Cheap food. introduzione all'evoluzione dei regimi agroalimentari nel sistema mondo

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Università Degli Studi Di Torino Filosofia e Scienze dell'Educazione Comunicazione e culture dei media Cheap Food Introduzione all'evoluzione dei regimi agroalimentari nel sistema-mondo Studente Relatore Alessandro Barbero Dario Padovan Anno Accademico 2013-2014 1

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Università Degli Studi Di Torino

Filosofia e Scienze dell'Educazione

Comunicazione e culture dei media

Cheap FoodIntroduzione all'evoluzione dei regimi

agroalimentari nel sistema-mondo

Studente RelatoreAlessandro Barbero Dario Padovan

Anno Accademico 2013-2014

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Indice

Introduzione...................................................................................................................5

1 Il sistema capitalista..................................................................................13

1 Dal feudalesimo al capitalismo.........................................................................13

1.1 La natura come valore: un po' di zucchero nel caffè?....................................18

1.2 Tra centro e periferia......................................................................................24

2 L'egemonia tra direzione, controllo ed espansione...........................................28

3 Le province unite del XVIII secolo..................................................................34

4 L'officina del mondo.........................................................................................38

5 L'egemonia statunitense....................................................................................41

6 Nuove egemonie...............................................................................................45

2 Cibo e capitale.........................................................................................................51

1 Cibo come risorsa: economica o biologica?.....................................................51

2 Regimi alimentari: il legame tra cibo e capitale...............................................54

3 Regime britannico e statunitense......................................................................58

4 Neoliberismo e Regime alimentare multinazionale..........................................62

5 Il sud del mondo...............................................................................................69

6 Biofuels: feeding the world..............................................................................75

7 Le guerre per il cibo.........................................................................................84

3 Il consumo di cibo...................................................................................................92

1 Il mondo dei supermercati................................................................................92

2 I supermercati nell'America Latina..................................................................97

3 La situazione cinese........................................................................................100

3

4 La crescita dei supermercati in Africa............................................................103

5 Accessibilità e fast-food..................................................................................108

6 Spreco alimentare...........................................................................................115

7 Carne e pesce: quando il lusso diventa pop....................................................118

7.1 Pesce............................................................................................................118

7.2 Carne............................................................................................................127

4 Alternative alimentari..........................................................................................134

1 Transizione......................................................................................................134

2 Sostenibilità alimentare...................................................................................139

3 Sovranità alimentare.......................................................................................148

4 I gruppi d'acquisto GAS e GAC.....................................................................155

5 Le api: un anello indispensabile nella catena alimentare................................163

6 Contro lo spreco..............................................................................................170

Conclusioni.................................................................................................................173

Bibliografia................................................................................................................179

Sitografia, filmografia e materiale personale...................................................188

4

5

Introduzione

Il presente lavoro riguarda l'analisi dell'evoluzione del sistema agroalimentare

mondiale, in relazione con lo sviluppo dei sistemi basati sull'accumulazione di capitale e

le conseguenze che tale unione hanno generato a livello ecologico. Lo sviluppo di

grandi sistemi politici ed economici, come verrà dimostrato, coincide con un percorso di

impoverimento ecologico, direttamente proporzionato alla velocità di espansione e di

prelievo di risorse di tali sistemi. Storicamente l'espansione e la stabilità di sistemi

capitalisti sono legate alla reperibilità o disponibilità di quattro elementi fondamentali:

le materie prime, le risorse alimentari, la forza-lavoro e le risorse energetiche.

L'abbondanza o la difficoltà di reperimento di questi elementi determina fortemente

l'andamento, da un lato del sistema capitalista, dall'altro l'equilibrio ambientale e delle

risorse naturali: come verrà infatti descritto, l'attività di sfruttamento delle risorse

naturali (i suoli, le fonti idriche, quelle energetiche, le foreste, i giacimenti minerari, i

combustibili, ecc...) produce una scissione metabolica, o 'Metabolic Rift', già teorizzata

da Marx e Engels, e ripresa dalle correnti neomarxiste di fine XX secolo. La scissione

metabolica rappresenta la discrepanza ecologica tra le risorse prelevate, necessarie allo

sviluppo delle attività umane, e quelle reintegrate attraverso i processi naturali.

L'aumentarsi della forbice fra i due valori determina sconvolgimenti ecologici planetari

descrivibili attraverso la costante perdita di biodiversità, il degradamento dei terreni e

delle aree agricole, l'inquinamento dei suoli, dell'aria e delle fonti idriche e dunque della

salute umana ed animale.

Il mio personale interesse per l'analisi delle questioni socio-culturali e socio-

economiche, felicemente sviluppate durante il percorso accademico, è stato il punto di

partenza nella stesura del presente lavoro, alimentato dalla curiosità per il nascente

interesse, a livello collettivo, verso il settore alimentare: durante le fasi di ricerca e di

studio ho potuto tuttavia constatare che l'interesse per il cibo era molto spesso limitato a

parametrici di gusto ed economicità dei prodotti. La sicurezza alimentare, nonostante

rappresenti un'importante variabile di scelta, è tuttavia soddisfatta attraverso il controllo

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delle scadenze e della provenienza, celando al consumatore le modalità produttive.

Questo perché, come viene descritto al'interno del lavoro, se il consumatore venisse

informato dei metodi produttivi, nella maggior parte dei casi costui cercherebbe nuove

fonti alimentari, provocando il corto circuito dell'intero meccanismo agroalimentare,

sempre più governato da un gruppo ristretto di multinazionali.

La scalata al potere economico e finanziario e la nascita di società e mercati

globalizzati rappresenta una delle tappe evolutive che hanno interessato congiuntamente

tanto il capitalismo, quanto il sistema agroalimentare mondiale e locale. Uno degli

obiettivi del lavoro è proprio lo studio comparato di capitale e cibo, attraverso una

visione socio-storica ed economica. Verranno quindi descritti i processi transitivi da un

regime all'altro all'interno del panorama capitalista, protagonisti di analoghe

trasformazioni sul piano della produzione, dell'accessibilità e del consumo alimentare.

Tale analisi avviene all'interno dello schema multi-livello socio-tecnico e della

quotidianità delle pratiche socio-culturali: in altre parole, lo sviluppo capitalista e di un

certo tipo di produzione agroalimentare hanno assunto, nel corso dei secoli e dello

sviluppo tecnico-scientifico, uno status di panorama il primo, e di regime la seconda. La

produzione intensiva per le masse di tutto il mondo si è dunque sedimentata nel pensiero

comune, e rappresenta - come si vedrà - un importante punto di forza dell'attuale

sistema.

L'industrializzazione dell'agricoltura, assieme ad altre attività volte alla

massimizzazione della resa e dei profitti, se da un lato si mostrano al pensiero

dominante come necessarie e benevole per le attività umane, dall'altro nascondono la

dannosità ambientale descrivibile attraverso il concetto di scissione metabolica. La

percezione della pericolosità è a livello sociale tuttavia minima: l'attenzione per le

tipologie di produzione, come l'uso di sostanze tossiche (tanto per l'ambiente quanto per

l'uomo e per gli animali che vengono a contatto) costituisce molto raramente, ad

eccezione delle nicchie socio-tecniche, un criterio di scelta.

In questo scenario, si può comprendere pienamente il ruolo attivo giocato dal settore

della grande distribuzione, di cui i supermercati e le relative derivazioni rappresentano il

simbolo principale. Il dominio attuale dei supermercati all'interno della distribuzione

alimentare costituisce un elemento di analisi delle politiche neoliberiste di fine

novecento e della difficile situazione, in termini salutari e di accesso al cibo, attuale. I

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rapporti ufficiali delle organizzazioni mondiali, come la FAO, stimano a questo

proposito che la quantità di persone indigenti nel mondo sia di circa 900 milioni: tale

numero, come verrà dimostrato, è in stretta relazione alla nascita di nuovi supermercati

nelle periferie mondiali, alla riduzione dei raccolti (determinati dalle modalità di

coltivazione intensiva e di utilizzo di sostanze tossiche che garantiscono un'alta resa

nell'immediato, contrapposta ad un elevato esaurimento di risorse nutritive nel lungo

periodo), all'aumento dei prezzi alimentari nei mercati mondiali (fortemente influenzati

dall'andamento finanziario), all'insorgenza di nuove malattie e alla nascita di conflitti

armati.

Le dinamiche sociali e di conflitto sono quindi in parte legate all'accessibilità

alimentare, sempre più influenzata dai mercati economici, dalle multinazionali e dalle

catene di distribuzione. In questa descrizione si dimostra evidente il legame tra cibo e

capitale e tra capitale e ambiente; secondo alcuni studiosi, il capitalismo stesso

rappresenta un sistema ecologico, in quanto fortemente dipendente dalle risorse naturali.

Questa dipendenza è facilmente osservabile, per esempio, nel rapporto tra denaro,

combustibili fossili e concentrazione di potere. La visione proposta tuttavia non fa che

esplicitare un concetto apparentemente scontato, ma proprio per questo molto spesso

lasciato ai margini della riflessione, e cioè la naturale dipendenza di qualsiasi attività

umana rispetto al pianeta, che in quanto sistema finito, è caratterizzato da limiti

invalicabili.

Il veloce raggiungimento di tali limiti fa da contrasto ad innovazioni socio-tecniche

interessate alla salvaguardia dell'ecosistema e ad un rinnovamento culturale in questa

direzione; all'interno del mio studio ho inserito alcuni casi di nicchie socio-tecniche

alternative, specificatamente riferite alla creazione di filiere corte di prodotti coltivati

biologicamente, all'apicoltura urbana e alla limitazione degli sprechi alimentari. Una

parte d'innovazione di tali nicchie è rappresentato da un modello culturale differente,

attento all'ambiente così come alla qualità del prodotto, come si vedrà soprattutto in

merito ai gruppi d'acquisto e per l'apicoltura urbana. La proposizione di simili modelli

costituisce pertanto forme di pensiero, di economia, di lavoro differenti rispetto ai

canoni dominanti. L'obiettivo di questa tesi è dunque il paragone fra il sistema

dominante e quello delle nicchie socio-tecniche, attraverso variabili agroalimentari,

economiche e socio-culturali.

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All'interno dei quattro capitoli di cui si compone il mio lavoro verranno trattati il

capitalismo e la relativa diffusione mondiale, l'evoluzione dei regimi alimentari europei

e globali, lo sviluppo delle catene distributive, degli allevamenti e delle coltivazioni

intensive e i relativi impatti ambientali, e infine i processi transitivi verso nicchie socio-

tecniche all'avanguardia rispetto al sistema attuale.

Il primo capitolo descrive i rapporti uomo-mondo e la nascita della relazione di

valore protagonista dell'accelerazione umana a partire dalla fine del Medio Evo. A

partire dallo sviluppo di Genova e Venezia e dei traffici finanziari e di commercio di

materie prime, viene descritto l'espansione del capitalismo, osservata attraverso le

analisi, tra i vari autori, di Jason Moore e Fernand Braudel. La nuova relazione uomo-

natura di matrice utilitarista e monetaria determina continue espansioni alla ricerca delle

Four Cheaps, i quattro elementi imprescindibili per lo sviluppo della struttura

capitalista: in altri termini la separazione dell'uomo dalla dimensione naturale,

attraverso il dualismo cartesiano, ha permesso di vedere la natura come un 'magazzino'

di risorse primarie, come le risorse energetiche o quelle minerarie, prelevabili a costi

decisamente bassi. Attraverso l'appropriazione di questi quattro elementi, realtà come

Genova, Venezia e le Province Unite hanno influenzato le sorti e gli equilibri geopolitici

dell'Europa post-medievale e del XVI secolo. L'importanza di tali fattori si dimostra

attraverso la dipendenza della Spagna imperiale verso i commercianti di legname

provenienti dal Baltico olandese, o come la continua espansione verso nuove frontiere

per le coltivazioni di zucchero, caffè, cacao, tabacco; la nascita di apparati snelli come

le città-stato Repubbliche marinare o delle Province Unite rappresenta la fase iniziale

del capitalismo, successivamente identificato negli stati potenti e negli imperi,

soprattutto quello britannico, 'l'officina del mondo'. Lo sviluppo di uno stabile apparato

coloniale fu una delle armi dell'impero per il mantenimento dello status quo mondiale.

Le piantagioni, la manodopera e le risorse minerarie ed energetiche delle colonie erano

infatti strumenti economici fondamentali, al pari delle flotte navali per le campagne

militari. Attraverso la costante espansione necessaria per la ricerca e il prelievo di

risorse primarie, altri soggetti dello scacchiere geopolitico crebbero d'importanza, come

Stati Uniti, Germania, Unione Sovietica. Le due guerre mondiali restituirono un nuovo

paese egemone all'interno dei rapporti geopolitici; la Gran Bretagna, in seguito alla

Grande Depressione, ai danni della prima guerra mondiale, della seconda fu infatti

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costretta a cedere il ruolo di garante della stabilità mondiale agli Stati Uniti che,

attraverso i programmi di aiuti, i piani di sviluppo, i prestiti e gli investimenti furono in

grado di ricreare un sistema vagamente imperialista. La guerra fredda e la competizione

tecnica si conclude con il declino dell'Unione Sovietica e la fine della guerra, senza

vincitori né vinti. La globalizzazione e la crescita delle multinazionali, in seguito alle

politiche neoliberiste degli anni '80, e del potere cinese costituiscono il quadro attuale,

in cui il prelievo eccessivo di risorse sembra essere prossimo ai limiti strutturali.

Il secondo capitolo espone la linea evolutiva del capitalismo attraverso uno sguardo

sulla produzione agroalimentare: se è vero infatti che il sistema capitalista si regge sui

quattro pilastri descritti, allora anche l'evoluzione di esso costituisce una relativa

evoluzione degli elementi portanti. Con l'egemonia britannica produzione e consumi

iniziano un lento, ma inesorabile, processo di omogeneizzazione, in grado di contrarre i

costi produttivi e massimizzare i profitti. Il primo regime alimentare analizzato è

appunto quello britannico, basato sulla produzione nelle colonie, sullo sviluppo del

sistema di trasporti, sulla schiavitù della manodopera coloniale e sulla proletarizzazione

di quella urbana. Carni e granaglie, all'interno del regime britannico, iniziano a essere

concentrati nelle colonie, provocando una serie di effetti ambientali a catena. Il

successivo regime alimentare è quello statunitense, successivo alla seconda guerra

mondiale e precedente alla deregulation neoliberista degli anni '80. Durante questo

periodo (circa un ventennio), si assiste all'industrializzazione (nonché alla nascita del

termine e della questione) del Terzo Mondo, attraverso i piani di sviluppo, gli

investimenti e i fondi stanziati dagli Usa; alle spalle delle strategie propagandiste si

nasconde la volontà di riorganizzare una forma di impero non convenzionale, in seguito

ai programmi di decolonizzazione. Tale regime si caratterizza inoltre per lo sviluppo

delle biotecnologie e dell'industria chimica, applicata all'agricoltura, specialmente in

territori periferici come India e Messico. La Rivoluzione Verde rappresenta proprio il

tentativo di introdurre organismi geneticamente modificati all'interno del settore

agroalimentare. Il terzo regime alimentare, ovvero quello attuale, denominato dai teorici

Corporate food regime è caratterizzato dalla profonda industrializzazione

dell'agricoltura e dell'allevamento, dall'ingombrante presenza di OGM e biotecnologie,

dall'impoverimento del Sud del Mondo, destinato alla produzione agroalimentare per le

grandi multinazionali attive in tutti i principali mercati mondiali, dalla rapida ascesa dei

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supermercati che, nell'arco di circa trent'anni, sono divenuti globalmente la principale

forma di acquisto dei prodotti alimentari. In questo contesto vengono descritti gli

esempi della produzione di quinoa e altri legumi come la soia ed anche un nuovo

legame che vincola ulteriormente il settore agricolo all'accumulazione di capitale, come

si è visto in relazione all'aumento mondiale dei prezzi durante il biennio 2007-2008: si

tratta dei biocombustibili e della febbricitante rincorsa nel nascente mercato, a scapito

dei terreni destinati per la produzione di cibo. La destinazione di risorse verso nuovi

settori e mercati espone la collettività a una potenziale decrescita dell'accessibilità

alimentare, come viene descritto nel paragrafo relativo alle guerre per il cibo.

All'interno del terzo capitolo viene descritto il ruolo centrale della grande

distribuzione organizzata, identificabile nell'incessante crescita dei supermercati. Lo

sviluppo della grande distribuzione ha dato vita a numerose declinazioni del

supermarket: ipermercati, discount, supermercati, punti vendita di prossimità e outlet

sono infatti comparsi in tutto il mondo, anche nei territori periferici, tradizionalmente

legati a produzioni ed alimenti locali e con valori storico-culturali altamente

significativi. L'ascesa delle multinazionali, descritta nel capitolo 2, viene ripresa

attraverso l'esempio dei fast-food e delle negative conseguenze per allevatori, bestiame,

salute e ambiente circostante: il cibo spazzatura infatti è penetrato felicemente nel

consumo alimentare quotidiano. La frenetica vita quotidiana viene, molto spesso

scandita appunto dalla frequentazione dei fast-food dove viene servito velocemente del

cibo consumabile altrettanto in fretta, a prezzi economici e dal gusto ipnotico. Il sapore

di questi alimenti tuttavia è il risultato del forte apporto di sali e zuccheri, artefici di

numerose malattie cardiovascolari, intestinali e psicofisiche per alcuni clienti. La qualità

dei cibi proposti è mediamente molto bassa, essendo un parametro troppo costoso per i

produttori e per il tipo di pasto proposto. Lo sviluppo e aumento delle diete basate su un

ampio, e in alcuni casi eccessivo, apporto di proteine animali, espone l'ambiente a

ulteriori produzioni d'inquinamento: nel testo viene infatti descritto l'alto impatto

ambientale provocato dagli allevamenti e dall'acquacoltura intensivi. Accanto a tali

pratiche alimentari, la cultura e le pratiche quotidiane sono interessate da un alto livello

di spreco che fa da contraltare all'elevato numero di indigenti in tutto il mondo. Lo

spreco rappresenta una piaga culturale sedimentata nel tessuto sociale e legata allo

status sociale, al pensiero dominante e al livello di benessere percepito. Lo spreco

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alimentare si manifesta infatti nei paesi sviluppati o nelle più alte fasce sociali dei paesi

in via di sviluppo. In questa visione, lo spreco abbraccia felicemente le tesi di Veblen,

secondo cui lo spreco vistoso, al pari del tentativo di emulazione delle classi più alte da

parte delle classi più povere, era un mezzo di distinzione all'interno della sfera sociale.

Tuttavia lo spreco è qualcosa di più: da un lato rappresenta l'estrema mercificazione del

cibo (innanzitutto una risorsa indispensabile per la vita), dall'altro costituisce un

elemento di analisi del livello socio-culturale.

Il quarto capitolo descrive i processi transitivi legati al passaggio verso nuovi sistemi.

L'analisi proposta segue uno schema su più livelli interdipendenti: le nicchie socio-

tecniche, i regimi e il paesaggio, o orizzonte (landscape). Questi livelli interagiscono tra

di loro e formano il reticolo socio-tecnico di un preciso contesto; accanto a quest'analisi

viene proposto lo studio delle pratiche sociali quotidiane. Il risultato derivante dalla

sovrapposizione di questi due modelli di studio restituisce uno scenario abbastanza

completo, e relativo ai consumi alimentari quotidiani. Come osservato nel capitolo 3, i

supermercati sono ben presto divenuti il principale metodo d'acquisto, costituendo il

regime dominante nelle modalità di acquisto e accesso al cibo. Nel tentativo di

contrastare un modello unicamente finalizzato alla massimizzazione dei profitti viene

proposto il caso emblematico dei gruppi d'acquisto sostenibili, e in particolare il Gruppo

d'Acquisto Collettivo nato nella città di Torino. Sempre relativo al capoluogo

piemontese viene descritto il progetto di apicoltura urbana, denominato Urbees.

Entrambi i progetti analizzati dimostrano che l'innovazione e lo sviluppo passa

attraverso realtà dalle dimensioni più che contenute e da una decisiva evoluzione socio-

culturale. Cambiamento culturale che si osserva, in particolare, nella nascita di

iniziative, nonché canali tematici appositamente dedicati (come nel caso delle

applicazioni per smartphone), volte alla riduzione degli sprechi alimentari.

Il paragone fra i due modelli restituisce uno spunto di analisi e di riflessione circa

l'efficienze sistemica dell'attuale panorama, governato da un impianto finanziario e

capitalista, e indiscusso protagonista dell'incessante degrado ambientale, osservabile

nella perdita della biodiversità, nell'esaurimento delle risorse naturali e della fertilità dei

suoli, nell'aumento di sostanze chimiche dannose per l'ambiente; le conseguenze

descritte possono esser riassunte nella scissione metabolica, già descritta e osservata nel

XIX secolo.

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1 Il sistema capitalista

1 Dal feudalesimo al capitalismo

Contrariamente al comune pensare il sistema capitalista non è qualcosa appartenente

agli ultimi due secoli e mezzo; l'origine infatti non va fatta risalire alla Rivoluzione

Industriale o agli spilli di Adam Smith, bensì a partire (all'incirca) dal 1500, il lungo

secolo in cui la relazione di valore iniziò a sfruttare e modificare considerevolmente la

visione dell'ambiente, delle risorse naturali e di quelle economiche; rispetto al sistema

feudale basato su una rigida divisione sociale, in cui il commercio aveva una

dimensione locale o regionale e in cui una parte dei raccolti era destinata al sovrano che

garantiva protezione, il passaggio al capitalismo rappresentò un'accelerazione senza

precedenti nell'espansione delle attività umane sul pianeta. Tale sviluppo non fu

immediato, ovviamente, ma progressivo e naturale, cioè non incontrò ostacoli alla sua

stabilizzazione sociale e culturale: il nuovo sistema infatti rappresentava "il culmine

delle contraddizioni inerenti al modo di produzione che a un certo punto portò alla

trasformazione qualitativa dell'ordine sociale" [Wallerstein, 1976], la fine di un sistema

che aveva raggiunto i limiti costitutivi.

La storia del capitalismo inizia pertanto tra il XIII e il XIV secolo nell'Europa

feudale in cui la crescita della popolazione portò all'espansione sul continente, alla

nascita di nuovi centri urbani e all'ingrossamento di quelli esistenti e un'intensificazione

dei traffici Afro-europei [Moore, 2003]. Sul piano politico i nascenti Stati stavano

acquisendo potere rispetto ai decadenti signori feudali, mentre il progresso socio-

economico - in primis nel trasporto e commercio marittimo - incoraggiò una nuova

divisione del lavoro. Durante il XIV secolo tuttavia le cose iniziarono a peggiorare in

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seguito alle rivolte dei contadini per una crisi alimentare generalizzata che diffuse

epidemie mortali; i rapporti tra signori e stati si inasprirono sfociando in guerre,

contemporaneamente alla perdita di denaro della finanza e dei mercanti nelle città-stato.

Le origini di questa crisi sono da trovare nel rapporto del sistema feudale con la terra,

lavorata dal mondo contadino ma di proprietà nobiliare; molto raramente i contadini

venivano allontanati (dai signori feudali) dalla terra che rappresentava l'unica via di

sopravvivenza garantita in minima parte dai sovrani che, al contrario, si appropriavano

della maggior parte del surplus produttivo [Moore, 2003]. Con la totale o quasi

appropriazione del surplus veniva pertanto a mancare una parte fondamentale nel ciclo

produttivo, ovvero quella destinata agli investimenti per il miglioramento dei raccolti e

contro la progressiva sterilità dei terreni. Malgrado la mancanza di un reintegro di

denaro nel ciclo produttivo, durante il feudalesimo la popolazione del sistema Europa-

mondo crebbe considerevolmente, frammentata in piccole proprietà terriere che

influenzarono di molto la produttività dei campi; a livello nobiliare, si assistette

contemporaneamente alla fioritura di titoli feudali che aumentarono il numero di

servitori e parassiti del surplus contadino [Moore, 2003]. Il ciclo vizioso di tale sistema

portò pertanto all'esaurimento dei terreni che a sua volta produsse una crisi alimentare

ed epidemie diffuse. La crescita di popolazione da un lato e l'impoverimento delle

risorse dall'altro rappresentavano le due facce della stessa medaglia in cui le

contraddizioni in termini di produzione agricola, investimenti economici e immobilità

sociale stavano lentamente rendendosi esplicite. La Peste Nera del 1348 accentuò la

crisi del sistema, così come il cambiamento climatico che, unito all'impoverimento del

suolo, produsse raccolti estremamente poveri: nell'Europa occidentale, tali catastrofi

unite alla crescente ostilità e forza del mondo contadino portarono i signori, di comune

accordo, ad un aumento del prelievo del surplus agricolo e ad intensificazioni del

controllo feudale sulle campagne. Il risultato di questa miscela fu esplosivo e portò a

rivolte diffuse in tutto il continente: in Italia, in particolare a Firenze nel 1378, e nelle

Fiandre esplosero movimenti insurrezionalisti. In questo quadro le città giocarono un

ruolo importante come via d'uscita ai legami feudali; il semiproletariato urbano fornì

supporto alle rivolte delle campagne come a Parigi nel 1358 e a Londra nel 1381

[Moore, 2003]. La difficile situazione dei raccolti, la fame, le epidemie, l'aumento della

coercizione signorile portarono al raggiungimento dei limiti interni da parte di quel tipo

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di sistema: in questo senso, era pertanto necessaria un'espansione esterna che

permettesse di ampliare le possibilità di crescita.

Nel XIV secolo molti territori dell'Europa meridionale e continentale erano ormai

degradati e non più fertili: uno dei principali tentativi di superamento di tali

contraddizioni fu l'espansione verso terre vergini, con l'ampliamento delle frontiere, che

nel XVI secolo portarono alla fioritura di commerci internazionali e di sistemi coloniali

di sfruttamento delle risorse extra-europee [Moore 2000, 2003, 2013; Wallerstein 1976].

"L'unica soluzione che avrebbe potuto estrarre l'Europa occidentale dalla decimazione e

dalla stagnazione era quella di espandere la torta economica da dividere, una soluzione

che richiedeva, data la tecnologia del tempo, un'espansione delle terre e un aumento

della popolazione" [Wallerstein, 1974; Moore, 2003]. A livello continentale

l'espansione delle frontiere coincise con tre movimenti indipendenti e antagonisti: il

tentativo di conquista dei principali stati nei confronti di quelli più piccoli o minori, ma

l'equilibrio delle forze continentali contrapposte appariva tutto sommato definito, con i

principali stati in via di stabilizzazione: l'espansione andava pertanto diretta altrove,

viste anche le ristrettezze di denaro liquide delle casse statali. Parallelamente, anche i

rimanenti signori feudali che, in alcuni casi, godevano ancora dei privilegi della gleba,

vedevano nell'ampliamento dei territori la giusta soluzione alle crisi interne. In terzo

luogo le città che, ottenuta la legittimazione politica da parte degli stati, iniziarono ad

acquisire sempre maggior peso: "la vera natura della crisi feudale limitò questa

prosperità nella misura in cui la situazione bellica in Europa era privilegiata

all'espansione geografica" [Moore, 2003, p. 22]. I traffici delle principali città-stato,

come Venezia e Genova, iniziarono a prosperare e le mire espansionistiche vennero a

contrapporsi: proprio tra queste due città esplose una serie di conflitti circa le possibilità

economiche derivanti dai traffici verso Oriente e che sembrarono determinare una

posizione di debolezza della città ligure, che diresse da allora le proprie attenzioni

capitalistiche e finanziarie nei confronti della penisola iberica. Fu questa rivalità a

spingere Genova a stringere alleanze con Portogallo e Spagna e cercare una via

alternativa per il raggiungimento delle Indie. Al di là degli obiettivi di ciascuna forza in

campo, un altro motivo alle necessità d'espansione delle frontiere era determinata

dall'aumento dei territori coltivabili in particolare a grano, una pianta molto dispendiosa

per i terreni rispetto ad un altro cereale come il riso che, al contrario, necessitava di

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interventi minori e permetteva una maggiore rigenerazione del terreno. La dieta

alimentare e il "regime biologico" furono altre cause determinanti verso un

ampliamento dei terreni: secondo Braudel in questo senso, la coltivazione di grano, riso

e mais, le piante della civilizzazione', in Europa, America latina e Asia furono fattori

determinanti per l'espansionismo degli stati, principalmente europei [Moore, 2003b]. "E'

impossibile esagerare l'importanza dei cereali, piante sovrane dell'alimentazione antica.

Il grano, il riso, il mais sono il risultato di innumerevoli esperienze successive che per

effetto di 'derive' multisecolari [...], sono divenute scelte di civiltà [Braudel, 1981b, p.

32]. In Europa da sempre la coltura principale è il grano che, tra le varie caratteristiche,

determina un impoverimento del suolo che necessita pertanto di rotazioni annuali; le

risorse prelevate dalla coltivazione del terreno venivano reintrodotte attraverso

l'allevamento di bestiame. Come sostiene Braudel l'andamento e le sorti di queste

coltivazioni furono fondamentali per i destini dei paesi coltivatori:

L'Europa scelse il grano, che divora il terreno e necessita di un riposo ciclico; questa scelta

implicò e determinò l'aumento del bestiame. Ora, chi può immaginare la storia europea

senza mucche, cavalli, campi e carretti? Come risultato di questa scelta, l'Europa ha sempre

combinato agricoltura e allevamento di bestiame. E' sempre stata carnivora. Il riso spuntò

fuori come forma di giardinaggio, una coltivazione intensiva in cui l'uomo non trovava

spazio per collocare il bestiame. Ciò spiega perché la carne costituisce una così piccola

parte della dieta delle aree coltivate a riso. [Invece] Piantare mais è sicuramente la via più

semplice e conveniente per ottenere il "pane quotidiano" [Braudel, 1981b, p.33].

Al contrario, la coltivazione di riso in Cina non portò mai alla necessità di espandere

le proprie frontiere alla ricerca di terreni dove poter continuare tale coltivazione: il riso

infatti non impoverisce il terreno dei nutrienti fondamentali, trovandoli al contrario

nell'acqua; ciò significa che non è necessaria una rotazione dei terreni nè

dell'allevamento di bestiame, elemento decisivo nella reintegrazione dei fertilizzanti

[Moore 2003b]. La Cina non tentò mai di espandere le proprie frontiere in cerca di

nuove risaie; i confini rimasero pressoché stabili nel tempo, dato che le relazioni tra

città e campagne erano più legate a un'intensificazione della produzione che non a

un'espansione geografica [Moore 2003; Braudel 1981]. Il paragone con la dieta

alimentare cinese dimostra quanto il regime biologico sia determinante per il destino di

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un paese o area geografica: nel caso del grano europeo questo comportò l'espansione

oltre oceano.

La difficile situazione del XIV secolo necessitava di un cambiamento; il sistema

feudale si stava progressivamente sgretolando di fronte al nascente espansionismo

geografico, sia come ampliamento delle risorse sia come termine alle continue guerre in

seno all'Europa. Il progressivo deterioramento dei terreni, alternati alla pastorizia,

rivelavano i limiti produttivi e si dimostravano insufficienti rispetto alla ripresa

demografica e tecnologica. Tuttavia, l'unica possibilità di uscita dal difficile momento

coincideva con un aumento del materiale e delle risorse disponibili: la "torta da

dividere" - riprendendo la frase di Wallerstein - andava pertanto ingrandita e l'unico

mezzo era dato dall'ampliamento delle frontiere e delle risorse disponibili.

I primi tentativi di espansione di questa "torta" furono spagnoli e portoghesi verso le

vicine isole dell'Atlantico per la produzione di zucchero e l'estrazione di argento [Moore

2003 e 2009]. La coltivazione dello zucchero rivelò nuovi metodi di produzione basati

su un rinnovato rapporto tra capitale, terra e lavoro: i territori iniziarono a esser

considerati come valore economico all'interno di una dilatazione dei commerci

transnazionali. La "transizione" al sistema capitalista stava entrando in una nuova fase.

In questo senso è importante considerare tre diverse accezioni del termine "transizione":

in primis come trasformazione dell'Europa feudale in una economia-mondo capitalista;

il secondo aspetto riguarda la conseguente incorporazione dei sistemi non capitalisti

esterni nell'espansione capitalista dell'economia-mondo; in terzo luogo, il termine si

riferisce alla proletarizzazione del lavoro e alla commercializzazione delle terre

[Wallerstein, 1976]. La complessità di tale transizione necessitò logicamente di diverso

tempo prima di stabilizzarsi e diffondersi: ciascuno stato europeo fu attraversato da

processi di trasformazione indipendenti, all'interno della nascente economia-mondo.

17

1.1 La natura come valore: un po' di zucchero nel caffè?

L'espansione delle frontiere si dimostrava l'unica via praticabile per il superamento di

alcuni problemi come la disponibilità di risorse, il deperimento del suolo e

l'accumulazione di capitale; l'incorporazione di nuovi territori nel nuovo sistema era

pertanto fondamentale. Le aree incorporate nell'economia capitalista mondiale

diventavano unità territoriali a volte sovrane, a volte colonizzate [Wallerstein, 1976],

comunque legate allo sviluppo europeo. In questo senso, nell'Europa pre-capitalista le

sorti statali dipendevano quasi esclusivamente dalla rendita agraria, oltre che dal

commercio e dall'apparato militare. Per alcuni studiosi come Wallerstein, la storia della

nascita del sistema capitalista coincide con la storia della riorganizzazione agraria e

delle relazioni tra classi all'interno di un economia Europa-mondo, poi estesa

all'America [Moore, 2000b]. Un esempio in questo senso giunge dalla coltivazione dello

zucchero che, sul finire del XV secolo, iniziò a essere massicciamente concentrata

sull'isola atlantica di Madeira, prima di estendersi in tutto il mondo, specialmente

nell'America centrale e meridionale; fino al XV secolo, la produzione europea di

zucchero era incentrata a Cipro, ma la vicinanza alle coste africane e di conseguenza il

prelievo di manodopera schiavizzata, divennero fattori troppo convenienti per

l'accumulazione di capitale. La coltivazione dello zucchero a livello così intenso da un

lato produsse un degradamento del terreno senza precedenti tanto che furono necessarie

continue espansioni successive, e dall'altro rivoluzionò completamente il sistema

produttivo dell'epoca. Il degradamento del terreno causato dalla coltivazione intensiva

di zucchero rappresenta una delle iniziali controindicazioni del sistema capitalista

nascente, in quanto gettava le basi di quella futura scissione metabolica teorizzata da

Marx; il mutamento delle relazioni tra società e natura mutò drasticamente, con la

seconda che divenne il mezzo per le attività umane. Con la nascita di un mercato

mondiale e la divisione del lavoro transatlantico del XVI secolo i problemi ecologici

localizzati, propri del feudalesimo, divennero parte di una scissione metabolica a livello

europeo procurata dal nuovo sistema in cui i prodotti agricoli venivano destinati in gran

parte alle città.

La fine degli obblighi feudali che subordinavano l'iniziativa personale al volere dei

sovrani, coincise inoltre con un'esplosione di libere attività in cui le persone vendevano

18

la propria forza lavoro; in questo scenario, il secondo essenziale prerequisito della

produzione capitalista era costituito dal fatto che "il lavoratore, invece di essere nella

posizione di vendere delle commodities in cui è incorporato il proprio lavoro, è

obbligato a offrire a prezzi competitivi i propri prodotti" [Katz, 1993], all'interno delle

nuove dinamiche di mercato.

La riorganizzazione del lavoro e del capitale, a partire dalle nascenti monocolture - in

primis lo zucchero - furono la scintilla del nuovo sistema: Madeira, colonizzata dai

portoghesi nei primi trent'anni del XV secolo, in questo senso rappresenta la formazione

di un mercato degli schiavi, un'anticipazione - attraverso la riorganizzazione del sistema

agro-ecologico - del successivo trend industriale del XVIII secolo. Una costante del

capitalismo è la necessità di trovare aree sempre maggiori da destinare alla coltivazione,

in molti casi, di monocolture: ciò comporta un massiccio processo di deforestazione,

laddove l'area interessata sia coperta di alberi. Fu questo il caso di Madeira - ma non

solo - il cui nome significa appunto "boschetto, legna, legname": durante il XV secolo

l'intera isola, prima di esser destinata al business dello zucchero, era coperta da fitte

foreste, di cui un secolo dopo non restò che il nome [Moore, 2009]. A partire dal 1450

lo zucchero di Madeira, inizialmente destinato al solo fabbisogno portoghese, divenne il

centro nevralgico della produzione europea di zucchero, soppiantando Cipro e la Sicilia.

