questo lavoro di
produzione di un soggetto che diviene strumento per leggere e interpretare un
vasto e multiforme campo di questioni e problemi: si potrebbe dire, con
François Ewald, che si è trattato dell’«istituzione di un nuovo regime sociale di
verità: vale a dire di nuove maniere per gli uomini di identificarsi, di gestire la
casualità delle loro condotte, di pensare i loro rapporti, i loro conflitti e la loro
collaborazione».367 Di questi elementi, che mi paiono aver contribuito a formare
configurazioni e frontiere assunte e a lungo mantenute dal politico
contemporaneo, ho voluto tracciare la storia di alcune condizioni di emergenza.
366 Cfr. supra l’Appendice al terzo capitolo. 367 Ewald, L’État providence cit., p. 26.
469
Bibliografia
1. Stampa
1.1 Quotidiani1
«Le Constitutionnel. Journal du commerce, politique et littéraire»
(indipendente-governativo, 1815-1914, 11.240, copie 80f)
«Le Figaro»
(satirico, governativo ed ex-repubblicano, 1826-1854, 598 copie)
«Gazette de France»
(foglio serale legittimista, 1631-1915, 8.676 copie, 80f)
«La Gazette des Tribunaux. journal de jurisprudence et des débats judiciaires»
(cronaca giudiziaria, 1825-1955, 60f)
«Le Globe»
(sainsimoniano, 1824-1832, 2.072 copie, gratuito)
«Journal des Débats politiques et littéraires»
(orleanista e governativo, 1789-1944, 6.695 copie, 80f)
«Le Moniteur universel»
(organo ufficiale che riporta dibattiti parlamentari e atti ministeriali, 1811-
1 Riporto i quotidiani da me consultati e citati nella tesi seguiti fra parentesi da orientamento politico, anno di fondazione e chiusura, numero di copie spedite ogni giorno nei dipartimenti, prezzo di vendita in franchi). Questi dati sono tratti dal Tableau de tous les journaux politiques, scientifiques, industriels (...) qui se publient à Paris, classés par ordre alphabétique, indiquant l'adressede leurs bureaux, les jours et époques qu'ils paraissent, leurs prix d'abonnement pour Paris, les départementset l'étranger, 1832 (Bnf, impr., in-fol.,Q 25), e poi G. Feyel, La diffusion nationale des quotidiens parisiens en 1832 (1954), in «Revue d'histoire moderne et contemporaine», 1-3, 1987 e J.-P. Aguet, Le tirage des quotidiens de Pans sous la Monarchie de Juillet, in «Revue suisse d'Histoire», 62, 1960. Dalle fonti è possibile risalire solo al numero di copie dei quotidiani che ogni giorno vengono spedite nei dipartimenti, secondo Feyel tale numero tenderebbe più o meno a coincidere con il numero di copie distribuite a Parigi.
470
1901, 920 copie)
«Le National»
(repubblicano, 1830-1851, 2.038 copie, 80f)
«Le Temps. journal des progrès politiques, scientifiques, littéraires et
industriels»
(sinistra dinastica-opposizione orleanista, 4.644 copie, 1829-1842, 80f)
1.2 Riviste
«L’artisan. Journal de la classe ouvriere»
(giornale operaio del mercoledì e della domenica di breve durata,
settembre-ottobre 1830)
«La Caricature morale, politique et littéraire»
(settimanale satirico repubblicano, 1830-1843)
«La Mode. Revue du monde élégant»
(settimanale legittimista, 1829-1862)
«La Revue des deux mondes. recueil de la politique, de l'administration et des
mœurs»
(quindicinale politico-letterario liberale di respiro internazionale, 1829-)
«La Revue européene par les rédacteurs du Correspondant»
(mensile cattolico, 1831-1835)
«La Revue républicaine. Journal des doctrines et des intérets démocratiques»
(cinque volumi di approfondimento delle tematiche repubblicane
pubblicati fra 1834 e 1835)
«L’Écho de la farique. Journal industriel de Lyon et du département du Rhône»
(settimanale organo del mutualismo dei tessitori lionesi, 1831-1835)
«L’Européen. journal des sciences morales et économiques»
(settimanale di opposizione, 1831-1838)
«Le Phalanstère. Journal pour la fondation d'une phalange agricole et
471
manufacturière, associée en travaux et en ménage»
(settimanale fourierista 1832-1834)
«Le Rénovateur»
(settimanale legittimista, 1831-1835)
«Revue de Paris»
(settimanale letterario, 1829-1858)
«Revue encyclopédique ou Analyse raisonnée des productions les plus
remarquables dans la littérature, les sciences et les arts / par une réunion
de membres de l'Institut et d'autres hommes de lettres»
(trimestrale di approfondimento politico-letterario 1819-1835)
1.3 Letteratura sulla stampa francese della monarchia di Luglio
J.-P. Aguet, Le tirage des quotidiens de Paris sous la Monarchie de Juillet, in
«Revue suisse d'Histoire», 62, 1960
G. de Broglie, Histoire politique de la Revue des Deux Mondes de 1829 à 1979,
Perrin, Paris 1979
I. Collins, The government and the newspaper press in France, 1814-1881,
Oxford U. P. 1959
T. Cragin, Murder in Parisian streets: manufacturing crime and justice in the
Popular Press, 1830-1900, Bucknell University Press, 2006
F. Erre, Les discours politiques de la presse satirique. Étude des réactions à
l’«attentat horrible» du 19 novembre 1832, in «Revue d'histoire du XIXe
siècle», 29, 2004
G. Feyel, Une géographie nationale des grands courants d'opinion au début de
la Monarchie de Juillet: la presse parisienne et des départements en
1832, in «Histoire, économie et société», 1, 1985, pp. 107-13
G. Feyel, La diffusion nationale des quotidiens parisiens en 1832, in «Revue
d'histoire moderne et contemporaine», 1-3, 1987
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E. Hatin, Histoire politique et littéraire de la presse en France, Poulet-Malassis
et de Broise, Paris 1859-1861
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ou Catalogue systématique et raisonné de tous les écrits périodiques de
quelque valeur publiés ou ayant circulé en France depuis l'origine du
journal jusqu'à nos jours, Firmin-Didot frères, Paris 1866
L. C. Jennings, Slavery and the Venality of the July Monarchy Press, in «French
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Librairie Hachette, Paris 1930
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Paris, Hachette 1929
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renaissance, Paris
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sous quelques-uns de ses rapports physiques et moraux, impr. de F.
