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Università Degli Studi Di Torino
Filosofia e Scienze dell'Educazione
Comunicazione e culture dei media
Cheap FoodIntroduzione all'evoluzione dei regimi
agroalimentari nel sistema-mondo
Studente RelatoreAlessandro Barbero Dario Padovan
Anno Accademico 2013-2014
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Indice
Introduzione...................................................................................................................5
1 Il sistema capitalista..................................................................................13
1 Dal feudalesimo al capitalismo.........................................................................13
1.1 La natura come valore: un po' di zucchero nel caffè?....................................18
1.2 Tra centro e periferia......................................................................................24
2 L'egemonia tra direzione, controllo ed espansione...........................................28
3 Le province unite del XVIII secolo..................................................................34
4 L'officina del mondo.........................................................................................38
5 L'egemonia statunitense....................................................................................41
6 Nuove egemonie...............................................................................................45
2 Cibo e capitale.........................................................................................................51
1 Cibo come risorsa: economica o biologica?.....................................................51
2 Regimi alimentari: il legame tra cibo e capitale...............................................54
3 Regime britannico e statunitense......................................................................58
4 Neoliberismo e Regime alimentare multinazionale..........................................62
5 Il sud del mondo...............................................................................................69
6 Biofuels: feeding the world..............................................................................75
7 Le guerre per il cibo.........................................................................................84
3 Il consumo di cibo...................................................................................................92
1 Il mondo dei supermercati................................................................................92
2 I supermercati nell'America Latina..................................................................97
3 La situazione cinese........................................................................................100
3
4 La crescita dei supermercati in Africa............................................................103
5 Accessibilità e fast-food..................................................................................108
6 Spreco alimentare...........................................................................................115
7 Carne e pesce: quando il lusso diventa pop....................................................118
7.1 Pesce............................................................................................................118
7.2 Carne............................................................................................................127
4 Alternative alimentari..........................................................................................134
1 Transizione......................................................................................................134
2 Sostenibilità alimentare...................................................................................139
3 Sovranità alimentare.......................................................................................148
4 I gruppi d'acquisto GAS e GAC.....................................................................155
5 Le api: un anello indispensabile nella catena alimentare................................163
6 Contro lo spreco..............................................................................................170
Conclusioni.................................................................................................................173
Bibliografia................................................................................................................179
Sitografia, filmografia e materiale personale...................................................188
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Introduzione
Il presente lavoro riguarda l'analisi dell'evoluzione del sistema agroalimentare
mondiale, in relazione con lo sviluppo dei sistemi basati sull'accumulazione di capitale e
le conseguenze che tale unione hanno generato a livello ecologico. Lo sviluppo di
grandi sistemi politici ed economici, come verrà dimostrato, coincide con un percorso di
impoverimento ecologico, direttamente proporzionato alla velocità di espansione e di
prelievo di risorse di tali sistemi. Storicamente l'espansione e la stabilità di sistemi
capitalisti sono legate alla reperibilità o disponibilità di quattro elementi fondamentali:
le materie prime, le risorse alimentari, la forza-lavoro e le risorse energetiche.
L'abbondanza o la difficoltà di reperimento di questi elementi determina fortemente
l'andamento, da un lato del sistema capitalista, dall'altro l'equilibrio ambientale e delle
risorse naturali: come verrà infatti descritto, l'attività di sfruttamento delle risorse
naturali (i suoli, le fonti idriche, quelle energetiche, le foreste, i giacimenti minerari, i
combustibili, ecc...) produce una scissione metabolica, o 'Metabolic Rift', già teorizzata
da Marx e Engels, e ripresa dalle correnti neomarxiste di fine XX secolo. La scissione
metabolica rappresenta la discrepanza ecologica tra le risorse prelevate, necessarie allo
sviluppo delle attività umane, e quelle reintegrate attraverso i processi naturali.
L'aumentarsi della forbice fra i due valori determina sconvolgimenti ecologici planetari
descrivibili attraverso la costante perdita di biodiversità, il degradamento dei terreni e
delle aree agricole, l'inquinamento dei suoli, dell'aria e delle fonti idriche e dunque della
salute umana ed animale.
Il mio personale interesse per l'analisi delle questioni socio-culturali e socio-
economiche, felicemente sviluppate durante il percorso accademico, è stato il punto di
partenza nella stesura del presente lavoro, alimentato dalla curiosità per il nascente
interesse, a livello collettivo, verso il settore alimentare: durante le fasi di ricerca e di
studio ho potuto tuttavia constatare che l'interesse per il cibo era molto spesso limitato a
parametrici di gusto ed economicità dei prodotti. La sicurezza alimentare, nonostante
rappresenti un'importante variabile di scelta, è tuttavia soddisfatta attraverso il controllo
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delle scadenze e della provenienza, celando al consumatore le modalità produttive.
Questo perché, come viene descritto al'interno del lavoro, se il consumatore venisse
informato dei metodi produttivi, nella maggior parte dei casi costui cercherebbe nuove
fonti alimentari, provocando il corto circuito dell'intero meccanismo agroalimentare,
sempre più governato da un gruppo ristretto di multinazionali.
La scalata al potere economico e finanziario e la nascita di società e mercati
globalizzati rappresenta una delle tappe evolutive che hanno interessato congiuntamente
tanto il capitalismo, quanto il sistema agroalimentare mondiale e locale. Uno degli
obiettivi del lavoro è proprio lo studio comparato di capitale e cibo, attraverso una
visione socio-storica ed economica. Verranno quindi descritti i processi transitivi da un
regime all'altro all'interno del panorama capitalista, protagonisti di analoghe
trasformazioni sul piano della produzione, dell'accessibilità e del consumo alimentare.
Tale analisi avviene all'interno dello schema multi-livello socio-tecnico e della
quotidianità delle pratiche socio-culturali: in altre parole, lo sviluppo capitalista e di un
certo tipo di produzione agroalimentare hanno assunto, nel corso dei secoli e dello
sviluppo tecnico-scientifico, uno status di panorama il primo, e di regime la seconda. La
produzione intensiva per le masse di tutto il mondo si è dunque sedimentata nel pensiero
comune, e rappresenta - come si vedrà - un importante punto di forza dell'attuale
sistema.
L'industrializzazione dell'agricoltura, assieme ad altre attività volte alla
massimizzazione della resa e dei profitti, se da un lato si mostrano al pensiero
dominante come necessarie e benevole per le attività umane, dall'altro nascondono la
dannosità ambientale descrivibile attraverso il concetto di scissione metabolica. La
percezione della pericolosità è a livello sociale tuttavia minima: l'attenzione per le
tipologie di produzione, come l'uso di sostanze tossiche (tanto per l'ambiente quanto per
l'uomo e per gli animali che vengono a contatto) costituisce molto raramente, ad
eccezione delle nicchie socio-tecniche, un criterio di scelta.
In questo scenario, si può comprendere pienamente il ruolo attivo giocato dal settore
della grande distribuzione, di cui i supermercati e le relative derivazioni rappresentano il
simbolo principale. Il dominio attuale dei supermercati all'interno della distribuzione
alimentare costituisce un elemento di analisi delle politiche neoliberiste di fine
novecento e della difficile situazione, in termini salutari e di accesso al cibo, attuale. I
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rapporti ufficiali delle organizzazioni mondiali, come la FAO, stimano a questo
proposito che la quantità di persone indigenti nel mondo sia di circa 900 milioni: tale
numero, come verrà dimostrato, è in stretta relazione alla nascita di nuovi supermercati
nelle periferie mondiali, alla riduzione dei raccolti (determinati dalle modalità di
coltivazione intensiva e di utilizzo di sostanze tossiche che garantiscono un'alta resa
nell'immediato, contrapposta ad un elevato esaurimento di risorse nutritive nel lungo
periodo), all'aumento dei prezzi alimentari nei mercati mondiali (fortemente influenzati
dall'andamento finanziario), all'insorgenza di nuove malattie e alla nascita di conflitti
armati.
Le dinamiche sociali e di conflitto sono quindi in parte legate all'accessibilità
alimentare, sempre più influenzata dai mercati economici, dalle multinazionali e dalle
catene di distribuzione. In questa descrizione si dimostra evidente il legame tra cibo e
capitale e tra capitale e ambiente; secondo alcuni studiosi, il capitalismo stesso
rappresenta un sistema ecologico, in quanto fortemente dipendente dalle risorse naturali.
Questa dipendenza è facilmente osservabile, per esempio, nel rapporto tra denaro,
combustibili fossili e concentrazione di potere. La visione proposta tuttavia non fa che
esplicitare un concetto apparentemente scontato, ma proprio per questo molto spesso
lasciato ai margini della riflessione, e cioè la naturale dipendenza di qualsiasi attività
umana rispetto al pianeta, che in quanto sistema finito, è caratterizzato da limiti
invalicabili.
Il veloce raggiungimento di tali limiti fa da contrasto ad innovazioni socio-tecniche
interessate alla salvaguardia dell'ecosistema e ad un rinnovamento culturale in questa
direzione; all'interno del mio studio ho inserito alcuni casi di nicchie socio-tecniche
alternative, specificatamente riferite alla creazione di filiere corte di prodotti coltivati
biologicamente, all'apicoltura urbana e alla limitazione degli sprechi alimentari. Una
parte d'innovazione di tali nicchie è rappresentato da un modello culturale differente,
attento all'ambiente così come alla qualità del prodotto, come si vedrà soprattutto in
merito ai gruppi d'acquisto e per l'apicoltura urbana. La proposizione di simili modelli
costituisce pertanto forme di pensiero, di economia, di lavoro differenti rispetto ai
canoni dominanti. L'obiettivo di questa tesi è dunque il paragone fra il sistema
dominante e quello delle nicchie socio-tecniche, attraverso variabili agroalimentari,
economiche e socio-culturali.
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All'interno dei quattro capitoli di cui si compone il mio lavoro verranno trattati il
capitalismo e la relativa diffusione mondiale, l'evoluzione dei regimi alimentari europei
e globali, lo sviluppo delle catene distributive, degli allevamenti e delle coltivazioni
intensive e i relativi impatti ambientali, e infine i processi transitivi verso nicchie socio-
tecniche all'avanguardia rispetto al sistema attuale.
Il primo capitolo descrive i rapporti uomo-mondo e la nascita della relazione di
valore protagonista dell'accelerazione umana a partire dalla fine del Medio Evo. A
partire dallo sviluppo di Genova e Venezia e dei traffici finanziari e di commercio di
materie prime, viene descritto l'espansione del capitalismo, osservata attraverso le
analisi, tra i vari autori, di Jason Moore e Fernand Braudel. La nuova relazione uomo-
natura di matrice utilitarista e monetaria determina continue espansioni alla ricerca delle
Four Cheaps, i quattro elementi imprescindibili per lo sviluppo della struttura
capitalista: in altri termini la separazione dell'uomo dalla dimensione naturale,
attraverso il dualismo cartesiano, ha permesso di vedere la natura come un 'magazzino'
di risorse primarie, come le risorse energetiche o quelle minerarie, prelevabili a costi
decisamente bassi. Attraverso l'appropriazione di questi quattro elementi, realtà come
Genova, Venezia e le Province Unite hanno influenzato le sorti e gli equilibri geopolitici
dell'Europa post-medievale e del XVI secolo. L'importanza di tali fattori si dimostra
attraverso la dipendenza della Spagna imperiale verso i commercianti di legname
provenienti dal Baltico olandese, o come la continua espansione verso nuove frontiere
per le coltivazioni di zucchero, caffè, cacao, tabacco; la nascita di apparati snelli come
le città-stato Repubbliche marinare o delle Province Unite rappresenta la fase iniziale
del capitalismo, successivamente identificato negli stati potenti e negli imperi,
soprattutto quello britannico, 'l'officina del mondo'. Lo sviluppo di uno stabile apparato
coloniale fu una delle armi dell'impero per il mantenimento dello status quo mondiale.
Le piantagioni, la manodopera e le risorse minerarie ed energetiche delle colonie erano
infatti strumenti economici fondamentali, al pari delle flotte navali per le campagne
militari. Attraverso la costante espansione necessaria per la ricerca e il prelievo di
risorse primarie, altri soggetti dello scacchiere geopolitico crebbero d'importanza, come
Stati Uniti, Germania, Unione Sovietica. Le due guerre mondiali restituirono un nuovo
paese egemone all'interno dei rapporti geopolitici; la Gran Bretagna, in seguito alla
Grande Depressione, ai danni della prima guerra mondiale, della seconda fu infatti
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costretta a cedere il ruolo di garante della stabilità mondiale agli Stati Uniti che,
attraverso i programmi di aiuti, i piani di sviluppo, i prestiti e gli investimenti furono in
grado di ricreare un sistema vagamente imperialista. La guerra fredda e la competizione
tecnica si conclude con il declino dell'Unione Sovietica e la fine della guerra, senza
vincitori né vinti. La globalizzazione e la crescita delle multinazionali, in seguito alle
politiche neoliberiste degli anni '80, e del potere cinese costituiscono il quadro attuale,
in cui il prelievo eccessivo di risorse sembra essere prossimo ai limiti strutturali.
Il secondo capitolo espone la linea evolutiva del capitalismo attraverso uno sguardo
sulla produzione agroalimentare: se è vero infatti che il sistema capitalista si regge sui
quattro pilastri descritti, allora anche l'evoluzione di esso costituisce una relativa
evoluzione degli elementi portanti. Con l'egemonia britannica produzione e consumi
iniziano un lento, ma inesorabile, processo di omogeneizzazione, in grado di contrarre i
costi produttivi e massimizzare i profitti. Il primo regime alimentare analizzato è
appunto quello britannico, basato sulla produzione nelle colonie, sullo sviluppo del
sistema di trasporti, sulla schiavitù della manodopera coloniale e sulla proletarizzazione
di quella urbana. Carni e granaglie, all'interno del regime britannico, iniziano a essere
concentrati nelle colonie, provocando una serie di effetti ambientali a catena. Il
successivo regime alimentare è quello statunitense, successivo alla seconda guerra
mondiale e precedente alla deregulation neoliberista degli anni '80. Durante questo
periodo (circa un ventennio), si assiste all'industrializzazione (nonché alla nascita del
termine e della questione) del Terzo Mondo, attraverso i piani di sviluppo, gli
investimenti e i fondi stanziati dagli Usa; alle spalle delle strategie propagandiste si
nasconde la volontà di riorganizzare una forma di impero non convenzionale, in seguito
ai programmi di decolonizzazione. Tale regime si caratterizza inoltre per lo sviluppo
delle biotecnologie e dell'industria chimica, applicata all'agricoltura, specialmente in
territori periferici come India e Messico. La Rivoluzione Verde rappresenta proprio il
tentativo di introdurre organismi geneticamente modificati all'interno del settore
agroalimentare. Il terzo regime alimentare, ovvero quello attuale, denominato dai teorici
Corporate food regime è caratterizzato dalla profonda industrializzazione
dell'agricoltura e dell'allevamento, dall'ingombrante presenza di OGM e biotecnologie,
dall'impoverimento del Sud del Mondo, destinato alla produzione agroalimentare per le
grandi multinazionali attive in tutti i principali mercati mondiali, dalla rapida ascesa dei
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supermercati che, nell'arco di circa trent'anni, sono divenuti globalmente la principale
forma di acquisto dei prodotti alimentari. In questo contesto vengono descritti gli
esempi della produzione di quinoa e altri legumi come la soia ed anche un nuovo
legame che vincola ulteriormente il settore agricolo all'accumulazione di capitale, come
si è visto in relazione all'aumento mondiale dei prezzi durante il biennio 2007-2008: si
tratta dei biocombustibili e della febbricitante rincorsa nel nascente mercato, a scapito
dei terreni destinati per la produzione di cibo. La destinazione di risorse verso nuovi
settori e mercati espone la collettività a una potenziale decrescita dell'accessibilità
alimentare, come viene descritto nel paragrafo relativo alle guerre per il cibo.
All'interno del terzo capitolo viene descritto il ruolo centrale della grande
distribuzione organizzata, identificabile nell'incessante crescita dei supermercati. Lo
sviluppo della grande distribuzione ha dato vita a numerose declinazioni del
supermarket: ipermercati, discount, supermercati, punti vendita di prossimità e outlet
sono infatti comparsi in tutto il mondo, anche nei territori periferici, tradizionalmente
legati a produzioni ed alimenti locali e con valori storico-culturali altamente
significativi. L'ascesa delle multinazionali, descritta nel capitolo 2, viene ripresa
attraverso l'esempio dei fast-food e delle negative conseguenze per allevatori, bestiame,
salute e ambiente circostante: il cibo spazzatura infatti è penetrato felicemente nel
consumo alimentare quotidiano. La frenetica vita quotidiana viene, molto spesso
scandita appunto dalla frequentazione dei fast-food dove viene servito velocemente del
cibo consumabile altrettanto in fretta, a prezzi economici e dal gusto ipnotico. Il sapore
di questi alimenti tuttavia è il risultato del forte apporto di sali e zuccheri, artefici di
numerose malattie cardiovascolari, intestinali e psicofisiche per alcuni clienti. La qualità
dei cibi proposti è mediamente molto bassa, essendo un parametro troppo costoso per i
produttori e per il tipo di pasto proposto. Lo sviluppo e aumento delle diete basate su un
ampio, e in alcuni casi eccessivo, apporto di proteine animali, espone l'ambiente a
ulteriori produzioni d'inquinamento: nel testo viene infatti descritto l'alto impatto
ambientale provocato dagli allevamenti e dall'acquacoltura intensivi. Accanto a tali
pratiche alimentari, la cultura e le pratiche quotidiane sono interessate da un alto livello
di spreco che fa da contraltare all'elevato numero di indigenti in tutto il mondo. Lo
spreco rappresenta una piaga culturale sedimentata nel tessuto sociale e legata allo
status sociale, al pensiero dominante e al livello di benessere percepito. Lo spreco
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alimentare si manifesta infatti nei paesi sviluppati o nelle più alte fasce sociali dei paesi
in via di sviluppo. In questa visione, lo spreco abbraccia felicemente le tesi di Veblen,
secondo cui lo spreco vistoso, al pari del tentativo di emulazione delle classi più alte da
parte delle classi più povere, era un mezzo di distinzione all'interno della sfera sociale.
Tuttavia lo spreco è qualcosa di più: da un lato rappresenta l'estrema mercificazione del
cibo (innanzitutto una risorsa indispensabile per la vita), dall'altro costituisce un
elemento di analisi del livello socio-culturale.
Il quarto capitolo descrive i processi transitivi legati al passaggio verso nuovi sistemi.
L'analisi proposta segue uno schema su più livelli interdipendenti: le nicchie socio-
tecniche, i regimi e il paesaggio, o orizzonte (landscape). Questi livelli interagiscono tra
di loro e formano il reticolo socio-tecnico di un preciso contesto; accanto a quest'analisi
viene proposto lo studio delle pratiche sociali quotidiane. Il risultato derivante dalla
sovrapposizione di questi due modelli di studio restituisce uno scenario abbastanza
completo, e relativo ai consumi alimentari quotidiani. Come osservato nel capitolo 3, i
supermercati sono ben presto divenuti il principale metodo d'acquisto, costituendo il
regime dominante nelle modalità di acquisto e accesso al cibo. Nel tentativo di
contrastare un modello unicamente finalizzato alla massimizzazione dei profitti viene
proposto il caso emblematico dei gruppi d'acquisto sostenibili, e in particolare il Gruppo
d'Acquisto Collettivo nato nella città di Torino. Sempre relativo al capoluogo
piemontese viene descritto il progetto di apicoltura urbana, denominato Urbees.
Entrambi i progetti analizzati dimostrano che l'innovazione e lo sviluppo passa
attraverso realtà dalle dimensioni più che contenute e da una decisiva evoluzione socio-
culturale. Cambiamento culturale che si osserva, in particolare, nella nascita di
iniziative, nonché canali tematici appositamente dedicati (come nel caso delle
applicazioni per smartphone), volte alla riduzione degli sprechi alimentari.
Il paragone fra i due modelli restituisce uno spunto di analisi e di riflessione circa
l'efficienze sistemica dell'attuale panorama, governato da un impianto finanziario e
capitalista, e indiscusso protagonista dell'incessante degrado ambientale, osservabile
nella perdita della biodiversità, nell'esaurimento delle risorse naturali e della fertilità dei
suoli, nell'aumento di sostanze chimiche dannose per l'ambiente; le conseguenze
descritte possono esser riassunte nella scissione metabolica, già descritta e osservata nel
XIX secolo.
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1 Il sistema capitalista
1 Dal feudalesimo al capitalismo
Contrariamente al comune pensare il sistema capitalista non è qualcosa appartenente
agli ultimi due secoli e mezzo; l'origine infatti non va fatta risalire alla Rivoluzione
Industriale o agli spilli di Adam Smith, bensì a partire (all'incirca) dal 1500, il lungo
secolo in cui la relazione di valore iniziò a sfruttare e modificare considerevolmente la
visione dell'ambiente, delle risorse naturali e di quelle economiche; rispetto al sistema
feudale basato su una rigida divisione sociale, in cui il commercio aveva una
dimensione locale o regionale e in cui una parte dei raccolti era destinata al sovrano che
garantiva protezione, il passaggio al capitalismo rappresentò un'accelerazione senza
precedenti nell'espansione delle attività umane sul pianeta. Tale sviluppo non fu
immediato, ovviamente, ma progressivo e naturale, cioè non incontrò ostacoli alla sua
stabilizzazione sociale e culturale: il nuovo sistema infatti rappresentava "il culmine
delle contraddizioni inerenti al modo di produzione che a un certo punto portò alla
trasformazione qualitativa dell'ordine sociale" [Wallerstein, 1976], la fine di un sistema
che aveva raggiunto i limiti costitutivi.
La storia del capitalismo inizia pertanto tra il XIII e il XIV secolo nell'Europa
feudale in cui la crescita della popolazione portò all'espansione sul continente, alla
nascita di nuovi centri urbani e all'ingrossamento di quelli esistenti e un'intensificazione
dei traffici Afro-europei [Moore, 2003]. Sul piano politico i nascenti Stati stavano
acquisendo potere rispetto ai decadenti signori feudali, mentre il progresso socio-
economico - in primis nel trasporto e commercio marittimo - incoraggiò una nuova
divisione del lavoro. Durante il XIV secolo tuttavia le cose iniziarono a peggiorare in
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seguito alle rivolte dei contadini per una crisi alimentare generalizzata che diffuse
epidemie mortali; i rapporti tra signori e stati si inasprirono sfociando in guerre,
contemporaneamente alla perdita di denaro della finanza e dei mercanti nelle città-stato.
Le origini di questa crisi sono da trovare nel rapporto del sistema feudale con la terra,
lavorata dal mondo contadino ma di proprietà nobiliare; molto raramente i contadini
venivano allontanati (dai signori feudali) dalla terra che rappresentava l'unica via di
sopravvivenza garantita in minima parte dai sovrani che, al contrario, si appropriavano
della maggior parte del surplus produttivo [Moore, 2003]. Con la totale o quasi
appropriazione del surplus veniva pertanto a mancare una parte fondamentale nel ciclo
produttivo, ovvero quella destinata agli investimenti per il miglioramento dei raccolti e
contro la progressiva sterilità dei terreni. Malgrado la mancanza di un reintegro di
denaro nel ciclo produttivo, durante il feudalesimo la popolazione del sistema Europa-
mondo crebbe considerevolmente, frammentata in piccole proprietà terriere che
influenzarono di molto la produttività dei campi; a livello nobiliare, si assistette
contemporaneamente alla fioritura di titoli feudali che aumentarono il numero di
servitori e parassiti del surplus contadino [Moore, 2003]. Il ciclo vizioso di tale sistema
portò pertanto all'esaurimento dei terreni che a sua volta produsse una crisi alimentare
ed epidemie diffuse. La crescita di popolazione da un lato e l'impoverimento delle
risorse dall'altro rappresentavano le due facce della stessa medaglia in cui le
contraddizioni in termini di produzione agricola, investimenti economici e immobilità
sociale stavano lentamente rendendosi esplicite. La Peste Nera del 1348 accentuò la
crisi del sistema, così come il cambiamento climatico che, unito all'impoverimento del
suolo, produsse raccolti estremamente poveri: nell'Europa occidentale, tali catastrofi
unite alla crescente ostilità e forza del mondo contadino portarono i signori, di comune
accordo, ad un aumento del prelievo del surplus agricolo e ad intensificazioni del
controllo feudale sulle campagne. Il risultato di questa miscela fu esplosivo e portò a
rivolte diffuse in tutto il continente: in Italia, in particolare a Firenze nel 1378, e nelle
Fiandre esplosero movimenti insurrezionalisti. In questo quadro le città giocarono un
ruolo importante come via d'uscita ai legami feudali; il semiproletariato urbano fornì
supporto alle rivolte delle campagne come a Parigi nel 1358 e a Londra nel 1381
[Moore, 2003]. La difficile situazione dei raccolti, la fame, le epidemie, l'aumento della
coercizione signorile portarono al raggiungimento dei limiti interni da parte di quel tipo
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di sistema: in questo senso, era pertanto necessaria un'espansione esterna che
permettesse di ampliare le possibilità di crescita.
Nel XIV secolo molti territori dell'Europa meridionale e continentale erano ormai
degradati e non più fertili: uno dei principali tentativi di superamento di tali
contraddizioni fu l'espansione verso terre vergini, con l'ampliamento delle frontiere, che
nel XVI secolo portarono alla fioritura di commerci internazionali e di sistemi coloniali
di sfruttamento delle risorse extra-europee [Moore 2000, 2003, 2013; Wallerstein 1976].
"L'unica soluzione che avrebbe potuto estrarre l'Europa occidentale dalla decimazione e
dalla stagnazione era quella di espandere la torta economica da dividere, una soluzione
che richiedeva, data la tecnologia del tempo, un'espansione delle terre e un aumento
della popolazione" [Wallerstein, 1974; Moore, 2003]. A livello continentale
l'espansione delle frontiere coincise con tre movimenti indipendenti e antagonisti: il
tentativo di conquista dei principali stati nei confronti di quelli più piccoli o minori, ma
l'equilibrio delle forze continentali contrapposte appariva tutto sommato definito, con i
principali stati in via di stabilizzazione: l'espansione andava pertanto diretta altrove,
viste anche le ristrettezze di denaro liquide delle casse statali. Parallelamente, anche i
rimanenti signori feudali che, in alcuni casi, godevano ancora dei privilegi della gleba,
vedevano nell'ampliamento dei territori la giusta soluzione alle crisi interne. In terzo
luogo le città che, ottenuta la legittimazione politica da parte degli stati, iniziarono ad
acquisire sempre maggior peso: "la vera natura della crisi feudale limitò questa
prosperità nella misura in cui la situazione bellica in Europa era privilegiata
all'espansione geografica" [Moore, 2003, p. 22]. I traffici delle principali città-stato,
come Venezia e Genova, iniziarono a prosperare e le mire espansionistiche vennero a
contrapporsi: proprio tra queste due città esplose una serie di conflitti circa le possibilità
economiche derivanti dai traffici verso Oriente e che sembrarono determinare una
posizione di debolezza della città ligure, che diresse da allora le proprie attenzioni
capitalistiche e finanziarie nei confronti della penisola iberica. Fu questa rivalità a
spingere Genova a stringere alleanze con Portogallo e Spagna e cercare una via
alternativa per il raggiungimento delle Indie. Al di là degli obiettivi di ciascuna forza in
campo, un altro motivo alle necessità d'espansione delle frontiere era determinata
dall'aumento dei territori coltivabili in particolare a grano, una pianta molto dispendiosa
per i terreni rispetto ad un altro cereale come il riso che, al contrario, necessitava di
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interventi minori e permetteva una maggiore rigenerazione del terreno. La dieta
alimentare e il "regime biologico" furono altre cause determinanti verso un
ampliamento dei terreni: secondo Braudel in questo senso, la coltivazione di grano, riso
e mais, le piante della civilizzazione', in Europa, America latina e Asia furono fattori
determinanti per l'espansionismo degli stati, principalmente europei [Moore, 2003b]. "E'
impossibile esagerare l'importanza dei cereali, piante sovrane dell'alimentazione antica.
Il grano, il riso, il mais sono il risultato di innumerevoli esperienze successive che per
effetto di 'derive' multisecolari [...], sono divenute scelte di civiltà [Braudel, 1981b, p.
32]. In Europa da sempre la coltura principale è il grano che, tra le varie caratteristiche,
determina un impoverimento del suolo che necessita pertanto di rotazioni annuali; le
risorse prelevate dalla coltivazione del terreno venivano reintrodotte attraverso
l'allevamento di bestiame. Come sostiene Braudel l'andamento e le sorti di queste
coltivazioni furono fondamentali per i destini dei paesi coltivatori:
L'Europa scelse il grano, che divora il terreno e necessita di un riposo ciclico; questa scelta
implicò e determinò l'aumento del bestiame. Ora, chi può immaginare la storia europea
senza mucche, cavalli, campi e carretti? Come risultato di questa scelta, l'Europa ha sempre
combinato agricoltura e allevamento di bestiame. E' sempre stata carnivora. Il riso spuntò
fuori come forma di giardinaggio, una coltivazione intensiva in cui l'uomo non trovava
spazio per collocare il bestiame. Ciò spiega perché la carne costituisce una così piccola
parte della dieta delle aree coltivate a riso. [Invece] Piantare mais è sicuramente la via più
semplice e conveniente per ottenere il "pane quotidiano" [Braudel, 1981b, p.33].
Al contrario, la coltivazione di riso in Cina non portò mai alla necessità di espandere
le proprie frontiere alla ricerca di terreni dove poter continuare tale coltivazione: il riso
infatti non impoverisce il terreno dei nutrienti fondamentali, trovandoli al contrario
nell'acqua; ciò significa che non è necessaria una rotazione dei terreni nè
dell'allevamento di bestiame, elemento decisivo nella reintegrazione dei fertilizzanti
[Moore 2003b]. La Cina non tentò mai di espandere le proprie frontiere in cerca di
nuove risaie; i confini rimasero pressoché stabili nel tempo, dato che le relazioni tra
città e campagne erano più legate a un'intensificazione della produzione che non a
un'espansione geografica [Moore 2003; Braudel 1981]. Il paragone con la dieta
alimentare cinese dimostra quanto il regime biologico sia determinante per il destino di
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un paese o area geografica: nel caso del grano europeo questo comportò l'espansione
oltre oceano.
La difficile situazione del XIV secolo necessitava di un cambiamento; il sistema
feudale si stava progressivamente sgretolando di fronte al nascente espansionismo
geografico, sia come ampliamento delle risorse sia come termine alle continue guerre in
seno all'Europa. Il progressivo deterioramento dei terreni, alternati alla pastorizia,
rivelavano i limiti produttivi e si dimostravano insufficienti rispetto alla ripresa
demografica e tecnologica. Tuttavia, l'unica possibilità di uscita dal difficile momento
coincideva con un aumento del materiale e delle risorse disponibili: la "torta da
dividere" - riprendendo la frase di Wallerstein - andava pertanto ingrandita e l'unico
mezzo era dato dall'ampliamento delle frontiere e delle risorse disponibili.
I primi tentativi di espansione di questa "torta" furono spagnoli e portoghesi verso le
vicine isole dell'Atlantico per la produzione di zucchero e l'estrazione di argento [Moore
2003 e 2009]. La coltivazione dello zucchero rivelò nuovi metodi di produzione basati
su un rinnovato rapporto tra capitale, terra e lavoro: i territori iniziarono a esser
considerati come valore economico all'interno di una dilatazione dei commerci
transnazionali. La "transizione" al sistema capitalista stava entrando in una nuova fase.
In questo senso è importante considerare tre diverse accezioni del termine "transizione":
in primis come trasformazione dell'Europa feudale in una economia-mondo capitalista;
il secondo aspetto riguarda la conseguente incorporazione dei sistemi non capitalisti
esterni nell'espansione capitalista dell'economia-mondo; in terzo luogo, il termine si
riferisce alla proletarizzazione del lavoro e alla commercializzazione delle terre
[Wallerstein, 1976]. La complessità di tale transizione necessitò logicamente di diverso
tempo prima di stabilizzarsi e diffondersi: ciascuno stato europeo fu attraversato da
processi di trasformazione indipendenti, all'interno della nascente economia-mondo.
17
1.1 La natura come valore: un po' di zucchero nel caffè?
L'espansione delle frontiere si dimostrava l'unica via praticabile per il superamento di
alcuni problemi come la disponibilità di risorse, il deperimento del suolo e
l'accumulazione di capitale; l'incorporazione di nuovi territori nel nuovo sistema era
pertanto fondamentale. Le aree incorporate nell'economia capitalista mondiale
diventavano unità territoriali a volte sovrane, a volte colonizzate [Wallerstein, 1976],
comunque legate allo sviluppo europeo. In questo senso, nell'Europa pre-capitalista le
sorti statali dipendevano quasi esclusivamente dalla rendita agraria, oltre che dal
commercio e dall'apparato militare. Per alcuni studiosi come Wallerstein, la storia della
nascita del sistema capitalista coincide con la storia della riorganizzazione agraria e
delle relazioni tra classi all'interno di un economia Europa-mondo, poi estesa
all'America [Moore, 2000b]. Un esempio in questo senso giunge dalla coltivazione dello
zucchero che, sul finire del XV secolo, iniziò a essere massicciamente concentrata
sull'isola atlantica di Madeira, prima di estendersi in tutto il mondo, specialmente
nell'America centrale e meridionale; fino al XV secolo, la produzione europea di
zucchero era incentrata a Cipro, ma la vicinanza alle coste africane e di conseguenza il
prelievo di manodopera schiavizzata, divennero fattori troppo convenienti per
l'accumulazione di capitale. La coltivazione dello zucchero a livello così intenso da un
lato produsse un degradamento del terreno senza precedenti tanto che furono necessarie
continue espansioni successive, e dall'altro rivoluzionò completamente il sistema
produttivo dell'epoca. Il degradamento del terreno causato dalla coltivazione intensiva
di zucchero rappresenta una delle iniziali controindicazioni del sistema capitalista
nascente, in quanto gettava le basi di quella futura scissione metabolica teorizzata da
Marx; il mutamento delle relazioni tra società e natura mutò drasticamente, con la
seconda che divenne il mezzo per le attività umane. Con la nascita di un mercato
mondiale e la divisione del lavoro transatlantico del XVI secolo i problemi ecologici
localizzati, propri del feudalesimo, divennero parte di una scissione metabolica a livello
europeo procurata dal nuovo sistema in cui i prodotti agricoli venivano destinati in gran
parte alle città.
La fine degli obblighi feudali che subordinavano l'iniziativa personale al volere dei
sovrani, coincise inoltre con un'esplosione di libere attività in cui le persone vendevano
18
la propria forza lavoro; in questo scenario, il secondo essenziale prerequisito della
produzione capitalista era costituito dal fatto che "il lavoratore, invece di essere nella
posizione di vendere delle commodities in cui è incorporato il proprio lavoro, è
obbligato a offrire a prezzi competitivi i propri prodotti" [Katz, 1993], all'interno delle
nuove dinamiche di mercato.
La riorganizzazione del lavoro e del capitale, a partire dalle nascenti monocolture - in
primis lo zucchero - furono la scintilla del nuovo sistema: Madeira, colonizzata dai
portoghesi nei primi trent'anni del XV secolo, in questo senso rappresenta la formazione
di un mercato degli schiavi, un'anticipazione - attraverso la riorganizzazione del sistema
agro-ecologico - del successivo trend industriale del XVIII secolo. Una costante del
capitalismo è la necessità di trovare aree sempre maggiori da destinare alla coltivazione,
in molti casi, di monocolture: ciò comporta un massiccio processo di deforestazione,
laddove l'area interessata sia coperta di alberi. Fu questo il caso di Madeira - ma non
solo - il cui nome significa appunto "boschetto, legna, legname": durante il XV secolo
l'intera isola, prima di esser destinata al business dello zucchero, era coperta da fitte
foreste, di cui un secolo dopo non restò che il nome [Moore, 2009]. A partire dal 1450
lo zucchero di Madeira, inizialmente destinato al solo fabbisogno portoghese, divenne il
centro nevralgico della produzione europea di zucchero, soppiantando Cipro e la Sicilia.
Non solo i portoghesi, ma anche i banchieri fiamminghi e genovesi nutrivano interesse
nella fioritura del commercio di questa commodity. La deforestazione indotta
dall'estensione delle terre da coltivare produsse periodi di siccità da fronteggiare con
nuovi sistemi d'irrigazione, finanziati proprio dalle banche genovesi e fiamminghe
[Moore, 2000]. Il boom di questa coltivazione tuttavia, portò nel giro di pochi decenni a
un totale degrado del terreno dell'isola tanto da costringere gli stati alla ricerca di nuove
frontiere in cui destinare la produzione di zucchero, attraverso l'aiuto costante e forzato
della manodopera schiavizzata di origine africana.
Il cambiamento delle relazioni con la natura stava iniziando a manifestarsi
concretamente non solo a Madeira, ma in tutto il territorio europeo: durante il lungo
XVI secolo l'intero continente fu interessato da trasformazioni agro-ecologiche di ampia
portata, come la rivoluzione agricola dei Paesi Bassi (1400-1600), lo sviluppo di
industrie navali che determinò il progressivo disboscamento delle foreste e l'aumento di
aree sterili in seguito all'intensa coltivazione di grano e zucchero. A livello economico,
19
la coltivazione dello zucchero al posto del grano ebbe due importanti conseguenze: da
un lato, i prodotti agricoli necessari per l'alimentazione andavano importati, non essendo
più prodotti, accentuando il modello di economia-mondo basato su
un'internazionalizzazione della divisione del lavoro [Moore, 2000]; dall'altro, il
passaggio alla produzione di zucchero necessitava di un'ampia base produttiva, il fattore
indicativo di un'incorporazione nell'economia mondiale. La produzione di zucchero,
sempre più sotto forma di monocultura, rappresenta pertanto un primo esempio di
agricoltura capitalista, guidata da una radicale semplificazione dell'ordine ecologico
naturale. Sotto le condizioni di una generalizzata produzione di beni alimentari e
l'imperativo di un'incessante accumulazione di capitale, le pressioni competitive dei
mercati rendevano instabili le monocolture: la competizione esasperava i terreni che in
mancanza della dovuta rigenerazione diventavano inutilizzabili, con gli stati
nuovamente costretti a nuove espansioni dei confini. Questo è evidente nel caso
dell'isola di Madeira, ma non solo, in cui la rapida ascesa della coltivazione e del
commercio di zucchero provocarono un non meno veloce declino del terreno che, dopo
circa un secolo, rese impraticabile la coltivazione: il passo successivo in questo senso,
fu semplicemente l'adozione di nuovi terreni coltivati con gli stessi metodi. Da Madeira
si passò così a Santo Tomé a metà del XVI secolo, poi a Pernambuco, a Bahia nel XVII
secolo e infine nei Caraibi e nell'America meridionale nel XVIII secolo [Moore, 2013].
Le long siècle fu pertanto un periodo fondamentale nella transizione al capitalismo,
permessa in primis da un'espansione dei terreni e da una riorganizzazione del lavoro e
del capitale: a partire da allora infatti, il sistema capitalistico iniziò a espandersi a
macchia d'olio, coinvolgendo aree del pianeta sempre grosse e, di conseguenza,
aumentando esponenzialmente gli effetti catastrofici derivanti dalla scissione
metabolica. Il commercio triadico inaugurato a Madeira divenne una costante del
successivo capitalismo seicentesco, in cui le coste dell'Africa occidentale divennero
terra di razzia di manodopera al soldo delle potenze europee nei territori oltreoceano.
L'aumento dei traffici intensificò di conseguenza la produzione navale, determinando
una generale deforestazione sul continente europeo con i suoli destinati alla coltivazione
del grano, come le campagne della Vistola o del Mar Baltico [Arrighi, 1999; Moore,
2013] e all'allevamento. L'intensa macchina capitalista era stata messa in moto, ma il
ritmo delle attività umane si era staccato da quello naturale: l'ambiente era qualcosa da
20
colonizzare, dominare, sfruttare, sulla base di un nuovo rapporto economico. Per dirla
con le parole di Marx: la scissione metabolica. La corsa alle materie prime avrebbe
determinato guerre, competizioni secolari in tecnologia, armi, disponibilità economiche,
alleanze politiche. La necessità di ampliare le frontiere e inglobare all'interno del
sistema nuove realtà, un tempo al di fuori e a sé stanti, era pertanto fondamentale per le
sorti dei paesi europei. Gli sviluppi in questo senso furono molteplici e omogenei: oltre
alla nascente industria dello zucchero, la deforestazione in Europa portò alla nascita di
cantieri navali a Cuba e nel Nord America nel XVIII secolo; in Inghilterra si procedette
alla bonifica di diverse aree, destinate alla produzione agricola per i crescenti mercati
internazionali; l'estrazione mineraria, in primis dell'argento, portò a rivoluzioni e
sviluppi tecnologici [Moore, 2009]; nel Mediterraneo intere isole vennero destinate alla
monocoltura, come Cipro, Creta e Corfù, convertite dall'uomo alla coltivazione della
vite [Moore, 2003].
L'intensificarsi dei traffici di zucchero nelle colonie aveva dato il via al commercio
triadico delle monocolture, importate nei mercati dell'economia-mondo: da allora,
tabacco, caffè, cotone, minerali, legname, olio di palma, cacao e persino il guano1
furono prelevati senza sosta dal capitalismo accumulativo delle potenze europee, e non
solo.
Un grande mercato libero e mondiale stava nascendo sotto l'insegna del capitalismo;
tuttavia, come osservava Marx nel 1848 a proposito del libero mercato: "Voi credete
1 Nel 1840, la veloce degradazione del suolo messa in luce dal chimico tedesco Justus Liebig portòall'interesse delle principali potenze europee per il guano, un fertilizzante naturale ricco dei nitratifondamentali per la rigenerazione dei terreni. Dopo le pubblicazioni del biologo francese AlexandreCochet in merito ai benefici dell'utilizzo di guano, si sviluppò attorno al 1850 una vera e propria febbreper il guano, sostanza decisamente abbondante lungo le coste del Pacifico peruviano. Nel 1851 il RegnoUnito importò dal Perù circa duecentomila tonnellate di guano peruviano con l'uso di circa 40 navi; gliStati Uniti si dotarono di 44 navi, i francesi di 5, 2 degli olandesi e 1 nave per Italia, Belgio, Norvegia,Svezia, Russia e 3 navi per il Perù [Foster, 2004]. La corsa al guano era cominciata: nel volgere di unventennio circa gli investimenti inglesi per la produzione di nitrati in Perù raggiunsero il milione disterline. La concentrazione in Perù della produzione di nitrati e del prelievo di guano causò un forteindebitamento dello Stato americano che, a partire dal 1875, impose il monopolio sull'estrazione di nitratinei territori di Tarapacà, espropriando le proprietà degli investitori privati (molti dei quali di originebritannica), offrendo loro dei certificati di pagamento ufficiali. Questo portò alla Guerra del Pacifico,anche conosciuta come Guerra del Guano, dal 1879 al 1884 in cui il Cile, sostenuto da Francia eInghilterra sconfisse l'alleanza tra Perù e Bolivia e si assicurò ingenti quantità di guano e nitrati. Comeanalizza James Foster: «Prima della guerra il Cile praticamente non possedeva nè campi di nitrati nèdepositi di guano. Dalla fine della guerra nel 1883, [il Cile] confiscò tutte le zone ricche di nitrati dellaBolivia e del Perù e la maggior parte dei depositi di guano di quest'ultimo. Prima della guerra l'Inghilterracontrollava il 13% dell'industria di nitrati della peruviana Tarapacà; subito dopo la guerra - datal'acquisizione cilena della regione - le quote britanniche salirono al 34%, giungendo al 70% nel 1890". LaGuerra era stata combattuta unicamente per il predominio del guano e dei giacimenti di nitrati da parte"dell'Inghilterra sul Perù, con il Cile come semplice strumento".
21
forse, gentiluomini, che la produzione di caffè e zucchero sia il naturale destino delle
Indie Occidentali. Due secoli fa, la natura, non ancora disturbata dal commercio, non
aveva piantato in quei luoghi nè canne da zucchero nè piante di caffè" [Foster, 2004].
La diffusione delle monocolture su scala mondiale per un mercato essenzialmente
europeo non era ovviamente qualcosa di appartenente ai sistemi precedenti: fu soltanto
in seguito al un mutamento delle relazioni uomo-ambiente che le monocolture,
l'accumulazione e la massimizzazione dei profitti poterono fiorire su tutto il pianeta. In
riferimento alla situazione dell'America Meridionale, Eduardo Galeano in Le vene
aperte dell'America Latina sosteneva che: "l'iniziale produzione col passare degli anni
sbiadisce in una cultura della povertà, sussistenza economica, letargia [...] Più un
prodotto è desiderato dal mercato mondiale, più si fa grande la miseria che incatena i
popoli dell'America latina".
Dal suo ingresso sulla scena mondiale, il capitalismo produsse - e produce tutt'ora -
una scissione irreparabile nel metabolismo naturale rigenerativo: secondo Marx, un
nuova interazione con l'ambiente, al fine di riassestare la crepa era necessaria, ma la
crescita sotto il nuovo capitalismo espansivo dei commerci a lunga distanza e di una
produzione su scala mondiale - attualmente due perni fondamentali del sistema -
intensificarono ed estesero la scissione metabolica [Foster, 2004]. Ciò fu evidente nella
perdita della biodiversità, in un aumento di disastri ecologici, nel cambiamento
climatico, l'abbassamento delle acque in seguito alla deforestazione, tutti fattori già
messi in luce da studiosi come Darwin, Marx, Engels, Lankester, Fraas, Von Humboldt
più di un secolo fa. Trattando degli effetti ecologici prodotti dall'uomo, Lankester,
famoso biologo del XX secolo, commentò in questo modo:
Molte poche persone hanno un'idea del modo in cui l'uomo ha attivamente cambiato la
fisionomia della Natura, i grandi pascoli di animali che ha distrutto, le foreste che ha
bruciato, i deserti che ha prodotto e i fiumi che ha inquinato. E' con questo tagliare e
bruciare foreste che l'uomo ha danneggiato sé stesso e gli altri esseri occupanti vaste regioni
del pianeta... Le foreste hanno un immenso effetto sul clima, umidificando sia l'aria sia il
terreno [Foster, 2004].
Al pari dello zucchero, anche il caffè ebbe un ruolo centrale nell'espansione dei
confini e dei traffici: importato nell'Occidente dai mercanti genovesi nella metà del XV
22
secolo, a partire dal 1600 fu interessato da una crescita esponenziale di traffici,
dapprima con il Medio Oriente e le Indie, poi con le colonie americane e indiane
[Talbot, 2011]. Il caffè entrò nei mercati europei inizialmente grazie ai traffici e agli
esploratori genovesi, come uno dei prodotti più esotici dell'epoca: rappresentava una
novità e, probabilmente, veniva consumata soltanto nelle corti o nei luoghi d'èlite. Le
cose cambiarono, sotto l'egemonia olandese, in cui il consumo e il commercio di caffè
crebbero decisamente; nelle principali città europee nacquero delle coffeehouses per
poter usufruire della bevanda sempre più popolare: a Venezia nel 1645, Londra 1652,
Marsiglia 1659, Amsterdam 1663, Parigi 1675, Amburgo 1679 e Vienna 1683 [Talbot,
2011]. L'aumento dei traffici coincise con uno sviluppo industriale per la trasformazione
della pianta in prodotto finale, il cui consumo, analogamente a quello dello zucchero,
del cotone, stava salendo sempre di più. Con la rottura dei commerci arabi da parte delle
potenti Province Unite, la Francia si gettò nel business del commercio globale di caffè:
l'isola di Bourbon (ora Reunion) fu convertita a caffè coltivato direttamente dai coloni
francesi che si servivano del lavoro schiavizzato. In questo modo i francesi prima, quelli
britannici poi poterono esercitare un controllo maggiore sulla produzione di caffè
rispetto agli olandesi, che al contrario si limitavano al controllo del mercato [Talbot,
2011]: così facendo le colonie inglesi e francesi poterono godere di una crescita della
produttività che, nel giro di un secolo, causarono il declino del commercio di caffè delle
Province Unite. La competizione nell'economia-mondo per il commercio di caffè si
intensificò profondamente, con gli Stati concentrati soltanto sulla massimizzazione del
profitto a breve raggio, salvo poi cercare nuove frontiere una volta superato il picco
produttivo, con la conseguente diminuzione della fertilità del terreno; la politica
economica e il nuovo razionalismo filosofico che scindeva l'uomo dalla natura non
lasciavano spazio ai problemi ecologici derivanti. Chiede Engels: "Chi si interessò dei
coloni spagnoli che a Cuba bruciarono completamente le foreste sui pendii delle
montagne, ottenendo la cenere sufficiente per fertilizzare una generazione altamente
produttiva di piante di caffè?" [Foster, 2011]. Tuttavia, per poter gestire l'ampia
produttività dei territori extra-europei era necessario stimolare e ampliare la domanda di
caffè interna al continente: la competizione tra stati europei era infatti aumentata,
provocando una diminuzione dei profitti da parte di ciascuna compagnia, che andava
necessariamente assorbita dal mercato europeo. A partire dal XVIII secolo la domanda
23
crebbe vistosamente aumentando i profitti, i prezzi si stabilizzarono e la coltivazione del
caffè divenne sempre più parte integrante dell'economia-mondo capitalista [Talbot,
2011]. Il passaggio delle monocolture dalla Guyana francese al Brasile nel 1720, e in
seguito nei Caraibi e nell'America Centrale, fu l'accelerazione decisiva al
raggiungimento di una produzione globale sotto l'egemonia olandese e in seguito
britannica [Arrighi, 1999]; i paesi dell'America latina tuttavia, dovettero prima
raggiungere l'indipendenza dagli stati europei, all'incirca negli anni 20' dell'Ottocento -
contemporaneamente alla Dottrina Monroe - per divenire il principale centro di
produzione di caffè a livello globale [Talbot, 2011]. Anche nel caso del caffè, come lo
zucchero, gli ampi benefici europei derivanti dalla coltivazione di queste commodity
nascondevano situazioni disastrose nelle colonie che sovente determinarono ribellioni e
insurrezioni, molto spesso guidate dagli schiavi neri africani, come nel caso della
Rivoluzione Haitiana del 1789. Un'altra costante in queste monocolture schiaviste era il
veloce esaurimento della fertilità dei terreni coltivati: ricerca, competizione e
espansionismo erano all'ordine del giorno nella politica dei principali stati del XVIII
secolo, in particolar modo verso le Indie, l'Africa e le Americhe.
1.2 Tra centro e periferia
Sul finire del lungo secolo e a partire dal XVII secolo, Olanda, Inghilterra e Francia
diedero vita a numerose compagnie di commercio che, con stili e metodi differenti,
ampliarono e controllarono i traffici in tutti i territori assoggettati [Arrighi, 1999]: i
mercati e i porti delle principali città europee disponevano ora di diversi prodotti esotici
sempre più accessibili economicamente alla nascente borghesia che, una volta rotti i
legami feudali, aveva contribuito all'ascesa e all'inurbamento delle città [Moore, 2003].
Oltre a produrre una scissione metabolica infatti, la relazione di valore tra uomo e
ambiente aveva portato a un inurbamento delle città - dove i mercati, con l'adozione
delle monocolture a livello globale, gestivano le transazioni internazionali di cibo -
24
producendo una seconda contraddizione in termini di proletarizzazione del lavoro. Con
la nascita del rapporto città-campagna iniziarono a manifestarsi la divisione e la
proletarizzazione del lavoro, in un andamento ciclico di espansione e stagnazione; tale
rapporto, molto spesso, pendeva a favore delle città, centri nevralgici delle transazioni
commerciali e finanziarie e delle decisioni politiche, ma era sulla produzione agricola
che si giocava una parte importante della politica statale. La disponibilità o la presenza
di canali di commercio era uno dei fattori per la crescita statale, sia interna sia estera; in
tal senso Braudel ricorda come "l'Invincibile Armata di Filippo II...cercò di comprare il
legname dalla lontana Polonia" [Moore, 2003b, p.8].
L'espansione delle città - e dei relativi mercati e centri portuali - iniziò a partire dal
XV secolo, una volta superate le contraddizioni del sistema feudale tra signori e servi e
con la nascita della borghesia [Wallerstein, 1976]; la trasformazione agro-ecologica
delle campagne del Mediterraneo fu in questo senso evidente. Nel Nord Italia la
disponibilità di capitale delle nascenti città moderne permise di intensificare i traffici e
le relazioni con il mondo contadino, traendo da esso ampi benefici che, come rovescio
della medaglia, rivelavano contadini fortemente indebitati [Moore, 2003b]. Durante il
1500 e nei secoli a venire, lo squilibrio tra le ricche città che godevano del lavoro a
basso costo dei poveri contadini fu, in alcuni casi, la miccia per agitazioni e insurrezioni
dalle campagne per il miglioramento delle condizioni. Al pari di Marx, anche Braudel
pone l'antagonismo tra città e campagne all'interno della crescita del capitalismo del
lungo secolo: "Le grandi città del XVI secolo, con il loro agile e pericoloso capitalismo
erano in una posizione di controllo e di sfruttamento dell'intero mondo" [Moore, 2003b,
p. 8]. In questa dimensione espansiva, l'esempio dello sviluppo nel Mediterraneo a
partire dal XV secolo riassume felicemente le contraddizioni del capitalismo e le
relazioni tra mondo agricolo e urbano: Venezia cercò infatti di ampliare i propri territori
sia per terra sia per mare, mentre Genova scelse un'espansione più agile e finanziaria,
affidando le proprie sorti allo sviluppo bancario e ai traffici commerciali di altre
nazioni. In questo senso, uno dei perni per il successo finanziario genovese, all'interno
del contesto europeo, fu il controllo delle fiere e dei mercati e il relativo flusso di
capitale sotto forma di crediti e debiti [Braudel, 1981b]. A livello mondiale, le
spedizioni spagnole nella vergine America erano finanziate dai banchieri genovesi:
25
secondo Braudel, dietro la facciata di subordinazione, i genovesi e il capitalismo
cittadino stavano facendo le proprie fortune [Moore, 2003b].