Non solo i portoghesi, ma anche i banchieri fiamminghi e genovesi nutrivano interesse

nella fioritura del commercio di questa commodity. La deforestazione indotta

dall'estensione delle terre da coltivare produsse periodi di siccità da fronteggiare con

nuovi sistemi d'irrigazione, finanziati proprio dalle banche genovesi e fiamminghe

[Moore, 2000]. Il boom di questa coltivazione tuttavia, portò nel giro di pochi decenni a

un totale degrado del terreno dell'isola tanto da costringere gli stati alla ricerca di nuove

frontiere in cui destinare la produzione di zucchero, attraverso l'aiuto costante e forzato

della manodopera schiavizzata di origine africana.

Il cambiamento delle relazioni con la natura stava iniziando a manifestarsi

concretamente non solo a Madeira, ma in tutto il territorio europeo: durante il lungo

XVI secolo l'intero continente fu interessato da trasformazioni agro-ecologiche di ampia

portata, come la rivoluzione agricola dei Paesi Bassi (1400-1600), lo sviluppo di

industrie navali che determinò il progressivo disboscamento delle foreste e l'aumento di

aree sterili in seguito all'intensa coltivazione di grano e zucchero. A livello economico,

19

la coltivazione dello zucchero al posto del grano ebbe due importanti conseguenze: da

un lato, i prodotti agricoli necessari per l'alimentazione andavano importati, non essendo

più prodotti, accentuando il modello di economia-mondo basato su

un'internazionalizzazione della divisione del lavoro [Moore, 2000]; dall'altro, il

passaggio alla produzione di zucchero necessitava di un'ampia base produttiva, il fattore

indicativo di un'incorporazione nell'economia mondiale. La produzione di zucchero,

sempre più sotto forma di monocultura, rappresenta pertanto un primo esempio di

agricoltura capitalista, guidata da una radicale semplificazione dell'ordine ecologico

naturale. Sotto le condizioni di una generalizzata produzione di beni alimentari e

l'imperativo di un'incessante accumulazione di capitale, le pressioni competitive dei

mercati rendevano instabili le monocolture: la competizione esasperava i terreni che in

mancanza della dovuta rigenerazione diventavano inutilizzabili, con gli stati

nuovamente costretti a nuove espansioni dei confini. Questo è evidente nel caso

dell'isola di Madeira, ma non solo, in cui la rapida ascesa della coltivazione e del

commercio di zucchero provocarono un non meno veloce declino del terreno che, dopo

circa un secolo, rese impraticabile la coltivazione: il passo successivo in questo senso,

fu semplicemente l'adozione di nuovi terreni coltivati con gli stessi metodi. Da Madeira

si passò così a Santo Tomé a metà del XVI secolo, poi a Pernambuco, a Bahia nel XVII

secolo e infine nei Caraibi e nell'America meridionale nel XVIII secolo [Moore, 2013].

Le long siècle fu pertanto un periodo fondamentale nella transizione al capitalismo,

permessa in primis da un'espansione dei terreni e da una riorganizzazione del lavoro e

del capitale: a partire da allora infatti, il sistema capitalistico iniziò a espandersi a

macchia d'olio, coinvolgendo aree del pianeta sempre grosse e, di conseguenza,

aumentando esponenzialmente gli effetti catastrofici derivanti dalla scissione

metabolica. Il commercio triadico inaugurato a Madeira divenne una costante del

successivo capitalismo seicentesco, in cui le coste dell'Africa occidentale divennero

terra di razzia di manodopera al soldo delle potenze europee nei territori oltreoceano.

L'aumento dei traffici intensificò di conseguenza la produzione navale, determinando

una generale deforestazione sul continente europeo con i suoli destinati alla coltivazione

del grano, come le campagne della Vistola o del Mar Baltico [Arrighi, 1999; Moore,

2013] e all'allevamento. L'intensa macchina capitalista era stata messa in moto, ma il

ritmo delle attività umane si era staccato da quello naturale: l'ambiente era qualcosa da

20

colonizzare, dominare, sfruttare, sulla base di un nuovo rapporto economico. Per dirla

con le parole di Marx: la scissione metabolica. La corsa alle materie prime avrebbe

determinato guerre, competizioni secolari in tecnologia, armi, disponibilità economiche,

alleanze politiche. La necessità di ampliare le frontiere e inglobare all'interno del

sistema nuove realtà, un tempo al di fuori e a sé stanti, era pertanto fondamentale per le

sorti dei paesi europei. Gli sviluppi in questo senso furono molteplici e omogenei: oltre

alla nascente industria dello zucchero, la deforestazione in Europa portò alla nascita di

cantieri navali a Cuba e nel Nord America nel XVIII secolo; in Inghilterra si procedette

alla bonifica di diverse aree, destinate alla produzione agricola per i crescenti mercati

internazionali; l'estrazione mineraria, in primis dell'argento, portò a rivoluzioni e

sviluppi tecnologici [Moore, 2009]; nel Mediterraneo intere isole vennero destinate alla

monocoltura, come Cipro, Creta e Corfù, convertite dall'uomo alla coltivazione della

vite [Moore, 2003].

L'intensificarsi dei traffici di zucchero nelle colonie aveva dato il via al commercio

triadico delle monocolture, importate nei mercati dell'economia-mondo: da allora,

tabacco, caffè, cotone, minerali, legname, olio di palma, cacao e persino il guano1

furono prelevati senza sosta dal capitalismo accumulativo delle potenze europee, e non

solo.

Un grande mercato libero e mondiale stava nascendo sotto l'insegna del capitalismo;

tuttavia, come osservava Marx nel 1848 a proposito del libero mercato: "Voi credete

1 Nel 1840, la veloce degradazione del suolo messa in luce dal chimico tedesco Justus Liebig portòall'interesse delle principali potenze europee per il guano, un fertilizzante naturale ricco dei nitratifondamentali per la rigenerazione dei terreni. Dopo le pubblicazioni del biologo francese AlexandreCochet in merito ai benefici dell'utilizzo di guano, si sviluppò attorno al 1850 una vera e propria febbreper il guano, sostanza decisamente abbondante lungo le coste del Pacifico peruviano. Nel 1851 il RegnoUnito importò dal Perù circa duecentomila tonnellate di guano peruviano con l'uso di circa 40 navi; gliStati Uniti si dotarono di 44 navi, i francesi di 5, 2 degli olandesi e 1 nave per Italia, Belgio, Norvegia,Svezia, Russia e 3 navi per il Perù [Foster, 2004]. La corsa al guano era cominciata: nel volgere di unventennio circa gli investimenti inglesi per la produzione di nitrati in Perù raggiunsero il milione disterline. La concentrazione in Perù della produzione di nitrati e del prelievo di guano causò un forteindebitamento dello Stato americano che, a partire dal 1875, impose il monopolio sull'estrazione di nitratinei territori di Tarapacà, espropriando le proprietà degli investitori privati (molti dei quali di originebritannica), offrendo loro dei certificati di pagamento ufficiali. Questo portò alla Guerra del Pacifico,anche conosciuta come Guerra del Guano, dal 1879 al 1884 in cui il Cile, sostenuto da Francia eInghilterra sconfisse l'alleanza tra Perù e Bolivia e si assicurò ingenti quantità di guano e nitrati. Comeanalizza James Foster: «Prima della guerra il Cile praticamente non possedeva nè campi di nitrati nèdepositi di guano. Dalla fine della guerra nel 1883, [il Cile] confiscò tutte le zone ricche di nitrati dellaBolivia e del Perù e la maggior parte dei depositi di guano di quest'ultimo. Prima della guerra l'Inghilterracontrollava il 13% dell'industria di nitrati della peruviana Tarapacà; subito dopo la guerra - datal'acquisizione cilena della regione - le quote britanniche salirono al 34%, giungendo al 70% nel 1890". LaGuerra era stata combattuta unicamente per il predominio del guano e dei giacimenti di nitrati da parte"dell'Inghilterra sul Perù, con il Cile come semplice strumento".

21

forse, gentiluomini, che la produzione di caffè e zucchero sia il naturale destino delle

Indie Occidentali. Due secoli fa, la natura, non ancora disturbata dal commercio, non

aveva piantato in quei luoghi nè canne da zucchero nè piante di caffè" [Foster, 2004].

La diffusione delle monocolture su scala mondiale per un mercato essenzialmente

europeo non era ovviamente qualcosa di appartenente ai sistemi precedenti: fu soltanto

in seguito al un mutamento delle relazioni uomo-ambiente che le monocolture,

l'accumulazione e la massimizzazione dei profitti poterono fiorire su tutto il pianeta. In

riferimento alla situazione dell'America Meridionale, Eduardo Galeano in Le vene

aperte dell'America Latina sosteneva che: "l'iniziale produzione col passare degli anni

sbiadisce in una cultura della povertà, sussistenza economica, letargia [...] Più un

prodotto è desiderato dal mercato mondiale, più si fa grande la miseria che incatena i

popoli dell'America latina".

Dal suo ingresso sulla scena mondiale, il capitalismo produsse - e produce tutt'ora -

una scissione irreparabile nel metabolismo naturale rigenerativo: secondo Marx, un

nuova interazione con l'ambiente, al fine di riassestare la crepa era necessaria, ma la

crescita sotto il nuovo capitalismo espansivo dei commerci a lunga distanza e di una

produzione su scala mondiale - attualmente due perni fondamentali del sistema -

intensificarono ed estesero la scissione metabolica [Foster, 2004]. Ciò fu evidente nella

perdita della biodiversità, in un aumento di disastri ecologici, nel cambiamento

climatico, l'abbassamento delle acque in seguito alla deforestazione, tutti fattori già

messi in luce da studiosi come Darwin, Marx, Engels, Lankester, Fraas, Von Humboldt

più di un secolo fa. Trattando degli effetti ecologici prodotti dall'uomo, Lankester,

famoso biologo del XX secolo, commentò in questo modo:

Molte poche persone hanno un'idea del modo in cui l'uomo ha attivamente cambiato la

fisionomia della Natura, i grandi pascoli di animali che ha distrutto, le foreste che ha

bruciato, i deserti che ha prodotto e i fiumi che ha inquinato. E' con questo tagliare e

bruciare foreste che l'uomo ha danneggiato sé stesso e gli altri esseri occupanti vaste regioni

del pianeta... Le foreste hanno un immenso effetto sul clima, umidificando sia l'aria sia il

terreno [Foster, 2004].

Al pari dello zucchero, anche il caffè ebbe un ruolo centrale nell'espansione dei

confini e dei traffici: importato nell'Occidente dai mercanti genovesi nella metà del XV

22

secolo, a partire dal 1600 fu interessato da una crescita esponenziale di traffici,

dapprima con il Medio Oriente e le Indie, poi con le colonie americane e indiane

[Talbot, 2011]. Il caffè entrò nei mercati europei inizialmente grazie ai traffici e agli

esploratori genovesi, come uno dei prodotti più esotici dell'epoca: rappresentava una

novità e, probabilmente, veniva consumata soltanto nelle corti o nei luoghi d'èlite. Le

cose cambiarono, sotto l'egemonia olandese, in cui il consumo e il commercio di caffè

crebbero decisamente; nelle principali città europee nacquero delle coffeehouses per

poter usufruire della bevanda sempre più popolare: a Venezia nel 1645, Londra 1652,

Marsiglia 1659, Amsterdam 1663, Parigi 1675, Amburgo 1679 e Vienna 1683 [Talbot,

2011]. L'aumento dei traffici coincise con uno sviluppo industriale per la trasformazione

della pianta in prodotto finale, il cui consumo, analogamente a quello dello zucchero,

del cotone, stava salendo sempre di più. Con la rottura dei commerci arabi da parte delle

potenti Province Unite, la Francia si gettò nel business del commercio globale di caffè:

l'isola di Bourbon (ora Reunion) fu convertita a caffè coltivato direttamente dai coloni

francesi che si servivano del lavoro schiavizzato. In questo modo i francesi prima, quelli

britannici poi poterono esercitare un controllo maggiore sulla produzione di caffè

rispetto agli olandesi, che al contrario si limitavano al controllo del mercato [Talbot,

2011]: così facendo le colonie inglesi e francesi poterono godere di una crescita della

produttività che, nel giro di un secolo, causarono il declino del commercio di caffè delle

Province Unite. La competizione nell'economia-mondo per il commercio di caffè si

intensificò profondamente, con gli Stati concentrati soltanto sulla massimizzazione del

profitto a breve raggio, salvo poi cercare nuove frontiere una volta superato il picco

produttivo, con la conseguente diminuzione della fertilità del terreno; la politica

economica e il nuovo razionalismo filosofico che scindeva l'uomo dalla natura non

lasciavano spazio ai problemi ecologici derivanti. Chiede Engels: "Chi si interessò dei

coloni spagnoli che a Cuba bruciarono completamente le foreste sui pendii delle

montagne, ottenendo la cenere sufficiente per fertilizzare una generazione altamente

produttiva di piante di caffè?" [Foster, 2011]. Tuttavia, per poter gestire l'ampia

produttività dei territori extra-europei era necessario stimolare e ampliare la domanda di

caffè interna al continente: la competizione tra stati europei era infatti aumentata,

provocando una diminuzione dei profitti da parte di ciascuna compagnia, che andava

necessariamente assorbita dal mercato europeo. A partire dal XVIII secolo la domanda

23

crebbe vistosamente aumentando i profitti, i prezzi si stabilizzarono e la coltivazione del

caffè divenne sempre più parte integrante dell'economia-mondo capitalista [Talbot,

2011]. Il passaggio delle monocolture dalla Guyana francese al Brasile nel 1720, e in

seguito nei Caraibi e nell'America Centrale, fu l'accelerazione decisiva al

raggiungimento di una produzione globale sotto l'egemonia olandese e in seguito

britannica [Arrighi, 1999]; i paesi dell'America latina tuttavia, dovettero prima

raggiungere l'indipendenza dagli stati europei, all'incirca negli anni 20' dell'Ottocento -

contemporaneamente alla Dottrina Monroe - per divenire il principale centro di

produzione di caffè a livello globale [Talbot, 2011]. Anche nel caso del caffè, come lo

zucchero, gli ampi benefici europei derivanti dalla coltivazione di queste commodity

nascondevano situazioni disastrose nelle colonie che sovente determinarono ribellioni e

insurrezioni, molto spesso guidate dagli schiavi neri africani, come nel caso della

Rivoluzione Haitiana del 1789. Un'altra costante in queste monocolture schiaviste era il

veloce esaurimento della fertilità dei terreni coltivati: ricerca, competizione e

espansionismo erano all'ordine del giorno nella politica dei principali stati del XVIII

secolo, in particolar modo verso le Indie, l'Africa e le Americhe.

1.2 Tra centro e periferia

Sul finire del lungo secolo e a partire dal XVII secolo, Olanda, Inghilterra e Francia

diedero vita a numerose compagnie di commercio che, con stili e metodi differenti,

ampliarono e controllarono i traffici in tutti i territori assoggettati [Arrighi, 1999]: i

mercati e i porti delle principali città europee disponevano ora di diversi prodotti esotici

sempre più accessibili economicamente alla nascente borghesia che, una volta rotti i

legami feudali, aveva contribuito all'ascesa e all'inurbamento delle città [Moore, 2003].

Oltre a produrre una scissione metabolica infatti, la relazione di valore tra uomo e

ambiente aveva portato a un inurbamento delle città - dove i mercati, con l'adozione

delle monocolture a livello globale, gestivano le transazioni internazionali di cibo -

24

producendo una seconda contraddizione in termini di proletarizzazione del lavoro. Con

la nascita del rapporto città-campagna iniziarono a manifestarsi la divisione e la

proletarizzazione del lavoro, in un andamento ciclico di espansione e stagnazione; tale

rapporto, molto spesso, pendeva a favore delle città, centri nevralgici delle transazioni

commerciali e finanziarie e delle decisioni politiche, ma era sulla produzione agricola

che si giocava una parte importante della politica statale. La disponibilità o la presenza

di canali di commercio era uno dei fattori per la crescita statale, sia interna sia estera; in

tal senso Braudel ricorda come "l'Invincibile Armata di Filippo II...cercò di comprare il

legname dalla lontana Polonia" [Moore, 2003b, p.8].

L'espansione delle città - e dei relativi mercati e centri portuali - iniziò a partire dal

XV secolo, una volta superate le contraddizioni del sistema feudale tra signori e servi e

con la nascita della borghesia [Wallerstein, 1976]; la trasformazione agro-ecologica

delle campagne del Mediterraneo fu in questo senso evidente. Nel Nord Italia la

disponibilità di capitale delle nascenti città moderne permise di intensificare i traffici e

le relazioni con il mondo contadino, traendo da esso ampi benefici che, come rovescio

della medaglia, rivelavano contadini fortemente indebitati [Moore, 2003b]. Durante il

1500 e nei secoli a venire, lo squilibrio tra le ricche città che godevano del lavoro a

basso costo dei poveri contadini fu, in alcuni casi, la miccia per agitazioni e insurrezioni

dalle campagne per il miglioramento delle condizioni. Al pari di Marx, anche Braudel

pone l'antagonismo tra città e campagne all'interno della crescita del capitalismo del

lungo secolo: "Le grandi città del XVI secolo, con il loro agile e pericoloso capitalismo

erano in una posizione di controllo e di sfruttamento dell'intero mondo" [Moore, 2003b,

p. 8]. In questa dimensione espansiva, l'esempio dello sviluppo nel Mediterraneo a

partire dal XV secolo riassume felicemente le contraddizioni del capitalismo e le

relazioni tra mondo agricolo e urbano: Venezia cercò infatti di ampliare i propri territori

sia per terra sia per mare, mentre Genova scelse un'espansione più agile e finanziaria,

affidando le proprie sorti allo sviluppo bancario e ai traffici commerciali di altre

nazioni. In questo senso, uno dei perni per il successo finanziario genovese, all'interno

del contesto europeo, fu il controllo delle fiere e dei mercati e il relativo flusso di

capitale sotto forma di crediti e debiti [Braudel, 1981b]. A livello mondiale, le

spedizioni spagnole nella vergine America erano finanziate dai banchieri genovesi:

25

secondo Braudel, dietro la facciata di subordinazione, i genovesi e il capitalismo

cittadino stavano facendo le proprie fortune [Moore, 2003b].

L'espansione territoriale dei nascenti stati e dei propri centri d'interesse interessò le

relazioni tra città e campagne: ad esempio nel Portogallo del XV secolo, l'aumento delle

coltivazioni di ulivi, viti e frutteti determinò la massiccia importazione di grano - a volte

anche dal distante Baltico - indispensabile per la dieta alimentare, abbandonato in

seguito alla diminuzione del profitto economico derivante da esso; nell'Italia post-

feudale la crescita di Pisa, Genova, Venezia determinò un'espansione dei traffici, degli

istituti di credito, dei territori coltivati. Braudel cristallizza in quattro punti la situazione

mediterranea del nascente sistema basato anche sulle relazioni tra cittadini e contadini:

il primo riguarda i rapporti di dipendenza delle isole del Mediterraneo nei confronti dei

centri urbani, amplificando così la relazione città-campagna; secondo, come Marx anche

Braudel identifica, in queste relazioni, un valore essenzialmente antagonistico che

legava le disuguaglianze di classe e le agitazioni sociali; in terzo luogo, la dominazione

dei paesaggi da parte dei centri urbani fu possibile attraverso l'imposizione delle

monocolture che disturbarono, prima di estinguere, l'equilibrio tra natura e società. Il

dominio della terra e la distruzione dell'equilibrio ecologico da parte del capitalismo, fu

accompagnato dal dominio - e a volte dal genocidio - sugli esseri umani attraverso la

schiavitù [Moore, 2003b].

La relazione tra città e campagne andò profondamente sviluppandosi a favore delle

prime in cui si prendevano le decisioni commerciali, finanziarie e politiche. L'attenzione

si spostò verso il valore di mercati e di profitto dei prodotti agricoli; in altre parole,

divenne più importante scovare sempre più fonti di reddito - come monocolture,

giacimenti di combustibili o fertilizzanti, bestiame, legname - da colonizzare, piuttosto

che concentrarsi sulle conseguenze di tale scelta, gravanti sul mondo contadino. Come

fanno notare Marx e Braudel, l'accumulazione di capitale delle città, oltre a determinare

la proletarizzazione del lavoro [Moore, 2013], determinò, tra i vari effetti, un sistema

schiavistico nelle campagne e nelle colonie che, assieme alle vaste monocolture, durante

il XVII secolo produssero un diffuso impoverimento del suolo e una diminuzione del

margine dei campi [Moore, 2003b]. Tali relazioni non legavano solo le campagne alle

città ma anche i territori coloniali, dalla coltivazione al trasporto: il fervore urbano di

Amsterdam, Parigi, Londra stava cambiando irrimediabilmente la relazione con il

26

mondo e la produzione agricola mondiale. I grandi mercati delle città rifornivano

continuamente le popolazioni proletarie delle città di prodotti esotici - dallo zucchero, al

caffè, alle spezie, al tabacco, ecc... e tale crescita aveva anche una controparte politica:

il peso delle città, come ricordano i vari Marx, Wallerstein, Braudel, stava infatti

crescendo anche in materia di governo, in seguito all'ascesa della borghesia. In questo

senso, lo snello apparato burocratico di Venezia, Genova e Amsterdam - all'interno

delle Province Unite - fu un fattore decisivo per la presa di potere e l'aumento dei

traffici delle città: l'indipendenza da signori e vincoli feudali e la libera iniziativa furono

due vettori fondamentali nell'espansione cittadina. Attraverso l'incorporazione, tanto dei

territori conquistati, quanto delle campagne, le nascenti città erano diventate il centro

pulsante della finanza e della politica del sistema capitalista.

La disuguaglianza economica e sociale tra città, colonie, campagne rappresenta una

delle caratteristiche del capitalismo che, seppure con qualche mutamento, è rimasta

invariata sino ad oggi: la nascente relazione di centro e periferia descritta da Arrighi e

Wallerstein [Arrighi, 1999] mette in luce il rapporto che, a partire dal lungo secolo

definisce gli equilibri politici, commerciali ed economici tra i soggetti: per Wallerstein,

tale relazione rappresenta la struttura dinamica dello sviluppo capitalista con le città

come risultato piuttosto che come fattore dello sviluppo [McMichael, 2000]. La forbice

interna tra questi rapporti non era altro l'espressione dell'espansione capitalista globale

che, simultaneamente, sviluppava benessere nelle zone centrali del sistema e

sottosviluppo nelle zone periferiche [Arrighi, 2008]: il prelievo urbano del surplus

contadino, necessario alla continua espansione e polarizzazione delle risorse, causava

infatti un persistente sottosviluppo delle zone satelliti, sempre più imprigionate in questa

rete. Il meccanismo di appropriazione del surplus mutò col passare del tempo, ma la

relazione sistemica tra centro e periferia è rimasta al suo posto, polarizzando

continuamente le risorse invece di uniformare il benessere delle popolazioni del mondo

[Arrighi, 2008].

Lo sviluppo e la competizione dei principali centri urbani nei confronti delle

periferie (campagne e colonie) portarono irrimediabilmente a una egemonia politica e

economica delle città, prima, e degli stati poi. Questa tendenza è ampiamente

documentata dallo sviluppo delle città italiane e portoghesi durante il XIV e XV secolo

[Moore, 2003b], dall'ascesa delle Province Unite durante il XVII secolo, seguite

27

dall'Impero britannico del XIX secolo e da quello statunitense del Novecento [Arrighi,

1999]; seguendo questa linea storica si può notare come l'impulso all'espansione politica

e finanziaria sia scattato - in parte - dalla posizione dominante delle città nei confronti

delle periferie di appartenenza. Lo sviluppo del capitalismo non fu comunque

determinato soltanto dall'espansionismo delle città, ciononostante esso rappresenta una

tappa decisiva per le future egemonie mondiali che dal XVII secolo in avanti

guideranno le sorti del pianeta. L'industrializzazione successiva, non fece altro che

intensificare lo squilibrio nel rapporto tra centro e periferia, accentuando da un lato

l'accumulazione di capitale e di risorse e dall'altro la proletarizzazione e il disagio

sociale; le città e gli imperi centrali, sulla base della legge della massimizzazione dei

profitti, accentuarono il loro carattere egemonico sulle periferie, sempre più mere

strumenti necessari per l'accumulazione di capitale. In questo senso, una volta che il

capitalismo raggiunse gli angoli più remoti del pianeta e cioè in seguito alle due guerre

mondiali che rafforzarono il potere mondiale statunitense, fu coniata l'espressione

"Terzo Mondo" che ben si presta alla comprensione della divisione sociale e che ormai

aveva raggiunto dimensioni globali.

2 L'egemonia tra direzione, controllo ed espansione

Lo sviluppo del capitalismo suddiviso tra centri e periferie, basato su relazioni di

valore nei confronti dell'ambiente naturale portarono, a partire dal XVII secolo,

all'affermarsi di egemonie di potere politico, economico, sociale e culturale su scala

mondiale. A livello globale infatti, la presa di potere di centri come Amsterdam,

Londra, Washington portò all'espansione rispettivamente delle Province Unite,

dell'Impero britannico e degli Stati Uniti, attraverso le colonie e le zone di influenza

politica e culturale. La presa di potere di alcuni stati rispetto ad altri costituisce il

risultato di forze contrapposte in competizione tra loro: ciò è ben visibile nel corso della

storia, tanto a livello locale quanto a livello mondiale. Il dominio e l'egemonia non sono

peculiarità esclusive al capitalismo, ma è senz'altro vero che l'accumulazione di capitale

28

si fonda in parte sulla possibilità di assoggettare e incorporare sempre più aree del

pianeta; tuttavia, non bisogna limitare il carattere di dominio soltanto alle sfere politiche

ed economiche.

Parlando di egemonia non si può non citare Antonio Gramsci e le varie

interpretazioni che si sono succedute senza sosta per tutto il Novecento dei concetti

contenuti nei Quaderni dal Carcere; l'importanza di tale opera monumentale è data

dall'estrema attualità dei contenuti - specialmente la questione dell'egemonia in

riferimento a questo lavoro - che s'impone pertanto come punto di partenza nell'analisi

attorno ai meccanismi di potere.

Secondo Gramsci anche la 'direzione culturale' rappresenta un mezzo per

l'espansione egemonica che risulta dalla combinazione di relazioni geopolitiche, di

guida culturale e di potere politico. "Il criterio storico-politico su cui bisogna fondare le

proprie ricerche è questo: che una classe è dominante in due modi, è cioè dirigente e

dominante. È dirigente delle classi alleate, è dominante delle classi avversarie. Perciò

una classe già prima di andare al potere può essere dirigente (e deve esserlo): quando è

al potere diventa dominante ma continua ad essere anche dirigente" [Gramsci, 1930].

Direzione culturale e dominio quindi, ma anche "direzione suprema" di una Stato sugli

altri, attraverso l'uso combinato di forza e consenso [Cospito, 2004]: gli esempi descritti

da Gramsci riguardano l’egemonia della Francia sul resto d’Europa tra la fine del XVIII

e l’inizio del XIX secolo, 'l'egemonia piemontese' rispetto agli altri antichi stati italiani

(o quella di Parigi sul resto della Francia durante la rivoluzione francese), "l’egemonia

del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna", ma in tale descrizione

rientrano anche l'egemonia olandese, britannica e statunitense che plasmarono

progressivamente la direzione culturale, politica e commerciale dell'intero sistema-

mondo.

L’egemonia quindi investe, determina e dà significato alle note sulla cultura, la

politica, l’economia, la filosofia, l’educazione e, in generale, sul funzionamento dello

Stato, in specie quello moderno che, in tempi normali, si mantiene in vita grazie ad

un’equilibrata alchimia di egemonia+forza, consenso+coercizione, direzione+dominio.

In questo senso, "egemonia è sinonimo di consenso e direzione, mai solo di dominio"

[Ragazzini, 1973; Maltese, 2009]: oltre ad esso vi è anche una dimensione di guida del

gruppo dominante di guidare la società, sia a livello nazionale, sia a livello mondiale, in

29

una direzione che non solo serve gli interesse del gruppo dominante, ma che è anche

percepita dai gruppi subordinati come finalizzata a un più generale interesse collettivo.

Attraverso il sistema educativo e i mezzi di comunicazione il sistema egemonico può

mantenersi attivo e perpetuarsi nel tempo [Cospito, 2004]. E' infatti grazie anche al

consenso democratico e l'accettazione dei modelli proposti da parte delle sfere dirigenti

che la perpetuazione di determinate egemonie politiche e culturali si rende possibile: in

questo scenario, i mezzi di comunicazione svolgono un ruolo fondamentale,

incanalando e gestendo l'opinione pubblica. Il carattere informativo e persuasivo dei

mezzi di comunicazione costituisce un fattore importante per la gestione e la

manipolazione dell'opinione pubblica - e pertanto per il mantenimento del controllo e

del potere - come già avevo messo in mostra Walter Lippman in L'Opinione pubblica, a

proposito dei bollettini della prima guerra mondiale lungo il confine franco-tedesco,

descritti dai quotidiani nazionali come referti di imprese eroiche, di vittorie e di

sconfitte, che in realtà parlavano di una guerra di stallo [Lippman, 1922]. Il dominio

dell'informazione è quindi fondamentale per il mantenimento del potere interno e del

conseguimento di quello estero, in quanto assolve il compito di guida sociale e

culturale, all'interno di un sistema di forze politiche contrapposte, in lotta per

l'egemonia, una volta raggiunte la funzione economico-primitiva, la 'coscienza di

solidarietà di interessi' e

la coscienza che i propri interessi corporativi [...] possono e debbono divenire gli interessi

di altri raggruppamenti subordinati; questa è la fase più schiettamente “politica” che segna

il netto passaggio dalla pura struttura alle super-strutture complesse, è la fase in cui le

ideologie germinate precedentemente vengono a contatto ed entrano in contrasto fino a che

una sola di esse, o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a

diffondersi su tutta l’area, de-terminando oltre che l’unità economica e politica anche

l’unità intellettuale e mora-le, su un piano non corporativo, ma universale, di egemonia di

un raggruppamento sociale fondamentale su i raggruppamenti subordinati [Cospito, 2004].

La funzione di guida gramsciana rappresenta quel potere addizionale che permette di

veicolare gli interessi sociali e l'opinione pubblica: una sorta di "inflazione di potere"

derivante dalla credibilità dei gruppi dirigenti di presentare la funzionalità del dominio

in termini positivi sia per i dirigenti stessi, sia per i gruppi subordinati. Ciò è senz'altro

vero a livello interno; quando la leadership è inserita in un contesto internazionale, la

30

funzione di guida e direzione è alimentata anche dai successi - militari, politici,

finanziari e agroindustriali - di uno stato, pertanto preso a "modello" da emulare, da

parte degli altri stati [Arrighi, 1999].

La lotta e l'espansione egemonica determinano pertanto un livello geografico non

come semplice spazio di incorporazione, bensì come una situazione dinamica, in

continua evoluzione, in cui la lotta per il potere è dato appunto da tali spinte espansive e

belliche. L'egemonia rappresenta un sapere politico sul mondo in cui l'equilibrio

egemonico è in continua trasformazione e costituisce, in ragione di ciò, il banco di

prova proprio dell'agire politico. La competizione tra stati e pertanto l'espansione del

potere egemonico, secondo Gramsci si è sempre risolta nella contrapposizione di due

soggetti:

C'è sempre stata lotta tra due principi egemonici, tra due religioni" e occorrerà non solo

descrivere l'espansione trionfale di una di esse, ma giustificarla storicamente. Bisognerà

spiegare perché nel 1848 i contadini croati combatterono contro i liberali milanesi e i

contadini lombardo - veneti combatterono contro i liberali viennesi. Allora il nesso reale

etico-politico tra governanti e governati era la persona dell'imperatore o del re [così] come

più tardi il nesso sarà [...] il concetto di patria e di nazione [Gramsci, 2001].

Se si considera l'evoluzione del sistema capitalismo e dell'espansione delle frontiere a

partire dal XV secolo [Moore, 2013], si può osservare come la contrapposizione di due

principi egemonici o blocchi sia evidente: nel 1600 la lotta per l'egemonia vide

contrapposti l'Impero spagnolo e le Province Unite; tra il XVIII e il XIX secolo, il

Regno Unito era in contrasto con la Francia napoleonica, mentre nel Novecento la

strategia egemonica statunitense, in seguito alle due guerre mondiali, fu contrastata

dall'Unione Sovietica [Arrighi, 1999].

Il carattere egemonico rientra perciò in un ampio discorso storico in evoluzione, in

cui le forze statali in contrasto e competizione hanno portato alla nascita e alla

transizione di egemonie: è stato infatti così tra l'Olanda e la Gran Bretagna del 700 e tra

quest'ultima e gli Stati Uniti nel 900. Il passaggio da un'egemonia a quella successiva

può esser visto come una trasformazione sistemica - ovvero un processo di radicale

riorganizzazione del sistema mondiale moderno [Arrighi, 1999]; nella storia, il risultato

31

di questi processi transitivi si è tradotta in una rinnovata espansione del sistema

mondiale, fino alle sue attuali dimensioni globali. Secondo l'analisi di Wallerstein,

"l'egemonia nel sistema interstatale si riferisce a quella situazione in cui il confronto in

corso tra le cosiddette "grandi potenze" è cos' sbilanciato che una potenza è davvero prima

inter partes; cioè, una potenza può in larga misura imporre le proprie regole e le proprie

preferenze [...] nell'arena economica, politica, militare, diplomatica e anche culturale. La

base materiale di un tale potere risiede nella capacità delle imprese che hanno sede in

questa potenza di operare con maggiore efficienza nelle tre più importanti sfere economiche

- la produzione agro-industriale, il commercio e la finanza. Il vantaggio in efficienza di cui

stiamo parlando è così grande che queste imprese possono non solo offrire più di quanto

offrano le imprese di altre potenze sul mercato mondiale in generale, ma - in molti casi -

proprio all'interno dei mercati interni delle stesse potenze rivali" [Wallerstein, 1984].

L'egemonia pertanto è il risultato a livello geopolitico di lunghi periodi di espansione

competitiva in cui la futura potenza egemone acquista il proprio vantaggio decisivo

prima di tutto nella produzione, quindi nel commercio e infine nella finanza. Ma

l'egemonia viene saldamente assicurata solo raggiungendo una completa vittoria in una

"guerra mondiale", storicamente trentennale: la guerra dei trent'anni dal 1618 al 1648, le

guerre napoleoniche dal 1792 al 1815, e le guerre eurasiatiche dal 1917 al 1945.

Il passaggio da un'egemonia all'altra costituisce una riorganizzazione sistemica e

promuove una nuova espansione, dotando il sistema di una nuova divisione del lavoro;

la rinnovata espansione da un lato determina un aumento del "volume" e della "densità

dinamica" del sistema, cioè il numero di unità socialmente rilevanti che interagiscono

all'interno del sistema, e il numero, la varietà, e la velocità della transazioni che legano

l'una all'altra. Dall'altro lato, le nuove espansioni sono provocate dalla crisi delle

egemonie precedenti, queste ultime caratterizzate da tre processi distinti ma legati tra di

loro: l'intensificazione della competizione tra stati e della competizione tra imprese;

l'aumento dei conflitti sociali; l'emergere di nuove configurazioni di potere. Il primo

processo avviene in congiunzione con un'espansione finanziaria che provoca un

aumento dell'accumulazione di capitale e una competizione per il capitale mobile

[Arrighi, 1999]. Il ciclico riproporsi di espansioni di finanziarie scatena pertanto una

nuova competizione che Braudel osserva manifestarsi in maniera periodica, dall'Italia

del XIII secolo fino all'Occidente di oggi; secondo lo studioso francese questi

32

movimenti finanziari rappresentano il "segnale dell'autunno" [Braudel 1981; Arrighi

1999].