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Anonimo, La vérité tout entière sur les empoisonnements. Cruautés exercées
sur les malheureuses victimes. Sanglants excès de la fureur populaire,
Impr. de Chassaignon, Paris 1832
R. Apponyi, Vingt-cinq ans à Paris, 1826-1850. Journal du comte Rodolphe
Apponyi, t. II 1831-1834, Plon, Paris 1913
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1833) a cura di P. Régnier, Du Lérot, 1992
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S. A. Bazard, Religion saint-simonienne Discussions morales, politiques et
religieuses qui ont amené la séparation qui s'est effectuée, au mois de
novembre 1831, dans le sein de la Société saint-simonienne. Première
partie, Delaunay, Paris 1832
A. Bazin, L'Epoque sans nom. Esquisses de Paris (1830-1833), A. Mesnier,
Paris 1833
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L. F. Benoiston de Châteauneuf, Rapport sur la marche et les effets du cholèra
morbus dans Paris et les communes rurales du département de la Seine,
Imprimerie royale, Paris 1834
E. Buret, De la Misère des classes laborieuses en Angleterre et en France: de
la nature de la misère, de son existence, de ses effets, de ses causes, et de
l'insuffisance des remèdes qu'on lui a opposés jusqu'ici, avec les moyens
propres à en affranchir les sociétés, Paulin, Paris 1841
Ch. Béranger, Pétition d'un prolétaire à la Chambre des députés, in «Le
Globe», 3 febbraio1831
Ch. Béranger, Pétition des ouvriers de Paris, in «Ècho de la fabrique», 59, 9
dicembre 1832
C. Bernard e P. Charnier, Rapport fait et présenté à M. le président du Conseil
des ministres, sur les causes qui ont amené les événemens de Lyon, par
deux chefs d'ateliers, impr.de Charvin, Lyon [s. d.]
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généraux du saint-simonisme, Biard, Paris 1832
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Haye, Amsterdam 1727
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V. de Broglie, Écrits et discours, Didier, Paris 1863
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contre notre Père Olinde Rodrigues, Éverat, Paris 1832
M. Chevalier, Religion saint-simonienne. L'ouvrier. Le propriétaire. Impr. de
Éverat, Paris 1832
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1832
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1 Le pubblicazioni sansimoniane del 1831-32 sono archiviate in Bnf al nome di Michel Chevalier, che era direttore del «Globe» e amministratore dei beni sansimoniani.
476
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französische Jahrbücher, a cura di G. M. Bravo, Edizioni del Gallo,
3 Con la sigla MEW faccio riferimento a Marx-Engels, Werke, 43 Bd. und 1 Erg. Bd., Dietz Verlag, Berlin/DDR 1982-90, indicando l’anno di prima pubblicazione (preceduto nel caso delle opere postume dall’anno di stesura seguito dalla lettera P), poi il numero del volume e le pagine.
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riforma sociale di un prussiano», in Marx-Engels, Opere, vol. III, Editori
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Bruno Bauer und Konsorten (1845, in MEW, II, pp. 7-223); trad.it. La
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http://aimable-faubourien.blogspot.com/: Antologia di brevi testi, articoli e
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http://www.asmp.fr: sito dell’Accademia delle Scienze Morali e Politiche
http://www.criminocorpus.cnrs.fr/: archivio digitale sul diritto penale francese
http://echo-fabrique.ens-lyon.fr/index.php: archivo digitale interattivo di tutta la
stampa operaia lionese degli anni 1831-1835
http://gallica.bnf.fr/: molte delle fonti utilizzate sono disponibili in questo
archivio digitale della Bnf
http://www.guizot.com/fr/ouvrages-de-francois-guizot/: link a tutte le opere
digitalizzate di François Guizot
http://maitron-en-ligne.univ-paris1.fr/: ricco dizionario bigrafico del movimento
operaio francese on line
http://www.marxists.org/index.htm: archivio digitale dell’opera completa di
Marx ed Engels in lingua originale e in traduzione
4.2 Film
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M. Carné, Les Enfants du paradis (1945)
É. Chautard, Le Chiffonnier de Paris (1913)
C. Gallone, La storia dei tredici (1917)
F. Girod, Lacenaire (1990)
R. Kahane Charles Clément, canut de Lyon (film tv Antenne 2, 1979)