L'espansione territoriale dei nascenti stati e dei propri centri d'interesse interessò le
relazioni tra città e campagne: ad esempio nel Portogallo del XV secolo, l'aumento delle
coltivazioni di ulivi, viti e frutteti determinò la massiccia importazione di grano - a volte
anche dal distante Baltico - indispensabile per la dieta alimentare, abbandonato in
seguito alla diminuzione del profitto economico derivante da esso; nell'Italia post-
feudale la crescita di Pisa, Genova, Venezia determinò un'espansione dei traffici, degli
istituti di credito, dei territori coltivati. Braudel cristallizza in quattro punti la situazione
mediterranea del nascente sistema basato anche sulle relazioni tra cittadini e contadini:
il primo riguarda i rapporti di dipendenza delle isole del Mediterraneo nei confronti dei
centri urbani, amplificando così la relazione città-campagna; secondo, come Marx anche
Braudel identifica, in queste relazioni, un valore essenzialmente antagonistico che
legava le disuguaglianze di classe e le agitazioni sociali; in terzo luogo, la dominazione
dei paesaggi da parte dei centri urbani fu possibile attraverso l'imposizione delle
monocolture che disturbarono, prima di estinguere, l'equilibrio tra natura e società. Il
dominio della terra e la distruzione dell'equilibrio ecologico da parte del capitalismo, fu
accompagnato dal dominio - e a volte dal genocidio - sugli esseri umani attraverso la
schiavitù [Moore, 2003b].
La relazione tra città e campagne andò profondamente sviluppandosi a favore delle
prime in cui si prendevano le decisioni commerciali, finanziarie e politiche. L'attenzione
si spostò verso il valore di mercati e di profitto dei prodotti agricoli; in altre parole,
divenne più importante scovare sempre più fonti di reddito - come monocolture,
giacimenti di combustibili o fertilizzanti, bestiame, legname - da colonizzare, piuttosto
che concentrarsi sulle conseguenze di tale scelta, gravanti sul mondo contadino. Come
fanno notare Marx e Braudel, l'accumulazione di capitale delle città, oltre a determinare
la proletarizzazione del lavoro [Moore, 2013], determinò, tra i vari effetti, un sistema
schiavistico nelle campagne e nelle colonie che, assieme alle vaste monocolture, durante
il XVII secolo produssero un diffuso impoverimento del suolo e una diminuzione del
margine dei campi [Moore, 2003b]. Tali relazioni non legavano solo le campagne alle
città ma anche i territori coloniali, dalla coltivazione al trasporto: il fervore urbano di
Amsterdam, Parigi, Londra stava cambiando irrimediabilmente la relazione con il
26
mondo e la produzione agricola mondiale. I grandi mercati delle città rifornivano
continuamente le popolazioni proletarie delle città di prodotti esotici - dallo zucchero, al
caffè, alle spezie, al tabacco, ecc... e tale crescita aveva anche una controparte politica:
il peso delle città, come ricordano i vari Marx, Wallerstein, Braudel, stava infatti
crescendo anche in materia di governo, in seguito all'ascesa della borghesia. In questo
senso, lo snello apparato burocratico di Venezia, Genova e Amsterdam - all'interno
delle Province Unite - fu un fattore decisivo per la presa di potere e l'aumento dei
traffici delle città: l'indipendenza da signori e vincoli feudali e la libera iniziativa furono
due vettori fondamentali nell'espansione cittadina. Attraverso l'incorporazione, tanto dei
territori conquistati, quanto delle campagne, le nascenti città erano diventate il centro
pulsante della finanza e della politica del sistema capitalista.
La disuguaglianza economica e sociale tra città, colonie, campagne rappresenta una
delle caratteristiche del capitalismo che, seppure con qualche mutamento, è rimasta
invariata sino ad oggi: la nascente relazione di centro e periferia descritta da Arrighi e
Wallerstein [Arrighi, 1999] mette in luce il rapporto che, a partire dal lungo secolo
definisce gli equilibri politici, commerciali ed economici tra i soggetti: per Wallerstein,
tale relazione rappresenta la struttura dinamica dello sviluppo capitalista con le città
come risultato piuttosto che come fattore dello sviluppo [McMichael, 2000]. La forbice
interna tra questi rapporti non era altro l'espressione dell'espansione capitalista globale
che, simultaneamente, sviluppava benessere nelle zone centrali del sistema e
sottosviluppo nelle zone periferiche [Arrighi, 2008]: il prelievo urbano del surplus
contadino, necessario alla continua espansione e polarizzazione delle risorse, causava
infatti un persistente sottosviluppo delle zone satelliti, sempre più imprigionate in questa
rete. Il meccanismo di appropriazione del surplus mutò col passare del tempo, ma la
relazione sistemica tra centro e periferia è rimasta al suo posto, polarizzando
continuamente le risorse invece di uniformare il benessere delle popolazioni del mondo
[Arrighi, 2008].
Lo sviluppo e la competizione dei principali centri urbani nei confronti delle
periferie (campagne e colonie) portarono irrimediabilmente a una egemonia politica e
economica delle città, prima, e degli stati poi. Questa tendenza è ampiamente
documentata dallo sviluppo delle città italiane e portoghesi durante il XIV e XV secolo
[Moore, 2003b], dall'ascesa delle Province Unite durante il XVII secolo, seguite
27
dall'Impero britannico del XIX secolo e da quello statunitense del Novecento [Arrighi,
1999]; seguendo questa linea storica si può notare come l'impulso all'espansione politica
e finanziaria sia scattato - in parte - dalla posizione dominante delle città nei confronti
delle periferie di appartenenza. Lo sviluppo del capitalismo non fu comunque
determinato soltanto dall'espansionismo delle città, ciononostante esso rappresenta una
tappa decisiva per le future egemonie mondiali che dal XVII secolo in avanti
guideranno le sorti del pianeta. L'industrializzazione successiva, non fece altro che
intensificare lo squilibrio nel rapporto tra centro e periferia, accentuando da un lato
l'accumulazione di capitale e di risorse e dall'altro la proletarizzazione e il disagio
sociale; le città e gli imperi centrali, sulla base della legge della massimizzazione dei
profitti, accentuarono il loro carattere egemonico sulle periferie, sempre più mere
strumenti necessari per l'accumulazione di capitale. In questo senso, una volta che il
capitalismo raggiunse gli angoli più remoti del pianeta e cioè in seguito alle due guerre
mondiali che rafforzarono il potere mondiale statunitense, fu coniata l'espressione
"Terzo Mondo" che ben si presta alla comprensione della divisione sociale e che ormai
aveva raggiunto dimensioni globali.
2 L'egemonia tra direzione, controllo ed espansione
Lo sviluppo del capitalismo suddiviso tra centri e periferie, basato su relazioni di
valore nei confronti dell'ambiente naturale portarono, a partire dal XVII secolo,
all'affermarsi di egemonie di potere politico, economico, sociale e culturale su scala
mondiale. A livello globale infatti, la presa di potere di centri come Amsterdam,
Londra, Washington portò all'espansione rispettivamente delle Province Unite,
dell'Impero britannico e degli Stati Uniti, attraverso le colonie e le zone di influenza
politica e culturale. La presa di potere di alcuni stati rispetto ad altri costituisce il
risultato di forze contrapposte in competizione tra loro: ciò è ben visibile nel corso della
storia, tanto a livello locale quanto a livello mondiale. Il dominio e l'egemonia non sono
peculiarità esclusive al capitalismo, ma è senz'altro vero che l'accumulazione di capitale
28
si fonda in parte sulla possibilità di assoggettare e incorporare sempre più aree del
pianeta; tuttavia, non bisogna limitare il carattere di dominio soltanto alle sfere politiche
ed economiche.
Parlando di egemonia non si può non citare Antonio Gramsci e le varie
interpretazioni che si sono succedute senza sosta per tutto il Novecento dei concetti
contenuti nei Quaderni dal Carcere; l'importanza di tale opera monumentale è data
dall'estrema attualità dei contenuti - specialmente la questione dell'egemonia in
riferimento a questo lavoro - che s'impone pertanto come punto di partenza nell'analisi
attorno ai meccanismi di potere.
Secondo Gramsci anche la 'direzione culturale' rappresenta un mezzo per
l'espansione egemonica che risulta dalla combinazione di relazioni geopolitiche, di
guida culturale e di potere politico. "Il criterio storico-politico su cui bisogna fondare le
proprie ricerche è questo: che una classe è dominante in due modi, è cioè dirigente e
dominante. È dirigente delle classi alleate, è dominante delle classi avversarie. Perciò
una classe già prima di andare al potere può essere dirigente (e deve esserlo): quando è
al potere diventa dominante ma continua ad essere anche dirigente" [Gramsci, 1930].
Direzione culturale e dominio quindi, ma anche "direzione suprema" di una Stato sugli
altri, attraverso l'uso combinato di forza e consenso [Cospito, 2004]: gli esempi descritti
da Gramsci riguardano l’egemonia della Francia sul resto d’Europa tra la fine del XVIII
e l’inizio del XIX secolo, 'l'egemonia piemontese' rispetto agli altri antichi stati italiani
(o quella di Parigi sul resto della Francia durante la rivoluzione francese), "l’egemonia
del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna", ma in tale descrizione
rientrano anche l'egemonia olandese, britannica e statunitense che plasmarono
progressivamente la direzione culturale, politica e commerciale dell'intero sistema-
mondo.
L’egemonia quindi investe, determina e dà significato alle note sulla cultura, la
politica, l’economia, la filosofia, l’educazione e, in generale, sul funzionamento dello
Stato, in specie quello moderno che, in tempi normali, si mantiene in vita grazie ad
un’equilibrata alchimia di egemonia+forza, consenso+coercizione, direzione+dominio.
In questo senso, "egemonia è sinonimo di consenso e direzione, mai solo di dominio"
[Ragazzini, 1973; Maltese, 2009]: oltre ad esso vi è anche una dimensione di guida del
gruppo dominante di guidare la società, sia a livello nazionale, sia a livello mondiale, in
29
una direzione che non solo serve gli interesse del gruppo dominante, ma che è anche
percepita dai gruppi subordinati come finalizzata a un più generale interesse collettivo.
Attraverso il sistema educativo e i mezzi di comunicazione il sistema egemonico può
mantenersi attivo e perpetuarsi nel tempo [Cospito, 2004]. E' infatti grazie anche al
consenso democratico e l'accettazione dei modelli proposti da parte delle sfere dirigenti
che la perpetuazione di determinate egemonie politiche e culturali si rende possibile: in
questo scenario, i mezzi di comunicazione svolgono un ruolo fondamentale,
incanalando e gestendo l'opinione pubblica. Il carattere informativo e persuasivo dei
mezzi di comunicazione costituisce un fattore importante per la gestione e la
manipolazione dell'opinione pubblica - e pertanto per il mantenimento del controllo e
del potere - come già avevo messo in mostra Walter Lippman in L'Opinione pubblica, a
proposito dei bollettini della prima guerra mondiale lungo il confine franco-tedesco,
descritti dai quotidiani nazionali come referti di imprese eroiche, di vittorie e di
sconfitte, che in realtà parlavano di una guerra di stallo [Lippman, 1922]. Il dominio
dell'informazione è quindi fondamentale per il mantenimento del potere interno e del
conseguimento di quello estero, in quanto assolve il compito di guida sociale e
culturale, all'interno di un sistema di forze politiche contrapposte, in lotta per
l'egemonia, una volta raggiunte la funzione economico-primitiva, la 'coscienza di
solidarietà di interessi' e
la coscienza che i propri interessi corporativi [...] possono e debbono divenire gli interessi
di altri raggruppamenti subordinati; questa è la fase più schiettamente “politica” che segna
il netto passaggio dalla pura struttura alle super-strutture complesse, è la fase in cui le
ideologie germinate precedentemente vengono a contatto ed entrano in contrasto fino a che
una sola di esse, o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a
diffondersi su tutta l’area, de-terminando oltre che l’unità economica e politica anche
l’unità intellettuale e mora-le, su un piano non corporativo, ma universale, di egemonia di
un raggruppamento sociale fondamentale su i raggruppamenti subordinati [Cospito, 2004].
La funzione di guida gramsciana rappresenta quel potere addizionale che permette di
veicolare gli interessi sociali e l'opinione pubblica: una sorta di "inflazione di potere"
derivante dalla credibilità dei gruppi dirigenti di presentare la funzionalità del dominio
in termini positivi sia per i dirigenti stessi, sia per i gruppi subordinati. Ciò è senz'altro
vero a livello interno; quando la leadership è inserita in un contesto internazionale, la
30
funzione di guida e direzione è alimentata anche dai successi - militari, politici,
finanziari e agroindustriali - di uno stato, pertanto preso a "modello" da emulare, da
parte degli altri stati [Arrighi, 1999].
La lotta e l'espansione egemonica determinano pertanto un livello geografico non
come semplice spazio di incorporazione, bensì come una situazione dinamica, in
continua evoluzione, in cui la lotta per il potere è dato appunto da tali spinte espansive e
belliche. L'egemonia rappresenta un sapere politico sul mondo in cui l'equilibrio
egemonico è in continua trasformazione e costituisce, in ragione di ciò, il banco di
prova proprio dell'agire politico. La competizione tra stati e pertanto l'espansione del
potere egemonico, secondo Gramsci si è sempre risolta nella contrapposizione di due
soggetti:
C'è sempre stata lotta tra due principi egemonici, tra due religioni" e occorrerà non solo
descrivere l'espansione trionfale di una di esse, ma giustificarla storicamente. Bisognerà
spiegare perché nel 1848 i contadini croati combatterono contro i liberali milanesi e i
contadini lombardo - veneti combatterono contro i liberali viennesi. Allora il nesso reale
etico-politico tra governanti e governati era la persona dell'imperatore o del re [così] come
più tardi il nesso sarà [...] il concetto di patria e di nazione [Gramsci, 2001].
Se si considera l'evoluzione del sistema capitalismo e dell'espansione delle frontiere a
partire dal XV secolo [Moore, 2013], si può osservare come la contrapposizione di due
principi egemonici o blocchi sia evidente: nel 1600 la lotta per l'egemonia vide
contrapposti l'Impero spagnolo e le Province Unite; tra il XVIII e il XIX secolo, il
Regno Unito era in contrasto con la Francia napoleonica, mentre nel Novecento la
strategia egemonica statunitense, in seguito alle due guerre mondiali, fu contrastata
dall'Unione Sovietica [Arrighi, 1999].
Il carattere egemonico rientra perciò in un ampio discorso storico in evoluzione, in
cui le forze statali in contrasto e competizione hanno portato alla nascita e alla
transizione di egemonie: è stato infatti così tra l'Olanda e la Gran Bretagna del 700 e tra
quest'ultima e gli Stati Uniti nel 900. Il passaggio da un'egemonia a quella successiva
può esser visto come una trasformazione sistemica - ovvero un processo di radicale
riorganizzazione del sistema mondiale moderno [Arrighi, 1999]; nella storia, il risultato
31
di questi processi transitivi si è tradotta in una rinnovata espansione del sistema
mondiale, fino alle sue attuali dimensioni globali. Secondo l'analisi di Wallerstein,
"l'egemonia nel sistema interstatale si riferisce a quella situazione in cui il confronto in
corso tra le cosiddette "grandi potenze" è cos' sbilanciato che una potenza è davvero prima
inter partes; cioè, una potenza può in larga misura imporre le proprie regole e le proprie
preferenze [...] nell'arena economica, politica, militare, diplomatica e anche culturale. La
base materiale di un tale potere risiede nella capacità delle imprese che hanno sede in
questa potenza di operare con maggiore efficienza nelle tre più importanti sfere economiche
- la produzione agro-industriale, il commercio e la finanza. Il vantaggio in efficienza di cui
stiamo parlando è così grande che queste imprese possono non solo offrire più di quanto
offrano le imprese di altre potenze sul mercato mondiale in generale, ma - in molti casi -
proprio all'interno dei mercati interni delle stesse potenze rivali" [Wallerstein, 1984].
L'egemonia pertanto è il risultato a livello geopolitico di lunghi periodi di espansione
competitiva in cui la futura potenza egemone acquista il proprio vantaggio decisivo
prima di tutto nella produzione, quindi nel commercio e infine nella finanza. Ma
l'egemonia viene saldamente assicurata solo raggiungendo una completa vittoria in una
"guerra mondiale", storicamente trentennale: la guerra dei trent'anni dal 1618 al 1648, le
guerre napoleoniche dal 1792 al 1815, e le guerre eurasiatiche dal 1917 al 1945.
Il passaggio da un'egemonia all'altra costituisce una riorganizzazione sistemica e
promuove una nuova espansione, dotando il sistema di una nuova divisione del lavoro;
la rinnovata espansione da un lato determina un aumento del "volume" e della "densità
dinamica" del sistema, cioè il numero di unità socialmente rilevanti che interagiscono
all'interno del sistema, e il numero, la varietà, e la velocità della transazioni che legano
l'una all'altra. Dall'altro lato, le nuove espansioni sono provocate dalla crisi delle
egemonie precedenti, queste ultime caratterizzate da tre processi distinti ma legati tra di
loro: l'intensificazione della competizione tra stati e della competizione tra imprese;
l'aumento dei conflitti sociali; l'emergere di nuove configurazioni di potere. Il primo
processo avviene in congiunzione con un'espansione finanziaria che provoca un
aumento dell'accumulazione di capitale e una competizione per il capitale mobile
[Arrighi, 1999]. Il ciclico riproporsi di espansioni di finanziarie scatena pertanto una
nuova competizione che Braudel osserva manifestarsi in maniera periodica, dall'Italia
del XIII secolo fino all'Occidente di oggi; secondo lo studioso francese questi
32
movimenti finanziari rappresentano il "segnale dell'autunno" [Braudel 1981; Arrighi
1999].
Direzione e dominio, consenso e coercizione rappresentano le caratteristiche
dell'egemonia che si manifesta in qualsiasi ambito della sfera pubblica, sociale e
culturale: limitando la questione al contesto alimentare, oggetto di questo lavoro,
l'egemonia geopolitica determina - ed è determinata - anche il regime alimentare, in tutti
i suoi aspetti, omologando la produzione ed il consumo di cibo su scala globale
[Friedmann, 2009]. Tale argomento sarà oggetto del prossimo capitolo, inerente alla
genesi e all'analisi dei regimi alimentari e di quello attuale retto dalle multinazionali, ma
è bene sottolineare sin da subito il profondo legame che unisce il cibo e l'egemonia
politica. Lo stretto rapporto tra produzione agricola ed egemonia è d'altronde stato già
messo in luce dall'intensificazione e dall'espansione delle monocolture come lo
zucchero e il caffè, dal mutamento delle coltivazioni in relazione al valore attribuito dai
mercati centrali, dal progresso egemonico delle potenze europee in seguito
all'introduzione del sistema coloniale e di manodopera schiavizzata per la produzione
agricola. Il regime alimentare è, in altre parole, un'emanazione dell'egemonia vigente
che a sua volta si consolida attraverso la produzione di cibo. Ciò è evidente già a partire
dall'egemonia olandese, ma amplificato considerevolmente dall'Impero britannico del
XIX secolo in cui, la supremazia geopolitica coincise con l'espansione e la costruzione
di un impero coloniale, i cui prodotti agricoli, principalmente cereali e bestiame,
rifornivano i mercati europei [McMichael, 2009c], in maniera stabile, continua e sempre
più intensa, sino ai limiti e alla crisi attuale.
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3 Le Province Unite del XVII secolo
Nell’analizzare il passaggio da un’egemonia all’altra bisogna tenere conto di
molteplici fattori e per proseguire l'analisi del sistema di produzione alimentare su scala
mondiale bisogna partire dalle fondamenta del sistema, quando cioè, in seguito ai trattati
di Vestfalia, l’Olanda assunse il ruolo egemone nella politica mondiale; i trattati si
basavano sull’assunzione che il sistema politico fosse basato su un diritto internazionale
a cui gli stati europei si rifacevano, piuttosto che regolati da autorità imperiali-papali
[Gross, 1968, pp. 54-55; Braudel, 1982, III, pp. 209-220]. Non fu fatto alcuno sforzo
per limitare la guerra come mezzo per il mantenimento dell’equilibrio del potere tra gli
stati e in questi termini l’Olanda seppe disporre di un efficace esercito di terra in grado
di sconfiggere il ben più numeroso esercito imperiale spagnolo. Sopratutto però,
l’eccezionale marina olandese - all’avanguardia nella tecnica, nella tecnologia e nella
produzione - determinò la supremazia sul mare a scapito degli spagnoli. Parallelamente
al successo sulla Spagna, risultò fondamentale anche il controllo esercitato sul Baltico
che garantiva una sovrabbondante liquidità e che permise in generale di far fruttare la
loro ricchezza inizialmente limitata per sostenere le sempre crescenti spese militari.
La rimuneratività del commercio olandese era dovuta soprattutto a due circostanze:
la prima era l’intensità della stessa lotta di potere europea. Più intensa si faceva questa
lotta, più alta era la domanda per forniture di grano e materiali per costruzioni navali
provenienti dal Baltico. La seconda era la propensione degli olandesi a conservare in
forma liquida i grandi profitti del commercio baltico, e a usare questa liquidità per
stroncare la competizione nel Baltico e per trasformare Amsterdam nel centro
commerciale e finanziario dell’economia-mondo europea. Il successo derivante dal
trasformare Amsterdam nel centro commerciale e finanziario dell’economia-mondo,
rappresentò una svolta rispetto alla storia precedente: in passato infatti solo città-stato
come Venezia e Genova, in primis, potevano reggere un “impero del commercio”
cittadino senza un reale stato sovrano alle spalle. In questo senso l’esperienza olandese
rappresenta lo spartiacque tra due distinte epoche economiche: “da una parte le città,
dall’altra gli stati moderni e le economie nazionali, con il primato iniziale di Londra,
sostenuta dall’Inghilterra” [Braudel, 1982, pag. 166].
34
Le imprese olandesi erano organizzate in società per azioni privilegiate e tutto
l’apparato sistemico olandese si basava sullo sforzo costante di 'monopolizzare' attività
con un alto valore aggiunto; tali organizzazioni agivano per loro conto nei territori
extra-europei, ancora troppo deboli nei territori lontani. La prima di esse fu la
Verenigde Oost-Indische Compagnie (VOC) fondata nel 1602, che gli storici ricordano
come un’organizzazione colossale, paragonabile a una moderna multinazionale. Tali
organizzazioni d’affari godevano di privilegi commerciali esclusivi - concessi dai
governi europei - in aree geografiche determinate e il diritto di svolgere attività belliche
e d’amministrazione ordinaria. Alla VOC, ad esempio, era ufficialmente concesso il
monopolio su tutto il commercio a est del Capo di Buona Speranza e a ovest dallo
Stretto di Magellano.
All’inizio del XVII secolo le società per azioni privilegiate olandesi non erano più le
sole a poter agire nei territori extra-europei: altre potenze, come il Regno Unito con la
Compagnia inglese delle Indie Orientali, si erano dotate dei medesimi apparati
commerciali. Per superare la concorrenza e mantenere il ruolo di leadership, nel 1621 le
Province Unite crearono la West-Indische Compagnie (WIC). La riemergente ostilità
della Spagna, portò la WIC sulla bancarotta e nel 1674 venne riorganizzata come
apparato puramente commerciale - e non più governativo - dedito al traffico di schiavi e
alla pirateria nell’America spagnola; fu la WIC a introdurre il commercio atlantico
triangolare che legò l’una all’altra le comunità manifatturiere d’Europa, le comunità
africane dedite al procacciamento di schiavi e le comunità delle piantagioni nelle
Americhe in un circuito di commercio e produzione sempre più imponente e redditizio.
A beneficiare di questo commercio furono anche la Francia e il Regno Unito, in seguito
all’impennarsi della domanda di schiavi nei loro possedimenti africani. Il rinnovamento
portato dalle società per azioni privilegiate permise ad Amsterdam di diventare la sede
della prima borsa in sessione permanente, con un volume di densità di transizioni
maggiore di tutte le borse esistite fino ad allora.
La decisiva sconfitta spagnola che portò alla Pace di Vestfalia segnò il punto più alto
nella politica mondiale olandese che, a partire da quel momento, fu esposta ai continui
attacchi incrociati di Francia e Inghilterra, con l’obiettivo dichiarato di porre fine
all’egemonia olandese; dopo i trattati di Vestfalia infatti, le Province Unite dovettero
combattere tre guerre, in rapida successione, contro la Corona britannica che
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prosciugarono le casse statali e impoverirono il potere mondiale olandese. La prima
guerra (1652-1654) scoppiò in seguito alla proclamazione dei Navigation Acts
britannici, volti a monopolizzare i commerci con le proprie colonie, impedendo il
commercio con le altre potenze, in primis appunto con le Province Unite. Le ostilità si
conclusero con ingenti perdite navali per gli olandesi, nuovamente in guerra per il
commercio di schiavi nell’Africa occidentale, guerra che portò il passaggio di territori
olandesi come New York, il New Jersey al Regno Unito. Il terzo conflitto anglo-
olandese si scatenò qualche anno più tardi (1672-1674) in seguito a un’alleanza segreta
tra il governo inglese e Luigi XIV che vide l’Olanda costretta a combattere sui due
fronti.
I trattati di Vestfalia portarono così a un cambiamento nelle lotte interne
all’Occidente: finché gli stati europei furono intenti a contrastare la minaccia portata
alla loro sovranità dalla Spagna imperiale, fu facile per le Province Unite utilizzare il
proprio denaro e i contatti per assicurarsi che gli altri stati avrebbero condotto il peso
maggiore della guerra di terra, potendo concentrare i propri sforzi nella guerra sul mare
e nel proporsi come intermediari finanziari e commerciali dell’intera Europa [Arrighi,
1999; Braudel l, III, 1982]. Una volta che però la minaccia spagnola fu neutralizzata, gli
stati europei cercarono di incorporare nei rispettivi domini i circuiti e le reti
commerciali che stavano rendendo l’Olanda ricca e potente proprio mentre il resto
d’Europa attraversava un periodo di crisi generalizzata. Gli olandesi continuarono a
“guidare” il resto degli stati europei che, nel tentativo di emulare il sistema
mercantilistico olandese, strinsero alleanze volte alla rottura di quell’egemonia: la terza
guerra anglo-olandese fu dunque fondamentale in quanto al tentativo emulativo inglese
si affiancò la volontà francese di inglobare i territori delle Province Unite nello stato
francese. Tale convergenza di strategie rivelò la vulnerabilità del sistema politico della
Repubblica olandese: di fronte all’espansionismo marittimo britannico e quello
continentale francese, gli olandesi scelsero il “male minore” schierandosi dalla parte
degli inglesi. Il controllo marittimo passò quindi negli anni nelle mani della marina
britannica che da quel momento intensificò gli investimenti grazie alla creazione, nel
1694 della Banca d’Inghilterra. L’Olanda pertanto divenne negli anni un fedele alleato
della Corona come in occasione della guerra di Successione Spagnola (1701-1713),
originata dal pericolo che la Spagna diventasse uno stato asservito alla Francia, o che le
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basi di Napoli e della Sicilia cadessero nelle mani francesi; in base agli accordi anglo-
olandesi l’Olanda si preoccupò di contrastare l’avanzata delle truppe francesi sul
continente, mentre la Gran Bretagna ostacolò le mire di Luigi XIV via mare. Il risultato
fu un logoramento delle truppe olandesi e un espansionismo navale britannico che ne
rafforzò ulteriormente il potere. La sovraesposizione olandese nelle Fiandre e in Spagna
prosciugò le casse statali aumentando il debito nazionale: il capitale olandese iniziò a
optare in maniera sempre più massiccia per gli investimenti inglesi, mantenendo le
finanze britanniche in buona salute [Braudel, 1982]. A partire dal trattato di Utrecht del
1713 il passaggio all’egemonia britannica si fece più intenso, in quanto grazie agli
accordi l’Inghilterra ottenne territori strategicamente fondamentali (Gibilterra, Minorca,
Terranova, oltre al diritto di asiento spagnolo2). L’handicap principale, che in
precedenza aveva rappresentato il punto di forza, era rappresentato dalla piccola scala
territoriale e la struttura decentralizzata di fronte al forte Impero britannico che, in
seguito ai trattati di Utrecht aumentò la già abbondante disponibilità di manodopera e di
imprenditorialità: i porti britannici iniziarono quindi a sfidare e infine sconfissero il
commercio di transito di Amsterdam. Il “leone inglese” stava superando il “gatto
olandese” cui non rimaneva altro che rifugiarsi nell’egemonia finanziaria, visto che
quella commerciale e marittima aveva ceduto il passo al potente apparato inglese:
l’escalation della lotta di potere, e la conseguente intensificazione della competizione
interstatale per il capitale mobile, crearono infatti le condizioni per un’espansione
finanziaria che inflazionò temporaneamente la ricchezza e il potere olandesi.
Amsterdam divenne la “cassa” d’Europa [Arrighi, 1999], specialmente per le campagne
belliche britanniche: l’indebitamento inglese infatti nei confronti degli investitori
olandesi, in seguito alla Guerra di Successione Spagnola e quella austriaca, crebbe
esponenzialmente, così come quello danese, sassone, bavarese, russo e svedese.
L’aumento del credito estero non permise tuttavia all’Olanda di mantenere il ruolo
egemone in seguito alle diverse crisi finanziarie che scossero l’Europa settecentesca e
che, a lungo andare, trasferirono il centro finanziario e commerciale a Londra. Anche la
leadership finanziaria andò dunque sgretolandosi, in seguito alla crisi generalizzata che,
a partire dal 1772 interessò prima la Gran Bretagna, poi la Francia che, nel 1788,
2 Il contratto tra Stato e privati o il trattato con un altro paese che stabiliva la fornitura degli schiavi nerinelle colonie americane della Spagna. Uno dei primi contratti di concessione (asiento), viene stipulato traCarlo V e i nobili genovesi Francesco Grimaldi e Francesco Lomellini, riguardante il diritto di pesca nelleacque di Tabarca. In base a tale accordo il sovrano riscuote un canone pari a un quinto del corallo pescato.
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dichiarò bancarotta lasciando l’onere dei debiti alla finanza olandese. Il tracollo
finanziario fu la goccia che fece traboccare un vaso già colmo di pressioni politico-
economiche.
4 L'Officina del mondo
La scomparsa degli ultimi residui dell’egemonia olandese nel XVIII non portò
tuttavia alla comparsa immediata della nuova egemonia britannica: soltanto dopo la
sconfitta della Francia napoleonica, sancita dal Congresso di Vienna, ciò poté affermarsi
a livello di politica mondiale. Con l’ascesa britannica il continente europeo fu
attraversato da una fase inedita nella storia occidentale, una pace di cento anni, dal 1815
al 1914. Non bisogna dimenticare che nel XIX secolo l’Europa fu comunque scossa da
guerre che avevano però come peculiarità il carattere nazionale e non continentale: basti
pensare ai moti del biennio 1820-1821, o ai moti rivoluzionari del 1848, all’unificazione
germanica e a quella italiana: in tutti gli esempi citati il carattere distintivo è la
dimensione nazionale della guerra, una sorta di lotte intestine volte alla costruzione di
regimi democratici. E’ in questo senso che va intesa la secolare pace ottocentesca, in
quanto mancarono conflitti interstatali in grado di scuotere l’assetto politico europeo. La
Gran Bretagna fu la maggiore promotrice e organizzatrice di questo fenomeno senza
precedenti, passata alla storia come pax britannica. Come ha sottolineato Polanyi
[1974], uno degli ingredienti principali della costruzione della pace dei cento anni del
XIX secolo fu il sistema dell’equilibrio del potere, il sistema per cui "tre o più unità in
grado di esercitare il potere si comporteranno sempre in modo tale da combinare il
potere delle unità più deboli contro qualunque aumento di potere delle più forti". Per
rafforzare il ruolo egemone all’interno della politica mondiale, gli inglesi fecero in
modo di sostenere i governi assoluti dell’Europa centrale organizzati nella Santa
Alleanza, garantendo che i cambiamenti nell’equilibrio di potere sarebbero avvenuti
solo tramite consultazioni tra le grandi potenze, attraverso il ristabilito concerto
europeo. Allo stesso scopo ottenne che la Francia sconfitta fosse inclusa tra le grandi
potenze nel concerto della Restaurazione.
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Il controllo dell’equilibrio del potere europeo e la centralità nel commercio mondiale
erano due elementi portanti dell’egemonia britannica fondamentali nella pace dei
cent’anni. Il primo permetteva alla Corona di evitare di subire ciò che gli olandesi
avevano subito dopo la pace di Vestfalia - il fuoco incrociato di più potenze volte a
contrastarne l’egemonia politico-economica, il secondo subordinava i crescenti interessi
commerciali di altri stati all’Impero britannico. L’industrializzazione diede poi
l’impulso decisivo all’egemonia britannica, elemento mancante durante il dominio
olandese del XVII secolo: le esigenze di guerra determinarono il salto tecnologico e
industriale dell’Inghilterra ottocentesca, "consentendo il miglioramento dei motori a
vapore e rendendo possibili innovazioni importantissime come le ferrovie e le navi da
guerra in un periodo e in condizioni che semplicemente non sarebbero esistiti senza la
spinta alla produzione siderurgica del periodo bellico" [Arrighi, 1999]. Con questo
sistema di trasporti e comunicazioni, il commercio mondiale si espanse a un tasso senza
precedenti [Arrighi, 1999]; a differenza del sistema commerciale olandese del XVII
secolo, che era e rimase un sistema mercantile, quello del commercio inglese divenne
un sistema integrato di trasporto meccanizzato e di produzione, che lasciava poco
all’autosufficienza nazionale. La Gran Bretagna era la principale organizzatrice e la
principale benefattrice di questo sistema di interdipendenza statale, all’interno del quale
esercitava la duplice funzione di punto di smistamento centrale e di coordinamento. Per
quanto riguarda l’aspetto puramente commerciale e finanziario, la Compagnia delle
Indie inglese assunse un ruolo di primaria importanza, all’interno del sistema britannico,
che grazie ai profitti ottenuti permise alla madrepatria di sostenere i costi delle guerre,
della colonizzazione di altri territori e del progresso tecnologico-industriale.
Se da un lato, il forzato contributo dell’India alla bilancia dei pagamenti della Gran
Bretagna imperiale permise a quest’ultima di ottenere la liquidità necessaria per il
meccanismo di redditi e investimenti, dall’altro la nascente industrializzazione europea
e americana minò, negli anni, il predominio politico su cui si fondava l’egemonia
britannica; il boom della metà del XIX secolo del commercio e della produzione
mondiali conteneva i semi della distruzione dell’ordine mondiale su cui si fondava.
Come "officina del mondo", la Gran Bretagna era l’unica che poteva trarre vantaggio
dall’industrializzazione in altri paesi, fornendo mezzi di trasporto e manufatti in cambio
di prodotti agroalimentari e materie prime. Questi però a loro volta ridussero negli anni
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la struttura dei costi e riprodussero il vantaggio competitivo britannico nei mercati
mondiali, annullando il divario con l’impero britannico. Col tempo dunque la
diffusione dell’industrialismo - in particolare negli Stati Uniti e in Germania - erose la
supremazia marittima britannica e fece sorgere dei complessi militari-industriali troppo
potenti perché la Gran Bretagna potesse tenerli sotto controllo attraverso la sua
tradizionale linea di politica dell’equilibrio del potere mondiale.
A partire dalla seconda metà del XIX secolo quindi, l’egemonia britannica iniziò la
parabola discendente, che portò alla nascita della successiva egemonia statunitense del
XX secolo. Una prima spallata all’equilibrio di potere fu data dalla Grande Depressione
dal 1873 al 1896. Nel corso della Depressione la rivalità tra le potenze aumentò,
emersero complessi militari-industriali troppo potenti perché la Gran Bretagna potesse
tenerli sotto controllo attraverso le tradizionali politiche volte all’equilibrio del sistema
che collassò negli anni della prima guerra mondiale. L’industrialismo e l’imperialismo
derivanti dalla Grande Depressione erano le risposte statali a un periodo di incertezza
economica diffusa; divenne infatti abituale introdurre meccanismi protezionistici alle
nuove espansioni del commercio e degli investimenti internazionali e la diffusione
dell’imperialismo stesso fu in primo luogo il risultato di una lotta tra le potenze per il
privilegio di estendere il loro commercio a mercati politicamente non protetti. La
"febbre della produzione" provocò una lotta per garantirsi l’approvvigionamento di
materie prime, il che rafforzò la spinta a esportare. L’esasperata competizione tra gli
stati produsse un cambiamento nella produzione industriale e nell’estrazione di materie
prime (sempre più intensa): un primo aspetto fu l’introduzione di tecniche di produzione
di massa negli arsenali europei; il secondo punto di cambiamento fu l’inserimento nella
corsa agli armamenti di imprese private di grosse dimensioni che negli anni scalzarono
gli arsenali europei dalla produzione di armi.
Con l’intensificarsi della concorrenza nella produzione agroalimentare l’impresa
britannica si specializzò nell’intermediazione finanziaria globale. Londra era ancora il
centro dell’alta finanza, così come lo era stata Amsterdam nel periodo conclusivo
dell’egemonia olandese, ma l’officina del mondo stava cedendo terreno a industrie
nazionalistiche dal forte tasso protezionistico e competitivo. L’impresa tedesca, ad
esempio, incapace di competere con l’impresa britannica nell’intermediazione
finanziaria globale - si mosse per formare un’economia nazionale atta a generare un
40
sistema economico nazionale. L’evoluzione del sistema tedesco a partire dal 1870 fu
dunque particolarmente sconvolgente per la Gran Bretagna perché per la prima volta,
dopo l’impero napoleonico, furono create le condizioni per una potenza terrestre
europea capace di aspirare a una supremazia continentale [Arrighi, 1999]. Il paradigma
tedesco era inoltre strettamente legato alle attività governative e belliche del Reich
guglielmino: la crisi generalizzata degli anni 70’ del XIX secolo, in cui le principali
potenze mondiali furono interessate da un’intensa diffusa e persistente competizione,
determinò la creazione di un “capitalismo organizzato” (determinato da un’integrazione
tra soggetti imprenditoriali a metà strada tra quella orizzontale - la fusione attraverso
l’associazione, l’unione o l’acquisto di imprese che agivano negli stessi settori di
mercato in modo da ridurre le incertezze di mercato - e verticale - caratterizzata dalla
fusione delle operazioni di un’impresa con quelle dei suoi fornitori e dei suoi clienti,
riducendo i costi di transazione e i rischi e le incertezze derivanti dal procacciamento di
materie prime e dalla vendita dei prodotti finiti), in cui era forte il ruolo giocato
dall’apparato statale.
5 L'egemonia statunitense
L’industrializzazione tedesca, unita all’instabilità politica e militare dell’Europa
novecentesca, determinarono pertanto una revisione dell’equilibrio di potere sul
continente: fu questo mutamento degli equilibri politici "a promuovere il graduale
riordinamento delle forze culminato nella Triplice intesa e Triplice alleanza" [Landes,
1978 p. 428; Arrighi, 1999], all’alba della prima guerra mondiale. Lo scoppio della
guerra determinò il secondo attacco all’egemonia mondiale britannica, dopo quello della
Grande Depressione che produsse un tasso elevato di industrializzazione in tutta
l’Europa continentale. La prima guerra mondiale prosciugò le casse britanniche e il
governo, a partire dal 1916, fu costretto a centralizzare un gran numero di aziende
ponendole sotto il controllo - o attraverso la partecipazione - statale beneficiando
l’ascesa del capitalismo statunitense. Già prima dello scontro bellico, il dollaro aveva
accresciuto il proprio peso nelle transazioni internazionali (specialmente con l’America
41
Latina) ma fu soltanto in seguito alle due guerre mondiali che il dollaro si sostituì
pienamente alla sterlina nella conduzione del commercio mondiale [Arrighi, 1999].
Mentre infatti la Gran Bretagna si sobbarcava i costi e gli oneri di una guerra così
logorante, gli Stati Uniti accrescevano il proprio potere finanziario rifornendo la Gran
Bretagna di materie prime, armi, alimenti che gli inglesi non erano in grado di pagare;
parimenti concessero prestiti alle altre potenze coinvolte nello scontro, e non solo,
espandendo enormemente il sistema finanziario americano. A titolo d’esempio, tra il
1924 e il 1929 i prestiti concessi all’estero dagli Stati Uniti erano il doppio di quelli
britannici [Arrighi 1999].
Anche prima della guerra mondiale gli Stati Uniti si erano affermati come una
potenza sul territorio americano. La Dottrina Monroe del 1821 - essenziale per il
mantenimento dell’equilibrio di potere mondiale - veniva usata come strumento della
supremazia statunitense sul continente americano. L’epilogo della prima guerra
mondiale non fece altro che estendere questa supremazia dal continente americano
all’intero pianeta. Il tracollo della Borsa di New York va letto pertanto come il
passaggio di testimone tra l’epoca britannica e quella nascente americana, analogamente
al crollo dei titoli della Borsa di Amsterdam nel passaggio all’egemonia britannica: il
punto debole del sistema finanziario globale nella Crisi del 1929 non risiedeva infatti a
Wall Street, bensì nella City londinese, in seguito alla diminuzione dei traffici
interstatali e al logorio statale durante e dopo la prima guerra mondiale. Come per il
passaggio dall’egemonia olandese a quella britannica, il passaggio da un’egemonia
all’altra non fu immediato: a partire dalla Grande Depressione del XIX secolo,
l’egemonia britannica entrò in una fase discendente ma furono necessarie due guerre
mondiali, un’intensa industrializzazione globale e una crisi monetaria e finanziaria
prima che il passaggio potesse dirsi completato. Fu soltanto dopo la seconda guerra
mondiale che l’egemonia statunitense poté infatti affermarsi in senso letterale. La
peculiarità degli Stati Uniti stava nel poter disporre liberamente di un territorio ricco di
materie prime, decisamente vasto rispetto agli stati europei e un sostanziale predominio
sulle regioni limitrofe: questo garantiva, al contrario di quanto accadeva in Europa, un
pressoché illimitato raggio d’azione in materie commerciali e militari. Una volta domate
le resistenze europee, in particolare la Germania nazista e l’Unione Sovietica, gli Stati
Uniti poterono quindi presentarsi all’opinione pubblica mondiale come potenza
42
egemone, sia da un punto di vista economico e politico, sia da un punto di vista
culturale e sociale: il mito americano stava entrando in maniera attiva nelle culture
europee.
La forza militare degli Stati Uniti nel 1945 aveva un ruolo fondamentale nel loro
potere egemonico. Allo stesso tempo Washington stabilì il suo dominio in altre due
importanti aree. Vennero istituite le Nazioni Unite, individuate come l’infrastruttura
politica per la posizione di dominio e controllo. Questo è il motivo per cui venne
stabilito all’interno dell’ONU un’entità chiamata Consiglio di Sicurezza, con cinque
membri permanenti, gli Stati Uniti e quattro dei loro alleati in quel momento (Gran
Bretagna, Francia, Unione Sovietica e Cina), tutti dotati del diritto di veto per garantire
che i cinque avrebbero determinato la direzione del mondo. Per gestire l’economia
globale, che era un aspetto ancora più importante, l’élite statunitense ideò tre istituzioni
correlate: l’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e sul Commercio (General
Agreement on Tariffs and Trade – GATT), il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e
la Banca Mondiale, oltre a sancire la nascita di un nuovo sistema monetario incentrato
sul dollaro, in seguito agli accordi di Bretton Woods. Il GATT, oggi sostituito
dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization – WTO), fu
avviato ufficialmente per creare un ambiente favorevole al libero scambio – una
tipologia di libero scambio che spesso non era un commercio equo e solidale.
L’obiettivo dichiarato del FMI era quello di stabilizzare i tassi di cambio e promuovere
la cooperazione monetaria globale anche se ciò che ha fatto, soprattutto durante gli anni
novanta, è stato quello di rafforzare il capitalismo neo-liberale e di preservare il dollaro
statunitense come perno del sistema finanziario globale. Allo stesso modo la Banca
Mondiale, il cui scopo principale dichiarato è quello di concedere prestiti ai paesi in via
di sviluppo, chiese loro di promuovere la liberalizzazione, la deregolamentazione e la
privatizzazione, ovvero il fulcro di ciò che è conosciuto come il Washington Consensus
[Muzaffar, 2012].
Il nascente apparato egemonico statunitense fu contrastato però, a partire dagli anni
40’ del XX secolo, dall’Unione Sovietica, l’unica potenza in grado di limitare la
macchina capitalista americana. Opposti nell’ideologia, ma con la stessa intenzione di
dominazione mondiale, Unione Sovietica e Stati Uniti inaugurarono così un periodo di
forti tensioni politiche, militari ed economiche: la Guerra Fredda. Nel tentativo di
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arginare l’influenza comunista sul territorio europeo, l’allora Presidente Henry Truman
enunciò la sua Dottrina nel 1947 che aveva come scopo il contenimento del comunismo
e dell’espansione sovietica. L’amministrazione Truman varò un programma di aiuti a
favore dei governi di Grecia e Turchia per aiutarle a resistere ai tentativi di
soggiogamento a opera di minoranze armate o di influenze esterne. Questa strategia di
intervento diretto fu rapidamente estesa all’intera Europa col piano Marshall e il Patto
Atlantico e in seguito, infine, resa mondiale con il programma detto del “Quarto punto”,
per aiuti economici ai paesi sottosviluppati e con la globalizzazione della politica di
containment (arginamento) anticomunista. Contemporaneamente la conferenza di Yalta
servì a stabilire lo status quo, in base al quale l’Unione Sovietica controllava circa un
terzo del mondo e gli Stati Uniti il resto [Wallerstein 2004].
L’incessante competizione con l’Unione Sovietica, soprattutto in campo tecnologico,
fu il limite invalicabile all’egemonia statunitense: diversamente da quella olandese e da
quella britannica infatti, gli Stati Uniti si trovarono di fronte a un avversario di assoluto
rilievo. Mentre la Spagna imperiale era basata su un sistema economico obsoleto e la
Francia napoleonica non aveva i mezzi necessari per arginare e fronteggiare il
predominio marittimo e commerciale del Regno Unito, l’Unione Sovietica disponeva di
un efficiente apparato industriale, tecnologico e politico; l’estensione dell’influenza
americana sull’Europa occidentale si sviluppò infatti in parallelo alla costruzione di un
blocco comunista che si estendeva dall’Europa orientale fino all’Asia, comprendendo la
Cina comunista di Mao Tse-Tung.
La sfrenata competizione tra i due blocchi contrapposti portò a una rincorsa agli
armamenti che impoverì le casse di entrambe le fazioni: gli Usa capirono presto che i
numerosi eserciti sovietici non potevano essere arginati se non attraverso il monopolio
delle armi nucleari, monopolio che cessò nel 1949 quando anche la Russia comunista
mise a punto le proprie armi nucleari.
La resistenza dell’Unione Sovietica e dei nuovi Stati indipendenti dell’Africa e
dell’Asia iniziò comunque a perdere lo slancio vitale a partire dagli anni 80’,
contemporaneamente all’inaugurazione nel “mondo occidentale” (capeggiati da Stati
Uniti e Regno Unito) di politiche commerciali di stampo neo-liberista. Nel caso
dell’Unione Sovietica in particolare, sia le circostanze interne sia quelle esterne
costrinsero Mosca a cedere all’egemonia statunitense. L’incapacità di un’economia di
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comando a soddisfare i desideri dei consumatori di un significativo segmento della
società fu un fattore importante, così come la dilagante corruzione, la quale offuscò
l’integrità della classe dirigente. Poiché lo Stato sovietico ha mantenuto il suo potere
attraverso un certo grado di irreggimentazione e repressione, tutto ciò ha alimentato una
rabbia diffusa e il risentimento contro il sistema comunista [Muzaffar, 2012].
Col collasso del comunismo - simboleggiato dalla caduta del Muro di Berlino - la
società globale è stata proiettata in una nuova fase storica: l'equilibrio del potere
mondiale basato sulla competizione militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica (senza
che siano mai state combattute guerre che potessero dispiegare gli immensi arsenali
nucleari) ha lasciato infatti il posto a una nuova era sociale in cui i liberi mercati
(agevolati dall'apertura dei paesi ex sovietici e dalla dotazione in Europa di un'unica
moneta), le agenzie di rating e le organizzazioni sovrastatali sembrano aver assunto il
peso di superpotenze militari [Arrighi, 1999], con il benestare degli stati-nazione che
anzi ne hanno incentivato lo sviluppo. La scomparsa dell'Unione Sovietica dallo
scacchiere mondiale coincise anche con il punto più alto toccato dall'economia
giapponese in ambito mondiale, in seguito alla rivalutazione dello yen nei confronti del
dollaro statunitense, nei mercati finanziari mondiali. La fine degli anni Ottanta quindi se
da un lato registrò il tracollo comunista, dall'altro vide l'ascesa dell'economia
giapponese, intaccando seriamente la politica estera ed economica statunitense: si
ipotizzava infatti che la futura egemonia sarebbe risorta, sulle ceneri di quella
americana, a Tokyo [Arrighi, 1999].
6 Nuove egemonie
L'evoluzione storica dimostrò, almeno fino all'inizio del XXI secolo che tali
previsioni si erano rivelate erronee in seguito alla crisi asiatica della fine degli anni 90'
che mise in luce i limiti egemonici del Giappone [Arrighi, 1999]; tuttavia, i problemi
legati al mantenimento dell'egemonia di Washington, al volgere del millennio, non
erano comunque stati dissipati anzi, l'attacco alle Torri Gemelle del 2001, la Guerra e
l'occupazione in Iraq - con il pretesto di ricercare le armi di "distruzione di massa" di
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Saddam Hussein, l'invasione in Afghanistan, sono stati segnali di una crisi egemonica
americana. Secondo Muzaffar, l'invasione in Afghanistan, al di là delle motivazioni
ufficiali che inquadrano la cattura di Bin Laden come reale fondamento dell'operazione,
vi si possono scorgere altri motivi: "la volontà di invadere l’Afghanistan con la farsa di
una guerra contro il terrorismo può essere legato alla posizione strategica del paese,
ossia come nazione vicina a Cina e Russia da un lato e all’Iran dall’altro, quindi
d’enorme importanza per gli Stati Uniti. Il controllo dell’Afghanistan facilita l’accesso
ai giacimenti di petrolio delle repubbliche dell’Asia Centrale e alle risorse del Mar
Caspio. È stato analizzato che in termini di produzione di petrolio l’intera regione
potrebbe rivaleggiare con l’Arabia Saudita in un prossimo futuro" [Muzaffar, 2012]. Al
di là delle reali ragioni, è senza dubbio vero che tali avvenimenti rappresentano una
spaccatura nella governance mondiale, in relazione agli ingenti costi finanziari di tali
operazioni e all'elevata perdita di vite umane che hanno influenzato l'opinione pubblica
mondiale. Assieme all’ideologia, agli interessi e alle azioni delle élites statunitensi, che
hanno rappresentato un fattore importante nel declino degli Stati Uniti, anche la
resistenza di molti gruppi, movimenti e Stati nei confronti dell’egemonia statunitense ha
svolto un ruolo significativo; in questo senso, i principali attori di tale resistenza ai
tentativi di mantenimento dell'egemonia di Obama sono la Russia, la Cina e - per certi
aspetti - l'America Latina. La prima, dopo il riassestamento degli anni 90', è tornata
protagonista, assistendo alle manovre degli Stati Uniti in Georgia, Ucraina e in alcuni
dei paesi dell’Europa orientale, le quali l’hanno convinta ad affinare le sue abilità
diplomatiche e rafforzare i propri muscoli militari al fine di proteggere la sovranità e
l’integrità della Federazione Russa. La seconda ha aumentato il peso internazionale,
tanto politico, tanto economico-finanziario, rispondendo ai tentativi di Washington di
estendere le relazioni politiche e militari nelle zone del Pacifico, come Australia,
Filippine, Giappone e Corea del Sud. Per contrastare tale strategia di accerchiamento, la
Cina ha ampliato considerevolmente i propri investimenti, con il Made in China che,
nell'era della globalizzazione, ha raggiunto ogni angolo del pianeta, imponendosi come
marchio commerciale dominante.
Già nella prima metà del secolo scorso, Gramsci sottolineava la possibile ascesa a
potenze mondiali da parte di Cina e India in relazione alla produzione industriale e
manifatturiera e all'enorme quantità di forza-lavoro:
46
"Si sposterà questo asse nel pacifico? Le masse più grandi di popolazione del mondo sono
nel pacifico: se la Cina e l'India diventassero nazioni moderne con grandi masse di
produzione industriale, il loro distacco dalla dipendenza europea romperebbe appunto
l'equilibrio attuale: trasformazione del continente americano, spostamento dalla riva
atlantica alla riva del pacifico dell'asse della vita americana [Gramsci, 2001, p. 242].
Le osservazioni di Gramsci fatte a quasi un secolo di distanza evidenziano le peculiarità
del sistema-mondo che dal XV secolo ha fagocitato sempre più territori e risorse.
Il rapido sviluppo interno, l'esplosione delle esportazioni e degli investimenti esterni,
come in Venezuela, Ecuador, Argentina, l'aumento della produzione e dei profitti
derivanti dall'estensione delle monocolture cerealicole - tanto da far investire
direttamente nel 2006 Goldman Sachs nel settore agroalimentare cinese [Burch e
Lawrence, 2009] - sono tutti elementi di una vistosa crescita cinese nel sistema-mondo
ai danni della sempre più traballante od ormai superata, secondo altre ipotesi, egemonia
statunitense. Contemporaneamente, la crisi statunitense dell'ultimo decennio nella
gestione geopolitica e militare di territori come Ucraina, Siria, Palestina, Afghanistan e
Iraq ha avuto riflessi anche sulla leadership mondiale prima e occidentale poi; la grande
esportatrice di democrazia del XX secolo sembra cadere sotto gli effetti della
novecentesca frenetica espansione. Questi movimenti di espansione, declino e nuova
espansione sono elementi portanti del sistema, osservabili nell'evoluzione storica:
successe nel XV secolo con le Province Unite [Arrighi, 1999; Moore, 2013; Talbot
2011]; tale espansione precedette un declino politico, commerciale e finanziario che
alimentò la nuova espansione egemonica britannica del XVIII, seguito dal declino del
primo Novecento [Arrighi, 1999; McMichael, 2000 e 2009c]. Lo sviluppo prodigioso
della Cina segna dunque la nascita di un nuovo mondo post-egemonico; tuttavia,
stabilire con chiarezza se sarà proprio il paese asiatico a prendere le redini degli
equilibri di potere, è fuori portata, soprattutto ai fini di questo lavoro.