Direzione e dominio, consenso e coercizione rappresentano le caratteristiche

dell'egemonia che si manifesta in qualsiasi ambito della sfera pubblica, sociale e

culturale: limitando la questione al contesto alimentare, oggetto di questo lavoro,

l'egemonia geopolitica determina - ed è determinata - anche il regime alimentare, in tutti

i suoi aspetti, omologando la produzione ed il consumo di cibo su scala globale

[Friedmann, 2009]. Tale argomento sarà oggetto del prossimo capitolo, inerente alla

genesi e all'analisi dei regimi alimentari e di quello attuale retto dalle multinazionali, ma

è bene sottolineare sin da subito il profondo legame che unisce il cibo e l'egemonia

politica. Lo stretto rapporto tra produzione agricola ed egemonia è d'altronde stato già

messo in luce dall'intensificazione e dall'espansione delle monocolture come lo

zucchero e il caffè, dal mutamento delle coltivazioni in relazione al valore attribuito dai

mercati centrali, dal progresso egemonico delle potenze europee in seguito

all'introduzione del sistema coloniale e di manodopera schiavizzata per la produzione

agricola. Il regime alimentare è, in altre parole, un'emanazione dell'egemonia vigente

che a sua volta si consolida attraverso la produzione di cibo. Ciò è evidente già a partire

dall'egemonia olandese, ma amplificato considerevolmente dall'Impero britannico del

XIX secolo in cui, la supremazia geopolitica coincise con l'espansione e la costruzione

di un impero coloniale, i cui prodotti agricoli, principalmente cereali e bestiame,

rifornivano i mercati europei [McMichael, 2009c], in maniera stabile, continua e sempre

più intensa, sino ai limiti e alla crisi attuale.

33

3 Le Province Unite del XVII secolo

Nell’analizzare il passaggio da un’egemonia all’altra bisogna tenere conto di

molteplici fattori e per proseguire l'analisi del sistema di produzione alimentare su scala

mondiale bisogna partire dalle fondamenta del sistema, quando cioè, in seguito ai trattati

di Vestfalia, l’Olanda assunse il ruolo egemone nella politica mondiale; i trattati si

basavano sull’assunzione che il sistema politico fosse basato su un diritto internazionale

a cui gli stati europei si rifacevano, piuttosto che regolati da autorità imperiali-papali

[Gross, 1968, pp. 54-55; Braudel, 1982, III, pp. 209-220]. Non fu fatto alcuno sforzo

per limitare la guerra come mezzo per il mantenimento dell’equilibrio del potere tra gli

stati e in questi termini l’Olanda seppe disporre di un efficace esercito di terra in grado

di sconfiggere il ben più numeroso esercito imperiale spagnolo. Sopratutto però,

l’eccezionale marina olandese - all’avanguardia nella tecnica, nella tecnologia e nella

produzione - determinò la supremazia sul mare a scapito degli spagnoli. Parallelamente

al successo sulla Spagna, risultò fondamentale anche il controllo esercitato sul Baltico

che garantiva una sovrabbondante liquidità e che permise in generale di far fruttare la

loro ricchezza inizialmente limitata per sostenere le sempre crescenti spese militari.

La rimuneratività del commercio olandese era dovuta soprattutto a due circostanze:

la prima era l’intensità della stessa lotta di potere europea. Più intensa si faceva questa

lotta, più alta era la domanda per forniture di grano e materiali per costruzioni navali

provenienti dal Baltico. La seconda era la propensione degli olandesi a conservare in

forma liquida i grandi profitti del commercio baltico, e a usare questa liquidità per

stroncare la competizione nel Baltico e per trasformare Amsterdam nel centro

commerciale e finanziario dell’economia-mondo europea. Il successo derivante dal

trasformare Amsterdam nel centro commerciale e finanziario dell’economia-mondo,

rappresentò una svolta rispetto alla storia precedente: in passato infatti solo città-stato

come Venezia e Genova, in primis, potevano reggere un “impero del commercio”

cittadino senza un reale stato sovrano alle spalle. In questo senso l’esperienza olandese

rappresenta lo spartiacque tra due distinte epoche economiche: “da una parte le città,

dall’altra gli stati moderni e le economie nazionali, con il primato iniziale di Londra,

sostenuta dall’Inghilterra” [Braudel, 1982, pag. 166].

34

Le imprese olandesi erano organizzate in società per azioni privilegiate e tutto

l’apparato sistemico olandese si basava sullo sforzo costante di 'monopolizzare' attività

con un alto valore aggiunto; tali organizzazioni agivano per loro conto nei territori

extra-europei, ancora troppo deboli nei territori lontani. La prima di esse fu la

Verenigde Oost-Indische Compagnie (VOC) fondata nel 1602, che gli storici ricordano

come un’organizzazione colossale, paragonabile a una moderna multinazionale. Tali

organizzazioni d’affari godevano di privilegi commerciali esclusivi - concessi dai

governi europei - in aree geografiche determinate e il diritto di svolgere attività belliche

e d’amministrazione ordinaria. Alla VOC, ad esempio, era ufficialmente concesso il

monopolio su tutto il commercio a est del Capo di Buona Speranza e a ovest dallo

Stretto di Magellano.

All’inizio del XVII secolo le società per azioni privilegiate olandesi non erano più le

sole a poter agire nei territori extra-europei: altre potenze, come il Regno Unito con la

Compagnia inglese delle Indie Orientali, si erano dotate dei medesimi apparati

commerciali. Per superare la concorrenza e mantenere il ruolo di leadership, nel 1621 le

Province Unite crearono la West-Indische Compagnie (WIC). La riemergente ostilità

della Spagna, portò la WIC sulla bancarotta e nel 1674 venne riorganizzata come

apparato puramente commerciale - e non più governativo - dedito al traffico di schiavi e

alla pirateria nell’America spagnola; fu la WIC a introdurre il commercio atlantico

triangolare che legò l’una all’altra le comunità manifatturiere d’Europa, le comunità

africane dedite al procacciamento di schiavi e le comunità delle piantagioni nelle

Americhe in un circuito di commercio e produzione sempre più imponente e redditizio.

A beneficiare di questo commercio furono anche la Francia e il Regno Unito, in seguito

all’impennarsi della domanda di schiavi nei loro possedimenti africani. Il rinnovamento

portato dalle società per azioni privilegiate permise ad Amsterdam di diventare la sede

della prima borsa in sessione permanente, con un volume di densità di transizioni

maggiore di tutte le borse esistite fino ad allora.

La decisiva sconfitta spagnola che portò alla Pace di Vestfalia segnò il punto più alto

nella politica mondiale olandese che, a partire da quel momento, fu esposta ai continui

attacchi incrociati di Francia e Inghilterra, con l’obiettivo dichiarato di porre fine

all’egemonia olandese; dopo i trattati di Vestfalia infatti, le Province Unite dovettero

combattere tre guerre, in rapida successione, contro la Corona britannica che

35

prosciugarono le casse statali e impoverirono il potere mondiale olandese. La prima

guerra (1652-1654) scoppiò in seguito alla proclamazione dei Navigation Acts

britannici, volti a monopolizzare i commerci con le proprie colonie, impedendo il

commercio con le altre potenze, in primis appunto con le Province Unite. Le ostilità si

conclusero con ingenti perdite navali per gli olandesi, nuovamente in guerra per il

commercio di schiavi nell’Africa occidentale, guerra che portò il passaggio di territori

olandesi come New York, il New Jersey al Regno Unito. Il terzo conflitto anglo-

olandese si scatenò qualche anno più tardi (1672-1674) in seguito a un’alleanza segreta

tra il governo inglese e Luigi XIV che vide l’Olanda costretta a combattere sui due

fronti.

I trattati di Vestfalia portarono così a un cambiamento nelle lotte interne

all’Occidente: finché gli stati europei furono intenti a contrastare la minaccia portata

alla loro sovranità dalla Spagna imperiale, fu facile per le Province Unite utilizzare il

proprio denaro e i contatti per assicurarsi che gli altri stati avrebbero condotto il peso

maggiore della guerra di terra, potendo concentrare i propri sforzi nella guerra sul mare

e nel proporsi come intermediari finanziari e commerciali dell’intera Europa [Arrighi,

1999; Braudel l, III, 1982]. Una volta che però la minaccia spagnola fu neutralizzata, gli

stati europei cercarono di incorporare nei rispettivi domini i circuiti e le reti

commerciali che stavano rendendo l’Olanda ricca e potente proprio mentre il resto

d’Europa attraversava un periodo di crisi generalizzata. Gli olandesi continuarono a

“guidare” il resto degli stati europei che, nel tentativo di emulare il sistema

mercantilistico olandese, strinsero alleanze volte alla rottura di quell’egemonia: la terza

guerra anglo-olandese fu dunque fondamentale in quanto al tentativo emulativo inglese

si affiancò la volontà francese di inglobare i territori delle Province Unite nello stato

francese. Tale convergenza di strategie rivelò la vulnerabilità del sistema politico della

Repubblica olandese: di fronte all’espansionismo marittimo britannico e quello

continentale francese, gli olandesi scelsero il “male minore” schierandosi dalla parte

degli inglesi. Il controllo marittimo passò quindi negli anni nelle mani della marina

britannica che da quel momento intensificò gli investimenti grazie alla creazione, nel

1694 della Banca d’Inghilterra. L’Olanda pertanto divenne negli anni un fedele alleato

della Corona come in occasione della guerra di Successione Spagnola (1701-1713),

originata dal pericolo che la Spagna diventasse uno stato asservito alla Francia, o che le

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basi di Napoli e della Sicilia cadessero nelle mani francesi; in base agli accordi anglo-

olandesi l’Olanda si preoccupò di contrastare l’avanzata delle truppe francesi sul

continente, mentre la Gran Bretagna ostacolò le mire di Luigi XIV via mare. Il risultato

fu un logoramento delle truppe olandesi e un espansionismo navale britannico che ne

rafforzò ulteriormente il potere. La sovraesposizione olandese nelle Fiandre e in Spagna

prosciugò le casse statali aumentando il debito nazionale: il capitale olandese iniziò a

optare in maniera sempre più massiccia per gli investimenti inglesi, mantenendo le

finanze britanniche in buona salute [Braudel, 1982]. A partire dal trattato di Utrecht del

1713 il passaggio all’egemonia britannica si fece più intenso, in quanto grazie agli

accordi l’Inghilterra ottenne territori strategicamente fondamentali (Gibilterra, Minorca,

Terranova, oltre al diritto di asiento spagnolo2). L’handicap principale, che in

precedenza aveva rappresentato il punto di forza, era rappresentato dalla piccola scala

territoriale e la struttura decentralizzata di fronte al forte Impero britannico che, in

seguito ai trattati di Utrecht aumentò la già abbondante disponibilità di manodopera e di

imprenditorialità: i porti britannici iniziarono quindi a sfidare e infine sconfissero il

commercio di transito di Amsterdam. Il “leone inglese” stava superando il “gatto

olandese” cui non rimaneva altro che rifugiarsi nell’egemonia finanziaria, visto che

quella commerciale e marittima aveva ceduto il passo al potente apparato inglese:

l’escalation della lotta di potere, e la conseguente intensificazione della competizione

interstatale per il capitale mobile, crearono infatti le condizioni per un’espansione

finanziaria che inflazionò temporaneamente la ricchezza e il potere olandesi.

Amsterdam divenne la “cassa” d’Europa [Arrighi, 1999], specialmente per le campagne

belliche britanniche: l’indebitamento inglese infatti nei confronti degli investitori

olandesi, in seguito alla Guerra di Successione Spagnola e quella austriaca, crebbe

esponenzialmente, così come quello danese, sassone, bavarese, russo e svedese.

L’aumento del credito estero non permise tuttavia all’Olanda di mantenere il ruolo

egemone in seguito alle diverse crisi finanziarie che scossero l’Europa settecentesca e

che, a lungo andare, trasferirono il centro finanziario e commerciale a Londra. Anche la

leadership finanziaria andò dunque sgretolandosi, in seguito alla crisi generalizzata che,

a partire dal 1772 interessò prima la Gran Bretagna, poi la Francia che, nel 1788,

2 Il contratto tra Stato e privati o il trattato con un altro paese che stabiliva la fornitura degli schiavi nerinelle colonie americane della Spagna. Uno dei primi contratti di concessione (asiento), viene stipulato traCarlo V e i nobili genovesi Francesco Grimaldi e Francesco Lomellini, riguardante il diritto di pesca nelleacque di Tabarca. In base a tale accordo il sovrano riscuote un canone pari a un quinto del corallo pescato.

37

dichiarò bancarotta lasciando l’onere dei debiti alla finanza olandese. Il tracollo

finanziario fu la goccia che fece traboccare un vaso già colmo di pressioni politico-

economiche.

4 L'Officina del mondo

La scomparsa degli ultimi residui dell’egemonia olandese nel XVIII non portò

tuttavia alla comparsa immediata della nuova egemonia britannica: soltanto dopo la

sconfitta della Francia napoleonica, sancita dal Congresso di Vienna, ciò poté affermarsi

a livello di politica mondiale. Con l’ascesa britannica il continente europeo fu

attraversato da una fase inedita nella storia occidentale, una pace di cento anni, dal 1815

al 1914. Non bisogna dimenticare che nel XIX secolo l’Europa fu comunque scossa da

guerre che avevano però come peculiarità il carattere nazionale e non continentale: basti

pensare ai moti del biennio 1820-1821, o ai moti rivoluzionari del 1848, all’unificazione

germanica e a quella italiana: in tutti gli esempi citati il carattere distintivo è la

dimensione nazionale della guerra, una sorta di lotte intestine volte alla costruzione di

regimi democratici. E’ in questo senso che va intesa la secolare pace ottocentesca, in

quanto mancarono conflitti interstatali in grado di scuotere l’assetto politico europeo. La

Gran Bretagna fu la maggiore promotrice e organizzatrice di questo fenomeno senza

precedenti, passata alla storia come pax britannica. Come ha sottolineato Polanyi

[1974], uno degli ingredienti principali della costruzione della pace dei cento anni del

XIX secolo fu il sistema dell’equilibrio del potere, il sistema per cui "tre o più unità in

grado di esercitare il potere si comporteranno sempre in modo tale da combinare il

potere delle unità più deboli contro qualunque aumento di potere delle più forti". Per

rafforzare il ruolo egemone all’interno della politica mondiale, gli inglesi fecero in

modo di sostenere i governi assoluti dell’Europa centrale organizzati nella Santa

Alleanza, garantendo che i cambiamenti nell’equilibrio di potere sarebbero avvenuti

solo tramite consultazioni tra le grandi potenze, attraverso il ristabilito concerto

europeo. Allo stesso scopo ottenne che la Francia sconfitta fosse inclusa tra le grandi

potenze nel concerto della Restaurazione.

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Il controllo dell’equilibrio del potere europeo e la centralità nel commercio mondiale

erano due elementi portanti dell’egemonia britannica fondamentali nella pace dei

cent’anni. Il primo permetteva alla Corona di evitare di subire ciò che gli olandesi

avevano subito dopo la pace di Vestfalia - il fuoco incrociato di più potenze volte a

contrastarne l’egemonia politico-economica, il secondo subordinava i crescenti interessi

commerciali di altri stati all’Impero britannico. L’industrializzazione diede poi

l’impulso decisivo all’egemonia britannica, elemento mancante durante il dominio

olandese del XVII secolo: le esigenze di guerra determinarono il salto tecnologico e

industriale dell’Inghilterra ottocentesca, "consentendo il miglioramento dei motori a

vapore e rendendo possibili innovazioni importantissime come le ferrovie e le navi da

guerra in un periodo e in condizioni che semplicemente non sarebbero esistiti senza la

spinta alla produzione siderurgica del periodo bellico" [Arrighi, 1999]. Con questo

sistema di trasporti e comunicazioni, il commercio mondiale si espanse a un tasso senza

precedenti [Arrighi, 1999]; a differenza del sistema commerciale olandese del XVII

secolo, che era e rimase un sistema mercantile, quello del commercio inglese divenne

un sistema integrato di trasporto meccanizzato e di produzione, che lasciava poco

all’autosufficienza nazionale. La Gran Bretagna era la principale organizzatrice e la

principale benefattrice di questo sistema di interdipendenza statale, all’interno del quale

esercitava la duplice funzione di punto di smistamento centrale e di coordinamento. Per

quanto riguarda l’aspetto puramente commerciale e finanziario, la Compagnia delle

Indie inglese assunse un ruolo di primaria importanza, all’interno del sistema britannico,

che grazie ai profitti ottenuti permise alla madrepatria di sostenere i costi delle guerre,

della colonizzazione di altri territori e del progresso tecnologico-industriale.

Se da un lato, il forzato contributo dell’India alla bilancia dei pagamenti della Gran

Bretagna imperiale permise a quest’ultima di ottenere la liquidità necessaria per il

meccanismo di redditi e investimenti, dall’altro la nascente industrializzazione europea

e americana minò, negli anni, il predominio politico su cui si fondava l’egemonia

britannica; il boom della metà del XIX secolo del commercio e della produzione

mondiali conteneva i semi della distruzione dell’ordine mondiale su cui si fondava.

Come "officina del mondo", la Gran Bretagna era l’unica che poteva trarre vantaggio

dall’industrializzazione in altri paesi, fornendo mezzi di trasporto e manufatti in cambio

di prodotti agroalimentari e materie prime. Questi però a loro volta ridussero negli anni

39

la struttura dei costi e riprodussero il vantaggio competitivo britannico nei mercati

mondiali, annullando il divario con l’impero britannico. Col tempo dunque la

diffusione dell’industrialismo - in particolare negli Stati Uniti e in Germania - erose la

supremazia marittima britannica e fece sorgere dei complessi militari-industriali troppo

potenti perché la Gran Bretagna potesse tenerli sotto controllo attraverso la sua

tradizionale linea di politica dell’equilibrio del potere mondiale.

A partire dalla seconda metà del XIX secolo quindi, l’egemonia britannica iniziò la

parabola discendente, che portò alla nascita della successiva egemonia statunitense del

XX secolo. Una prima spallata all’equilibrio di potere fu data dalla Grande Depressione

dal 1873 al 1896. Nel corso della Depressione la rivalità tra le potenze aumentò,

emersero complessi militari-industriali troppo potenti perché la Gran Bretagna potesse

tenerli sotto controllo attraverso le tradizionali politiche volte all’equilibrio del sistema

che collassò negli anni della prima guerra mondiale. L’industrialismo e l’imperialismo

derivanti dalla Grande Depressione erano le risposte statali a un periodo di incertezza

economica diffusa; divenne infatti abituale introdurre meccanismi protezionistici alle

nuove espansioni del commercio e degli investimenti internazionali e la diffusione

dell’imperialismo stesso fu in primo luogo il risultato di una lotta tra le potenze per il

privilegio di estendere il loro commercio a mercati politicamente non protetti. La

"febbre della produzione" provocò una lotta per garantirsi l’approvvigionamento di

materie prime, il che rafforzò la spinta a esportare. L’esasperata competizione tra gli

stati produsse un cambiamento nella produzione industriale e nell’estrazione di materie

prime (sempre più intensa): un primo aspetto fu l’introduzione di tecniche di produzione

di massa negli arsenali europei; il secondo punto di cambiamento fu l’inserimento nella

corsa agli armamenti di imprese private di grosse dimensioni che negli anni scalzarono

gli arsenali europei dalla produzione di armi.

Con l’intensificarsi della concorrenza nella produzione agroalimentare l’impresa

britannica si specializzò nell’intermediazione finanziaria globale. Londra era ancora il

centro dell’alta finanza, così come lo era stata Amsterdam nel periodo conclusivo

dell’egemonia olandese, ma l’officina del mondo stava cedendo terreno a industrie

nazionalistiche dal forte tasso protezionistico e competitivo. L’impresa tedesca, ad

esempio, incapace di competere con l’impresa britannica nell’intermediazione

finanziaria globale - si mosse per formare un’economia nazionale atta a generare un

40

sistema economico nazionale. L’evoluzione del sistema tedesco a partire dal 1870 fu

dunque particolarmente sconvolgente per la Gran Bretagna perché per la prima volta,

dopo l’impero napoleonico, furono create le condizioni per una potenza terrestre

europea capace di aspirare a una supremazia continentale [Arrighi, 1999]. Il paradigma

tedesco era inoltre strettamente legato alle attività governative e belliche del Reich

guglielmino: la crisi generalizzata degli anni 70’ del XIX secolo, in cui le principali

potenze mondiali furono interessate da un’intensa diffusa e persistente competizione,

determinò la creazione di un “capitalismo organizzato” (determinato da un’integrazione

tra soggetti imprenditoriali a metà strada tra quella orizzontale - la fusione attraverso

l’associazione, l’unione o l’acquisto di imprese che agivano negli stessi settori di

mercato in modo da ridurre le incertezze di mercato - e verticale - caratterizzata dalla

fusione delle operazioni di un’impresa con quelle dei suoi fornitori e dei suoi clienti,

riducendo i costi di transazione e i rischi e le incertezze derivanti dal procacciamento di

materie prime e dalla vendita dei prodotti finiti), in cui era forte il ruolo giocato

dall’apparato statale.

5 L'egemonia statunitense

L’industrializzazione tedesca, unita all’instabilità politica e militare dell’Europa

novecentesca, determinarono pertanto una revisione dell’equilibrio di potere sul

continente: fu questo mutamento degli equilibri politici "a promuovere il graduale

riordinamento delle forze culminato nella Triplice intesa e Triplice alleanza" [Landes,

1978 p. 428; Arrighi, 1999], all’alba della prima guerra mondiale. Lo scoppio della

guerra determinò il secondo attacco all’egemonia mondiale britannica, dopo quello della

Grande Depressione che produsse un tasso elevato di industrializzazione in tutta

l’Europa continentale. La prima guerra mondiale prosciugò le casse britanniche e il

governo, a partire dal 1916, fu costretto a centralizzare un gran numero di aziende

ponendole sotto il controllo - o attraverso la partecipazione - statale beneficiando

l’ascesa del capitalismo statunitense. Già prima dello scontro bellico, il dollaro aveva

accresciuto il proprio peso nelle transazioni internazionali (specialmente con l’America

41

Latina) ma fu soltanto in seguito alle due guerre mondiali che il dollaro si sostituì

pienamente alla sterlina nella conduzione del commercio mondiale [Arrighi, 1999].

Mentre infatti la Gran Bretagna si sobbarcava i costi e gli oneri di una guerra così

logorante, gli Stati Uniti accrescevano il proprio potere finanziario rifornendo la Gran

Bretagna di materie prime, armi, alimenti che gli inglesi non erano in grado di pagare;

parimenti concessero prestiti alle altre potenze coinvolte nello scontro, e non solo,

espandendo enormemente il sistema finanziario americano. A titolo d’esempio, tra il

1924 e il 1929 i prestiti concessi all’estero dagli Stati Uniti erano il doppio di quelli

britannici [Arrighi 1999].

Anche prima della guerra mondiale gli Stati Uniti si erano affermati come una

potenza sul territorio americano. La Dottrina Monroe del 1821 - essenziale per il

mantenimento dell’equilibrio di potere mondiale - veniva usata come strumento della

supremazia statunitense sul continente americano. L’epilogo della prima guerra

mondiale non fece altro che estendere questa supremazia dal continente americano

all’intero pianeta. Il tracollo della Borsa di New York va letto pertanto come il

passaggio di testimone tra l’epoca britannica e quella nascente americana, analogamente

al crollo dei titoli della Borsa di Amsterdam nel passaggio all’egemonia britannica: il

punto debole del sistema finanziario globale nella Crisi del 1929 non risiedeva infatti a

Wall Street, bensì nella City londinese, in seguito alla diminuzione dei traffici

interstatali e al logorio statale durante e dopo la prima guerra mondiale. Come per il

passaggio dall’egemonia olandese a quella britannica, il passaggio da un’egemonia

all’altra non fu immediato: a partire dalla Grande Depressione del XIX secolo,

l’egemonia britannica entrò in una fase discendente ma furono necessarie due guerre

mondiali, un’intensa industrializzazione globale e una crisi monetaria e finanziaria

prima che il passaggio potesse dirsi completato. Fu soltanto dopo la seconda guerra

mondiale che l’egemonia statunitense poté infatti affermarsi in senso letterale. La

peculiarità degli Stati Uniti stava nel poter disporre liberamente di un territorio ricco di

materie prime, decisamente vasto rispetto agli stati europei e un sostanziale predominio

sulle regioni limitrofe: questo garantiva, al contrario di quanto accadeva in Europa, un

pressoché illimitato raggio d’azione in materie commerciali e militari. Una volta domate

le resistenze europee, in particolare la Germania nazista e l’Unione Sovietica, gli Stati

Uniti poterono quindi presentarsi all’opinione pubblica mondiale come potenza

42

egemone, sia da un punto di vista economico e politico, sia da un punto di vista

culturale e sociale: il mito americano stava entrando in maniera attiva nelle culture

europee.

La forza militare degli Stati Uniti nel 1945 aveva un ruolo fondamentale nel loro

potere egemonico. Allo stesso tempo Washington stabilì il suo dominio in altre due

importanti aree. Vennero istituite le Nazioni Unite, individuate come l’infrastruttura

politica per la posizione di dominio e controllo. Questo è il motivo per cui venne

stabilito all’interno dell’ONU un’entità chiamata Consiglio di Sicurezza, con cinque

membri permanenti, gli Stati Uniti e quattro dei loro alleati in quel momento (Gran

Bretagna, Francia, Unione Sovietica e Cina), tutti dotati del diritto di veto per garantire

che i cinque avrebbero determinato la direzione del mondo. Per gestire l’economia

globale, che era un aspetto ancora più importante, l’élite statunitense ideò tre istituzioni

correlate: l’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e sul Commercio (General

Agreement on Tariffs and Trade – GATT), il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e

la Banca Mondiale, oltre a sancire la nascita di un nuovo sistema monetario incentrato

sul dollaro, in seguito agli accordi di Bretton Woods. Il GATT, oggi sostituito

dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization – WTO), fu

avviato ufficialmente per creare un ambiente favorevole al libero scambio – una

tipologia di libero scambio che spesso non era un commercio equo e solidale.

L’obiettivo dichiarato del FMI era quello di stabilizzare i tassi di cambio e promuovere

la cooperazione monetaria globale anche se ciò che ha fatto, soprattutto durante gli anni

novanta, è stato quello di rafforzare il capitalismo neo-liberale e di preservare il dollaro

statunitense come perno del sistema finanziario globale. Allo stesso modo la Banca

Mondiale, il cui scopo principale dichiarato è quello di concedere prestiti ai paesi in via

di sviluppo, chiese loro di promuovere la liberalizzazione, la deregolamentazione e la

privatizzazione, ovvero il fulcro di ciò che è conosciuto come il Washington Consensus

[Muzaffar, 2012].

Il nascente apparato egemonico statunitense fu contrastato però, a partire dagli anni

40’ del XX secolo, dall’Unione Sovietica, l’unica potenza in grado di limitare la

macchina capitalista americana. Opposti nell’ideologia, ma con la stessa intenzione di

dominazione mondiale, Unione Sovietica e Stati Uniti inaugurarono così un periodo di

forti tensioni politiche, militari ed economiche: la Guerra Fredda. Nel tentativo di

43

arginare l’influenza comunista sul territorio europeo, l’allora Presidente Henry Truman

enunciò la sua Dottrina nel 1947 che aveva come scopo il contenimento del comunismo

e dell’espansione sovietica. L’amministrazione Truman varò un programma di aiuti a

favore dei governi di Grecia e Turchia per aiutarle a resistere ai tentativi di

soggiogamento a opera di minoranze armate o di influenze esterne. Questa strategia di

intervento diretto fu rapidamente estesa all’intera Europa col piano Marshall e il Patto

Atlantico e in seguito, infine, resa mondiale con il programma detto del “Quarto punto”,

per aiuti economici ai paesi sottosviluppati e con la globalizzazione della politica di

containment (arginamento) anticomunista. Contemporaneamente la conferenza di Yalta

servì a stabilire lo status quo, in base al quale l’Unione Sovietica controllava circa un

terzo del mondo e gli Stati Uniti il resto [Wallerstein 2004].

L’incessante competizione con l’Unione Sovietica, soprattutto in campo tecnologico,

fu il limite invalicabile all’egemonia statunitense: diversamente da quella olandese e da

quella britannica infatti, gli Stati Uniti si trovarono di fronte a un avversario di assoluto

rilievo. Mentre la Spagna imperiale era basata su un sistema economico obsoleto e la

Francia napoleonica non aveva i mezzi necessari per arginare e fronteggiare il

predominio marittimo e commerciale del Regno Unito, l’Unione Sovietica disponeva di

un efficiente apparato industriale, tecnologico e politico; l’estensione dell’influenza

americana sull’Europa occidentale si sviluppò infatti in parallelo alla costruzione di un

blocco comunista che si estendeva dall’Europa orientale fino all’Asia, comprendendo la

Cina comunista di Mao Tse-Tung.

La sfrenata competizione tra i due blocchi contrapposti portò a una rincorsa agli

armamenti che impoverì le casse di entrambe le fazioni: gli Usa capirono presto che i

numerosi eserciti sovietici non potevano essere arginati se non attraverso il monopolio

delle armi nucleari, monopolio che cessò nel 1949 quando anche la Russia comunista

mise a punto le proprie armi nucleari.

La resistenza dell’Unione Sovietica e dei nuovi Stati indipendenti dell’Africa e

dell’Asia iniziò comunque a perdere lo slancio vitale a partire dagli anni 80’,

contemporaneamente all’inaugurazione nel “mondo occidentale” (capeggiati da Stati

Uniti e Regno Unito) di politiche commerciali di stampo neo-liberista. Nel caso

dell’Unione Sovietica in particolare, sia le circostanze interne sia quelle esterne

costrinsero Mosca a cedere all’egemonia statunitense. L’incapacità di un’economia di

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comando a soddisfare i desideri dei consumatori di un significativo segmento della

società fu un fattore importante, così come la dilagante corruzione, la quale offuscò

l’integrità della classe dirigente. Poiché lo Stato sovietico ha mantenuto il suo potere

attraverso un certo grado di irreggimentazione e repressione, tutto ciò ha alimentato una

rabbia diffusa e il risentimento contro il sistema comunista [Muzaffar, 2012].

Col collasso del comunismo - simboleggiato dalla caduta del Muro di Berlino - la

società globale è stata proiettata in una nuova fase storica: l'equilibrio del potere

mondiale basato sulla competizione militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica (senza

che siano mai state combattute guerre che potessero dispiegare gli immensi arsenali

nucleari) ha lasciato infatti il posto a una nuova era sociale in cui i liberi mercati

(agevolati dall'apertura dei paesi ex sovietici e dalla dotazione in Europa di un'unica

moneta), le agenzie di rating e le organizzazioni sovrastatali sembrano aver assunto il

peso di superpotenze militari [Arrighi, 1999], con il benestare degli stati-nazione che

anzi ne hanno incentivato lo sviluppo. La scomparsa dell'Unione Sovietica dallo

scacchiere mondiale coincise anche con il punto più alto toccato dall'economia

giapponese in ambito mondiale, in seguito alla rivalutazione dello yen nei confronti del

dollaro statunitense, nei mercati finanziari mondiali. La fine degli anni Ottanta quindi se

da un lato registrò il tracollo comunista, dall'altro vide l'ascesa dell'economia

giapponese, intaccando seriamente la politica estera ed economica statunitense: si

ipotizzava infatti che la futura egemonia sarebbe risorta, sulle ceneri di quella

americana, a Tokyo [Arrighi, 1999].

6 Nuove egemonie

L'evoluzione storica dimostrò, almeno fino all'inizio del XXI secolo che tali

previsioni si erano rivelate erronee in seguito alla crisi asiatica della fine degli anni 90'

che mise in luce i limiti egemonici del Giappone [Arrighi, 1999]; tuttavia, i problemi

legati al mantenimento dell'egemonia di Washington, al volgere del millennio, non

erano comunque stati dissipati anzi, l'attacco alle Torri Gemelle del 2001, la Guerra e

l'occupazione in Iraq - con il pretesto di ricercare le armi di "distruzione di massa" di

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Saddam Hussein, l'invasione in Afghanistan, sono stati segnali di una crisi egemonica

americana. Secondo Muzaffar, l'invasione in Afghanistan, al di là delle motivazioni

ufficiali che inquadrano la cattura di Bin Laden come reale fondamento dell'operazione,

vi si possono scorgere altri motivi: "la volontà di invadere l’Afghanistan con la farsa di

una guerra contro il terrorismo può essere legato alla posizione strategica del paese,

ossia come nazione vicina a Cina e Russia da un lato e all’Iran dall’altro, quindi

d’enorme importanza per gli Stati Uniti. Il controllo dell’Afghanistan facilita l’accesso

ai giacimenti di petrolio delle repubbliche dell’Asia Centrale e alle risorse del Mar

Caspio. È stato analizzato che in termini di produzione di petrolio l’intera regione

potrebbe rivaleggiare con l’Arabia Saudita in un prossimo futuro" [Muzaffar, 2012]. Al

di là delle reali ragioni, è senza dubbio vero che tali avvenimenti rappresentano una

spaccatura nella governance mondiale, in relazione agli ingenti costi finanziari di tali

operazioni e all'elevata perdita di vite umane che hanno influenzato l'opinione pubblica

mondiale. Assieme all’ideologia, agli interessi e alle azioni delle élites statunitensi, che

hanno rappresentato un fattore importante nel declino degli Stati Uniti, anche la

resistenza di molti gruppi, movimenti e Stati nei confronti dell’egemonia statunitense ha

svolto un ruolo significativo; in questo senso, i principali attori di tale resistenza ai

tentativi di mantenimento dell'egemonia di Obama sono la Russia, la Cina e - per certi

aspetti - l'America Latina. La prima, dopo il riassestamento degli anni 90', è tornata

protagonista, assistendo alle manovre degli Stati Uniti in Georgia, Ucraina e in alcuni

dei paesi dell’Europa orientale, le quali l’hanno convinta ad affinare le sue abilità

diplomatiche e rafforzare i propri muscoli militari al fine di proteggere la sovranità e

l’integrità della Federazione Russa. La seconda ha aumentato il peso internazionale,

tanto politico, tanto economico-finanziario, rispondendo ai tentativi di Washington di

estendere le relazioni politiche e militari nelle zone del Pacifico, come Australia,

Filippine, Giappone e Corea del Sud. Per contrastare tale strategia di accerchiamento, la

Cina ha ampliato considerevolmente i propri investimenti, con il Made in China che,

nell'era della globalizzazione, ha raggiunto ogni angolo del pianeta, imponendosi come

marchio commerciale dominante.

Già nella prima metà del secolo scorso, Gramsci sottolineava la possibile ascesa a

potenze mondiali da parte di Cina e India in relazione alla produzione industriale e

manifatturiera e all'enorme quantità di forza-lavoro:

46

"Si sposterà questo asse nel pacifico? Le masse più grandi di popolazione del mondo sono

nel pacifico: se la Cina e l'India diventassero nazioni moderne con grandi masse di

produzione industriale, il loro distacco dalla dipendenza europea romperebbe appunto

l'equilibrio attuale: trasformazione del continente americano, spostamento dalla riva

atlantica alla riva del pacifico dell'asse della vita americana [Gramsci, 2001, p. 242].

Le osservazioni di Gramsci fatte a quasi un secolo di distanza evidenziano le peculiarità

del sistema-mondo che dal XV secolo ha fagocitato sempre più territori e risorse.

Il rapido sviluppo interno, l'esplosione delle esportazioni e degli investimenti esterni,

come in Venezuela, Ecuador, Argentina, l'aumento della produzione e dei profitti

derivanti dall'estensione delle monocolture cerealicole - tanto da far investire

direttamente nel 2006 Goldman Sachs nel settore agroalimentare cinese [Burch e

Lawrence, 2009] - sono tutti elementi di una vistosa crescita cinese nel sistema-mondo

ai danni della sempre più traballante od ormai superata, secondo altre ipotesi, egemonia

statunitense. Contemporaneamente, la crisi statunitense dell'ultimo decennio nella

gestione geopolitica e militare di territori come Ucraina, Siria, Palestina, Afghanistan e

Iraq ha avuto riflessi anche sulla leadership mondiale prima e occidentale poi; la grande

esportatrice di democrazia del XX secolo sembra cadere sotto gli effetti della

novecentesca frenetica espansione. Questi movimenti di espansione, declino e nuova

espansione sono elementi portanti del sistema, osservabili nell'evoluzione storica:

successe nel XV secolo con le Province Unite [Arrighi, 1999; Moore, 2013; Talbot

2011]; tale espansione precedette un declino politico, commerciale e finanziario che

alimentò la nuova espansione egemonica britannica del XVIII, seguito dal declino del

primo Novecento [Arrighi, 1999; McMichael, 2000 e 2009c]. Lo sviluppo prodigioso

della Cina segna dunque la nascita di un nuovo mondo post-egemonico; tuttavia,

stabilire con chiarezza se sarà proprio il paese asiatico a prendere le redini degli

equilibri di potere, è fuori portata, soprattutto ai fini di questo lavoro.

All'interno del quadro appena descritto un ruolo centrale è occupato dal capitalismo

finanziario e dalle multinazionali che operano in tutti i settori produttivi; l'apertura dei

mercati, la globalizzazione dei prodotti, la deregulation degli anni 80', la fine del

comunismo sono tutti fattori di cui hanno beneficiato le multinazionali e la grande

distribuzione, estendendo di molto il proprio raggio d'azione. La possibilità di districarsi

47

tra le varie leggi nazionali e internazionali, in favore di un libero mercato de-regolato è

stata la miccia per l'esplosione del profitto e del potere corporativo; secondo Charles

Kindelberger "lo stato-nazione come unità economica ha fatto il suo tempo" [Arrighi,

1999], a causa delle comparsa di un sistema di imprese transnazionali che non nutrono

alcun sentimento di fedeltà nazionale, nè si sentono a casa propria in alcuno stato

[Arrighi, 1999]. Via via che si intensifica la "competizione per il capitale globale", forze

di mercato deterritorializzate pongono vincoli sempre più stretti alle politiche

economiche, anche a quelle più grandi nazioni, come Cina, Stati Uniti e organizzazioni

sovrastatali come l'Europa. Con l'adozione delle dottrine liberali dell'impegno minimo

statale, l'intensificazione del potere finanziario e corporativo ha portato addirittura a

teorizzare una prossima "egemonia dei mercati globali" [Arrighi, 1999, p.8], a scapito

delle realtà geopolitiche. L'indebolimento statale, in favore di organizzazioni

internazionali e del potere finanziario e corporativo rappresenta, secondo alcuni

studiosi, un indebolimento strutturale, in cui la debolezza della forza-lavoro e del

welfare rappresentano gli esempi più tangibili. La crescita del potere delle corporazioni

e delle multinazionali ha seguito un processo di maturazione che, a partire dall'inizio del

XX secolo è arrivato alla sua forma più completa, in relazione ai limiti strutturali delle

relazioni di valore tra uomo e ambiente. La potenza di tali soggetti era già stata descritta

nelle riflessioni di Gramsci, secondo cui:

ormai le corporazioni esistono, esse creano le condizioni in cui le innovazioni industriali

possono essere introdotte su larga scala, perché gli operai né possono opporsi a ciò, né

possono lottare per essere essi stessi i portatori di questo rivolgimento. [...].

L'americanizzazione richiede un ambiente dato, una data conformazione sociale e un certo

tipo di Stato [Gramsci, 2001. p. 125].

Da allora, la crescita del potere lobbistico non ha subito interruzioni, interessando

tutti gli aspetti produttivi, in particolar modo il contesto alimentare. L'analisi sistemica

del capitalismo e delle egemonie è in questo senso fondamentale per lo studio della

produzione alimentare e per gli effetti sul territorio e sulle popolazioni interessate; il

profitto derivante dal cibo è sempre stato centrale per le potenze egemoniche e per le

imprese corporative attuali, anche se il filo che li unisce è stato troppo spesso dato per

scontato o al contrario messo in secondo piano. Stabilire i connotati della prossima

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egemonia, sulle ceneri di quella di Washington, è ancora presto e non rappresenta

l'oggetto di questo lavoro, tuttavia è bene comprendere che tali meccanismi hanno

effetti, e sono in larga determinati, anche dallo sviluppo e dalla produzione alimentare.

Quel che preme sottolineare infatti, è che tali espansioni che storicamente si sono

succedute hanno avuto, e hanno tutt'ora, ripercussioni sulla società, sull'ambiente, sul

cambiamento climatico, oltre che a livello finanziario e politico; tracciando un filo

diretto dalla coltivazione di zucchero del XVI secolo, all'epoca attuale, il mantenimento

del controllo da un lato, e dell'accumulazione di capitale dall'altro, hanno prodotto

disastri ambientali senza sosta, già descritti da Darwin e altri studiosi e biologi del XIX

[Foster, 2011]. Un esempio in questo senso è ciò che successe negli Stati Uniti durante

gli anni 30' del Novecento, in cui l'agricoltura intensiva e la cattiva gestione del terreno

portarono alle Dust Bowl, una tempesta di sabbia e polvere come effetto di tali pratiche:

nello specifico, l'erosione del terreno derivante da una agricoltura votata alla

massimizzazione dei raccolti, riempì "l'ara di piccole particelle di polvere che

successivamente bruciarono le provviste, le costruzioni e persino i fili spinati"

[Bumhardt, 2003, p.1], rendendo inospitali quei territori e costringendo le popolazioni a

un vero e proprio esodo verso, soprattutto, la vicina California. Tale dinamica

rappresenta un punto nodale nel sistema capitalistico, osservabile anche nell'attuale

ascesa economico-industriale cinese: l'inquinamento determinato dall'incessante

produzione industriale - sorretto da un'enorme quantità di forza-lavoro - ha raggiunto

livelli drammatici, specialmente nelle grandi città, dove la concentrazione di

microparticelle nell'aria supera di 40 volte il limite di sicurezza stabilito

dall'Organizzazione Mondiale della Sanità; negli studi condotti, circa il 90% delle città

cinesi risulta inquinato oltre il limite, con ritorsioni anche sugli impianti idrici, con due

terzi dei fiumi fortemente inquinati e circa 320 milioni di persone senza accesso

all'acqua pulita [La Repubblica, 2014]. In questo scenario, anche l'agricoltura è a rischio

per il diffuso inquinamento, con una possibile perdita del 40% dei terreni coltivabili.

Seppur con cifre differenti, è bene considerare che il trend della produzione

agroalimentare globale sta seguendo tale direzione.

In termini di accesso al cibo, a livello globale, l'aumento di terreni incoltivabili e

desertificati produce un aumento dei prezzi dei principali prodotti alimentari, in primis i

derivati del grano, riso e mais [McMichael, 2009b e Moore, 2014] che aprono un

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ventaglio di conseguenze sociali come la nascita di conflitti legati al cibo - ad esempio

in Uzbekistan, Marocco, Guinea, Mauritania, Senegal, Indonesia, Zimbabwe, Burkina

Faso, Cameroon, Yemen, Giordania, Arabia Saudita, Egitto, Messico, Argentina,

[McMichael 2009b] - abbandono progressivo delle campagne, con il conseguente

insediamento di imprese agroindustriali multinazionali, progressiva popolazione di

grandi periferie cittadine, germinazione di epidemie legate al cibo e ai metodi di

produzione - basti pensare alla "mucca pazza" o "polli alla diossina". Il settore

alimentare, sin dalle origini delle monocolture del XVI secolo è sempre stato al centro

delle attività legate all'accumulazione di capitale, in quanto rappresenta una parte

ineliminabile della quotidianità umana e pertanto altamente redditizia. L'ascesa al potere

di alcune potenze, fu infatti garantita anche dal profitto del commercio alimentare e

delle risorse primarie; a partire dal secondo Novecento l'organizzazione capitalista

attorno al cibo ha subito un'evoluzione, scostandosi sempre di più dal potere nazionale;

la perdita d'influenza da parte degli stati in un mercato economico-finanziario ha

permesso la proliferazione di multinazionali anche, e soprattutto, nel settore primario,

divenendo il gruppo dirigente - per dirla con le parole di Gramsci - dominante. Il legame

che unisce cibo e capitale è stato ampiamente analizzato, in relazione all'aumento dei

prezzi, alla scarsa disponibilità, ai disastri ecologici, alla perdita di sovranità alimentare;

sin dall'egemonia britannica si può pertanto considerare la nascente catena di

distribuzione alimentare come facente parte di un Regime alimentare, in cui convergono

diversi fattori legati a produzione, accumulazione, distribuzione, consumo, mercati,

trasporto, ecc.., posto sotto il controllo della potenza egemone.

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2 Cibo e capitale

1 Cibo come risorsa: economica o biologica?

"Il capitalismo è impensabile senza la complicità della società" [Braudel, 1981, p.76]

che lo compone: in riferimento al cibo, il capitale alimenta tutte le fasi di lavorazione,

dalla linea produttiva, a quella del trasporto e della distribuzione, al consumo e al

reinvestimento, sin dalle origini della sua espansione [McMichael 2009; Moore, 2014].

Lo stretto legame che unisce la produzione alimentare al sistema capitalista è

ineliminabile nelle relazioni di valore del rapporto uomo-mondo: storicamente, come si

è visto, l'espansione egemonica è coincisa infatti con l'aumento dei terreni coltivati e dei

raccolti, sfruttati dalle potenze per alimentare il meccanismo di espansione e

mantenimento del potere. Anche l'evoluzione tecnica e la disponibilità di materiale

tecnologico rappresentano due parametri di primaria importanza per l'espansione

economica, politica e agricola. Seguendo le parole di Braudel: "le grandi concentrazioni

economiche richiedono concentrazioni di mezzi tecnici e sviluppo della tecnologia: così

è stato per l'arsenale di Venezia nel XV secolo, per l'Olanda nel XVII, per l'Inghilterra

del XVIII secolo. [...] Da sempre, tutte le tecniche, tutti gli elementi della scienza,

vengono scambiati, viaggiano attraverso il mondo, seguendo un movimento di

diffusione incessante" [Braudel, 1981, p.34]. Tecnologie, risorse alimentari, energetiche

e forza lavoro: sono queste le pulsioni espansive del sistema capitalista, che

manifestano il livello di vita di una determinata nazione o regione. Risulta pertanto

ovvio che le fasi iniziali del capitalismo, e quelle successive, siano incentrate in buona

parte sul cibo, sulla sua produzione e distribuzione [Friedman, 2009].

Lo sviluppo del colonialismo ha amplificato i rapporti di forza nel contesto

alimentare delle nazioni egemoni, producendo una serie di squilibri - differenti ma

convergenti - nel lavoro, nella stabilità sociale, nell'accesso al cibo e nella dieta

alimentare, tanto delle periferie, quanto dei centri del sistema-mondo. Durante il corso

51

storico, l'espansione delle frontiere introdusse nei mercati europei (in primis tra i gruppi

dirigenti) prodotti esotici - in seguito diventati tradizionali - come lo zucchero, il caffè e

il cotone che garantirono ampi profitti agli investitori. In questo scenario, la produzione

alimentare, come ricorda Wallerstein, rappresenta uno dei cardini dell'espansione

capitalista, dimostrando il fitto legame che corre tra il denaro e la risorsa: la possibilità

di produrre alimenti a basso costo - in particolar modo la produzione cerealicola - per

popolazioni sempre più numerose rappresenta una voce di guadagno che ha sempre

riguardato l'industria alimentare, ma anche uno dei limiti attuali che minacciano la

sopravvivenza stessa di tale meccanismo [Moore, 2014].

La coltivazione dei cereali ha sempre occupato un posto centrale nelle attività umane

e nelle diete alimentari: grano, riso, mais - ed altri cereali, ma in maniera decisamente

minore - hanno infatti rappresentato, durante il corso della storia, la principale fonte di

cibo in tutto il mondo, tanto da esser considerate piante di civiltà, "che hanno

organizzato la vita materiale e talvolta psichica degli uomini, a grande profondità, fino a

diventare strutture quasi irreversibili" [Braudel, 1982, I, p. 83]. Fin dall'antichità questi

cereali sono stati fondamentali per lo sviluppo delle civiltà che si sono succedute: la loro

abbondanza o scarsità poteva generare commerci, espansioni, guerre o epidemie, a

seconda delle condizioni. Con lo sviluppo dei centri urbani del XIV secolo, la principale

fonte di nutrimento era data dai raccolti delle vicine campagne, ma con l'espansione dei

commerci internazionali del XVI secolo, l'aumento della popolazione e l'aumento della

richiesta di grano, portò il Nord europeo a diventare il principale esportatore di grano in

Europa [Braudel, 1982]. Il grano del Baltico e il suo commercio, per esempio, furono

fondamentali per l'egemonia olandese del XVII secolo, così come i prodotti delle

colonie dell'Impero Britannico per la futura egemonia inglese [Arrighi, 1999]. La

nascente relazione tra centri ricchi e bisognosi di cibo e periferie esportatrici, accelerata

dal capitalismo seicentesco - descritta nel capitolo precedente - portò gli stati europei a

trovare nel Nord e nell'Est europeo "i paesi mal popolati e poco sviluppati, capaci di

fornire [loro] il grano che difetta" [Braudel, 1981, I, p.101]. In questo senso, il

principale esempio fu offerto dalle campagne polacche che esportavano la maggior

parte del raccolto, con quella restante destinata ai sovrani:

Se si pensa alla grande quantità di grano che la Polonia esporta annualmente si potrà

pensare che esso sia uno dei paesi più fertili d'Europa; ma chi la conosce, giudicherà ben

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altrimenti, poiché se anche si trovano regioni fertili e ben coltivate, esistono altre regioni

più fertili e meglio coltivate che, ciò nonostante, non esportano grano. La verità è che i

nobili sono in questo paese i soli proprietari e che i contadini sono loro schiavi, e quelli, per

mantenersi, confiscano a proprio vantaggio sudore e prodotti di costoro, che formano

almeno i sette ottavi della popolazione e sono ridotti a nutrirsi di pane d'orzo e d'avena.

Mentre gli altri popoli d'Europa consumano la maggior parte del loro grano, i polacchi

trattengono una parte così piccola del loro frumento o della loro segale, che è possibile

affermare che essi non li coltivano se non per lo straniero [Braudel, 1982, I, pp. 100-101].

Risorsa alimentare ed economica quindi: la produzione di cibo, a partire dal XVI

secolo, subisce un'espansione oltre i confini nazionali senza precedenti, attraverso le

esportazioni e la rete commerciale che toccano aree del pianeta sempre più vaste,

dall'Asia alle Americhe. Il grano non è più quello locale, insufficiente a sfamare la

popolazione, ma quello prelevato da altre zone principalmente europee, a prezzi

agevolati e alcune volte inferiori a quelli interni [Braudel, 1982]. Esportazioni e prezzi

bassi sono le caratteristiche dei nascenti mercati internazionali che esplicitano in questo

modo alcune delle controindicazioni del sistema, soprattutto nelle zone 'sfruttabili' da

parte delle potenze europee. Come ricorda Braudel infatti:

In conclusione: miseria dei salari urbani; miseria delle popolazioni, dove i salari in

natura hanno conosciuto all'incirca gli stessi ritmi. Così la regola, per i poveri, è molto

chiara: sono costretti a ricorrere ai cereali secondari, 'ai prodotti meno cari, ma pur

capaci di fornire in qualche modo un numero sufficiente di calorie abbandonando gli

alimenti ricchi di proteine per consumare un cibo basato su prodotti ricchi di fecola

[Braudel, 1982, I, p. 110]

Si viene così a delineare per il cibo ciò che avviene parallelamente (e in generale) per

il potere geopolitico: gli interessi, la disponibilità e la richiesta scavalcano i confini

nazionali, collegando sempre più paesi all'interno di una grande rete politica,

economica, commerciale e alimentare, nonché culturale [Friedman, 2009; McMichael,

2009, 2009b].

53

2 Regimi alimentari: il legame tra cibo e capitale

Una chiave di lettura dei rapporti tra cibo e capitale è data dall'analisi dei regimi

alimentari che, a partire dal XIX secolo - hanno interessato la produzione e la dieta

alimentare di aree sempre più vaste.

Presentata durante il Convegno Internazionale di Sociologia Ruralis del 1989 da

Harriet Friedmann e Philip McMichael, la teoria dei regimi alimentari esamina i legami

internazionali di produzione e consumo alimentare. Questo approccio parte dalla teoria

del sistema mondo proposta da Wallerstein [McMichael, 2000], dall'analisi sociale

marxista-gramsciana e dalla politica economica di Polanyi [Smith, Lawrence and

Richard, 2010].

Il presente scenario risulta molto articolato, in relazione ai soggetti coinvolti: stati,

industrie, multinazionali, movimenti sociali, consumatori e scienziati sono parte

integrante della definizione dei regimi alimentari proposta [Friedman, 2009].

L'analisi del legame tra cibo e capitale, attraverso il concetto di regime alimentare,

permette in questo senso di cogliere le relazioni di classe, geografiche e di potere

interstatale che influenzano la produzione, la distribuzione e il consumo alimentare

[Friedman, 1993; 2009]. Esso fa riferimento all'andamento storico del capitalismo,

interessato da un movimento ciclico di espansione, stagnazione, nuova espansione di

circa 25-30 anni [Friedman, 2009; Hobsbawm, 1997; Wolfson, 2003]. L'andamento dei

prezzi, degli investimenti, o in generale del capitale, logicamente non è influenzato da, e

non influenza unicamente il cibo: accanto ad esso infatti vi sono numerose variabili che

intercorrono costantemente.

Il cibo, assieme alla forza-lavoro, le materie prime e le risorse energetiche

rappresentano i quattro elementi fondamentali di spinta del capitalismo: in altri termini,

la fruizione di essi a costi ristretti rappresenta un punto cruciale dell'accumulazione di

capitale [Moore, 2010]. In questo senso il concetto di regime alimentare è fondamentale

per la comprensione di tale legame: tra le varie priorità, poter disporre di cibo

economico per grandi masse produttive è da sempre alla base della politica interna e dei

sistemi inter-nazionali [Bursh ad Lawrence 2009; Friedman, 2009; McMichael, 2009;

2009b; Moore, 2010], nonchè di quello multinazionale attuale [Bursh ad Lawrence

2009; Friedman, 2009; McMichael, 2009; 2009b; Moore, 2010].

54

Il concetto di regime alimentare pertanto ha come obiettivo la storicizzazione del

sistema alimentare mondiale [Friedman and McMichael, 1989; McMichael, 2009b], in

relazione all'accumulazione di capitale lungo le dimensioni spazio-tempo [McMichael,

2009b]. Lo studio dei regimi alimentari rappresenta la relazione tra l'evoluzione

geopolitica, lo sviluppo sociale, i processi culturali ed ecologici, durante il sistema

capitalista [Pouncy, 2012]. A fornire questo metodo di studio, focalizzato sulle

reciproche relazioni tra agricoltura, politica, cibo, guerre, spreco alimentare fu Harriet

Friedman [1987], che assieme a McMichael iniziò ad analizzare i collegamenti tra le

relazioni internazionali di produzione alimentare e l'accumulazione di capitale:

Regime significa regolamentazione: esistono 'regole' che gli analisti possono dedurre

attraverso il consistente comportamento degli attori rilevanti: stati, imprese, corporazioni,

movimenti sociali, consumatori, scienziati. Le regole in questo senso sono difficili da

fissare, ma il tentativo è pregevole. Nell'analisi dei regimi alimentari queste regole

relazionano sia la regolamentazione statale, a volte indiretta, sia l'egemonia [Friedman,

2009].

Il cibo pertanto è elemento assolutamente centrale per le relazioni globali di valore,

così come la forza-lavoro e le risorse energetiche; secondo Araghi, il regime alimentare

può definirsi come "regime politico delle relazioni globali di valore [Araghi, 2003]: la

crisi alimentare - parallela a quella finanziaria, l'aumento dei prezzi, l'accumulazione di

capitale da parte di grandi realtà mondiali, la transizione alimentare e la generale

convergenza verso diete sempre più 'mondiali' sono tutti elementi che appartengono al

sistema ecologia-mondo [McMichael, 2009b; Wallerstein 1976].

La teoria del regime alimentare tuttavia non si limita unicamente al cibo: come si è

visto essa sottende alla crescita del capitale, alla crescita del potere delle multinazionali,

in primis dei supermercati [Smith, Lawrence and Richard, 2010; Reardon et all, 2003],

alla specializzazione delle industrie alimentari, alla richiesta di aumento di sicurezza

alimentare, alla nascita di guerre per l'accesso al cibo. Il regime alimentare pertanto non

è limitato al cibo, bensì riguarda le modalità attraverso cui il cibo è:

Intrinseco alle relazioni di valore del capitale globale, nella misura in cui esso è centrale

per la riproduzione del lavoro subordinato, potendo così rappresentare una proficua

55

industria. Il focus rimane sui movimenti di capitale, piuttosto che sul cibo in senso stretto,

che incarna le relazioni di capitale [McMichael, 2008, p. 3].

Al pari di energia, lavoro e materie prime, il cibo funge da impulso all'espansione

degli investimenti e dell'accumulazione di capitale. Come detto, la nascita di una

visione della natura come di risorsa sfruttabile ed illimitata rappresenta una delle

contraddizioni in seno al capitalismo che, specialmente in epoca attuale, deve fare i

conti con i crescenti disastri ecologici [Foster 2013]; secondo alcuni, la forma stessa di

tale architettura rappresenta un sistema ecologico [Moore, 2014], in quanto parte delle

sue espansioni è dettata dalla disponibilità di questi quattro elementi fondamentali

[Arrighi, 1999; Moore, 2014]. In questo senso, gli scossoni ecologici e ambientali

apportati dal capitalismo, non devono essere considerati come parte del processo di

'antropizzazione' (Anthropocene), ma bensì come risultato del lavoro di

'capitalizzazione' (Capitalocene), che a partire dal Lungo Secolo si è intensificato ed

espanso, come modo di organizzare la natura e le risorse [Moore, 2014, 2014b]. Nello

scenario descritto, l'illusione di una possibilità di utilizzo pressoché illimitata tuttavia, si

scontra con il reale metabolismo naturale, che al contrario necessita di tempo per

rigenerarsi [Foster, 2013; Moore, 2011]; il progressivo esaurimento delle risorse - tra

cui i combustibili fossili - produce una lievitazione dei prezzi, escludendo così grandi

fette di popolazione dall'accesso ad esse. L'equazione è semplice: lo sfruttamento

incessante produce un parziale esaurimento; nel contesto alimentare se vengono a

mancare le terre coltivabili i raccolti saranno minori; se a ciò si aggiungono delle

variabili socioeconomiche, come la crescita dei prezzi dei combustibili, allora anche i

prodotti alimentari risulteranno rincarati e per un'utenza ristretta, producendo

successivamente disordini sociali, guerre, malattie, con dinamiche molto simili nelle

zone interessate.

La crisi alimentare si viene così a sovrapporre con la crisi finanziaria, in una

relazione già osservata da Marx, in cui la fertilità del terreno agirebbe 'come crescita del

capitale fisso' [Moore, 2011. p. 26] e, viceversa. Storicamente infatti, la crescita di

ciascuno dei quattro elementi descritti ha rappresentato, oltre alla crescita di capitale,

anche a una maggiore disponibilità di lavoro e di cibo, a prezzi contenuti: l'incessante

sfruttamento ed esaurimento tuttavia, accelerati dal neoliberismo e dalla

56

globalizzazione, hanno prodotto un'ondata di crisi dei prezzi e disponibilità [Moore,

2014; McMichael, 2009; 2009b].

A una crisi sistemica, in passato, seguivano una nuova ondata espansiva e rivoluzioni

ecologiche, che garantivano una rigenerazione dei profitti; quest'opportunità era

assicurata, in primis, appunto dall'appropriazione dei quattro elementi citati, la base del

'surplus ecologico-mondiale' [Moore, 2010]; "quando il surplus ecologico è

particolarmente elevato, come in seguito alla seconda guerra mondiale, rivoluzioni

produttive prendono piede, così come si sviluppano movimenti espansivi.

[Parallelamente] all'aumento di capitale e allo sviluppo socio-tecnologico" [Moore,

2010].

L'espansione riprende avvio, nuove aree vengono incorporate e nuove risorse

accumulate; riprende corpo la produzione, così come il lavoro e si osserva un

abbassamento dei prezzi alimentari, oltre a molteplici e differenti conseguenze sociali.

La crescita della popolazione aumenta la forza-lavoro disponibile, mantenuta da un'alta

produttività, assorbita quasi per intero. Il raggiungimento di nuovi limiti strutturali

tuttavia, ripropone le medesime condizioni di stagnazione ed aumento dei prezzi: questo

perché il sistema capitalista - e il neoliberismo attuale non fa alcuna eccezione - è un

sistema ciclico, in cui a un trascorso positivo, segue un periodo di decrescita strutturale.

Essendo parte integrante del sistema, anche il cibo segue il medesimo andamento,

scandito da periodi di crescita in termini di produzione, accesso e consumo, a periodi di

stagnazione, in un andamento oscillatorio - o ciclico - che si è osservato essere

compreso tra i 20 e i 25 anni [Friedman, 2009; Wolfson, 2003]. L'andamento ciclico

del capitalismo fu osservato, come spiega Hobsbawm, fin dagli anni '20, quando:

Alcuni osservatori furono colpiti da uno schema ricorrente nell'economia mondiale nel

corso dei secoli, per il quale a periodi di circa 20-30 anni di espansione e prosperità

economica si alternano periodi di difficoltà economica della stessa durata. Questi periodi

sono meglio noti con il nome di 'onde di Kondrat'ev'. [...] Ciascun ciclo di Kondrat'ev nel

passato aveva costituito non solo un periodo in senso strettamente economico ma, com'è

naturale, aveva anche caratteristiche politiche che l'avevano distinto abbastanza

chiaramente dai cicli precedenti e da quelli successivi in termini di politica sia

internazionale che interna dei vari paesi e regioni del globo [Hobsbawm, 1997, p. 43].

57

Anche i regimi alimentari sono interessati da tali oscillazioni, essendo parte

integrante di un più ampio meccanismo mondiale [Friedman, 2009; McMichael, 2009;

2009b; Moore, 2014]; inoltre, facendo riferimento alla dimensione storica,

rappresentano un punto di vista alternativo con cui analizzare le egemonie geopolitiche

che si sono succedute. Il concetto di regime alimentare permette di osservare la linea

produttiva, distributiva e di consumo, in tutti i suoi aspetti, offrendo così una chiave di

lettura per comprendere la "differenza strutturale tra le catastrofi ambientali dell'agro-

industrializzazione e le alternative, come le pratiche agro-ecologiche, che si sta

manifestando attualmente con i limiti storici del petrolio, del terreno, con il

cambiamento climatico e con la malnutrizione" [McMichael, 2009b, p. 4]. Attualmente,

le alternative agro-ecologiche sono in rapida ascesa, sono diffuse dovunque nel mondo e

costituiscono valide alternative al regime alimentare; tuttavia, le ristrette dimensioni, il

poco spazio occupato nella sfera pubblica ed il carattere essenzialmente locale

costituiscono delle barriere all'espansione di tali alternative che, allo stato attuale,

rappresentano più delle nicchie socio-tecniche e culturali [Geels and Shot 2007; Geels,

2011, 2014; Smith, 2007].

3 Regime britannico e regime statunitense

La produzione alimentare su scala mondiale rappresenta una delle modalità di

mantenimento, o espansione, dell'egemonia geopolitica [Friedman, 2009; Pouncy,

2012]; con la massiccia espansione dei commerci, delle città, della forza-lavoro operaia

delle prime industrie e sotto la propulsione egemonica britannica, l'alimentazione

mondiale iniziò a subire modifiche consistenti per quanto riguarda l'accessibilità, il

consumo, i prezzi, la produzione e la varietà [Friedman, 2009; McMichael, 2009,

2009b]. Se fino al XVIII secolo (e in qualche caso fino al XIX secolo) i cereali

rappresentavano l'alimento principale - superiore al 60% del totale apporto calorico

europeo, mediamente di 2000 calorie [Braudel, 1982] - con l'evoluzione dei sistemi di

produzione e trasporto l'origine di tali cereali fu sempre più de-localizzata. I prezzi

58

iniziarono a essere sempre più interessati da fluttuazioni internazionali, collegando tra di

loro sorti agricole, politiche ed economiche di paesi tra loro distanti, influenzando in

maniera decisa anche le diete alimentai delle popolazioni interessate.

L'analisi dei regimi alimentari parte dalle dimensioni storiche, spaziali e politiche

che, a partire dal XIX secolo hanno propiziato la costruzione di un sistema alimentare

internazionale [McMichael, 2009b; 2013]: in questo senso il primo regime alimentare

(1870-1930) combinò le importazioni europee dei prodotti delle colonie tropicali con

l'importazione dei prodotti fondamentali come grano e bestiame dei coloni, favorendo in

questo modo la nascente industria europea e definendo la Gran Bretagna come 'officina

del mondo' [McMichael, 2009b; 2013]. Con l'introduzione e imposizione delle

monocolture nelle colonie occupate, l'Ottocento britannico acquisì dall'esterno -

outsourcing - i prodotti alimentari di base, spostando verso le colonie la produzione

agro-industriale. Questo scenario, con la nascita di settori agricoli nazionali all'interno

dell'apparato commerciale e coloniale britannico - in particolar modo Usa, Canada e

Australia, modellò lo sviluppo del XX secolo, basato appunto sulla nascente dinamica

tra agricolture nazionali e apparati industriali [Friedman, 2009; McMichael, 2009b].

Uno dei principali effetti di quest'organizzazione produttiva fu la crescita produttiva e

dei mercati, attraverso il lavoro di massa che abbassò il costo del lavoro e della

produzione agricola, in particolare degli alimenti più comuni e diffusi, come grano,

mais, carne, caffè, zucchero e così via [McMichael, 2009]. Ciò fu garantito dalla

conversione delle colonie tropicali in paesi esportatori, all'interno dell'organizzazione

imperiale [McMichael, 2009b], espandendo le dimensioni di un mercato sempre più

comune.

La gestione del flusso mondiale di cibo per ciascun regime, come avvenne per Regno

Unito e Stati Uniti, è fondamentale per l'espansione ed il mantenimento dell'egemonia

geopolitica e culturale mondiale, descritta nel capitolo precedente. Il doppio flusso

alimentare gestito dall'Impero britannico - prodotti esotici dalle colonie tropicali,

bestiame e commodity come grano, riso, mais, dagli stati dell'impero - costituì infatti

una parte consistente per il mantenimento dell'egemonia: la gestione di tali flussi

all'interno di un 'libero mercato imperialista' permise inoltre di veicolare gli investimenti

e i flussi di capitale dei paesi europei, grazie anche al parallelo dominio della sterlina

nelle transazioni internazionali [McMichael, 1984; Pouncy, 2012].

59

Il secondo regime alimentare (1950-1970) di origine statunitense indirizzò parte del

surplus produttivo verso le aree formalmente decolonizzate, ma orbitanti attorno alla

politica statunitense; queste zone, come l'America meridionale, facevano infatti parte di

un "impero informale di stati post-coloniali nei perimetri strategici della Guerra Fredda"

[McMichael, 2009b, p. 4]. Gli aiuti alimentari che nel trentennio post bellico gli Stati

Uniti fornirono alle periferie mondiali - in riferimento alla 'periferia' di Wallerstein -

vanno pertanto riletti alla luce di un'espansione commerciale, capitale, geopolitica e

alimentare degli stessi Stati Uniti [Friedman, 2009; McMichael, 2009b]. La fedeltà,

acquisita attraverso la fornitura alimentare, dei paesi del Terzo mondo o in via di

sviluppo, rappresentava un notevole scudo contro la minaccia comunista, nonché la

possibilità di aumentare i profitti in relazione alla crescita e allo sviluppo industriale di

queste zone, finanziata in parte dalle autorità americane, con l'aiuto dei governi - molto

spesso totalitari e appoggiati dagli Usa - locali [McMichael, 2009b; Perkins 2012;

2013]. I paesi in via di sviluppo, come l'India, adottarono tecniche e tecnologie

agroindustriali della Rivoluzione Verde, assieme a nuove riforme agrarie che dovunque

accelerarono i processi di de-contadinizzazione e appropriazione dei terreni da parte di

grandi gruppi agro-industriali [Bursh and Lawrence 2009; Friedman, 2009; McMichael,

2009; 2009b; Pouncy, 2012; Shiva 2010]. 'Il progetto di sviluppo' degli anni

immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale e di matrice statunitense,

consisteva appunto nell'inglobare gli stati post-coloniali nella propria area d'influenza,

in maniera tale da espandere i movimenti di capitale e di produzione alimentare; la

rincorsa al business agroalimentare portò alla costituzione di filiere nazionali collegate

tra loro, in una catena alimentare mondiale sempre più ampia e fitta [McMichael,

2009b; Perkins 2012, 2013].

Il secondo regime alimentare era pertanto più implicito di quello britannico

precedente: gli Stati Uniti infatti, formalmente non gestivano imponenti flussi alimentari

come il Regno Unito. La circolazione dei prodotti agroalimentari era infatti considerata

come un aiuto, non come commercio [Friedman, 1982]. Attraverso il sistema degli

'aiuti' si celava pertanto un meccanismo di agrobusiness internazionale che facilitò la

successiva globalizzazione, nonché la perdita di sovranità alimentare, politica,

economica delle zone interessate da tali aiuti [McMichael, 2009].

60

Con la fine del secondo conflitto mondiale, degli apparati coloniali e la nascita di

organizzazioni interstatali con scopi prettamente economici e commerciali - come la

Banca Mondiale, FMI, GATT, OCSE, OMC, OMS - i principali attori mondiali, gli

Stati Uniti, furono in grado di estendere il proprio raggio d'influenza: la parallela

delocalizzazione della produzione industriale, lo sviluppo delle infrastrutture [Perkins,

2013], dei mezzi di trasporto, delle tecnologie impiegate spinsero il business agricolo

statunitense a concentrare la propria attenzione sulle principali derrate alimentari, come

mais, soia, grano, carne [McMichael, 2009]. Lo sviluppo degli accordi sulle tariffe e sul

commercio portò a una generale diffusione delle colture e dei materiali statunitensi:

attraverso la fornitura nei paesi del Terzo Mondo di materiale tecnico, di aiuti

alimentari, di investimenti economici, gli Stati Uniti - e le organizzazioni mondiali da

essi parzialmente controllate - esportarono in tutto il mondo il proprio modello

produttivo ed economico, contribuendo così al mantenimento della propria egemonia,

facilitata dalla conseguente stabilità dei prezzi alimentari [McMichael, 2009].

L'andamento ciclico intrinseco al sistema capitalista descritto da Hobsbawn [1997]

tuttavia, si vide evidente anche durante il secondo Novecento a 'Stelle e Strisce': a

partire dagli anni '70 infatti, il sistema fu scosso da una crisi economica ed energetica

che, a catena, produsse una serie di effetti negativi come l'aumento della

disoccupazione, dei prezzi, del costo della vita. In questo scenario, è facile osservare

come energia, cibo, forza-lavoro, materie prime siano elementi fondamentali per la vita

politica, economica, sociale e privata.

La liberalizzazione e l'apertura di nuovi mercati emergenti, del Terzo Mondo e

dell'ex Blocco Comunista fu una delle strade percorse dalle elite mondiali dirigenti per

risolvere l'impasse economico e politico prodottosi: in termini alimentari, il risultato fu

la nascita di un nuovo sistema produttivo, basato sempre meno sulla produzione e sul

capitale nazionale, e sempre più su quello finanziario, privato e multinazionale [Burch

and Lawrence, 2009; Friedman 2009; McMichael, 2009; 2009b]. Svincolato da legami

nazionali e votato unicamente all'incremento del capitale, il nuovo - e attuale - regime

alimentare si è distinto per una produzione affidata principalmente alle grandi

multinazionali, grandi catene produttive che, col tempo, hanno inglobato realtà locali e

indipendenti.

61

4 Neoliberismo e Regime alimentare multinazionale

La crisi degli anni '70 - dalla fine degli anni '60 ai primi anni '80 - scaturita in seguito

al florido periodo di crescita economica ed espansione finanziaria e commerciale del

ventennio precedente, portò alla luce un nuovo tipo di capitalismo, basato sulla crescita

del potere multinazionale, sull'apertura e sulla liberalizzazione dei mercati, sulla de-

regolamentazione finanziaria, sullo sfruttamento a livello planetario delle risorse: il

neoliberismo [Wolfson, 2003]. La nuova 'struttura sociale d'accumulazione' (Social

Structure of Accumulation) nata negli anni '70 permise nuovi e temporanei momenti

d'espansione, consolidandosi negli anni '80 ed entrando in crisi nei primi anni del XXI

secolo [Moore, 2010b; Wolfson, 2003].