All'interno del quadro appena descritto un ruolo centrale è occupato dal capitalismo
finanziario e dalle multinazionali che operano in tutti i settori produttivi; l'apertura dei
mercati, la globalizzazione dei prodotti, la deregulation degli anni 80', la fine del
comunismo sono tutti fattori di cui hanno beneficiato le multinazionali e la grande
distribuzione, estendendo di molto il proprio raggio d'azione. La possibilità di districarsi
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tra le varie leggi nazionali e internazionali, in favore di un libero mercato de-regolato è
stata la miccia per l'esplosione del profitto e del potere corporativo; secondo Charles
Kindelberger "lo stato-nazione come unità economica ha fatto il suo tempo" [Arrighi,
1999], a causa delle comparsa di un sistema di imprese transnazionali che non nutrono
alcun sentimento di fedeltà nazionale, nè si sentono a casa propria in alcuno stato
[Arrighi, 1999]. Via via che si intensifica la "competizione per il capitale globale", forze
di mercato deterritorializzate pongono vincoli sempre più stretti alle politiche
economiche, anche a quelle più grandi nazioni, come Cina, Stati Uniti e organizzazioni
sovrastatali come l'Europa. Con l'adozione delle dottrine liberali dell'impegno minimo
statale, l'intensificazione del potere finanziario e corporativo ha portato addirittura a
teorizzare una prossima "egemonia dei mercati globali" [Arrighi, 1999, p.8], a scapito
delle realtà geopolitiche. L'indebolimento statale, in favore di organizzazioni
internazionali e del potere finanziario e corporativo rappresenta, secondo alcuni
studiosi, un indebolimento strutturale, in cui la debolezza della forza-lavoro e del
welfare rappresentano gli esempi più tangibili. La crescita del potere delle corporazioni
e delle multinazionali ha seguito un processo di maturazione che, a partire dall'inizio del
XX secolo è arrivato alla sua forma più completa, in relazione ai limiti strutturali delle
relazioni di valore tra uomo e ambiente. La potenza di tali soggetti era già stata descritta
nelle riflessioni di Gramsci, secondo cui:
ormai le corporazioni esistono, esse creano le condizioni in cui le innovazioni industriali
possono essere introdotte su larga scala, perché gli operai né possono opporsi a ciò, né
possono lottare per essere essi stessi i portatori di questo rivolgimento. [...].
L'americanizzazione richiede un ambiente dato, una data conformazione sociale e un certo
tipo di Stato [Gramsci, 2001. p. 125].
Da allora, la crescita del potere lobbistico non ha subito interruzioni, interessando
tutti gli aspetti produttivi, in particolar modo il contesto alimentare. L'analisi sistemica
del capitalismo e delle egemonie è in questo senso fondamentale per lo studio della
produzione alimentare e per gli effetti sul territorio e sulle popolazioni interessate; il
profitto derivante dal cibo è sempre stato centrale per le potenze egemoniche e per le
imprese corporative attuali, anche se il filo che li unisce è stato troppo spesso dato per
scontato o al contrario messo in secondo piano. Stabilire i connotati della prossima
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egemonia, sulle ceneri di quella di Washington, è ancora presto e non rappresenta
l'oggetto di questo lavoro, tuttavia è bene comprendere che tali meccanismi hanno
effetti, e sono in larga determinati, anche dallo sviluppo e dalla produzione alimentare.
Quel che preme sottolineare infatti, è che tali espansioni che storicamente si sono
succedute hanno avuto, e hanno tutt'ora, ripercussioni sulla società, sull'ambiente, sul
cambiamento climatico, oltre che a livello finanziario e politico; tracciando un filo
diretto dalla coltivazione di zucchero del XVI secolo, all'epoca attuale, il mantenimento
del controllo da un lato, e dell'accumulazione di capitale dall'altro, hanno prodotto
disastri ambientali senza sosta, già descritti da Darwin e altri studiosi e biologi del XIX
[Foster, 2011]. Un esempio in questo senso è ciò che successe negli Stati Uniti durante
gli anni 30' del Novecento, in cui l'agricoltura intensiva e la cattiva gestione del terreno
portarono alle Dust Bowl, una tempesta di sabbia e polvere come effetto di tali pratiche:
nello specifico, l'erosione del terreno derivante da una agricoltura votata alla
massimizzazione dei raccolti, riempì "l'ara di piccole particelle di polvere che
successivamente bruciarono le provviste, le costruzioni e persino i fili spinati"
[Bumhardt, 2003, p.1], rendendo inospitali quei territori e costringendo le popolazioni a
un vero e proprio esodo verso, soprattutto, la vicina California. Tale dinamica
rappresenta un punto nodale nel sistema capitalistico, osservabile anche nell'attuale
ascesa economico-industriale cinese: l'inquinamento determinato dall'incessante
produzione industriale - sorretto da un'enorme quantità di forza-lavoro - ha raggiunto
livelli drammatici, specialmente nelle grandi città, dove la concentrazione di
microparticelle nell'aria supera di 40 volte il limite di sicurezza stabilito
dall'Organizzazione Mondiale della Sanità; negli studi condotti, circa il 90% delle città
cinesi risulta inquinato oltre il limite, con ritorsioni anche sugli impianti idrici, con due
terzi dei fiumi fortemente inquinati e circa 320 milioni di persone senza accesso
all'acqua pulita [La Repubblica, 2014]. In questo scenario, anche l'agricoltura è a rischio
per il diffuso inquinamento, con una possibile perdita del 40% dei terreni coltivabili.
Seppur con cifre differenti, è bene considerare che il trend della produzione
agroalimentare globale sta seguendo tale direzione.
In termini di accesso al cibo, a livello globale, l'aumento di terreni incoltivabili e
desertificati produce un aumento dei prezzi dei principali prodotti alimentari, in primis i
derivati del grano, riso e mais [McMichael, 2009b e Moore, 2014] che aprono un
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ventaglio di conseguenze sociali come la nascita di conflitti legati al cibo - ad esempio
in Uzbekistan, Marocco, Guinea, Mauritania, Senegal, Indonesia, Zimbabwe, Burkina
Faso, Cameroon, Yemen, Giordania, Arabia Saudita, Egitto, Messico, Argentina,
[McMichael 2009b] - abbandono progressivo delle campagne, con il conseguente
insediamento di imprese agroindustriali multinazionali, progressiva popolazione di
grandi periferie cittadine, germinazione di epidemie legate al cibo e ai metodi di
produzione - basti pensare alla "mucca pazza" o "polli alla diossina". Il settore
alimentare, sin dalle origini delle monocolture del XVI secolo è sempre stato al centro
delle attività legate all'accumulazione di capitale, in quanto rappresenta una parte
ineliminabile della quotidianità umana e pertanto altamente redditizia. L'ascesa al potere
di alcune potenze, fu infatti garantita anche dal profitto del commercio alimentare e
delle risorse primarie; a partire dal secondo Novecento l'organizzazione capitalista
attorno al cibo ha subito un'evoluzione, scostandosi sempre di più dal potere nazionale;
la perdita d'influenza da parte degli stati in un mercato economico-finanziario ha
permesso la proliferazione di multinazionali anche, e soprattutto, nel settore primario,
divenendo il gruppo dirigente - per dirla con le parole di Gramsci - dominante. Il legame
che unisce cibo e capitale è stato ampiamente analizzato, in relazione all'aumento dei
prezzi, alla scarsa disponibilità, ai disastri ecologici, alla perdita di sovranità alimentare;
sin dall'egemonia britannica si può pertanto considerare la nascente catena di
distribuzione alimentare come facente parte di un Regime alimentare, in cui convergono
diversi fattori legati a produzione, accumulazione, distribuzione, consumo, mercati,
trasporto, ecc.., posto sotto il controllo della potenza egemone.
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2 Cibo e capitale
1 Cibo come risorsa: economica o biologica?
"Il capitalismo è impensabile senza la complicità della società" [Braudel, 1981, p.76]
che lo compone: in riferimento al cibo, il capitale alimenta tutte le fasi di lavorazione,
dalla linea produttiva, a quella del trasporto e della distribuzione, al consumo e al
reinvestimento, sin dalle origini della sua espansione [McMichael 2009; Moore, 2014].
Lo stretto legame che unisce la produzione alimentare al sistema capitalista è
ineliminabile nelle relazioni di valore del rapporto uomo-mondo: storicamente, come si
è visto, l'espansione egemonica è coincisa infatti con l'aumento dei terreni coltivati e dei
raccolti, sfruttati dalle potenze per alimentare il meccanismo di espansione e
mantenimento del potere. Anche l'evoluzione tecnica e la disponibilità di materiale
tecnologico rappresentano due parametri di primaria importanza per l'espansione
economica, politica e agricola. Seguendo le parole di Braudel: "le grandi concentrazioni
economiche richiedono concentrazioni di mezzi tecnici e sviluppo della tecnologia: così
è stato per l'arsenale di Venezia nel XV secolo, per l'Olanda nel XVII, per l'Inghilterra
del XVIII secolo. [...] Da sempre, tutte le tecniche, tutti gli elementi della scienza,
vengono scambiati, viaggiano attraverso il mondo, seguendo un movimento di
diffusione incessante" [Braudel, 1981, p.34]. Tecnologie, risorse alimentari, energetiche
e forza lavoro: sono queste le pulsioni espansive del sistema capitalista, che
manifestano il livello di vita di una determinata nazione o regione. Risulta pertanto
ovvio che le fasi iniziali del capitalismo, e quelle successive, siano incentrate in buona
parte sul cibo, sulla sua produzione e distribuzione [Friedman, 2009].
Lo sviluppo del colonialismo ha amplificato i rapporti di forza nel contesto
alimentare delle nazioni egemoni, producendo una serie di squilibri - differenti ma
convergenti - nel lavoro, nella stabilità sociale, nell'accesso al cibo e nella dieta
alimentare, tanto delle periferie, quanto dei centri del sistema-mondo. Durante il corso
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storico, l'espansione delle frontiere introdusse nei mercati europei (in primis tra i gruppi
dirigenti) prodotti esotici - in seguito diventati tradizionali - come lo zucchero, il caffè e
il cotone che garantirono ampi profitti agli investitori. In questo scenario, la produzione
alimentare, come ricorda Wallerstein, rappresenta uno dei cardini dell'espansione
capitalista, dimostrando il fitto legame che corre tra il denaro e la risorsa: la possibilità
di produrre alimenti a basso costo - in particolar modo la produzione cerealicola - per
popolazioni sempre più numerose rappresenta una voce di guadagno che ha sempre
riguardato l'industria alimentare, ma anche uno dei limiti attuali che minacciano la
sopravvivenza stessa di tale meccanismo [Moore, 2014].
La coltivazione dei cereali ha sempre occupato un posto centrale nelle attività umane
e nelle diete alimentari: grano, riso, mais - ed altri cereali, ma in maniera decisamente
minore - hanno infatti rappresentato, durante il corso della storia, la principale fonte di
cibo in tutto il mondo, tanto da esser considerate piante di civiltà, "che hanno
organizzato la vita materiale e talvolta psichica degli uomini, a grande profondità, fino a
diventare strutture quasi irreversibili" [Braudel, 1982, I, p. 83]. Fin dall'antichità questi
cereali sono stati fondamentali per lo sviluppo delle civiltà che si sono succedute: la loro
abbondanza o scarsità poteva generare commerci, espansioni, guerre o epidemie, a
seconda delle condizioni. Con lo sviluppo dei centri urbani del XIV secolo, la principale
fonte di nutrimento era data dai raccolti delle vicine campagne, ma con l'espansione dei
commerci internazionali del XVI secolo, l'aumento della popolazione e l'aumento della
richiesta di grano, portò il Nord europeo a diventare il principale esportatore di grano in
Europa [Braudel, 1982]. Il grano del Baltico e il suo commercio, per esempio, furono
fondamentali per l'egemonia olandese del XVII secolo, così come i prodotti delle
colonie dell'Impero Britannico per la futura egemonia inglese [Arrighi, 1999]. La
nascente relazione tra centri ricchi e bisognosi di cibo e periferie esportatrici, accelerata
dal capitalismo seicentesco - descritta nel capitolo precedente - portò gli stati europei a
trovare nel Nord e nell'Est europeo "i paesi mal popolati e poco sviluppati, capaci di
fornire [loro] il grano che difetta" [Braudel, 1981, I, p.101]. In questo senso, il
principale esempio fu offerto dalle campagne polacche che esportavano la maggior
parte del raccolto, con quella restante destinata ai sovrani:
Se si pensa alla grande quantità di grano che la Polonia esporta annualmente si potrà
pensare che esso sia uno dei paesi più fertili d'Europa; ma chi la conosce, giudicherà ben
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altrimenti, poiché se anche si trovano regioni fertili e ben coltivate, esistono altre regioni
più fertili e meglio coltivate che, ciò nonostante, non esportano grano. La verità è che i
nobili sono in questo paese i soli proprietari e che i contadini sono loro schiavi, e quelli, per
mantenersi, confiscano a proprio vantaggio sudore e prodotti di costoro, che formano
almeno i sette ottavi della popolazione e sono ridotti a nutrirsi di pane d'orzo e d'avena.
Mentre gli altri popoli d'Europa consumano la maggior parte del loro grano, i polacchi
trattengono una parte così piccola del loro frumento o della loro segale, che è possibile
affermare che essi non li coltivano se non per lo straniero [Braudel, 1982, I, pp. 100-101].
Risorsa alimentare ed economica quindi: la produzione di cibo, a partire dal XVI
secolo, subisce un'espansione oltre i confini nazionali senza precedenti, attraverso le
esportazioni e la rete commerciale che toccano aree del pianeta sempre più vaste,
dall'Asia alle Americhe. Il grano non è più quello locale, insufficiente a sfamare la
popolazione, ma quello prelevato da altre zone principalmente europee, a prezzi
agevolati e alcune volte inferiori a quelli interni [Braudel, 1982]. Esportazioni e prezzi
bassi sono le caratteristiche dei nascenti mercati internazionali che esplicitano in questo
modo alcune delle controindicazioni del sistema, soprattutto nelle zone 'sfruttabili' da
parte delle potenze europee. Come ricorda Braudel infatti:
In conclusione: miseria dei salari urbani; miseria delle popolazioni, dove i salari in
natura hanno conosciuto all'incirca gli stessi ritmi. Così la regola, per i poveri, è molto
chiara: sono costretti a ricorrere ai cereali secondari, 'ai prodotti meno cari, ma pur
capaci di fornire in qualche modo un numero sufficiente di calorie abbandonando gli
alimenti ricchi di proteine per consumare un cibo basato su prodotti ricchi di fecola
[Braudel, 1982, I, p. 110]
Si viene così a delineare per il cibo ciò che avviene parallelamente (e in generale) per
il potere geopolitico: gli interessi, la disponibilità e la richiesta scavalcano i confini
nazionali, collegando sempre più paesi all'interno di una grande rete politica,
economica, commerciale e alimentare, nonché culturale [Friedman, 2009; McMichael,
2009, 2009b].
53
2 Regimi alimentari: il legame tra cibo e capitale
Una chiave di lettura dei rapporti tra cibo e capitale è data dall'analisi dei regimi
alimentari che, a partire dal XIX secolo - hanno interessato la produzione e la dieta
alimentare di aree sempre più vaste.
Presentata durante il Convegno Internazionale di Sociologia Ruralis del 1989 da
Harriet Friedmann e Philip McMichael, la teoria dei regimi alimentari esamina i legami
internazionali di produzione e consumo alimentare. Questo approccio parte dalla teoria
del sistema mondo proposta da Wallerstein [McMichael, 2000], dall'analisi sociale
marxista-gramsciana e dalla politica economica di Polanyi [Smith, Lawrence and
Richard, 2010].
Il presente scenario risulta molto articolato, in relazione ai soggetti coinvolti: stati,
industrie, multinazionali, movimenti sociali, consumatori e scienziati sono parte
integrante della definizione dei regimi alimentari proposta [Friedman, 2009].
L'analisi del legame tra cibo e capitale, attraverso il concetto di regime alimentare,
permette in questo senso di cogliere le relazioni di classe, geografiche e di potere
interstatale che influenzano la produzione, la distribuzione e il consumo alimentare
[Friedman, 1993; 2009]. Esso fa riferimento all'andamento storico del capitalismo,
interessato da un movimento ciclico di espansione, stagnazione, nuova espansione di
circa 25-30 anni [Friedman, 2009; Hobsbawm, 1997; Wolfson, 2003]. L'andamento dei
prezzi, degli investimenti, o in generale del capitale, logicamente non è influenzato da, e
non influenza unicamente il cibo: accanto ad esso infatti vi sono numerose variabili che
intercorrono costantemente.
Il cibo, assieme alla forza-lavoro, le materie prime e le risorse energetiche
rappresentano i quattro elementi fondamentali di spinta del capitalismo: in altri termini,
la fruizione di essi a costi ristretti rappresenta un punto cruciale dell'accumulazione di
capitale [Moore, 2010]. In questo senso il concetto di regime alimentare è fondamentale
per la comprensione di tale legame: tra le varie priorità, poter disporre di cibo
economico per grandi masse produttive è da sempre alla base della politica interna e dei
sistemi inter-nazionali [Bursh ad Lawrence 2009; Friedman, 2009; McMichael, 2009;
2009b; Moore, 2010], nonchè di quello multinazionale attuale [Bursh ad Lawrence
2009; Friedman, 2009; McMichael, 2009; 2009b; Moore, 2010].
54
Il concetto di regime alimentare pertanto ha come obiettivo la storicizzazione del
sistema alimentare mondiale [Friedman and McMichael, 1989; McMichael, 2009b], in
relazione all'accumulazione di capitale lungo le dimensioni spazio-tempo [McMichael,
2009b]. Lo studio dei regimi alimentari rappresenta la relazione tra l'evoluzione
geopolitica, lo sviluppo sociale, i processi culturali ed ecologici, durante il sistema
capitalista [Pouncy, 2012]. A fornire questo metodo di studio, focalizzato sulle
reciproche relazioni tra agricoltura, politica, cibo, guerre, spreco alimentare fu Harriet
Friedman [1987], che assieme a McMichael iniziò ad analizzare i collegamenti tra le
relazioni internazionali di produzione alimentare e l'accumulazione di capitale:
Regime significa regolamentazione: esistono 'regole' che gli analisti possono dedurre
attraverso il consistente comportamento degli attori rilevanti: stati, imprese, corporazioni,
movimenti sociali, consumatori, scienziati. Le regole in questo senso sono difficili da
fissare, ma il tentativo è pregevole. Nell'analisi dei regimi alimentari queste regole
relazionano sia la regolamentazione statale, a volte indiretta, sia l'egemonia [Friedman,
2009].
Il cibo pertanto è elemento assolutamente centrale per le relazioni globali di valore,
così come la forza-lavoro e le risorse energetiche; secondo Araghi, il regime alimentare
può definirsi come "regime politico delle relazioni globali di valore [Araghi, 2003]: la
crisi alimentare - parallela a quella finanziaria, l'aumento dei prezzi, l'accumulazione di
capitale da parte di grandi realtà mondiali, la transizione alimentare e la generale
convergenza verso diete sempre più 'mondiali' sono tutti elementi che appartengono al
sistema ecologia-mondo [McMichael, 2009b; Wallerstein 1976].
La teoria del regime alimentare tuttavia non si limita unicamente al cibo: come si è
visto essa sottende alla crescita del capitale, alla crescita del potere delle multinazionali,
in primis dei supermercati [Smith, Lawrence and Richard, 2010; Reardon et all, 2003],
alla specializzazione delle industrie alimentari, alla richiesta di aumento di sicurezza
alimentare, alla nascita di guerre per l'accesso al cibo. Il regime alimentare pertanto non
è limitato al cibo, bensì riguarda le modalità attraverso cui il cibo è:
Intrinseco alle relazioni di valore del capitale globale, nella misura in cui esso è centrale
per la riproduzione del lavoro subordinato, potendo così rappresentare una proficua
55
industria. Il focus rimane sui movimenti di capitale, piuttosto che sul cibo in senso stretto,
che incarna le relazioni di capitale [McMichael, 2008, p. 3].
Al pari di energia, lavoro e materie prime, il cibo funge da impulso all'espansione
degli investimenti e dell'accumulazione di capitale. Come detto, la nascita di una
visione della natura come di risorsa sfruttabile ed illimitata rappresenta una delle
contraddizioni in seno al capitalismo che, specialmente in epoca attuale, deve fare i
conti con i crescenti disastri ecologici [Foster 2013]; secondo alcuni, la forma stessa di
tale architettura rappresenta un sistema ecologico [Moore, 2014], in quanto parte delle
sue espansioni è dettata dalla disponibilità di questi quattro elementi fondamentali
[Arrighi, 1999; Moore, 2014]. In questo senso, gli scossoni ecologici e ambientali
apportati dal capitalismo, non devono essere considerati come parte del processo di
'antropizzazione' (Anthropocene), ma bensì come risultato del lavoro di
'capitalizzazione' (Capitalocene), che a partire dal Lungo Secolo si è intensificato ed
espanso, come modo di organizzare la natura e le risorse [Moore, 2014, 2014b]. Nello
scenario descritto, l'illusione di una possibilità di utilizzo pressoché illimitata tuttavia, si
scontra con il reale metabolismo naturale, che al contrario necessita di tempo per
rigenerarsi [Foster, 2013; Moore, 2011]; il progressivo esaurimento delle risorse - tra
cui i combustibili fossili - produce una lievitazione dei prezzi, escludendo così grandi
fette di popolazione dall'accesso ad esse. L'equazione è semplice: lo sfruttamento
incessante produce un parziale esaurimento; nel contesto alimentare se vengono a
mancare le terre coltivabili i raccolti saranno minori; se a ciò si aggiungono delle
variabili socioeconomiche, come la crescita dei prezzi dei combustibili, allora anche i
prodotti alimentari risulteranno rincarati e per un'utenza ristretta, producendo
successivamente disordini sociali, guerre, malattie, con dinamiche molto simili nelle
zone interessate.
La crisi alimentare si viene così a sovrapporre con la crisi finanziaria, in una
relazione già osservata da Marx, in cui la fertilità del terreno agirebbe 'come crescita del
capitale fisso' [Moore, 2011. p. 26] e, viceversa. Storicamente infatti, la crescita di
ciascuno dei quattro elementi descritti ha rappresentato, oltre alla crescita di capitale,
anche a una maggiore disponibilità di lavoro e di cibo, a prezzi contenuti: l'incessante
sfruttamento ed esaurimento tuttavia, accelerati dal neoliberismo e dalla
56
globalizzazione, hanno prodotto un'ondata di crisi dei prezzi e disponibilità [Moore,
2014; McMichael, 2009; 2009b].
A una crisi sistemica, in passato, seguivano una nuova ondata espansiva e rivoluzioni
ecologiche, che garantivano una rigenerazione dei profitti; quest'opportunità era
assicurata, in primis, appunto dall'appropriazione dei quattro elementi citati, la base del
'surplus ecologico-mondiale' [Moore, 2010]; "quando il surplus ecologico è
particolarmente elevato, come in seguito alla seconda guerra mondiale, rivoluzioni
produttive prendono piede, così come si sviluppano movimenti espansivi.
[Parallelamente] all'aumento di capitale e allo sviluppo socio-tecnologico" [Moore,
2010].
L'espansione riprende avvio, nuove aree vengono incorporate e nuove risorse
accumulate; riprende corpo la produzione, così come il lavoro e si osserva un
abbassamento dei prezzi alimentari, oltre a molteplici e differenti conseguenze sociali.
La crescita della popolazione aumenta la forza-lavoro disponibile, mantenuta da un'alta
produttività, assorbita quasi per intero. Il raggiungimento di nuovi limiti strutturali
tuttavia, ripropone le medesime condizioni di stagnazione ed aumento dei prezzi: questo
perché il sistema capitalista - e il neoliberismo attuale non fa alcuna eccezione - è un
sistema ciclico, in cui a un trascorso positivo, segue un periodo di decrescita strutturale.
Essendo parte integrante del sistema, anche il cibo segue il medesimo andamento,
scandito da periodi di crescita in termini di produzione, accesso e consumo, a periodi di
stagnazione, in un andamento oscillatorio - o ciclico - che si è osservato essere
compreso tra i 20 e i 25 anni [Friedman, 2009; Wolfson, 2003]. L'andamento ciclico
del capitalismo fu osservato, come spiega Hobsbawm, fin dagli anni '20, quando:
Alcuni osservatori furono colpiti da uno schema ricorrente nell'economia mondiale nel
corso dei secoli, per il quale a periodi di circa 20-30 anni di espansione e prosperità
economica si alternano periodi di difficoltà economica della stessa durata. Questi periodi
sono meglio noti con il nome di 'onde di Kondrat'ev'. [...] Ciascun ciclo di Kondrat'ev nel
passato aveva costituito non solo un periodo in senso strettamente economico ma, com'è
naturale, aveva anche caratteristiche politiche che l'avevano distinto abbastanza
chiaramente dai cicli precedenti e da quelli successivi in termini di politica sia
internazionale che interna dei vari paesi e regioni del globo [Hobsbawm, 1997, p. 43].
57
Anche i regimi alimentari sono interessati da tali oscillazioni, essendo parte
integrante di un più ampio meccanismo mondiale [Friedman, 2009; McMichael, 2009;
2009b; Moore, 2014]; inoltre, facendo riferimento alla dimensione storica,
rappresentano un punto di vista alternativo con cui analizzare le egemonie geopolitiche
che si sono succedute. Il concetto di regime alimentare permette di osservare la linea
produttiva, distributiva e di consumo, in tutti i suoi aspetti, offrendo così una chiave di
lettura per comprendere la "differenza strutturale tra le catastrofi ambientali dell'agro-
industrializzazione e le alternative, come le pratiche agro-ecologiche, che si sta
manifestando attualmente con i limiti storici del petrolio, del terreno, con il
cambiamento climatico e con la malnutrizione" [McMichael, 2009b, p. 4]. Attualmente,
le alternative agro-ecologiche sono in rapida ascesa, sono diffuse dovunque nel mondo e
costituiscono valide alternative al regime alimentare; tuttavia, le ristrette dimensioni, il
poco spazio occupato nella sfera pubblica ed il carattere essenzialmente locale
costituiscono delle barriere all'espansione di tali alternative che, allo stato attuale,
rappresentano più delle nicchie socio-tecniche e culturali [Geels and Shot 2007; Geels,
2011, 2014; Smith, 2007].
3 Regime britannico e regime statunitense
La produzione alimentare su scala mondiale rappresenta una delle modalità di
mantenimento, o espansione, dell'egemonia geopolitica [Friedman, 2009; Pouncy,
2012]; con la massiccia espansione dei commerci, delle città, della forza-lavoro operaia
delle prime industrie e sotto la propulsione egemonica britannica, l'alimentazione
mondiale iniziò a subire modifiche consistenti per quanto riguarda l'accessibilità, il
consumo, i prezzi, la produzione e la varietà [Friedman, 2009; McMichael, 2009,
2009b]. Se fino al XVIII secolo (e in qualche caso fino al XIX secolo) i cereali
rappresentavano l'alimento principale - superiore al 60% del totale apporto calorico
europeo, mediamente di 2000 calorie [Braudel, 1982] - con l'evoluzione dei sistemi di
produzione e trasporto l'origine di tali cereali fu sempre più de-localizzata. I prezzi
58
iniziarono a essere sempre più interessati da fluttuazioni internazionali, collegando tra di
loro sorti agricole, politiche ed economiche di paesi tra loro distanti, influenzando in
maniera decisa anche le diete alimentai delle popolazioni interessate.
L'analisi dei regimi alimentari parte dalle dimensioni storiche, spaziali e politiche
che, a partire dal XIX secolo hanno propiziato la costruzione di un sistema alimentare
internazionale [McMichael, 2009b; 2013]: in questo senso il primo regime alimentare
(1870-1930) combinò le importazioni europee dei prodotti delle colonie tropicali con
l'importazione dei prodotti fondamentali come grano e bestiame dei coloni, favorendo in
questo modo la nascente industria europea e definendo la Gran Bretagna come 'officina
del mondo' [McMichael, 2009b; 2013]. Con l'introduzione e imposizione delle
monocolture nelle colonie occupate, l'Ottocento britannico acquisì dall'esterno -
outsourcing - i prodotti alimentari di base, spostando verso le colonie la produzione
agro-industriale. Questo scenario, con la nascita di settori agricoli nazionali all'interno
dell'apparato commerciale e coloniale britannico - in particolar modo Usa, Canada e
Australia, modellò lo sviluppo del XX secolo, basato appunto sulla nascente dinamica
tra agricolture nazionali e apparati industriali [Friedman, 2009; McMichael, 2009b].
Uno dei principali effetti di quest'organizzazione produttiva fu la crescita produttiva e
dei mercati, attraverso il lavoro di massa che abbassò il costo del lavoro e della
produzione agricola, in particolare degli alimenti più comuni e diffusi, come grano,
mais, carne, caffè, zucchero e così via [McMichael, 2009]. Ciò fu garantito dalla
conversione delle colonie tropicali in paesi esportatori, all'interno dell'organizzazione
imperiale [McMichael, 2009b], espandendo le dimensioni di un mercato sempre più
comune.
La gestione del flusso mondiale di cibo per ciascun regime, come avvenne per Regno
Unito e Stati Uniti, è fondamentale per l'espansione ed il mantenimento dell'egemonia
geopolitica e culturale mondiale, descritta nel capitolo precedente. Il doppio flusso
alimentare gestito dall'Impero britannico - prodotti esotici dalle colonie tropicali,
bestiame e commodity come grano, riso, mais, dagli stati dell'impero - costituì infatti
una parte consistente per il mantenimento dell'egemonia: la gestione di tali flussi
all'interno di un 'libero mercato imperialista' permise inoltre di veicolare gli investimenti
e i flussi di capitale dei paesi europei, grazie anche al parallelo dominio della sterlina
nelle transazioni internazionali [McMichael, 1984; Pouncy, 2012].
59
Il secondo regime alimentare (1950-1970) di origine statunitense indirizzò parte del
surplus produttivo verso le aree formalmente decolonizzate, ma orbitanti attorno alla
politica statunitense; queste zone, come l'America meridionale, facevano infatti parte di
un "impero informale di stati post-coloniali nei perimetri strategici della Guerra Fredda"
[McMichael, 2009b, p. 4]. Gli aiuti alimentari che nel trentennio post bellico gli Stati
Uniti fornirono alle periferie mondiali - in riferimento alla 'periferia' di Wallerstein -
vanno pertanto riletti alla luce di un'espansione commerciale, capitale, geopolitica e
alimentare degli stessi Stati Uniti [Friedman, 2009; McMichael, 2009b]. La fedeltà,
acquisita attraverso la fornitura alimentare, dei paesi del Terzo mondo o in via di
sviluppo, rappresentava un notevole scudo contro la minaccia comunista, nonché la
possibilità di aumentare i profitti in relazione alla crescita e allo sviluppo industriale di
queste zone, finanziata in parte dalle autorità americane, con l'aiuto dei governi - molto
spesso totalitari e appoggiati dagli Usa - locali [McMichael, 2009b; Perkins 2012;
2013]. I paesi in via di sviluppo, come l'India, adottarono tecniche e tecnologie
agroindustriali della Rivoluzione Verde, assieme a nuove riforme agrarie che dovunque
accelerarono i processi di de-contadinizzazione e appropriazione dei terreni da parte di
grandi gruppi agro-industriali [Bursh and Lawrence 2009; Friedman, 2009; McMichael,
2009; 2009b; Pouncy, 2012; Shiva 2010]. 'Il progetto di sviluppo' degli anni
immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale e di matrice statunitense,
consisteva appunto nell'inglobare gli stati post-coloniali nella propria area d'influenza,
in maniera tale da espandere i movimenti di capitale e di produzione alimentare; la
rincorsa al business agroalimentare portò alla costituzione di filiere nazionali collegate
tra loro, in una catena alimentare mondiale sempre più ampia e fitta [McMichael,
2009b; Perkins 2012, 2013].
Il secondo regime alimentare era pertanto più implicito di quello britannico
precedente: gli Stati Uniti infatti, formalmente non gestivano imponenti flussi alimentari
come il Regno Unito. La circolazione dei prodotti agroalimentari era infatti considerata
come un aiuto, non come commercio [Friedman, 1982]. Attraverso il sistema degli
'aiuti' si celava pertanto un meccanismo di agrobusiness internazionale che facilitò la
successiva globalizzazione, nonché la perdita di sovranità alimentare, politica,
economica delle zone interessate da tali aiuti [McMichael, 2009].
60
Con la fine del secondo conflitto mondiale, degli apparati coloniali e la nascita di
organizzazioni interstatali con scopi prettamente economici e commerciali - come la
Banca Mondiale, FMI, GATT, OCSE, OMC, OMS - i principali attori mondiali, gli
Stati Uniti, furono in grado di estendere il proprio raggio d'influenza: la parallela
delocalizzazione della produzione industriale, lo sviluppo delle infrastrutture [Perkins,
2013], dei mezzi di trasporto, delle tecnologie impiegate spinsero il business agricolo
statunitense a concentrare la propria attenzione sulle principali derrate alimentari, come
mais, soia, grano, carne [McMichael, 2009]. Lo sviluppo degli accordi sulle tariffe e sul
commercio portò a una generale diffusione delle colture e dei materiali statunitensi:
attraverso la fornitura nei paesi del Terzo Mondo di materiale tecnico, di aiuti
alimentari, di investimenti economici, gli Stati Uniti - e le organizzazioni mondiali da
essi parzialmente controllate - esportarono in tutto il mondo il proprio modello
produttivo ed economico, contribuendo così al mantenimento della propria egemonia,
facilitata dalla conseguente stabilità dei prezzi alimentari [McMichael, 2009].
L'andamento ciclico intrinseco al sistema capitalista descritto da Hobsbawn [1997]
tuttavia, si vide evidente anche durante il secondo Novecento a 'Stelle e Strisce': a
partire dagli anni '70 infatti, il sistema fu scosso da una crisi economica ed energetica
che, a catena, produsse una serie di effetti negativi come l'aumento della
disoccupazione, dei prezzi, del costo della vita. In questo scenario, è facile osservare
come energia, cibo, forza-lavoro, materie prime siano elementi fondamentali per la vita
politica, economica, sociale e privata.
La liberalizzazione e l'apertura di nuovi mercati emergenti, del Terzo Mondo e
dell'ex Blocco Comunista fu una delle strade percorse dalle elite mondiali dirigenti per
risolvere l'impasse economico e politico prodottosi: in termini alimentari, il risultato fu
la nascita di un nuovo sistema produttivo, basato sempre meno sulla produzione e sul
capitale nazionale, e sempre più su quello finanziario, privato e multinazionale [Burch
and Lawrence, 2009; Friedman 2009; McMichael, 2009; 2009b]. Svincolato da legami
nazionali e votato unicamente all'incremento del capitale, il nuovo - e attuale - regime
alimentare si è distinto per una produzione affidata principalmente alle grandi
multinazionali, grandi catene produttive che, col tempo, hanno inglobato realtà locali e
indipendenti.
61
4 Neoliberismo e Regime alimentare multinazionale
La crisi degli anni '70 - dalla fine degli anni '60 ai primi anni '80 - scaturita in seguito
al florido periodo di crescita economica ed espansione finanziaria e commerciale del
ventennio precedente, portò alla luce un nuovo tipo di capitalismo, basato sulla crescita
del potere multinazionale, sull'apertura e sulla liberalizzazione dei mercati, sulla de-
regolamentazione finanziaria, sullo sfruttamento a livello planetario delle risorse: il
neoliberismo [Wolfson, 2003]. La nuova 'struttura sociale d'accumulazione' (Social
Structure of Accumulation) nata negli anni '70 permise nuovi e temporanei momenti
d'espansione, consolidandosi negli anni '80 ed entrando in crisi nei primi anni del XXI
secolo [Moore, 2010b; Wolfson, 2003].
Come si è visto, la continua espansione verso nuove frontiere costituisce uno dei
punti di forza del capitalismo, ma anche un limite costitutivo: al raggiungimento dei
limiti infatti seguivano nuove espansioni. Ciò si è verificato anche per le espansioni dei
regimi del secondo dopoguerra. Il raggiungimento dei limiti strutturali sia del pianeta
sia del fenomeno espansionistico iniziato nel lontano XV secolo fanno pensare a più che
una semplice crisi ecologica: resta infatti da chiarire se quell'attuale sia solo un "punto
critico del neoliberismo, o se l'esaurimento delle quattro risorse principali segnala anche
la fine del regime capitalista di una ecologia economica" [Araghi, 2010]. Come detto,
l'aumento della disponibilità di tali risorse, storicamente, coincideva con periodi di
espansione geopolitica e sviluppi tecnologici, in grado di stimolare e migliorare la
produttività, come le varie rivoluzioni agricole ed industriali che, dal XVIII secolo in
avanti, hanno interessato sempre più aree del pianeta. La situazione attuale però non
permette più movimenti analoghi e, di conseguenza il trend di accumulazione di capitale
sembra aver trovato luogo più nei mercati finanziari che non nei commerci di beni
[Moore, 2010b], realizzando la crescita del potere finanziario e multinazionale a
potenziale realtà egemonica, descritta nel capitolo precedente. Un sistema, in altre
parole, basato più sul capitale che sul lavoro, con la conseguente apertura della forbice
tra classi ricche e classi povere, queste ultime sempre più a ridosso della soglia di
sopravvivenza [Wolfson, 2003].
La strategia di liberalizzazione adottata, in seguito alla crisi degli anni '70, proiettò
così la produzione alimentare verso un nuovo modello, un terzo regime alimentare, di
62
carattere multinazionale e non più nazionale. La presa di potere dei mercati e della
finanza, in maniera ancor più profonda a partire dalla stipulazione del WTO nel 1995 -
in seguito ai trattati dell'Uruguay Round dal 1986 al 1994, con l'accordo di Marrakech -
e dalla caduta dell'Unione Sovietica, furono le scintille per uno sviluppo della
produzione agricola globale, con particolari attenzioni al Sud del Mondo [Friedman,
2009; McMichael, 2009, 2009b], uno dei principali soggetti interessati a questo
mutamento geopolitico, economico e produttivo.
La crescita di un 'regime alimentare multinazionale - ambientale' [Friedman, 2005] se
da un lato fu temporaneamente in grado di tamponare le falle del precedente regime,
dall'altro fu la causa di una serie di squilibri politici, economici, finanziari, alimentari e
biologici, con particolare attenzione al 'Sud del mondo'; in questo senso, il regime
alimentare va pertanto considerato come "un vettore della riproduzione sociale del
capitale su scala mondiale e come una lente focalizzata sul fatto sociale
dell'espropriazione" [McMichael, 2005, p. 294].
Attraverso le liberalizzazioni imposte dal Governo di Thatcher e Reagan, la
concentrazione del capitale per la produzione alimentare passò dalle mani degli stati agli
enti privati, internazionali, istituzionali, come banche, compagnie di assicurazione,
fondi d'investimento, 'case finanziarie' (Financial houses), fondi di copertura (hedge
funds), che comportarono evidenti conseguenze per le massi di lavoratori interessate
[Burch and Lawrence, 2009], in termini salariali, alimentari, sanitari.
Il caso britannico è in questo senso esemplare. La fine dell'impero coloniale coincise
con nuove possibilità d'investimento nel nascente mercato comunitario europeo,
accrescendo i guadagni delle masse di lavoratori in termini di salari e sussidi pubblici.
L'aumento dei salari e del benessere socio-economico interno, faceva tuttavia da
contraltare ai bassi profitti del capitale d'investimento; in una realtà, come quella del
secondo dopoguerra, caratterizzata da nuove, generalizzate e vivaci espansioni di
capitale, i bassi profitti del capitale britannico non sarebbero stati sufficienti a
fronteggiare la concorrenza. Per ridare slancio all'espansione capitalista, il governo
britannico adottò diverse strategie, alcune delle quali direttamente contro la classe
lavoratrice, come la limitazione dei sindacati, del Welfare State, dei servizi pubblici e la
privatizzazione delle industrie statali [Burch and Lawrence, 2009]. Questi elementi
rientravano nell'agenda programmatica del neoliberismo economico e del libero
63
mercato, avallato dal governo Thatcher - dal 1979 - che tra i vari effetti comportò una
de-regolazione del mercato e del capitale, producendo una successiva 'migrazione' del
capitale, al di fuori dello stato [Burch and Lawrence, 2009].
Gli Stati Uniti, durante la presidenza di Reagan, adottarono la medesima strategia
neoliberista: la crescita del potere finanziario e l'aumento della mobilità di capitale
verso aree più 'proficue' del pianeta furono le marce per il nuovo cambio di passo
dell'accumulazione di capitale [Krippner, 2005], in forte crisi durante gli anni '70, così
come la produzione di cibo [Friedman, 2009].
La transizione al neoliberismo e a un nuovo regime alimentare, hanno comportato un
predominio della finanza e un aumento dell'utilizzo di energie fossili in tutto il pianeta,
in seguito alla generale introduzione dell'industria all'interno del sistema agricolo, sulla
base del modello statunitense [Friedman, 2009; McMichael, 2009; 2009b]; in questo
scenario, lo sviluppo di un'agricoltura sempre più legata alle modalità industriali e
all'utilizzo del petrolio ha contribuito in maniera impressionante al progressivo
esaurimento della risorsa [Foster, 2009].
Nel quadro descritto, non vi è argomento più evidente della produzione alimentare, e
in generale dei regimi alimentari, rispetto alle contraddizioni insite nel sistema
capitalista plurisecolare [Moore, 2010b].
Il cibo sempre più come fonte di capitale quindi, in cui la massimizzazione dei
profitti va raggiunta, machiavellicamente con ogni mezzo possibile; attraverso
l'espansione di industrie de-localizzate, il capitale ha infatti avuto il sopravvento sulla
forza-loro, ottenendo da questo rafforzamento una parte consistente dei profitti. E' in
questo sviluppo degli scenari globali, della forza-lavoro ed anche dell'introduzione di
biotecnologie che si può osservare la "rivoluzione agricola" del XX secolo che, tuttavia
non ha risolto l'aumento dell'accesso alle risorse, al contrario sempre più privatizzate,
come nel caso delle fonti idriche [Shiva 2010].
Una rivoluzione, in questo senso, del tutto mancante [Moore, 2014], in termini di
risposta all'esaurimento delle risorse, al soddisfacimento del bisogno alimentare
mondiale. La Rivoluzione Verde infatti non ha saputo rispondere ai problemi di un
numero sempre più crescente di persone, così come l'utilizzo delle semenze
geneticamente modificate, celebrate nell'ultimo ventennio del XX secolo.
64
Le biotecnologie, come le coltivazioni Ogm, che a partire dagli anni '80 hanno
conosciuto una rapida espansione planetaria, non furono infatti concepite in virtù di un
aumento della produzione, di un abbassamento dei prezzi e di un'estensione dell'accesso
alimentare; esse furono introdotte nel mercato come rimedio a virus e agenti patogeni,
ma non risposero mai all'impoverimento del terreno - al contrario ulteriormente
accentuato [Benbrook 2009; Moore, 2014] - nè alla necessità di un aumento dei raccolti,
fondamentale per la crescente popolazione mondiale. La soia RoundUp Ready (RR)
progettata da Monsanto rappresenta l'esempio forse più famoso delle semenze
geneticamente modificate: nata con lo scopo di resistere al diserbante Round Up,
anch'esso di paternità Monsanto, questo tipo di soia dal 1996 ha invaso il mercato
agricolo, contribuendo all'87% della produzione mondiale di soia. Dagli anni '70, la
quantità globale di soia, inclusa quella geneticamente modificata, è passata da circa 43
milioni di tonnellate a circa 260 milioni di tonnellate del 2010 [Faostat, 2010]:
quest'aumento va considerato in relazione all'espansione della coltivazione di questo
legume su scala mondiale, circa quattro volte più estesa rispetto agli anni '70 [Masuda
and Goldsmith, 2009]. In questo senso, lo sviluppo di Cina e Brasile ha avuto un
notevole impatto sulla coltivazione della soia: dal 1990 al 2009 le esportazioni
brasiliane di soia sono infatti passate da 4 a 29 milioni di tonnellate [Weis, 2013],
mentre il paese asiatico è divenuto il principale importatore mondiale di soia
[McMichael, 2005].
Rilette sotto questa luce le cifre produttive assumono un altro sapore: alla base infatti
non c'è un aumento della produttività dei raccolti della soia, principalmente
geneticamente modificata, bensì una continua ricerca ed espansione verso nuovi territori
coltivabili. La soia Round Up Ready, fiore all'occhiello dell'industria biotecnologica è in
questo senso un semplice tentativo di limitare le malattie e assicurare costanti livelli
produttivi. La resistenza a malattie e alle tossine del diserbante Round Up sono pertanto
gli unici vantaggi di una coltura decisamente invasiva e impattante per i terreni
[Benbrook, 2009; Moore, 2014] e che non aumenta la produttività dei raccolti, come al
contrario è avvenuto nelle passate rivoluzioni agrarie; vantaggi che inoltre, col passare
del tempo, hanno finito con l'esaurirsi in quanto anche gli agenti patogeni, i batteri, i
microrganismi, le erbe infestanti hanno sviluppato forme di resistenza alle tossine
[Moore, 2014], finendo con l'intaccare ugualmente i raccolti. In questo senso, si è potuta
65
osservare, recentemente, la nascita di 'supererbe' (superweeds), in grado di resistere ai
diserbanti Round Up, avendo pesanti conseguenze su raccolti e prezzi. Nel 2013 lo
sviluppo di questa resistenza ha afflitto la produzione di circa 60 milioni di acri nei soli
Stati Uniti, producendo un dissesto ecologico alimentato da un ulteriore utilizzo di altri
pesticidi, nel tentativo di limitare il fenomeno [UCS, 2013]. A partire dalla creazione di
questo pesticida, le piante hanno iniziato a sviluppare forme di resistenza al glifosfato, il
principio attivo del Round Up, con il risultato che nel South-East, il 90% del cotone e
della soia è affetto da infestanti nuove e più resistenti [UCS, 2013]. Attualmente si
calcola che circa 24 specie di piante abbiano sviluppato forme di resistenza: in questi
termini, se il Round Up non fosse mai stato inventato, i contadini avrebbero evitato
l'utilizzo di circa 400 milioni di libbre di pesticidi [UCS, 2013].
La proliferazione delle monocolture, di per sé veicoli di erbe infestanti, unita
all'utilizzo di cereali geneticamente modificati ha lasciato come unica scelta l'utilizzo
massiccio di altri pesticidi: "L'aumento dell'uso di erbicidi sui nuovi cereali modificati
velocizzerà la resistenza delle piante [...] Questo è un cocktail pericoloso che, se
combinato con l'attuale sistema agricolo, è la ricetta per un disastro" [UCS, 2016].
Accanto alla proliferazione di nuove superpiante c'è stato uno sviluppo di
'superbruchi' (superbugs), anch'essi resistenti al glifosfato del Round Up di Monsanto. Il
colosso industriale ha ammesso che insetti comuni hanno sviluppato forme di resistenza
al prodotto [Laskawy, 2010], affermando che lo sviluppo di nuovi agenti biochimici
permetterà di mantenere questi fenomeni sotto controllo.
Per quanto riguarda la produzione alimentare a livello geografico, il nuovo ordine
neoliberista ha prodotto una macrodivisione mondiale tra il commercio al dettaglio nel
Nord e le grandi quantità di prodotti alimentari prodotte nel Sud [McMichael, 2009b].
A partire dal 1973 i paesi del Terzo Mondo sono divenuti dipendenti dal commercio
di energia e cibo a bassi costi, in modo da ripianare i costi degli apparati industriali,
favorendo così l'espansione delle grandi multinazionali e il processo di successiva
globalizzazione [Friedman, 2009]. In questo scenario, il ruolo giocato dal Fondo
Monetario Internazionale è stato quello di promuovere un sistema internazionale basato
sul libero scambio e non più in relazione alla centralità statale [Friedman, 2009]. La
promozione di un libero mercato - applaudito dall'Organizzazione Mondiale del
Commercio - ha così spostato, a partire dagli anni '80, la maggior parte della produzione
66
alimentare mondiale verso il Sud del Mondo, preservando di fatto i territori e le
popolazioni degli stati centrali [McMichael, 2009b].
Il nuovo impianto globale ha radicalmente modificato la produzione alimentare
globale: nei paesi in via di sviluppo o del Terzo Mondo - la maggior parte situata
geograficamente al di sotto dell'equatore - le coltivazioni locali hanno lasciato il posto a
enormi monocolture e allevamenti intensivi di bestiame, da esportare nei grandi mercati
mondiali. Nel Nord, l'espansione dei centri abitati, delle industrie e dei servizi ha
prodotto un generale abbandono dei terreni, alimentando così la domanda di cibo
prodotto altrove, specialmente nel Sud [McMichael, 2009]. La de-localizzazione dei
raccolti ha originato logicamente un allungamento della filiera produttiva alimentare,
aumentando il ruolo occupato dalle grandi catene di distribuzione e dei colossi
produttivi. Sono stati proprio questi fattori a mettere fuori gioco il regime alimentare
precedente, basato invece sul mantenimento dell'egemonia statunitense [Friedman,
2009; Le Heron, 1993; McMichael, 2009b]; l'agricoltura globalizzata può essere
considerata come il prodotto di una crisi agroalimentare, che accompagnò e fu collegata
alla più ampia crisi del capitalismo tra il 1970 e il 1990 [Le Heron, 1993].
Il risultato è stato una riorganizzazione della produzione agroalimentare globale,
sulla base di una Seconda Rivoluzione Verde, differente da quella precedente, per
almeno quattro aspetti fondamentali: dall'iniziativa pubblica a quella privata, dalla
produzione degli alimenti basilari a quella dei cibi più commercializzati (proteine
animali, frutta e verdura, cibi trasformati chimicamente), dall'introduzione delle
biotecnologie appena descritte e dai mercati locali a quello globale [McMichael,
2009b]. L'accelerazione alla globalizzazione degli anni '90, ha garantito una crescita
vertiginosa dei guadagni per multinazionali, fondi d'investimento e istituzioni bancarie,
provocando parallelamente una lenta ma inesorabile dipendenza dei territori e delle
popolazioni verso questi soggetti, e verso la domanda alimentare mondiale, da essi
gestita. Il 'progetto di globalizzazione'
rappresenta una visione emergente del mondo e delle sue risorse come globalmente
organizzate e gestite in un'economia di libero mercato/libera impresa ricercata dalle élite
politiche ed economiche [McMichael, 1996, p. 300].
67
Il regime alimentare multinazionale in questo senso passa attraverso la
privatizzazione dei terreni dei paesi del Sud ad opera appunto delle grandi industrie,
contemporaneamente a una diminuzione degli investimenti statali nel settore primario,
specialmente nei paesi meridionali [McMichael, 2009b; Shiva, 2010]. 'Accumulazione
per espropriazione' è appunto uno dei tratti distintivi del nuovo regime alimentare che, a
partire dagli anni '80, ha interessato sempre più aree del Sud del mondo, e non solo
[Araghi, 2003; McMichael, 2009; 2009b]. In questo senso si è prodotta una spasmodica
ricerca di terreni, in relazione al continuo esaurimento di quelli presenti - la scissione
metabolica, ampiamente descritta - e all'intrinseca ricerca del profitto appartenente al
capitalismo.
68
5 Il sud del mondo
Come si è potuto osservare, la continua ricerca di nuove terre costituisce un tratto
distintivo del capitalismo che ha fatto dell'espansione una delle sue forme di
rinnovamento, basti pensare al meccanismo del sistema coloniale e di quello imperiale.
L'innovazione portata dal terzo regime alimentare e dalla nuova acquisizione di territori
è data però dal predominio della finanza sulla politica, dal mercato globale sulla realtà
nazionale e locale: l'acquisizione di nuovi territori non è infatti statale, ma ad opera di
enti privati, stimolati unicamente dall'accumulazione di capitale [McMichael, 2011]. La
ricerca di aree sfruttabili da tali soggetti ha condotto inevitabilmente a quei territori
politicamente mal governati, arretrati, economicamente instabili, principalmente nel
sud.
La nascita di grandi centri altamente produttivi, geograficamente situati nel Sud del
mondo [McMichael 2009, 2009b; Friedman 2009] ha prodotto una macrodivisione di
accesso al cibo globale: un Nord, de-contadinizzato, deteriorato ecologicamente in cui si
osserva un eccesso dei consumi, prevalentemente delle grandi catene di distribuzione e
un Sud afflitto da sottoconsumo [McMichael 2009], nonostante l'elevata percentuale di
produzione agricola. Basicamente, il motivo fondamentale di tale divisione geografica
tra nord e sud - e in quella parallela tra produzione e consumo - risiede nella ricerca
dell'ottimizzazione dei profitti delle grandi corporazioni, imprese private, con
partecipazioni statali, ecc.. La risposta all'aumento della domanda di cibo mondiale è
stata, in questo senso, un'estensione delle grandi monocolture e dei grandi allevamenti,
in un Sud sempre più legato ai consumi e alla domanda delle grandi città; l'ingresso nei
mercati finanziari di risorse alimentari - come grano, soia, olio di palma, mais - ha
portato al vertiginoso boom di tali coltivazioni, specialmente nei territori decolonizzati,
ma anche negli Stati Uniti, Messico, Canada (paesi firmatari del Nafta), in Argentina,
Brasile, Cina, Indonesia, ecc...
La crescita degli interessi di grandi investitori istituzionali e privati nei confronti di
paesi poveri rappresenta la scelta del capitale nei confronti del cibo: l'aumento di grandi
centri urbani nel Nord, il rafforzamento della classe dei lavoratori, l'esaurimento di
terreni coltivabili sono pertanto coincisi, a livello globale, a una vorace espansione
finanziaria e produttiva verso l'America latina, il continente africano, il Sudest Asiatico.
69
Un Sud del mondo come 'fattoria mondiale' [Moore, 2009], in cui viene prodotta la
maggior parte dei prodotti consumabili nel Nord.