Come si è visto, la continua espansione verso nuove frontiere costituisce uno dei

punti di forza del capitalismo, ma anche un limite costitutivo: al raggiungimento dei

limiti infatti seguivano nuove espansioni. Ciò si è verificato anche per le espansioni dei

regimi del secondo dopoguerra. Il raggiungimento dei limiti strutturali sia del pianeta

sia del fenomeno espansionistico iniziato nel lontano XV secolo fanno pensare a più che

una semplice crisi ecologica: resta infatti da chiarire se quell'attuale sia solo un "punto

critico del neoliberismo, o se l'esaurimento delle quattro risorse principali segnala anche

la fine del regime capitalista di una ecologia economica" [Araghi, 2010]. Come detto,

l'aumento della disponibilità di tali risorse, storicamente, coincideva con periodi di

espansione geopolitica e sviluppi tecnologici, in grado di stimolare e migliorare la

produttività, come le varie rivoluzioni agricole ed industriali che, dal XVIII secolo in

avanti, hanno interessato sempre più aree del pianeta. La situazione attuale però non

permette più movimenti analoghi e, di conseguenza il trend di accumulazione di capitale

sembra aver trovato luogo più nei mercati finanziari che non nei commerci di beni

[Moore, 2010b], realizzando la crescita del potere finanziario e multinazionale a

potenziale realtà egemonica, descritta nel capitolo precedente. Un sistema, in altre

parole, basato più sul capitale che sul lavoro, con la conseguente apertura della forbice

tra classi ricche e classi povere, queste ultime sempre più a ridosso della soglia di

sopravvivenza [Wolfson, 2003].

La strategia di liberalizzazione adottata, in seguito alla crisi degli anni '70, proiettò

così la produzione alimentare verso un nuovo modello, un terzo regime alimentare, di

62

carattere multinazionale e non più nazionale. La presa di potere dei mercati e della

finanza, in maniera ancor più profonda a partire dalla stipulazione del WTO nel 1995 -

in seguito ai trattati dell'Uruguay Round dal 1986 al 1994, con l'accordo di Marrakech -

e dalla caduta dell'Unione Sovietica, furono le scintille per uno sviluppo della

produzione agricola globale, con particolari attenzioni al Sud del Mondo [Friedman,

2009; McMichael, 2009, 2009b], uno dei principali soggetti interessati a questo

mutamento geopolitico, economico e produttivo.

La crescita di un 'regime alimentare multinazionale - ambientale' [Friedman, 2005] se

da un lato fu temporaneamente in grado di tamponare le falle del precedente regime,

dall'altro fu la causa di una serie di squilibri politici, economici, finanziari, alimentari e

biologici, con particolare attenzione al 'Sud del mondo'; in questo senso, il regime

alimentare va pertanto considerato come "un vettore della riproduzione sociale del

capitale su scala mondiale e come una lente focalizzata sul fatto sociale

dell'espropriazione" [McMichael, 2005, p. 294].

Attraverso le liberalizzazioni imposte dal Governo di Thatcher e Reagan, la

concentrazione del capitale per la produzione alimentare passò dalle mani degli stati agli

enti privati, internazionali, istituzionali, come banche, compagnie di assicurazione,

fondi d'investimento, 'case finanziarie' (Financial houses), fondi di copertura (hedge

funds), che comportarono evidenti conseguenze per le massi di lavoratori interessate

[Burch and Lawrence, 2009], in termini salariali, alimentari, sanitari.

Il caso britannico è in questo senso esemplare. La fine dell'impero coloniale coincise

con nuove possibilità d'investimento nel nascente mercato comunitario europeo,

accrescendo i guadagni delle masse di lavoratori in termini di salari e sussidi pubblici.

L'aumento dei salari e del benessere socio-economico interno, faceva tuttavia da

contraltare ai bassi profitti del capitale d'investimento; in una realtà, come quella del

secondo dopoguerra, caratterizzata da nuove, generalizzate e vivaci espansioni di

capitale, i bassi profitti del capitale britannico non sarebbero stati sufficienti a

fronteggiare la concorrenza. Per ridare slancio all'espansione capitalista, il governo

britannico adottò diverse strategie, alcune delle quali direttamente contro la classe

lavoratrice, come la limitazione dei sindacati, del Welfare State, dei servizi pubblici e la

privatizzazione delle industrie statali [Burch and Lawrence, 2009]. Questi elementi

rientravano nell'agenda programmatica del neoliberismo economico e del libero

63

mercato, avallato dal governo Thatcher - dal 1979 - che tra i vari effetti comportò una

de-regolazione del mercato e del capitale, producendo una successiva 'migrazione' del

capitale, al di fuori dello stato [Burch and Lawrence, 2009].

Gli Stati Uniti, durante la presidenza di Reagan, adottarono la medesima strategia

neoliberista: la crescita del potere finanziario e l'aumento della mobilità di capitale

verso aree più 'proficue' del pianeta furono le marce per il nuovo cambio di passo

dell'accumulazione di capitale [Krippner, 2005], in forte crisi durante gli anni '70, così

come la produzione di cibo [Friedman, 2009].

La transizione al neoliberismo e a un nuovo regime alimentare, hanno comportato un

predominio della finanza e un aumento dell'utilizzo di energie fossili in tutto il pianeta,

in seguito alla generale introduzione dell'industria all'interno del sistema agricolo, sulla

base del modello statunitense [Friedman, 2009; McMichael, 2009; 2009b]; in questo

scenario, lo sviluppo di un'agricoltura sempre più legata alle modalità industriali e

all'utilizzo del petrolio ha contribuito in maniera impressionante al progressivo

esaurimento della risorsa [Foster, 2009].

Nel quadro descritto, non vi è argomento più evidente della produzione alimentare, e

in generale dei regimi alimentari, rispetto alle contraddizioni insite nel sistema

capitalista plurisecolare [Moore, 2010b].

Il cibo sempre più come fonte di capitale quindi, in cui la massimizzazione dei

profitti va raggiunta, machiavellicamente con ogni mezzo possibile; attraverso

l'espansione di industrie de-localizzate, il capitale ha infatti avuto il sopravvento sulla

forza-loro, ottenendo da questo rafforzamento una parte consistente dei profitti. E' in

questo sviluppo degli scenari globali, della forza-lavoro ed anche dell'introduzione di

biotecnologie che si può osservare la "rivoluzione agricola" del XX secolo che, tuttavia

non ha risolto l'aumento dell'accesso alle risorse, al contrario sempre più privatizzate,

come nel caso delle fonti idriche [Shiva 2010].

Una rivoluzione, in questo senso, del tutto mancante [Moore, 2014], in termini di

risposta all'esaurimento delle risorse, al soddisfacimento del bisogno alimentare

mondiale. La Rivoluzione Verde infatti non ha saputo rispondere ai problemi di un

numero sempre più crescente di persone, così come l'utilizzo delle semenze

geneticamente modificate, celebrate nell'ultimo ventennio del XX secolo.

64

Le biotecnologie, come le coltivazioni Ogm, che a partire dagli anni '80 hanno

conosciuto una rapida espansione planetaria, non furono infatti concepite in virtù di un

aumento della produzione, di un abbassamento dei prezzi e di un'estensione dell'accesso

alimentare; esse furono introdotte nel mercato come rimedio a virus e agenti patogeni,

ma non risposero mai all'impoverimento del terreno - al contrario ulteriormente

accentuato [Benbrook 2009; Moore, 2014] - nè alla necessità di un aumento dei raccolti,

fondamentale per la crescente popolazione mondiale. La soia RoundUp Ready (RR)

progettata da Monsanto rappresenta l'esempio forse più famoso delle semenze

geneticamente modificate: nata con lo scopo di resistere al diserbante Round Up,

anch'esso di paternità Monsanto, questo tipo di soia dal 1996 ha invaso il mercato

agricolo, contribuendo all'87% della produzione mondiale di soia. Dagli anni '70, la

quantità globale di soia, inclusa quella geneticamente modificata, è passata da circa 43

milioni di tonnellate a circa 260 milioni di tonnellate del 2010 [Faostat, 2010]:

quest'aumento va considerato in relazione all'espansione della coltivazione di questo

legume su scala mondiale, circa quattro volte più estesa rispetto agli anni '70 [Masuda

and Goldsmith, 2009]. In questo senso, lo sviluppo di Cina e Brasile ha avuto un

notevole impatto sulla coltivazione della soia: dal 1990 al 2009 le esportazioni

brasiliane di soia sono infatti passate da 4 a 29 milioni di tonnellate [Weis, 2013],

mentre il paese asiatico è divenuto il principale importatore mondiale di soia

[McMichael, 2005].

Rilette sotto questa luce le cifre produttive assumono un altro sapore: alla base infatti

non c'è un aumento della produttività dei raccolti della soia, principalmente

geneticamente modificata, bensì una continua ricerca ed espansione verso nuovi territori

coltivabili. La soia Round Up Ready, fiore all'occhiello dell'industria biotecnologica è in

questo senso un semplice tentativo di limitare le malattie e assicurare costanti livelli

produttivi. La resistenza a malattie e alle tossine del diserbante Round Up sono pertanto

gli unici vantaggi di una coltura decisamente invasiva e impattante per i terreni

[Benbrook, 2009; Moore, 2014] e che non aumenta la produttività dei raccolti, come al

contrario è avvenuto nelle passate rivoluzioni agrarie; vantaggi che inoltre, col passare

del tempo, hanno finito con l'esaurirsi in quanto anche gli agenti patogeni, i batteri, i

microrganismi, le erbe infestanti hanno sviluppato forme di resistenza alle tossine

[Moore, 2014], finendo con l'intaccare ugualmente i raccolti. In questo senso, si è potuta

65

osservare, recentemente, la nascita di 'supererbe' (superweeds), in grado di resistere ai

diserbanti Round Up, avendo pesanti conseguenze su raccolti e prezzi. Nel 2013 lo

sviluppo di questa resistenza ha afflitto la produzione di circa 60 milioni di acri nei soli

Stati Uniti, producendo un dissesto ecologico alimentato da un ulteriore utilizzo di altri

pesticidi, nel tentativo di limitare il fenomeno [UCS, 2013]. A partire dalla creazione di

questo pesticida, le piante hanno iniziato a sviluppare forme di resistenza al glifosfato, il

principio attivo del Round Up, con il risultato che nel South-East, il 90% del cotone e

della soia è affetto da infestanti nuove e più resistenti [UCS, 2013]. Attualmente si

calcola che circa 24 specie di piante abbiano sviluppato forme di resistenza: in questi

termini, se il Round Up non fosse mai stato inventato, i contadini avrebbero evitato

l'utilizzo di circa 400 milioni di libbre di pesticidi [UCS, 2013].

La proliferazione delle monocolture, di per sé veicoli di erbe infestanti, unita

all'utilizzo di cereali geneticamente modificati ha lasciato come unica scelta l'utilizzo

massiccio di altri pesticidi: "L'aumento dell'uso di erbicidi sui nuovi cereali modificati

velocizzerà la resistenza delle piante [...] Questo è un cocktail pericoloso che, se

combinato con l'attuale sistema agricolo, è la ricetta per un disastro" [UCS, 2016].

Accanto alla proliferazione di nuove superpiante c'è stato uno sviluppo di

'superbruchi' (superbugs), anch'essi resistenti al glifosfato del Round Up di Monsanto. Il

colosso industriale ha ammesso che insetti comuni hanno sviluppato forme di resistenza

al prodotto [Laskawy, 2010], affermando che lo sviluppo di nuovi agenti biochimici

permetterà di mantenere questi fenomeni sotto controllo.

Per quanto riguarda la produzione alimentare a livello geografico, il nuovo ordine

neoliberista ha prodotto una macrodivisione mondiale tra il commercio al dettaglio nel

Nord e le grandi quantità di prodotti alimentari prodotte nel Sud [McMichael, 2009b].

A partire dal 1973 i paesi del Terzo Mondo sono divenuti dipendenti dal commercio

di energia e cibo a bassi costi, in modo da ripianare i costi degli apparati industriali,

favorendo così l'espansione delle grandi multinazionali e il processo di successiva

globalizzazione [Friedman, 2009]. In questo scenario, il ruolo giocato dal Fondo

Monetario Internazionale è stato quello di promuovere un sistema internazionale basato

sul libero scambio e non più in relazione alla centralità statale [Friedman, 2009]. La

promozione di un libero mercato - applaudito dall'Organizzazione Mondiale del

Commercio - ha così spostato, a partire dagli anni '80, la maggior parte della produzione

66

alimentare mondiale verso il Sud del Mondo, preservando di fatto i territori e le

popolazioni degli stati centrali [McMichael, 2009b].

Il nuovo impianto globale ha radicalmente modificato la produzione alimentare

globale: nei paesi in via di sviluppo o del Terzo Mondo - la maggior parte situata

geograficamente al di sotto dell'equatore - le coltivazioni locali hanno lasciato il posto a

enormi monocolture e allevamenti intensivi di bestiame, da esportare nei grandi mercati

mondiali. Nel Nord, l'espansione dei centri abitati, delle industrie e dei servizi ha

prodotto un generale abbandono dei terreni, alimentando così la domanda di cibo

prodotto altrove, specialmente nel Sud [McMichael, 2009]. La de-localizzazione dei

raccolti ha originato logicamente un allungamento della filiera produttiva alimentare,

aumentando il ruolo occupato dalle grandi catene di distribuzione e dei colossi

produttivi. Sono stati proprio questi fattori a mettere fuori gioco il regime alimentare

precedente, basato invece sul mantenimento dell'egemonia statunitense [Friedman,

2009; Le Heron, 1993; McMichael, 2009b]; l'agricoltura globalizzata può essere

considerata come il prodotto di una crisi agroalimentare, che accompagnò e fu collegata

alla più ampia crisi del capitalismo tra il 1970 e il 1990 [Le Heron, 1993].

Il risultato è stato una riorganizzazione della produzione agroalimentare globale,

sulla base di una Seconda Rivoluzione Verde, differente da quella precedente, per

almeno quattro aspetti fondamentali: dall'iniziativa pubblica a quella privata, dalla

produzione degli alimenti basilari a quella dei cibi più commercializzati (proteine

animali, frutta e verdura, cibi trasformati chimicamente), dall'introduzione delle

biotecnologie appena descritte e dai mercati locali a quello globale [McMichael,

2009b]. L'accelerazione alla globalizzazione degli anni '90, ha garantito una crescita

vertiginosa dei guadagni per multinazionali, fondi d'investimento e istituzioni bancarie,

provocando parallelamente una lenta ma inesorabile dipendenza dei territori e delle

popolazioni verso questi soggetti, e verso la domanda alimentare mondiale, da essi

gestita. Il 'progetto di globalizzazione'

rappresenta una visione emergente del mondo e delle sue risorse come globalmente

organizzate e gestite in un'economia di libero mercato/libera impresa ricercata dalle élite

politiche ed economiche [McMichael, 1996, p. 300].

67

Il regime alimentare multinazionale in questo senso passa attraverso la

privatizzazione dei terreni dei paesi del Sud ad opera appunto delle grandi industrie,

contemporaneamente a una diminuzione degli investimenti statali nel settore primario,

specialmente nei paesi meridionali [McMichael, 2009b; Shiva, 2010]. 'Accumulazione

per espropriazione' è appunto uno dei tratti distintivi del nuovo regime alimentare che, a

partire dagli anni '80, ha interessato sempre più aree del Sud del mondo, e non solo

[Araghi, 2003; McMichael, 2009; 2009b]. In questo senso si è prodotta una spasmodica

ricerca di terreni, in relazione al continuo esaurimento di quelli presenti - la scissione

metabolica, ampiamente descritta - e all'intrinseca ricerca del profitto appartenente al

capitalismo.

68

5 Il sud del mondo

Come si è potuto osservare, la continua ricerca di nuove terre costituisce un tratto

distintivo del capitalismo che ha fatto dell'espansione una delle sue forme di

rinnovamento, basti pensare al meccanismo del sistema coloniale e di quello imperiale.

L'innovazione portata dal terzo regime alimentare e dalla nuova acquisizione di territori

è data però dal predominio della finanza sulla politica, dal mercato globale sulla realtà

nazionale e locale: l'acquisizione di nuovi territori non è infatti statale, ma ad opera di

enti privati, stimolati unicamente dall'accumulazione di capitale [McMichael, 2011]. La

ricerca di aree sfruttabili da tali soggetti ha condotto inevitabilmente a quei territori

politicamente mal governati, arretrati, economicamente instabili, principalmente nel

sud.

La nascita di grandi centri altamente produttivi, geograficamente situati nel Sud del

mondo [McMichael 2009, 2009b; Friedman 2009] ha prodotto una macrodivisione di

accesso al cibo globale: un Nord, de-contadinizzato, deteriorato ecologicamente in cui si

osserva un eccesso dei consumi, prevalentemente delle grandi catene di distribuzione e

un Sud afflitto da sottoconsumo [McMichael 2009], nonostante l'elevata percentuale di

produzione agricola. Basicamente, il motivo fondamentale di tale divisione geografica

tra nord e sud - e in quella parallela tra produzione e consumo - risiede nella ricerca

dell'ottimizzazione dei profitti delle grandi corporazioni, imprese private, con

partecipazioni statali, ecc.. La risposta all'aumento della domanda di cibo mondiale è

stata, in questo senso, un'estensione delle grandi monocolture e dei grandi allevamenti,

in un Sud sempre più legato ai consumi e alla domanda delle grandi città; l'ingresso nei

mercati finanziari di risorse alimentari - come grano, soia, olio di palma, mais - ha

portato al vertiginoso boom di tali coltivazioni, specialmente nei territori decolonizzati,

ma anche negli Stati Uniti, Messico, Canada (paesi firmatari del Nafta), in Argentina,

Brasile, Cina, Indonesia, ecc...

La crescita degli interessi di grandi investitori istituzionali e privati nei confronti di

paesi poveri rappresenta la scelta del capitale nei confronti del cibo: l'aumento di grandi

centri urbani nel Nord, il rafforzamento della classe dei lavoratori, l'esaurimento di

terreni coltivabili sono pertanto coincisi, a livello globale, a una vorace espansione

finanziaria e produttiva verso l'America latina, il continente africano, il Sudest Asiatico.

69

Un Sud del mondo come 'fattoria mondiale' [Moore, 2009], in cui viene prodotta la

maggior parte dei prodotti consumabili nel Nord.

La rilocazione del capitale durante il neoliberismo, verso le terre economiche del Sud

del mondo è stata quindi stimolata e incentivata, sin dagli anni '80, dall'apertura di un

mercato globale, promosso sia dalle istituzioni, sia dalle imprese multinazionali

[McMichael 2009]. La liberalizzazione dei mercati incoraggiata dalla Banca Mondiale,

dal Gatt prima e dal WTO in seguito e dall'Agreement on Agricultural, se da un lato ha

permesso - temporaneamente - la ripresa delle economie e della finanza globale,

dall'altro ha provocato, nel lungo periodo, il collasso di diverse realtà del Sud del

mondo. Tale accordo stabilisce il comune impegno di tutti i paesi firmatari ad

aumentare l'accesso dall'esterno al proprio mercato e a ridurre i sostegni interni e i

sussidi all'esportazione; le riduzioni sono stabilite per ogni specifico prodotto prendendo

come riferimento il periodo 1986-88 per i sostegni interni; per i sussidi all'esportazione

il periodo 1986-1990 [Meregalli 2003]. I sussidi interni sono forme di sostegno erogate

dai governi a favore dei propri prodotti agricoli; con l'adozione dell'Aoa, vennero

espressi in termini di misura aggregata di sostegno (MAS)3, identificati dall'accordo in

una conseguente riduzione del 20% nei paesi sviluppati nel giro di cinque anni, e del

13,3% in dieci anni in quelli restanti. In termini di mercato, la riduzione delle barriere

doganali - colpevoli di rincarare i prezzi delle derrate alimentari - ha garantito valori

minimi di accesso ai principali prodotti agricoli, fissati in quantità prestabilite e con

livelli tariffari più bassi rispetto al passato.

Il meccanismo descritto tuttavia, non ha generato benefici per i paesi africani in via

di sviluppo - e in altre aree del mondo - in cui la crescita nel periodo tra il 1995 e il

1999 è stata pari a zero [Meregalli, 2003; Wolfson, 2003]; nei paesi sviluppati, al

contrario (come Europa e Stati Uniti) hanno saputo far fronte al crollo dei prezzi,

derivante dall'eliminazione delle barriere, soltanto modificando i tagli dei sussidi interni

tra prodotti primari e non, e reintroducendo forme di sussidio all'agricoltura [Meregalli,

2003]. La disparità degli sviluppi dell'accordo rappresenta uno dei punti fondamentali

per il dominio sull'agricoltura dei paesi in via di sviluppo; tuttavia, tale esercizio di

3 Per misura aggregata di sostegno (mas) si intende il livello annuo del sostegno, espresso in terminimonetari, fornito per un prodotto agricolo a favore dei produttori agricolo di base o del sostegno nonconnesso a singoli prodotti, fornito a favore dei prodotti agricoli in generale. Cfr. p.3, Roberto Meregalli,Africa ed Aoa. Ecco perché l’Accordo WTO sull’Agricoltura non ha aiutato e non aiuterà i PaesiAfricani, Rete Lilliput.

70

controllo non è rappresentato da imprese nazionali che detengono il monopolio di

specifiche derrate alimentari.

Il risultato è una progressiva e totale dipendenza dei paesi del sud nei confronti delle

multinazionali alimentari, che non solo non si è ridotta, ma ha alimentato un aumento

dei prezzi alimentari, dell'instabilità sociale e delle guerre per il cibo [McMichael,

2009]. Storicamente, si è avuto modo di osservare questo andamento sin dalle origini

del capitalismo: centri ben definiti ampliavano il proprio raggio d'azione su territori

periferici sempre più ampi. A partire dalla minuziosa descrizione di Braudel a proposito

del commercio di mais dalle Americhe ai centri europei [1982], l'evoluzione di tale

sistema ha portato nel corso dei secoli a inglobare sempre più colture, fino al periodo

attuale in cui si è assistito a un'esplosione di coltivazioni rimaste, commercialmente,

sempre all'ombra delle braudeliane 'piante della civiltà'.

La 'scoperta' in termini medico-scientifici - ed economici - di piante come il miglio,

la quinoa, il kamut, ha aperto la strada a un nuovo business privato, generando una

rincorsa sfrenata a nuovi terreni e tecnologie produttive; recentemente, ad esempio, in

India è stata introdotta una nuova qualità di miglio, geneticamente modificata, in modo

da aumentarne la resa in relazione alle malattie che affliggono tali colture [Icrisat,

2006]. Il consumo di kamut a partire dal nuovo millennio è letteralmente esploso nelle

aree più sviluppate, tanto da far adottare a De Cecco, azienda specializzata nella

produzione di pasta, una linea di prodotti unicamente a base di kamut, un tipo di grano

coltivato con metodi biologici e più digeribile [De Frenza, 2011], in relazione alla

crescente domanda dei consumatori. Questa nuova pulsione ha interessato la

produzione, ovviamente, dei paesi meridionali del pianeta, in relazione ai maggiori

guadagni da parte degli investitori, prevalentemente occidentali.

Il caso dell'esplosione della quinoa è il più interessante: appartenente alla famiglia

delle Chenopodiacae, la stessa di spinaci, barbabietole e cavoli ricci, questa pianta si

distingue per i semi che, sottoposti a macinazione, forniscono una farina ricca di amido

che la avvicina alle coltivazioni cerealicole; tradizionalmente localizzata nei territori

andini di Cile, Bolivia, Ecuador, Colombia e Perù, la quinoa, negli ultimi decenni, è

stata soggetto di un boom legato alla produzione e al consumo mondiale [Evans, 2013].

Dagli anni '80 infatti la produzione mondiale di questa pianta è passata da 20 mila

tonnellate annue a 100 mila tonnellate, con Bolivia, Ecuador e Perù come principali

71

paesi produttori, per circa il 90% del totale [Evans, 2013]; ricca di proteine, povera di

grassi e senza glutine, la quinoa ha sempre rappresentato un alimento importante nella

dieta andina, espandendosi all'alba del nuovo millennio in tutto il mondo, tanto da

spingere l'Onu a nominare il 2013 'The year of Quinoa' [Reyes, 2013; UN, 2013].

Nell'ultimo decennio, secondo i dati Fao, il volume produttivo di questo cereale è

cresciuto circa del 100%, a dimostrazione del boom mondiale nel consumo di quinoa

[Reyes, 2013]. Paolo Pedon, manager dell'omonimo gruppo alimentare italiano,

importante azienda nel settore mondiale di confezionamento e distribuzione di legumi e

cereali secchi, afferma:

“Stiamo assistendo ad un boom della richiesta e del consumo di questo prodotto a

livello internazionale grazie alle sue straordinarie proprietà nutrizionali. A distanza di pochi

anni da quando abbiamo introdotto la quinoa in Italia, oggi esportiamo questo cereale in 11

Paesi trasformandolo da prodotto di nicchia a prodotto mass market” [Newsfood, 2013].

72

Come si può osservare, il commercio mondiale della quinoa degli ultimi anni

rappresenta un'evoluzione nelle diete alimentari dei paesi sviluppati, nonché di quelle

dei paesi produttori: in pochi decenni, la quinoa è passata da un cibo integrale locale

delle popolazioni indigene boliviane, peruviane e ecuadoriane, a una commodity

alimentare globale [Evans, 2013]. Il consumo mondiale di quinoa - alimento sempre più

presente nei supermercati dei centri urbani - è passato infatti da circa 0,35 Kg per anno

del 2008 a 1,11 kg per anno del 2012 [Fao, 2014]. L'aumento del consumo mondiale ha

determinato un riflessivo aumento dei prezzi a favore dei produttori, principalmente gli

agricoltori peruviani e boliviani che, tuttavia hanno radicalmente modificato la propria

dieta, a fronte della quasi totale esportazione del cereale, la principale forma di

guadagno locale [Fao, 2014]. I guadagni hanno permesso un'iniziale industrializzazione

dei processi di coltivazione, sulla scia del secondo regime alimentare descritto da

McMichael [2009; 2009b] e Friedman [2009]; allo sviluppo tecnologico però, non è

seguito un miglioramento sociale ed economico, secondo alcuni dovuto al 'saccheggio'

della quinoa dei principali centri mondiali. Le continue esportazioni se da un lato

garantiscono importanti ritorni economici reinvestiti nell'agricoltura, dall'altro piegano

le sorti di queste realtà alla domanda mondiale di quinoa. Secondo altri studiosi, il

disequilibrio tra profitti e arretratezza sociale va ricercato nella cattiva gestione in

materia di politiche interne: Pierre Desrochers, professore dell'Università di Toronto

afferma infatti che "il motivo della fame è spesso sinonimo di cattive politiche, non di

altre persone che vogliono comprare il tuo cibo" [Evans, 2013]; secondo il professore,

storicamente, molti alimenti ora divenuti parte integrante delle diete alimentari, come

patate, pomodori, cereali, iniziarono da dimensioni locali, nicchie produttive, divenendo

in seguito coltivazioni globali.

Che la quinoa sia destinata a divenire un elemento imprescindibile e onnipresente

nelle future diete è troppo presto per stabilirlo: quel che è certo però, è che in atto anche

in questo caso una scissione metabolica ambientale, in termini di riduzione della

biodiversità presente nei territori - circa il 75% dei terreni coltivati in Bolivia e Perù è

destinato alla quinoa - a loro volta interessati da un sensibile processo esaustivo [Fao,

2014]. Il boom dei consumi e l'alta adattabilità di questa pianta a climi e altitudini molto

differenti ha prodotto, in anni recenti, l'introduzione di questa coltivazione anche in

Canada, Usa, Francia, Regno Unito, Italia, Kenya e India [Fao, 2013; Reyes, 2013].

73

Nonostante l'immissione della quinoa negli stati occidentali, la produzione mondiale

resta invariabilmente affidata agli attuali principali produttori, più deboli politicamente,

economicamente e socialmente.

Anche nel caso della quinoa, in altri termini, si possono osservare le stesse relazioni

che hanno interessato centri di consumo e periferie produttive, geograficamente situate

nel Sud del Mondo. Dallo zucchero, al caffè, alla soia - quest'ultima coltivata in maniera

intensiva anche come foraggio per gli animali nei territori disboscati dell'Amazzonia

[Evans, 2013] - all'olio di palma, il Sud del Mondo, in maniera consistente a partire dal

terzo regime alimentare, è stato considerato come 'fattoria del mondo', in grado

garantire la produzione a basso costo dei principali alimenti consumati nel mondo

[McMichael, 2009].

74

6 Biofuels: feeding the world

Il contesto alimentare come si è osservato nel capitolo precedente, è

indissolubilmente legato alle fonti energetiche, alle materie prime e alla forza lavoro:

quel che Moore e altri studiosi definiscono come Four Cheaps è infatti la dimostrazione

di tale legame. L'offerta di cibi economici in altre parole è possibile in virtù dell'accesso

alle fonti energetiche, di una folta manodopera e della presenza di materie prime;

l'assenza di queste variabili, o soltanto di alcune di esse, produce una lievitazione dei

costi produttivi e pertanto una limitazione all'accesso alimentare. Come descrivono (tra i

vari autori citati) Braudel, Foster, Moore e McMichael, storicamente l'aumento dei

prezzi e le crisi economiche venivano limitate o superate grazie a nuove espansioni che

garantivano nuovi accessi a manodopera a basso costo, materie prime e fonti

energetiche, in grado di far tornare sui livelli standard (tenuto conto dell'inflazione,

delle svalutazioni monetarie, ecc..) i prezzi alimentari. Cibo, denaro e risorse

energetiche sono pertanto connesse indissolubilmente [Friedman, 2009]: ciò rende

evidente di come le crisi petrolifere abbiano avuto effetti sull'alimentazione mondiale, e

non solo.

Il petrolio e il suo approvvigionamento a costi contenuti costituisce infatti una delle

voci per lo sviluppo interno, a livello alimentare, lavorativo, socio-culturale ed

economico. In periodi positivi, come nell'immediato dopoguerra, la disponibilità di

petrolio influisce positivamente sullo sviluppo statale; tuttavia esso rappresenta anche

un limite allo sviluppo, nel momento in cui aumentano i costi legati alla produzione

energetica, come la crisi petrolifera del 1973.

Per superare tali problematiche, a partire dalla seconda metà del XX secolo, la

quantità di pozzi petroliferi sparsi nel mondo è aumentata vertiginosamente, portando

all'attuale picco del petrolio. Ciò significa che la disponibilità di petrolio sta

decisamente abbassandosi, fatto che produce un incessante aumento dei prezzi con una

serie di conseguenze che investono tutti gli ambiti sociali e produttivi. A partire dalla

crisi petrolifera degli anni '70 pertanto l'interesse per i biocombustibili è cresciuto

sensibilmente, tanto da farne accrescere i progetti per la produzione di etanolo in

Brasile, e negli Stati Uniti per la coltivazione e produzione di oli di granella [Timilsina

and Shrestha, 2010]. Negli ultimi dieci anni l'emergenza è stata 'risolta' in seguito a

75

nuove procedure di estrazione, che hanno permesso di contenere l'aumento dei prezzi: i

produttori di petrolio hanno infatti sviluppato tecnologie e competenze per frantumare le

rocce in cui all'interno risiede la preziosa risorsa [Foster, 2009]. Il risultato è una melma

fangosa in cui coabitano detriti e petrolio. Tale pratica, sviluppata soltanto negli ultimi

anni, è soprattutto diffusa in Canada, il principale produttore di questa fanghiglia

energetica, e negli Stati Uniti, in cui si è assistito alla progettazione di un oleodotto - il

Keystone XL Pipeline - che dai territori dell'Alberta, in cui l'attività di frantumazione

delle rocce è molto diffusa, arriva fino al Golfo del Messico per essere successivamente

imbarcato e diffuso sui mercati mondiali. Rispetto alla produzione di petrolio grezzo,

questa sabbia energetica è più difficile da trasportare, in quanto corrode maggiormente

le pareti degli oleodotti.

La frantumazione delle rocce non rappresenta l'unico metodo non convenzionale di

reperimento del petrolio: affianco ad esso infatti, l'ultimo decennio ha visto l'aumento

della perforazione delle terre sottomarine, specialmente nel Golfo del Messico, lungo le

coste atlantiche del Canada, quelle offshore brasiliane, nel Golfo di Guinea e nelle

acque della Cina meridionale [Foster, 2009].

Il legame che unisce il regime alimentare attuale e il picco del petrolio si basa su

un'evidente contraddizione, propria dell'economia globale, ossia l'intersezione tra il

picco del petrolio, assieme al costo di altri combustibili, con la lunga catena di

distribuzione alimentare [Weis, 2007], che di fatto genera un aumento dei costi finali.

Lo sviluppo di nuove modalità per l'estrazione di petrolio non rappresenta comunque

le uniche forme di produzione energetica: dall'energia solare a quella eolica, passando

per gas e metano, la produzione di energia ha assunto caratteristiche tra loro molto

diverse. Sulla scia dei movimenti ecologisti e di salvaguardia del pianeta, negli ultimi

venti anni ha preso piede la produzione di biocombustibili (biofuels) a livello mondiale,

sfruttata da lobby e governi col fine di aumentare i ricavi [Latouche, 2007]. Rispetto ai

combustibili fossili i biocombustibili sono potenzialmente energie rinnovabili, a basso

impatto ambientale e con costi di gestione decisamente minori. Lo sviluppo tecnologico

per la produzione di energie rinnovabili come i biofuels ha provocato un aumento dei

fondi statali e delle terre destinate a tali coltivazioni per produrre energie in tutti i

territori del pianeta, dall'America settentrionale all'Europa, dall'India all'Indonesia, dalla

Malaysia al continente africano.

76

La nuova rincorsa alle energie rinnovabili cambia pertanto la relazione di valore tra

cibo, energia e capitale [McMichael, 2009] in quanto il contesto alimentare non è più

limitato al fabbisogno calorico di ciascuna persona ma ingloba anche la produzione di

energia, storicamente un veicolo per il contenimento dei costi alimentari e ora suo

potenziale avversario [McMichael, 2009]. In questo senso la produzione di olio di

palma o di mais non fa distinzione tra il fabbisogno alimentare e quello energetico

[McMichael, 2009b], comportando così una riduzione della quantità alimentare a favore

di una crescita della parte energetica. Questo spostamento produce, e ha prodotto, un

aumento dei prezzi alimentari, specialmente nel biennio 2007-2008, in coincidenza con

la crisi economica e l'aumento del prezzo del petrolio [McMichael, 2009]. In questo

contesto, i prezzi relativi alle coltivazioni destinate ai biocombustibili, nel periodo in

considerazione, sono schizzati alle stelle; la Banca Mondiale afferma che la politica

statunitense ha provocato un aumento del 65% dei prezzi dei prodotti agricoli

[Berthelot, 2008]. Ovviamente la politica di investimenti in biofuels non è limitata agli

Stati Uniti, ma qui più che altrove la 'febbre' per i biocombustibili ha preso piede.

"I prezzi per quelle coltivazioni utilizzate come biofuels sono cresciute molto più

rapidamente di altri prezzi alimentari negli ultimi due anni, con il prezzo della granella

cresciuto del 144%, dell'olio di semi del 157%, mentre solo dell'11% per i prezzi di altri

cibi alimentari [Berthelot, 2008 p. 27].

Il mais, uno dei cerali più diffusi in tutto il mondo è stato interessato nel biennio

2006-2008 da un aumento del prezzo di 2.8 volte [Berthelot, 2008], in relazione al suo

variegato utilizzo, da alimento per le persone, agli animali, al biocombustibile. In questo

senso, la ricerca scientifica ha ampliato considerevolmente gli utilizzi possibili del mais.

Nel contesto alimentare, oltre a servire come principale e, a volte, unico alimento per

l'allevamento di bovini, suini, pollame [McMichael, 2009; Kenner, 2009], e in alcuni

casi di alcune specie di pesci [Kenner, 2009], il mais si presta a diversi usi: farina, vari

tipi di amido, sciroppi e zuccheri, maltodestrine, destrosio, alcolici e la plastica

biodegradabile. Assieme alla soia e l'olio di palma infatti il mais è l'elemento più

presente negli alimenti quotidiani e di provenienza industriale. Il tentativo di

omologazione rappresenta un'evidente volontà di ridurre i costi di gestione e,

contemporaneamente, aumentare i profitti.

77

Non solo il mais, ovviamente, ma anche la soia e la colza hanno avuto un rincaro dei

prezzi in riferimento alla produzione di biocombustibili: negli Stati Uniti i progetti di

biodiesel hanno portato a un aumento delle coltivazioni di soia e dei prezzi di questo

cereale [Berthelot, 2008]. La produzione statunitense di etanolo, derivante dal mais,

rappresenta circa il 30% dell'aumento dei prezzi agricoli mondiale di tale coltivazione

[Berthelot, 2008]. Se si estende tale situazione all'intero pianeta, si può osservare come

questa rincorsa alle energie rinnovabili abbia portato a un aumento della soglia di

povertà e alle guerre per il cibo, generando un cospicuo profitto per le multinazionali o

le aziende produttrici.