La rilocazione del capitale durante il neoliberismo, verso le terre economiche del Sud
del mondo è stata quindi stimolata e incentivata, sin dagli anni '80, dall'apertura di un
mercato globale, promosso sia dalle istituzioni, sia dalle imprese multinazionali
[McMichael 2009]. La liberalizzazione dei mercati incoraggiata dalla Banca Mondiale,
dal Gatt prima e dal WTO in seguito e dall'Agreement on Agricultural, se da un lato ha
permesso - temporaneamente - la ripresa delle economie e della finanza globale,
dall'altro ha provocato, nel lungo periodo, il collasso di diverse realtà del Sud del
mondo. Tale accordo stabilisce il comune impegno di tutti i paesi firmatari ad
aumentare l'accesso dall'esterno al proprio mercato e a ridurre i sostegni interni e i
sussidi all'esportazione; le riduzioni sono stabilite per ogni specifico prodotto prendendo
come riferimento il periodo 1986-88 per i sostegni interni; per i sussidi all'esportazione
il periodo 1986-1990 [Meregalli 2003]. I sussidi interni sono forme di sostegno erogate
dai governi a favore dei propri prodotti agricoli; con l'adozione dell'Aoa, vennero
espressi in termini di misura aggregata di sostegno (MAS)3, identificati dall'accordo in
una conseguente riduzione del 20% nei paesi sviluppati nel giro di cinque anni, e del
13,3% in dieci anni in quelli restanti. In termini di mercato, la riduzione delle barriere
doganali - colpevoli di rincarare i prezzi delle derrate alimentari - ha garantito valori
minimi di accesso ai principali prodotti agricoli, fissati in quantità prestabilite e con
livelli tariffari più bassi rispetto al passato.
Il meccanismo descritto tuttavia, non ha generato benefici per i paesi africani in via
di sviluppo - e in altre aree del mondo - in cui la crescita nel periodo tra il 1995 e il
1999 è stata pari a zero [Meregalli, 2003; Wolfson, 2003]; nei paesi sviluppati, al
contrario (come Europa e Stati Uniti) hanno saputo far fronte al crollo dei prezzi,
derivante dall'eliminazione delle barriere, soltanto modificando i tagli dei sussidi interni
tra prodotti primari e non, e reintroducendo forme di sussidio all'agricoltura [Meregalli,
2003]. La disparità degli sviluppi dell'accordo rappresenta uno dei punti fondamentali
per il dominio sull'agricoltura dei paesi in via di sviluppo; tuttavia, tale esercizio di
3 Per misura aggregata di sostegno (mas) si intende il livello annuo del sostegno, espresso in terminimonetari, fornito per un prodotto agricolo a favore dei produttori agricolo di base o del sostegno nonconnesso a singoli prodotti, fornito a favore dei prodotti agricoli in generale. Cfr. p.3, Roberto Meregalli,Africa ed Aoa. Ecco perché l’Accordo WTO sull’Agricoltura non ha aiutato e non aiuterà i PaesiAfricani, Rete Lilliput.
70
controllo non è rappresentato da imprese nazionali che detengono il monopolio di
specifiche derrate alimentari.
Il risultato è una progressiva e totale dipendenza dei paesi del sud nei confronti delle
multinazionali alimentari, che non solo non si è ridotta, ma ha alimentato un aumento
dei prezzi alimentari, dell'instabilità sociale e delle guerre per il cibo [McMichael,
2009]. Storicamente, si è avuto modo di osservare questo andamento sin dalle origini
del capitalismo: centri ben definiti ampliavano il proprio raggio d'azione su territori
periferici sempre più ampi. A partire dalla minuziosa descrizione di Braudel a proposito
del commercio di mais dalle Americhe ai centri europei [1982], l'evoluzione di tale
sistema ha portato nel corso dei secoli a inglobare sempre più colture, fino al periodo
attuale in cui si è assistito a un'esplosione di coltivazioni rimaste, commercialmente,
sempre all'ombra delle braudeliane 'piante della civiltà'.
La 'scoperta' in termini medico-scientifici - ed economici - di piante come il miglio,
la quinoa, il kamut, ha aperto la strada a un nuovo business privato, generando una
rincorsa sfrenata a nuovi terreni e tecnologie produttive; recentemente, ad esempio, in
India è stata introdotta una nuova qualità di miglio, geneticamente modificata, in modo
da aumentarne la resa in relazione alle malattie che affliggono tali colture [Icrisat,
2006]. Il consumo di kamut a partire dal nuovo millennio è letteralmente esploso nelle
aree più sviluppate, tanto da far adottare a De Cecco, azienda specializzata nella
produzione di pasta, una linea di prodotti unicamente a base di kamut, un tipo di grano
coltivato con metodi biologici e più digeribile [De Frenza, 2011], in relazione alla
crescente domanda dei consumatori. Questa nuova pulsione ha interessato la
produzione, ovviamente, dei paesi meridionali del pianeta, in relazione ai maggiori
guadagni da parte degli investitori, prevalentemente occidentali.
Il caso dell'esplosione della quinoa è il più interessante: appartenente alla famiglia
delle Chenopodiacae, la stessa di spinaci, barbabietole e cavoli ricci, questa pianta si
distingue per i semi che, sottoposti a macinazione, forniscono una farina ricca di amido
che la avvicina alle coltivazioni cerealicole; tradizionalmente localizzata nei territori
andini di Cile, Bolivia, Ecuador, Colombia e Perù, la quinoa, negli ultimi decenni, è
stata soggetto di un boom legato alla produzione e al consumo mondiale [Evans, 2013].
Dagli anni '80 infatti la produzione mondiale di questa pianta è passata da 20 mila
tonnellate annue a 100 mila tonnellate, con Bolivia, Ecuador e Perù come principali
71
paesi produttori, per circa il 90% del totale [Evans, 2013]; ricca di proteine, povera di
grassi e senza glutine, la quinoa ha sempre rappresentato un alimento importante nella
dieta andina, espandendosi all'alba del nuovo millennio in tutto il mondo, tanto da
spingere l'Onu a nominare il 2013 'The year of Quinoa' [Reyes, 2013; UN, 2013].
Nell'ultimo decennio, secondo i dati Fao, il volume produttivo di questo cereale è
cresciuto circa del 100%, a dimostrazione del boom mondiale nel consumo di quinoa
[Reyes, 2013]. Paolo Pedon, manager dell'omonimo gruppo alimentare italiano,
importante azienda nel settore mondiale di confezionamento e distribuzione di legumi e
cereali secchi, afferma:
“Stiamo assistendo ad un boom della richiesta e del consumo di questo prodotto a
livello internazionale grazie alle sue straordinarie proprietà nutrizionali. A distanza di pochi
anni da quando abbiamo introdotto la quinoa in Italia, oggi esportiamo questo cereale in 11
Paesi trasformandolo da prodotto di nicchia a prodotto mass market” [Newsfood, 2013].
72
Come si può osservare, il commercio mondiale della quinoa degli ultimi anni
rappresenta un'evoluzione nelle diete alimentari dei paesi sviluppati, nonché di quelle
dei paesi produttori: in pochi decenni, la quinoa è passata da un cibo integrale locale
delle popolazioni indigene boliviane, peruviane e ecuadoriane, a una commodity
alimentare globale [Evans, 2013]. Il consumo mondiale di quinoa - alimento sempre più
presente nei supermercati dei centri urbani - è passato infatti da circa 0,35 Kg per anno
del 2008 a 1,11 kg per anno del 2012 [Fao, 2014]. L'aumento del consumo mondiale ha
determinato un riflessivo aumento dei prezzi a favore dei produttori, principalmente gli
agricoltori peruviani e boliviani che, tuttavia hanno radicalmente modificato la propria
dieta, a fronte della quasi totale esportazione del cereale, la principale forma di
guadagno locale [Fao, 2014]. I guadagni hanno permesso un'iniziale industrializzazione
dei processi di coltivazione, sulla scia del secondo regime alimentare descritto da
McMichael [2009; 2009b] e Friedman [2009]; allo sviluppo tecnologico però, non è
seguito un miglioramento sociale ed economico, secondo alcuni dovuto al 'saccheggio'
della quinoa dei principali centri mondiali. Le continue esportazioni se da un lato
garantiscono importanti ritorni economici reinvestiti nell'agricoltura, dall'altro piegano
le sorti di queste realtà alla domanda mondiale di quinoa. Secondo altri studiosi, il
disequilibrio tra profitti e arretratezza sociale va ricercato nella cattiva gestione in
materia di politiche interne: Pierre Desrochers, professore dell'Università di Toronto
afferma infatti che "il motivo della fame è spesso sinonimo di cattive politiche, non di
altre persone che vogliono comprare il tuo cibo" [Evans, 2013]; secondo il professore,
storicamente, molti alimenti ora divenuti parte integrante delle diete alimentari, come
patate, pomodori, cereali, iniziarono da dimensioni locali, nicchie produttive, divenendo
in seguito coltivazioni globali.
Che la quinoa sia destinata a divenire un elemento imprescindibile e onnipresente
nelle future diete è troppo presto per stabilirlo: quel che è certo però, è che in atto anche
in questo caso una scissione metabolica ambientale, in termini di riduzione della
biodiversità presente nei territori - circa il 75% dei terreni coltivati in Bolivia e Perù è
destinato alla quinoa - a loro volta interessati da un sensibile processo esaustivo [Fao,
2014]. Il boom dei consumi e l'alta adattabilità di questa pianta a climi e altitudini molto
differenti ha prodotto, in anni recenti, l'introduzione di questa coltivazione anche in
Canada, Usa, Francia, Regno Unito, Italia, Kenya e India [Fao, 2013; Reyes, 2013].
73
Nonostante l'immissione della quinoa negli stati occidentali, la produzione mondiale
resta invariabilmente affidata agli attuali principali produttori, più deboli politicamente,
economicamente e socialmente.
Anche nel caso della quinoa, in altri termini, si possono osservare le stesse relazioni
che hanno interessato centri di consumo e periferie produttive, geograficamente situate
nel Sud del Mondo. Dallo zucchero, al caffè, alla soia - quest'ultima coltivata in maniera
intensiva anche come foraggio per gli animali nei territori disboscati dell'Amazzonia
[Evans, 2013] - all'olio di palma, il Sud del Mondo, in maniera consistente a partire dal
terzo regime alimentare, è stato considerato come 'fattoria del mondo', in grado
garantire la produzione a basso costo dei principali alimenti consumati nel mondo
[McMichael, 2009].
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6 Biofuels: feeding the world
Il contesto alimentare come si è osservato nel capitolo precedente, è
indissolubilmente legato alle fonti energetiche, alle materie prime e alla forza lavoro:
quel che Moore e altri studiosi definiscono come Four Cheaps è infatti la dimostrazione
di tale legame. L'offerta di cibi economici in altre parole è possibile in virtù dell'accesso
alle fonti energetiche, di una folta manodopera e della presenza di materie prime;
l'assenza di queste variabili, o soltanto di alcune di esse, produce una lievitazione dei
costi produttivi e pertanto una limitazione all'accesso alimentare. Come descrivono (tra i
vari autori citati) Braudel, Foster, Moore e McMichael, storicamente l'aumento dei
prezzi e le crisi economiche venivano limitate o superate grazie a nuove espansioni che
garantivano nuovi accessi a manodopera a basso costo, materie prime e fonti
energetiche, in grado di far tornare sui livelli standard (tenuto conto dell'inflazione,
delle svalutazioni monetarie, ecc..) i prezzi alimentari. Cibo, denaro e risorse
energetiche sono pertanto connesse indissolubilmente [Friedman, 2009]: ciò rende
evidente di come le crisi petrolifere abbiano avuto effetti sull'alimentazione mondiale, e
non solo.
Il petrolio e il suo approvvigionamento a costi contenuti costituisce infatti una delle
voci per lo sviluppo interno, a livello alimentare, lavorativo, socio-culturale ed
economico. In periodi positivi, come nell'immediato dopoguerra, la disponibilità di
petrolio influisce positivamente sullo sviluppo statale; tuttavia esso rappresenta anche
un limite allo sviluppo, nel momento in cui aumentano i costi legati alla produzione
energetica, come la crisi petrolifera del 1973.
Per superare tali problematiche, a partire dalla seconda metà del XX secolo, la
quantità di pozzi petroliferi sparsi nel mondo è aumentata vertiginosamente, portando
all'attuale picco del petrolio. Ciò significa che la disponibilità di petrolio sta
decisamente abbassandosi, fatto che produce un incessante aumento dei prezzi con una
serie di conseguenze che investono tutti gli ambiti sociali e produttivi. A partire dalla
crisi petrolifera degli anni '70 pertanto l'interesse per i biocombustibili è cresciuto
sensibilmente, tanto da farne accrescere i progetti per la produzione di etanolo in
Brasile, e negli Stati Uniti per la coltivazione e produzione di oli di granella [Timilsina
and Shrestha, 2010]. Negli ultimi dieci anni l'emergenza è stata 'risolta' in seguito a
75
nuove procedure di estrazione, che hanno permesso di contenere l'aumento dei prezzi: i
produttori di petrolio hanno infatti sviluppato tecnologie e competenze per frantumare le
rocce in cui all'interno risiede la preziosa risorsa [Foster, 2009]. Il risultato è una melma
fangosa in cui coabitano detriti e petrolio. Tale pratica, sviluppata soltanto negli ultimi
anni, è soprattutto diffusa in Canada, il principale produttore di questa fanghiglia
energetica, e negli Stati Uniti, in cui si è assistito alla progettazione di un oleodotto - il
Keystone XL Pipeline - che dai territori dell'Alberta, in cui l'attività di frantumazione
delle rocce è molto diffusa, arriva fino al Golfo del Messico per essere successivamente
imbarcato e diffuso sui mercati mondiali. Rispetto alla produzione di petrolio grezzo,
questa sabbia energetica è più difficile da trasportare, in quanto corrode maggiormente
le pareti degli oleodotti.
La frantumazione delle rocce non rappresenta l'unico metodo non convenzionale di
reperimento del petrolio: affianco ad esso infatti, l'ultimo decennio ha visto l'aumento
della perforazione delle terre sottomarine, specialmente nel Golfo del Messico, lungo le
coste atlantiche del Canada, quelle offshore brasiliane, nel Golfo di Guinea e nelle
acque della Cina meridionale [Foster, 2009].
Il legame che unisce il regime alimentare attuale e il picco del petrolio si basa su
un'evidente contraddizione, propria dell'economia globale, ossia l'intersezione tra il
picco del petrolio, assieme al costo di altri combustibili, con la lunga catena di
distribuzione alimentare [Weis, 2007], che di fatto genera un aumento dei costi finali.
Lo sviluppo di nuove modalità per l'estrazione di petrolio non rappresenta comunque
le uniche forme di produzione energetica: dall'energia solare a quella eolica, passando
per gas e metano, la produzione di energia ha assunto caratteristiche tra loro molto
diverse. Sulla scia dei movimenti ecologisti e di salvaguardia del pianeta, negli ultimi
venti anni ha preso piede la produzione di biocombustibili (biofuels) a livello mondiale,
sfruttata da lobby e governi col fine di aumentare i ricavi [Latouche, 2007]. Rispetto ai
combustibili fossili i biocombustibili sono potenzialmente energie rinnovabili, a basso
impatto ambientale e con costi di gestione decisamente minori. Lo sviluppo tecnologico
per la produzione di energie rinnovabili come i biofuels ha provocato un aumento dei
fondi statali e delle terre destinate a tali coltivazioni per produrre energie in tutti i
territori del pianeta, dall'America settentrionale all'Europa, dall'India all'Indonesia, dalla
Malaysia al continente africano.
76
La nuova rincorsa alle energie rinnovabili cambia pertanto la relazione di valore tra
cibo, energia e capitale [McMichael, 2009] in quanto il contesto alimentare non è più
limitato al fabbisogno calorico di ciascuna persona ma ingloba anche la produzione di
energia, storicamente un veicolo per il contenimento dei costi alimentari e ora suo
potenziale avversario [McMichael, 2009]. In questo senso la produzione di olio di
palma o di mais non fa distinzione tra il fabbisogno alimentare e quello energetico
[McMichael, 2009b], comportando così una riduzione della quantità alimentare a favore
di una crescita della parte energetica. Questo spostamento produce, e ha prodotto, un
aumento dei prezzi alimentari, specialmente nel biennio 2007-2008, in coincidenza con
la crisi economica e l'aumento del prezzo del petrolio [McMichael, 2009]. In questo
contesto, i prezzi relativi alle coltivazioni destinate ai biocombustibili, nel periodo in
considerazione, sono schizzati alle stelle; la Banca Mondiale afferma che la politica
statunitense ha provocato un aumento del 65% dei prezzi dei prodotti agricoli
[Berthelot, 2008]. Ovviamente la politica di investimenti in biofuels non è limitata agli
Stati Uniti, ma qui più che altrove la 'febbre' per i biocombustibili ha preso piede.
"I prezzi per quelle coltivazioni utilizzate come biofuels sono cresciute molto più
rapidamente di altri prezzi alimentari negli ultimi due anni, con il prezzo della granella
cresciuto del 144%, dell'olio di semi del 157%, mentre solo dell'11% per i prezzi di altri
cibi alimentari [Berthelot, 2008 p. 27].
Il mais, uno dei cerali più diffusi in tutto il mondo è stato interessato nel biennio
2006-2008 da un aumento del prezzo di 2.8 volte [Berthelot, 2008], in relazione al suo
variegato utilizzo, da alimento per le persone, agli animali, al biocombustibile. In questo
senso, la ricerca scientifica ha ampliato considerevolmente gli utilizzi possibili del mais.
Nel contesto alimentare, oltre a servire come principale e, a volte, unico alimento per
l'allevamento di bovini, suini, pollame [McMichael, 2009; Kenner, 2009], e in alcuni
casi di alcune specie di pesci [Kenner, 2009], il mais si presta a diversi usi: farina, vari
tipi di amido, sciroppi e zuccheri, maltodestrine, destrosio, alcolici e la plastica
biodegradabile. Assieme alla soia e l'olio di palma infatti il mais è l'elemento più
presente negli alimenti quotidiani e di provenienza industriale. Il tentativo di
omologazione rappresenta un'evidente volontà di ridurre i costi di gestione e,
contemporaneamente, aumentare i profitti.
77
Non solo il mais, ovviamente, ma anche la soia e la colza hanno avuto un rincaro dei
prezzi in riferimento alla produzione di biocombustibili: negli Stati Uniti i progetti di
biodiesel hanno portato a un aumento delle coltivazioni di soia e dei prezzi di questo
cereale [Berthelot, 2008]. La produzione statunitense di etanolo, derivante dal mais,
rappresenta circa il 30% dell'aumento dei prezzi agricoli mondiale di tale coltivazione
[Berthelot, 2008]. Se si estende tale situazione all'intero pianeta, si può osservare come
questa rincorsa alle energie rinnovabili abbia portato a un aumento della soglia di
povertà e alle guerre per il cibo, generando un cospicuo profitto per le multinazionali o
le aziende produttrici.
Il prelievo dalle riserve di granaglie e l'aumento dei prezzi ha portato a un'espansione
dei territori coltivati, attraverso la deforestazione, il cambiamento delle coltivazioni, la
'colonizzazione' di nuovi territori per mezzo di Fondi Diretti all'Estero (FDI), la
stipulazione di contratti internazionali di partecipazione, ecc.. Il risultato
dell'amplificazione di tali coltivazioni ha portato nel 2007 a raccolti record [McMichael,
2010b], a testimonianza dell'importanza ricoperta da tali granaglie. Nonostante ciò,
come si è visto, i prezzi non sono diminuiti e parallelamente sono saliti anche i profitti
delle principali multinazionali agricole e produttrici di granaglie: nel 2007 i guadagni di
Cargill, ADM, Bunge, derivanti dall'aumento dei prezzi globali sono saliti del 103% e
del 91% per i tre produttori di semenze e pesticidi, Monsanto, Syngenta e Dupont
[McMichael, 2009]. In queste cifre una parte cospicua è riservata dall'impennata dei
biocombustibili: la nascita di un nuovo mercato legato alle fonti rinnovabili è stata
prontamente festeggiata dall'agrobusiness che ha visto in esso una modalità di
accumulazione di capitale. E' proprio questo infatti il punto centrale: "i biocombustibili
costituiscono un altro portale attraverso cui il capitalismo in generale può approfittare
dell'agricoltura" [McMichael, 2010b, p. 6]. La scarsità alimentare, relazionata a raccolti
quantitativamente elevati dà la misura di quanto i biocombustibili abbiano assunto
importanza nelle strategie capitalistiche.
A dimostrazione di ciò non c'è nulla di più evidente della coltivazione delle palme da
olio, specialmente in Indonesia e Malaysia. La coltivazione e il commercio della palma
da olio hanno infatti avuto una considerevole accelerazione in questi ultimi anni in
Malaysia, Indonesia, Brasile, Cina e Stati Uniti, poiché tale pianta, come la soia e il
mais, si presta a una produzione variegata: dai prodotti alimentari, alla cosmetica,
78
all'energia rinnovabile. Rispetto alla soia, al girasole e alla colza, l'olio di palma però si
dimostra superiore in termini di raccolto per ettaro [WWF, 2007]. Di tutta la granella
necessaria per la produzione mondiale di biocombustibili, la soia rappresenta la coltura
più diffusa, con circa 90 milioni di ettari in tutto il mondo; alle spalle di essa si trova la
colza, circa 25 milioni di ettari; la quantità di terreni occupati dalla palma da olio non
supera invece il 10% della soia. Questa disparità si spiega con la differente resa in
termini quantitativi delle colture: se per la soia il rapporto tra ettari coltivati e resa è di
0.38, per la palma da olio è di 3.57 [WWF, 2007]. L'alta produttività di questa coltura
ha permesso di limitare la produzione intensiva mondiale a determinate aree del pianeta,
come Malaysia, Indonesia, Nigeria, Brasile, appartenenti alla stessa fascia climatica
[WWF, 2007]. La 'rincorsa febbrile' verso il business in materia di energia rinnovabile
ha pertanto portato questi paesi ad un'intensificazione della coltivazione del prodotto:
soltanto Malaysia e Indonesia hanno prodotto nel 2009 rispettivamente 540 e 400
milioni di litri di olio di palma [Obidzinski et all, 2010], circa il 90 % dell'intera
produzione mondiale [Brizzo, 2014]. In Indonesia in particolare il trend non solo
sembra continuare, ma sembra anzi intenzionato ad ampliarsi: a partire dal 2006 quando
il governo incentivò la coltivazione e l'uso come biocarburante della palma da olio, le
terre destinate a tale coltivazione aumentarono di 2,37 milioni di ha, comprendendo
un'area totale di 5,9 milioni di ha; molti esperti ritengono inoltre che nel decennio tra il
2010 e il 2020 una quota compresa tra i 3 e i 7 milioni di ha si aggiungeranno a quelli
già presenti [Gingold, 2010]. Nel 2011 le terre destinate a tale coltura sono aumentate di
6,1 milioni di ettari come conseguenza delle politiche agricole indonesiane, interessate
alla produzione di olio di palma, sia per limitare la dipendenza dai combustibili fossili
(nel 2005 il governo indonesiano destinò il 24% del Pil, circa 19,2 miliardi di dollari,
per la fornitura di petrolio e gas), sia per ampliare i profitti della nascente industria
[Obidzinski et all, 2010]. Il passaggio alla produzione di biocombustibili dell'Indonesia
è stato lento e graduale: la crisi del 2008 ha portato alla diminuzione degli investimenti
e molte industrie, tra cui alcune appena sorte, hanno ridotto considerevolmente la
produzione o sospeso ogni attività, diminuendo così le quantità disponibili di olio
grezzo e aumentando i prezzi per unità (nel 2008 è salito a 1410 dollari per tonnellata,
tornando a 1000 dollari nel 2011) [Obidzinski et all, 2010]. Non solo la crisi, ma anche
la caduta dei prezzi del petrolio (diminuito in seguito alle nuove modalità di estrazione,
79
come la frantumazione delle rocce) ha avuto un certo peso nel calo della produzione
dell'olio di palma per fini energetici, rimanendo invece stabile per quanto riguarda la
cosmetica e i prodotti alimentari [Obidzinski et all, 2010].
Al di là dei fisiologici periodi di contrazione e sviluppo, non vi è dubbio che i
biocombustibili abbiano acquisito rilevanza politica ed economica: tale coltivazione
infatti rappresenta una delle voci primarie per l'incremento del prodotto interno di paesi
come Malaysia e Indonesia. Il biocarburante prodotto può essere utilizzato sia per mezzi
di trasporto sia per usi stazionari come il riscaldamento [WWF, 2007]
.
Una produzione così vasta, importante per il mercato interno e fondamentale per le
esportazioni mondiali, ha bisogno di territori da coltivare sempre più vasti: la
risoluzione di questo problema gestionale ovviamente risiede nella deforestazione e
nella liberazione dei terreni da coltivare. Molti di questi territori sono storicamente
coincisi con gli habitat animali, hanno ospitato colture spontanee o sono stati coltivati
per il fabbisogno alimentare locale. La nascita di un'industria così corposa e destinata a
crescere nell'immediato futuro, con l'approvazione dei governi e dell'opinione pubblica,
rappresenta quindi un decisivo cambiamenti in termini ambientali, zoologici e sociali.
La deforestazione rappresenta in questo senso uno strumento molto importante per la
produzione di biocombustibili, specialmente in Indonesia dove le foreste coprono una
parte cospicua del territorio [Obidzinski et all, 2010; WWF, 2007]. Nel territorio
indonesiano sin dagli anni '80 la deforestazione è stata una pratica incessante: tra il 1982
e il 1989 circa 6 milioni di ettari di foresta hanno lasciato il posto alla coltivazione della
palma [Obidzinski, 2010]. Il 'Mega Oil Palm Project' del 2006 rappresenta la
conversione di 1.8 milioni di ettari di foresta di tre parchi nazionali situati sulle isole di
Sumatra e Kalimantan per la coltivazione di palme da olio [Wakker, 2006]. Molto
spesso la liberazione dei territori avviene attraverso gli incendi che assicurano un sicuro
risultato a costi bassi; tali pratiche tuttavia, hanno effetti devastanti sul clima e perdita
della biodiversità [WWF, 2007]: in Indonesia infatti la continua deforestazione ha
portato alla decimazione degli orangutan [Brizzo, 2014] e della tigre di Sumatra
[Obidzinski, 2010]. Gli effetti della deforestazione si osservano anche sull'accessibilità
e fornitura di acqua ai villaggi rurali, direttamente interessati a tali cambiamenti
agroindustriali [Wakker, 2006].
80
Le situazioni indonesiana e malaysiana permettono di comprendere a fondo il legame
che unisce cibo, energia, politica internazionale e colossi privati come le multinazionali:
la congiunzione tra cibo e particolari fonti energetiche rappresenta infatti il carattere
essenziale del regime alimentare attuale, in quanto esplicita il fulcro imprenditoriale di
accumulazione di capitale nel breve e lungo periodo.
La crescita di nuovi settori mercati destinati alla produzione di energie rinnovabili ha
dato l'avvio a una corsa globale alla coltivazione o importazione delle colture designate:
non solo l'olio di palma, ma anche la soia e la canna da zucchero, coltivata
intensivamente soprattutto in Brasile per la produzione di etanolo [WWF, 2007] sono
aumentate esponenzialmente in tutto il mondo.
In Europa, l'opinione pubblica e le politiche agroindustriali hanno visto di buon
occhio l'espansione dei biocombustibili; l'Unione Europea ha infatti sollecitato e
incentivato a più riprese l'utilizzo di biocombustibili. Attualmente le percentuali
ricoperte da queste energie rinnovabili non sono in grado di scalfire l'egemonia
petrolifera, ma sono in costante aumento [WWF, 2007]. Tra i biocombustibili, l'olio di
colza rappresenta la principale fonte energetica, con quasi il 90% del consumo europeo
di biodiesel, essendo questa pianta più adatta ai climi europei, mentre i paesi più
interessati all'adozione di biocarburanti risultano l'Austria, la Svizzera, la Germania e i
Paesi Bassi [WWF, 2007]. L'Unione Europea ha inoltre istituito una piattaforma
gestionale in materia di energie rinnovabili, la European Biofuels Technology Platform
con lo scopo di pianificare strategie di produzione energetica future. Lo sviluppo di
politiche agricole interessate ai biocombustibili di molti paesi membri dell'Unione ha
portato a un'intensificazione dello sviluppo dei biocombustibili di seconda e terza
generazione, abbandonando alcune procedure, come l'estrazione dell'etanolo dalla canna
da zucchero, ritenute - paradossalmente - troppo inquinanti [EBTP, 2014]. Le prime
forme di biocombustibili necessitavano di una quantità spropositata di combustibili
fossili per la loro realizzazione, rendendoli di fatto decisamente inquinanti [McMichael,
2009]. Attualmente infatti, nonostante le politiche nazionali e gli sviluppi scientifici, gli
attuali biocombustibili risultano inquinanti più degli idrocarburi tradizionali: i motivi
non riguardano la combustione finale, bensì il processo e i metodi di produzione, come
la deforestazione, il trasporto degli oli grezzi, la lavorazione e trasformazione in
biocombustibili, la distribuzione finale. Tutte queste tappe inerenti alla produzione di
81
biocombustibili influiscono sulla produzione di gas serra, circa 300 volte più potente del
diossido di carbonio, mediamente prodotto [Cockerill and Martin, 2008]. Come osserva
McMichael [2009], il risultato è pertanto controproducente in termini ambientali e
alimentari: la destinazione di una parte sempre maggiore di terre per i biocombustibili
diminuisce infatti i terreni destinati all'alimentazione, aumentando i prezzi dei prodotti
agricoli e provocando problemi di accessibilità alimentare per una parte sempre più
consistente della popolazione mondiale, argomento discusso nel capitolo successivo.
La diffusione dei biocombustibili ingloba tutti i tipi di trasporto e gli usi stazionari. A
livello di locomozione essi hanno avuto una rapida diffusione anche nel trasporto aereo:
a partire dal 2000, la decisione di adottare i biocombustibili per gli aerei ha portato alla
deforestazione o liberazione di 37 milioni di ettari in Asia, Africa e America Latina. Dal
2011 è stato stabilito che le compagnie aeree devono dotarsi di circa il 50% di
combustibili rinnovabili, in ragione di un abbassamento delle emissioni di CO2 e di un
più facile reperimento [Ross, 2013]. La crescita di India e Cina, oltre che sul piano
politico ed economico, si è osservato anche in relazione ai voli effettuati da e per i due
paesi asiatici; i due paesi pertanto hanno intensificato notevolmente la produzione e
l'importazione di biocombustibili, come d'altronde tutto il resto del mondo, alla ricerca
di una diminuzione dei costi, nascosta dall'idea diffusa di rispetto per l'ambiente [Ross,
2013]. La Renewable Fuel Standard, organo federale statunitense che si occupa della
gestione dei biocombustibili, ha stabilito che nel 2022 la quota mondiale di
biocombustibili dovrà essere di 36 miliardi di galloni: 15 miliardi dall'etanolo prodotto
dalle granelle; 16 miliardi da cellulose come alghe; 1 miliardo dagli oli delle piante e
dai biodiesel animali; 4 miliardi dai denominati 'biofuels avanzati', vale a dire non
prodotti con l'amido delle granelle [Ross, 2013]. L'Unione Europea nel 2011 ha invece
deciso unanimemente il graduale ma costante passaggio per l'aviazione civile ai
biocombustibili, per una quantità nel 2020 di circa 60 miliardi di galloni [Ross, 2013].
L'aumento del traffico aereo, soprattutto quello indo-cinese, e la contemporanea
ricerca ed adozione di biocombustibili ha prodotto un aumento spropositato in termini
di fornitura: l'abbattimento della produzione di gas serra rappresenta una delle sfide
principali dei biofuels e per il trasporto aereo, nell'immediato e prossimo futuro. Ciò
significa che l'industria aerea mondiale necessiterà di circa 13,6 milioni di
biocombustibili al giorno [Ross, 2013].
82
Cifre come queste come possono non incidere sull'aumento dei prezzi alimentari?
Risorse limitate come la disponibilità idrica, i terreni coltivabili se tolti all'agricoltura
non possono non causare un aumento dei prezzi e una riduzione dell'accesso alimentare.
In un rapporto di Barilla Center for Food and Nutritions [2012b]. si legge: "I limiti nella
disponibilità delle risorse naturali con particolare riferimento a input come l'acqua e i
terreni coltivabili, rappresentano un vincolo molto importante alla crescita della capacità
produttiva dell'agricoltura mondiale
Nel 2008 infatti l'aumento dei prezzi alimentari è coinciso, in parte, con un maggiore
utilizzo dei biocombustibili, spingendo le principali compagnie di volo a pubblicizzare
le proprie iniziative sociali e legate all'ambiente. Tra le intenzioni proclamate figurano il
mantenimento della biodiversità, la salvaguardia delle foreste, la promessa di una
diminuzione dei gas inquinanti e la non conflittualità con la produzione alimentare.
Ciononostante, le intenzioni non sembrano trovare conferme nella pratica, anzi: la corsa
sfrenata ai biocombustibili ha prodotto l'installazione di centri produttivi per l'olio di
palma in tutto il mondo, compresa l'Africa, appartenente alla stessa fascia climatica di
Malaysia e Indonesia. Nel continente nero, la corsa ai biofuels è stata particolarmente
feroce nella parte centrale e occidentale, con circa 2,6 milioni di ettari destinati alla
produzione di olio di palma [Ross, 2013]. In Camerun, la statunitense Herakles, società
operante nel business agroindustriale, ha sviluppato un progetto di coltivazione della
palma da olio per circa 73 mila ettari, violando totalmente le leggi camerunensi [Ross,
2013] e richiamando alla memoria le strategie di business descritte da Perkins [2012].
La rincorsa ai biocombustibili ha portato in Mozambico e Senegal all'installazione di 11
compagnie di origine britannica, su un'area di circa 1,6 milioni di ettari [Carrington and
Valentino, 2011].
Nell'intero continente africano, i biocombustibili hanno assunto un peso strategico
per i profitti di colossi privati, producendo in prima battuta una serie di effetti negativi
sull'accessibilità alimentare delle popolazioni nei territori colpiti. Cibo ed energia,
ancora una volta, anziché risolvere i problemi biologici e socioculturali, rappresentano
limiti alla stessa sopravvivenza, giocata sul terreno del capitale. La relazione di valore
legata alla relazione tra natura e capitale, descritta nel capitolo precedente, qui si fa
estrema: nonostante il continuo ed incessante sfruttamento di terreni sempre più
improduttivi, una fetta dei raccolti viene destinata alla produzione di biocarburanti per
83
alimentare un'industria sempre più produttiva. L'idea di una relazione di valore politica
e globale proposta da Araghi [2003] esplicita il cambiamento dei ruoli giocati da cibo ed
energia, da elementi fondamentali per la sopravvivenza a oggetti dell'accumulazione di
capitale privato [Kenner, 2009]. McMichael in tal senso osserva come i progetti di
agrofuel costituiscano l'ultimo feticcio di un'agricoltura convertita da risorsa per la vita
umana a input energetico [2009].
Africa, ma non solo - come terra di conquista per le multinazionali agroalimentari e
industriali: il terzo regime alimentare stabilisce in questo senso una rottura con i
precedenti regimi. Non sono più gli stati a organizzare espansioni, progetti
agroindustriali e controllo dei mercati, ma bensì soggetti privati come le multinazionali,
organismi internazionali e la finanza mondiale.
La tematica legata ai biofuels è pertanto controversa: l'ipotetica sostenibilità
ambientale e la possibile diminuzione dei costi energetici fanno da contraltare a una
biodiversità realmente minacciata [Brizzo, 2014], a un evidente aumento dei prezzi
alimentari, a un invariato livello di inquinamento e a un esagerato aumento dei profitti
privati [McMichael, 2009].
7 Le guerre per il cibo
La penetrazione della relazione di valore tra cibo e capitale a livello ormai globale,
come si è visto produce una serie di effetti, tra loro paralleli e convergenti allo stesso
tempo: a livello ambientale, l'espansione del capitalismo, sin dalle sue origini e in
maniera molto più consistente nella fase attuale, ha prodotto una evidente scissione
metabolica; nei mercati finanziari si è registrata una notevole escalation del potere
multinazionale, dei fondi d'investimento, delle banche e delle multinazionali in
relazione alla produzione alimentare, a partire dalla seconda metà del XX secolo;
l'appropriazione di terre, la nascita di grandi filiere, l'espansione di catene di
distribuzione e di fast-food, sono barriere non tradizionali al quotidiano accesso di cibo,
84
principalmente per le zone periferiche del mondo. Il cibo, chiaramente, rappresenta una
delle risorse fondamentali per la sopravvivenza delle specie, e in questo senso, la
privatizzazione e limitazione, produce, a livello sociale, instabilità, crisi e guerre. La
progressiva limitazione e monopolizzazione di terreni e risorse produce un'altrettanta
progressiva dipendenza dalle imprese private, nazionali, straniere, corporative, in
maniera sempre più netta a partire dal secondo Novecento [Weis, 2007]; tale
dipendenza si manifesta in relazione all'andamento dei mercati finanziari e delle
multinazionali e dei relativi investimenti. In termini concreti, ciò significa che
l'accessibilità alle fonti alimentari è subordinata a scelte extra-territoriali e non più alle
risorse locali da cui attingere direttamente: nel 2007-2008, l'aumento dei prezzi portò a
rivolte in oltre 25 nazioni, specialmente nel Sud, in Africa, nel Sudest asiatico, nelle
Americhe e nei Caraibi [Bush, 2010; McMichael, 2009]. La dipendenza descritta si
manifesta ogniqualvolta grandi gruppi d'investimento s'impossessano di nuovi territori,
vale a dire rimuovendo i contadini, per la produzione di monocolture rivendibili sul
mercato globale, rispetto ai prodotti tradizionali, commerciabili localmente;
l'incorporazione subordina la produzione interna all'esportazione generando in primo
luogo deficit statali, privatizzazioni e in seguito rivolte urbane e nazionali [Via
Campesina, 2008]. Le liberalizzazioni e i trattati commerciali degli anni 80' hanno
generato effetti negativi sui paesi del Sud, i primi interessati nelle variazioni finanziarie
dei prezzi alimentari: "paesi come il Bangladesh non possono comprare il riso di cui
necessitano perché i prezzi sono troppo elevati. Per anni la Banca Mondiale e il FMI
hanno detto ai paesi che un mercato liberalizzato avrebbe fornito il sistema più
efficiente per la produzione e la distribuzione del cibo e oggi i paesi più poveri del
mondo sono forzati nell'intensa guerra dell'offerta tra speculatori, operatori di borsa e
commercianti. [...] In accordo con alcune stime, i fondi d'investimento ora controllano il
50-60% del commercio del grano, il più grande mercato mondiale di genere alimentare"
[GRAIN, 2008; McMichael 2009].
In molte aree del mondo, come in Messico, Bangladesh, Egitto e Mauritania, le
rivolte popolari per il cibo si sono sviluppate proprio a partire dall'aumento dei prezzi
alimentari globali, riducendo drasticamente l'accesso alimentare. L'aumento - quasi a
livello monopolistico - del controllo esercitato dai fondi d'investimento, dalle
corporazioni, con la connivenza di governi autoritari - che beneficiano dello status quo -
85
ha portato infatti al corrispondente crollo delle produzioni agroalimentari locali, con la
degenerazione in disordini, rivolte e conflitti per l'accesso di cibo [Bush, 2010]. Tali
aspetti riguardano un persistente problema che, con la diffusione su scala globale del
neoliberismo, coincidente anche all'apertura dei mercati ex-comunisti [Arrighi, 1999],
ha interessato sempre più aree e popolazioni; le rivolte per il cibo infatti non
appartengono solo all'ultimo decennio storico, ma rappresentano una forma
d'inefficienza costante del sistema espansivo capitalista/neoliberista [Bush, 2010;
McMichael, 2009].
Durante l'evoluzione storica si è sempre assistito a disordini in relazione
all'accessibilità alimentare: dalle rivolte delle isole mediterranee, caraibiche e
latinoamericane in relazione alla produzione di zucchero [Moore, 2009], a quelle del
cotone nelle colonie americane; dalle piantagioni di caffè indiane e dell'America
meridionale di proprietà britannica, a quelle di cacao delle coste africane. Nel corso
della decolonizzazione, la terra ricopriva una parte centrale del sostentamento di molte
popolazioni asiatiche, africane, caraibiche e latinoamericane, generando lotte diffuse in
relazione al crescere dei lucrosi investimenti e della privatizzazione delle corporazioni
straniere [Weis, 2007]; contemporaneamente alle rivoluzioni agricole avvenute in Cina,
Russia e Messico, per una redistribuzione più equa dei terreni, le grandi corporazioni
provvidero ad attuare nuovi processi colonizzatori, in relazione alle fonti energetiche e
alimentari [Shiva, 2010; Weis, 2007], soggiogando intere popolazioni alla logica del
profitto, e alimentando diffusamente focolai di rivolta, dovunque domati con l'uso della
forza. L'uso coercitivo del controllo imposto dalle grandi imprese e dei forti interessi
degli Stati Uniti - ma non solo - portò alla destituzione di diversi governi, con
l'instaurazione di regimi, molto spesso dittatoriali - come in Cile, Bolivia, Indonesia,
solo per citarne alcuni - più conniventi, o decisamente interessati, alle politiche
commerciali ed espansioniste dei paesi più sviluppati, in primis gli Stati Uniti [Weis,
2007]. L'amplificazione dei mercati, delle multinazionali e dei fondi d'investimento,
specialmente del secondo Novecento e del XXI secolo, hanno tuttavia esteso a livello
planetario i disordini sociali derivanti dall'inaccessibilità al cibo [Bush, 2010],
accelerando vertiginosamente il processo espansionistico precedente.
L'aumento dei prezzi, delle esportazioni e di una diffusa inaccessibilità alimentare,
portò nel biennio compreso tra il 2007-2009 una generale rivolta di diversi paesi del
86
Sud: in un periodo di lievitazione dei prezzi alimentari, l'aumento delle tasse destinate ai
piccoli agricoltori, portò nel febbraio del 2008, in Burkina Faso, a una sollevazione
popolare, in diverse zone del paese, concluse con l'intervento delle forze di polizia e con
la richiesta del governo agli Stati Uniti di sussidi di emergenza quantificati in 28 milioni
di dollari per la fornitura di semenze, fertilizzanti, pesticidi e strumentazione agricola
[Bush, 2010]. In Mauritania e Senegal, migliaia di persone manifestarono contro il caro
prezzi degli alimenti; a Dakar, i prodotti europei e il riso tailandese erano più economici
dei prodotti locali, causando una crescita diffusa del costo della vita. Contro questa
situazione di crisi dei prezzi, il Presidente senegalese Wade esortò l'economia interna a
una riduzione della dipendenza dai prodotti esteri, chiedendo inoltre la rimozione della
Fao, colpevole di aver fallito nella gestione della crisi e avendo generato un abisso tra i
compensi dei funzionari e gli oggettivi meriti operativi [Bush, 2010]. Disordini e rivolte
si verificarono anche in Marocco, Tunisia, Yemen, Arabia Saudita: in Egitto la
situazione fu tra le più critiche, con circa 80 milioni al di sotto della soglia di povertà
[Bush, 2010]. L'Egitto è un paese insicuro in termini alimentari, specialmente in seguito
alle liberalizzazioni agricole, che l'hanno fatto divenire il secondo paese al mondo con
l'importazione più alta di grano [Bush, 2010]. Con l'aumento del prezzo del grano -
triplicato durante il 2007 - gli egiziani fecero esperienza di una privazione delle
sovvenzioni statali, vedendo così peggiorare le condizioni di vita già complicate.
I focolai di rivolta si accesero in tutto l'Egitto, ma anche in altre zone del pianeta, in
relazione al legame tra corporazioni, trattati internazionali e popolazioni rurali: in
Messico, ad esempio, la stipulazione del NAFTA (North American Free Trade
Agreement) negli anni 90', portò alla triplicazione dei prezzi del mais, causando le
rivolte della 'tortilla' in tutto il paese [McMichael 2009]. Le rivolte alimentari che
interessarono - e interessano attualmente - paesi come Marocco, Uzbekistan, Senegal
Guinea, Indonesia, Camerun, Burkina Faso, Egitto, Messico, Argentina, ecc...
rappresentano drammaticamente questo stretto legame, sono ampiamente basate sul
contesto urbano e costituiscono reminiscenze delle IMF Riots4 dei lunghi anni 80'
[McMichael, 2009], in cui la de-regolamentazione finanziaria fu una delle cause dei
subbugli. Nel 2006 un nuovo raddoppiamento dei prezzi del mais portò a nuove 'tortillas
4 Rivolte urbane, organizzate in seguito alla de-regolamentazione, liberalizzazione, austerità eprivatizzazione promossa dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) per la ripresa economica degli statipiù avanzati.
87
riots' in tutto il Messico, data l'inaccessibilità alimentare, in particolar modo dei prodotti
derivanti dal mais: in relazione al masi, l'aumento dei prezzi va riferito, non soltanto alla
domanda alimentare, bensì anche a quella necessaria per l'allevamento e a quella
destinata all'energia biocombustibile [McMichael, 2009].
Disparità d'accesso, spreco alimentare, guerre per il cibo sono aspetti evidenti
dell'attuale sistema produttivo, votato al profitto di colossi multinazionali, attraverso la
forza-lavoro sottopagata delle zone periferiche e semiperiferiche.
Le relazioni descritte si manifestano in relazione a qualsiasi risorsa alimentare o
energetica altamente monetizzabile: ciò è tanto più vero se si considera l'accesso alla
fonti idriche - una forma di bene alimentare - mondiali e soprattutto le relative
evoluzioni dei paesi del Sud del mondo. L'acqua è fondamentale per la sopravvivenza e
attorno ad essa si sono sviluppate le prima comunità; in epoche remote, il rapporto
dell'uomo con l'acqua aveva connotazioni sovrannaturali oltre che vitali, a ragione
dell'assoluta importanza di essa per la sopravvivenza. A partire dal secolo scorso
tuttavia, la creazione di una visione monetaristica di tale risorsa, in cui il valore
economico ha la meglio sul valore biologico, sociale e culturale, ha cambiato
drasticamente la possibilità di accesso all'acqua. "Nel 1998, 28 paesi erano afflitti da
problemi idrici o da scarsità d'acqua; secondo le previsioni, entro il 2025 questa cifra
dovrebbe crescere a 56. Il numero di persone che vivono in paesi privi di una quantità
adeguata di acqua salirà, tra il 1990 e il 2025, da 131 milioni di persone a 817 milioni"
[Shiva, 2010].
La proprietà dell'acqua è rimasta a lungo tra le mani delle comunità locali: in tutto il
mondo, il sistema locale garantiva accesso per le popolazioni e sostenibilità e
conservazione delle fonti idriche. Con lo sviluppo degli stati e del capitale, il controllo
delle fonti passò nelle mani di imprenditori e governi, che incentivarono e promossero
nuove espansioni delle frontiere dettate, in larga parte, dall'incorporazione di nuove
risorse alimentari, energetiche e di forza-lavoro [Moore, 2003b; 2013]. "Oggi ci
troviamo di fronte a una crisi planetaria dell'acqua, che minaccia di aggravarsi nel corso
dei prossimi decenni. Il peggioramento della crisi è accompagnato da nuove iniziative
per ridefinire i diritti sull'acqua. L'economia globalizzata sta cambiando la definizione
di acqua, da bene pubblico a proprietà privata, una merce che si può estrarre e
commerciare liberamente" [Shiva, 2010, p. 33].
88
La colonizzazione europea dei territori nordamericani ebbe, tra i vari obiettivi, la
conquista di fiumi, coste e bacini idrici, sia per motivi commerciali sia culturali; nel
Terzo Mondo il controllo governativo fu agevolato dagli enormi prestiti che la Banca
Mondiale, a partire dagli anni 50-60' del secolo scorso, stanziò per progetti idrici [Shiva,
2010]. Tali progetti riguardavano la costruzione di dighe, lo sbarramento di fiumi, la
privatizzazione - con l'intento di migliorarne la qualità - di pozzi e bacini idrici che,
oltre a provocare gravi dissesti ecologici come deforestazione, erosione del terreno e
cambiamento climatico, cambiarono bruscamente l'accesso locale alle fonti d'acqua,
creando le basi per conflitti popolari. Ciò si verificò nella Los Angeles di fine
Ottocento, in seguito al cambiamento del corso dei fiumi che provocò l'esaurimento
delle risorse idriche locali e la nascita di insurrezioni popolari, caratterizzate da attentati
terroristici contro le opere idrauliche (l'acquedotto dell'Owens Calley, la diga Saint
Francis Dam) [Shiva, 2010].
La costruzione di dighe rappresenta il più lucroso metodo d'investimento di governi,
fondi d'investimento e multinazionali. Negli Stati Uniti, l'ente preposto alla costruzione
è l'Army Corps of Engineers, nato nel 1775 e limitato inizialmente ai confini nazionali:
da allora la crescita del gruppo è stata vertiginosa, arrivando a gestire nel 1981 circa
4000 opere pubbliche, tra cui 583 dighe e, attualmente, gestendo circa 150 progetti
idrici mondiali [Shiva, 2010]. Il controllo delle fonti idriche, la costruzione di impianti
di irrigazione (che, semplicemente, deviano il corso dell'acqua da alcune zone ad altre,
invece che 'aumentare il livello delle terre irrigabili o del livello dell'acqua presente') e
di imponenti dighe, costituiscono punti cruciali per l'egemonia corporativa, o più in
generale, per il rinnovamento del potere capitalista, ma creano anche malnutrizione e
guerre: deviare il corso di un fiume significa togliere l'accesso all'acqua di alcune zone -
nella quasi totalità dei casi popolate - per renderlo disponibile in altre zone, con
conseguenti mutamenti ecologici, sociali, demografici ed economici - questi ultimi
appannaggio delle compagnie d'investimento.
I conflitti connessi alle grandi opere idrauliche non riguardano esclusivamente
situazioni statali interne, ma anche i rapporti tra stati, come tra Usa e Messico per la
gestione delle acque del Colorado, o come il Tigri e l'Eufrate, "i maggiori corsi d'acqua
che da migliaia di anni sostengono l'agricoltura in Turchia, Siria e Iraq, [e che] hanno
provocato gravi e pesanti scontri tra i tre paesi" [Shiva, 2010, p. 83]. In Israele, la guerra
89
con i palestinesi è in una certa misura una guerra per l'acqua. Il Giordano, conteso da
Israele, Giordania, Siria, Libano e Cisgiordania, è una fonte indispensabile per
l'agricoltura estensiva di Israele che, nonostante sia attraversata per il 3% del bacino del
fiume, ne sfrutta le risorse idriche per il 60% [Shiva, 2010]. I conflitti iniziarono sin dal
1948, con la costituzione israeliana del National Water Carrier Project, la più grande
opera idraulica della storia d'Israele, che accese tumulti con la Siria, in relazione ai
progetti israeliani di deviazione del corso fluviale.
"La guerra del 1967, che portò all'occupazione israeliana della Cisgiordania e della alture
del Golan, fu in effetti un'occupazione delle risorse di acqua dolce delle alture del Golan,
del lago di Tiberiade, del Giordano e della Cisgiordania. [...] Nel periodo tra il 1967 e il
1982 le acque della Cisgiordania erano controllate dai militari. Oggi sono gestite dalla
compagnia idrica israeliana, la Mekorot, che le integra nella rete idrica israeliana" [Shiva,
2010, p. 86].
L'uso dell'acqua per i palestinesi inoltre è controllato e ristretto dal governo
israeliano, con molte disparità di trattamento in relazione all'accesso di cibo. La
situazione descritta non si limita ai contesti citati, ma riguarda diverse aree del pianeta,
come quelle interessate dal corso del Nilo, dalla gestione del Colorado, del Rio Bravo
tra Messico e Stati Uniti, dall'Indo e dal Gange.
Le rivolte e le guerre popolari, molto spesso urbane, che di tanto in tanto scuotono
l'opinione pubblica dei paesi più sviluppati, come si è visto, hanno sovente origini
alimentari, in termini di aumento dei prezzi, accessibilità, malnutrizione,
privatizzazioni. La crescita del prezzo del mais per paesi come il Messico, o del riso in
Vietnam, Thailandia - ma non in Giappone, in virtù dell'Uruguay Round e del GATT
del 1986 [Friedman, 2009; McMichael, 2009] -, o quello dei prezzi dei prodotti agricoli
interni del Senegal contrapposto a costi molto minori di prodotti stranieri, producono
inevitabilmente subbugli popolari o conflitti armati. Analogamente, anche la
disponibilità di acqua in zone prevalentemente aride come il Medio Oriente, rappresenta
una fonte indispensabile per la sopravvivenza e il suo esaurimento, dettato da motivi
economici, genera guerre, definite superficialmente e semplicisticamente come guerre
di religione o di etnia dai mezzi di comunicazione.
90
Periferie squarciate dall'accessibilità alimentare e molto spesso teatri di rivolte,
guerriglie urbane e disordini; catene di fast food presenti in maniera capillare e
generalizzata; investimenti privati unicamente finalizzati alla massimizzazione del
profitto; continua ricerca di nuove fasce di mercato redditizie, come nel caso dei
biofuels; filiere produttive sempre più lunghe e dominate dai supermercati. E' questo lo
scenario attuale della produzione alimentare mondiale, in cui la catena produttiva ha
come punto d'arrivo il supermercato, principale fonte di approvvigionamento nei grandi
centri urbani mondiali.
91
3 Il consumo di cibo
1 Il mondo dei supermercati
Il regime alimentare attuale, basato sul predominio delle multinazionali e del capitale
finanziario, si caratterizza anche per il fondamentale ruolo giocato dai supermercati
all'interno della catena di distribuzione alimentare mondiale. Se dal lato produttivo si è
potuta osservare una concentrazione di buona parte del cibo mondiale nel Sud del
Mondo, a livello dei consumatori - oltre alle difficoltà di accesso al cibo che sfociano
nel consumo di cibo spazzatura - la quasi totalità del cibo consumato proviene dai
supermercati; la lunga filiera alimentare che parte da campi de-localizzati e culmina
infatti negli scaffali sempre colmi dei centri commerciali. Nei normali supermercati di
tutto il mondo si possono trovare nell'era attuale migliaia di prodotti, dando così
l'impressione di una scelta d'acquisto potenzialmente infinita. Questa tendenza si è
potuta osservare sin dal secondo regime alimentare, relativamente alle zone più ricche
del pianeta; la crescita del potere esercitato da questi soggetti è cresciuta nell'arco
dell'ultimo trentennio, giungendo negli ultimi venti anni anche nei paesi in via di
sviluppo [Reardon and Gulati, 2008], come nei territori africani [Weatherspoon and
Reardon, 2003], dell'America latina e dell'Asia [Reardon et all. 2003], e nel territorio
australiano [Smith, Lawrence and Richards, 2010].