Il prelievo dalle riserve di granaglie e l'aumento dei prezzi ha portato a un'espansione

dei territori coltivati, attraverso la deforestazione, il cambiamento delle coltivazioni, la

'colonizzazione' di nuovi territori per mezzo di Fondi Diretti all'Estero (FDI), la

stipulazione di contratti internazionali di partecipazione, ecc.. Il risultato

dell'amplificazione di tali coltivazioni ha portato nel 2007 a raccolti record [McMichael,

2010b], a testimonianza dell'importanza ricoperta da tali granaglie. Nonostante ciò,

come si è visto, i prezzi non sono diminuiti e parallelamente sono saliti anche i profitti

delle principali multinazionali agricole e produttrici di granaglie: nel 2007 i guadagni di

Cargill, ADM, Bunge, derivanti dall'aumento dei prezzi globali sono saliti del 103% e

del 91% per i tre produttori di semenze e pesticidi, Monsanto, Syngenta e Dupont

[McMichael, 2009]. In queste cifre una parte cospicua è riservata dall'impennata dei

biocombustibili: la nascita di un nuovo mercato legato alle fonti rinnovabili è stata

prontamente festeggiata dall'agrobusiness che ha visto in esso una modalità di

accumulazione di capitale. E' proprio questo infatti il punto centrale: "i biocombustibili

costituiscono un altro portale attraverso cui il capitalismo in generale può approfittare

dell'agricoltura" [McMichael, 2010b, p. 6]. La scarsità alimentare, relazionata a raccolti

quantitativamente elevati dà la misura di quanto i biocombustibili abbiano assunto

importanza nelle strategie capitalistiche.

A dimostrazione di ciò non c'è nulla di più evidente della coltivazione delle palme da

olio, specialmente in Indonesia e Malaysia. La coltivazione e il commercio della palma

da olio hanno infatti avuto una considerevole accelerazione in questi ultimi anni in

Malaysia, Indonesia, Brasile, Cina e Stati Uniti, poiché tale pianta, come la soia e il

mais, si presta a una produzione variegata: dai prodotti alimentari, alla cosmetica,

78

all'energia rinnovabile. Rispetto alla soia, al girasole e alla colza, l'olio di palma però si

dimostra superiore in termini di raccolto per ettaro [WWF, 2007]. Di tutta la granella

necessaria per la produzione mondiale di biocombustibili, la soia rappresenta la coltura

più diffusa, con circa 90 milioni di ettari in tutto il mondo; alle spalle di essa si trova la

colza, circa 25 milioni di ettari; la quantità di terreni occupati dalla palma da olio non

supera invece il 10% della soia. Questa disparità si spiega con la differente resa in

termini quantitativi delle colture: se per la soia il rapporto tra ettari coltivati e resa è di

0.38, per la palma da olio è di 3.57 [WWF, 2007]. L'alta produttività di questa coltura

ha permesso di limitare la produzione intensiva mondiale a determinate aree del pianeta,

come Malaysia, Indonesia, Nigeria, Brasile, appartenenti alla stessa fascia climatica

[WWF, 2007]. La 'rincorsa febbrile' verso il business in materia di energia rinnovabile

ha pertanto portato questi paesi ad un'intensificazione della coltivazione del prodotto:

soltanto Malaysia e Indonesia hanno prodotto nel 2009 rispettivamente 540 e 400

milioni di litri di olio di palma [Obidzinski et all, 2010], circa il 90 % dell'intera

produzione mondiale [Brizzo, 2014]. In Indonesia in particolare il trend non solo

sembra continuare, ma sembra anzi intenzionato ad ampliarsi: a partire dal 2006 quando

il governo incentivò la coltivazione e l'uso come biocarburante della palma da olio, le

terre destinate a tale coltivazione aumentarono di 2,37 milioni di ha, comprendendo

un'area totale di 5,9 milioni di ha; molti esperti ritengono inoltre che nel decennio tra il

2010 e il 2020 una quota compresa tra i 3 e i 7 milioni di ha si aggiungeranno a quelli

già presenti [Gingold, 2010]. Nel 2011 le terre destinate a tale coltura sono aumentate di

6,1 milioni di ettari come conseguenza delle politiche agricole indonesiane, interessate

alla produzione di olio di palma, sia per limitare la dipendenza dai combustibili fossili

(nel 2005 il governo indonesiano destinò il 24% del Pil, circa 19,2 miliardi di dollari,

per la fornitura di petrolio e gas), sia per ampliare i profitti della nascente industria

[Obidzinski et all, 2010]. Il passaggio alla produzione di biocombustibili dell'Indonesia

è stato lento e graduale: la crisi del 2008 ha portato alla diminuzione degli investimenti

e molte industrie, tra cui alcune appena sorte, hanno ridotto considerevolmente la

produzione o sospeso ogni attività, diminuendo così le quantità disponibili di olio

grezzo e aumentando i prezzi per unità (nel 2008 è salito a 1410 dollari per tonnellata,

tornando a 1000 dollari nel 2011) [Obidzinski et all, 2010]. Non solo la crisi, ma anche

la caduta dei prezzi del petrolio (diminuito in seguito alle nuove modalità di estrazione,

79

come la frantumazione delle rocce) ha avuto un certo peso nel calo della produzione

dell'olio di palma per fini energetici, rimanendo invece stabile per quanto riguarda la

cosmetica e i prodotti alimentari [Obidzinski et all, 2010].

Al di là dei fisiologici periodi di contrazione e sviluppo, non vi è dubbio che i

biocombustibili abbiano acquisito rilevanza politica ed economica: tale coltivazione

infatti rappresenta una delle voci primarie per l'incremento del prodotto interno di paesi

come Malaysia e Indonesia. Il biocarburante prodotto può essere utilizzato sia per mezzi

di trasporto sia per usi stazionari come il riscaldamento [WWF, 2007]

.

Una produzione così vasta, importante per il mercato interno e fondamentale per le

esportazioni mondiali, ha bisogno di territori da coltivare sempre più vasti: la

risoluzione di questo problema gestionale ovviamente risiede nella deforestazione e

nella liberazione dei terreni da coltivare. Molti di questi territori sono storicamente

coincisi con gli habitat animali, hanno ospitato colture spontanee o sono stati coltivati

per il fabbisogno alimentare locale. La nascita di un'industria così corposa e destinata a

crescere nell'immediato futuro, con l'approvazione dei governi e dell'opinione pubblica,

rappresenta quindi un decisivo cambiamenti in termini ambientali, zoologici e sociali.

La deforestazione rappresenta in questo senso uno strumento molto importante per la

produzione di biocombustibili, specialmente in Indonesia dove le foreste coprono una

parte cospicua del territorio [Obidzinski et all, 2010; WWF, 2007]. Nel territorio

indonesiano sin dagli anni '80 la deforestazione è stata una pratica incessante: tra il 1982

e il 1989 circa 6 milioni di ettari di foresta hanno lasciato il posto alla coltivazione della

palma [Obidzinski, 2010]. Il 'Mega Oil Palm Project' del 2006 rappresenta la

conversione di 1.8 milioni di ettari di foresta di tre parchi nazionali situati sulle isole di

Sumatra e Kalimantan per la coltivazione di palme da olio [Wakker, 2006]. Molto

spesso la liberazione dei territori avviene attraverso gli incendi che assicurano un sicuro

risultato a costi bassi; tali pratiche tuttavia, hanno effetti devastanti sul clima e perdita

della biodiversità [WWF, 2007]: in Indonesia infatti la continua deforestazione ha

portato alla decimazione degli orangutan [Brizzo, 2014] e della tigre di Sumatra

[Obidzinski, 2010]. Gli effetti della deforestazione si osservano anche sull'accessibilità

e fornitura di acqua ai villaggi rurali, direttamente interessati a tali cambiamenti

agroindustriali [Wakker, 2006].

80

Le situazioni indonesiana e malaysiana permettono di comprendere a fondo il legame

che unisce cibo, energia, politica internazionale e colossi privati come le multinazionali:

la congiunzione tra cibo e particolari fonti energetiche rappresenta infatti il carattere

essenziale del regime alimentare attuale, in quanto esplicita il fulcro imprenditoriale di

accumulazione di capitale nel breve e lungo periodo.

La crescita di nuovi settori mercati destinati alla produzione di energie rinnovabili ha

dato l'avvio a una corsa globale alla coltivazione o importazione delle colture designate:

non solo l'olio di palma, ma anche la soia e la canna da zucchero, coltivata

intensivamente soprattutto in Brasile per la produzione di etanolo [WWF, 2007] sono

aumentate esponenzialmente in tutto il mondo.

In Europa, l'opinione pubblica e le politiche agroindustriali hanno visto di buon

occhio l'espansione dei biocombustibili; l'Unione Europea ha infatti sollecitato e

incentivato a più riprese l'utilizzo di biocombustibili. Attualmente le percentuali

ricoperte da queste energie rinnovabili non sono in grado di scalfire l'egemonia

petrolifera, ma sono in costante aumento [WWF, 2007]. Tra i biocombustibili, l'olio di

colza rappresenta la principale fonte energetica, con quasi il 90% del consumo europeo

di biodiesel, essendo questa pianta più adatta ai climi europei, mentre i paesi più

interessati all'adozione di biocarburanti risultano l'Austria, la Svizzera, la Germania e i

Paesi Bassi [WWF, 2007]. L'Unione Europea ha inoltre istituito una piattaforma

gestionale in materia di energie rinnovabili, la European Biofuels Technology Platform

con lo scopo di pianificare strategie di produzione energetica future. Lo sviluppo di

politiche agricole interessate ai biocombustibili di molti paesi membri dell'Unione ha

portato a un'intensificazione dello sviluppo dei biocombustibili di seconda e terza

generazione, abbandonando alcune procedure, come l'estrazione dell'etanolo dalla canna

da zucchero, ritenute - paradossalmente - troppo inquinanti [EBTP, 2014]. Le prime

forme di biocombustibili necessitavano di una quantità spropositata di combustibili

fossili per la loro realizzazione, rendendoli di fatto decisamente inquinanti [McMichael,

2009]. Attualmente infatti, nonostante le politiche nazionali e gli sviluppi scientifici, gli

attuali biocombustibili risultano inquinanti più degli idrocarburi tradizionali: i motivi

non riguardano la combustione finale, bensì il processo e i metodi di produzione, come

la deforestazione, il trasporto degli oli grezzi, la lavorazione e trasformazione in

biocombustibili, la distribuzione finale. Tutte queste tappe inerenti alla produzione di

81

biocombustibili influiscono sulla produzione di gas serra, circa 300 volte più potente del

diossido di carbonio, mediamente prodotto [Cockerill and Martin, 2008]. Come osserva

McMichael [2009], il risultato è pertanto controproducente in termini ambientali e

alimentari: la destinazione di una parte sempre maggiore di terre per i biocombustibili

diminuisce infatti i terreni destinati all'alimentazione, aumentando i prezzi dei prodotti

agricoli e provocando problemi di accessibilità alimentare per una parte sempre più

consistente della popolazione mondiale, argomento discusso nel capitolo successivo.

La diffusione dei biocombustibili ingloba tutti i tipi di trasporto e gli usi stazionari. A

livello di locomozione essi hanno avuto una rapida diffusione anche nel trasporto aereo:

a partire dal 2000, la decisione di adottare i biocombustibili per gli aerei ha portato alla

deforestazione o liberazione di 37 milioni di ettari in Asia, Africa e America Latina. Dal

2011 è stato stabilito che le compagnie aeree devono dotarsi di circa il 50% di

combustibili rinnovabili, in ragione di un abbassamento delle emissioni di CO2 e di un

più facile reperimento [Ross, 2013]. La crescita di India e Cina, oltre che sul piano

politico ed economico, si è osservato anche in relazione ai voli effettuati da e per i due

paesi asiatici; i due paesi pertanto hanno intensificato notevolmente la produzione e

l'importazione di biocombustibili, come d'altronde tutto il resto del mondo, alla ricerca

di una diminuzione dei costi, nascosta dall'idea diffusa di rispetto per l'ambiente [Ross,

2013]. La Renewable Fuel Standard, organo federale statunitense che si occupa della

gestione dei biocombustibili, ha stabilito che nel 2022 la quota mondiale di

biocombustibili dovrà essere di 36 miliardi di galloni: 15 miliardi dall'etanolo prodotto

dalle granelle; 16 miliardi da cellulose come alghe; 1 miliardo dagli oli delle piante e

dai biodiesel animali; 4 miliardi dai denominati 'biofuels avanzati', vale a dire non

prodotti con l'amido delle granelle [Ross, 2013]. L'Unione Europea nel 2011 ha invece

deciso unanimemente il graduale ma costante passaggio per l'aviazione civile ai

biocombustibili, per una quantità nel 2020 di circa 60 miliardi di galloni [Ross, 2013].

L'aumento del traffico aereo, soprattutto quello indo-cinese, e la contemporanea

ricerca ed adozione di biocombustibili ha prodotto un aumento spropositato in termini

di fornitura: l'abbattimento della produzione di gas serra rappresenta una delle sfide

principali dei biofuels e per il trasporto aereo, nell'immediato e prossimo futuro. Ciò

significa che l'industria aerea mondiale necessiterà di circa 13,6 milioni di

biocombustibili al giorno [Ross, 2013].

82

Cifre come queste come possono non incidere sull'aumento dei prezzi alimentari?

Risorse limitate come la disponibilità idrica, i terreni coltivabili se tolti all'agricoltura

non possono non causare un aumento dei prezzi e una riduzione dell'accesso alimentare.

In un rapporto di Barilla Center for Food and Nutritions [2012b]. si legge: "I limiti nella

disponibilità delle risorse naturali con particolare riferimento a input come l'acqua e i

terreni coltivabili, rappresentano un vincolo molto importante alla crescita della capacità

produttiva dell'agricoltura mondiale

Nel 2008 infatti l'aumento dei prezzi alimentari è coinciso, in parte, con un maggiore

utilizzo dei biocombustibili, spingendo le principali compagnie di volo a pubblicizzare

le proprie iniziative sociali e legate all'ambiente. Tra le intenzioni proclamate figurano il

mantenimento della biodiversità, la salvaguardia delle foreste, la promessa di una

diminuzione dei gas inquinanti e la non conflittualità con la produzione alimentare.

Ciononostante, le intenzioni non sembrano trovare conferme nella pratica, anzi: la corsa

sfrenata ai biocombustibili ha prodotto l'installazione di centri produttivi per l'olio di

palma in tutto il mondo, compresa l'Africa, appartenente alla stessa fascia climatica di

Malaysia e Indonesia. Nel continente nero, la corsa ai biofuels è stata particolarmente

feroce nella parte centrale e occidentale, con circa 2,6 milioni di ettari destinati alla

produzione di olio di palma [Ross, 2013]. In Camerun, la statunitense Herakles, società

operante nel business agroindustriale, ha sviluppato un progetto di coltivazione della

palma da olio per circa 73 mila ettari, violando totalmente le leggi camerunensi [Ross,

2013] e richiamando alla memoria le strategie di business descritte da Perkins [2012].

La rincorsa ai biocombustibili ha portato in Mozambico e Senegal all'installazione di 11

compagnie di origine britannica, su un'area di circa 1,6 milioni di ettari [Carrington and

Valentino, 2011].

Nell'intero continente africano, i biocombustibili hanno assunto un peso strategico

per i profitti di colossi privati, producendo in prima battuta una serie di effetti negativi

sull'accessibilità alimentare delle popolazioni nei territori colpiti. Cibo ed energia,

ancora una volta, anziché risolvere i problemi biologici e socioculturali, rappresentano

limiti alla stessa sopravvivenza, giocata sul terreno del capitale. La relazione di valore

legata alla relazione tra natura e capitale, descritta nel capitolo precedente, qui si fa

estrema: nonostante il continuo ed incessante sfruttamento di terreni sempre più

improduttivi, una fetta dei raccolti viene destinata alla produzione di biocarburanti per

83

alimentare un'industria sempre più produttiva. L'idea di una relazione di valore politica

e globale proposta da Araghi [2003] esplicita il cambiamento dei ruoli giocati da cibo ed

energia, da elementi fondamentali per la sopravvivenza a oggetti dell'accumulazione di

capitale privato [Kenner, 2009]. McMichael in tal senso osserva come i progetti di

agrofuel costituiscano l'ultimo feticcio di un'agricoltura convertita da risorsa per la vita

umana a input energetico [2009].

Africa, ma non solo - come terra di conquista per le multinazionali agroalimentari e

industriali: il terzo regime alimentare stabilisce in questo senso una rottura con i

precedenti regimi. Non sono più gli stati a organizzare espansioni, progetti

agroindustriali e controllo dei mercati, ma bensì soggetti privati come le multinazionali,

organismi internazionali e la finanza mondiale.

La tematica legata ai biofuels è pertanto controversa: l'ipotetica sostenibilità

ambientale e la possibile diminuzione dei costi energetici fanno da contraltare a una

biodiversità realmente minacciata [Brizzo, 2014], a un evidente aumento dei prezzi

alimentari, a un invariato livello di inquinamento e a un esagerato aumento dei profitti

privati [McMichael, 2009].

7 Le guerre per il cibo

La penetrazione della relazione di valore tra cibo e capitale a livello ormai globale,

come si è visto produce una serie di effetti, tra loro paralleli e convergenti allo stesso

tempo: a livello ambientale, l'espansione del capitalismo, sin dalle sue origini e in

maniera molto più consistente nella fase attuale, ha prodotto una evidente scissione

metabolica; nei mercati finanziari si è registrata una notevole escalation del potere

multinazionale, dei fondi d'investimento, delle banche e delle multinazionali in

relazione alla produzione alimentare, a partire dalla seconda metà del XX secolo;

l'appropriazione di terre, la nascita di grandi filiere, l'espansione di catene di

distribuzione e di fast-food, sono barriere non tradizionali al quotidiano accesso di cibo,

84

principalmente per le zone periferiche del mondo. Il cibo, chiaramente, rappresenta una

delle risorse fondamentali per la sopravvivenza delle specie, e in questo senso, la

privatizzazione e limitazione, produce, a livello sociale, instabilità, crisi e guerre. La

progressiva limitazione e monopolizzazione di terreni e risorse produce un'altrettanta

progressiva dipendenza dalle imprese private, nazionali, straniere, corporative, in

maniera sempre più netta a partire dal secondo Novecento [Weis, 2007]; tale

dipendenza si manifesta in relazione all'andamento dei mercati finanziari e delle

multinazionali e dei relativi investimenti. In termini concreti, ciò significa che

l'accessibilità alle fonti alimentari è subordinata a scelte extra-territoriali e non più alle

risorse locali da cui attingere direttamente: nel 2007-2008, l'aumento dei prezzi portò a

rivolte in oltre 25 nazioni, specialmente nel Sud, in Africa, nel Sudest asiatico, nelle

Americhe e nei Caraibi [Bush, 2010; McMichael, 2009]. La dipendenza descritta si

manifesta ogniqualvolta grandi gruppi d'investimento s'impossessano di nuovi territori,

vale a dire rimuovendo i contadini, per la produzione di monocolture rivendibili sul

mercato globale, rispetto ai prodotti tradizionali, commerciabili localmente;

l'incorporazione subordina la produzione interna all'esportazione generando in primo

luogo deficit statali, privatizzazioni e in seguito rivolte urbane e nazionali [Via

Campesina, 2008]. Le liberalizzazioni e i trattati commerciali degli anni 80' hanno

generato effetti negativi sui paesi del Sud, i primi interessati nelle variazioni finanziarie

dei prezzi alimentari: "paesi come il Bangladesh non possono comprare il riso di cui

necessitano perché i prezzi sono troppo elevati. Per anni la Banca Mondiale e il FMI

hanno detto ai paesi che un mercato liberalizzato avrebbe fornito il sistema più

efficiente per la produzione e la distribuzione del cibo e oggi i paesi più poveri del

mondo sono forzati nell'intensa guerra dell'offerta tra speculatori, operatori di borsa e

commercianti. [...] In accordo con alcune stime, i fondi d'investimento ora controllano il

50-60% del commercio del grano, il più grande mercato mondiale di genere alimentare"

[GRAIN, 2008; McMichael 2009].

In molte aree del mondo, come in Messico, Bangladesh, Egitto e Mauritania, le

rivolte popolari per il cibo si sono sviluppate proprio a partire dall'aumento dei prezzi

alimentari globali, riducendo drasticamente l'accesso alimentare. L'aumento - quasi a

livello monopolistico - del controllo esercitato dai fondi d'investimento, dalle

corporazioni, con la connivenza di governi autoritari - che beneficiano dello status quo -

85

ha portato infatti al corrispondente crollo delle produzioni agroalimentari locali, con la

degenerazione in disordini, rivolte e conflitti per l'accesso di cibo [Bush, 2010]. Tali

aspetti riguardano un persistente problema che, con la diffusione su scala globale del

neoliberismo, coincidente anche all'apertura dei mercati ex-comunisti [Arrighi, 1999],

ha interessato sempre più aree e popolazioni; le rivolte per il cibo infatti non

appartengono solo all'ultimo decennio storico, ma rappresentano una forma

d'inefficienza costante del sistema espansivo capitalista/neoliberista [Bush, 2010;

McMichael, 2009].

Durante l'evoluzione storica si è sempre assistito a disordini in relazione

all'accessibilità alimentare: dalle rivolte delle isole mediterranee, caraibiche e

latinoamericane in relazione alla produzione di zucchero [Moore, 2009], a quelle del

cotone nelle colonie americane; dalle piantagioni di caffè indiane e dell'America

meridionale di proprietà britannica, a quelle di cacao delle coste africane. Nel corso

della decolonizzazione, la terra ricopriva una parte centrale del sostentamento di molte

popolazioni asiatiche, africane, caraibiche e latinoamericane, generando lotte diffuse in

relazione al crescere dei lucrosi investimenti e della privatizzazione delle corporazioni

straniere [Weis, 2007]; contemporaneamente alle rivoluzioni agricole avvenute in Cina,

Russia e Messico, per una redistribuzione più equa dei terreni, le grandi corporazioni

provvidero ad attuare nuovi processi colonizzatori, in relazione alle fonti energetiche e

alimentari [Shiva, 2010; Weis, 2007], soggiogando intere popolazioni alla logica del

profitto, e alimentando diffusamente focolai di rivolta, dovunque domati con l'uso della

forza. L'uso coercitivo del controllo imposto dalle grandi imprese e dei forti interessi

degli Stati Uniti - ma non solo - portò alla destituzione di diversi governi, con

l'instaurazione di regimi, molto spesso dittatoriali - come in Cile, Bolivia, Indonesia,

solo per citarne alcuni - più conniventi, o decisamente interessati, alle politiche

commerciali ed espansioniste dei paesi più sviluppati, in primis gli Stati Uniti [Weis,

2007]. L'amplificazione dei mercati, delle multinazionali e dei fondi d'investimento,

specialmente del secondo Novecento e del XXI secolo, hanno tuttavia esteso a livello

planetario i disordini sociali derivanti dall'inaccessibilità al cibo [Bush, 2010],

accelerando vertiginosamente il processo espansionistico precedente.

L'aumento dei prezzi, delle esportazioni e di una diffusa inaccessibilità alimentare,

portò nel biennio compreso tra il 2007-2009 una generale rivolta di diversi paesi del

86

Sud: in un periodo di lievitazione dei prezzi alimentari, l'aumento delle tasse destinate ai

piccoli agricoltori, portò nel febbraio del 2008, in Burkina Faso, a una sollevazione

popolare, in diverse zone del paese, concluse con l'intervento delle forze di polizia e con

la richiesta del governo agli Stati Uniti di sussidi di emergenza quantificati in 28 milioni

di dollari per la fornitura di semenze, fertilizzanti, pesticidi e strumentazione agricola

[Bush, 2010]. In Mauritania e Senegal, migliaia di persone manifestarono contro il caro

prezzi degli alimenti; a Dakar, i prodotti europei e il riso tailandese erano più economici

dei prodotti locali, causando una crescita diffusa del costo della vita. Contro questa

situazione di crisi dei prezzi, il Presidente senegalese Wade esortò l'economia interna a

una riduzione della dipendenza dai prodotti esteri, chiedendo inoltre la rimozione della

Fao, colpevole di aver fallito nella gestione della crisi e avendo generato un abisso tra i

compensi dei funzionari e gli oggettivi meriti operativi [Bush, 2010]. Disordini e rivolte

si verificarono anche in Marocco, Tunisia, Yemen, Arabia Saudita: in Egitto la

situazione fu tra le più critiche, con circa 80 milioni al di sotto della soglia di povertà

[Bush, 2010]. L'Egitto è un paese insicuro in termini alimentari, specialmente in seguito

alle liberalizzazioni agricole, che l'hanno fatto divenire il secondo paese al mondo con

l'importazione più alta di grano [Bush, 2010]. Con l'aumento del prezzo del grano -

triplicato durante il 2007 - gli egiziani fecero esperienza di una privazione delle

sovvenzioni statali, vedendo così peggiorare le condizioni di vita già complicate.

I focolai di rivolta si accesero in tutto l'Egitto, ma anche in altre zone del pianeta, in

relazione al legame tra corporazioni, trattati internazionali e popolazioni rurali: in

Messico, ad esempio, la stipulazione del NAFTA (North American Free Trade

Agreement) negli anni 90', portò alla triplicazione dei prezzi del mais, causando le

rivolte della 'tortilla' in tutto il paese [McMichael 2009]. Le rivolte alimentari che

interessarono - e interessano attualmente - paesi come Marocco, Uzbekistan, Senegal

Guinea, Indonesia, Camerun, Burkina Faso, Egitto, Messico, Argentina, ecc...

rappresentano drammaticamente questo stretto legame, sono ampiamente basate sul

contesto urbano e costituiscono reminiscenze delle IMF Riots4 dei lunghi anni 80'

[McMichael, 2009], in cui la de-regolamentazione finanziaria fu una delle cause dei

subbugli. Nel 2006 un nuovo raddoppiamento dei prezzi del mais portò a nuove 'tortillas

4 Rivolte urbane, organizzate in seguito alla de-regolamentazione, liberalizzazione, austerità eprivatizzazione promossa dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) per la ripresa economica degli statipiù avanzati.

87

riots' in tutto il Messico, data l'inaccessibilità alimentare, in particolar modo dei prodotti

derivanti dal mais: in relazione al masi, l'aumento dei prezzi va riferito, non soltanto alla

domanda alimentare, bensì anche a quella necessaria per l'allevamento e a quella

destinata all'energia biocombustibile [McMichael, 2009].

Disparità d'accesso, spreco alimentare, guerre per il cibo sono aspetti evidenti

dell'attuale sistema produttivo, votato al profitto di colossi multinazionali, attraverso la

forza-lavoro sottopagata delle zone periferiche e semiperiferiche.

Le relazioni descritte si manifestano in relazione a qualsiasi risorsa alimentare o

energetica altamente monetizzabile: ciò è tanto più vero se si considera l'accesso alla

fonti idriche - una forma di bene alimentare - mondiali e soprattutto le relative

evoluzioni dei paesi del Sud del mondo. L'acqua è fondamentale per la sopravvivenza e

attorno ad essa si sono sviluppate le prima comunità; in epoche remote, il rapporto

dell'uomo con l'acqua aveva connotazioni sovrannaturali oltre che vitali, a ragione

dell'assoluta importanza di essa per la sopravvivenza. A partire dal secolo scorso

tuttavia, la creazione di una visione monetaristica di tale risorsa, in cui il valore

economico ha la meglio sul valore biologico, sociale e culturale, ha cambiato

drasticamente la possibilità di accesso all'acqua. "Nel 1998, 28 paesi erano afflitti da

problemi idrici o da scarsità d'acqua; secondo le previsioni, entro il 2025 questa cifra

dovrebbe crescere a 56. Il numero di persone che vivono in paesi privi di una quantità

adeguata di acqua salirà, tra il 1990 e il 2025, da 131 milioni di persone a 817 milioni"

[Shiva, 2010].

La proprietà dell'acqua è rimasta a lungo tra le mani delle comunità locali: in tutto il

mondo, il sistema locale garantiva accesso per le popolazioni e sostenibilità e

conservazione delle fonti idriche. Con lo sviluppo degli stati e del capitale, il controllo

delle fonti passò nelle mani di imprenditori e governi, che incentivarono e promossero

nuove espansioni delle frontiere dettate, in larga parte, dall'incorporazione di nuove

risorse alimentari, energetiche e di forza-lavoro [Moore, 2003b; 2013]. "Oggi ci

troviamo di fronte a una crisi planetaria dell'acqua, che minaccia di aggravarsi nel corso

dei prossimi decenni. Il peggioramento della crisi è accompagnato da nuove iniziative

per ridefinire i diritti sull'acqua. L'economia globalizzata sta cambiando la definizione

di acqua, da bene pubblico a proprietà privata, una merce che si può estrarre e

commerciare liberamente" [Shiva, 2010, p. 33].

88

La colonizzazione europea dei territori nordamericani ebbe, tra i vari obiettivi, la

conquista di fiumi, coste e bacini idrici, sia per motivi commerciali sia culturali; nel

Terzo Mondo il controllo governativo fu agevolato dagli enormi prestiti che la Banca

Mondiale, a partire dagli anni 50-60' del secolo scorso, stanziò per progetti idrici [Shiva,

2010]. Tali progetti riguardavano la costruzione di dighe, lo sbarramento di fiumi, la

privatizzazione - con l'intento di migliorarne la qualità - di pozzi e bacini idrici che,

oltre a provocare gravi dissesti ecologici come deforestazione, erosione del terreno e

cambiamento climatico, cambiarono bruscamente l'accesso locale alle fonti d'acqua,

creando le basi per conflitti popolari. Ciò si verificò nella Los Angeles di fine

Ottocento, in seguito al cambiamento del corso dei fiumi che provocò l'esaurimento

delle risorse idriche locali e la nascita di insurrezioni popolari, caratterizzate da attentati

terroristici contro le opere idrauliche (l'acquedotto dell'Owens Calley, la diga Saint

Francis Dam) [Shiva, 2010].

La costruzione di dighe rappresenta il più lucroso metodo d'investimento di governi,

fondi d'investimento e multinazionali. Negli Stati Uniti, l'ente preposto alla costruzione

è l'Army Corps of Engineers, nato nel 1775 e limitato inizialmente ai confini nazionali:

da allora la crescita del gruppo è stata vertiginosa, arrivando a gestire nel 1981 circa

4000 opere pubbliche, tra cui 583 dighe e, attualmente, gestendo circa 150 progetti

idrici mondiali [Shiva, 2010]. Il controllo delle fonti idriche, la costruzione di impianti

di irrigazione (che, semplicemente, deviano il corso dell'acqua da alcune zone ad altre,

invece che 'aumentare il livello delle terre irrigabili o del livello dell'acqua presente') e

di imponenti dighe, costituiscono punti cruciali per l'egemonia corporativa, o più in

generale, per il rinnovamento del potere capitalista, ma creano anche malnutrizione e

guerre: deviare il corso di un fiume significa togliere l'accesso all'acqua di alcune zone -

nella quasi totalità dei casi popolate - per renderlo disponibile in altre zone, con

conseguenti mutamenti ecologici, sociali, demografici ed economici - questi ultimi

appannaggio delle compagnie d'investimento.

I conflitti connessi alle grandi opere idrauliche non riguardano esclusivamente

situazioni statali interne, ma anche i rapporti tra stati, come tra Usa e Messico per la

gestione delle acque del Colorado, o come il Tigri e l'Eufrate, "i maggiori corsi d'acqua

che da migliaia di anni sostengono l'agricoltura in Turchia, Siria e Iraq, [e che] hanno

provocato gravi e pesanti scontri tra i tre paesi" [Shiva, 2010, p. 83]. In Israele, la guerra

89

con i palestinesi è in una certa misura una guerra per l'acqua. Il Giordano, conteso da

Israele, Giordania, Siria, Libano e Cisgiordania, è una fonte indispensabile per

l'agricoltura estensiva di Israele che, nonostante sia attraversata per il 3% del bacino del

fiume, ne sfrutta le risorse idriche per il 60% [Shiva, 2010]. I conflitti iniziarono sin dal

1948, con la costituzione israeliana del National Water Carrier Project, la più grande

opera idraulica della storia d'Israele, che accese tumulti con la Siria, in relazione ai

progetti israeliani di deviazione del corso fluviale.

"La guerra del 1967, che portò all'occupazione israeliana della Cisgiordania e della alture

del Golan, fu in effetti un'occupazione delle risorse di acqua dolce delle alture del Golan,

del lago di Tiberiade, del Giordano e della Cisgiordania. [...] Nel periodo tra il 1967 e il

1982 le acque della Cisgiordania erano controllate dai militari. Oggi sono gestite dalla

compagnia idrica israeliana, la Mekorot, che le integra nella rete idrica israeliana" [Shiva,

2010, p. 86].

L'uso dell'acqua per i palestinesi inoltre è controllato e ristretto dal governo

israeliano, con molte disparità di trattamento in relazione all'accesso di cibo. La

situazione descritta non si limita ai contesti citati, ma riguarda diverse aree del pianeta,

come quelle interessate dal corso del Nilo, dalla gestione del Colorado, del Rio Bravo

tra Messico e Stati Uniti, dall'Indo e dal Gange.

Le rivolte e le guerre popolari, molto spesso urbane, che di tanto in tanto scuotono

l'opinione pubblica dei paesi più sviluppati, come si è visto, hanno sovente origini

alimentari, in termini di aumento dei prezzi, accessibilità, malnutrizione,

privatizzazioni. La crescita del prezzo del mais per paesi come il Messico, o del riso in

Vietnam, Thailandia - ma non in Giappone, in virtù dell'Uruguay Round e del GATT

del 1986 [Friedman, 2009; McMichael, 2009] -, o quello dei prezzi dei prodotti agricoli

interni del Senegal contrapposto a costi molto minori di prodotti stranieri, producono

inevitabilmente subbugli popolari o conflitti armati. Analogamente, anche la

disponibilità di acqua in zone prevalentemente aride come il Medio Oriente, rappresenta

una fonte indispensabile per la sopravvivenza e il suo esaurimento, dettato da motivi

economici, genera guerre, definite superficialmente e semplicisticamente come guerre

di religione o di etnia dai mezzi di comunicazione.

90

Periferie squarciate dall'accessibilità alimentare e molto spesso teatri di rivolte,

guerriglie urbane e disordini; catene di fast food presenti in maniera capillare e

generalizzata; investimenti privati unicamente finalizzati alla massimizzazione del

profitto; continua ricerca di nuove fasce di mercato redditizie, come nel caso dei

biofuels; filiere produttive sempre più lunghe e dominate dai supermercati. E' questo lo

scenario attuale della produzione alimentare mondiale, in cui la catena produttiva ha

come punto d'arrivo il supermercato, principale fonte di approvvigionamento nei grandi

centri urbani mondiali.

91

3 Il consumo di cibo

1 Il mondo dei supermercati

Il regime alimentare attuale, basato sul predominio delle multinazionali e del capitale

finanziario, si caratterizza anche per il fondamentale ruolo giocato dai supermercati

all'interno della catena di distribuzione alimentare mondiale. Se dal lato produttivo si è

potuta osservare una concentrazione di buona parte del cibo mondiale nel Sud del

Mondo, a livello dei consumatori - oltre alle difficoltà di accesso al cibo che sfociano

nel consumo di cibo spazzatura - la quasi totalità del cibo consumato proviene dai

supermercati; la lunga filiera alimentare che parte da campi de-localizzati e culmina

infatti negli scaffali sempre colmi dei centri commerciali. Nei normali supermercati di

tutto il mondo si possono trovare nell'era attuale migliaia di prodotti, dando così

l'impressione di una scelta d'acquisto potenzialmente infinita. Questa tendenza si è

potuta osservare sin dal secondo regime alimentare, relativamente alle zone più ricche

del pianeta; la crescita del potere esercitato da questi soggetti è cresciuta nell'arco

dell'ultimo trentennio, giungendo negli ultimi venti anni anche nei paesi in via di

sviluppo [Reardon and Gulati, 2008], come nei territori africani [Weatherspoon and

Reardon, 2003], dell'America latina e dell'Asia [Reardon et all. 2003], e nel territorio

australiano [Smith, Lawrence and Richards, 2010].

Una parte fondamentale del Terzo regime alimentare che ha aumentato il processo di

incorporazione di nuove terre è proprio il consolidamento della catena produttiva

attraverso una 'rivoluzione dei supermercati' [Reardon et all. 2003; McMichael, 2009b],

in grado di offrire a clienti privilegiati, frutta e verdura fresca e pesce e carne, tutti i

giorni dell'anno. Il regime 'verde e pulito', basato su elementi di freschezza e naturalezza

[Burch and Lawrence, 2009], si è così stabilizzato a livello globale con la spinta dei

supermercati assieme al business privato, alla finanza, ai fondi d'investimento [Burch

and Lawrence, 2009].

92

La presenza di una simile forza commerciale ha nel lungo periodo annichilito la

piccola distribuzione, a partire dalle regioni più sviluppate del pianeta. Attualmente nei

supermercati di tutto il mondo si possono trovare in media circa 70 mila prodotti di

qualsiasi genere [Kenner, 2009]. L'ampia possibilità di scelta tuttavia è solo apparente:

la nascita di multinazionali sempre più grosse ha infatti portato al controllo del mercato

alimentare da parte di poche e potenti aziende multinazionali.

L'aumento dell'influenza del capitale finanziario nel sistema agroalimentare del terzo

regime pertanto ha creato nuove possibilità di guadagno per i fondi d'investimento ed

una lunga situazione benevola per le compagnie agroalimentari, il commercio

internazionale di commodity e le catene di supermercati. Queste ultime ad esempio

stanno cambiando la propria filosofia imprenditoriale, passando da semplici rivenditori,

a centri di accumulazione di capitale [Burch and Lawrence, 2009]. I ripetuti tentativi

andati a buon fine di acquisizione di piccole-medie industrie da parte delle

multinazionali alimentari (incluso la grande distribuzione) hanno portato a

un'esponenziale espansione: dal sistema distributivo, i supermercati hanno infatti esteso

il proprio controllo sulla produzione, sul sistema lavorativo, su quello bancario e

assicurativo. Oltre alla domanda alimentare infatti, i supermercati hanno negli anni

ampliato la propria gamma di prodotti, arrivando persino alla vendita di benzina, alla

creazione di banche e compagnie assicurative [Burch and Lawrence, 2009]. Stando così

le cose, a partire dagli anni '80 l'intera produzione mondiale di cibo ha iniziato a

stringersi sempre più attorno ai soggetti sopra elencati, producendo ovviamente squilibri

in relazione alla produzione e al consumo locale di cibo e diete tradizionali. Il cibo, che

dai centri produttivi, nelle periferie e nel Sud del Mondo, arriva ai consumatori,

attraversa una catena produttiva e distributiva decisamente lunga, che incide

negativamente sugli agricoltori, sul clima, sulla qualità del cibo e sul prezzo [Weber and

Matthews, 2007]. La rivoluzione dei supermercati annulla la stagionalità dei prodotti

che possono essere importati da aree remote rispetto al punto di vendita: ai consumatori

viene così data la possibilità, o l'illusione, di poter disporre costantemente di prodotti

stagionali. La ricerca scientifica, combinata alla distribuzione dei supermercati hanno

apportato più modifiche al sistema alimentare negli ultimi 50 anni che in tutta la storia

umana [Kenner, 2009].

93

I consumi mondiali passano sempre più dalla quantità alimentare disponibile nei

supermercati, e sempre meno dalla piccola distribuzione, aumentando così i profitti di

grandi multinazionali sempre più potenti nel panorama alimentare mondiale, a scapito

appunto degli agricoltori, costretti in molti casi ad abbandonare le campagne per

trasferirsi ai bordi di città sempre più affollate e degradate [McMichael, 2009b].

L'accumulazione per espropriazione descritta da McMichael [2005; 2009], rappresenta

efficacemente la relazione che, a partire dalle liberalizzazioni economiche e finanziarie,

si è instaurata tra gli ingranaggi della filiera, il mondo contadino e le grandi ditte

industriali e distributive e il capitale finanziario. Il consumo di certi o altri cibi, o di

marchi alimentari, condiziona le sorti di filiere alimentari che nella quasi totalità dei casi

sconfinano oltreoceano. il passaggio della governance alimentare verso il capitale

finanziario e i supermercati espone i coltivatori ai rischi del mercato mondiale. La

costante necessità di abbassare o mantenere costanti i prezzi, a fronte di un aumento

produttivo e per orizzonti sempre più ampi, costituisce una barriera insuperabile per le

piccole imprese agricole: il risultato è una de-contadinizzazione dei terreni, con masse

di disoccupati verso i centri urbani, avvantaggiando il business agroalimentare delle

grandi multinazionali [Friedman, 2009; McMichael, 2009, 2009b]

A comprare e commerciare, in condizioni di predominio [Kenner, 2009] dagli

agricoltori sono imprese multinazionali e catene di distribuzione come Monsanto,

Nestlè, Kraft, Coca-Cola, Pepsi, Carrefour, Tesco, Wal-Mart: un dato interessante è ad

esempio la percentuale del trasporto e del commercio di grano, circa il 60%, spartito fra

quattro società: Cargill, Cenex Harvest Satets, ADM e General Mills; l'82%

dell'esportazione di cereali è suddiviso tra Cargill, ADM e Zen Noh. A livello globale,

l'aumento delle vendite delle grandi catene di distribuzione, contemporaneamente alla

crisi finanziaria - che ha interessato ed interessa specialmente le piccole-medie imprese

agricole e non - ha portato alla spartizione del volume globale da parte di una manciata

di competitors: Wal-Mart (USA), Tesco (UK), Ahold (Paesi Bassi), Carrefour (Francia),

Metro AG (Germania) [Meregalli 2003; McMichael 2009; Weatherspoon and Reardon,

2003].

Il numero ridotto di grandi compagnie in grado di dominare ogni passaggio della

catena di produzione agroalimentare significa che queste società possono esercitare una

grossa pressione sia per sostenere i loro prezzi di vendita, sia in senso opposto, per

94

mantenere bassi i prezzi dei prodotti agricoli che acquistano. Il potere esercitato dai

supermercati, con la liberalizzazione dei mercati, si è pertanto ampliato, aggiungendo al

controllo della distribuzione e all'ampliamento dei punti vendita nei centri, la pressione

esercitata sui centri produttivi del Sud: in questo senso la riduzione di soggetti lungo la

catena, inclusi gli agricoltori stessi, costituisce un punto fondamentale per il potere dei

supermercati [McMichael, 2009; Burch and Lawrence, 2009].

La continua ricerca da parte dei consumatori di prodotti freschi, salutari, a prezzi

contenuti e di varia natura, trova infatti nella maestosità dei centri commerciali il suo

naturale soddisfacimento. Carrefour, ad esempio, grazie alla continua espansione dei

propri punti vendita a partire dagli anni 70', è divenuto uno dei principali supermercati a

livello mondiale, operando attivamente in 34 paesi del mondo, con circa 15 mila punti

vendita e 15 mila dipendenti, e con un fatturato di circa 86 miliardi di Euro [Staertzel,

2011]. La possibilità di offrire generi alimentari a prezzi minori rispetto alla piccola

distribuzione locale, nonostante l'origine di essi si perda 'in nessun posto' - food from

nowhere [Bove and Dufour, 2001] - ha garantito nei paesi sviluppati di attirare

un'utenza via via più vasta, analogamente all'accumulazione di capitale [Reardon et all.

2003].

L'aumento dei consumi nei supermercati, a partire dagli anni '80 nei paesi

industrializzati, oltre a un miglioramento del tenore di vita è stato determinato anche

dall'ingresso nel mondo del lavoro delle donne, fatto che ha procurato un cambiamento

degli stili di vita delle famiglie occidentali, a cominciare dai consumi, specialmente nel

contesto delle diete alimentari [Reardon, Timmer and Berdegue, 2004]. La crescita

produttiva e di consumo di alimenti precotti ha interessato nel tempo un numero

crescente di consumatori, in seguito appunto alle modifiche del tessuto sociale avvenuto

nell'ultimo ventennio del XX secolo: oltre ai fast food infatti, il consumo alimentare si è

diretto verso cibi veloci da cucinare, a lunga conservazione, pronto all'uso, assieme a un

costante consumo di prodotti tradizionali. Anche le fasce dei consumatori hanno subito

delle modifiche. Rispetto al passato, adolescenti e single, ad esempio, sono divenuti

un'importante classe di consumatori; al pari di essi, anche i ritmi e i consumi familiari si

sono amplificati e trasformati, mantenendo però la ricerca di qualità, freschezza, bontà,

'naturalezza' del prodotto. Tali caratteristiche sono, secondo Le Heron [1993], Friedman

95

[2009] e Burch [2009] insite nell'attuale regime alimentare, peculiarità ineliminabili dal

contesto di finanza, mercato globale e grande distribuzione.

Se ciò è vero per i paesi sviluppati come dell'America settentrionale e in Europa, a

partire dagli anni '90 e in maniera più consistente nel nuovo millennio, l'espansione dei

supermercati e del capitale finanziario ha raggiunto anche i paesi del Terzo Mondo

[Weatherspoon and Reardon, 2003] e quelli in via di sviluppo come l'Australia [Smith,

Lawrence and Richards, 2010].

L'avvicinarsi alla saturazione dei mercati settentrionali negli anni '90, ha espanso gli

orizzonti capitalisti verso territori fino a quel punto considerati come semplici pedine

dello scacchiere produttivo mondiale, come l'America Latina o la Cina, o il Sudest

Asiatico.

Ciò non significa affatto che l'afflusso economico dei supermercati sia in

diminuzione, anzi; la concentrazione di supermercati è infatti aumentata anche negli

Stati Uniti e nell'Unione Europa, giungendo agli attuali livelli quasi monopolistici. In

Austria, la concentrazione dei principali cinque supermercati (CR5) nel 2006 era circa

del 74,2%, in Belgio del 77%, in Danimarca del 80,7%, in Finlandia del 90%, in Francia

e Germania del 70%, in Irlanda del 81%, in Spagna del 65,2% [Vander Stichele and

Young, 2009]. In questo scenario, soltanto in Italia (35%), Grecia (46,4%), Lettonia

(32,6%), Polonia (21%), Romania (19,2%), Slovacchia (36,4%) i primi cinque

supermercati non superano il 50% dei consumo interni. Tali cifre espongono

inconfutabilmente la massiccia concentrazione dei supermercati all'interno dei territori

nazionali. L'indice Herfindhal-Hirschman permette di comprendere la diffusione

macroscopica dei supermercati in relazione al territorio; quest'indice di concentrazione

si calcola sommando tutti i supermercati presenti sul territorio per ciascuna marca

[Domina, 2009] e ha come valore massimo 10000 che indica situazioni di monopolio e

valore di concentrazione medio-bassa fino a 1000 e medio-alta da 1800. Nel Regno

Unito l'HHI dei primi quattro supermercati (CR4) da 846 nel 2002 è passato a 1309 nel

2007, in Estonia nel 2005 era di circa 1400 punti, mentre in Lituania nel 2005 superava

i 1900 punti [Vander Stichele and Young, 2009].

Queste cifre contribuiscono all'analisi dell'incessante accumulazione di capitale dei

supermercati che a partire dall'ultimo decennio circa del secolo scorso ha inoltre

ampliato i propri interessi nei territori del Sud del Mondo.

96

2 I supermercati nell'America Latina

La saturazione dei principali mercati europei ha portato negli anni '90 alla

'rivoluzione dei supermercati' nei paesi in via di sviluppo come gli stati dell'America

meridionale; in altre parole, la stabilizzazione dei profitti nei mercati europeo,

giapponese e statunitense ha portato a rivedere le strategie, indicando nei paesi in via di

sviluppo la nuova espansione economica. Basti pensare che, negli anni '90, l'apertura

verso il mercato argentino permise a Carrefour di guadagnare il triplo rispetto ai profitti

in terra francese [Reardon, Timmer and Berdegue, 2004]. Tale espansione fu possibile

grazie alle liberalizzazioni del neoliberismo e dei conseguenti Investimenti Diretti

all'Estero (FDI), a partire dal 1994 in Messico, Brasile e Argentina. La centralizzazione

delle catene alimentari a favore dei supermercati permette a questi ultimi di ridurre

sensibilmente i costi, spostandoli sulle industrie agricole e sulle piccole-medie imprese;

l'abbattimento dei costi permette, logicamente, di disporre di maggiori profitti,

riutilizzabili come investimenti per nuovi punti vendita [Reardon, Timmer and

Berdegue, 2004].

L'esplosione dei supermercati nell'America Latina ha guidato lo sviluppo e la crescita

dei vari componenti dei supermercati nel commercio alimentare [Reardon, Timmer and

Berdegue, 2005]. Negli anni '80 i supermercati erano pochi, nazionali e mediamente per

le classi agiate delle grandi città, ma nel decennio successivo l'apporto alle vendite

nazionali del settore alimentare crebbe fino al 20%, arrivando fino al 50-60% negli anni

2000, vicino alle percentuali di Usa e Francia, del 70-80% [Reardon, Timmer and

Berdegue, 2004]. In Brasile si trova la più alta percentuale di vendita al dettaglio

occupata dai supermercati di tutta l'America Latina, seguito da Argentina, Cile, Costa

Rica, Colombia e Messico. Questi paesi costituiscono il traino dello sviluppo

economico dell'America Latina e rappresentano l'85% dell'economia totale

sudamericana, nonché il 75% della popolazione.

A livello di consumo, in America Latina la vendita di prodotti alimentari comprende

quattro gruppi [Reardon and Berdegué, 2002]. Il primo è costituito dalla presenza di

numerosi e piccoli negozi indipendenti, o dai chioschi lungo le strade, in cui è possibile

trovare alimenti specifici come alcuni tipi di pesce o carne, o la maggior dei parte dei

prodotti consumati abitualmente. Nel secondo gruppo rientrano i 'mercati tradizionali' al

97

coperto o nelle piazze, in cui vendita al dettaglio e all'ingrosso si intervallano

costantemente. Il terzo gruppo è composto da piccoli negozi self-service, inseriti nella

catena alimentare internazionale e con prodotti industriali da 'hard discount'. L'ultimo

gruppo è composto dai grandi centri self-service, supermercati e ipermercati, di gran

lunga il più importante con una percentuale del cibo venduto al dettaglio tra il 45% e il

75%, a seconda degli stati. Il Brasile è lo stato con la percentuale di vendita alimentare

dei supermercati più alta dell'America Latina, circa il 75%, seguito dall'Argentina col

57%. Brasile, Argentina, Messico, Costa Rica, Cile e Messico, come detto,

costituiscono i paesi 'guida' del Sud America: infatti, i restanti paesi, oltre a

rappresentare circa il 25% della popolazione sudamericana, costituisce solo il 15%

dell'economia sudamericana; per quanto riguarda i supermercati, in questi stati la

percentuale di food retail dei grandi magazzini è del 20-40%, segno di una distribuzione

alimentare non del tutto inserita nel contesto di produzione e consumo globalizzati.

La tabella qui sotto riassume la percentuale occupata dai supermercati nella vendita

alimentare al dettaglio [Reardon and Berdegué, 2002].

Popolazione in

milioni

Reddito

Pro Capite

% della vendita al

dettaglio dei

supermarket

Supermercati per

milione di persone

Argentina 37 7.5 57 1306Messico 98 5.1 45 1026Cile 15 4.6 50 654Costa Rica 4 3.8 50 221Brasile 170 3.6 75 5258Panama 3 3.3 54 110ElSalvador 6 2.0 36 138Colombia 42 2.0 38 1200Guatemala 11 1.7 35 128Ecuador 13 1.2 n.d. 120Honduras 6 0.9 42 37Nicaragua 5 0.4 n.d. 40

Come si può osservare in Brasile, Argentina, Messico, Colombia e Cile la presenza

dei supermercati è di gran lunga superiore al resto dell'America Latina: nei paesi citati,

accanto all'espansione della grande distribuzione, si è assistito a una drastica

98

diminuzione dei mercati stradali, principalmente di frutta e verdura [Reardon and

Berdegué, 2002].

Tra i vari fattori che hanno portato alla rapida diffusione dei supermercati in America

Latina, almeno tre sono di assoluta importanza: in primo luogo il settore dei

supermercati è di proprietà sempre più straniera, in seguito alle liberalizzazioni

neoliberiste, come gli FDI. I gruppi multinazionali in America del Sud costituiscono

infatti il 70-80% della catena dei primi cinque supermercati: in questo scenario si può

osservare il peso delle multinazionali all'interno della catena produttiva alimentare

mondiale. Wal-Mart, ad esempio, nel 2002 investì circa 600 milioni di dollari per la

costruzione di nuovi punti vendita in Messico, con l'obiettivo di imporsi nel mercato

nazionale. La rapida concentrazione dei supermercati, al posto di chioschi privati,

mercati, e piccoli negozi indipendenti rappresenta il secondo motivo di tale espansione:

in Messico, per la spesa alimentare quotidiana, si calcola che circa il 30% appartenga di

Wal-Mart; percentuali simili si verificano in Costa Rica con l'olandese Ahold e in

Argentina con Carrefour. In terzo luogo i supermercati hanno cessato di essere nicchie

di consumo alimentare esclusivamente destinate alle classi ricche: in Cile, ad esempio,

all'inizio del nuovo millennio si osservava già una ricca concentrazione di supermercati

e ipermercati nel 40% delle piccole e medie città [Reardon and Berdegué, 2002].

L'espansione dei supermercati ha comportato in America Latina, ma anche altrove,

effetti sulla produzione agroalimentare, non solo sul lato dei consumatori: la costante

competizione tra le varie catene per l'acquisizione di clientele sempre più vaste, si

compone di un'incessante ricerca ad abbassare i prezzi alimentari, attraverso

promozioni, fidelizzazioni dei clienti, sconti. In questo modo i prodotti delle piccole

imprese rischiano di venir tagliati fuori dal mercato, o di esser limitati a nicchie e classi

sociali economicamente privilegiate, e in qualche modo attente all'ambiente. Per gli

agricoltori le uniche soluzioni diventano quindi produrre per la catena dei supermercati

[Reardon and Berdegué, 2002], o abbandonare le campagne [McMichael, 2009, 2009b].

La sproporzionata offerta dei supermercati, rispetto a negozi alimentari privati o

indipendenti, rappresenta infatti un avversario insuperabile per i piccoli coltivatori; in

un supermercato vi si possono trovare pomodori provenienti dal Messico, arance del

Sud Africa, vino e uva cilena, gamberi tailandesi, o formaggio della Nuova Zelanda

[Weis, 2007], a prezzi inavvicinabili per l'offerta della piccola distribuzione.

99

Ovviamente la situazione descritta non è limitata all'America Latina: al di là dei

consumatori del Nord del mondo, abituati fin dalla metà del secolo scorso a comprare

nei supermercati prodotti industriali o alimentari fabbricati altrove, il panorama

descritto si è esteso all'intero globo.

3 La situazione cinese

La recente espansione cinese, testimoniato dallo sviluppo industriale, commerciale,

finanziario e politico, oltre a essere materia di dibattito negli ambienti accademici sul

possibile ruolo egemonico, si può osservare anche dall'aumento degli investimenti

all'estero delle compagnie cinese, nonché di una 'supermarketizzazione' per opera delle

principali catene di supermercati. Questa espansione va contestualizzata rispetto alla

rapida ascesa dell'economia e della politica cinese, successivamente alla dittatura

comunista. La Cina infatti costituisce attualmente la sesta economia planetaria con un

PIL di circa 3.2 miliardi di dollari nel 2007 [The Economist, 2008], con una crescita

annua che dal 1989 oscilla dal 3.80% al 14.20% [Trading Economics, 2014; Jones,

2004]. Nel 1994 la Cina contava circa 2500 supermarket, 21000 nel 1998 e 40500 nel

2001; contestualmente, tale espansione ha portato a un aumento della percentuale di

vendita al dettaglio dei supermercati, dallo 0,18% del 1994, al 8,2% del 2001. Tale

trasformazione, in corso nei paesi in via di sviluppo e già avvenuta in quelli avanzati

rappresenta un cambiamento delle tradizionali forme di produzione, distribuzione,

vendita e consumo locali [Gale and Reardon, 2005].

Carrefour, uno dei principali attori di queste trasformazioni socio-economiche, a

partire dal nuovo millennio ha aumentato considerevolmente gli investimenti e i

supermercati nel territorio cinese [Staeltzer, 2011]. Con l'apertura del primo

supermercato a Taiwan nel 1989, il colosso francese ha stabilmente aumentato gli

investimenti nel continente asiatico: nel 1994 è entrato nel mercato malaysiano, mentre

un anno dopo apre il primo store in Cina. L'espansione in Asia continua nel 1996 con

100

l'ingresso nei mercati tailandese, Corea del Sud e Hong Kong, mentre nel 2007 celebra

l'apertura del centesimo supermercato in Cina [Staeltzer, 2011].

Carrefour non è l'unico marchio presente: anche altre catene di supermercati come la

statunitense Wal-Mart, la britannica Tesco e la tedesca Metro sono molto attive

all'interno del mercato cinese e asiatico in generale. Con l'ingresso della Cina nel WTO

del 2001, gli investimenti stranieri sono considerevolmente aumentati, in relazione ai

bassi costi produttivi e all'ampia base demografica. La competizione tra supermercati

per l'espansione e il controllo delle catene produttive è pertanto diventata una costante

anche nello scenario cinese, con i supermercati attenti anche ad altri settori, come quello

tecnologico, una delle forze trainanti l'economia cinese. In questo senso Wal-Mart ha

aumentato negli anni la partecipazione nell'azienda di e-commerce Yihaodian, nata nel

2008; Wal-Mart è passata infatti dall'iniziale 30% [Xu L. Xu Q. and Liu X. 2014]

all'attuale 51%, divenendone così il proprietario [Wal-Mart, 2012]. Grazie a tale

investimento, il colosso statunitense ha così potuto espandere il proprio raggio d'azione

anche nell'e-commerce; in Cina nel 2012, circa 270 milioni di consumatori hanno

acquistato prodotti online, principalmente da Yihaodian, che ha chiuso l'anno con un

fatturato di circa 1.9 miliardi di dollari [Millward, 2014].

L'ingresso di Wal-Mart nel mercato cinese risale al 1996 con il supermercato di Shen

Zhen: da allora il colosso statunitense ha accresciuto il numero di store, diversificando

l'offerta, dai negozi di shopping ai discount [Xu, Xu, and Liu, 2014]. nel febbraio 2013,

Wal-Mart contava circa 390 punti vendita in oltre 150 città cinesi. Le strategie di

marketing dei principali supermercati hanno dovuto subire alcune modifiche: Wal-Mart,

ad esempio, per meglio aderire al tessuto socio-culturale e alimentare cinese ha stabilito

relazioni di cooperazione con oltre ventimila fornitori, con il 95% dei prodotti venduti

di estrazione locale. La politica interna di Wal-Mart China inoltre, si caratterizza per

una forte attenzione allo sviluppo e alla formazione di impiegate e personale nazionali:

Wal-Mart China infatti è composto al 99.9% da personale cinese, dai General Manager

ai dipendenti, con una presenza femminile del 43%. Tale scelta rappresenta l'intenzione

di mantenere un certo rapporto con i lavoratori locali [Xu, Xu and Liu, 2014]. A livello

dei consumatori le strategie di Wal-Mart riguardano in primo luogo la possibilità di

offrire una gamma il più ampia possibile di prodotti, a prezzi contenuti, possibile grazie

all'instaurazione di relazioni con i fornitori, superando così i vari passaggi intermedi tra

101

produzione e vendita che determinano una lievitazione dei costi finali, a carico dei

consumatori [Xu, Xu and Liu, 2014]. I rapporti con i fornitori risultano pertanto

essenziali per Wal-Mart, più che per altri marchi, per la scelta di non passare da

intermediari. Tale gestione, assieme alla vendita online, ha permesso a Wal-Mart di

comprimere sensibilmente i costi, riuscendo così nell'intento di mantenere bassi i prezzi

per i consumatori.

L'ingresso di Carrefour nel mercato cinese risale al 1995, un anno precedente a

quello di Wal-Mart è di un anno precedente, nel 1995 con gli ipermercati di Shangai e

Pechino. Per più di un decennio il marchio francese ha dominato il mercato della grande

distribuzione, venendo eletto nel 2004 dai media cinesi come la 'più influente impresa in

Cina' [Xu, Xu and Liu, 2014]. La politica di Carrefour è sempre stata quella di

assicurare i principali alimenti a prezzi bassi, in grado di attrarre una parte

considerevole dei consumi alimentari di massa. In questo modo le scelte di Carrefour

riguardano, in Cina, la vendita di prodotti locali riducendo così i costi di distribuzione e

di trasporto: circa il 95% dei prodotti venduti nei circa 15 mila punti vendita risulta

infatti essere di origine locale [Staeltzer, 2011]. Un altro metodo per il mantenimento

dei prezzi è stato quello di introdurre prodotti con il proprio marchio, che garantiscono

un cospicuo ritorno di profitti [Staeltzer, 2011; Xu, Xu and Liu, 2014]. La vendita di

prodotti monomarca è stata infatti introdotta per primo da Carrefour e in seguito

adottata da quasi tutte le altre catene di supermercati: i private label permettono infatti

di contrarre i costi di produzione e di distribuzione, generando così un successivo taglio

dei prezzi finali per i consumatori. Per la scelta di posizionamento dei supermercati

Carrefour ha deciso di insediare i propri punti vendita nelle aree di maggior densità

demografica, rappresentando i consumi quotidiani delle persone, in primis nelle aree

metropolitane. All'interno delle grandi città, circa 250 con più di un milione di abitanti

la competizione tra supermercati non si limita a Carrefour e Wal-Mart; oltre ai vari

negozi controllati direttamente da questi colossi (Champion, Dia, Gs, Ed, Minipreço,

ecc...), anche Tesco, la terza catena di supermercati più grande al mondo, è entrata nel

business cinese [Witthoeft, 2008]. Nel 2004, dopo anni di analisi del mercato cinese,

Tesco ha acquisito il 50% delle quote di Ting Hsin, una catena di supermercati

taiwanese, portando le proprie quote al 90% nel 2006 [Tesco PLC, 2008]. Da allora,

Tesco ha introdotto nel territorio cinese 58 ipermercati e 4 Tesco Express lungo la costa

102

orientale dello stato, progettando per i prossimi anni l'introduzione di altri punti vendita,

principalmente nelle grandi città come Shangai, Pechino e Shenzhen/Guangzhou

[Witthoeft, 2008].

Al di là dei marchi e delle peculiarità di ciascuna catena, è indubbio che anche in

Cina come in America Latina è in atto una supermarketizzazione della produzione e del

consumo alimentare, già attiva dalla seconda metà degli anni '90, ma in maniera ancor

più evidente a partire dall'ingresso nel WTO nel 2001 e con la conseguente

concentrazione degli Investimenti Diretti all'Estero (FDI). Questa tendenza, osservabile

in tutto il mondo, si intensifica in relazione alla proliferazione dei prodotti con il

marchio dei supermercati, che impongono un aumento dei controlli all'interno della

filiera dominata dal supermercato stesso. Il varo di queste linee produttive ha permesso

ai supermercati da un lato di contenere i costi, dall'altro di aumentare i profitti. In questo

senso il supermercato non ricopre solo le funzioni di produzione e trasporto, ma anche

di consumo, presentandosi ai consumatori come un'autorità in termini di sicurezza e

qualità alimentare, parametri fondamentali per le preferenze e le scelte dei consumatori

[Burch and Lawrence, 2005].

4 La crescita dei supermercati in Africa

L'urbanizzazione massiccia costituisce uno dei punti di forza per l'espansione dei

supermercati: nelle regioni più sviluppate del pianeta ciò si è verificato a metà del

secondo Novecento, parallelamente all'aumento della produzione alimentare e dei salari.

La rapida ascesa dei supermercati in Africa è stata possibile, anche qui,

dall'urbanizzazione e dall'ascesa della classe media, in paesi come Kenya e Sud Africa,

ma le dinamiche espansive vanno ben al di là di queste variabili: col passare degli anni

infatti le varie catene distributive come Carrefour hanno diversificato i propri punti

vendita, dai discount agli ipermercati di lusso, con l'intento di attrarre (potenzialmente)

l'utenza totale. Carrefour, ad esempio, ha suddiviso i propri punti vendita in:

ipermercati, supermercati, hard discount stores, convenience stores, Cash and Carry ed

103

E-commerce [Staertzel, 2011]. In Africa, l'adozione di tali strategie ha portato alla

nascita di punti vendita nelle periferie delle megalopoli e delle città africane, lontani dai

lussuosi centri commerciali occidentali, e più simili a discount, per le grandi masse

urbane [Weatherspoon and Reardon, 2003].

L'urbanizzazione non è l'unico fattore influente nella dinamica espansiva dei

supermercati: dal lato economico e politico, la rapida ascesa è stata agevolata dai

Investimenti Diretti all'Estero, una forma di internazionalizzazione delle imprese,

favorevoli soprattutto alle multinazionali 'settentrionali' che amplificarono così i propri

investimenti nelle regioni africane. E' stato così in Sud Africa e in Kenya, in seconda

battuta in Zimbabwe, Zambia, Namibia, Botswana, Swaziland e recentemente in Nigeria

e nella Repubblica Democratica del Congo [Weatherspoon and Reardon, 2003].

In Sud Africa, la vendita di cibo è divisa tra quella formale e quella informale

(ambulanti, piccole botteghe), quest'ultima confinata nelle baraccopoli delle città. A

livello di vendita formale, si calcola che in Sud Africa ci siano circa 70 mila negozi tra

supermercati e ipermercati (2%, con il controllo di più del 55% del settore alimentare

formale), discount (5% , con circa il 10% del commercio formale), piccoli negozi

(25%), self service (62% per circa il 19% del volume di affari) [Weatherspoon and

Reardon, 2003]. Come si può osservare, la grande distribuzione detiene più della metà

del giro di affari legato al cibo, con 39.5 supermercati per ogni milione di persone, in un

paese con 43 milioni di persone e un reddito per persona di circa 3 mila dollari al mese

ma fortemente diseguale, con circa il 35% della popolazione con un guadagno inferiore

ai 2 euro al giorno e circa l'11% che guadagna meno di 1 euro [Weatherspoon and

Reardon, 2003]. Nelle stime fatte sul finire del XX secolo, si prospettò una crescita del

volume di affari nella catena alimentare formale superiore ai 6 miliardi di dollari nel

2002, una percentuale di crescita superiore persino, nelle previsioni, a quella del Brasile

e dell'Argentina negli anni '90 [Reardon and Berdegué, 2002].

Diffusisi negli anni '90 ma esplosi soltanto a partire dall'ultimo decennio, il settore

dei supermercati sudafricano si è consolidato attorno a quattro competitors principali:

Shoprite/Checkers, Pick' N' Pay, Spar e Woolwoths. I primi due rappresentano circa

l'80% del traffico totale, con gli ultimi due a spartirsi il restante 20%; alcuni di questi,

come Pick' N' Pay (PnP) hanno inoltre installato, lungo le vie di trasporto e nelle zone

più povere del paese, una serie di minimarket economici, discount, e negozi in

104

franchising, caratterizzati da merci non selezionate a prezzi bassi, garantendo in questo

modo un ulteriore aumento dei profitti [Weatherspoon and Reardon, 2003].

Shoprite rappresenta il più grande rivenditore alimentare del Sud Africa: nato nel

1979, con 8 punti vendita e con un valore economico di circa 10 milioni di rand (circa

700 mila euro), attualmente serve più di 39 milioni di clienti, con un fatturato di circa 22

miliardi di rand (circa 1 miliardo e mezzo di euro). L'azienda dispone di 400

supermercati Shoprite, 180 supermercati Checkers, 31 ipermercati, 266 'U Save', 255

OK forniture, 23 OK Express, 45 negozi di casalinghi e 124 fast-food 'Hungry Lion'

[Shoprite, 2014]. La forza espansiva del gruppo si può osservare anche al di fuori dei

confini nazionali: Shoprite infatti ha introdotto i propri punti vendita in Ghana, Nigeria,

Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Angola, Zambia, Namibia, Botswana,

Malawi, Mozambico e Madagascar [Shoprite, 2014], grazie anche ai meccanismi

d'Investimento Diretto all'Estero (FDI) [Weatherspoon and Reardon, 2003].

Il secondo colosso della distribuzione sudafricana è Pick' N' Pay, in costante

competizione con Shoprite per i mercati africani e con Metcash e Woolworths nel

mercato australiano [Weatherspoon and Reardon, 2003]. Nato nel 1968 e con 140 punti

vendita nel 1993, nel 2003 contava 342 supermercati in Sud Africa, 471 nel resto del

continente e 70 in Australia, con un fatturato circa di 18,8 miliardi di rand (circa 1

miliardo e 300 mila euro) [Weatherspoon and Reardon, 2003]. Attualmente l'azienda è

composta da circa 10 mila dipendenti nei vari punti vendita sparsi per il mondo, con un

volume di affari di circa 50 miliardi di rand. In Sud Africa PnP ha adottato numerose

strategie di franchising: nel 2003 la catena di supermercati possedeva 88 'Family

Franchise Supermarkets' e 94 'Score Supermarket'. Il sistema del franchising

rappresenta una modalità efficace per l'accumulazione di capitale, in quanto permette di

ampliare in maniera capillare il proprio raggio d'azione su territori sempre più vasti.

Shoprite e Pick' N' Pay tuttavia non sono gli unici supermercati nel contesto africano:

accanto ad essi infatti un ruolo importante è occupato da Spar, catena di supermercati di

origine olandese ma attiva in molti paesi del mondo, e nel continente africano in Sud

Africa, Namibia, Mozambico e Botswana. Spar è presente in Sud Africa sin dal 1962, e

come Shoprite e PnP anch'essa presenta una vasta gamma di supermercati: 305

SuperSpar, 432 Spar, 136 KwikSpar, 28 SaveMor, 582 Tops, 298 Build it, 36 farmacie,

sparse per lo stato africano [Spar, 2013]. Accanto a Spar, Metro e Woolworths si

105

spartiscono la fetta restante del volume di affari attorno alla distribuzione alimentare

sudafricana.

Al pari del Sud Africa anche il Kenya vive la stessa situazione, con una

concentrazione di supermercati soprattutto a Nairobi, città con circa 2,5 milioni di

abitanti e 34 supermercati, 10 ipermercati e centinaia di piccoli negozi e supermercati

indipendenti [Weatherspoon and Reardon, 2003]. Anche qui, come in Sud Africa, i

grandi marchi hanno iniziato a introdurre punti vendita come i discount all'interno delle

periferie delle città, con generi alimentari di scarsa qualità ed economici, per i lavoratori

con salari minimi o insufficienti. I principali supermercati kenioti sono: Uchumi,

Nakumatt, Tusker Mattressess e Ukwala Group, oltre alle straniere Metro Cash e

Wollsworths: il rapido sviluppo di questi gruppi commerciali ha portato a successive

espansioni oltre i confini statali, come Uchimi e Nakumatt in Tanzania ed Uganda

[Weatherspoon and Reardon, 2003]. La situazione descritta si verifica anche in

Tanzania, in Nigeria, nella Repubblica Democratica del Congo e in altri stati africani,

con le medesime strategie di espansione e accumulazione di capitale, a scapito del

settore agricolo locale.

L'urbanizzazione, ha cambiato drasticamente la filiera e la produzione degli

agricoltori locali, sulla scia di quanto descritto da Braudel per le città del XV secolo

[1982, I, pp. 450-474]. All'interno di questo fenomeno sociale, l'introduzione e lo

sviluppo dei supermercati ha apportato drastici cambiamenti per la produzione agricola

e per la filiera: l'abbandono delle terre, l'aumento della concentrazione centri

commerciali e il passaggio da piccoli mercati rionali, con prodotti locali venduti

all'ingrosso e al dettaglio, a supermercati grandi e centralizzati, hanno prodotto, e

tutt'ora producono, un significativo cambiamento sia dal lato produttivo, sia dei

consumatori: a livello produttivo, la crescita dei supermercati ha portato a un parallelo

sviluppo di filiere controllate dai supermercati, e destinate unicamente ad essi. Accanto

a questa crescita si è assistito anche a quella degli intermediari come i grossisti,

impegnati a rifornire costantemente i supermercati e, pertanto, anch'essi alla ricerca dei

propri fornitori [Weatherspoon and Reardon, 2003].

Il settore agricolo locale è quindi divenuto negli ultimi 30 anni non una fonte di

sostentamento diretta e nazionale, ma il campo di battaglia per l'accumulazione di

profitto di una serie, sempre più ristretto, di lobby alimentari, fondi d'investimento,

106

banche, organizzazioni internazionali, e industrie energetiche [McMichael, 2009b]. E' in

questo senso che il concetto di regime alimentare non può essere limitato alla semplice

acquisizione di cibo, ma riguarda la dimensione storica, sociale, culturale, economica e

politica, oltreché alimentare.