Una parte fondamentale del Terzo regime alimentare che ha aumentato il processo di
incorporazione di nuove terre è proprio il consolidamento della catena produttiva
attraverso una 'rivoluzione dei supermercati' [Reardon et all. 2003; McMichael, 2009b],
in grado di offrire a clienti privilegiati, frutta e verdura fresca e pesce e carne, tutti i
giorni dell'anno. Il regime 'verde e pulito', basato su elementi di freschezza e naturalezza
[Burch and Lawrence, 2009], si è così stabilizzato a livello globale con la spinta dei
supermercati assieme al business privato, alla finanza, ai fondi d'investimento [Burch
and Lawrence, 2009].
92
La presenza di una simile forza commerciale ha nel lungo periodo annichilito la
piccola distribuzione, a partire dalle regioni più sviluppate del pianeta. Attualmente nei
supermercati di tutto il mondo si possono trovare in media circa 70 mila prodotti di
qualsiasi genere [Kenner, 2009]. L'ampia possibilità di scelta tuttavia è solo apparente:
la nascita di multinazionali sempre più grosse ha infatti portato al controllo del mercato
alimentare da parte di poche e potenti aziende multinazionali.
L'aumento dell'influenza del capitale finanziario nel sistema agroalimentare del terzo
regime pertanto ha creato nuove possibilità di guadagno per i fondi d'investimento ed
una lunga situazione benevola per le compagnie agroalimentari, il commercio
internazionale di commodity e le catene di supermercati. Queste ultime ad esempio
stanno cambiando la propria filosofia imprenditoriale, passando da semplici rivenditori,
a centri di accumulazione di capitale [Burch and Lawrence, 2009]. I ripetuti tentativi
andati a buon fine di acquisizione di piccole-medie industrie da parte delle
multinazionali alimentari (incluso la grande distribuzione) hanno portato a
un'esponenziale espansione: dal sistema distributivo, i supermercati hanno infatti esteso
il proprio controllo sulla produzione, sul sistema lavorativo, su quello bancario e
assicurativo. Oltre alla domanda alimentare infatti, i supermercati hanno negli anni
ampliato la propria gamma di prodotti, arrivando persino alla vendita di benzina, alla
creazione di banche e compagnie assicurative [Burch and Lawrence, 2009]. Stando così
le cose, a partire dagli anni '80 l'intera produzione mondiale di cibo ha iniziato a
stringersi sempre più attorno ai soggetti sopra elencati, producendo ovviamente squilibri
in relazione alla produzione e al consumo locale di cibo e diete tradizionali. Il cibo, che
dai centri produttivi, nelle periferie e nel Sud del Mondo, arriva ai consumatori,
attraversa una catena produttiva e distributiva decisamente lunga, che incide
negativamente sugli agricoltori, sul clima, sulla qualità del cibo e sul prezzo [Weber and
Matthews, 2007]. La rivoluzione dei supermercati annulla la stagionalità dei prodotti
che possono essere importati da aree remote rispetto al punto di vendita: ai consumatori
viene così data la possibilità, o l'illusione, di poter disporre costantemente di prodotti
stagionali. La ricerca scientifica, combinata alla distribuzione dei supermercati hanno
apportato più modifiche al sistema alimentare negli ultimi 50 anni che in tutta la storia
umana [Kenner, 2009].
93
I consumi mondiali passano sempre più dalla quantità alimentare disponibile nei
supermercati, e sempre meno dalla piccola distribuzione, aumentando così i profitti di
grandi multinazionali sempre più potenti nel panorama alimentare mondiale, a scapito
appunto degli agricoltori, costretti in molti casi ad abbandonare le campagne per
trasferirsi ai bordi di città sempre più affollate e degradate [McMichael, 2009b].
L'accumulazione per espropriazione descritta da McMichael [2005; 2009], rappresenta
efficacemente la relazione che, a partire dalle liberalizzazioni economiche e finanziarie,
si è instaurata tra gli ingranaggi della filiera, il mondo contadino e le grandi ditte
industriali e distributive e il capitale finanziario. Il consumo di certi o altri cibi, o di
marchi alimentari, condiziona le sorti di filiere alimentari che nella quasi totalità dei casi
sconfinano oltreoceano. il passaggio della governance alimentare verso il capitale
finanziario e i supermercati espone i coltivatori ai rischi del mercato mondiale. La
costante necessità di abbassare o mantenere costanti i prezzi, a fronte di un aumento
produttivo e per orizzonti sempre più ampi, costituisce una barriera insuperabile per le
piccole imprese agricole: il risultato è una de-contadinizzazione dei terreni, con masse
di disoccupati verso i centri urbani, avvantaggiando il business agroalimentare delle
grandi multinazionali [Friedman, 2009; McMichael, 2009, 2009b]
A comprare e commerciare, in condizioni di predominio [Kenner, 2009] dagli
agricoltori sono imprese multinazionali e catene di distribuzione come Monsanto,
Nestlè, Kraft, Coca-Cola, Pepsi, Carrefour, Tesco, Wal-Mart: un dato interessante è ad
esempio la percentuale del trasporto e del commercio di grano, circa il 60%, spartito fra
quattro società: Cargill, Cenex Harvest Satets, ADM e General Mills; l'82%
dell'esportazione di cereali è suddiviso tra Cargill, ADM e Zen Noh. A livello globale,
l'aumento delle vendite delle grandi catene di distribuzione, contemporaneamente alla
crisi finanziaria - che ha interessato ed interessa specialmente le piccole-medie imprese
agricole e non - ha portato alla spartizione del volume globale da parte di una manciata
di competitors: Wal-Mart (USA), Tesco (UK), Ahold (Paesi Bassi), Carrefour (Francia),
Metro AG (Germania) [Meregalli 2003; McMichael 2009; Weatherspoon and Reardon,
2003].
Il numero ridotto di grandi compagnie in grado di dominare ogni passaggio della
catena di produzione agroalimentare significa che queste società possono esercitare una
grossa pressione sia per sostenere i loro prezzi di vendita, sia in senso opposto, per
94
mantenere bassi i prezzi dei prodotti agricoli che acquistano. Il potere esercitato dai
supermercati, con la liberalizzazione dei mercati, si è pertanto ampliato, aggiungendo al
controllo della distribuzione e all'ampliamento dei punti vendita nei centri, la pressione
esercitata sui centri produttivi del Sud: in questo senso la riduzione di soggetti lungo la
catena, inclusi gli agricoltori stessi, costituisce un punto fondamentale per il potere dei
supermercati [McMichael, 2009; Burch and Lawrence, 2009].
La continua ricerca da parte dei consumatori di prodotti freschi, salutari, a prezzi
contenuti e di varia natura, trova infatti nella maestosità dei centri commerciali il suo
naturale soddisfacimento. Carrefour, ad esempio, grazie alla continua espansione dei
propri punti vendita a partire dagli anni 70', è divenuto uno dei principali supermercati a
livello mondiale, operando attivamente in 34 paesi del mondo, con circa 15 mila punti
vendita e 15 mila dipendenti, e con un fatturato di circa 86 miliardi di Euro [Staertzel,
2011]. La possibilità di offrire generi alimentari a prezzi minori rispetto alla piccola
distribuzione locale, nonostante l'origine di essi si perda 'in nessun posto' - food from
nowhere [Bove and Dufour, 2001] - ha garantito nei paesi sviluppati di attirare
un'utenza via via più vasta, analogamente all'accumulazione di capitale [Reardon et all.
2003].
L'aumento dei consumi nei supermercati, a partire dagli anni '80 nei paesi
industrializzati, oltre a un miglioramento del tenore di vita è stato determinato anche
dall'ingresso nel mondo del lavoro delle donne, fatto che ha procurato un cambiamento
degli stili di vita delle famiglie occidentali, a cominciare dai consumi, specialmente nel
contesto delle diete alimentari [Reardon, Timmer and Berdegue, 2004]. La crescita
produttiva e di consumo di alimenti precotti ha interessato nel tempo un numero
crescente di consumatori, in seguito appunto alle modifiche del tessuto sociale avvenuto
nell'ultimo ventennio del XX secolo: oltre ai fast food infatti, il consumo alimentare si è
diretto verso cibi veloci da cucinare, a lunga conservazione, pronto all'uso, assieme a un
costante consumo di prodotti tradizionali. Anche le fasce dei consumatori hanno subito
delle modifiche. Rispetto al passato, adolescenti e single, ad esempio, sono divenuti
un'importante classe di consumatori; al pari di essi, anche i ritmi e i consumi familiari si
sono amplificati e trasformati, mantenendo però la ricerca di qualità, freschezza, bontà,
'naturalezza' del prodotto. Tali caratteristiche sono, secondo Le Heron [1993], Friedman
95
[2009] e Burch [2009] insite nell'attuale regime alimentare, peculiarità ineliminabili dal
contesto di finanza, mercato globale e grande distribuzione.
Se ciò è vero per i paesi sviluppati come dell'America settentrionale e in Europa, a
partire dagli anni '90 e in maniera più consistente nel nuovo millennio, l'espansione dei
supermercati e del capitale finanziario ha raggiunto anche i paesi del Terzo Mondo
[Weatherspoon and Reardon, 2003] e quelli in via di sviluppo come l'Australia [Smith,
Lawrence and Richards, 2010].
L'avvicinarsi alla saturazione dei mercati settentrionali negli anni '90, ha espanso gli
orizzonti capitalisti verso territori fino a quel punto considerati come semplici pedine
dello scacchiere produttivo mondiale, come l'America Latina o la Cina, o il Sudest
Asiatico.
Ciò non significa affatto che l'afflusso economico dei supermercati sia in
diminuzione, anzi; la concentrazione di supermercati è infatti aumentata anche negli
Stati Uniti e nell'Unione Europa, giungendo agli attuali livelli quasi monopolistici. In
Austria, la concentrazione dei principali cinque supermercati (CR5) nel 2006 era circa
del 74,2%, in Belgio del 77%, in Danimarca del 80,7%, in Finlandia del 90%, in Francia
e Germania del 70%, in Irlanda del 81%, in Spagna del 65,2% [Vander Stichele and
Young, 2009]. In questo scenario, soltanto in Italia (35%), Grecia (46,4%), Lettonia
(32,6%), Polonia (21%), Romania (19,2%), Slovacchia (36,4%) i primi cinque
supermercati non superano il 50% dei consumo interni. Tali cifre espongono
inconfutabilmente la massiccia concentrazione dei supermercati all'interno dei territori
nazionali. L'indice Herfindhal-Hirschman permette di comprendere la diffusione
macroscopica dei supermercati in relazione al territorio; quest'indice di concentrazione
si calcola sommando tutti i supermercati presenti sul territorio per ciascuna marca
[Domina, 2009] e ha come valore massimo 10000 che indica situazioni di monopolio e
valore di concentrazione medio-bassa fino a 1000 e medio-alta da 1800. Nel Regno
Unito l'HHI dei primi quattro supermercati (CR4) da 846 nel 2002 è passato a 1309 nel
2007, in Estonia nel 2005 era di circa 1400 punti, mentre in Lituania nel 2005 superava
i 1900 punti [Vander Stichele and Young, 2009].
Queste cifre contribuiscono all'analisi dell'incessante accumulazione di capitale dei
supermercati che a partire dall'ultimo decennio circa del secolo scorso ha inoltre
ampliato i propri interessi nei territori del Sud del Mondo.
96
2 I supermercati nell'America Latina
La saturazione dei principali mercati europei ha portato negli anni '90 alla
'rivoluzione dei supermercati' nei paesi in via di sviluppo come gli stati dell'America
meridionale; in altre parole, la stabilizzazione dei profitti nei mercati europeo,
giapponese e statunitense ha portato a rivedere le strategie, indicando nei paesi in via di
sviluppo la nuova espansione economica. Basti pensare che, negli anni '90, l'apertura
verso il mercato argentino permise a Carrefour di guadagnare il triplo rispetto ai profitti
in terra francese [Reardon, Timmer and Berdegue, 2004]. Tale espansione fu possibile
grazie alle liberalizzazioni del neoliberismo e dei conseguenti Investimenti Diretti
all'Estero (FDI), a partire dal 1994 in Messico, Brasile e Argentina. La centralizzazione
delle catene alimentari a favore dei supermercati permette a questi ultimi di ridurre
sensibilmente i costi, spostandoli sulle industrie agricole e sulle piccole-medie imprese;
l'abbattimento dei costi permette, logicamente, di disporre di maggiori profitti,
riutilizzabili come investimenti per nuovi punti vendita [Reardon, Timmer and
Berdegue, 2004].
L'esplosione dei supermercati nell'America Latina ha guidato lo sviluppo e la crescita
dei vari componenti dei supermercati nel commercio alimentare [Reardon, Timmer and
Berdegue, 2005]. Negli anni '80 i supermercati erano pochi, nazionali e mediamente per
le classi agiate delle grandi città, ma nel decennio successivo l'apporto alle vendite
nazionali del settore alimentare crebbe fino al 20%, arrivando fino al 50-60% negli anni
2000, vicino alle percentuali di Usa e Francia, del 70-80% [Reardon, Timmer and
Berdegue, 2004]. In Brasile si trova la più alta percentuale di vendita al dettaglio
occupata dai supermercati di tutta l'America Latina, seguito da Argentina, Cile, Costa
Rica, Colombia e Messico. Questi paesi costituiscono il traino dello sviluppo
economico dell'America Latina e rappresentano l'85% dell'economia totale
sudamericana, nonché il 75% della popolazione.
A livello di consumo, in America Latina la vendita di prodotti alimentari comprende
quattro gruppi [Reardon and Berdegué, 2002]. Il primo è costituito dalla presenza di
numerosi e piccoli negozi indipendenti, o dai chioschi lungo le strade, in cui è possibile
trovare alimenti specifici come alcuni tipi di pesce o carne, o la maggior dei parte dei
prodotti consumati abitualmente. Nel secondo gruppo rientrano i 'mercati tradizionali' al
97
coperto o nelle piazze, in cui vendita al dettaglio e all'ingrosso si intervallano
costantemente. Il terzo gruppo è composto da piccoli negozi self-service, inseriti nella
catena alimentare internazionale e con prodotti industriali da 'hard discount'. L'ultimo
gruppo è composto dai grandi centri self-service, supermercati e ipermercati, di gran
lunga il più importante con una percentuale del cibo venduto al dettaglio tra il 45% e il
75%, a seconda degli stati. Il Brasile è lo stato con la percentuale di vendita alimentare
dei supermercati più alta dell'America Latina, circa il 75%, seguito dall'Argentina col
57%. Brasile, Argentina, Messico, Costa Rica, Cile e Messico, come detto,
costituiscono i paesi 'guida' del Sud America: infatti, i restanti paesi, oltre a
rappresentare circa il 25% della popolazione sudamericana, costituisce solo il 15%
dell'economia sudamericana; per quanto riguarda i supermercati, in questi stati la
percentuale di food retail dei grandi magazzini è del 20-40%, segno di una distribuzione
alimentare non del tutto inserita nel contesto di produzione e consumo globalizzati.
La tabella qui sotto riassume la percentuale occupata dai supermercati nella vendita
alimentare al dettaglio [Reardon and Berdegué, 2002].
Popolazione in
milioni
Reddito
Pro Capite
% della vendita al
dettaglio dei
supermarket
Supermercati per
milione di persone
Argentina 37 7.5 57 1306Messico 98 5.1 45 1026Cile 15 4.6 50 654Costa Rica 4 3.8 50 221Brasile 170 3.6 75 5258Panama 3 3.3 54 110ElSalvador 6 2.0 36 138Colombia 42 2.0 38 1200Guatemala 11 1.7 35 128Ecuador 13 1.2 n.d. 120Honduras 6 0.9 42 37Nicaragua 5 0.4 n.d. 40
Come si può osservare in Brasile, Argentina, Messico, Colombia e Cile la presenza
dei supermercati è di gran lunga superiore al resto dell'America Latina: nei paesi citati,
accanto all'espansione della grande distribuzione, si è assistito a una drastica
98
diminuzione dei mercati stradali, principalmente di frutta e verdura [Reardon and
Berdegué, 2002].
Tra i vari fattori che hanno portato alla rapida diffusione dei supermercati in America
Latina, almeno tre sono di assoluta importanza: in primo luogo il settore dei
supermercati è di proprietà sempre più straniera, in seguito alle liberalizzazioni
neoliberiste, come gli FDI. I gruppi multinazionali in America del Sud costituiscono
infatti il 70-80% della catena dei primi cinque supermercati: in questo scenario si può
osservare il peso delle multinazionali all'interno della catena produttiva alimentare
mondiale. Wal-Mart, ad esempio, nel 2002 investì circa 600 milioni di dollari per la
costruzione di nuovi punti vendita in Messico, con l'obiettivo di imporsi nel mercato
nazionale. La rapida concentrazione dei supermercati, al posto di chioschi privati,
mercati, e piccoli negozi indipendenti rappresenta il secondo motivo di tale espansione:
in Messico, per la spesa alimentare quotidiana, si calcola che circa il 30% appartenga di
Wal-Mart; percentuali simili si verificano in Costa Rica con l'olandese Ahold e in
Argentina con Carrefour. In terzo luogo i supermercati hanno cessato di essere nicchie
di consumo alimentare esclusivamente destinate alle classi ricche: in Cile, ad esempio,
all'inizio del nuovo millennio si osservava già una ricca concentrazione di supermercati
e ipermercati nel 40% delle piccole e medie città [Reardon and Berdegué, 2002].
L'espansione dei supermercati ha comportato in America Latina, ma anche altrove,
effetti sulla produzione agroalimentare, non solo sul lato dei consumatori: la costante
competizione tra le varie catene per l'acquisizione di clientele sempre più vaste, si
compone di un'incessante ricerca ad abbassare i prezzi alimentari, attraverso
promozioni, fidelizzazioni dei clienti, sconti. In questo modo i prodotti delle piccole
imprese rischiano di venir tagliati fuori dal mercato, o di esser limitati a nicchie e classi
sociali economicamente privilegiate, e in qualche modo attente all'ambiente. Per gli
agricoltori le uniche soluzioni diventano quindi produrre per la catena dei supermercati
[Reardon and Berdegué, 2002], o abbandonare le campagne [McMichael, 2009, 2009b].
La sproporzionata offerta dei supermercati, rispetto a negozi alimentari privati o
indipendenti, rappresenta infatti un avversario insuperabile per i piccoli coltivatori; in
un supermercato vi si possono trovare pomodori provenienti dal Messico, arance del
Sud Africa, vino e uva cilena, gamberi tailandesi, o formaggio della Nuova Zelanda
[Weis, 2007], a prezzi inavvicinabili per l'offerta della piccola distribuzione.
99
Ovviamente la situazione descritta non è limitata all'America Latina: al di là dei
consumatori del Nord del mondo, abituati fin dalla metà del secolo scorso a comprare
nei supermercati prodotti industriali o alimentari fabbricati altrove, il panorama
descritto si è esteso all'intero globo.
3 La situazione cinese
La recente espansione cinese, testimoniato dallo sviluppo industriale, commerciale,
finanziario e politico, oltre a essere materia di dibattito negli ambienti accademici sul
possibile ruolo egemonico, si può osservare anche dall'aumento degli investimenti
all'estero delle compagnie cinese, nonché di una 'supermarketizzazione' per opera delle
principali catene di supermercati. Questa espansione va contestualizzata rispetto alla
rapida ascesa dell'economia e della politica cinese, successivamente alla dittatura
comunista. La Cina infatti costituisce attualmente la sesta economia planetaria con un
PIL di circa 3.2 miliardi di dollari nel 2007 [The Economist, 2008], con una crescita
annua che dal 1989 oscilla dal 3.80% al 14.20% [Trading Economics, 2014; Jones,
2004]. Nel 1994 la Cina contava circa 2500 supermarket, 21000 nel 1998 e 40500 nel
2001; contestualmente, tale espansione ha portato a un aumento della percentuale di
vendita al dettaglio dei supermercati, dallo 0,18% del 1994, al 8,2% del 2001. Tale
trasformazione, in corso nei paesi in via di sviluppo e già avvenuta in quelli avanzati
rappresenta un cambiamento delle tradizionali forme di produzione, distribuzione,
vendita e consumo locali [Gale and Reardon, 2005].
Carrefour, uno dei principali attori di queste trasformazioni socio-economiche, a
partire dal nuovo millennio ha aumentato considerevolmente gli investimenti e i
supermercati nel territorio cinese [Staeltzer, 2011]. Con l'apertura del primo
supermercato a Taiwan nel 1989, il colosso francese ha stabilmente aumentato gli
investimenti nel continente asiatico: nel 1994 è entrato nel mercato malaysiano, mentre
un anno dopo apre il primo store in Cina. L'espansione in Asia continua nel 1996 con
100
l'ingresso nei mercati tailandese, Corea del Sud e Hong Kong, mentre nel 2007 celebra
l'apertura del centesimo supermercato in Cina [Staeltzer, 2011].
Carrefour non è l'unico marchio presente: anche altre catene di supermercati come la
statunitense Wal-Mart, la britannica Tesco e la tedesca Metro sono molto attive
all'interno del mercato cinese e asiatico in generale. Con l'ingresso della Cina nel WTO
del 2001, gli investimenti stranieri sono considerevolmente aumentati, in relazione ai
bassi costi produttivi e all'ampia base demografica. La competizione tra supermercati
per l'espansione e il controllo delle catene produttive è pertanto diventata una costante
anche nello scenario cinese, con i supermercati attenti anche ad altri settori, come quello
tecnologico, una delle forze trainanti l'economia cinese. In questo senso Wal-Mart ha
aumentato negli anni la partecipazione nell'azienda di e-commerce Yihaodian, nata nel
2008; Wal-Mart è passata infatti dall'iniziale 30% [Xu L. Xu Q. and Liu X. 2014]
all'attuale 51%, divenendone così il proprietario [Wal-Mart, 2012]. Grazie a tale
investimento, il colosso statunitense ha così potuto espandere il proprio raggio d'azione
anche nell'e-commerce; in Cina nel 2012, circa 270 milioni di consumatori hanno
acquistato prodotti online, principalmente da Yihaodian, che ha chiuso l'anno con un
fatturato di circa 1.9 miliardi di dollari [Millward, 2014].
L'ingresso di Wal-Mart nel mercato cinese risale al 1996 con il supermercato di Shen
Zhen: da allora il colosso statunitense ha accresciuto il numero di store, diversificando
l'offerta, dai negozi di shopping ai discount [Xu, Xu, and Liu, 2014]. nel febbraio 2013,
Wal-Mart contava circa 390 punti vendita in oltre 150 città cinesi. Le strategie di
marketing dei principali supermercati hanno dovuto subire alcune modifiche: Wal-Mart,
ad esempio, per meglio aderire al tessuto socio-culturale e alimentare cinese ha stabilito
relazioni di cooperazione con oltre ventimila fornitori, con il 95% dei prodotti venduti
di estrazione locale. La politica interna di Wal-Mart China inoltre, si caratterizza per
una forte attenzione allo sviluppo e alla formazione di impiegate e personale nazionali:
Wal-Mart China infatti è composto al 99.9% da personale cinese, dai General Manager
ai dipendenti, con una presenza femminile del 43%. Tale scelta rappresenta l'intenzione
di mantenere un certo rapporto con i lavoratori locali [Xu, Xu and Liu, 2014]. A livello
dei consumatori le strategie di Wal-Mart riguardano in primo luogo la possibilità di
offrire una gamma il più ampia possibile di prodotti, a prezzi contenuti, possibile grazie
all'instaurazione di relazioni con i fornitori, superando così i vari passaggi intermedi tra
101
produzione e vendita che determinano una lievitazione dei costi finali, a carico dei
consumatori [Xu, Xu and Liu, 2014]. I rapporti con i fornitori risultano pertanto
essenziali per Wal-Mart, più che per altri marchi, per la scelta di non passare da
intermediari. Tale gestione, assieme alla vendita online, ha permesso a Wal-Mart di
comprimere sensibilmente i costi, riuscendo così nell'intento di mantenere bassi i prezzi
per i consumatori.
L'ingresso di Carrefour nel mercato cinese risale al 1995, un anno precedente a
quello di Wal-Mart è di un anno precedente, nel 1995 con gli ipermercati di Shangai e
Pechino. Per più di un decennio il marchio francese ha dominato il mercato della grande
distribuzione, venendo eletto nel 2004 dai media cinesi come la 'più influente impresa in
Cina' [Xu, Xu and Liu, 2014]. La politica di Carrefour è sempre stata quella di
assicurare i principali alimenti a prezzi bassi, in grado di attrarre una parte
considerevole dei consumi alimentari di massa. In questo modo le scelte di Carrefour
riguardano, in Cina, la vendita di prodotti locali riducendo così i costi di distribuzione e
di trasporto: circa il 95% dei prodotti venduti nei circa 15 mila punti vendita risulta
infatti essere di origine locale [Staeltzer, 2011]. Un altro metodo per il mantenimento
dei prezzi è stato quello di introdurre prodotti con il proprio marchio, che garantiscono
un cospicuo ritorno di profitti [Staeltzer, 2011; Xu, Xu and Liu, 2014]. La vendita di
prodotti monomarca è stata infatti introdotta per primo da Carrefour e in seguito
adottata da quasi tutte le altre catene di supermercati: i private label permettono infatti
di contrarre i costi di produzione e di distribuzione, generando così un successivo taglio
dei prezzi finali per i consumatori. Per la scelta di posizionamento dei supermercati
Carrefour ha deciso di insediare i propri punti vendita nelle aree di maggior densità
demografica, rappresentando i consumi quotidiani delle persone, in primis nelle aree
metropolitane. All'interno delle grandi città, circa 250 con più di un milione di abitanti
la competizione tra supermercati non si limita a Carrefour e Wal-Mart; oltre ai vari
negozi controllati direttamente da questi colossi (Champion, Dia, Gs, Ed, Minipreço,
ecc...), anche Tesco, la terza catena di supermercati più grande al mondo, è entrata nel
business cinese [Witthoeft, 2008]. Nel 2004, dopo anni di analisi del mercato cinese,
Tesco ha acquisito il 50% delle quote di Ting Hsin, una catena di supermercati
taiwanese, portando le proprie quote al 90% nel 2006 [Tesco PLC, 2008]. Da allora,
Tesco ha introdotto nel territorio cinese 58 ipermercati e 4 Tesco Express lungo la costa
102
orientale dello stato, progettando per i prossimi anni l'introduzione di altri punti vendita,
principalmente nelle grandi città come Shangai, Pechino e Shenzhen/Guangzhou
[Witthoeft, 2008].
Al di là dei marchi e delle peculiarità di ciascuna catena, è indubbio che anche in
Cina come in America Latina è in atto una supermarketizzazione della produzione e del
consumo alimentare, già attiva dalla seconda metà degli anni '90, ma in maniera ancor
più evidente a partire dall'ingresso nel WTO nel 2001 e con la conseguente
concentrazione degli Investimenti Diretti all'Estero (FDI). Questa tendenza, osservabile
in tutto il mondo, si intensifica in relazione alla proliferazione dei prodotti con il
marchio dei supermercati, che impongono un aumento dei controlli all'interno della
filiera dominata dal supermercato stesso. Il varo di queste linee produttive ha permesso
ai supermercati da un lato di contenere i costi, dall'altro di aumentare i profitti. In questo
senso il supermercato non ricopre solo le funzioni di produzione e trasporto, ma anche
di consumo, presentandosi ai consumatori come un'autorità in termini di sicurezza e
qualità alimentare, parametri fondamentali per le preferenze e le scelte dei consumatori
[Burch and Lawrence, 2005].
4 La crescita dei supermercati in Africa
L'urbanizzazione massiccia costituisce uno dei punti di forza per l'espansione dei
supermercati: nelle regioni più sviluppate del pianeta ciò si è verificato a metà del
secondo Novecento, parallelamente all'aumento della produzione alimentare e dei salari.
La rapida ascesa dei supermercati in Africa è stata possibile, anche qui,
dall'urbanizzazione e dall'ascesa della classe media, in paesi come Kenya e Sud Africa,
ma le dinamiche espansive vanno ben al di là di queste variabili: col passare degli anni
infatti le varie catene distributive come Carrefour hanno diversificato i propri punti
vendita, dai discount agli ipermercati di lusso, con l'intento di attrarre (potenzialmente)
l'utenza totale. Carrefour, ad esempio, ha suddiviso i propri punti vendita in:
ipermercati, supermercati, hard discount stores, convenience stores, Cash and Carry ed
103
E-commerce [Staertzel, 2011]. In Africa, l'adozione di tali strategie ha portato alla
nascita di punti vendita nelle periferie delle megalopoli e delle città africane, lontani dai
lussuosi centri commerciali occidentali, e più simili a discount, per le grandi masse
urbane [Weatherspoon and Reardon, 2003].
L'urbanizzazione non è l'unico fattore influente nella dinamica espansiva dei
supermercati: dal lato economico e politico, la rapida ascesa è stata agevolata dai
Investimenti Diretti all'Estero, una forma di internazionalizzazione delle imprese,
favorevoli soprattutto alle multinazionali 'settentrionali' che amplificarono così i propri
investimenti nelle regioni africane. E' stato così in Sud Africa e in Kenya, in seconda
battuta in Zimbabwe, Zambia, Namibia, Botswana, Swaziland e recentemente in Nigeria
e nella Repubblica Democratica del Congo [Weatherspoon and Reardon, 2003].
In Sud Africa, la vendita di cibo è divisa tra quella formale e quella informale
(ambulanti, piccole botteghe), quest'ultima confinata nelle baraccopoli delle città. A
livello di vendita formale, si calcola che in Sud Africa ci siano circa 70 mila negozi tra
supermercati e ipermercati (2%, con il controllo di più del 55% del settore alimentare
formale), discount (5% , con circa il 10% del commercio formale), piccoli negozi
(25%), self service (62% per circa il 19% del volume di affari) [Weatherspoon and
Reardon, 2003]. Come si può osservare, la grande distribuzione detiene più della metà
del giro di affari legato al cibo, con 39.5 supermercati per ogni milione di persone, in un
paese con 43 milioni di persone e un reddito per persona di circa 3 mila dollari al mese
ma fortemente diseguale, con circa il 35% della popolazione con un guadagno inferiore
ai 2 euro al giorno e circa l'11% che guadagna meno di 1 euro [Weatherspoon and
Reardon, 2003]. Nelle stime fatte sul finire del XX secolo, si prospettò una crescita del
volume di affari nella catena alimentare formale superiore ai 6 miliardi di dollari nel
2002, una percentuale di crescita superiore persino, nelle previsioni, a quella del Brasile
e dell'Argentina negli anni '90 [Reardon and Berdegué, 2002].
Diffusisi negli anni '90 ma esplosi soltanto a partire dall'ultimo decennio, il settore
dei supermercati sudafricano si è consolidato attorno a quattro competitors principali:
Shoprite/Checkers, Pick' N' Pay, Spar e Woolwoths. I primi due rappresentano circa
l'80% del traffico totale, con gli ultimi due a spartirsi il restante 20%; alcuni di questi,
come Pick' N' Pay (PnP) hanno inoltre installato, lungo le vie di trasporto e nelle zone
più povere del paese, una serie di minimarket economici, discount, e negozi in
104
franchising, caratterizzati da merci non selezionate a prezzi bassi, garantendo in questo
modo un ulteriore aumento dei profitti [Weatherspoon and Reardon, 2003].
Shoprite rappresenta il più grande rivenditore alimentare del Sud Africa: nato nel
1979, con 8 punti vendita e con un valore economico di circa 10 milioni di rand (circa
700 mila euro), attualmente serve più di 39 milioni di clienti, con un fatturato di circa 22
miliardi di rand (circa 1 miliardo e mezzo di euro). L'azienda dispone di 400
supermercati Shoprite, 180 supermercati Checkers, 31 ipermercati, 266 'U Save', 255
OK forniture, 23 OK Express, 45 negozi di casalinghi e 124 fast-food 'Hungry Lion'
[Shoprite, 2014]. La forza espansiva del gruppo si può osservare anche al di fuori dei
confini nazionali: Shoprite infatti ha introdotto i propri punti vendita in Ghana, Nigeria,
Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Angola, Zambia, Namibia, Botswana,
Malawi, Mozambico e Madagascar [Shoprite, 2014], grazie anche ai meccanismi
d'Investimento Diretto all'Estero (FDI) [Weatherspoon and Reardon, 2003].
Il secondo colosso della distribuzione sudafricana è Pick' N' Pay, in costante
competizione con Shoprite per i mercati africani e con Metcash e Woolworths nel
mercato australiano [Weatherspoon and Reardon, 2003]. Nato nel 1968 e con 140 punti
vendita nel 1993, nel 2003 contava 342 supermercati in Sud Africa, 471 nel resto del
continente e 70 in Australia, con un fatturato circa di 18,8 miliardi di rand (circa 1
miliardo e 300 mila euro) [Weatherspoon and Reardon, 2003]. Attualmente l'azienda è
composta da circa 10 mila dipendenti nei vari punti vendita sparsi per il mondo, con un
volume di affari di circa 50 miliardi di rand. In Sud Africa PnP ha adottato numerose
strategie di franchising: nel 2003 la catena di supermercati possedeva 88 'Family
Franchise Supermarkets' e 94 'Score Supermarket'. Il sistema del franchising
rappresenta una modalità efficace per l'accumulazione di capitale, in quanto permette di
ampliare in maniera capillare il proprio raggio d'azione su territori sempre più vasti.
Shoprite e Pick' N' Pay tuttavia non sono gli unici supermercati nel contesto africano:
accanto ad essi infatti un ruolo importante è occupato da Spar, catena di supermercati di
origine olandese ma attiva in molti paesi del mondo, e nel continente africano in Sud
Africa, Namibia, Mozambico e Botswana. Spar è presente in Sud Africa sin dal 1962, e
come Shoprite e PnP anch'essa presenta una vasta gamma di supermercati: 305
SuperSpar, 432 Spar, 136 KwikSpar, 28 SaveMor, 582 Tops, 298 Build it, 36 farmacie,
sparse per lo stato africano [Spar, 2013]. Accanto a Spar, Metro e Woolworths si
105
spartiscono la fetta restante del volume di affari attorno alla distribuzione alimentare
sudafricana.
Al pari del Sud Africa anche il Kenya vive la stessa situazione, con una
concentrazione di supermercati soprattutto a Nairobi, città con circa 2,5 milioni di
abitanti e 34 supermercati, 10 ipermercati e centinaia di piccoli negozi e supermercati
indipendenti [Weatherspoon and Reardon, 2003]. Anche qui, come in Sud Africa, i
grandi marchi hanno iniziato a introdurre punti vendita come i discount all'interno delle
periferie delle città, con generi alimentari di scarsa qualità ed economici, per i lavoratori
con salari minimi o insufficienti. I principali supermercati kenioti sono: Uchumi,
Nakumatt, Tusker Mattressess e Ukwala Group, oltre alle straniere Metro Cash e
Wollsworths: il rapido sviluppo di questi gruppi commerciali ha portato a successive
espansioni oltre i confini statali, come Uchimi e Nakumatt in Tanzania ed Uganda
[Weatherspoon and Reardon, 2003]. La situazione descritta si verifica anche in
Tanzania, in Nigeria, nella Repubblica Democratica del Congo e in altri stati africani,
con le medesime strategie di espansione e accumulazione di capitale, a scapito del
settore agricolo locale.
L'urbanizzazione, ha cambiato drasticamente la filiera e la produzione degli
agricoltori locali, sulla scia di quanto descritto da Braudel per le città del XV secolo
[1982, I, pp. 450-474]. All'interno di questo fenomeno sociale, l'introduzione e lo
sviluppo dei supermercati ha apportato drastici cambiamenti per la produzione agricola
e per la filiera: l'abbandono delle terre, l'aumento della concentrazione centri
commerciali e il passaggio da piccoli mercati rionali, con prodotti locali venduti
all'ingrosso e al dettaglio, a supermercati grandi e centralizzati, hanno prodotto, e
tutt'ora producono, un significativo cambiamento sia dal lato produttivo, sia dei
consumatori: a livello produttivo, la crescita dei supermercati ha portato a un parallelo
sviluppo di filiere controllate dai supermercati, e destinate unicamente ad essi. Accanto
a questa crescita si è assistito anche a quella degli intermediari come i grossisti,
impegnati a rifornire costantemente i supermercati e, pertanto, anch'essi alla ricerca dei
propri fornitori [Weatherspoon and Reardon, 2003].
Il settore agricolo locale è quindi divenuto negli ultimi 30 anni non una fonte di
sostentamento diretta e nazionale, ma il campo di battaglia per l'accumulazione di
profitto di una serie, sempre più ristretto, di lobby alimentari, fondi d'investimento,
106
banche, organizzazioni internazionali, e industrie energetiche [McMichael, 2009b]. E' in
questo senso che il concetto di regime alimentare non può essere limitato alla semplice
acquisizione di cibo, ma riguarda la dimensione storica, sociale, culturale, economica e
politica, oltreché alimentare.
Anche in Sud Africa, supermercati come Shoprite e PnP hanno dato vita a filiere
private: Shoprite, ad esempio, nel 2003 contava 360 Freshmark, centri di distribuzione,
stoccaggio alimentare e di vendita all'ingrosso, in Sud Africa, oltre ad altri Freshmark
nel continente africano; un centro di questo tipo serve infatti sia come fornitore dei
supermercati del paese, sia come venditore attorno alla propria area [Weatherspoon and
Reardon, 2003]. L'aumento di centri di distribuzione collocati in molti paesi africani ha
causato un drastico mutamento della produzione interna: Freshmark infatti lavora
attivamente con più di 450 agricoltori di grande-media grandezza [Shoprite, 2014b], con
la maggior parte dei raccolti destinata all'esportazione, principalmente verso l'Europa
[Weatherspoon and Reardon, 2003]. Il braccio distributivo e di reperimento di frutta e
verdura del gruppo Shoprite collabora con gli agricoltori di 11 paesi africani, con un
volume di frutta e verdura di circa 350 mila tonnellate nell'ultimo anno [Shoprite,
2014b]. Se da un lato Freshmark costituisce un apparato indipendente del gruppo,
dall'altro esso garantisce all'interno di Shoprite un importante centro distributivo da cui
attingere, un 'Fornitore Preferito' anche per altri gruppi di supermercati, come Carrefour,
Tesco e Wal-Mart in altre regioni [Weatherspoon and Reardon, 2003]. Il trascorrere del
tempo ha visto Freshmark, ma non solo, ampliare considerevolmente il proprio giro di
affari, arrivando a inglobare non solo le grandi e medie aziende agricole, ma anche i
piccoli agricoltori, organizzati con metodologie rudimentali e di sussistenza
[Weatherspoon and Reardon, 2003].
107
5 Accessibilità e fast food
Il settore alimentare è quello dove meglio si può osservare la tendenza
all'accumulazione di capitale, con un aumento della produzione di cibi economici, senza
una reale rivoluzione agricola [Moore, 2010b]; ciononostante le stime ufficiali (tra cui
quelle Fao), indicano circa un miliardo di persone che non ha accesso al cibo e il
numero non accenna alla diminuzione; anzi, sempre più persone vivono al di sotto della
povertà, quantificata in un dollaro al giorno [Weis, 2007].
Anzi, l'aumento dei prezzi - determinato da altri fattori come l'aumento dei terreni
destinati alle coltivazioni di biocombustibile [McMichael 2009], impennata dei
combustibili fossili [Foster 2009], ma non solo - rappresenta un trend costante,
specialmente in relazione alla crisi finanziaria del 2007-2008 [McMichael 2009].
I rapporti Fao del 2012 sulla disponibilità mondiale di cibo e sulla sua accessibilità
dichiarano che nel mondo circa 900 milioni di persone vivono in condizioni di
malnutrizione cronica [Fao, 2012], nonostante nel mondo venga prodotta una quantità di
cibo necessaria a sfamare una popolazione di dodici miliardi [Corriere della Sera, 2013].
Considerando per un momento i dati puramente numerici, la maggioranza delle persone
che soffrono la fame - circa 852 milioni - vive nei paesi in via di sviluppo, e rappresenta
il 15% della loro popolazione complessiva, mentre i restanti 16 milioni vivono nei paesi
sviluppati [Fao, 2012]. Indagini recenti stabiliscono in questo senso che la popolazione
mondiale necessiterà di una produzione maggiore del 70-100% attuale [Godfray, 2010,
Latouche, 2007].
L'accessibilità al cibo richiede una risposta in tempi rapidi, viste le previsioni future
che parlano di una popolazione mondiale di circa 9 miliardi nel 2050, la maggior parte
dei quali nei grandi centri urbani; secondo stime recenti si calcola che nel mondo una
persona su sette non abbia accesso alle risorse alimentari: tale accesso, nella quasi
totalità dei casi, non va considerato come assenza totale di cibo, o come
rappresentazione di un territorio particolarmente inospitale; al contrario, esso va
considerato come inaccessibilità economica, in quanto il cibo si trova sugli scaffali dei
supermercati, sempre più presenti anche nelle aree povere del pianeta [Weatherspoon e
Reardon, 2003]. La sostituzione del sostentamento locale con l'introduzione di catene di
supermercati (sia nei paesi sviluppati, sia in quelli in via di sviluppo) costituisce una
108
barriera economica al cibo: se da un lato l'enorme disponibilità alimentare dei
supermercati sembra facilitare le modalità di acquisto, di scelta e di conservazione,
dall'altro l'alta barriera economica alle fonti alimentari (in precedenza coltivate dagli
indigeni per sé stessi) rappresenta una voce molto importante per l'analisi delle stime di
indigenti e malnutriti. In passato, l'ingrossamento dei mercati e la disponibilità di
alimenti provenienti dal commercio (e dalle colonie) ha prodotto un generale
abbassamento dei prezzi a livello globale contribuendo a un maggiore accesso al cibo,
specialmente in relazione al consumo di grano, riso, mais, i principali elementi presenti
nelle macrodiete alimentari. La permeazione del capitale nel settore agroalimentare -
tradizionalmente più locale che internazionale - nel corso dell'ultimo secolo ha fatto sì
che le oscillazioni, o le crisi, di altri settori avessero un effetto evidente sui prezzi
alimentari: fu così infatti durante la crisi petrolifera degli anni 70' e per quella del 2008
[Godfray 2010], finanziaria e, sotto alcuni aspetti egemonica [Muzaffar 2012].
Solitamente l'espansione demografica e di domanda alimentare - generalmente in
seguito a guerre, epidemie o espansioni commerciali e territoriali - coincideva con un
aumento produttivo in seguito a rivoluzioni agricole: in tempi più recenti, ciò si è
verificato fino alla Rivoluzione Verde degli anni 70', in cui l'introduzione e aumento di
biotecnologie e prodotti chimici, assieme a un incessante privatizzazione del cibo e
della produzione alimentare [McMichael 2009], in primis da parte di multinazionali e
catene di distribuzione, ha prodotto un forte squilibrio nel consueto approvvigionamento
alimentare di molte popolazioni [Shiva 2010], non contribuendo all'aumento produttivo,
alla contrazione dei prezzi e alla sostenibilità ambientale ipotizzate alla vigilia [Moore,
2010]. L'ingrossamento delle catene di distribuzione che operano nei territori delle
periferie, così come altre multinazionali operanti nel settore agroalimentare hanno
prodotto una profonda spaccatura in termini di accessibilità alle fonti alimentari; in
seguito alla decolonizzazione degli anni 50', l'apertura dei nuovi mercati e la
deregulation degli anni 80' la proliferazione delle multinazionali ha rimosso i piccoli
agricoltori e le coltivazioni inerenti, influendo (molto spesso negativamente) sui sistemi
di sostentamento. L'espansionismo delle multinazionali e di monocolture, coltivate
attraverso l'ampio impiego di prodotti chimici, ha infatti imposto cambiamenti drastici
nel lavoro e nella produzione locale; la commistione tra andamento finanziario dei
prodotti agricoli e di altre risorse - come il petrolio -, all'interno di un mercato sempre
109
più globale e principalmente controllato da multinazionali e fondi d'investimento, ha
prodotto una agflation - una crescita dei prezzi delle principali commodity - in
corrispondenza di crisi economiche ed energetiche; in termini concreti, quest'inflazione
ha prodotto un raddoppiamento del prezzo del mais, del 70% per il riso e del 50% per il
grano nel 2007. [McMichael, 2009]. Dalla fine del 2007, l'indice dei prezzi alimentari,
secondo The Economist ha toccato il punto più alto dal 1845, con un aumento dei prezzi
del 75%, soltanto dal 2005 [McMichael, 2009]. L'aumento dei prezzi dei principali
generi alimentari come si è visto è legato saldamente agli andamenti di mercato nella
sua interezza: il picco dei prezzi del petrolio in questo senso ha pertanto immediate
conseguenze anche sull'accesso al cibo, divenuto più costoso e pertanto, non per tutti. In
termini numerici, nel biennio in questione, le persone al di sotto della sogna di
malnutrizione sono salite al 10% del totale [McMichael, 2009], cifra ancora in crescita
in relazione all'instabilità dei mercati e geopolitica globale; parallelamente sono
cresciuti i profitti delle industrie di semenze, di pesticidi, di distribuzione [Friedman,
2009; McMichael 2009] e delle catene alimentari di fast-food.
Relativamente all'accesso alimentare, un posto centrale è infatti occupato dalle catene
di fast-food che offrono cibo qualitativamente scadente a prezzi, nella maggior parte dei
casi, stracciati; l'economicità rappresenta uno dei principali vettori di scelta, per molte
situazioni in cui l'accesso ad altre fonti risulta impossibile o altamente proibitivo. In
questo senso, basta considerare la privatizzazione delle fonti idriche da parte di grandi
colossi della distribuzione come Cola Cola, Pepsi, Nestlè: in molti casi, come India e
Messico, l'espansione di tali soggetti - attraverso la privatizzazione dei pozzi, dei
terreni, lo sbarramento dei fiumi e la costruzione di dighe, ecc... - ha portato alla
dipendenza delle popolazioni locali dall'acqua in bottiglia [Shiva, 2010]. Il cibo non fa
differenza: la conquista dei principali mercati (USA, Europa, Giappone) prima, e
l'espansione verso le frontiere dei paesi in via di sviluppo e del Terzo Mondo poi - in
piena analogia con l'andamento capitalista di espansione delle frontiere [Arrighi, 1999;
Braudel, 1993; Foster, 2011; Katz, 1993; Moore, 2000, 2003, 2003b, 2013; Wallerstein
1976] - ha garantito alle catene di fast-food un progressivo dominio e indirizzamento
del consumo quotidiano di cibo in tutto il pianeta; secondo alcuni studi coordinati da
Roberto De Vogli, del Dipartimento di Salute Pubblica della California e pubblicati sul
110
Bulletin of The World Health Organization, l'indice delle frequentazioni dei fast-food5 è
aumentato dovunque, anche se con margini differenti: i paesi in cui si è registrato un
netto aumento sono il Canada (+16,6%), Australia (+14,7%), Irlanda (+12,3%), Nuova
Zelanda (+10,1%), mentre quelli in cui la crescita si è dimostrata minore sono l'Italia
(+1,5%), Olanda (+1,8%), Grecia (+1,9%) e Belgio (+2,1%). [Codignola, 2014]. Tale
studio parte da una premessa: le diete di intere popolazioni nazionali sono drasticamente
cambiate negli ultimi anni in risposta alla distribuzione di nuove categorie alimentari;
l'insorgere di grandi gruppi multinazionali del cibo ha portato ad ottimizzare i costi
produttivi, aumentando l'offerta di cibi ricchi di calorie, ma spesso deprecabili dal punti
di vista qualitativo e nutrizionale. [WHO, 2014]. Come dimostrano i dati, le grandi
catene di fast-food si stanno imponendo sulla scena alimentare mondiale, determinando
cambiamenti nelle diete e negli stili alimentari, specialmente tra gli adolescenti, ma non
solo, con evidenti rischi salutari [Powell, 2009].
L'aumento generale del consumo quotidiano di 'cibo spazzatura' (junk food) risulta,
nel XXI secolo, una pratica costante sempre più estesa: da circa vent'anni ormai l'ascesa
dei fast-food ha portato le principali catene alla creazione di punti vendita in tutto il
globo, con McDonald's, Pizza Hut, Burger King, Kfc e Subway nelle posizioni di
leadership. Per ottenere un'utenza sempre più vasta, McDonald's ha recentemente ideato
una nuova linea di prodotti, modellata in relazione al contesto di riferimento: in Italia,
ad esempio, gli hamburger sono disponibili con olio d'oliva, parmigiano e 'pancetta', al
posto del 'bacon'; in Australia viene servita con del pane la diffusa Vegemite, una crema
spalmabile, tradizionalmente diffusa a livello nazionale e commercializzata in maniera
predominante da Kraft; nei paesi dove vigono dottrine religiose che vietano il consumo
di carne bovina, McDonald's ha introdotto a base di pollo e pesce e pane non lievitato;
nei paesi asiatici le salse per i prodotti a base di pollo sono relazionate alle varie presenti
in quei territori. Anche la macellazione delle carni subisce trattamenti diversi a seconda
delle zone: in Indonesia e in Pakistan le macellazioni sono infatti certificate halal
[Daszkowski, 2010].
McDonald's come detto, non è l'unica grande catena; in Cina e Giappone ad esempio,
il principale fast-food di cultura americana risulta essere Kfc, in relazione al tradizionale
consumo di pollo, ampiamente presente nelle cucine asiatiche, rispetto alla carne bovina
5 L'indagine fa riferimento a un campione di 25 paesi.
111
[Daszkowski, 2010, Weis, 2007]. Anche Subway ha ampliato considerevolmente le aree
d'espansione e i profitti derivanti, raggiungendo il Nord America, l'Arabia Saudita e
l'India, così come le altre catene di fast-food, in un mercato sempre più ampio e
competitivo.
Il caso italiano di McDonald's, ma non solo, rappresenta il tentativo di rispondere ad
alcune fattori: l'aumento di una clientela che, in relazione alla crisi ha iniziato a
selezionare attentamente i prodotti e il consumo [BCFN, 2012] richiede pertanto una
maggiore sensibilizzazione del prodotto. Il tentativo di rispondere a una contrazione dei
costi di trasporto e dispersione di cibo attraverso una filiera, in alcuni ambiti, più corta
come la produzione di patate affidata, in parte all'italiana Pizzoli, e quella dei polli ad
Amadori [Finotti, 2014b]. Come sottolinea Il Sole 24 Ore, la filiera destinata al marchio
McDonald's in Italia subirà nel prossimo periodo una 'nazionalizzazione': "Pasta Barilla,
mele di Bolzano, carne del gruppo Cremonini, parmigiano Parmareggio, pane fatto a
Modena (dalla East Balt) con farina dei Grandi Molini Italiani ricavata per il 60% da
grano coltivato nella penisola. E poi caffè torrefatto a Milano (da Ottolina) e latte della
Centrale del latte di Brescia" [Finotti, 2014]. Se per le aziende citate l'ingresso nel
mondo McDonald's stabilisce una nuova partnership, non è così per Amadori, da tempo
partner del gruppo statunitense: "Per Amadori si tratterà quasi di raddoppiare la
commessa, passando da 5mila a oltre 9mila tonnellate annue di carne fornita a
McDonald's, che a quel punto diventerà uno dei tre principali clienti del gruppo
romagnolo, che ha chiuso il 2013 con un fatturato superiore a 1,3 miliardi (in crescita
del 4,7% rispetto al 2012). Quello che si profila è una sorta di passaggio di consegne
graduale da Cargill, attuale fornitore, ad Amadori" [Finotti, 2014b].
L'andamento attuale appena descritto mostra una crescita costante dei prodotti 'fast' a
livello nazionale, ma soprattutto internazionale: l'espansione che si è verificata negli
anni 80', a distanza di circa 30' anni mostra i segni del consumo eccessivo di tali
alimenti: malattie cardiovascolari, obesità, diabete, stress e disfunzioni psicofisiche,
sono tra le conseguenze più comuni in relazione al prolungato consumo del cibo dei
fast-food.
Nello studio pubblicato dalla World Health Organization in relazione all'aumento di
frequentazioni dei fast food si registra infatti una crescita dell'indice di massa corporea
(BMI) dei soggetti interessati che, se non controllato adeguatamente, può sfociare in
112
sovrappeso e obesità [WHO, 2013]: ciò è vero, in maniera preoccupante, specialmente
per le abitudini alimentari di adolescenti e giovani, sempre più 'fast' e sempre più obesi
[Powell 2009; Eurobarometer, 2006]. Studi dimostrano che il consumo consueto di
hamburger, sandwich, pizza, cibi precotti e di rapido accesso, possono provocare a
partire già dai trent'anni, l'iniziale occlusione dei vasi sanguigni, preparando il terreno a
futuri attacchi di cuore [Arya e Mishra, 2013]. L'obesità derivante dall'assunzione di cibo
malsano rappresenta una malattia endemica del nuovo millennio, pericolosamente in
crescita tra gli adolescenti in cui si registra parallelamente anche una diminuzione delle
attività sportive; la sedentarietà e l'iperconsumo di cibi qualitativamente scadenti
produce un aumento dei giovani sovrappeso o obesi, sia nei paesi sviluppati, sia in
quelli in via di sviluppo, che in epoca futura costituiranno una popolazione soggetta a
malattie, stressata, improduttiva [Arya e Mishra, 2013]. Non solo obesità quindi, e oltre a
quelle già citate, uno studio condotto dall'Università di Auckland, Nuova Zelanda, ha
messo in luce la relazione tra 'cibo fast' e la comparsa di allergie, asma ed eczemi: lo
studio ha coinvolto 181 mila bambini di età compresa tra i 6 ed i 7 anni e 319 mila
giovanissimi tra i 13 e i 14 anni. Gli esperti hanno potuto evidenziare un rischio più
elevato del 39% di incorrere in asma ed eczemi in quei giovanissimi che consumavano
cibo spazzatura per tre o più volte alla settimana. Il rischio è del 27% più alto nel caso
dei bambini che seguono una alimentazione eccessivamente ricca di grassi non benefici
e che comprenda un consumo frequente di junk food. Nonostante l'aumento degli
effetti negativi, ricerche condotte per conto dell'Health and Consumer Protection
Directorate General6, sostengono che la sensibilizzazione al problema sia ancora
lacunosa, a livello mediatico, educativo (famiglia e scuola) e istituzionale
[Eurobarometer, 2006], anche se con percentuali differenti in relazione ai diversi paesi
che compongono l'UE.
L'espansione globale dei fast-food determina pertanto un cambiamento delle diete
alimentari tradizionali, modificando l'apporto fisiologico di calorie e provocando
malattie diffuse, sia tra la popolazione giovane, sia tra quella adulta; a livello
commerciale, l'aumento dei profitti della grandi catene e della domanda di junk-food a
livello dei consumatori alimenta la continua espansione di terreni e interessi. Se di
6 DG Sanco, Ente della Commissione Europea preposto all'applicazione delle leggi dell'Unione Europea per la sicurezza alimentare e di altri prodotti, per il diritto dei consumatori e per la tutela della salute delle persone.
113
recente McDonald's ha stretto accordi con le industrie alimentari italiane per la
produzione interna di panini marchiati con la 'Grande M', l'andamento generale registra
un'appropriazione sempre maggiore di terre e risorse, da parte delle grandi
multinazionali; 'accumulazione per espropriazione' secondo alcuni, una pratica ormai
ampiamente consolidata e diffusa, specialmente nel Sud, la 'fattoria del mondo'
[McMichael, 2009].
Accessibilità, in questo quadro, significa disponibilità economica ad acquistare le
fonti primarie di cibo, grano, riso, mais, a prezzi globalmente sempre maggiori, o
altrimenti al cambiamento della dieta alimentare e l'aumento di cibi economici, dannosi
per la salute, ma economicamente convenienti. La trama commerciale, governato in
primis dalle multinazionali (con il benestare delle politiche nazionali e internazionali),
rappresenta dunque un forte spartiacque tra chi ha accesso privilegiato al cibo (nelle sue
forme e gusti più svariati come nei paesi sviluppati), coloro che accedono per
convenienza economica, al 'cibo spazzatura' - presenti in ottima quantità nei
supermercati, divenuti nel tempo la prima forma di distribuzione mondiale - e le
popolazioni interessate da cronica malnutrizione.
In questo scenario di disparità di accesso al cibo si distinguono almeno due fenomeni
distinti ma convergenti: la manifestazione evidente della relazione descritta da
Wallerstein tra centri e periferie; la crescita dell'agrobusiness multinazionale a spese
delle popolazioni locali, dimostrata dai lauti profitti delle aziende produttrici di
semenze, biotecnologie o prodotti chimici come Monsanto, Syngenta, Dupont, dei
grandi gruppi alimentari come Nestlè, Kraft, Coca-Cola Company e da quelli dei
supermercati. La crescita dei consumi di una parte del mondo, nel sistema attuale,
sembra dover necessariamente coincidere con un sottoconsumo nell'altra parte. In altri
termini, la disponibilità di supermercati sempre riforniti di ogni genere alimentare nei
paesi più sviluppati, presuppone un'indisponibilità alimentare e un proibitivo accesso
nei paesi più poveri. Ciò non significa che sia stata raggiunta la produzione massima
alimentare, che stando ai rapporti Fao sembra essere in grado di sfamare una
popolazione ben superiore; piuttosto spiega le relazioni di valore attorno a cui ruotano
cibo, energia e materie prime, e quelle di potere e d'interesse fra centri e periferie. In
questo senso Araghi identifica la risorsa del capitalismo neoliberale nel "forzare
114
strategie di sotto-consumo e sotto-produzione, in condizioni di lavoro schiaviste...ma
senza una schiavizzazione visibile" [McMichael 2009].
6 Spreco alimentare
Come analizzava Veblen [2007], una parte del consumo coincide con lo spreco
vistoso, un modo 'necessario' per stabilire e ribadire la differenza sociale tra classi; la
riprovazione e lo sdegno sociali talvolta lasciano il posto a una visione di necessità e a
istinti di emulazione da parte delle classi più povere. La standardizzazione di alcune
pratiche di consumo si salda nel tessuto sociale, divenendo pertanto abituali e
abitudinarie. Lo spreco alimentare aderisce perfettamente al modello tracciato: l'estrema
accessibilità alimentare e il benessere sociale della maggior parte delle fasce sociali dei
paesi sviluppati hanno infatti comportato la standardizzazione dello spreco.
Lo spreco alimentare dei paesi sviluppati alimenta il sottoconsumo dei paesi in via di
sviluppo e rappresenta una delle piaghe del 'consumismo' dei paesi sviluppati, come
sottolinea Carlo Petrini, fondatore del movimento Slow Food, impegnato nella lotta allo
spreco alimentare: secondo statistiche recenti, nella sola Italia lo spreco alimentare si
aggira intorno ai 13 miliardi di euro, con circa 149 chili di cibo sprecato annualmente
per persona [Food Right Now, 2013]. A livello mondiale, circa un terzo della
produzione annuale finisce nella spazzatura, l'equivalente di 1,3 tonnellate: "per ogni
europeo vengono prodotti circa 840 chili di cibo all'anno; di questi, ben 200 vengono
sprecati ancor prima di arrivare sulla tavola: lasciati nei campi, nelle aziende di
trasformazione, nei supermercati" [BCFN, 2012; Food Right Now, 2013]. La Fao indica
che sono circa 220 milioni le tonnellate di cibo sprecato nei paesi sviluppati europei,
circa l'equivalente dell'intera produzione alimentare dell'Africa Sub sahariana. Europa e
Stati Uniti guidano lo spreco alimentare domestico, mentre l'America Latina è in cima
per la dispersione di cibo lungo la filiera produttiva, circa 200 milioni di tonnellate
[BCFN, 2012]: in questo senso lo spreco può riguardare lo scarto di merce
'esteticamente' non idonea, quella attaccata da malattie, quella dispersa durante la
raccolta automatizzata o durante il trasporto, in cui le condizioni di refrigerazione,
115
igiene, di mantenimento della qualità non sono adatte, in seguito alla lavorazione del
cibo e allo scarto conseguente, come petti di pollo o filetti di pesce. Più lunga è la
filiera, più elevato sarà lo spreco alimentare: la perdita di cibo riguarda dunque sia la
produzione di cibo (dalla coltivazione alle prime forme di lavorazione dei prodotti
agroalimentari), sia la distribuzione (la filiera alimentare e i vari anelli che la
compongono), sia il consumo dei beni finiti, lavorati e disponibili nei supermercati (lo
spreco finale generato dai consumatori e dai relativi stili di vita). E' interessante notare
come tra Nord e Sud del mondo, lo spreco alimentare sia causato da motivazioni
opposte: nei paesi settentrionali infatti è post-produttivo e riguarda lo spreco derivante
dal benessere diffuso; in quelli meridionali la perdita di cibo avviene principalmente
durante la produzione, quasi totalmente destinata ai grandi supermercati europei,
statunitensi ed asiatici. Le previsioni sui destini globali della catena di produzione
alimentare - e parte dei relativi sprechi - riguardanti tanto i paesi sviluppati, quanto
quelli in via di sviluppo, sono guidati da tre fattori convergenti: l'urbanizzazione e la
contrazione dell'agricoltura, il cambiamento della dieta alimentare tradizionale e
l'espansione del mercato globale [Parfitt, Barthel e Macnaughton 2010]. "La
proporzione mondiale della popolazione mondiale impiegata nell'agricoltura è diminuita
negli ultimi anni e la percentuale che vive in grandi centri urbani ormai ha raggiunto
circa il 50%, con previsioni che parlano di una futura crescita fino al 70% nel 2050"
[Parfitt, Barthel e Macnaughton 2010].
L'abbandono delle campagne e la crescita dei centri urbani segna forzatamente un
aumento della popolazione da sfamare con i prodotti agricoli, determinando
congiuntamente un'espansione dell'apparato industriale; in secondo luogo la crescita dei
redditi familiari di Brasile, Russia, India e Cina (BRIC) sta producendo una
diversificazione dei gusti alimentari, già avvenuta in passato nei paesi europei e negli
USA, con l'aumento di consumo di proteine animali, cibi grassi e prodotti industriali e,
infine di cibo sprecato [Parfitt, Barthel e Macnaughton 2010].
Il commercio internazionale del cibo industriale rappresenta circa il 10% del totale
cibo industriale venduto, con la parallela crescita del profitto delle catene di
distribuzione, per città sempre più grandi e i cui gusti alimentari sono sempre più
diversificati. Lo spreco alimentare pertanto, considerando le stime di crescita
demografica e di inurbamento, rappresenta un nodo cruciale da sciogliere per il
116
sostentamento di un numero maggiore di persone; come detto, nei paesi poveri, la
perdita di cibo è a livello produttivo, in relazione alle tecnologie disponibili, che spesso
risultano deteriorate e obsolete, segno evidente del taglio degli investimenti dei governi
locali nell'agricoltura. Nei paesi industrializzati al contrario, circa il 30% del cibo viene
perso durante il trasporto, nella distribuzione (supermercati, ristoranti, bar, sfera
domestica); nell'Unione Europea, il 47% dello spreco alimentare avviene a livello
familiare, pari al 25%7 del cibo prodotto ed importato [BSR, 2011]. La diversità di
spreco rappresenta da un lato la differenza tecnologica delle due aree, e dall'altro rientra
in un contesto culturale, in cui 'buttare' cibo si configura come una pratica comune e
socialmente condivisa; pertanto, non solo cibo e capitale sono interessati da un solido
rapporto, ma anche accessibilità e spreco sono strettamente relazionati: circa 155
milioni di bambini in sovrappeso e obesi, situati principalmente nei paesi
industrializzati, fanno da contraltare ai 148 milioni di bambini sottopeso, la
maggioranza situati nei paesi del Terzo Mondo [BCFN, 2012].
Lo spreco alimentare, molto più vistoso nei paesi sviluppati in relazione al consumo
e non alla produzione, oltre a esser maggiore nelle nuove generazioni rispetto a quelle
precedenti [Parfitt, Barthel e Macnaughton 2010], rappresenta una delle voci
dell'inquinamento ecologico causato dal relativo smaltimento [Parfitt, Barthel
Macnaughton 2010; BCFN, 2012]. In questi termini, l'ammontare del cibo sprecato
lungo la filiera produttiva agroalimentare, attraverso distribuzione e trasporto e usi
domestici (cibo scaduto, avariato o cucinato e non consumato) costituisce circa metà del
cibo prodotto a livello mondiale e sarebbe in grado di ridurre e risolvere diversi
problemi sia di carattere biofisico, sia di ordine sociale ed ecologico. In Italia, la crisi
economica ha contribuito a una riduzione dello spreco alimentare, sia lungo la filiera,
sia a livello di consumo, con una maggior attenzione agli sprechi, determinati in prima
battuta dalle ristrettezze economiche; secondo un'indagine condotta nel 2011 da
Coldiretti-Swg, gli italiani, per effetto della crisi economica, hanno ridotto del 57% lo
spreco alimentare [BCFN, 2012]. Nello stesso periodo, la popolazione inglese ha
mediamente disperso 7,2 tonnellate di alimenti, circa un terzo delle tonnellate
acquistate. Negli Stati Uniti, l'USDA (United States Department of Agriculture) stima
che ogni anni gli americani gettano complessivamente il 30% del cibo acquistato,
7 Percentuale relativa al peso.
117
l'equivalente di 48,3 miliardi di dollari, circa il 60% del totale spreco alimentare, mentre
la distribuzione rappresenta il 5,3% e la vendita al dettaglio incide per il 33,8% [BCFN,
2012].
Pur rappresentando una voce minore sull'incidenza di perdita/spreco di cibo, il
trasporto costituisce un punto importante nel cambiamento delle diete alimentari e di
accesso al cibo: se l'introduzione nei paesi avanzati di prodotti esotici determina un
aumento della domanda e del consumo, nei paesi del Sud del Mondo, il prelievo
pressoché totale dei prodotti alimentari da parte delle multinazionali agroalimentari per
la vendita nei principali mercati mondiali, e la mancanza di alternative alimentari valide
determinano situazioni alimentari al di sotto della soglia di sopravvivenza. Uno dei tanti
esempi contemporanei è offerto dall'immissione del pesce persico del Nilo nel Lago
Vittoria, che se da un lato ha registrato l'aumento del consumo nei principali mercati
europei, dall'altro ha determinato un brusco cambiamento nella catena alimentare del
territorio africano [Sauper, 2004]. L'introduzione di questa qualità ittica nel più grande
lago del mondo, a partire dagli anni 60' ha prodotto da un lato l'estinzione di molte
specie viventi, dall'altro ha permesso la nascita di una consistente industria per la
lavorazione e l'esportazione dei filetti in tutto il mondo, a cominciare dall'Europa
[Mereghetti, 2006]. Oltre a ridurre la biodiversità esistente nei territori interessati, tali
pratiche producono effetti negativi anche sulle popolazioni coinvolte, in termini di
forza-lavoro, assistenza sanitaria e di accesso al cibo. L'ingente produzione di persico
del Nilo infatti - in questo esempio, ma la dinamica è estendibile a molte altre situazioni
- è quasi interamente destinata all'esportazione verso i principali mercati mondiali, con
le popolazioni locali affette da problemi di malnutrizione e costrette a condizioni sociali
precarie. Contemporaneamente allo spreco alimentare dei paesi 'avanzati'.
7 Carne e pesce: consumi quotidiani. Quando il lusso diventa pop
1 Pesce
Il tragitto percorso dal persico del Nilo costituisce uno dei molti esempi dei metodi di
produzione e distribuzione dell'attuale regime alimentare mondiale, che amplificano
118
costantemente il raggio d'azione per soddisfare le pretese consumistiche di masse
urbane e non, geograficamente situate nel Nord del mondo. In riferimento alla pesca,
essa è sempre stata una risorsa fondamentale per le popolazioni costiere, per i commerci
e nei territori cristiani anche per motivazioni religiose, come ricorda Braudel [1982].
Carne e pesce infatti hanno sempre rappresentato un alimento tradizionale nelle diete
europee: non soltanto i ricchi, ma anche contadini e artigiani potevano cibarsi
quotidianamente di prodotti animali e derivati come uova e formaggi. Le differenti
modalità di accesso al cibo - rispetto al consumo attuale - non devono infatti far pensare
a un passato basato soltanto sui cereali e farine, o alimenti poveri; le diete del passato
erano, in un Europa decisamente meno popolata di quella attuale, ricche di carne,
cacciagione e pesca [Braudel, 1982].
Con il passare dei secoli e dello sviluppo tecnico-scientifico, l'aumento demografico
e dei consumi hanno portato ad un aumento della produzione ittica: ciò si è verificato in
maniera costante durante il XX secolo, sia attraverso l'acquacoltura sia con la pesca
tradizionale [Campling, 2012; FAO 2014b]. L'evoluzione delle modalità produttive e
l'aumento della domanda, soprattutto di salmone, tonno, pesce spada, molluschi e
crostacei, hanno così garantito ai pescherecci nazionali, privati e illegali di accrescere
sensibilmente i profitti; durante il primo e il secondo regime, la pesca era regolamentata
da normative nazionali e da accordi tra stati. Come si è visto per altri cibi, anche per la
pesca l'apertura di nuove frontiere e mercati e la crescita del potere finanziario ha
prodotto cambiamenti produttivi, tecnologici, sanitari, distributivi e ambientali rilevanti.
In questo senso la pesca e soprattutto l'acquacoltura, se da un lato ha garantito una
crescita della quantità di pesce disponibile, dall'altro ha portato a una diminuzione di
altre specie e della biodiversità - come per il persico del Nilo - a un peggioramento delle
acque e della qualità delle carni [Weiss, 2002]. L'acquacoltura indiscriminata è
responsabile di una serie di peggioramenti qualitativi, opposti a un'intensa
accumulazione di capitale, del tutto celati al consumatore.
Come afferma Jean-Paul Besset:
Tra le dieci specie di pesce più pescate, sette sono considerate 'ampiamente sfruttate o
sovrasfruttate'. Metà delle principali zone di pesca è ormai al limite delle sue naturali
capacità di rinnovamento, un quarto le ha superate. Anche se si distrugge ciò che resta delle
119
mangrovie per sostituirlo con piscine per pesi e gamberi, l'acquacoltura non permetterà di
colmare il deficit". [Latouche, 2007, p. 63].
L'acquacoltura costituisce oggi un settore economico molto importante della
produzione alimentare: nel 2003 ha contribuito per circa il 31% (41,9 milioni di
tonnellate) su un totale di circa 132,2 milioni di tonnellate di pesce pescato. La sua
crescita nel mondo è stata molto rapida, per molte specie oltre il 10% annuo, mentre al
contrario il contributo della pesca tradizionale è rimasto costante, se non in diminuzione
nell'ultimo decennio; inoltre, se si considera l'intera produzione alimentare,
l’acquacoltura è il primo settore al mondo in termini di crescita [Slowfood]. Tra i
prodotti da acquacoltura più diffusi, si trovano: il salmone, la carpa, l'orata, il branzino,
oltre a molluschi e crostacei. Il risultato è un cospicuo aumento della produzione ittica
mondiale: l'apporto dell'acquacoltura è pertanto vitale per il volume dei prodotti che
circola su tutti i mercati mondiali e in questi termini le previsioni degli analisti
descrivono un 2030 in cui la produzione ittica sarà coperta per più dei due terzi
dall'acquacoltura [Fao, 2014c].
Il salmone rappresenta uno dei primi tentativi di acquacoltura - forse il più
importante - destinata per la produzione di massa: considerato fino agli anni '60 un
prodotto di lusso, attraverso l'acquacoltura il salmone è infatti diventato accessibile per
buona parte dei consumatori, grazie alla caduta dei prezzi. Le prime forme di
allevamento di salmoni sono avvenute in Norvegia, il principale produttore mondiale di
questo alimento a partire dagli anni '60, per essere adottate nei settori ittici degli altri
stati mondiali [Weiss, 2002]. Da allora, Scozia, Canada, Stati Uniti, Cile, Giappone ed
in maniera minore altri stati come l'Italia, hanno adottato meccanismi di allevamento dei
salmoni, generando un abbassamento vertiginoso dei prezzi ma anche un
impoverimento delle acque e della qualità alimentare. Si è calcolato infatti che un
singolo allevamento di salmoni di circa 200 mila unità produce una quantità di materia
fecale pari a una città di 65 mila abitanti [Food and Water Watch, 2010]. L'aumento di
escrementi e di cibo sui fondali sono cause dell'inquinamento delle acque che, attraverso
le correnti, si espande al di fuori degli allevamenti. Non solo, anche il nutrimento incide
sulla qualità e sulla sicurezza alimentare del prodotto: data la natura carnivora, i salmoni
vengono nutriti con poltiglie a base di scarti di altri pesci (teste, code, viscere),
principalmente sardine e acciughe cui vengono aggiunti pesticidi [Food and Water
120
Watch, 2010; Shaw et all. 2006; Allsopp et. all. 2008], per combattere l'insorgenza dei
pidocchi di mare - uno dei fattori di diminuzione dei salmoni selvatici e non, oltre alla
sovrappesca, all'inquinamento - gli allevatori hanno introdotto nell'alimentazione dei
salmoni una serie di antibiotici e pesticidi [Food and Water Watch, 2010; Shaw et all.
2006], che oltre ad impattare negativamente sulla bontà del prodotto, è protagonista di
un serio inquinamento ambientale. Nel febbraio del 2014 il 17% del salmone,
proveniente da Scozia e Norvegia e venduto nei principali supermercati inglesi
conteneva DDT [Poulter, 2014]. Le autorità nazionali e internazionali, in particolar
modo quelle canadesi, hanno più volte minimizzato l'importanza e l'insorgenza di questi
fenomeni, nonostante i dati scientifici dimostrino il contrario; in alcuni allevamenti
cileni, ad esempio, la somministrazione degli antibiotici nel 2010 è stata 75 volte
superiore agli standard [Food and Water Watch, 2010]. Pesticidi, DDT, resti di alimenti,
escrementi e carcasse di animale, che molto spesso vengono rigettate nelle acque
[Allsopp et all. 2008], sono cause di un decisivo inquinamento marino con effetti sulla
biodiversità e sulla catena alimentare [Allsopp et all. 2008; Food and Water Watch,
2010]. Anche i salmoni selvatici risultano affetti dall'aumento degli antibiotici. La
maggior parte degli allevamenti è infatti situata lungo i percorsi migratori e ciò ha
dirette conseguenze sui flussi migratori dei salmoni selvatici, durante i quali essi
vengono a contatto con queste sostanze. Un altro fattore di rischio per i salmoni
selvatici è dato dalle masse di salmoni allevati che scappano dagli allevamenti, in
seguito ad attrezzature limitate o a errori umani [Allsopp et all. 2008]. Il contatto tra
specie allevate e non, determina una concorrenza per il cibo, con profonde conseguenze
sulla biodiversità e sulla catena alimentare marina; inoltre, quest'unione causa il
passaggio di malattie, batteri, pidocchi, che influiscono sulla sicurezza della carne e
sulla qualità [Allsopp et all. 2008; Food and Water Watch, 2010]. Il risultato derivante
dalla cattiva gestione e dall'incessante produzione è il 'primato' nella classifica degli
alimenti più contaminati in commercio [Edwards, 2002].
121
Figura 1 Salmone contaminato nei supermercati inglesi
Tale metodologia, se da un lato garantisce ai supermercati scaffali sempre pieni,
dall'altro incide negativamente sull'ambiente marino e sull'alimentazione umana.
Queste modalità di allevamento riguardano anche altre specie, come il persico, i
crostacei, i branzini, i tonni e le tilapie. La proliferazione degli allevamenti delle tilapie,
ad esempio, ha provocato cambiamenti degli ecosistemi marini, con il risultato che il
98% delle tilapie allevate sono all'esterno del loro habitat naturale [Allsopp et all. 2008].
L'enorme sviluppo dell'allevamento di tilapie è permesso dalla sua estrema
adattabilità all'ambiente, che le permette di vivere in acque dolci e salate. Ciò ha
portato, come spesso succede per una risorsa ampia e a basso costo, a un'esplosione di
domanda e offerta, soprattutto in Cina e in Asia e lungo le coste africane. In virtù del
basso costo e del rapido profitto, la Cina ha aumentato considerevolmente gli
investimenti nell'acquacoltura, aumentando il livello mondiale delle esportazioni di
pesce [Fao, 2014b], tra cui appunto le tilapie: gli analisti prevedono in questo senso che
nel prossimo futuro la Cina sarà il leader mondiale nella produzione di tilapie [Fazzino,
2010]. In futuro, si prevede che le tilapie raggiungeranno i mercati di tutto il mondo,
divenendo la prima specie di pesce consumato, specialmente negli Stati Uniti. La
dimensione globale che ha assunto la Cina nell'allevamento ittico, tuttavia, apre un
problema relativo alla qualità delle acque, ritenuta in molti casi tossica, come a Fuqing,
divenuta in pochi decenni il più grande produttore di prodotti ittici e il principale
fornitore degli Stati Uniti [Barbosa, 2007]. L'inquinamento delle acque produce pertanto
prodotti potenzialmente dannosi e di bassa qualità, oltre a una serie di effetti a catena,
come l'inquinamento delle fonti idriche destinate all'agricoltura e agli allevamenti
122
[Barbosa, 2007]. La produzione mondiale di tilapie non è limitata alla Cina. La Fao
identifica nei paesi in via di sviluppo un'ampia percentuale di piccoli o medi allevatori
che nel 2012 ha garantito il 61% di tutte le esportazioni mondiali di pescato, pari al 54%
del valore economico totale [Fao, 2014b]. In questo senso si può osservare la situazione
dei paesi delle coste africane, come la Nigeria, tra i principali esportatori di tilapie
[Agbebi and Fagbenro, 2006]. L'installazione di allevamenti di tilapie ha comportato in
Nigeria una diffusa deforestazione, la distruzione della vegetazione di mangrovie, oltre
ad avere impatti sulle popolazioni locali [Slowfood; Allsopp et all. 2008], analoghe a
quelle già osservate per il persico del Lago Vittoria.
Gamberetti e crostacei risultano la specie più commerciata al mondo, con il maggior
volume di unità allevate [Fao, 2014b]; al pari dei salmoni, l'aumento della produzione
durante il XX secolo ha permesso un abbattimento dei costi, rendendo questo alimento
accessibile per la maggior parte delle persone dei paesi sviluppati. L'acquacoltura ha
così permesso un aumento dell'offerta parallelamente ad una 'salvaguardia' di una
consistente parte di pesci selvatici [Naylor et all, 2000]. Con l'espansione dei mercati
degli anni '80 il consumo di gamberi è cresciuto visibilmente, suscitando l'interesse di
soggetti privati e dei governi; gli stati in via di sviluppo furono inoltre agevolati dai
prestiti e dagli investimenti della Banca Mondiale, specialmente in India e Cina [Nash,
2011]. Come per i salmoni anche per i gamberi e per i crostacei in generale,
acquacoltura significa aumento dell'inquinamento e riduzione della biodiversità
[Allsopp et all. 2008; Naylor et all, 2000;], come la distruzione delle mangrovie in
Malaysia, Indonesia, Cina, Filippine. La selezione delle qualità, sulla base dei dati
commerciali e di vendita, determina una radicalizzazione della biodiversità: secondo
una recente indagine, in Bangladesh per ogni gambero 'tigre' infatti, un gruppo di 12-
500 larve di altre specie è a rischio sopravvivenza; in Honduras invece è risultato che la
produzione di circa 3 miliardi di gamberi ha provocato la distruzione di circa 15-20
miliardi di esemplari di altre specie [Allsopp et all. 2008]. La selezione della specie più
venduta determina quindi una diminuzione della biodiversità, in un meccanismo già
visto in precedenza, come per l'allevamento del persico del Nilo nel Lago Vittoria.
L'acquacoltura, anche per i gamberi, si accompagna alla presenza di patologie, come
il White Spot virus che, nel corso degli anni, ha interessato milioni di esemplari,
provocando ingenti perdite alle industrie alimentari [Allsopp et all. 2008; Naylor et all.
123
2000]. Al pari di altre specie allevate, pertanto, anche ai gamberi vengono somministrati
antibiotici, che ne alterano qualità e organismo. Alcune analisi hanno infatti confermato
la presenza di sostanze come antibiotici, DDT, pesticidi e fungicidi nei gamberi,
principalmente di provenienza asiatica [McKenna, 2014]. Molte di queste sostanze
vengono somministrate illegalmente, dato il divieto di utilizzo - a causa della loro
pericolosità - imposto dalla Fao. Tuttavia, la mancanza di controlli, l'apertura di nuovi
mercati, l'ascesa di nuove classi media come in Cina e India, sono aspetti che sembrano
permettere la perpetuazione di queste modalità produttive, come ha sottolineato il
direttore di Food and Drug Administration (FDA): "Con la continua crescita
dell'industria dell'acquacoltura, l'interesse per l'uso di farmaci non approvati e sostanze
chimiche insicure nei lavori di acquacoltura, è cresciuto costantemente" [McKenna,
2014]. Il risultato è una totale disinformazione in merito a ciò che i consumatori
abitualmente mangiano.
Attraverso l'acquacoltura, il consumo di gamberetti è cresciuto senza sosta,
divenendo il principale 'seafood': negli Stati Uniti i gamberetti sono sempre stati in cima
nella classifica dei prodotti ittici consumati [About Seafood, 2014]. Nel 2011 il
consumo di gamberetti è stato il doppio di quello di tonno, il secondo più venduto
[About Seafood, 2014], per rimanere a livelli simili negli anni successivi. Uno dei
motivi di questo elevato consumo risiede nell'economicità del prodotto, in larga parte
dovuta all'adozione dell'industrializzata acquacoltura, che ha permesso di abbattere i
costi rispetto alle tradizionali attività di pesca.
Il tonno rappresenta un'importante risorsa alimentare ittica e di accumulazione di
capitale; il mercato del tonno è sempre stato molto importante per i consumi europei, in
particolare Spagna, Italia, Francia e di quelli asiatici come il Giappone, il principale
consumatore di tonno [Campling, 2012]. In Europa la pesca di tonni per i mercati
nazionali, seguendo le linee dell'accumulazione di capitale, è attiva fin dal XIX secolo,
con particolare riferimento alle flotte spagnole e francesi, che rifornivano costantemente
i mercati europei. L'aumento dei consumi, lo sviluppo industriale e dei profitti derivanti
hanno fatto del tonno una commodity, come riso, mais, olio di palma, soia [Fao, 2004].
Lo sviluppo della nascente industria legata a questo tipo di pesce portò alla nascita,
in Francia delle prime scatolette di tonno nel 1870 e dal 1900 negli Stati Uniti, come
sostituto delle sardine e del salmone, più costoso [Campling, 2012]. La
124
commercializzazione delle scatolette rispondeva a esigenze di trasporto di
mantenimento della qualità del prodotto e dell'accumulazione di capitale. In mancanza
delle tecnologie attuali infatti, la pesca di tonni e salmoni, i principali pesci consumati,
richiedeva ingenti sforzi economici e soprattutto modalità di conservazione e
distribuzione del prodotto [Campling, 2012]. La doppia dinamica di distanza e
durabilità, messa in luce da Friedman [1992] portò infatti alla creazione delle scatolette
di tonno nel 1870 - divenute ben presto una commodity più diffuse nel mondo [Fao,
2004] - e da allora, l'industria e la produzione di tonno non hanno cessato di crescere,
divenendo uno dei principali settori industriali mondiali, strettamente controllato
dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti [Campling, 2012], i principali consumatori
assieme al Giappone [Fao, 2004].
Lo sviluppo dell'apparato industriale, sul finire del XIX secolo, segnò una svolta nei
metodi di pesca: il business derivante dal mantenimento della biodiversità fu sostituito
dalla ricerca di quantità sempre maggiori di questa commodity che ne abbassarono i
prezzi. La produzione di scatolette fu affiancata da flotte sempre più numerose, come
quella francese, alla ricerca di quantità sempre maggiori, in seguito alla domanda
sempre più alta di tonno in scatoletta e non [Campling, 2012]. Secondo le stime Fao, la
produzione mondiale di tonno e derivati, come le scatolette, è passata dalle 400 mila
tonnellate del 1950, agli oltre 4 milioni di tonnellate del 2002 [Fao, 2004]. Questo
aumento è dovuto all'aumento dei consumi e all'evoluzione delle metodologie
produttive che, a partire dagli anni '50 del XX secolo, hanno subito un rapido processo
di industrializzazione [Campling, 2012]: la pesca industriale e il settore delle scatolette
si sono infatti evolute in maniera parallela grazie al progresso scientifico del post-guerra
e alle politiche statali, specialmente di Giappone e Stati Uniti che accentuarono la pesca
dei tonni del Pacifico [Campling, 2012]. Anche l'industria europea è stata molto attiva
sin dal dopoguerra, con le mire delle flotte francesi e spagnole orientate sull'Oceano
Atlantico e sulla fascia tropicale, lungo le coste occidentali dell'Africa decolonizzata. I
movimenti di tonni e delle flotte hanno portato alla commercializzazione di nuove
specie, abbandonandone altre troppe costose, in termini di pesca, combustibili, e prezzo
finale; il cambiamento delle zone di pesca, dal Golfo di Biscaglia alla fascia tropicale
dell'Atlantico ha determinato il consumo di nuove qualità: fino agli anni '60 il principale
tipo di tonno pescato era l'Albacore, ma a partire dal 1965 la qualità più pescata divenne
125
quella 'pinne gialle' dell'Africa occidentale [Campling, 2012]. In altre parole, l'industria
segue l'andamento geografico e quantitativo delle risorse a basso costo, con una duplice
motivazione: garantire il rifornimento alimentare dei paesi più ricchi e perpetuare il
processo di accumulazione di capitale. La maggior disponibilità di tonni del Pacifico
orientale, o dell'Atlantico della fascia tropicale rappresenta pertanto la modificazione
delle strategie dei pescherecci e dei consumi, all'interno di una struttura che al contrario
rimane stabile e in continua espansione.
L'ascesa delle multinazionali, già descritta altrove, ha avuto conseguenze anche
nell'industria legata alla pesca di tonni e alla produzione di filetti e scatolette,
accelerando lo sviluppo dei processi di pesca, di produzione e distribuzione, e incidendo
gravemente sull'equilibrio animale ed ecologico.
Il tentativo di incorporare società più piccole per formare multinazionali in grado di
controllare e indirizzare le scelte di mercato è una costante dell'attuale regime
alimentare, evidente anche nell'industria ittica e legata al tonno. In Francia, negli anni
'80 la produzione e la proprietà industriale era gestita da sei compagnie, capeggiate da
Cobrecaf il colosso di origine bretone nella pesca e produzione di tonno; nel 2008 la
proprietà era in mano a quattro soggetti, due multinazionali, un consorzio e Cobrecaf
[Campling, 2012]. Nell'ultimo ventennio Cobrecaf è stata interessata da molteplici
acquisizioni, di Heinze European Seafood, Lehmann Brothers, MW Brands (proprietaria
dell'italiana MareBlu) ampliando il raggio delle operazioni e dei guadagni e chiudendo
il 2008 con un fatturato di oltre 100 milioni di dollari. Negli Stati Uniti la produzione di
scatolette è controllata da un numero ristretto di soggetti; negli anni '80 la deregulation
finanziaria incentivò la vendita delle flotte a bandiere straniere, in relazione all'aumento
dei prezzi petroliferi e dei costi di gestione come assicurazioni e burocrazia. Al pari di
ciò anche la produzione di scatolette subì uno spostamento verso zone economicamente
più vantaggiose come Porto Rico. Il mercato interno di tonno, attualmente è dunque
controllato da: Starkist, leader industriale del settore, con il 40% delle vendite del
mercato statunitense e di proprietà della multinazionale Del Monte; Bumble Bee
Seafoods LLC, con circa il 24%, e Chicken of the Sea, una compagnia tailandese che
controlla circa il 17% [Fao, 2004].
La sovrappesca dell'ultimo trentennio ha garantito ingenti guadagni alle flotte private
e statali: limitato al contesto europeo, nel 2008 i profitti delle flotte si sono aggirati sui
126
1.76 miliardi di dollari, con un costo di circa 20 milioni per nave [Campling, 2012]. In
questi numeri rientrano anche le navi non registrate sotto la bandiera nazionale, ma
battenti bandiere di comodo (Flags of Convenience) che permettono di diminuire i costi
di gestione e le regolamentazioni imposte e garantendo così prezzi sempre economici.
Se da un lato crescono i guadagni, dall'altro diminuiscono le risorse disponibili, in
questo caso i tonni, da tempo a rischio sopravvivenza, in termini di specie. La riduzione
dei banchi determina gravi problemi all'ambiente marittimo e alla catena alimentare: un
esempio può essere la sovrappopolazione di alcune specie come le acciughe nel Mar
Nero o dei Gamberi nell'Atlantico Settentrionale, in seguito alla mancanza dei principali
predatori e del cambiamento dei rapporti nella catena alimentare [WWF, 2007b]. La
pesca nei territori dell'Atlantico Settentrionale ha infatti portato alla sparizione di questi
predatori; al loro posto si sono così sviluppati intensivi allevamenti di gamberi [WWF,
2007b], con le conseguenze ambientali già descritte. La diminuzione dei tonni ha
portato a pratiche di acquacoltura, nel tentativo di regolarizzare la produzione e la
quantità di tonno consumabile, limitando così gli effetti sull'ambiente.
L'acquacoltura, nonostante sia una forma antica di allevamento, risalente addirittura
all'Antico Egitto e alla Cina imperiale, rappresenta attualmente una forma di
accumulazione di capitale molto redditizia e incoraggiata dalla Banca Mondiale; anche
il pesce, in altre parole, da risorsa alimentare e di sostentamento è diventato sinonimo di
ricchezza e accumulazione. La visione della natura, descritta da Moore [2000b, 2003b,
2009, 2010, 2010b, 2011, 2013, 2014, 2014b], si fa evidente anche nel contesto ittico,
con il pesce che da risorsa per la vita diventa una forma di denaro.
2 Carne
Il consumo di carne è sempre stato al centro dell'alimentazione tradizionale, in
relazione anche alla necessità di rotazione delle colture a base di grano fortemente
diffusa nel Vecchio continente. Ciononostante, gli alimenti principali per la maggior
parte della popolazione erano generalmente a base di granaglie come grano, mais,
avena, molto più economici e disponibili della carne. Tradizionalmente infatti, in
passato la carne era associata a giorni speciali della settimana, a festività, a classi agiate
127
e borghesia; la restante parte dell'alimentazione quotidiana era occupata principalmente
da granaglie e verdure [Braudel, 1982]. Anche nel resto del mondo il consumo di carne
è sempre stato diffuso ma non al centro dell'alimentazione come le 'piante della civiltà'.
Il grano, il riso il mais, alimenti essenziali per la maggior parte degli uomini, non
rappresentano se non semplici problemi. Se invece si comincia a parlare di alimenti meno
comuni - e fra questi, già la carne [...] si contrappongono il necessario e il superfluo.
[Braudel, 1982, I, 161].
Attraverso l'evoluzione tecnico-scientifica e l'aumento delle classi medie però, il
consumo di carne nei paesi sviluppati è aumentato considerevolmente, così come le
terre destinate alla coltivazione e all'allevamento, soggette a una forte accelerazione
espansionistica verso la metà del XIX secolo [Lead, 2006]. Durante il primo regime
alimentare l'impero britannico ha aumentato i traffici e i commerci con le colonie come
l'Argentina, l'Australia, gli Stati Uniti e l'Uruguay [McMichael, 2009b], per la vendita di
carne in Europa. Durante il secondo regime alimentare, nelle vaste aree mondiali
gravitanti attorno l'egemonia statunitense [Arrighi, 1999; 2008] è cresciuta la
produzione di carne, tanto per il consumo interno, quanto per l'esportazione verso i
principali mercati mondiali. Attorno alla carne ruotano anche le sorti dei fast-food, la
cui espansione, iniziata negli anni '30, è stata garantita da un generale abbassamento dei
prezzi e un aumento della quantità disponibile. Uno dei motivi risiede nell'ampliamento
delle risorse: nello specifico, tra gli anni '50 e gli anni '80 i terreni destinati
all'agricoltura e all'allevamento sono stati maggiori di quelli degli ultimi 150 anni [Lead,
2006]. Il terzo regime alimentare ha invece concentrato la produzione mondiale nel Sud
del Mondo [McMichael, 2009; 2009b], azionando così lo sviluppo di una lunga filiera
alimentare e del ramificato sistema dei trasporti che culmina con i supermercati. Mentre
la crescita demografica mondiale è più che raddoppiata dagli anni 50' all'inizio del XXI
secolo, la produzione globale di carne ha ingrandito il proprio volume di oltre cinque
volte [WorldWatch, 2004], incidendo fortemente sulle abitudini alimentari della
popolazione mondiale: il consumo di carne a livello mondiale durante il terzo regime
alimentare è quasi raddoppiato, in seguito al crollo dei prezzi sul mercato della risorsa
[Kenner, 2009].
128
Come sostiene Tony Weis [2007], le diete attuali sono interessate da processi di
meatification, ossia da una crescita degli alimenti a base di carne a livello globale, ben
visibile, ad esempio, dalla proliferazione dei fast-food, che dal secondo dopoguerra
hanno raggiunto la maggior parte delle classi di consumatori. Secondo Maurizio
Pallante [2012], il consumo di carne è cresciuto a ritmi impressionanti negli ultimi due
secoli, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, causando un'ampia serie di danni
sull'ambiente, sulla salute umana e quella animale. Nel 2009 ciascuna persona, in
media, ha consumato 42 kg di carne, circa il doppio del 1961 quando il consumo fu di
23 kg [Weis, 2013]. In questo scenario, la maggior parte dei consumi è situata negli
Stati Uniti (120 kg pro capite), Australia e Nuova Zelanda (118 kg), Argentina (113 kg),
Canada (102) e l'Europa Occidentale (85 kg): queste zone del mondo, nonostante
rappresentino soltanto il 12% della popolazione mondiale, costituiscono il 34% della
produzione di carne, il 30% del consumo totale e il 68% delle esportazioni mondiali
[Weis, 2013]. Inoltre, l'ascesa della classe media in paesi come Cina [McMichael,
2009], Russia, India, Brasile, ha incentivato la produzione di carne e l'adozione di diete
iperproteiche. Cina e Brasile, ad esempio, hanno avuto una crescita evidente nel
consumo di carne [McMichael, 2005]: dal 1961 il consumo pro capite di carne è passato
da 4 a 59 kg nel 2009 in Cina, mentre in Brasile da 28 a 73 kg [Weis, 2013]. Anche la
produzione è salita vertiginosamente: nel 2009 i due paesi insieme hanno prodotto il
33% dell'intera produzione mondiale [Weis, 2013], con il Brasile come primo
produttore ed esportatore di carne al mondo [ERSAF, 2011].
Figura 2 Consumo pro capite di carne, 1961-2009, Weis (2013).
129
In questo scenario, le principali catene di supermercati europei e statunitensi
attualmente controllano il mercato della carne, principalmente importata dal Sud del
mondo [McMichael, 2005], per un pubblico sempre più vasto e uniformato ai prodotti
venduti dalla grande distribuzione. In Italia, nello stesso periodo considerato da Weis, il
consumo di carne è triplicato: nel 1994 il consumo medio annuale era di circa 85 chili,
l'equivalente di 235 grammi al giorno [Pallante, 2012].
Per aumentare l'accessibilità e garantire la stabilità dei prezzi, il terzo regime
alimentare ha dovuto infatti uniformare ed omologare i metodi produttivi, de-localizzare
la produzione, selezionare le specie da allevare, standardizzare i metodi di controllo e le
forme di nutrimento, ampliare i terreni destinati all'allevamento, in modo da contrarre i
costi di gestione connessi e aumentare l'offerta. L'allevamento intensivo è divenuto un
metodo adottato in tutto il mondo, ad eccezione di alcune nicchie in cui resiste un
allevamento di tipo tradizionale, in termini di pascoli, nutrimento e produzione.
Bovini, polli e suini sono divenuti il bestiame principale per l'allevamento,
congiuntamente con i consumi mondiali nei fast-food e di cibi pronti. Hamburger, petti
di pollo, bacon e altri derivati hanno conquistato tutte le principali diete alimentari e da
qualche anno si stanno espandendo anche nei mercati emergenti. Nel 1961 gli
allevamenti di bovini costituivano il 40% del volume mondiale di carne, seguiti da
quelli di suini (35%) e di pollame (13%); da allora il volume annuale di carne suina è
più che quadruplicato e quello di pollame è aumentato di circa 10 volte, a fronte di una
crescita demografica del 120% [Weis, 2013]. Nel 2010 le statistiche hanno segnato
un'evidente diminuzione del volume di carne bovina (21%) a favore di una crescita di
pollame (37%) e di carne suina (34%) [Weis, 2013].
La scelta di puntare su determinati prodotti risponde a precise esigenze di mercato, in
quanto la necessità di produrre cibo a basso costo è fondamentale per l'accessibilità
alimentare e costituisce un imperativo nel processo di accumulazione di capitale;
un'offerta di prodotti troppo ampia, con tecniche di allevamento sostenibili produrrebbe
infatti - all'interno del sistema attuale - un aumento dei costi di gestione e di
conseguenza una diminuzione dei profitti. Un esempio che ben dimostra tale scelta è
rappresentato dai dati Fao relativo ai consumi di pollame nel 2009 e che mostravano un
130
consumo di circa 13,6 Kg all'anno di pollame per persona, di cui 12 kg di pollo, circa
l'88% [The Poultry Site, 2013].
In questa visione sistemica risulta quindi più prolifica la standardizzazione dei
prodotti, e ciò è osservabile dall'andamento del consumo di pollo: la crescita mondiale,
come dimostra l'indice Hirschmann in relazione alla concentrazione di venditori,
produttori e consumatori di questa carne sparsi per il mondo, è stata impressionante: in
alcuni stati degli USA, l'indice è addirittura di valore massimo. La concentrazione di
venditori non è massima, ma quella di consumatori e compratori è al contrario totale
[Domina, 2009]. Non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo, come in Asia,
il consumo di pollame ha subito un notevole incremento: attraverso gli allevamenti
intensivi messi in mostra da Kenner [2009], il consumo di pollo tra il 2000 e il 2009 è
passato da 66,4 milioni di tonnellate a 91 milioni; in Asia la crescita di pollame
consumato è salita da 24,4 milioni di tonnellate a 35 milioni nel 2009, circa il 40% del
consumo totale; in Arabia Saudita negli ultimi vent'anni, la domanda di pollame è salita
di circa il 5% all'anno, con un consumo nel 2013 di circa 42 milioni di tonnellate per
persona [The Poultry Site, 2013]. Cifre simili testimoniano l'ingente produzione
mondiale attraverso allevamenti intensivi, molto spesso dannosi per la salute e la qualità
degli animali e quindi delle carni. Il caso dei polli è, ancora una volta, esemplare: nel
2006, circa il 70% della carne disponibile nei supermercati era prodotta da allevamenti
intensivi [Lead, 2006], crescendo ulteriormente del 21% nel 2010 [Weis, 2013].
Il sistema intensivo descritto è ovviamente valido anche per altri animali come suini
e bovini, ed è controllato principalmente dall'industria multinazionale. Negli anni '70 le
cinque principali multinazionali controllavano il 25% del mercato nazionale di carne;
nel XXI i quattro gruppi (Tyson, Cargill, Swift e Smithfield) principali ne controllano
oltre l'80% hanno iniziato una decisa politica accentratrice, divenendo nel XXI secolo i
principali fornitori di carne a livello mondiale [Kenner, 2009]. La salita al vertice della
piramide produttiva/distributiva è stata possibile grazie a una serie di standardizzazioni
degli allevamenti intensivi: il mais è divenuto così il principale, se non l'unico,
nutrimento dei capi di bestiame, siano essi bovini, suini o polli. Ciò ha permesso di
ridurre notevolmente i costi, ma ha richiesto una quantità di cereale, in primis mais,
sempre maggiore, in relazione all'aumento del volume di carne prodotta [McMichael,
2009, 2009b; Rosegrant, 1999]. Come osserva Michael Pollan in riferimento alla
131
produzione di polli per McDonald's: "tutta la carne di McDonald's è in realtà mais. I
polli sono diventati macchine per convertire due libbre di mais in una libbra di carne"
[McMichael, 2009]. Anche i bovini, per natura vegetariana e non adatti ad alimenti
come mais e mangimi, sono nutriti con questi cereali: per ogni chilo di carne prodotta
sono necessari 7 Kg di mais [Rosegrant, 1999], alterando in questo modo il
metabolismo e in ultima analisi la qualità delle carni [Kenner, 2009]. Tale meccanismo
incide profondamente sulla quantità disponibile e sui prezzi di carne, cereali e derivati,
alla base di qualsiasi dieta alimentare, con il risultato che fette di popolazione sempre
più ampie si alimentano di proteine animali, cibi iperproteici, salati e zuccherati, più
economici rispetto a frutta e verdura, il cui mercato risulta meno redditizio [Kenner,
2009]. L'eccessivo consumo di carne oltre a esporre i consumatori ai rischi derivanti da
un eccessivo apporto proteico, si dimostra rischioso anche, e sopratutto, in relazione alla
qualità di allevamento a cui sono sottoposti i capi di bestiame: la standardizzazione, la
meccanizzazione delle procedure, la riduzione dei costi e l'aumento dei capi allevati
determinano infatti condizioni decisamente precarie per gli animali. In questi ambienti
malsani si possono annidare e proliferare agenti patogeni che, se non eliminati, possono
contaminare la carne e risultare pericolosi per la salute umana. Un esempio in questo
senso è rappresentato dall'Escherichia Coli, un batterio presente negli organi a sangue
caldo e molto pericoloso per la salute, la cui presenza è stata riscontrata in maniera
evidente nei fast-food [Jay et all. 2014].
Le tecniche intensive - come alcuni metodi di acquacoltura visti in precedenza - se da
un lato garantiscono abbondanti livelli produttivi a costi bassi, dall'altro sono
responsabili di un decisivo peggioramento della qualità, ben visibile in relazione alle
epidemie di origine animale. La mancanza di trasparenza nei confronti dei consumatori
rende questi ultimi ignari delle modalità di produzione, orientate unicamente
all'accumulazione di guadagno, come ricorda Campling, [2012]. La produzione
intensiva ha abbattuto i costi, riempiendo le diete di milioni di consumatori di proteine
animali di scarsa qualità e sicurezza, nonostante pubblicità e marketing - i principali
metodi attraverso cui un consumatore medio entra in contatto con i prodotti alimentari -
affermino il contrario.
E' stato calato volontariamente un sipario tra noi e il luogo di provenienza del cibo. Le
industrie non vogliono si sappia la verità. Se il consumatore la sapesse non comprerebbe.
132
[...] Esiste un ristretto gruppo di multinazionali che controlla l'intera produzione alimentare
dal seme al supermercato e che sta assumendo un gigantesco potere. Non è solo una
questione di cibo: sono a rischio anche la libertà di espressione e il diritto di informazione.
[Kenner, 2009].
In questo scenario il consumatore viene pertanto estromesso dalla conoscenza di ciò
di cui si nutre, nonostante egli rappresenti il principale protagonista del sistema
alimentare: le sue decisioni riguardo a quali cibi comprare (fresco o lavorato), al
marchio (locale o multinazionale) e dove comprare (supermercati, negozi o direttamente
dai produttori) condizionano l'andamento dell'intero sistema alimentare
Il consumatore rappresenta il perno del mercato, in quanto dalle sue scelte dipende il
mercato stesso. Tuttavia, il meccanismo di espansione e incorporazione delle principali
multinazionali sta minando tali scelte alla base: con la monopolizzazione dei mercati -
nascosta dalla presenza di una serie molto numerosa di marchi e industrie
apparentemente indipendenti, ma di fatto parti di gigantesche lobby - il consumatore
non sarà più in grado di effettuare tali scelte, alla base delle libertà e dei diritti personali.
I mezzi di comunicazione, in questo scenario, giocano un ruolo molto importante,
presentando industrie e marchi come appartenenti a mondi incontaminati, naturali,
'verdi', nonostante la realtà sia diametralmente opposta.
133
4 Alternative alimentari
1 Transizione
L'idea di sfruttare le risorse oltre i limiti intrinseci di rinnovamento si è visto essere il
perno del sistema capitalista, in particolare riferimento alla produzione alimentare
globale: dai piccoli sistemi indipendenti e autosufficienti si è arrivati attraverso i secoli
a un unico sistema mondiale incentrato sulla crescita del capitale, dei prodotti e dei
consumi, attraverso meccanismi di espansione e di inglobamento [Wallerstein, 1984]. Il
Sud, da sempre terra di conquista dei paesi europei, è diventato la 'fattoria del mondo',
una gigantesca macchina produttiva, controllata da pochi gruppi industriali, necessaria
al mantenimento di sempre più persone, sempre più concentrate in grandi centri urbani,
la maggior parte dei quali nel Nord. La diffusione del sistema lavorativo industriale (la
catena di montaggio) anche in altri settori come quello agroalimentare ha permesso di
abbattere considerevolmente costi e tempi, assicurando un aumento della produttività,
grazie anche allo sviluppo tecnologico (come la robotizzazione) di molte pratiche che
hanno prodotto una diminuzione della domanda di forza-lavoro e, dunque, dei salari
[Araghi, 2003; McMichael 2009; Moore 2010b, 2014, 2014b; Pallante, 2012; Achbar,
2003; Kenner, 2009].
L'industrializzazione del sistema agroalimentare, oltre ad avere effetti sul sistema
lavorativo e sulla forza-lavoro, ha avuto conseguenze negative sull'ambiente circostante:
le colture e gli allevamenti intensivi hanno infatti causato un aumento nell'impiego di
sostanze chimiche, influendo negativamente sul clima, sulle risorse idriche, sulla qualità
del suolo, ecc. La stretta relazione tra la produzione capitalista e l'equilibrio ecologico è
stata espressa nell'analisi fatta da Marx, definita come scissione metabolica. Ciò era già
visibile a partire dal XVIII secolo, come afferma Foster [2009], tuttavia l'accelerazione
offerta dalla globalizzazione ha acutizzato tale scissione.
134
Il sistema capitalista, come si è visto nel capitolo 1, prese forma in seguito alla crisi
feudale, alla peste nera e alla rivoluzione apportata da un nuovo modo di concepire la
natura e le sue risorse, attraverso una visione utilitaristica e di sfruttamento. Il sistema
basato sul capitale non è pertanto l'unico concepibile e storicamente avvenuto. Questo
passaggio, fu attivato da un periodo di transizione, in cui l'orizzonte socio-culturale fu
riorganizzato e modellato sui nuovi valori economici e politici, gestiti dai regimi che di
volta in volta si sono succeduti. La genesi del sistema è stata quindi graduale,
investendo sempre più settori produttivi, classi sociali e aree geografiche, col passare
del tempo. Un contributo significativo all'accettazione e adozione del sistema fu il
processo di privatizzazione delle terre, specialmente nell'Inghilterra del XVII e XVIII
secolo, che diede una decisa spallata al precedente modo di considerare la relazione
uomo-natura. La tragedia dei beni comuni descritta da Hardin rappresenta, in questo
senso, un deciso contributo al nuovo orizzonte socio-culturale, in cui la natura diventa
una risorsa spendibile e accumulabile. A livello socio-culturale, la nuova effervescenza
scientifica, industriale, finanziaria agraria permise la nascita della borghesia, dei
consumi e delle possibilità di guadagno rispetto alle precedenti condizioni feudali; i
limiti naturali, eccezion fatta per alcuni casi, come le coltivazioni di zucchero nelle isole
mediterranee o dell'Atlantico [Moore, 2009] erano a livello globale, lontani dall'esser
raggiunti, permettendo in questo modo la sedimentazione del nuovo sistema a livello
socio-culturale.
I vari regimi che si sono succeduti, dal capitalismo di Genova e Venezia [Braudel,
1982] alle Province Unite, dall'impero britannico a quello statunitense [Arrighi, 1999,
2008], si sono sviluppati all'interno di una struttura sociale in cui il capitalismo si era
diffuso a livello culturale, lasciando gli oppositori in posizioni marginali e di nicchia
sociale. L'adozione del capitale, all'interno del processo transitivo, si collocò a livello di
'paesaggio', inteso come ambiente esterno e socialmente condiviso, in cui di volta di
volta si confrontarono fazioni contrapposte per il raggiungimento di ruoli egemonici.
Piccole realtà o nicchie, in seguito a matrimoni, espansioni militari e acquisizioni di
titoli, raggiungevano dimensioni tali da smuovere gli equilibri geopolitici [Arrighi,
1999]. La forza dinamica di tali movimenti transitivi restava comunque all'interno del
paesaggio capitalista.
135
La prospettiva di Arrighi sulla transizione del capitalismo a sistema egemonico
mondiale potrebbe essere supportata anche da un nuovo approccio che si sta affermando
in Europa, definito prospettiva multilivello della transizione sociotecnica. In realtà, tale
approccio è molto centrato sulle transizioni tecniche ma è indubitabile che queste siano
centrali al pari della dinamiche politiche, economiche e militari identificate dalla scuola
del sistema mondo.
Lo schema proposto, definito prospettiva multilivello, è stato formulato per la prima
volta da Rip e Kemp e ripreso da Geels e Shot [Hargreaves, Longhurst and Seyfang,
2013], e consiste in un'analisi su più livelli dei processi transitivi. L'espansione del
capitale come sistema, e della propria struttura sociale è, in questo senso, osservabile
secondo lo schema proposto da Geels e Shot [2007], in cui le dinamiche di espansione
sono analizzabili attraverso tre livelli interpendenti e in costante interazione tra loro. La
proposta dei due sociologi consiste in un analisi multilivello della struttura sociale,
composta dal livello dell'orizzonte (landscape), quello dei regimi (regimes) e, infine, le
nicchie (niches), queste ultime geograficamente localizzate e con caratteristiche e valori
differenti od opposti alle posizioni dominanti [Geels and Shot, 2007]. Landscape sta ad
indicare l'ambiente circostante all'interno di un particolare sistema sociale in cui norme,
valori, consumi e vita quotidiana sono socialmente definite e stratificate; tali pratiche
sociali sono governate, coordinate e sviluppate dai regimi, la configurazione di attori
dominante [Avelino and Rotmans, 2010]. Le nicchie infine rappresentano il luogo delle
innovazioni e delle spinte al cambiamento [Smith, 2007], resistenti allo schema
dominante imposto dal regime, quest'ultimo garante dello status quo [Avelino and
Rotmans, 2007].
L'esperienza storica suggerisce e dimostra che i cambiamenti radicali hanno preso
forma in ambienti ristretti, ovvero nicchie situate ai margini del regime [Smith, 2007]. Il
quadro descritto restituisce una situazione di sviluppo dinamico, in cui nicchie e regimi
influenzano attivamente l'andamento, il progresso e lo sviluppo socio-culturale, a livello
dell'orizzonte: la diffusione di pratiche, inizialmente di nicchia e successivamente a
livello di regime determina, infatti, una netta modificazione del tessuto sociale.
Trovando una conferma allo schema proposto attraverso le analisi geopolitiche di
Arrighi e Wallerstein, la crescita a regime si è osservata in merito all'espansione di
Genova, Venezia e delle Province Unite, in grado, attraverso lo sviluppo dei servizi
136
bancari, finanziari e commerciali, di influenzare e indirizzare gli equilibri geopolitici
europei. Il regime è infatti definito come una costellazione di "pratiche dominanti,
regole e assunzioni condivise", che agisce come un'influenza omogenea nella sfera
sociale [Geels, 2011]. Una precisazione importante è che i regimi non corrispondono
soltanto al buon governo, o alla tirannide, della politica: la deregulation degli anni '80 e
la globalizzazione del decennio successivo [Arrighi, 1999] hanno infatti agevolato
l'ascesa delle lobby nel panorama geopolitico e finanziario, stabilendo secondo alcuni
studiosi nuove tipologie di regime. L'attuale regime alimentare, controllato dalle
multinazionali rappresenta un chiaro esempio di questa presa di potere: esso è infatti
controllato dai prezzi dei mercati e non da stati o imperi [McMichael, 2009].
La struttura sociale inserita in un paesaggio capitalista e governata da regimi che di
volta in volta sostituiscono i precedenti (basti pensare all'attuale momento di transizione
nel panorama geopolitico, con la crisi egemonica statunitense e l'ascesa cinese e delle
lobby) presenta al suo interno alcune nicchie, un livello sottostante ai regimi, in cui si
registrano le principali innovazioni tecnico-scientifiche, socio-culturali ed economiche
[Geels and Shot, 2007]. Tali innovazioni possono confluire nel paesaggio socio-
culturale ed essere adottate dai regimi, oppure rimanere su dimensioni marginali,
scomparire o, al contrario, scardinare i regimi e provocare cambiamenti al paesaggio
circostante. Tale analisi, che ben si presta alle concezioni sul capitale elaborate da
Braudel, si presenta quindi come dinamica e in trasformazione: in altre parole, i processi
transitivi che possono prender forma all'interno dei micro-livelli (nicchie), non seguono
un andamento lineare ma sono al contrario segnate dalla presenza di attori diversi
disposti su più livelli, socio-culturali, geopolitici ed economici.
All'interno dell'analisi multilivello bisogna tenere conto anche della componente
legata al potere, all'esercizio di esso e alle forme di esercizio, molto spesso tese al
mantenimento dello status quo, in termini politici, economici e sociali. Il potere qui è
visto dunque come un insieme coeso di soggetti unicamente interessati al mantenimento
del potere. Tali alleanze sono riscontrabili nelle industrie petrolifere e nella produzione
di energia da combustibili fossili, nonostante le alternative siano ampiamente disponibili
[Geels, 2014].
Contemporaneamente all'analisi multi-prospettica delle transizioni vanno considerate
anche le pratiche quotidiane di ciascuna persona; transizione non solo in termini socio-
137
tecnici, ma anche sociali [Hargreaves, Longhurst and Seyfang, 2013] e delle scelte
quotidiane, per esempio di consumo di ciascun soggetto. Le pratiche quotidiane come
cucinare, usare l'automobile, lavorare, dormire, ecc, definiscono il grado di
organizzazione sociale e i possibili processi transitivi [Hargreaves, Longhurst and
Seyfang, 2013; Shove and Walker, 2010]. Queste, in altri termini, si sedimentano nel
contesto e nello spazio quotidiano socialmente diffuso e condiviso [Shove and Pantzar,
2005], divenendo talvolta tratti caratteristici di alcuni strati sociali. A livello alimentare,
per esempio, basta considerare il ruolo giocato dal caffè come pratica sociale e
simbolica più che realmente funzionale [Franchi, 2007]. Modificare questo insieme di
pratiche socialmente radicato si presenta pertanto complesso, in ragione dei tanti
elementi che compongono il tessuto sociale, non ultimo i mezzi di comunicazione che
orientano e indirizzano l'opinione pubblica [Lippman, 2004].
Nel panorama attuale, sempre più globalizzato - sia mediaticamente, sia
politicamente - si sta osservando la nascita di piccole nicchie, distinte per pratiche e
consumi quotidiani, rispetto al trend generalizzato. La scarsezza di risorse disponibili,
l'aumento dei costi energetici e dell'inquinamento, l'indebolimento della forza-lavoro,
l'aumento del costo della vita e dei prezzi alimentari - in particolar modo durante il
biennio 2007-2008 - hanno aperto un ventaglio di innovazioni, all'interno di nicchie
sempre più folte, alternative ai modelli di crescita proposti.
Nuove realtà riconducibili ai movimenti di sostenibilità alimentare e ambientale
hanno preso piede in tutto il mondo nel corso dell'ultimo decennio, nonostante il
mancato risalto offerto dai media, offrendo così alternative potenzialmente valide al
panorama del capitalismo. Tra di esse alcune possono esser considerate come estreme,
altre, al contrario, più concilianti con le pratiche quotidiane di ciascun individuo e del
tessuto sociale in generale, tutte però orientate alla sostenibilità ambientale. E'
importante considerare che ciascuna modifica alle pratiche quotidiane corrisponde a un
miglioramento o peggioramento delle condizioni ambientali e alimentari: il grado di
conversione a pratiche sostenibili e ecologicamente idonee è infatti inversamente
proporzionale al mantenimento dell'orizzonte sociale attuale orientato alla produttività,
all'aumento dei consumi e all'accumulazione di capitale [Latouche, 2007; Pallante,
2012].
138
La transizione è un fatto intrinseco alla società in perenne mutamento ed evoluzione;
tuttavia i tempi di tale cambiamento sono relazionati a molteplici fattori, così come gli
esiti. Lo si è visto nel cambiamento dei regimi geopolitici, nella produzione e nel
consumo alimentare e nei cambiamenti prodotti sull'ambiente circostante, caratteristiche
ineliminabili di un sistema basato sulla valorizzazione economica della natura [Araghi,
2003; Foster, 2009]. Le nicchie 'alternative' si caratterizzano in questo senso non per la
sostituzione di vecchi prodotti con altri nuovi, ma in un cambiamento radicale del
sistema tecnologico, incluso un mutamento dei consumi, delle preferenze dei
consumatori e dei prodotti stessi [Smith, 2007]. Tali tentativi di innovazione
attraversano una lunga serie di ostacoli, legati in primo luogo alla dimensione culturale,
fortemente influenzata dai mezzi di comunicazione, dalle pratiche quotidiane
socialmente stratificate [Shove and Walker 2010] e dalla marginalità sociale in cui esse
si manifestano [Geels 2011; Geels and Shot, 2007; Frison, Cherfas and Hodgkin, 2011].
Ciononostante, l'esito non è scontato: come dimostrano le tante iniziative ecologiche
sorte nell'ultimo ventennio in tutto il mondo (come i movimenti di sovranità alimentare,
o la nascita di istituti bancari 'etici'), la resistenza culturale della maggior parte della
società si scontra con la presenza di nicchie produttive e sociali.
In Italia tuttavia il fenomeno ha avuto un discreto seguito da quando ha avuto
origine: la crescita e la stabilizzazione di alcune di esse sono eventi che si stanno
verificando con una certa frequenza, specialmente nell'ultimo decennio e in relazione
alla crisi economica e all'incertezza occupazionale [Mostaccio, 2015]. Le nicchie,
attraverso un'azzeccata pubblicità, hanno attratto fette di consumatori più attente alla
qualità alimentare, riuscendo così a trovare una collocazione, seppur parziale e minima,
nel mercato interno.
2 Sostenibilità alimentare
La lunga analisi sui regimi alimentari, all'interno del sistema del capitale, ha
evidenziato alcuni aspetti solitamente lasciati ai margini dell'opinione pubblica e delle
politiche governative, risaltando modelli orientati al consumo. La lunga filiera percorsa
139
dal cibo, come si è visto proveniente da tutto il mondo, molto spesso lascia infatti il
posto, di fronte al consumatore, ad una spettacolarizzazione del cibo e del contesto
alimentare: il cibo fa parlare di sé e viene presentato come qualcosa di spettacolare,
necessario al soddisfacimento dei più particolari gusti alimentari [Franchi, 2007].
Raramente infatti si fa menzione dei costi necessari alla produzione, al trasporto e alla
distribuzione che influiscono sensibilmente sui prezzi e sulla qualità finali [Pallante,
2012]; la cultura dell'immagine, ovvero quella del XXI secolo, non lascia infatti molto
spazio a tematiche simili, focalizzando l'attenzione su elementi come gusto, sapore,
estetica, rarità.
All'interno dell'orizzonte del consumismo bulimico delle società più avanzate, e delle
classi agiate dei paesi in via di sviluppo, stanno però nascendo nicchie alternative al
sistema vigente, in contrasto con i metodi intensivi di produzione, con l'inquinamento
derivante, con lo sfruttamento senza sosta delle risorse naturali e con le lunghe filiere.
Fin dal secondo dopoguerra il tessuto sociale, a cominciare dagli organi di informazione
ed educazione come media e scuola, hanno puntato l'attenzione sul progresso raggiunto
dalla produzione industriale (di qualsiasi settore) de-localizzata, in grado di garantire
alla maggior parte delle classi sociali dei paesi sviluppati tenori di vita al di sopra delle
possibilità strutturali [Foster, 2009]. Il cibo si è pertanto arricchito di una serie di
connotazioni e caratteristiche che l'hanno portato, all'interno della percezione sociale, a
venir descritto esclusivamente attraverso alcune caratteristiche come gusto, raffinatezza,
ricercatezza, e non provenienza, qualità. L'apertura della forbice tra le classi ricche e
quelle povere, ha portato in anni recenti alla contrapposizione tra cibo fast e slow
[Franchi, 2007], estremizzando l'attenzione sul cibo come prodotto da assorbire e da
gustare, ed escludendo la dimensione produttiva.
Fin dal primo colpo d'occhio le due sponde sono facilmente visibili per quello che
riguarda la tavola: lusso e miseria, sovrabbondanza e penuria. Detto questo, corriamo
verso il lusso. E' lo spettacolo più vistoso, meglio inventariato e anche più attraente per
un osservatore d'oggi, comodamente seduto nella sua poltrona. L'altra sponda si rivela
desolante. [Braudel, 1982, I, 164]
140
Con il boom economico del secondo dopoguerra, le industrie alimentari hanno preso
il sopravvento nella produzione di cibo agendo massicciamente sui consumi mondiali e
distogliendo l'attenzione sulle fasi dei processi di produzione [Kenner, 2009].
Il 'metabolic rift', la scissione metabolica descritta da Marx e ripresa dal
neomarxismo contemporaneo costituisce un'importante analisi su un serio problema
all'equilibrio ecologico e alle relazioni uomo-mondo [Foster, 2004, 2009, 2011, 2012,
2013]. Nel concetto espresso dalla scuola marxista si racchiude l'andamento
insostenibile dell'industria e della produzione del sistema capitalista, determinato quasi
totalmente da dinamiche di accumulazione di capitale, e non di salvaguardia
dell'ambiente.
Gusti, economicità e raffinatezza infatti sono indicatori deboli riguardo all'impatto
ecologico e ambientale di ciò che le masse consumano in termini alimentari: riguardo
all'ultimo anello della produzione alimentare, il consumatore, ciò che si osserva è una
generale perdita della percezione e della scelta dei prodotti. Frutta e verdura, ad
esempio, hanno assunto nel tempo aspetti pressoché 'perfetti' esteticamente,
discostandosi dai prodotti originari, restituendo pertanto solo un'immagine, un
simulacro di quel prodotto [Kenner, 2009]. Ciò è dovuto ai metodi produttivi e agli
standard alimentari e sanitari, che producono una generale conformità in termini di
prodotti, dieta e garanzie: l'ampio uso di sostanze chimiche, di agenti stabilizzanti, della
lavorazione industriale e di conservanti per il trasporto permette quindi di avere prodotti
identici tra loro, a costi relativamente contenuti, e approvati clinicamente. Questo è
permesso da almeno tre fattori: l'uso di sostanze chimiche e delle biotecnologie ha
permesso - seppur con un andamento decrescente - di aumentare i raccolti e le
esportazioni, soddisfacendo così la domanda mondiale di beni; la continua espansione e
privatizzazione dei terreni specialmente nei paesi più arretrati rappresenta un altro
mezzo per la stabilità dei prezzi nelle economie principali, assicurata inoltre ad una
forza-lavoro in condizioni di semi-schiavitù [Araghi, 2003]. La somma di tali fattori
coincide con un prodotto finale qualitativamente scarso, potenzialmente dannoso ed
economicamente poco più vantaggioso di quelli coltivati localmente [Latouche, 2007;
Pallante, 2012]. Il vantaggio economico dei prodotti industriali perde pertanto rilevanza
se riletto alla luce di altri fattori, risultando inoltre nullo se considerate le spese sanitarie
legate all'alimentazione. In questo quadro non bisogna scordare la drastica e continua
141
riduzione delle risorse naturali, come le materie prime e i combustibili fossili che, come
si è visto, hanno generato una corsa al business dell'agrofuels [McMichael, 2010b] e un
generale aumento dei beni di prima necessità.
La situazione descritta dimostra in tutti i suoi aspetti l'alto impatto ecologico,
ambientale, socio-culturale ed economico di un regime alimentare improntato sulla
produzione industriale su larga scala: l'economicità dei fast-food, garantita da prodotti
qualitativamente scarsi ma accattivanti e serviti da una manodopera a basso costo, molto
spesso è protagonista di casi di malnutrizione, obesità, virus o epidemie, come si è
osservato nei capitoli precedenti. In questo scenario i singoli individui affetti da disturbi
derivanti dalla malnutrizione dovranno investire parte dei propri soldi per le cure
mediche, annullando in questo modo i presunti vantaggi ottenuti da cibi economici e
fast [Latouche, 2007
].
Si viene così a delineare uno scenario nuovo ed alternativo: la presa di coscienza di
questa serie di problematiche ha aperto nel recente periodo alcune possibili alternative
di produzione e consumo alimentare scollegate dal regime industriale e promotrici delle
metodologie della sostenibilità alimentare. Questo concetto racchiude un ampio
ventaglio di possibili alternative rispetto all'orizzonte attuale e ai regimi che ne
mantengono l'equilibrio; il perno centrale del concetto di sostenibilità è comunque il
rispetto dei ritmi naturali, dei prodotti locali coltivati con tecniche biologiche, della
biodiversità e della qualità originaria dei prodotti. L'agricoltura biologica è un metodo di
coltivazione che ha come obiettivo il rispetto dell'ambiente, degli equilibri naturali e
della biodiversità, della salute dell'operatore e del consumatore. In essa non vengono
impiegati nè antiparassitari nè concimi di sintesi chimica e l'azienda agricola viene vista
come un “agro-eco-sistema” nel quale l'attività agricola si inserisce in un contesto
ambientale naturale cercando di conservarne il più possibile le caratteristiche [Regione
Piemonte, 2012].
In questo senso la sostenibilità alimentare coincide con quella ambientale:
l'agricoltura sostenibile infatti rappresenta il punto di equilibrio tra i valori ambientali,
quelli produttivi e quelli di erosione del terreno: il superamento, in altri termini, della
relazione utilitarista della natura e delle sue risorse. La ripresa di un equilibrio nelle
relazioni tra uomo e natura inaugura il concetto di resilienza: esse consiste nella
142
capacità di un ecosistema (inclusi quelli umani come le città) o di un organismo, di
ripristinare l’omeostasi, ovvero la condizione di equilibrio del sistema a seguito di un
intervento esterno (come quello dell’uomo) che può provocare un deficit ecologico
ovvero l’erosione della consistenza di risorse che il sistema è in grado di produrre
rispetto alla capacità di carico”. In poche parole resilienza e sostenibilità vanno a
braccetto quando un sistema è in grado di “mantenere il proprio funzionamento
nonostante un cambiamento o uno shock subito dall’esterno” e in riferimento ad una
comunità locale, quando “è in grado di essere indipendente per quanto riguarda la
produzione dei beni di prima necessità”. “Pensa globale, compra locale”, è solo uno dei
famosi motti che accompagnano e semplificano questo concetto.
Uno dei possibili metodi di agricoltura sostenibile è senz'altro il ritorno alla
coltivazione di più colture rispetto alle attuali industrializzate ed intensive monocolture:
si è osservato infatti che l'inserimento di più colture nello stesso appezzamento produce
raccolti superiori, una più rapida rigenerazione dei suoli, prodotti qualitativamente
superiori, nonché un miglioramento delle condizioni climatiche e dell'aria [Frison,
Cherfas and Hodgkin, 2011; Fukuoka, 2011]. Un simile metodo produttivo sarebbe
totalmente incompatibile con l'immenso apparato industriale delle multinazionali che
quotidianamente riforniscono i supermercati e i grossisti di cibo: a partire dagli anni '50
infatti, l'industrializzazione agricola ha comportato un nuovo ruolo delle fattorie e delle
aziende agricole, non più come produttori di cibo ma come intermediari di una più
lunga catena alimentare incentrata sul consumatore e sulla grande distribuzione. In
Inghilterra, a titolo di esempio, è stato calcolato che circa il 95% fa la spesa al
supermercato [Smith, 2007]; percentuale che si è visto essere simile nella maggior parte
dei paesi sviluppati; è in questo panorama socio-culturale che si può comprendere la
reale dimensione di nicchie socio-tecniche poste ai margini dei regimi.
Le nicchie ed i regimi infatti hanno come scopo finale due obiettivi opposti: al posto
dell'accumulazione di capitale, osservata nel processo produttivo delle grandi catene e
delle grandi firme, le nicchie agricole propongono prodotti qualitativamente migliori e
con metodi in sinergia con i ritmi naturali e con l'ambiente circostante.
Negli ultimi anni, complice una serie di fattori tra cui la crisi economica, l'aumento
dei prezzi alimentari e i disastri ecologici occorsi, si è assistito a una crescita di tali
nicchie e di un consumo più attento a questioni etiche, sociali, ecologiche [Zanoli e
143
Vairo, 2012], nonché qualitative. Ciò è stato possibile grazie anche all'aumento
dell'attenzione politica riguardo alle tematiche alimentari e all'agricoltura, sempre più
subordinata al capitale finanziario e multinazionale: i principali organi di governo
nazionale ed europeo hanno infatti aumentato finanziamenti, campagne pubblicitarie e
sovvenzioni alle nuove forme di agricoltura sostenibile e biologica [Zanoli e Vairo,
2012].
Nel 2007, l'Unione Europea ha adottato una nuova linea politica in materia di
agricoltura sostenibile: al punto 1 del documento pubblicato si legge infatti che:
"La produzione organica è innanzitutto un sistema di gestione agricola e produzione
alimentare che combina le migliori pratiche ambientali, il più alto livello di biodiversità, il
preservamento delle risorse naturali, il miglioramento del benessere degli animali e un
metodo di produzione in linea con le preferenze di alcuni consumatori di prodotti generati
da processi e ingredienti naturali" [EC, 2007, p.1].
In concreto la strategia adottata dai paesi membri ha riguardato lo sviluppo di sistemi
di coltivazioni mantenibili nel tempo, al contrario delle sementi geneticamente
modificate che, come si è visto, vanno riacquistate a ogni raccolto [Laskawy, 2010;
Moore 2014], in quanto le seconde generazioni si presentano altamente instabili
[Benbrook, 2009]; in secondo luogo le nuove linee politiche riguardano la coltivazione
diversificata e di qualità, cercando di mantenere i prezzi in linea con quelli mondiali;
una crescita dell'attenzione ambientale e verso la salvaguardia della biodiversità, in
particolare la protezione degli animali; l'investimento verso l'agricoltura biologica e
sostenibile passa anche dalla crescita della fiducia dei consumatori e dalla cura degli
interessi di ciascuno [Ec, 2007].
La crescita dell'interesse e degli interventi delle istituzioni ha alimentato il varco
nell'attenzione sociale, culturale e mediatica sulla sicurezza alimentare, aperto in
precedenza da iniziative indipendenti e private: i cittadini, specialmente negli stati dove
l'interesse verso la sicurezza alimentare è alto (l'Italia è uno di questi), hanno infatti
accresciuto il numero di iniziative e progetti, la maggior parte dei quali sorti in maniera
spontanea [Mostaccio, 2015]. Riguardo alla protezione della biodiversità e allo sviluppo
di colture diversificate e di qualità, l'Unione Europea (con l'Italia in testa) ha rifiutato
l'introduzione di OGM, salvo modificare la decisione su pressione delle multinazionali,
144
rimandando la scelta ad ogni singolo stato. Nonostante l'introduzione in alcuni paesi
come in Spagna di alcune varietà di semenze geneticamente modificate (precisamente la
qualità MON810, di Monsanto), in Italia ciò è stato sempre respinto grazie a
un'opinione pubblica e alla politica particolarmente attente alle questioni alimentari.
Il rifiuto di coltivazioni dannose per la salute ha aperto e apre la strada alla possibilità di
poter aumentare quelle biologiche, visto il terreno socio-culturale particolarmente
favorevole: in diverse regioni, in seguito alle Politiche regionali e ai Piani per lo
sviluppo rurale oltre che dal libero associazionismo, sono sorte numerose nicchie di
produzione agroalimentare sostenibile [Carbone, Gaito, Senni, 2005] che, in molti casi,
prevedono anche altre attività [Zanoli e Vairo, 2010], come di riabilitazione per malattie
specifiche, di educazione ambientale, di turismo e ristorazione, in un contesto
multidimensionale [Carone, Gaito, Senni, 2005]. Un esempio della nuova agricoltura
riguarda i progetti organizzati assieme alle scuole (medie ed elementari specialmente),
attraverso cui bambini e giovani entrano in contatto con la dimensione naturale,
ecologica e agricola che agevola l'apprendimento dell'universo agroalimentare per le
fasce più giovani. Nel mondo sono sorti moltissimi progetti di questo tipo; in Italia ciò è
accaduto soprattutto attraverso iniziative private come il progetto di Slow Food
denominato 'Orto in condotta', che dal 2004, anno di nascita del progetto, si è espanso
sino a contare circa 435 orti nella penisola, di cui un centinaio condotti direttamente da
Slow Food. Solo in Piemonte, secondo i dati di Slowfood, gli orti in condotta sono quasi
130, distribuiti tra scuola materna, elementare, media, superiore, piattaforme comunali e
musei.
L'agricoltura, in seguito ai nuovi progetti PAC (Politica agricola comune), si è infatti
aperta a una serie di pratiche alternative e parallele alla semplice produzione agricola: il
futuro, disegnato dalla nuova riforma PAC, sottolinea infatti come le prospettive
dell’evoluzione dell’agricoltura siano legate da un lato ad un pieno ed effettivo recupero
di competitività del settore (ricambio generazionale e formazione del capitale umano;
ricambio, ristrutturazione e innovazione del capitale fisico; qualità della produzione) e
dall’altro, ad un investimento nella multifunzionalità e diversificazione delle attività.
L’ampliamento dei confini tradizionali dell’agricoltura (coltivazione e allevamento)
nasce all’interno del processo di riorganizzazione del settore, avviatosi negli ultimi
decenni sulla spinta del nuovo indirizzo della politica agricola comune, da un lato come
145
strategia utilizzata dalle aziende agricole per far fronte alla riduzione e all’instabilità dei
redditi, consentendo in questo modo la sopravvivenza dell’attività primaria; dall’altro
lato come strumento per sottolineare il potenziale economico e il ruolo strategico del
settore, ai fini dello sviluppo all’insegna della sostenibilità non solo economica ma
anche culturale, alimentare, territoriale e ambientale. Favorire la diversificazione delle
attività rientra tra gli strumenti rivolti a restituire centralità e dunque nuovi spazi a
questo settore produttivo, contribuendo a riaffermare il suo ruolo strategico sul piano
dello sviluppo futuro. L’agricoltura, infatti, oltre alla funzione strettamente produttiva
svolge altre funzioni riassumibili in quattro tipologie: funzioni verdi (gestione del
paesaggio e tutela della biodiversità); funzioni blu (gestione delle risorse idriche e
preservazione dai rischi idrogeologici); funzioni gialle (sostegno allo sviluppo rurale,
riferimento culturale e d'identità, attrattiva turistica); funzioni bianche (qualità,
sicurezza e salute dei prodotti alimentari) [Tolomeo, 2013].
Sostenibile infatti è un concetto che trascende dalla dimensione puramente
economica: rappresenta il tentativo di un mutamento culturale, una presa di coscienza
dell'alto costo ambientale, prodotto dallo stile di quotidiano, contemporaneamente alla
bassa qualità dei prodotti abitualmente consumati [Pallante, 2012]. La rinascita di
un'agricoltura (urbana o rurale indistintamente) locale romperebbe infatti il legame che
unisce la produzione e i consumi nelle varie parti del mondo. I prodotti alimentari
risulterebbero qualitativamente migliori, grazie alle politiche nazionali in merito agli
OGM e alla riduzione di sostanze chimiche, per il mantenimento durante le fasi
distributive, con una serie di positivi effetti a catena: la notevole riduzione
dell'inquinamento, un miglioramento delle condizioni ambientali, la ripresa delle
economie locali, un miglioramento della trama sociale, la diminuzione delle malattie
provocate da intossicazione alimentare, la riduzione della perdita della biodiversità, la
rinascita del legame con il contesto naturale lentamente dimenticato a partire dalla
rivoluzione industriale, dalla privatizzazione dei beni comuni e dalla visione utilitarista
di essa.
L'innovazione come si è visto avviene nelle nicchie socio-tecniche e l'agricoltura e
l'allevamento sociali e sostenibili ne sono in questo senso la conferma: esse si
caratterizzano dalla presenza di attività extra-agricole (per esempio con ruoli di
formazione ed educazione, rivolte a fasce sociali vulnerabili, come le persone affette da
146
malattie mentali, anziani, bambini, ecc...), oltre che dalla sostenibilità della produzione
agroalimentare [Carone, Gaito, Senni, 2005]. Il carattere multidimensionale aiuta a
rinfocolare il rapporto fra le città e le vicine campagne, in quanto l'inclusione di pratiche
differenti da quella della coltivazione, come appunto l'educazione o la cura e la terapia
attraverso il contatto con animali e piante ha permesso di osservare la campagna con un
altro punto di vista rispetto alla sola dimensione lavorativa e contadina.
Il problema di fondo, che ha portato all'elaborazione di alternative sostenibili, è
l'insostenibilità del sistema globalizzato, in cui il mantenimento degli equilibri
geopolitici ed economici è dettato dalla necessità di crescita costante del fatturato
interno, attraverso la produzione, i consumi, le esportazioni, ecc... [Latouche, 2007].
"L'economia, dominata dalla logica finanziaria. si comporta come un gigante che non è
in grado di stare in equilibrio se non continuando a correre, ma così facendo schiaccia
tutto ciò che incontra sul suo percorso" [Latouche, 2007, p.27].
Come analizza Moore, la crescita interna rappresenta una costante del capitalismo sin
dai suoi albori: in un contesto come quello del XVIII secolo ciò era possibile data
l'enorme disponibilità di risorse primarie, di forza-lavoro, di energia e di cibo, ma
l'espansionismo coloniale, l'aumento demografico, l'eccessivo sfruttamento e la recente
globalizzazione hanno seriamente minato le possibilità di una crescita continua e
costante. La terra e le sue risorse corrispondono a un sistema finito, mentre quello
votato all'accumulazione di capitale si presenta come potenzialmente infinito,
divenendo quindi insostenibile a livello tanto ambientale, quanto sociale ed economico.
In ragione di quest'analisi, molti studiosi hanno pertanto teorizzato la necessità di un
cambiamento sostenibile che favorisca il riassestamento dell'ambiente circostante,
fortemente provato dallo sfruttamento ultrasecolare. E' necessario, in altre parole, un
cambiamento rispetto al carattere dissipativo dell'attuale sistema: esso infatti per sua
natura, tende al consumo e allo spreco, e non alla conservazione e al riciclaggio
[Rullani, 2012]. Un cambio delle pratiche sociali, di mentalità è pertanto necessario per
una sostenibilità alimentare e naturale [Mostaccio, 2015], ed è dunque normale che il
seme di un cambiamento così significativo risieda in piccole nicchie socio-tecniche. La
rottura delle lunghe filiere, la ripresa della sovranità alimentare, posseduta dalle grandi
multinazionali a partire dalla supermarketizzazione degli anni 80-90, la rinascita dei
147
consumi di prodotti locali sono elementi alla base di ogni logica sostenibile, o
insostenibile, a seconda dei punti di osservazione.
3 Sovranità alimentare e filiera corta
L'esplosione delle multinazionali, in maniera specifica nel contesto alimentare
[Achbar, 2003; Kenner, 2009], contemporaneamente a quella dei supermercati [Burch
and Lawrence, 2005] hanno spostato l'origine dei prodotti alimentari, dalla dimensione
locale a quella di 'cibo da nessun posto' (food from nowhere) [Bove and Dufour, 2001;
McMichael, 2005], generando una serie di ricadute, apparentemente positive, sul mondo
dei consumatori. Attraverso il risparmio sull'acquisto nei supermercati di prodotti, a
prima vista più gustosi e migliori, i consumatori hanno infatti scambiato la produzione e
la sovranità alimentare locale, con altri di dubbia qualità, ricchi di sostanze chimiche
(necessarie per il trasporto, per il mantenimento delle qualità e per l'estetica dei
prodotti), provenienti molto spesso da manodopera sottopagata nei paesi del Sud del
mondo [McMichael, 2009; 2009b] e favorendo così un meccanismo a catena, dominato
dalle grandi aziende. Il termine sovranità alimentare è stato introdotto per la prima volta
dal movimento contadino internazionale Via Campesina nel World Food Summit del
1996, da sempre attento alle tematiche alimentari e di sostenibilità: tale concetto
stabilisce che "tutte le persone in ogni momento hanno accesso fisico, sociale ed
economico ad alimenti sufficienti, sicuri, nutrienti che garantiscano le loro necessità e
preferenze alimentari per condurre una vita attiva e sana". La sovranità alimentare
delinea pertanto una struttura politica che richiama gli stati all'impegno alla lotta contro
l'insicurezza alimentare, definendo gli elementi su cui basare tale sfida e che si pongono
come alternativa all'attuale sistema dominato dalle aziende di grandi dimensioni e dalle
liberalizzazioni del commercio mondiale.
In tutto il mondo e specialmente nei paesi del Sud, la perdita della sovranità
alimentare rappresenta una forte minaccia alla stabilità sociale e culturale: la de-
contadinizzazione infatti è una delle conseguenze di questa perdita, che spinge masse di
contadini a popolare le città, in condizioni di vita misere e producendo un aumento dei
148
consumi nei supermercati [Reardon and Berdegué 2002; Reardon, 2003; Reardon,
Timmer and Berdegué, 2004, 2005].
Il problema inerente alla rinascita di una sovranità alimentare comprende quindi
numerosi livelli di cambiamento: il piano giuridico e dei trattati commerciali stipulati tra
i vari paesi e le varie organizzazioni internazionali; politiche interne, nuove riforme
agrarie e del lavoro, in modo da bilanciare la produzione destinata alle esportazioni e
quella per il fabbisogno locale; investimenti economici; un cambiamento socio-
culturale, attento ai consumi e alla produzione locale; una maggiore protezione dei
prodotti nazionali; la reintegrazione di masse di disoccupati nel mondo del lavoro.
A livello generico, una possibile definizione di sovranità alimentare riconduce a
quattro elementi ben definiti: in primo luogo il diritto al cibo; il secondo è l'accesso alle
risorse produttive (accesso alla terra, all'acqua, alle risorse genetiche e alle risorse
naturali in generale). A fianco dell'accessibilità si pone la necessità di riforme agrarie
che riequilibrino la distribuzione delle terre e limitino o vietino le coltivazioni di OGM;
il terzo principio riguarda la produzione agroecologica, attraverso una maggior
promozione dei prodotti ecologici e lo sviluppo di politiche per il territorio e per
l'agricoltura sostenibile, volte alla nascita di mercati locali; il quarto punto riguarda
appunto la nascita e lo sviluppo dei commerci e dei mercati locali.
Come si può osservare, la sovranità alimentare è precedente alla pura attività agricola
e comprende un cambiamento della strutturazione sociale a livello locale, nazionale e
globale. Una questione di diritti, di democrazia e di sovranità che punta a garantire
l'accesso al cibo, la funzione sociale condivisione e lo stesso diritto a produrre per un
consumo locale. La sovranità alimentare significa possibilità per gli Stati, le regioni, le
comunità locali in tutto il mondo di decidere autonomamente cosa produrre, di scegliere
metodi di coltivazione sostenibili, rispettosi dell’ambiente e delle tradizioni locali, di
decidere su quali mercati e a quali destinatari indirizzare gli alimenti, di offrire cibi sani
e a prezzi accessibili anche alle fasce meno fortunate della popolazione mondiale, di
promuovere in sostanza la riduzione della fame e della povertà.
Tuttavia, affinché ciò avvenga è necessaria una presa di posizione della politica
nazionale, la cui mancanza coincide con il mantenimento delle posizioni di forza da
parte dei colossi finanziari ed industriali: in Ecuador, ad esempio, paese da sempre al
centro dell'interesse privato [Perkins, 2012], si è assistito a un'effervescenza collettiva
149
(composta da gruppi eterogenei), che, negli anni '90 ha portato alla messa in discussione
dell'intero impianto produttivo, richiamandosi proprio al concetto di sovranità
alimentare grazie all'appoggio di Vía Campesina. Dalla fine degli anni Novanta, questi
movimenti hanno assunto la sovranità alimentare come priorità politica, dando vita alla
Mesa Agraria, uno ‘spazio di concertazione’, entro cui viene ripensata la questione
agraria e da cui scaturisce un repertorio comune di azione collettiva. Con Mesa Agraria,
l'obiettivo della classe contadina cambia: la battaglia non è più per l'inclusione dei
contadini nel modello agrario dominante - rincorrendo la logica della modernizzazione,
dell’aumento della produttività e dello 'sviluppo' - ma aspira, piuttosto, ad una
transizione agro-alimentare come alternativa a quella perseguita dalle politiche
neoliberiste. L’avvio di un processo interno di analisi e dibattito conduce
all'elaborazione di un documento (Agenda Agraria de las Organizaciones del Campo
del Ecuador) che pone al centro dell’agenda politica il paradigma della sovranità
alimentare, così come il relativo ed imprescindibile accesso ad investimenti e risorse.
L'importanza di Mesa Agraria continua a crescere fino all'incontro con il Governo che
inaugura l'ingresso del concetto di sostenibilità alimentare all'interno della legislazione
ecuadoriana, con la Ley de Seguridad Alimentaria y Nutricional del 2006 [Giunta e
Vitale, 2013]. Il successo dell'iniziativa arriva due anni dopo con la stesura della nuova
Costituzione che supera l’idea dell’accumulazione e della crescita illimitata come fine
ultimo dello sviluppo, affermando un nuovo principio ordinatore: il sumak kawsay,
principio andino della ‘buona vita’ (buen vivir), alla cui luce costruire un nuovo patto
sociale fra gli esseri umani e fra questi e la natura, che rispetti dunque la sostenibilità
dei processi di riproduzione sia dell’esistenza umana, sia di tutte le altre forme di vita
[Giunta e Vitale, 2013]. La sovranità alimentare, assunta come uno dei diritti del buen
vivir e tradotta in obbligo dello Stato, diventa caposaldo della strategia di sviluppo, che
tuttavia fatica a tradurre in legge i principi sanciti: realizzarne la portata avrebbe infatti
significato sollevare ed affrontare nell’agenda politica ed istituzionale la discussione
intorno alle relazioni di potere che presiedono al controllo sociale del sistema alimentare
[Giunta e Vitale, 2013]. La scarsa intraprendenza delle masse di contadini e di indigeni
ha infatti rafforzato le posizioni di potere dei principali attori nel settore agroalimentare,
i grandi gruppi industriali; il risultato è stato un impasse politico-sociale, del quale a
trarne a vantaggio sono i proprietari terrieri, i gruppi industriali e le multinazionali.
150
Il concetto di sovranità alimentare permetterebbe, a livello di massimi sistemi, la
possibilità di non esser più dipendenti dai prodotti presenti sul mercato, ma da quelli
coltivati con metodi sostenibili: la riduzione della globalizzazione alimentare
produrrebbe effetti vantaggiosi anche nelle popolazioni delle periferie produttive, specie
nel Sud del mondo. Il caso dell'Ecuador è esemplificativo dell'importanza ricoperta
dalle istituzioni in materia di sovranità alimentare: nonostante l'innovazione delle
nicchie socio-tecniche e il rapido sviluppo di esse nella produzione alimentare
sostenibile come le colture biologiche, il ruolo giocato dalle istituzioni resta
logicamente centrale al pari di quello delle industrie e delle multinazionali.
Recentemente in Inghilterra, il gruppo non governativo APPG (All Party
Parliamentary Group) ha proposto un disegno di legge per l'aumento dell'attenzione
mediatica e dell'opinione pubblica attorno al tema della sostenibilità ambientale e
alimentare per il recupero della biodiversità e per lo sviluppo e rafforzamento del
concetto di sovranità alimentare, sulla scia dei successi ottenuti in Ecuador. Com'era
prevedibile, la proposta non ha trovata la sperata attenzione, venendo prontamente
accantonata dal Governo britannico [Atzori, 2014].
Senza il sostegno delle istituzioni, i movimenti e le associazioni di cittadini si
trovano esposti di fronte al potere delle grandi aziende e alle relative strategie di
accumulazione di capitale, più che di salvaguardia del territorio o della biodiversità. Nel
frattempo sono proliferate le associazioni di contadini, agricoltori, allevatori e cittadini,
come quelle che hanno dato vita alla Dichiarazione di Nyéleni (2011): tale documento,
firmato dai 400 membri dei 34 stati europei partecipanti al Forum europeo per la
sovranità alimentare [Rizzo, 2013] sancisce la nascita ufficiale di un movimento che
raggruppa un folto gruppo di produttori agricoli, circa 500 rappresentanti di 80 paesi
sparsi nel mondo, il cui obiettivo principale riguarda il raggiungimento della sovranità
alimentare di ciascun paese.
La Dichiarazione del movimento ha come principi la sovranità alimentare di tutte le
popolazioni; la riqualificazione del ruolo femminile all'interno della produzione
alimentare; il diritto di ciascun popolo a vivere con dignità; la conservazione e la
riabilitazione degli ambienti naturali, la ripresa delle tradizioni alimentari e delle
metodologie di pesca rispettose dei ritmi naturali; il rispetto delle differenti tradizioni,
delle culture, dei cibi, delle lingue parlate e i metodi di organizzazione sociale; la
151
richiesta di riforme agrarie e per il territorio che regolarizzino le modalità di
coltivazione, allevamento e dei diritti cittadini, compresi quelli delle comunità indigene;
la compresenza di più culture in un determinato ambiente; la difesa del territorio nei
confronti delle azioni e le strategie di accumulazione delle multinazionali e delle
industrie. Questi principi, se messi in atto da una parte consistente delle popolazioni,
produrrebbero delle evidenti crepe al sistema alimentare, economico e geopolitico
attuale: la disponibilità a basso costo di prodotti locali causerebbe infatti ingenti perdite
all'agrobusiness, limitando di riflesso anche le guerre per il cibo [Franco e Marino,
2012], a volte caricate di altri significati religiosi, etici, ecc... [Shiva, 2010].
In Italia, nonostante l'attenzione alimentare sia più alta che altrove, in alcuni casi
molto più alta, l'interesse politico per lo sviluppo di una sovranità alimentare è rimasto
negli anni molto scarso, limitando il contesto a realtà locali, indipendenti e spontanee, al
contrario decisamente attive e in crescita. Al di là di associazioni, movimenti di
consumatori e piccole cooperative, la legislazione italiana risulta carente delle
disposizioni necessarie allo sviluppo giuridico della sovranità alimentare. Il Comitato
Italiano per la Sovranità Alimentare (CISA) è una realtà associativa (nato in seguito a
quello Internazionale) che raggruppa un ampio schieramento di organizzazioni sociali e
non governative intorno all’idea che agricoltura e alimentazione debbano godere di una
sollecitudine continua e di un’attenzione che va molto oltre la dimensione settoriale,
essendo a loro ancorato il concreto esercizio di diritti fondamentali. Il CISA rappresenta
una rete con circa 270 associazioni in Italia, di varia natura: sindacati, pensionati,
movimenti ambientalisti ed ecologici, di sostenibilità alimentare, organizzazioni non
governative. Tutte le associazioni aderenti al comitato fanno esplicito riferimento a un
miglioramento delle condizioni di produzione, di consumo, di accessibilità ed
economiche, in relazione al contesto alimentare attuale, attraverso dinamiche di
votazione democratica e partecipazione volontaria. Il CISA infatti si impegna a lavorare
alla promozione della sovranità alimentare che richiama, richiede ed orienta la
definizione di politiche economiche, agricole e ambientali che declinino il rispetto dei
diritti umani fondamentali contemplando sia i diritti individuali che quelli collettivi. La
crescita del CISA è testimoniata dall'aumento di iscrizioni e partecipanti e
dall'attenzione mediatica; questa, come altre possibili alternative, è tuttavia ancora
152
caratterizzata da livelli e dimensioni ancora marginali rispetto all'enorme flusso di
capitale e di prodotti alimentare da e per la grande distribuzione.
Una delle modalità attraverso cui attuare drastici cambiamenti all'insostenibilità
ecologica ed economica del terzo regime alimentare risiede nella rottura delle filiere
lunghe, descritte nei capitoli precedenti. Per Filiere corte si intendono tutte quelle
modalità di commercializzazione dei prodotti alimentari che si caratterizzano, da un
lato, per la riduzione o l’eliminazione degli intermediari fra i produttori agricoli e i
consumatori e, dall’altro, per la dimensione locale delle transazioni commerciali. Le
Filiere corte sono state protagoniste negli ultimi anni di un impetuoso sviluppo e, per
quanto veicolino ancora una quota trascurabile dei prodotti agroalimentari
commercializzati, sono protagoniste di un vivo dibattito scientifico e politico del quale
l’opinione pubblica è sempre più consapevole.
Lo sviluppo di filiere corte permette di tagliare considerevolmente i costi legati al
trasporto, all'imballaggio, alla conservazione dei prodotti, all'utilizzo di sostanze
chimiche, all'inquinamento derivante, apportando pertanto miglioramenti sociali,
purtroppo non definibili attraverso valori e parametri esclusivamente economici.
L'attenzione rivolta verso la creazione di filiere corte è in aumento, specialmente in
relazione al periodo di instabilità economica, di lavoro e di insicurezza alimentare
attuale: contrariamente al paesaggio (landscape) organizzato attraverso una produzione
industriale e a basso costo del cibo, si riscontrano sempre più nicchie socio-tecniche al
cui interno la filiera corta ha preso il sopravvento. Le Filiere corte sono state
protagoniste negli ultimi anni di un impetuoso sviluppo con l’affermarsi di esperienze
molto diverse fra loro [Franco e Marino, 2012], tutte accomunate da un discreto
successo mediatico ed economico.
La vendita diretta dei prodotti agroalimentari è la forma più tradizionale e diffusa di
filiera corta e, genericamente, viene effettuata dalle aziende di piccole o medie
dimensioni, le uniche caratterizzate da un rapporto con il territorio, con le tradizioni e
con il contesto locale. La filiera corta rappresenta pertanto un meccanismo attraverso
cui recuperare e rinsaldare il rapporto tra produttori e consumatori, con un maggiore
interesse verso l'ambiente esterno e le risorse offerte [Franco e Marino, 2012]. Nel
2007, le piccole-medie aziende che in Italia, accanto alla grande distribuzione,
vendevano al dettaglio ai consumatori locali erano circa il 30% di quelle totali [Franco e
153
Marino, 2012]. Tale percentuale è cresciuta negli anni nel territorio italiano, in relazione
a una serie di variabili come: l'area geografica (Nord, Centro, Sud), gli organi e le
autorità garanti e organizzative (Regione, Provincia, Comune), le aree e la frequenza di
mercato, le classi sociali che abitualmente acquistano tali prodotti e la frequenza con cui
essi vengono acquistati [Franco e Marino, 2012]. Il superamento del sistema della
grande distribuzione è ancora lontano, ma come analizza Mostaccio [2015],
"Alcuni supermercati sono già in crisi, altri chiuderanno presto. Nel lungo futuro a
resistere saranno i piccoli punti vendita, con la sparizione degli ipermercati. Con la chiusura
dei piccoli negozietti a conduzione familiare, gli acquisti quotidiani vengono fatti sempre
più nei supermercati di prossimità, e sempre meno negli ipermercati, in considerazione con
l'invecchiamento della popolazione e l'indisponibilità a raggiungere i centri commerciali,
situati fuori dalle città o dai paesi".
Il declino dei supermercati è dettato in parte dallo sviluppo delle nicchie sostenibili,
in parte dalla crescente sfiducia dei consumatori verso i prodotti industriali della grande
distribuzione; al contrario, si registra una crescita d'interessi verso le strategie
sostenibili, in cui la filiera corta rappresenta uno dei punti di maggior forza e seguito. E'
chiaro che un simile capovolgimento produttivo, dalla grande distribuzione al consumo
di prodotti locali all'interno di una filiera corta, non può essere rapido, né totale, ma
secondo gli esperti, la delicata situazione ambientale, economica, politica e di consumo
mondiale non permetterà una crescita infinita di produzione e consumi, soprattutto nel
contesto europeo, statunitense e giapponese [Rullani, 2012], realtà in cui ciò avvenne
nell'immediato dopoguerra.
All'orizzonte si ipotizza dunque un cambiamento nel lungo periodo dei sistemi di
produzione e delle modalità di accessibilità e consumo alimentare, specialmente nei
paesi più sviluppati; la sostenibilità ambientale e alimentare costituiranno punti di
primaria importanza all'interno delle politiche di questi paesi, in cui le filiere corte, il
'chilometro 0', gli orti urbani, i Gruppi d'Acquisto come i GAS e i GAC, le coltivazioni
sinergiche aumenteranno il proprio peso nella produzione agroalimentare nazionale
[Mostaccio, 2015; Rullani, 2012].
154
4 I gruppi d'acquisto GAS e GAC
In risposta alle crescenti disuguaglianze economiche e sociali che l'attuale modello di
globalizzazione economica ha prodotto si stanno affermando pratiche alternative che si
richiamano al concetto di economia solidale che propone di democratizzare l'economia
locale, di legittimare l'economia non mercantile, di valorizzare gli scambi non monetari
ed informali [Rossi e Brunori, 2011; Sivini, 2007].
La filiera corta rappresenta una modalità di rottura con il regime alimentare globale e
una ripresa dei rapporti tra territorio e popolazione, elemento caratterizzante ed
onnipresente nell'ultra millenaria storia dell'uomo. Tale ripresa potrebbe portare alla
comparsa di tante piccole nicchie agroalimentari, molto presenti e radicate nel territorio
e svincolate da oneri internazionali, permettendo in questo modo una ripresa anche del
mondo del lavoro, una ricostituzione delle relazioni tra produttori e consumatori,
smarrita dal'acquisto 'self-service' di 'food form nowhere' del supermercato. La ripresa
di una solidarietà e delle relazioni sociali rappresenta uno degli aspetti positivi e degli
elementi fondanti un GAS: in questo modo infatti si può entrare in contatto con il
prodotto alimentare attraverso forme più profonde della semplice dimensione
economica, ottenendo così più informazioni. Se l'alimento in questione fosse carne
bovina, il consumatore potrebbe venire a conoscenza del tipo di alimentazione, di
allevamento, di macellazione, e altre informazioni, al contrario celate dalla grande
distribuzione. Il cibo prodotto localmente, 'chilometro zero' permette infatti una maggior
trasparenza nei confronti dei consumatori, a prezzi contenuti, aumentando pertanto la
sicurezza e la fiducia verso i produttori.
I GAS, ma non solo, producono un miglioramento delle condizioni socio-culturali e
alimentari rispetto a quelle attuali. I gruppi di acquisto solidali sono gruppi di persone
che acquistano insieme, seguendo il principio della solidarietà, che li porta a preferire
produttori piccoli e locali, rispettosi dell'ambiente e delle persone, con cui entrare in
relazione diretta. Il concetto che sta alla base dei GAS è quello di filiera corta, cioè
l'avvicinamento fra produttore e consumatore finale, sia in termini geografici,
privilegiando le aziende più vicine, sia in termini "funzionali", tagliando gli intermediari
quali i grossisti e i negozianti. Nel caso dei GAS la filiera è la più corta possibile, infatti
i consumatori si rivolgono direttamente ai produttori. I criteri con cui gli aderenti ai
155
GAS selezionano prodotti e produttori sono quelli classici del consumo critico, senza
però mai perdere di vista la qualità del prodotto. L'obiettivo dei membri dei GAS non è
quello della ricerca del risparmio, ma quello di acquistare prodotti rispettosi
dell'ambiente e delle persone: il fatto di farlo in gruppo e rivolgendosi direttamente ai
produttori, porta anche ad una sostanziale riduzione del prezzo rispetto ad un prodotto
delle medesime caratteristiche acquistato in negozio [Rossi e Brunori, 2011; Saroldi,
2008].
Il punto di partenza è decisamente opposto rispetto al consumo tradizionale: alla base
dei gas non vi è infatti la ricerca ossessiva di risparmio economico, come gli acquisti a
cui l'uomo contemporaneo è abituato, ma al contrario un contenimento dei prezzi a
favore di un deciso aumento della qualità dei prodotti offerti, attraverso una ripresa delle
relazioni sociali e di una nuova valorizzazione del territorio. In altre parole, lo sviluppo
e l'adozione di un cambiamento culturale oltre alle pratiche alimentari quotidiane.
I tre principali motivi che inducono la nascita di un GAS sono la volontà di cambiare
modelli di consumo, la ricerca di una alimentazione sana e la volontà di sostenere i
piccoli produttori [Rossi e Brunori, 2011]. Si nota che in particolare, la prima è indicata
come la motivazione più importante da quasi il 70 per cento dei gruppi presenti in Italia
e censiti. Ciò conferma come questi processi di organizzazione abbiano una valenza
biopolitica [Goodman, 2004].
Considerando la situazione globale e le lunghe filiere produttive che culminano nei
supermercati, la ripresa dei legami con i produttori locali permette di ridurre, o
quantomeno tamponare, la difficile situazioni cui sono sottoposti i lavoratori e
braccianti dei territori del Sud e, in generale, delle periferie produttive. In termini
globali questo consentirebbe, a livello teorico, una diminuzione dell'effetto squeeze
[Sivini, 2007], dei trasporti, dell'utilizzo di imballaggi e di materiali inquinanti
[Latouche, 2007; Mostaccio, 2015; Pallante, 2012; Saroldi, 2008]. La partecipazione ai
gruppi di acquisto permette inoltre di aumentare l'esperienza relazionale e sociale
all'interno dei gruppi, di acquisire maggiori competenze alimentari, grazie anche alla
vicinanza dei produttori.
Generalmente le dimensioni dei gruppi di acquisto sono contenute e variano da
poche famiglie a centinaia di iscritti, così come le modalità e strategie. Sono gli obiettivi
descritti a rimanere uguali per tutti i gruppi, alcuni di questi costituiti in associazioni,
156
altre organizzati internamente ma privi di statuti ufficiali. Al di là delle differenti
sfumature che i GAS possono assumere, i gruppi raccolgono ciclicamente le
informazioni sui prodotti alimentari disponibili e sulle richieste dei consumatori. Tali
richieste vengono sommate per formare l'ordine complessivo del gruppo in periodi e
con modalità di pagamento precedentemente stabiliti [Mostaccio, 2015; Saroldi, 2008;
Sivini, 2007]. Tali modalità di acquisto permettono alla sfera dei consumatori di
mantenere pressoché intatti i costi per l'alimentazione ma con una qualità molto
maggiore. Sono queste le modalità che spingono le persone a entrare nei gruppi di
acquisto, sottolineate nel Documento di Base dei GAS:
"Un gruppo di persone decide di incontrarsi per riflettere sui propri consumi e per
acquistare prodotti di uso comune, utilizzando come criterio guida il concetto di giustizia e
solidarietà, dà vita a un GAS. Finalità di un GAS è provvedere all'acquisto di beni e servizi
cercando di realizzare una concezione più umana dell'economia, cioè più vicina alle
esigenze reali dell'uomo e dell'ambiente, formulando un'etica del consumare in modo
critico che unisce le persone invece di dividerle, che mette in comune tempo e risorse
invece di tenerli separati, che porta alla condivisione invece di rinchiudere ciascuno in un
proprio mondo (di consumi)" [GAS, 1999].
A livello occupazionale, la rinascita delle relazioni con i produttori locali permette di
ridurre la percentuale di disoccupati, reintegrandoli nel contesto agroalimentare. Come
si legge nel Documento di Base:
"I produttori piccoli sono in generale ad elevata intensità di mano d'opera (ore di lavoro
utilizzate per un prodotto), rispetto alle aziende grandi che sono per lo più ad elevata
intensità di capitale (quota di finanziamenti utilizzata per un prodotto). La scelta dei primi
rispetto ai secondi è quindi uno strumento importante per creare occupazione, ovvero per
fare in modo che i soldi che spendiamo servano a pagare in misura maggiore chi ha
lavorato rispetto alle banche o agli azionisti" [GAS, 1999].
Lo sviluppo dei GAS a livello nazionale, in prevalenza nel Nord, ha permesso negli
anni - grazie al supporto di altre associazioni, come le Botteghe del Mondo e le
organizzazioni di finanza etica - di istituire la Rete Italiana di Economia Sostenibile
(RES), e di aumentare la presenza sul territorio. La RES rappresenta l'insieme delle
nicchie di produzione sostenibile, rifacendosi ad alcuni principi condivisi da tutti i
157
gruppi partecipanti [RES, 2007]: uno dei punti fondamentali dell'economia sostenibile si
basa sui principi di cooperazione e di reciprocità, prendendo le distanze dalla
dimensione competitiva tipica del sistema capitalistico.
La rete dei GAS, come si è visto, si è espansa rapidamente in tutto il territorio
italiano, in particolare nelle vicinanze delle città, in cui l'attenzione al cibo e alla qualità
risulta maggiore, al pari dei consumi nei supermercati. Nel 2008 si stimava che i gruppi
d'acquisto totali fossero quasi un migliaio in Italia, metà dei quali indipendenti e dunque
non riconosciuti in forme associative. Attualmente si ipotizza che questo numero possa
essere raddoppiato, con circa 980 GAS ufficialmente riconosciuti circa 200 mila iscritti
[Regazzola, 2014].
A Torino, il coordinamento tra GAS ha dato vita ad una associazione ed una mailing
list cui sono iscritti i GAS di città e dintorni. In relazione ai vari periodi dell'anno, i
produttori propongono i propri prodotti stagionali all'interno del gruppo. Quando è il
tempo delle arance, ad esempio, l'associazione Mani Tese si occupa di gestire un ordine
collettivo per i GAS della zona, inviando un messaggio sulla mailing list con le
indicazioni per eseguire l'ordine. In questo modo vengono raccolte le richieste di tutti i
gas per formare un ordine complessivo verso il produttore; nel giorno della consegna
ogni gas andrà poi a ritirare le sue cassette. In questo modo, nel corso dell'inverno
2007/2008, sono stati raccolti da 60 gruppi su quattro consegne ordini per 53 pedane di
agrumi, più di 500 quintali. Il campo del produttore siciliano, che fornisce diversi gas
del nord, ormai non è più sufficiente; per questo motivo gli agricoltori vicini sono stati
coinvolti nel progetto ed hanno costituito un consorzio per rispondere alle richieste dei
gas. Gli agrumi vengono pagati loro un prezzo che può essere anche 5 volte superiore a
quello a cui sarebbero costretti a vendere nei canali della distribuzione tradizionale,
mentre ai componenti del gas le arance biologiche vengono a costare meno che al
supermercato [Saroldi, 2008].
Nel 2007, l'enorme risonanza dei Gas li ha fatti diventare formalmente "soggetti
associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere attività di acquisto
collettivo di beni e distribuzione dei medesimi con finalità etiche, di solidarietà sociale e
sostenibilità ambientale" (Legge Finanziaria 2008, art. 1, comma 268).
A fianco all'esperienza in continua crescita dei GAS, sono sorti altri e diversi
progetti, con i medesimi obiettivi ma con organizzazioni e metodologie un po'
158
differenti. Tra di essi si possono citare i GAP (Gruppi di Acquisto Popolare), nati
dall'impegno politico del Partito di Rifondazione Comunista come risposta alla crisi
economica, per acquistare collettivamente generi alimentari di base, utilizzando come
supporto logistico le sedi del partito presenti sul territorio; un'altra tipologia è quella dei
GAF (Gruppo di Acquisto Familiare), composti da gruppi di famiglie con figli che si
accordano per acquistare dai produttori beni o generi alimentari specifici che incidono
pesantemente sulla spesa mensile, come pannolini e prodotti per l'infanzia [Mostaccio,
2015].
La filiera corta e il cambiamento socio-culturale verso una produzione alimentare
sostenibile si è presentata a Torino e in Provincia anche attraverso i GAC, Gruppi di
Acquisto Collettivo, un movimento parallelo e con molte analogie rispetto ai GAS
diffusi a dimensione nazionale. Analogamente ai GAS anche i GAC sono gruppi di
consumatori e produttori con l'obiettivo di fornire cibo qualitativamente superiore,
attraverso una filiera più corta possibile che riduca l'inquinamento e che recuperi il
valore della relazioni uomo-territorio e uomo-natura; la differenza sostanziale tra GAS e
GAC è che questi ultimi sono nati come progetto della Provincia di Torino in relazione
alle difficili condizioni di strati sociali 'vulnerabili', ovvero coloro che, per condizioni
oggettive legate ad aspetti come salute e lavoro, rischiano un significativo
impoverimento delle loro condizioni materiali [Mostaccio, 2015]. Al contrario dei GAS
che si caratterizzano da una partecipazione spontanea e individuale che, attraverso
l'aggregazione, porta alla costituzione di gruppi sempre più folti e numerosi, i GAC
hanno preso forma da un progetto di politiche pubbliche volte al contrasto della
vulnerabilità sociale e della povertà [Mostaccio, 2015]; questo progetto interamente
promosso dalla Provincia di Torino è stato gestito interamente dall'associazione
Movimento Consumatori, costituendo una fitta rete di produttori e consumatori,
all'interno del territorio torinese. Rispetto ai gruppi di acquisto auto-organizzati, nei
GAC gli ordini vengono gestiti dall'associazione, che si fa carico della gestione degli
ordini, dei pagamenti, e delle relazioni tra produttori e consumatori [Mostaccio, 2015].
"Il principio ispiratore del progetto, essenzialmente culturale, è che a tutti deve essere
dato di poter accedere a prodotti alimentari di alta qualità. Il tutto è partito su volontà della
Provincia nel 2006, e fu quasi un'eccezione rispetto ad altre realtà. La provincia e la
Regione sono sempre state attente alle reti di acquisto informali, solidali: nel 2006
159
l'Assessore Artesio decise di sperimentare reti alternative di consumo e vendita, con
l'obiettivo di nutrirsi meglio e, magari, di riuscire a risparmiare qualcosa sulla spesa"
[Mostaccio, 2015].
Rispetto alle altre organizzazioni volte alla sostenibilità alimentare, i GAC si
caratterizzano per la presenza del Movimento Consumatori che svolge numerosi compiti
organizzativi: innanzitutto seleziona i fornitori dei gruppi d'acquisto e contratta i prezzi
a listino; garantisce la qualità dei prodotti attraverso analisi in laboratorio; gestisce i
gruppi; riceve gli ordini da ciascun GAC presente sul territorio; contatta i produttori e
redistribuisce i prodotti; gestisce la contabilità e organizza eventi collaterali [Mostaccio,
2015], come quelli promozionali e di sensibilizzazione. In questo senso il GAC si
presenta più stabile rispetto ad altri progetti, in quanto dispone di sedi stabili dove poter
ritirare la spesa, uno statuto associativo e un organo direttivo, gestito dal Movimento
Consumatori: essi pertanto permettono un più alto grado di associazionismo e di
disponibilità di prodotti, selezionati attraverso il bando Mio Bio, che ha, tra i vari
parametri, l'adesione alle coltivazioni biologiche e a 'chilometro 0' [Mostaccio, 2015].
"Solo nei casi dove ciò non è possibile, e in questo senso il paniere piemontese si
presenta piuttosto scarno, ci rivolgiamo a produttori nazionali, purché essi coltivino
attraverso metodi biologici e sostenibili" [Mostaccio, 2015].
Nel 2006, i gruppi di acquisto collettivo erano soltanto tre. Con il tempo si sono
moltiplicati, la Provincia ha sempre rinnovato il suo interesse e nel 2009 essi divennero
più di dodici a Torino e provincia, un totale di 617 famiglie. Attualmente i GAC attivi
sono 9, frequentati da circa 600 famiglie, in linea con i numeri dell'ultimo quinquennio
[Movimento Consumatori, 2015]. Man mano che le famiglie aumentano, il potere
contrattuale sui prezzi migliora e se il produttore non risponde ai requisiti i gruppi
hanno la forza per cambiarlo e trovarne uno migliore. Nei due anni successivi alla
nascita il GAC ha iniziato la costruzione di un paniere al cento per cento biologico e di
alta qualità che oggi comprende circa 100 prodotti, tutti italiani con l' eccezione di quelli
ex-coloniali, caffè, zucchero. Tutti sono forniti in regime di filiera corta. Nel giugno del
2009, considerata la crisi e le forti necessità di contenimento dei prezzi, l'associazione
160
decise di puntare sulla convenienza aggiungendo anche un paniere non bio, sempre a
filiera corta e a 'chilometro 0' [Strippoli, 2009].
Le fasce di consumatori maggiormente interessate sono le fasce tra i 35 e i 55 anni,
mediamente con un alto grado di istruzione e di qualificazione:
"A comprare e ad entrare nei GAC sono soprattutto famiglie, in media con un doppio
stipendio spesso basso, e soprattutto con un alto grado di qualificazione. Noi conosciamo
tutti gli iscritti, in quanto il rapporto è diretto, confidenziale: alcuni di essi sono laureati,
ricercatori universitari, professori; altri hanno qualificazioni come Master; altri ancora sono
liberi professionisti. Il target sta lentamente diventando questo: famiglie o individui medio-
bassi e con un elevato livello di istruzione, che combacia con un'altrettanto elevata
attenzione alimentare" [Mostaccio, 2015].
L'esperienza dei GAC, nata per volontà della Provincia, è però proseguita senza le
sovvenzioni iniziali, nonostante l'iniziale entusiasmo degli enti politici. Attualmente la
piattaforma, gestita dal Movimento del Consumatori continua le proprie attività
organizzative, attraverso il pagamento di 25 euro per l'iscrizione annuale di ciascuno,
più 2 euro legati ai costi extra, da pagare per ogni spesa [Movimento Consumatori,
2014]. L'attuale stato delle cose permette pertanto di proseguire in questa direzione,
nonostante stia venendo a mancare l'appoggio di chi, quasi 10 anni prima, ne aveva dato
il via libera. Logicamente, gruppi di acquisto come i GAC torinesi, o i GAS nazionali,
non nascono con finalità di lucro: ciononostante, nel caso dei GAC la creazione, negli
anni, di un apparato logistico, produttivo e di acquisto, necessiterebbe di un rinnovato
interesse da parte delle istituzioni cittadine e del territorio. In questo modo si potrebbe
contribuire a una decisa stratificazione del fenomeno, che comunque ha visto negli anni
una positiva partecipazione cittadina, in merito a questa food policy innovativa,
sostenibile e spontanea [Mostaccio, 2015].
"Nei nostri ordini ci sono diversi articoli, come olio e farina, attraverso cui i
consumatori associati producono pane, pizza, pasta fresca, ecc... Le persone, dopo un lungo
periodo di alimenti precotti, surgelati e trasformati, stanno ritornando ad autoprodurre cibo,
attraverso i principali ingredienti che acquistano dai GAC. E' questo il messaggio che deve
passare, una svolta di abitudini e mentalità. [...] La nostra è una provocazione culturale, il
messaggio che deve arrivare a livello sociale e politico è che è ora di una nuova food
policy" [Mostaccio, 2015].
161
Nuove politiche alimentari. E' questa la finalità dei gruppi d'acquisto che negli ultimi
vent'anni sono sorti in tutta Europa, in particolare in Spagna e Francia con gruppi
informativi; la rottura del legame con la grande distribuzione organizzata e con la
dipendenza dei prezzi dei mercati mondiali costituiscono gli obiettivi finali del gruppi
d'acquisto collettivi, attraverso una ripresa culturale e sociale dei concetti di produzione
agroalimentare e di filiera. In questo scenario però non deve mancare l'appoggio delle
istituzioni, fondamentali nel dare sfogo all'espansione sociale di queste nicchie
agroalimentari e di consumo.
"Noi dobbiamo tornare a coinvolgere le produzioni locali in filiere alternative. Il
modello deve necessariamente essere il gac o il gas, ma è fondamentale offrire ai produttori
locali un'alternativa concreta di vendita, rispetto alla grande distribuzione o ai mercati. Di
per sé gruppi simili non possono essere alternativi a un sistema globalizzato; le istituzioni
devono riconnettere le produzioni locali con le masse di consumatori. Nel contesto di
Torino, il Comune e la Provincia dovrebbero fare degli sforzi verso questa direzione,
introducendo in questo contesto anche la Regione e i prodotti locali, che anziché esser
collocati nella grande distribuzione potrebbero venire utilizzati nelle mense e negli
ospedali, producendo un duplice effetto, da un lato più salutare nei confronti di fasce di
persone particolarmente delicate, dall'altro sviluppando una maggior collaborazione tra enti
e istituzioni locali e produttori" [Mostaccio, 2015].
La debolezza legislativa attuale rappresenta tuttavia uno dei limiti al possibile
rovesciamento culturale e consumistico di massa, che al contrario necessiterebbe di una
maggiore educazione sul tema. Lo scarso interesse delle istituzioni tuttavia, coincide
con quello delle grandi firme alimentari, concentrate a mantenere l'attuale sistema di
produzione e di vendita, anche attraverso la ricorrente pubblicità, ad esempio come
quell'acqua in bottiglia sulle pagine della maggior parte dei quotidiani [Mostaccio,
2015]. Lo strapotere economico e finanziario delle multinazionali e della grande
distribuzione fa da contraltare alla fragilità dei gruppi d'acquisto collettivo: in questo
contesto, lo spazio offerto dai nuovi mezzi di comunicazione, come il web e i social
network può costituire un possibile canale comunicativo al fine di sensibilizzare sempre
più fasce sociali.
162
Attraverso l'espansione di filiere alternative e l'attenzione socio-culturale si possono
porre una serie di rimedi positivi alla critica situazione ambientale riassumibile nel
concetto di metabolic rift, sempre più evidente a livello globale. Le previsioni future
basate sul mantenimento dell'attuale livello di vita, in cui i consumi costituiscono una
parte rilevante, sono piuttosto negative, e solo una decisa inversione di rotta permette il
riassesto ecologico mondiale. Come ha descritto Jason Moore, il sistema capitalista ha
raggiunto i limiti intrinseci e legati con l'andamento ecologico: il sociologo statunitense
si spinge oltre, definendo il capitalismo come un sistema ecologico, caratterizzato
dall'incessante prelievo ed esaurimento delle risorse disponibili. L'innovazione apportata
dai gruppi d'acquisto rappresenta un ottimo punto di partenza nella ripresa delle
relazioni col territorio, ma soprattutto nella presa di coscienza delle condizioni
ecologiche mondiali, alquanto instabili come dimostra la difficile situazione delle api.
5 Le api: un anello indispensabile nella catena alimentare
Il ruolo delle api è sempre stato centrale nella produzione di cibo, sia per i consumi
umani, sia per quelli animali, sia per la riproduzione vegetale. Questi insetti
rappresentano un nodo cruciale nell'intera catena alimentare: le api, oltre ad essere
importanti per la produzione di miele, cera, propoli, polline, pappa reale, veleno e loro
derivati, hanno un ruolo fondamentale nell’impollinazione dei fiori di molte piante da
frutto. L'importanza delle api all'interno della catena si esplicita anche a livello
ecologico: senza di esse molti frutti, semi e verdure non sarebbero più disponibili in
quantità sufficienti per il consumo umano e anche molti degli habitat naturali oggi
esistenti sarebbero irrimediabilmente compromessi e vi sarebbe quindi una conseguente
diminuzione anche della disponibilità di cibo per gli animali selvatici. Circa i tre quarti
delle piante con fiore (specialmente le angiosperme) infatti, necessitano
dell’impollinazione animale e direttamente o indirettamente circa un terzo di tutto ciò
che mangiamo ha a che fare con l’impollinazione delle sole api [Barletta, 2015].
163
L'impollinazione delle api rappresenta infatti l'80% della riproduzione delle
angiosperme, piante consumate anche dall'uomo [Barletta, 2015].
Un terzo del cibo che mangiamo e fino al 90% delle piante selvatiche dipendono
dall'impollinazione delle api e di altri insetti impollinatori e 71 delle 100 colture più
importanti per l'alimentazione umana sono impollinate dalle api, dai pomodori alle mele
e le fragole [L'Espresso, 2014].
Fino agli anni '70 la situazione delle campagne era tale da garantire grosse
produzioni di miele; con la massiccia industrializzazione del sistema alimentare e
l'adozione delle monocolture ha creato nuove pratiche di allevamento come quelle
legate al nomadismo degli apicoltori, divenute ormai tradizionali. "Il nomadismo fu una
pratica in risposta alle politiche agricole che penalizzavano l'equilibrio ambientale e
dunque la salute delle api e la produzione di miele" [Barletta, 2015]. Tuttavia, il
semplice nomadismo (migliorato nel tempo grazie a tecnologie all'avanguardia) non è
una risposta alla situazione dell'apicoltura, come dimostra il caso di Dave Hackenberg,
un apicoltore statunitense che nel 2006 notò un'improvvisa epidemia nelle arnie
trasportate dalla costa orientale fino alla Central Valley in California, luogo coltivato
interamente a mandorli e in cui si produce l'80% delle mandorle presenti sui mercati
mondiali [Benjamin, 2008]. Durante il trasporto e il soggiorno nella valle dei mandorli,
l'apicoltore osservò morie di api unite all'abbandono completo di numerose arnie.
Generalmente, una piccola parte degli sciami muore o contrare malattie; in questo ed
altri casi, tuttavia, epidemie ed abbandoni rappresentavano più della metà delle intere
popolazioni [Benjamin, 2008; Barletta, 2015]. Le anomalie, sempre più diffuse, sono
spiegate dall'insieme di numerosi fattori, nessuno dei quali però così potente da generare
effetti così catastrofici.
A partire dall'inquinamento, dall'utilizzo su scala globale di agenti chimici (pesticidi
come i neonicotinoidi, fungicidi, ecc...) e dai batteri come la varroa (un agente
importato in Europa in seguito al commercio di api con il Sud-Est asiatico) il numero di
api è sceso costantemente. I neonicotinoidi, introdotti come alternativa al DDT, sono
una classe di insetticidi, fortemente neurotossici, derivanti dalla nicotina. Possono
essere spruzzati sulle foglie, messi nel suolo in forma granulare o usati per trattare i
semi. Questi pesticidi sono solubili in acqua e vengono pertanto assorbiti dalle radici
delle piante che, attraverso i tessuti, raggiungono i frutti. I neonicotinoidi hanno preso
164
piede così rapidamente da coprire, nel 2011, il 40% del mercato globale. Nei paesi
sviluppati l'uso dei neonicotinoidi è diventato predominante [Goulson, 2013]. Gli effetti
dei pesticidi sulle api si possono dividere in due categorie: quelli fisiologici e quelli
comportamentali. Per quelli fisiologici si osserva una perturbazione nello sviluppo
neurale delle larve e degli individui adulti, un'alterazione dell'attività respiratoria, una
decisa riduzione della longevità delle api adulte e un danneggiamento dei tessuti
dell’intestino. A livello comportamentale si è notato invece che per bassissimi dosaggi
l’attività motoria delle api risulta aumentata mentre aumentando le dosi di pesticida
fornito alle api, queste tendono a diminuire sempre più i loro movimenti. La massiccia
esposizione cui sono sottoposti insetti, animali, piante ed esseri umani costituisce una
delle cause delle malattie più diffuse, anche le più gravi.
Le colonie che contraggono virus, batteri, tarme e sono esposte a un eccessivo
utilizzo di pesticidi, fungicidi (spesso vi è un legame molto forte tra le infezioni e gli
agenti chimici), vengono sterminate in maniera improvvisa ed efficace: questa è la
Sindrome da Spopolamento degli Alveari (o Colony Collapse Disorder).
Il legame tra inquinamento, salubrità ambientale, salvaguardia delle api e dunque
della catena alimentare è messo in evidenza da alcuni rimedi che negli anni sono stati
adottati: la massiccia industrializzazione delle periferie mondiali, come lo sviluppo
industriale di paesi come Cina, Brasile e India ha drasticamente peggiorato le condizioni
dei terreni, oltre ad aver diminuito la popolazione di api e l'impollinazione dei fiori tanto
da intraprendere soluzioni come l'impollinazione umana o artificiale al posto delle api.
In Cina per esempio, nelle piantagioni dello Sichuan, l'impollinazione dei fiori è ad
opera dell'uomo: gli abitanti di interi paesi lavorano all’impollinazione manuale delle
piante da frutto. La stagione dell’impollinazione manuale dura un paio di settimane,
dalla metà alla fine di aprile. Si tratta di un calendario molto serrato: le condizioni
meteo e il ciclo di fioritura detta i tempi. Le foreste, habitat naturale delle api sono stata
abbattute per far posto ai campi, ma i principali antagonisti delle api sono i pesticidi;
questo perché la terra coltivabile in Cina sta diventando sempre più inadeguata alle
esigenze dei suoi abitanti e i contadini vogliono, dunque, ottimizzare il territorio a
disposizione e abbondano nell’utilizzo di prodotti fitosanitari per eliminare gli insetti
che minacciano i raccolti. I cambiamenti in atto nell’economia cinese rendono
l’impollinazione manuale sempre più costosa e si rischia lo stallo nelle coltivazioni che
165
adottano questa tecnica. Una soluzione per sostituire gli 'uomini-ape' sarebbe quella di
affittare le arnie da parte di apicoltori itineranti, ma, senza una diminuzione dei
pesticidi, questo non sarà possibile. [Thibault, 2014]. La soluzione descritta sottolinea,
implicitamente, due argomenti centrali per il sistema-mondo, legati indissolubilmente: il
primo è il ruolo ricoperto dalle api all'interno dell'ecosistema; il secondo è costituito
dalle condizioni di quest'ultimo, messo a dura prova dalle attività industriali ed
inquinanti dell'uomo.
L'importanza delle api, come detto, risiede nel ruolo centrale all'interno della catena
alimentare, umana e animale: il lavoro di impollinazione svolto dalle api, incide sul
50% circa degli alimenti consumati abitualmente, come carne e verdura, sul vestiario (la
pianta di cotone viene impollinata dalle api), sulla produzione di estratti medicinali
[Barletta, 2015]; senza di esse, una grossa quantità di piante, animali, prodotti agricoli
sparirebbe in quanto direttamente relazionati alla sopravvivenza e all'attività di questi
insetti. In questo senso, l'attività di impollinazione umana in sostituzione delle api,
assume dei tratti poco esaltanti.
Le api, oltre a essere determinanti per la catena alimentare, sono anche degli
importanti indicatori della qualità ambientale, in quanto il loro indice di mortalità è
relativo alla salubrità dell'ecosistema, osservabile anche attraverso la qualità del miele
prodotto e relativa alla presenza di fungicidi, pesticidi e metalli pesanti riscontrabili
[Celli, 2003; Barletta, 2015]. In altre parole, le analisi sulla qualità del miele permettono
di osservare l'andamento ecologico, definendo il grado di inquinamento ambientale. Il
declino demografico delle api rappresenta dunque un fondamentale punto di vista, e di
analisi, sull'impatto ecologico dell'attuale sistema basato sul capitale e
sull'accumulazione di esso: dagli anni '80 in avanti, la popolazione di api, e degli altri
insetti impollinatori (come farfalle, scarafaggi, ecc...) è scesa vertiginosamente, in
parallelo con l'evoluzione del sistema globale e della produzione industriale su larga
scala. Che vi sia più di una relazione tra queste due sfere non vi è alcun dubbio e tale
legame è già stato descritto nei capitoli precedenti; è in questo senso dunque che
bisogna concentrare l'attenzione, verso cioè un sistema sostenibile in grado di
preservare l'attività delle api e degli insetti fondamentali, e di conseguenza, l'intera
catena alimentare. Un altro motivo (perfettamente aderente all'attuale sistema) per la
riconsiderazione del ruolo occupato dalle api è l'apporto economico che le loro attività
166
riproducono nel sistema attuale: esse infatti rappresentano una voce importante delle
economie statali, in quanto la produzione agricola (in primis) dipende in larga parte
dall'attività di questi insetti, come si è visto per il caso cinese.
Per sensibilizzare l'opinione pubblica e tentare di porre un freno a questa continua
perdita di biodiversità, a Torino è nato un progetto di allevamento di api e produzione di
miele all'interno della città, Urbees, coordinato e organizzato da Antonio Barletta.
Attualmente il successo ottenuto ha permesso di organizzare progetti analoghi anche a
Milano e in Liguria. L'iniziativa, segue la scia di altre grandi città, come New York,
Parigi, Londra, Hong Kong, Melbourne, in cui si è assistito alla promozione di tali
attività, all'interno del contesto urbano.
Uno dei motivi di questa nuova attività risiede nella scelta delle api di spostarsi dalle
campagne e migrare verso le città [Barletta, 2015].
Stiamo modificando l'ambiente esterno, attraverso la continua industrializzazione e
questo è osservabile anche dal comportamento delle api, che sono indicatori infallibili
riguardo al livello di inquinamento. L'evoluzione industriale delle campagne, le
monocolture, pesticidi e fungicidi sono elementi che spingono le api a migrare verso altri
scenari, alla ricerca di cibo, di piante selvatiche e di biodiversità, paradossalmente
osservabile nei contesti urbani. In città infatti l'industria alimentare si occupa della
distribuzione e non della produzione; le piante ornamentali e officinali, solitamente presenti
sui balconi delle città, offrono quindi ciò che le campagne industrializzate, e in cui
predomina la monocoltura, non riescono più a garantire alle api. La migrazione verso le
città costituisce un elemento di novità e rottura con le tradizionali forme di impollinazione e
rappresenta un indicatore fondamentale dell'attuale salute delle campagne e dell'effettiva
biodiversità presente [Barletta, 2015].
La Sindrome da Spopolamento degli Alveari, osservata globalmente e in maniera
decisa nell'ultimo decennio, rappresenta un insieme di cause (virus, batteri, agenti
chimici, mancanza di nutrimento in seguito alla monocoltura) che portano alla moria di
interi sciami o all'abbandono degli alveari per non infettare le intere colonie.
Quando le api contraggono virus o batteri, o semplicemente si ammalano, scelgono se
continuare a vivere nell'alveare o se abbandonarlo per evitare il contagio. Le api che
contraggono la varroa, o sono colpite dai neonicotinoidi e fanno ritorno all'alveare possono
167
causare la morte dell'intera colonia nell'arco di una paio di giorni al massimo [Barletta,
2015].
La difficile situazione dell'ambiente esterno spinge le api verso i contesti urbani,
generalmente considerati più dannosi e tossici per animale ed esseri umani. Il paradosso
dell'ultimo decennio è dunque la migrazione di sciami di api verso i centri urbani, più
ricchi di piante selvatiche (sui balconi, nei parchi, negli orti urbani), senza pesticidi, o in
maniera rilevante, in quanto in città la coltivazione di piante non avviene con fini
produttivi, piuttosto con fini ornamentali e dunque la presenza di sostanze chimiche
nocive è decisamente inferiore rispetto alle campagne. L'abbandono degli alveari e la
migrazione delle città se da un lato mette in evidenza la situazione ambientale, dall'altro
presenta una serie di possibilità nuove e compatibili con l'equilibrio ambientale.
E' paradossale, ma è una situazione reale e concreta e che ogni anno si presenta in molte
città italiane, quella cioè dell'arrivo di diversi sciami naturali. Di sciami naturali ve ne sono
ormai pochissimi poiché la maggior parte delle api viene allevata. Il degrado ambientale e
delle campagne però spinge questi insetti selvatici, non addomesticabili come le mucche,
verso le città dove, paradossalmente le api hanno trovato le condizioni necessarie per
alimentarsi, riprodursi e produrre miele, di ottima qualità [Barletta, 2015].
Il cambiamento dei comportamenti delle api è stato al centro del progetto Urbees,
nato nel 2010 e che in poco tempo ha portato all'installazione, in alcuni punti della città,
di diversi apiari. Dal parco a Mirafiori, con la partecipazione di Miraorti, al Bunker, al
Parco d'Arte (PAV) di via Giordano Bruno, le arnie cittadine hanno moltiplicato
grandezza e produzione di miele; allo stadio attuale, il progetto presenta ampi margini di
crescita, viste le contenute quantità di miele prodotto e di api allevate. Relativamente al
miele, la stima è di quasi mezzo quintale di Millefiori, l'unico producibile nel contesto
urbano. Cifre simili non possono garantire una modificazione della situazione ecologica,
culturale ed economica ma costituiscono delle solide basi di partenza; l'andamento di
progetti come Urbees o come i Gas è determinato in larga parte dall'accettazione sociale
e culturale, nonché politica. A tal proposito, le api costituiscono un argomento
legislativo lievemente ambiguo: a fianco delle leggi regionali relative alla protezione
degli apiari e di pene legate alla distruzione di essi (ad eccezione dei casi di contrazione
di virus, malattie da parte degli sciami stessi) si incontrano alcuni casi in cui le api sono
168
definite animali pericolosi per l'uomo. L'ambivalenza di fondo non garantisce quindi, al
momento, una decisa spinta delle istituzioni verso progetti come Urbees, che rimangono
limitati alla crescita lenta dell'interesse collettivo. La produzione di miele urbano
dipende quindi da almeno tre fattori: in primo luogo la situazione ambientale delle
campagne e delle città e la relativa quantità di api migranti verso i centri urbani; la
disponibilità cittadina a sostenere e diffondere l'allevamento urbano di api rappresenta il
secondo punto; in terzo luogo l'apporto delle istituzioni e dei media, che come descrive
Gramsci danno forma al pensiero culturale egemone.
Oltre a costituire una via di mantenimento della popolazione di api, il miele e gli
apiari urbani permettono di monitorare positivamente la qualità ambientale del contesto
urbano e rurale [Barletta, 2015]. Uno dei punti centrali del progetto riguarda non
soltanto la produzione di miele, quanto lo studio e l'analisi delle api in città, il
comportamento, la salute, ed anche il grado di inquinamento cittadino, dato che le api
rappresentano un ottimo indicatore di questo parametro. Le api infatti sono degli ottimi
indicatori del livello di salute ambientale: "le api costituiscono il miglior monitoraggio
ambientale possibile, meglio di qualsiasi altra tecnologia attuale. Ciascun individuo
delle colonie visita circa 1000 fiori al giorno, coprendo una distanza pari a circa 7 km2"
[Barletta, 2015]. Il lavoro svolto dalle api offre un ottimo spunto per l'attività scientifica
di analisi del territorio:
"Il biomonitoraggio è l'obiettivo parallelo alla produzione di miele che si propone
Urbees. Osservare il comportamento delle api e analizzare i capi e il miele in laboratorio
sono attività che permettono di analizzare positivamente il livello di polveri sottili, metalli
pesanti e altre forme di particolato presenti nell'aria e nelle fonti idriche. Il monitoraggio
scientifico sovente fatto in ufficio è qualitativamente inferiore rispetto a quello che le api
quotidianamente offrirebbero. [Barletta, 2015].
Il biomonitoraggio rappresenta una innovazione sostenibile, eco-compatibile e in
grado di salvaguardare un elemento imprescindibile della catena alimentare. A tal
proposito vi sarebbe una massima di Einstein (ma mai direttamente confermata)
secondo cui la sparizione delle api comporterebbe l'estinzione dell'uomo nell'arco di
quattro anni. Al di là della reale attribuzione, questo scenario è confermato dall'esempio
dell'impollinazione umana in Cina, ma non solo. La crescita di innovazioni socio-
169
tecniche come Urbees permetterebbe dunque di scongiurare simili scenari, grazie alla
rinnovata protezione di questi importanti e naturali indicatori ambientali [Barletta,
2015]. L'innovazione socio-tecnica di Urbees si evidenzia nella validità scientifica delle
analisi condotte in laboratorio sui vasetti prodotti, nonché appunto sul biomonitoraggio
offerto dagli insetti; il miele analizzato in laboratorio ha registrato infatti la presenza di
metalli pesanti in quantità molto inferiori rispetto ai limiti stabiliti. La bontà
(gastronomica e scientifica) certificata del prodotto ha permesso di superare l'iniziale
diffidenza di apicoltori e cittadini, incontrando successivamente una crescente
disponibilità cittadina. Allo stato attuale il miele prodotto, che assume il nome di
ciascun coltivatore (a questo proposito vi sono il miele Antonio, il miele Andrea, Elvira,
Bunker, PAV, ecc...) ha attirato un'alta attenzione mediatica e il progetto, dopo la fase di
assestamento iniziale, sembra pronto a un'espansione socio-culturale.
6 Contro lo spreco
La transizione socio-tecnica descritta passa attraverso una maggior sensibilizzazione
del concetto di spreco alimentare e una modifica delle pratiche quotidiane, quelle che
contribuiscono in maniera significativa alla quantità di cibo sprecato annualmente.
Lo spreco di cibo rappresenta una conseguenza negativa della società
contemporanea; come si è visto in precedenza, la potenzialità della produzione
alimentare globale sarebbe tale da sopperire alle mancanze fisiologiche di ciascuna
popolazione. Nonostante questo, il divario tra le fasce sociali che hanno un massimo
accesso al cibo e quelle le cui possibilità sono ridotte al minimo si sta ampliando
considerevolmente; i rapporti Fao stimano gli indigenti a quasi un miliardo di persone,
quasi un settimo della popolazione mondiale. Nell'ultima decade, l'attenzione mediatica
è aumentata nei confronti di questa piaga sociale, con campagne di sensibilizzazione e
di educazione alimentare, così come le iniziative cittadine e popolari contro il continuo
spreco. In tutto il mondo sono sorti progetti attorno al riciclaggio del cibo, limitando
pertanto una parte considerevole di scarti; progetti di vendita senza imballaggi (in grado
170
di ridurre il consumo e spreco di plastica e di sostanze inquinanti e difficilmente
smaltibili); associazioni di produttori che vendono al ribasso i propri prodotti,
perfettamente commestibili, pur di non sprecarli; applicazioni di smartphone e mailing
list online per la condivisione di cibi e piatti cucinati tra condomini degli stessi edifici.
La lista di progetti e innovazioni finalizzati alla limitazione dello spreco alimentare è
molto lunga ed eterogenea; i progetti seguono l'andamento socio-tecnico descritto da
Geels e quello delle pratiche quotidiane di Shove: le nicchie contro lo spreco infatti
sono limitate a precisi contesti sociali, culturali e spaziali, così come sono influenzati
dalla modificazione delle pratiche quotidiane di ciascuna persona (inserita nella routine
delle pratiche società), come l'acquisto al supermercato, o la cospicua produzione
annuale di rifiuti, come descritto da Roberto Cavallo [2011]. Mediamente infatti,
l'acquisto dell'acqua in bottiglia, dei detersivi, di prodotti con imballaggi, assieme allo
spreco alimentare e di altre risorse è stimabile in 100 chili annui per persona [Cavallo,
2011].
All'interno del termine 'spreco alimentare' trova posto una pratica globalmente
diffusa da parecchio tempo, ovvero lo scarto del cibo per ragioni estetiche, eccessi di
produzione e vicinanza con le date di scadenza. Per far fronte a questo tipo di spreco,
dettato da questioni culturali e non dall'effettiva malignità dei prodotti, sono sorti diversi
progetti di riciclo: uno di questi è lo Rub & Stub, un ristorante danese in cui viene
servito soltanto cibo 'riciclato', la cui maggior parte di cibo arriva da due catene di
supermercati danesi [Saporiti, 2013] che, appunto, per ragioni culturali sono costretti a
scartare ingenti quantità di cibo. Rub & Stub è composto da cuochi ed ex dipendenti di
grandi supermercati, molto vicini dunque allo spreco quotidiano alimentare.
Un progetto simile è il Daily Table, in Massachusetts, organizzato da Doug Rauch,
ex presidente della Trader Joe’s: un ibrido tra un negozio e un ristorante che venderà
cibi o piatti preparati con alimenti appena scaduti e a prezzi fortemente scontati.
L'obiettivo è quello di sensibilizzare le persone circa le date di scadenza riportate sulle
confezioni che spesso causano confusione nei consumatori che, nel dubbio, buttano
prodotti che potrebbero essere ancora consumati [Saporiti, 2013].
In tutto il mondo sono sorti progetti tesi al contenimento dello spreco alimentare; a
Torino, una recente iniziativa tra i negozianti del quartiere di Santa Rita ha dato il via a
un progetto di vendita al ribasso, attraverso sconti, promozioni e offerte diffuse tramite
171
e-mail. Il progetto, Last Minute Market Sotto Casa, questo il nome, è iniziato nel 2013
per iniziativa di Francesco Ardito e Massimo Ivul che, grazie alla partecipazione del
Politecnico di Torino hanno sviluppato un live marketing (un mercato in tempo reale) di
prossimità che consente a negozi con prodotti alimentari in eccedenza o in scadenza di
informare con immediatezza e semplicità i cittadini. Per poter partecipare al progetto è
necessario iscriversi al sito e comunicare il luogo abitativo, in modo da ottenere
informazioni sui punti vendita più prossimi; l'iscrizione al gruppo permetterà di
rimanere aggiornati sulle ultime promozioni di qualsiasi negozio, punto vendita o
mercato aderente all'iniziativa, selezionato in base alla vicinanza con il luogo abitativo.
I prodotti generalmente riguardano i beni di prima necessità come pasta, pane, farine,
carne, pesce, verdura, frutta, prodotti gastronomici e industriali, ma non mancano
offerte su detersivi, biancheria ed altri prodotti, a seconda dei tipi di negozi e delle
promozioni. Partito dal quartiere Santa Rita, il progetto si è esteso in poco tempo a molti
negozi distribuiti in tutta la città di Torino, raggiungendo inoltre un risalto mediatico
nazionale, a testimonianza della bontà dell'iniziativa, definita dagli ideatori 'win win
win', in quanto garantisce una vittoria per i venditori che non sono così costretti a dover
gettare via il cibo, per i consumatori che possono così comprare prodotti
qualitativamente validi e a prezzi inferiori rispetto alla grande distribuzione, e per il
pianeta, in quanto lo spreco alimentare viene contenuto. Un grande mercato online, in
cui le offerte non sono più trasmesse attraverso le grida dei commercianti, ma tramite e-
mail, in modo istantaneo e gratuito.
La portata innovativa di Last Minute Market è legata, come si vede, all'evoluzione
tecnologica del periodo attuale, e al modo più sapiente di utilizzo di essa: la creazione di
un social network col fine di ridurre lo spreco di cibo, garantendo un guadagno ai
venditori e un risparmio ai consumatori è vincente sotto molti punti di vista, come
risulta anche dall'interesse suscitato verso quotidiani, riviste alimentari e socio-culturali.
Lo sviluppo telematico ha permesso la fioritura di molti progetti simili a quello di Las
Minute Market: a Trento infatti è nata l'applicazione per smartphone, tablet e pc Bring
The Food, dedicata alla limitazione degli sprechi. Tale applicazione permette a chi ha
eccedenze alimentari di metterle a disposizione di enti caritatevoli che assistono le
persone indigenti del territorio, attraverso la supervisione del Banco Alimentare. Il
Banco Alimentare può verificare gli accreditamenti, monitorare le richieste di
172
donazione di alimenti e autorizzare (o non-autorizzare) il recupero e la ridistribuzione
dei quantitativi di cibo segnalati in rete; la non autorizzazione può scattare nel caso in
cui, secondo Banco Alimentare, non sussistano le condizioni logistiche e/o igienico
sanitarie affinché il trasferimento degli alimenti venga eseguito efficacemente ed in
condizioni di sicurezza alimentare. In questo modo, le eccedenze alimentari vengono
utilizzate come forma di sostentamento per le fasce più povere, limitando spreco e
inquinamento e provvedendo ad un riassesto dei rapporti sociali fra cittadini.
La nascita di pratiche di Food Sharing come quelle descritte rappresenta la felice
unione di nuovi modelli socio-culturali affiancati da un uso sapiente della tecnologia
disponibile, in quanto permettono di ridurre gli sprechi alimentari, l'inquinamento
(derivante dalle modalità di smaltimento), e porre un rimedio all'aumento dei prezzi
alimentari e di conseguenza degli indigenti. Lo sviluppo di forme alternative alla
sempre più globalizzante GDO rappresenta la felice presa di coscienza di classi sociali,
individui e movimenti di persone, nei confronti di metodi produttivi che rischiano di far
sprofondare il pianeta nella catastrofe, come si è compreso all'interno del lavoro svolto.
Il cambiamento culturale e le innovazioni socio-tecniche residenti nelle nicchie offrono
metodi alternativi e di salvaguardia dell'ambiente, in particolar modo Urbees e altri
progetti paralleli, oltre a consumi eco-compatibili come i Gruppi di Acquisto Sostenibili
e le varie derivazioni che, da un circa un decennio stanno popolando i centri urbani
italiani e mondiali. A livello sociale, l'adozione di simili modelli da parte della
collettività è ancora lontana e il suo successo è tutt'altro che scontato, se riconsiderato
nel contesto attuale in cui le multinazionali alimentari, di semenze, di produzione di
energia e della grande distribuzione dominano i mercati alimentari e del lavoro
mondiali. Come dimostrato però, la maggior adesione e la nascita di nuove nicchie
alternative rappresentano delle feconde alternative al sistema basato unicamente sul
capitale che, come descritto, sembra aver toccato i limiti costitutivi.
173
Conclusioni
Il lavoro svolto ha permesso di stilare un'evoluzione del sistema capitalistico,
attraverso una visione legata al cibo, una risorsa fondamentale per la nostra vita,
partendo dalle sue origini e le principali tappe storiche del percorso, culminato nella
globalizzazione degli anni '90. Una delle principali risorse necessarie per garantire tale
successo, in termini di diffusione, di sviluppo, di radicamento e di evoluzione socio-
culturale a livello di landscape è stato appunto il cibo e la produzione alimentare; i
prodotti alimentari, infatti, al pari delle risorse energetiche, materie prime e forza lavoro
hanno garantito il successo di alcuni regimi su altri all'interno del panorama,
riorganizzato attraverso la valorizzazione monetaria delle risorse naturali. Come si è
visto, già a partire dalle prime forme di capitalismo cittadino, con gli esempi delle
Repubbliche di Genova e Venezia, il commercio di materie prime e risorse alimentari
come legname e grano, assieme alla circolazione del denaro furono metodi capitalistici
che produssero - rispetto agli stati-nazione dotati di apparati governativi ancora legati
alla tradizione feudale - iniziali forme di egemonia capitalista. Dopo secoli di inattività,
nuove forme di espansione delle frontiere presero piede; questo è stato osservato
attraverso l'espansione della coltivazione della canna da zucchero e del caffè,
mostrando come l'adozione di un sistema che preleva più risorse di quante la natura
riesca a produrne causava continue espansioni alla ricerca di nuovi appezzamenti da
coltivare, nuove risorse primarie, nuova forza-lavoro, nuove fonti energetiche. Ben
presto altre realtà, come le Province Unite si dotarono del medesimo apparato, grazie
alle riserve di grano del Baltico, alle Compagnie delle Indie che rifornivano i mercati
europei di prodotti ottenuti attraverso la schiavitù e l'allevamento coloniale. Il grano del
Baltico riforniva i mercati europei e rappresentava una delle principali forme di
finanziamento alle spese militari e navali, mentre il capitale finanziario transitante da
Amsterdam permetteva un ruolo privilegiato nei rapporti geopolitici europei; le risorse
alimentari costituivano dunque un'importante arma, in mancanza di grossi eserciti o
territori, come appunto nei casi delle città-stato. Nel caso delle Province Unite il
174
capitalismo aveva raggiunto dimensioni mondiali (se si limita il contesto al sistema
Europa-mondo) determinando una globale accettazione e adozione del sistema basato
sul capitale, garantito dall'egemonia olandese.
Il presente lavoro ha messo in mostra le relazioni esistenti tra le espansioni verso
territori vergini (per mantenere alta la competitività militare, politica ed economica nel
'ring' europeo) e la degradazione del terreno, la diminuzione dei raccolti, della
biodiversità, l'inquinamento ambientale provocati dall'insaziabilità intrinseca al sistema;
riguardo all'importanza della biodiversità, già Darwin ed altri suoi contemporanei,
descrissero l'argomento con toni poco rassicuranti. A distanza di due secoli la pericolosa
relazione si è ormai estesa in tutto il pianeta.
Quando il panorama socio-culturale e geopolitico si dotò definitivamente di
fondamenta capitalistiche, le maggiori potenze tentarono di scalzare le Province Unite
dal ruolo di regime. Lo sviluppo di un impero basato sui rapporti con le colonie e con i
territori assoggettati fu invece uno dei capisaldi dell'egemonia britannica, 'l'officina del
mondo' che estese sotto il proprio controllo il consumo di beni prodotti a livello globale.
La privatizzazione dei beni comuni fu la scintilla per lo sviluppo della proprietà privata
e del capitale d'impresa e per la successiva rivoluzione industriale. Lo sviluppo
scientifico, industriale e la catena di montaggio premisero infatti di accrescere
notevolmente la produzione dei raccolti, di beni alimentari e non, richiamando folte
masse di lavoratori dalle campagne. La nascita di centri urbani e del proletariato
rafforzò il ruolo delle città nei confronti delle campagne; la disponibilità di lavoratori a
basso costo e di miniere, materie prime e risorse alimentari nei territori coloniali garantì
all'Impero britannico il mantenimento nelle proprie mani l'equilibrio mondiale sino allo
scoppio delle due guerre mondiali, che sancirono la fine della dominazione europea,
spostando il centro di potere oltre Atlantico, contrastato dal blocco comunista.
Nel passaggio all'egemonia statunitense anche la produzione alimentare cambiò volto
attraverso l'introduzione di sostanze chimiche. I negativi effetti del trittico agricoltura-
industria-sostanze chimiche erano per'altro stati già notati sul finire del XIX secolo, con
la ricerca da parte di Francia, Germania e Impero britannico di fertilizzanti naturali
come il guano del Pacifico per rispondere alle devastanti conseguenze dei primi
esperimenti di sostanze chimiche nell'agricoltura; un altro esempio è rappresentato dalle
Dust Bowl, tempeste di sabbia che sconvolsero gli stati centrali del Mid-West durante
175
gli anni '30 in seguito all'uso intensivo di agenti chimici. Il felice sviluppo delle nascenti
lobby orbitante attorno a imprese agricole, industrie chimiche, mezzi di comunicazione
e grande distribuzione fu tuttavia in grado di imporre a livello mondiale il modello di
agricoltura industriale e intensivo.
Lo sviluppo demografico mondiale, cresciuto durante l'arco del XX secolo, è un
apparente motivo per l'adozione di tale sistema agroalimentare, al cui centro si trova
l'accumulazione di capitale; durante l'egemonia statunitense, attraverso l'influenza
politica, commerciale e culturale verso i territori periferici, la produzione industriale
agroalimentare fu adottata tanto nei paesi sviluppati quelli in quelli in via di sviluppo,
attraverso programmi di sviluppo come la Rivoluzione Verde, in cui furono introdotti i
primi tentativi di biotecnologie come gli organismi geneticamente modificati.
L'aumento del peso ambientale di tali iniziative legate all'aumento della produttività ha
apportato sensibili crepe all'equilibrio ambientale del sistema-mondo, tuttavia celato dai
gruppi dominanti e di conseguenza dall'attenzione sociale e culturale.
Le politiche neoliberiste dei governi di Inghilterra e Stati Uniti hanno velocizzato
l'ascesa delle multinazionali nello scacchiere politico-economico e finanziario mondiale,
specialmente in seguito alla caduta del Muro di Berlino e alla fine del comunismo, come
antagonista al capitalismo; la risultante globalizzazione ha annichilito il peso politico,
inerme (ma anche connivente) di fronte all'ascesa vertiginosa del potere finanziario e
delle multinazionali. Il progressivo adeguamento alle leggi del mercato ha esposto
nazioni, popoli e governi allo sviluppo di un sistema caratterizzato dal radicale
deterioramento delle risorse produttive come i territori agricoli, tamponato
parzialmente, ad esempio, attraverso l'uso di sostanze chimiche che hanno favorito la
crescita vertiginosa dei profitti del capitale privato.
La concentrazione del potere, nel XXI secolo, con la crisi geopolitica del regime
statunitense, bersagliato negli anni da più avversari all'imperialismo democratico' a
stelle e strisce, sembra essersi trasferita verso il capitale cinese e quello lobbistico;
all'interno del capitale privato spicca la posizione occupata dalla grande distribuzione
che negli anni ha imposto il proprio modello di vendita a qualsiasi settore. A questo
proposito è infatti utile osservare come negli anni siano sorti varie tipologie di
supermercato: di alimentari, di mobili, di giocattoli, di prodotti farmaceutici, ecc... Il
modello del supermercato (ipermercati, supermercati, punti vendita di prossimità,
176
discount) è quindi entrato nel tessuto delle pratiche sociali quotidiane, divenendo il
principale metodo d'acquisto, a qualsiasi latitudine, come dimostrato nel terzo capitolo.
L'insaziabile appetito del capitalismo tuttavia deve fare i conti con i limiti costitutivi
del pianeta terra: mentre in passato, come testimoniato dai percorsi storici dell'Olanda e
della Gran Bretagna, le espansioni costituivano nuova linfa vitale per il mantenimento
dei ruoli centrali del potere, il raggiungimento prossimo dei limiti planetari non
permette ulteriori espansioni se non al di fuori della terra. La precaria condizione delle
fonti idriche, dei suoli, delle risorse minerarie, primarie ed energetiche non può
permettere ulteriori slittamenti temporali, specialmente considerando l'evoluzione di
nuove realtà come in Brasile, Cina, India, fortemente influenzate dall'accumulazione di
capitale.
All'interno del lavoro ho descritto i problemi salutari, ecologici ed economici
derivanti dall'adozione del sistema di produzione intensiva: al pari delle monocolture
controllate attraverso l'uso di sostanze tossiche, ho evidenziato come anche
l'allevamento e l'acquacoltura intensivi, segnati da politiche volte alla massimizzazione
dei profitti, costituiscano un pericolo per l'uomo e per l'ambiente circostante.
La dimostrata pericolosità ecologica dell'attuale sistema fa da rovescio alla nascita di
nicchie socio-tecniche (in tutto il globo) caratterizzate dalla sostenibilità e dalla ripresa
della sovranità alimentare; dai sistemi di agricoltura collettiva e naturale di alcune
popolazioni africane, ai gruppi d'acquisto collettivi, all'apicoltura urbana, in tutto il
mondo sono nati movimenti contrari alla tipologia produttiva vigente, proponendo
forme alternative in sintonia con il ritmo produttivo naturale. Ho focalizzato l'attenzione
principalmente sui gruppi d'acquisto e sull'apicoltura urbana, in quanto implicano un
profondo cambiamento su più livelli: in primis quello alimentare e salutare, poiché i
prodotti consumati sono qualitativamente molto superiori a quelli industriali, arricchiti
di sostanze tossiche; in secondo luogo quello culturale, in quanto la restaurazione dei
legami con il territorio e con una filiera produttiva il più possibile corta ha determinato,
e richiede, un'evoluzione nei rapporti sociali. La ripresa delle relazioni con i produttori
locali, assieme alla miglior qualità del cibo consumato esplicitano il valore
fondamentale della sovranità alimentare, in termini gastronomici, salutari e socio-
culturali; in terzo luogo le nicchie alternative che ho descritto rappresentano vie
alternative ai metodi produttivi attuali, contrassegnati da livelli alti di disoccupazione e
177
precariato. Tali nicchie hanno infatti rappresentato per i soggetti coinvolti possibilità di
guadagno alternative alla stagnazione lavorativa ed economica. L'ultimo punto riguarda
il miglioramento delle condizioni ambientali grazie alla rinata valorizzazione della
filiera corta e delle metodologie di coltivazione e di allevamento rispettose delle risorse.
Grazie al paragone con i metodi industriali tesi alla contrazione delle spese e
all'aumento dei profitti - identificabile felicemente nell'esempio offerto dall'allevamento
di bovini, suini e pollame a base di mais - si è descritta la differenza sistemica dei due
modelli proposti, quello delle nicchie socio-tecniche (legate a processi transitivi) e
quello del capitale, attivo fin dal XV secolo: da un lato l'accumulazione di potere,
l'espansione e il mantenimento delle influenze di potere sulle periferie mondiali, a
scapito di una progressiva sterilità ambientale, una diminuzione della biodiversità e di
un generale peggioramento delle condizioni di vita, come qualità del clima, delle fonti
idriche e alimentari, queste ultime negate a un sempre più alto numero di indigenti;
dall'altro lato, la proposizione di sistemi alternativi, organizzati per mezzo della
partecipazione attiva dei consumatori alla produzione alimentare, in termini di
attenzione alimentare e ripresa delle relazioni con i produttori locali, questi ultimi
altrimenti esposti alle leggi di mercato che agevolano la produzione su vasta scala delle
grandi imprese multinazionali. La riattivazione della produzione e dei consumi locali,
messi in pausa dalla massiccia urbanizzazione del secondo dopoguerra, potrebbe
garantire una possibile serie di effetti positivi a catena, come descritto. Il lavoro ha però
sottolineato che affinché ciò avvenga sono necessari processi transitivi, relativi al
rinnovamento del paesaggio socio-tecnico e culturale dominante. Lo stretto legame che
quotidianamente relaziona queste diverse sfere socio-tecniche, come teorizzava
Gramsci, è vincolato al pensiero e alla cultura. Il mantenimento di un pensiero
dominante relazionato all'accumulazione di capitale, restituirà - nello schema proposto
da questo lavoro - una successione di regimi in cui la produttività e la crescita del
capitale resteranno centrali nelle politiche di governo; diversamente, la comprensione a
livello di pensiero dominante dei limiti strutturali del sistema attuale potrebbe portare a
innovazioni eco-compatibili e positive anche per le attività umane. Dei due l'uno,
considerando però che, mentre le innovazioni sostenibili possono rappresentare allo
stadio attuale delle provocazioni e raramente dei sistemi alternativi, il capitalismo
sembra essere prossimo ai limiti costitutivi della Terra.
178
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