Anche in Sud Africa, supermercati come Shoprite e PnP hanno dato vita a filiere

private: Shoprite, ad esempio, nel 2003 contava 360 Freshmark, centri di distribuzione,

stoccaggio alimentare e di vendita all'ingrosso, in Sud Africa, oltre ad altri Freshmark

nel continente africano; un centro di questo tipo serve infatti sia come fornitore dei

supermercati del paese, sia come venditore attorno alla propria area [Weatherspoon and

Reardon, 2003]. L'aumento di centri di distribuzione collocati in molti paesi africani ha

causato un drastico mutamento della produzione interna: Freshmark infatti lavora

attivamente con più di 450 agricoltori di grande-media grandezza [Shoprite, 2014b], con

la maggior parte dei raccolti destinata all'esportazione, principalmente verso l'Europa

[Weatherspoon and Reardon, 2003]. Il braccio distributivo e di reperimento di frutta e

verdura del gruppo Shoprite collabora con gli agricoltori di 11 paesi africani, con un

volume di frutta e verdura di circa 350 mila tonnellate nell'ultimo anno [Shoprite,

2014b]. Se da un lato Freshmark costituisce un apparato indipendente del gruppo,

dall'altro esso garantisce all'interno di Shoprite un importante centro distributivo da cui

attingere, un 'Fornitore Preferito' anche per altri gruppi di supermercati, come Carrefour,

Tesco e Wal-Mart in altre regioni [Weatherspoon and Reardon, 2003]. Il trascorrere del

tempo ha visto Freshmark, ma non solo, ampliare considerevolmente il proprio giro di

affari, arrivando a inglobare non solo le grandi e medie aziende agricole, ma anche i

piccoli agricoltori, organizzati con metodologie rudimentali e di sussistenza

[Weatherspoon and Reardon, 2003].

107

5 Accessibilità e fast food

Il settore alimentare è quello dove meglio si può osservare la tendenza

all'accumulazione di capitale, con un aumento della produzione di cibi economici, senza

una reale rivoluzione agricola [Moore, 2010b]; ciononostante le stime ufficiali (tra cui

quelle Fao), indicano circa un miliardo di persone che non ha accesso al cibo e il

numero non accenna alla diminuzione; anzi, sempre più persone vivono al di sotto della

povertà, quantificata in un dollaro al giorno [Weis, 2007].

Anzi, l'aumento dei prezzi - determinato da altri fattori come l'aumento dei terreni

destinati alle coltivazioni di biocombustibile [McMichael 2009], impennata dei

combustibili fossili [Foster 2009], ma non solo - rappresenta un trend costante,

specialmente in relazione alla crisi finanziaria del 2007-2008 [McMichael 2009].

I rapporti Fao del 2012 sulla disponibilità mondiale di cibo e sulla sua accessibilità

dichiarano che nel mondo circa 900 milioni di persone vivono in condizioni di

malnutrizione cronica [Fao, 2012], nonostante nel mondo venga prodotta una quantità di

cibo necessaria a sfamare una popolazione di dodici miliardi [Corriere della Sera, 2013].

Considerando per un momento i dati puramente numerici, la maggioranza delle persone

che soffrono la fame - circa 852 milioni - vive nei paesi in via di sviluppo, e rappresenta

il 15% della loro popolazione complessiva, mentre i restanti 16 milioni vivono nei paesi

sviluppati [Fao, 2012]. Indagini recenti stabiliscono in questo senso che la popolazione

mondiale necessiterà di una produzione maggiore del 70-100% attuale [Godfray, 2010,

Latouche, 2007].

L'accessibilità al cibo richiede una risposta in tempi rapidi, viste le previsioni future

che parlano di una popolazione mondiale di circa 9 miliardi nel 2050, la maggior parte

dei quali nei grandi centri urbani; secondo stime recenti si calcola che nel mondo una

persona su sette non abbia accesso alle risorse alimentari: tale accesso, nella quasi

totalità dei casi, non va considerato come assenza totale di cibo, o come

rappresentazione di un territorio particolarmente inospitale; al contrario, esso va

considerato come inaccessibilità economica, in quanto il cibo si trova sugli scaffali dei

supermercati, sempre più presenti anche nelle aree povere del pianeta [Weatherspoon e

Reardon, 2003]. La sostituzione del sostentamento locale con l'introduzione di catene di

supermercati (sia nei paesi sviluppati, sia in quelli in via di sviluppo) costituisce una

108

barriera economica al cibo: se da un lato l'enorme disponibilità alimentare dei

supermercati sembra facilitare le modalità di acquisto, di scelta e di conservazione,

dall'altro l'alta barriera economica alle fonti alimentari (in precedenza coltivate dagli

indigeni per sé stessi) rappresenta una voce molto importante per l'analisi delle stime di

indigenti e malnutriti. In passato, l'ingrossamento dei mercati e la disponibilità di

alimenti provenienti dal commercio (e dalle colonie) ha prodotto un generale

abbassamento dei prezzi a livello globale contribuendo a un maggiore accesso al cibo,

specialmente in relazione al consumo di grano, riso, mais, i principali elementi presenti

nelle macrodiete alimentari. La permeazione del capitale nel settore agroalimentare -

tradizionalmente più locale che internazionale - nel corso dell'ultimo secolo ha fatto sì

che le oscillazioni, o le crisi, di altri settori avessero un effetto evidente sui prezzi

alimentari: fu così infatti durante la crisi petrolifera degli anni 70' e per quella del 2008

[Godfray 2010], finanziaria e, sotto alcuni aspetti egemonica [Muzaffar 2012].

Solitamente l'espansione demografica e di domanda alimentare - generalmente in

seguito a guerre, epidemie o espansioni commerciali e territoriali - coincideva con un

aumento produttivo in seguito a rivoluzioni agricole: in tempi più recenti, ciò si è

verificato fino alla Rivoluzione Verde degli anni 70', in cui l'introduzione e aumento di

biotecnologie e prodotti chimici, assieme a un incessante privatizzazione del cibo e

della produzione alimentare [McMichael 2009], in primis da parte di multinazionali e

catene di distribuzione, ha prodotto un forte squilibrio nel consueto approvvigionamento

alimentare di molte popolazioni [Shiva 2010], non contribuendo all'aumento produttivo,

alla contrazione dei prezzi e alla sostenibilità ambientale ipotizzate alla vigilia [Moore,

2010]. L'ingrossamento delle catene di distribuzione che operano nei territori delle

periferie, così come altre multinazionali operanti nel settore agroalimentare hanno

prodotto una profonda spaccatura in termini di accessibilità alle fonti alimentari; in

seguito alla decolonizzazione degli anni 50', l'apertura dei nuovi mercati e la

deregulation degli anni 80' la proliferazione delle multinazionali ha rimosso i piccoli

agricoltori e le coltivazioni inerenti, influendo (molto spesso negativamente) sui sistemi

di sostentamento. L'espansionismo delle multinazionali e di monocolture, coltivate

attraverso l'ampio impiego di prodotti chimici, ha infatti imposto cambiamenti drastici

nel lavoro e nella produzione locale; la commistione tra andamento finanziario dei

prodotti agricoli e di altre risorse - come il petrolio -, all'interno di un mercato sempre

109

più globale e principalmente controllato da multinazionali e fondi d'investimento, ha

prodotto una agflation - una crescita dei prezzi delle principali commodity - in

corrispondenza di crisi economiche ed energetiche; in termini concreti, quest'inflazione

ha prodotto un raddoppiamento del prezzo del mais, del 70% per il riso e del 50% per il

grano nel 2007. [McMichael, 2009]. Dalla fine del 2007, l'indice dei prezzi alimentari,

secondo The Economist ha toccato il punto più alto dal 1845, con un aumento dei prezzi

del 75%, soltanto dal 2005 [McMichael, 2009]. L'aumento dei prezzi dei principali

generi alimentari come si è visto è legato saldamente agli andamenti di mercato nella

sua interezza: il picco dei prezzi del petrolio in questo senso ha pertanto immediate

conseguenze anche sull'accesso al cibo, divenuto più costoso e pertanto, non per tutti. In

termini numerici, nel biennio in questione, le persone al di sotto della sogna di

malnutrizione sono salite al 10% del totale [McMichael, 2009], cifra ancora in crescita

in relazione all'instabilità dei mercati e geopolitica globale; parallelamente sono

cresciuti i profitti delle industrie di semenze, di pesticidi, di distribuzione [Friedman,

2009; McMichael 2009] e delle catene alimentari di fast-food.

Relativamente all'accesso alimentare, un posto centrale è infatti occupato dalle catene

di fast-food che offrono cibo qualitativamente scadente a prezzi, nella maggior parte dei

casi, stracciati; l'economicità rappresenta uno dei principali vettori di scelta, per molte

situazioni in cui l'accesso ad altre fonti risulta impossibile o altamente proibitivo. In

questo senso, basta considerare la privatizzazione delle fonti idriche da parte di grandi

colossi della distribuzione come Cola Cola, Pepsi, Nestlè: in molti casi, come India e

Messico, l'espansione di tali soggetti - attraverso la privatizzazione dei pozzi, dei

terreni, lo sbarramento dei fiumi e la costruzione di dighe, ecc... - ha portato alla

dipendenza delle popolazioni locali dall'acqua in bottiglia [Shiva, 2010]. Il cibo non fa

differenza: la conquista dei principali mercati (USA, Europa, Giappone) prima, e

l'espansione verso le frontiere dei paesi in via di sviluppo e del Terzo Mondo poi - in

piena analogia con l'andamento capitalista di espansione delle frontiere [Arrighi, 1999;

Braudel, 1993; Foster, 2011; Katz, 1993; Moore, 2000, 2003, 2003b, 2013; Wallerstein

1976] - ha garantito alle catene di fast-food un progressivo dominio e indirizzamento

del consumo quotidiano di cibo in tutto il pianeta; secondo alcuni studi coordinati da

Roberto De Vogli, del Dipartimento di Salute Pubblica della California e pubblicati sul

110

Bulletin of The World Health Organization, l'indice delle frequentazioni dei fast-food5 è

aumentato dovunque, anche se con margini differenti: i paesi in cui si è registrato un

netto aumento sono il Canada (+16,6%), Australia (+14,7%), Irlanda (+12,3%), Nuova

Zelanda (+10,1%), mentre quelli in cui la crescita si è dimostrata minore sono l'Italia

(+1,5%), Olanda (+1,8%), Grecia (+1,9%) e Belgio (+2,1%). [Codignola, 2014]. Tale

studio parte da una premessa: le diete di intere popolazioni nazionali sono drasticamente

cambiate negli ultimi anni in risposta alla distribuzione di nuove categorie alimentari;

l'insorgere di grandi gruppi multinazionali del cibo ha portato ad ottimizzare i costi

produttivi, aumentando l'offerta di cibi ricchi di calorie, ma spesso deprecabili dal punti

di vista qualitativo e nutrizionale. [WHO, 2014]. Come dimostrano i dati, le grandi

catene di fast-food si stanno imponendo sulla scena alimentare mondiale, determinando

cambiamenti nelle diete e negli stili alimentari, specialmente tra gli adolescenti, ma non

solo, con evidenti rischi salutari [Powell, 2009].

L'aumento generale del consumo quotidiano di 'cibo spazzatura' (junk food) risulta,

nel XXI secolo, una pratica costante sempre più estesa: da circa vent'anni ormai l'ascesa

dei fast-food ha portato le principali catene alla creazione di punti vendita in tutto il

globo, con McDonald's, Pizza Hut, Burger King, Kfc e Subway nelle posizioni di

leadership. Per ottenere un'utenza sempre più vasta, McDonald's ha recentemente ideato

una nuova linea di prodotti, modellata in relazione al contesto di riferimento: in Italia,

ad esempio, gli hamburger sono disponibili con olio d'oliva, parmigiano e 'pancetta', al

posto del 'bacon'; in Australia viene servita con del pane la diffusa Vegemite, una crema

spalmabile, tradizionalmente diffusa a livello nazionale e commercializzata in maniera

predominante da Kraft; nei paesi dove vigono dottrine religiose che vietano il consumo

di carne bovina, McDonald's ha introdotto a base di pollo e pesce e pane non lievitato;

nei paesi asiatici le salse per i prodotti a base di pollo sono relazionate alle varie presenti

in quei territori. Anche la macellazione delle carni subisce trattamenti diversi a seconda

delle zone: in Indonesia e in Pakistan le macellazioni sono infatti certificate halal

[Daszkowski, 2010].

McDonald's come detto, non è l'unica grande catena; in Cina e Giappone ad esempio,

il principale fast-food di cultura americana risulta essere Kfc, in relazione al tradizionale

consumo di pollo, ampiamente presente nelle cucine asiatiche, rispetto alla carne bovina

5 L'indagine fa riferimento a un campione di 25 paesi.

111

[Daszkowski, 2010, Weis, 2007]. Anche Subway ha ampliato considerevolmente le aree

d'espansione e i profitti derivanti, raggiungendo il Nord America, l'Arabia Saudita e

l'India, così come le altre catene di fast-food, in un mercato sempre più ampio e

competitivo.

Il caso italiano di McDonald's, ma non solo, rappresenta il tentativo di rispondere ad

alcune fattori: l'aumento di una clientela che, in relazione alla crisi ha iniziato a

selezionare attentamente i prodotti e il consumo [BCFN, 2012] richiede pertanto una

maggiore sensibilizzazione del prodotto. Il tentativo di rispondere a una contrazione dei

costi di trasporto e dispersione di cibo attraverso una filiera, in alcuni ambiti, più corta

come la produzione di patate affidata, in parte all'italiana Pizzoli, e quella dei polli ad

Amadori [Finotti, 2014b]. Come sottolinea Il Sole 24 Ore, la filiera destinata al marchio

McDonald's in Italia subirà nel prossimo periodo una 'nazionalizzazione': "Pasta Barilla,

mele di Bolzano, carne del gruppo Cremonini, parmigiano Parmareggio, pane fatto a

Modena (dalla East Balt) con farina dei Grandi Molini Italiani ricavata per il 60% da

grano coltivato nella penisola. E poi caffè torrefatto a Milano (da Ottolina) e latte della

Centrale del latte di Brescia" [Finotti, 2014]. Se per le aziende citate l'ingresso nel

mondo McDonald's stabilisce una nuova partnership, non è così per Amadori, da tempo

partner del gruppo statunitense: "Per Amadori si tratterà quasi di raddoppiare la

commessa, passando da 5mila a oltre 9mila tonnellate annue di carne fornita a

McDonald's, che a quel punto diventerà uno dei tre principali clienti del gruppo

romagnolo, che ha chiuso il 2013 con un fatturato superiore a 1,3 miliardi (in crescita

del 4,7% rispetto al 2012). Quello che si profila è una sorta di passaggio di consegne

graduale da Cargill, attuale fornitore, ad Amadori" [Finotti, 2014b].

L'andamento attuale appena descritto mostra una crescita costante dei prodotti 'fast' a

livello nazionale, ma soprattutto internazionale: l'espansione che si è verificata negli

anni 80', a distanza di circa 30' anni mostra i segni del consumo eccessivo di tali

alimenti: malattie cardiovascolari, obesità, diabete, stress e disfunzioni psicofisiche,

sono tra le conseguenze più comuni in relazione al prolungato consumo del cibo dei

fast-food.

Nello studio pubblicato dalla World Health Organization in relazione all'aumento di

frequentazioni dei fast food si registra infatti una crescita dell'indice di massa corporea

(BMI) dei soggetti interessati che, se non controllato adeguatamente, può sfociare in

112

sovrappeso e obesità [WHO, 2013]: ciò è vero, in maniera preoccupante, specialmente

per le abitudini alimentari di adolescenti e giovani, sempre più 'fast' e sempre più obesi

[Powell 2009; Eurobarometer, 2006]. Studi dimostrano che il consumo consueto di

hamburger, sandwich, pizza, cibi precotti e di rapido accesso, possono provocare a

partire già dai trent'anni, l'iniziale occlusione dei vasi sanguigni, preparando il terreno a

futuri attacchi di cuore [Arya e Mishra, 2013]. L'obesità derivante dall'assunzione di cibo

malsano rappresenta una malattia endemica del nuovo millennio, pericolosamente in

crescita tra gli adolescenti in cui si registra parallelamente anche una diminuzione delle

attività sportive; la sedentarietà e l'iperconsumo di cibi qualitativamente scadenti

produce un aumento dei giovani sovrappeso o obesi, sia nei paesi sviluppati, sia in

quelli in via di sviluppo, che in epoca futura costituiranno una popolazione soggetta a

malattie, stressata, improduttiva [Arya e Mishra, 2013]. Non solo obesità quindi, e oltre a

quelle già citate, uno studio condotto dall'Università di Auckland, Nuova Zelanda, ha

messo in luce la relazione tra 'cibo fast' e la comparsa di allergie, asma ed eczemi: lo

studio ha coinvolto 181 mila bambini di età compresa tra i 6 ed i 7 anni e 319 mila

giovanissimi tra i 13 e i 14 anni. Gli esperti hanno potuto evidenziare un rischio più

elevato del 39% di incorrere in asma ed eczemi in quei giovanissimi che consumavano

cibo spazzatura per tre o più volte alla settimana. Il rischio è del 27% più alto nel caso

dei bambini che seguono una alimentazione eccessivamente ricca di grassi non benefici

e che comprenda un consumo frequente di junk food. Nonostante l'aumento degli

effetti negativi, ricerche condotte per conto dell'Health and Consumer Protection

Directorate General6, sostengono che la sensibilizzazione al problema sia ancora

lacunosa, a livello mediatico, educativo (famiglia e scuola) e istituzionale

[Eurobarometer, 2006], anche se con percentuali differenti in relazione ai diversi paesi

che compongono l'UE.

L'espansione globale dei fast-food determina pertanto un cambiamento delle diete

alimentari tradizionali, modificando l'apporto fisiologico di calorie e provocando

malattie diffuse, sia tra la popolazione giovane, sia tra quella adulta; a livello

commerciale, l'aumento dei profitti della grandi catene e della domanda di junk-food a

livello dei consumatori alimenta la continua espansione di terreni e interessi. Se di

6 DG Sanco, Ente della Commissione Europea preposto all'applicazione delle leggi dell'Unione Europea per la sicurezza alimentare e di altri prodotti, per il diritto dei consumatori e per la tutela della salute delle persone.

113

recente McDonald's ha stretto accordi con le industrie alimentari italiane per la

produzione interna di panini marchiati con la 'Grande M', l'andamento generale registra

un'appropriazione sempre maggiore di terre e risorse, da parte delle grandi

multinazionali; 'accumulazione per espropriazione' secondo alcuni, una pratica ormai

ampiamente consolidata e diffusa, specialmente nel Sud, la 'fattoria del mondo'

[McMichael, 2009].

Accessibilità, in questo quadro, significa disponibilità economica ad acquistare le

fonti primarie di cibo, grano, riso, mais, a prezzi globalmente sempre maggiori, o

altrimenti al cambiamento della dieta alimentare e l'aumento di cibi economici, dannosi

per la salute, ma economicamente convenienti. La trama commerciale, governato in

primis dalle multinazionali (con il benestare delle politiche nazionali e internazionali),

rappresenta dunque un forte spartiacque tra chi ha accesso privilegiato al cibo (nelle sue

forme e gusti più svariati come nei paesi sviluppati), coloro che accedono per

convenienza economica, al 'cibo spazzatura' - presenti in ottima quantità nei

supermercati, divenuti nel tempo la prima forma di distribuzione mondiale - e le

popolazioni interessate da cronica malnutrizione.

In questo scenario di disparità di accesso al cibo si distinguono almeno due fenomeni

distinti ma convergenti: la manifestazione evidente della relazione descritta da

Wallerstein tra centri e periferie; la crescita dell'agrobusiness multinazionale a spese

delle popolazioni locali, dimostrata dai lauti profitti delle aziende produttrici di

semenze, biotecnologie o prodotti chimici come Monsanto, Syngenta, Dupont, dei

grandi gruppi alimentari come Nestlè, Kraft, Coca-Cola Company e da quelli dei

supermercati. La crescita dei consumi di una parte del mondo, nel sistema attuale,

sembra dover necessariamente coincidere con un sottoconsumo nell'altra parte. In altri

termini, la disponibilità di supermercati sempre riforniti di ogni genere alimentare nei

paesi più sviluppati, presuppone un'indisponibilità alimentare e un proibitivo accesso

nei paesi più poveri. Ciò non significa che sia stata raggiunta la produzione massima

alimentare, che stando ai rapporti Fao sembra essere in grado di sfamare una

popolazione ben superiore; piuttosto spiega le relazioni di valore attorno a cui ruotano

cibo, energia e materie prime, e quelle di potere e d'interesse fra centri e periferie. In

questo senso Araghi identifica la risorsa del capitalismo neoliberale nel "forzare

114

strategie di sotto-consumo e sotto-produzione, in condizioni di lavoro schiaviste...ma

senza una schiavizzazione visibile" [McMichael 2009].

6 Spreco alimentare

Come analizzava Veblen [2007], una parte del consumo coincide con lo spreco

vistoso, un modo 'necessario' per stabilire e ribadire la differenza sociale tra classi; la

riprovazione e lo sdegno sociali talvolta lasciano il posto a una visione di necessità e a

istinti di emulazione da parte delle classi più povere. La standardizzazione di alcune

pratiche di consumo si salda nel tessuto sociale, divenendo pertanto abituali e

abitudinarie. Lo spreco alimentare aderisce perfettamente al modello tracciato: l'estrema

accessibilità alimentare e il benessere sociale della maggior parte delle fasce sociali dei

paesi sviluppati hanno infatti comportato la standardizzazione dello spreco.

Lo spreco alimentare dei paesi sviluppati alimenta il sottoconsumo dei paesi in via di

sviluppo e rappresenta una delle piaghe del 'consumismo' dei paesi sviluppati, come

sottolinea Carlo Petrini, fondatore del movimento Slow Food, impegnato nella lotta allo

spreco alimentare: secondo statistiche recenti, nella sola Italia lo spreco alimentare si

aggira intorno ai 13 miliardi di euro, con circa 149 chili di cibo sprecato annualmente

per persona [Food Right Now, 2013]. A livello mondiale, circa un terzo della

produzione annuale finisce nella spazzatura, l'equivalente di 1,3 tonnellate: "per ogni

europeo vengono prodotti circa 840 chili di cibo all'anno; di questi, ben 200 vengono

sprecati ancor prima di arrivare sulla tavola: lasciati nei campi, nelle aziende di

trasformazione, nei supermercati" [BCFN, 2012; Food Right Now, 2013]. La Fao indica

che sono circa 220 milioni le tonnellate di cibo sprecato nei paesi sviluppati europei,

circa l'equivalente dell'intera produzione alimentare dell'Africa Sub sahariana. Europa e

Stati Uniti guidano lo spreco alimentare domestico, mentre l'America Latina è in cima

per la dispersione di cibo lungo la filiera produttiva, circa 200 milioni di tonnellate

[BCFN, 2012]: in questo senso lo spreco può riguardare lo scarto di merce

'esteticamente' non idonea, quella attaccata da malattie, quella dispersa durante la

raccolta automatizzata o durante il trasporto, in cui le condizioni di refrigerazione,

115

igiene, di mantenimento della qualità non sono adatte, in seguito alla lavorazione del

cibo e allo scarto conseguente, come petti di pollo o filetti di pesce. Più lunga è la

filiera, più elevato sarà lo spreco alimentare: la perdita di cibo riguarda dunque sia la

produzione di cibo (dalla coltivazione alle prime forme di lavorazione dei prodotti

agroalimentari), sia la distribuzione (la filiera alimentare e i vari anelli che la

compongono), sia il consumo dei beni finiti, lavorati e disponibili nei supermercati (lo

spreco finale generato dai consumatori e dai relativi stili di vita). E' interessante notare

come tra Nord e Sud del mondo, lo spreco alimentare sia causato da motivazioni

opposte: nei paesi settentrionali infatti è post-produttivo e riguarda lo spreco derivante

dal benessere diffuso; in quelli meridionali la perdita di cibo avviene principalmente

durante la produzione, quasi totalmente destinata ai grandi supermercati europei,

statunitensi ed asiatici. Le previsioni sui destini globali della catena di produzione

alimentare - e parte dei relativi sprechi - riguardanti tanto i paesi sviluppati, quanto

quelli in via di sviluppo, sono guidati da tre fattori convergenti: l'urbanizzazione e la

contrazione dell'agricoltura, il cambiamento della dieta alimentare tradizionale e

l'espansione del mercato globale [Parfitt, Barthel e Macnaughton 2010]. "La

proporzione mondiale della popolazione mondiale impiegata nell'agricoltura è diminuita

negli ultimi anni e la percentuale che vive in grandi centri urbani ormai ha raggiunto

circa il 50%, con previsioni che parlano di una futura crescita fino al 70% nel 2050"

[Parfitt, Barthel e Macnaughton 2010].

L'abbandono delle campagne e la crescita dei centri urbani segna forzatamente un

aumento della popolazione da sfamare con i prodotti agricoli, determinando

congiuntamente un'espansione dell'apparato industriale; in secondo luogo la crescita dei

redditi familiari di Brasile, Russia, India e Cina (BRIC) sta producendo una

diversificazione dei gusti alimentari, già avvenuta in passato nei paesi europei e negli

USA, con l'aumento di consumo di proteine animali, cibi grassi e prodotti industriali e,

infine di cibo sprecato [Parfitt, Barthel e Macnaughton 2010].

Il commercio internazionale del cibo industriale rappresenta circa il 10% del totale

cibo industriale venduto, con la parallela crescita del profitto delle catene di

distribuzione, per città sempre più grandi e i cui gusti alimentari sono sempre più

diversificati. Lo spreco alimentare pertanto, considerando le stime di crescita

demografica e di inurbamento, rappresenta un nodo cruciale da sciogliere per il

116

sostentamento di un numero maggiore di persone; come detto, nei paesi poveri, la

perdita di cibo è a livello produttivo, in relazione alle tecnologie disponibili, che spesso

risultano deteriorate e obsolete, segno evidente del taglio degli investimenti dei governi

locali nell'agricoltura. Nei paesi industrializzati al contrario, circa il 30% del cibo viene

perso durante il trasporto, nella distribuzione (supermercati, ristoranti, bar, sfera

domestica); nell'Unione Europea, il 47% dello spreco alimentare avviene a livello

familiare, pari al 25%7 del cibo prodotto ed importato [BSR, 2011]. La diversità di

spreco rappresenta da un lato la differenza tecnologica delle due aree, e dall'altro rientra

in un contesto culturale, in cui 'buttare' cibo si configura come una pratica comune e

socialmente condivisa; pertanto, non solo cibo e capitale sono interessati da un solido

rapporto, ma anche accessibilità e spreco sono strettamente relazionati: circa 155

milioni di bambini in sovrappeso e obesi, situati principalmente nei paesi

industrializzati, fanno da contraltare ai 148 milioni di bambini sottopeso, la

maggioranza situati nei paesi del Terzo Mondo [BCFN, 2012].

Lo spreco alimentare, molto più vistoso nei paesi sviluppati in relazione al consumo

e non alla produzione, oltre a esser maggiore nelle nuove generazioni rispetto a quelle

precedenti [Parfitt, Barthel e Macnaughton 2010], rappresenta una delle voci

dell'inquinamento ecologico causato dal relativo smaltimento [Parfitt, Barthel

Macnaughton 2010; BCFN, 2012]. In questi termini, l'ammontare del cibo sprecato

lungo la filiera produttiva agroalimentare, attraverso distribuzione e trasporto e usi

domestici (cibo scaduto, avariato o cucinato e non consumato) costituisce circa metà del

cibo prodotto a livello mondiale e sarebbe in grado di ridurre e risolvere diversi

problemi sia di carattere biofisico, sia di ordine sociale ed ecologico. In Italia, la crisi

economica ha contribuito a una riduzione dello spreco alimentare, sia lungo la filiera,

sia a livello di consumo, con una maggior attenzione agli sprechi, determinati in prima

battuta dalle ristrettezze economiche; secondo un'indagine condotta nel 2011 da

Coldiretti-Swg, gli italiani, per effetto della crisi economica, hanno ridotto del 57% lo

spreco alimentare [BCFN, 2012]. Nello stesso periodo, la popolazione inglese ha

mediamente disperso 7,2 tonnellate di alimenti, circa un terzo delle tonnellate

acquistate. Negli Stati Uniti, l'USDA (United States Department of Agriculture) stima

che ogni anni gli americani gettano complessivamente il 30% del cibo acquistato,

7 Percentuale relativa al peso.

117

l'equivalente di 48,3 miliardi di dollari, circa il 60% del totale spreco alimentare, mentre

la distribuzione rappresenta il 5,3% e la vendita al dettaglio incide per il 33,8% [BCFN,

2012].

Pur rappresentando una voce minore sull'incidenza di perdita/spreco di cibo, il

trasporto costituisce un punto importante nel cambiamento delle diete alimentari e di

accesso al cibo: se l'introduzione nei paesi avanzati di prodotti esotici determina un

aumento della domanda e del consumo, nei paesi del Sud del Mondo, il prelievo

pressoché totale dei prodotti alimentari da parte delle multinazionali agroalimentari per

la vendita nei principali mercati mondiali, e la mancanza di alternative alimentari valide

determinano situazioni alimentari al di sotto della soglia di sopravvivenza. Uno dei tanti

esempi contemporanei è offerto dall'immissione del pesce persico del Nilo nel Lago

Vittoria, che se da un lato ha registrato l'aumento del consumo nei principali mercati

europei, dall'altro ha determinato un brusco cambiamento nella catena alimentare del

territorio africano [Sauper, 2004]. L'introduzione di questa qualità ittica nel più grande

lago del mondo, a partire dagli anni 60' ha prodotto da un lato l'estinzione di molte

specie viventi, dall'altro ha permesso la nascita di una consistente industria per la

lavorazione e l'esportazione dei filetti in tutto il mondo, a cominciare dall'Europa

[Mereghetti, 2006]. Oltre a ridurre la biodiversità esistente nei territori interessati, tali

pratiche producono effetti negativi anche sulle popolazioni coinvolte, in termini di

forza-lavoro, assistenza sanitaria e di accesso al cibo. L'ingente produzione di persico

del Nilo infatti - in questo esempio, ma la dinamica è estendibile a molte altre situazioni

- è quasi interamente destinata all'esportazione verso i principali mercati mondiali, con

le popolazioni locali affette da problemi di malnutrizione e costrette a condizioni sociali

precarie. Contemporaneamente allo spreco alimentare dei paesi 'avanzati'.

7 Carne e pesce: consumi quotidiani. Quando il lusso diventa pop

1 Pesce

Il tragitto percorso dal persico del Nilo costituisce uno dei molti esempi dei metodi di

produzione e distribuzione dell'attuale regime alimentare mondiale, che amplificano

118

costantemente il raggio d'azione per soddisfare le pretese consumistiche di masse

urbane e non, geograficamente situate nel Nord del mondo. In riferimento alla pesca,

essa è sempre stata una risorsa fondamentale per le popolazioni costiere, per i commerci

e nei territori cristiani anche per motivazioni religiose, come ricorda Braudel [1982].

Carne e pesce infatti hanno sempre rappresentato un alimento tradizionale nelle diete

europee: non soltanto i ricchi, ma anche contadini e artigiani potevano cibarsi

quotidianamente di prodotti animali e derivati come uova e formaggi. Le differenti

modalità di accesso al cibo - rispetto al consumo attuale - non devono infatti far pensare

a un passato basato soltanto sui cereali e farine, o alimenti poveri; le diete del passato

erano, in un Europa decisamente meno popolata di quella attuale, ricche di carne,

cacciagione e pesca [Braudel, 1982].

Con il passare dei secoli e dello sviluppo tecnico-scientifico, l'aumento demografico

e dei consumi hanno portato ad un aumento della produzione ittica: ciò si è verificato in

maniera costante durante il XX secolo, sia attraverso l'acquacoltura sia con la pesca

tradizionale [Campling, 2012; FAO 2014b]. L'evoluzione delle modalità produttive e

l'aumento della domanda, soprattutto di salmone, tonno, pesce spada, molluschi e

crostacei, hanno così garantito ai pescherecci nazionali, privati e illegali di accrescere

sensibilmente i profitti; durante il primo e il secondo regime, la pesca era regolamentata

da normative nazionali e da accordi tra stati. Come si è visto per altri cibi, anche per la

pesca l'apertura di nuove frontiere e mercati e la crescita del potere finanziario ha

prodotto cambiamenti produttivi, tecnologici, sanitari, distributivi e ambientali rilevanti.

In questo senso la pesca e soprattutto l'acquacoltura, se da un lato ha garantito una

crescita della quantità di pesce disponibile, dall'altro ha portato a una diminuzione di

altre specie e della biodiversità - come per il persico del Nilo - a un peggioramento delle

acque e della qualità delle carni [Weiss, 2002]. L'acquacoltura indiscriminata è

responsabile di una serie di peggioramenti qualitativi, opposti a un'intensa

accumulazione di capitale, del tutto celati al consumatore.

Come afferma Jean-Paul Besset:

Tra le dieci specie di pesce più pescate, sette sono considerate 'ampiamente sfruttate o

sovrasfruttate'. Metà delle principali zone di pesca è ormai al limite delle sue naturali

capacità di rinnovamento, un quarto le ha superate. Anche se si distrugge ciò che resta delle

119

mangrovie per sostituirlo con piscine per pesi e gamberi, l'acquacoltura non permetterà di

colmare il deficit". [Latouche, 2007, p. 63].

L'acquacoltura costituisce oggi un settore economico molto importante della

produzione alimentare: nel 2003 ha contribuito per circa il 31% (41,9 milioni di

tonnellate) su un totale di circa 132,2 milioni di tonnellate di pesce pescato. La sua

crescita nel mondo è stata molto rapida, per molte specie oltre il 10% annuo, mentre al

contrario il contributo della pesca tradizionale è rimasto costante, se non in diminuzione

nell'ultimo decennio; inoltre, se si considera l'intera produzione alimentare,

l’acquacoltura è il primo settore al mondo in termini di crescita [Slowfood]. Tra i

prodotti da acquacoltura più diffusi, si trovano: il salmone, la carpa, l'orata, il branzino,

oltre a molluschi e crostacei. Il risultato è un cospicuo aumento della produzione ittica

mondiale: l'apporto dell'acquacoltura è pertanto vitale per il volume dei prodotti che

circola su tutti i mercati mondiali e in questi termini le previsioni degli analisti

descrivono un 2030 in cui la produzione ittica sarà coperta per più dei due terzi

dall'acquacoltura [Fao, 2014c].

Il salmone rappresenta uno dei primi tentativi di acquacoltura - forse il più

importante - destinata per la produzione di massa: considerato fino agli anni '60 un

prodotto di lusso, attraverso l'acquacoltura il salmone è infatti diventato accessibile per

buona parte dei consumatori, grazie alla caduta dei prezzi. Le prime forme di

allevamento di salmoni sono avvenute in Norvegia, il principale produttore mondiale di

questo alimento a partire dagli anni '60, per essere adottate nei settori ittici degli altri

stati mondiali [Weiss, 2002]. Da allora, Scozia, Canada, Stati Uniti, Cile, Giappone ed

in maniera minore altri stati come l'Italia, hanno adottato meccanismi di allevamento dei

salmoni, generando un abbassamento vertiginoso dei prezzi ma anche un

impoverimento delle acque e della qualità alimentare. Si è calcolato infatti che un

singolo allevamento di salmoni di circa 200 mila unità produce una quantità di materia

fecale pari a una città di 65 mila abitanti [Food and Water Watch, 2010]. L'aumento di

escrementi e di cibo sui fondali sono cause dell'inquinamento delle acque che, attraverso

le correnti, si espande al di fuori degli allevamenti. Non solo, anche il nutrimento incide

sulla qualità e sulla sicurezza alimentare del prodotto: data la natura carnivora, i salmoni

vengono nutriti con poltiglie a base di scarti di altri pesci (teste, code, viscere),

principalmente sardine e acciughe cui vengono aggiunti pesticidi [Food and Water

120

Watch, 2010; Shaw et all. 2006; Allsopp et. all. 2008], per combattere l'insorgenza dei

pidocchi di mare - uno dei fattori di diminuzione dei salmoni selvatici e non, oltre alla

sovrappesca, all'inquinamento - gli allevatori hanno introdotto nell'alimentazione dei

salmoni una serie di antibiotici e pesticidi [Food and Water Watch, 2010; Shaw et all.

2006], che oltre ad impattare negativamente sulla bontà del prodotto, è protagonista di

un serio inquinamento ambientale. Nel febbraio del 2014 il 17% del salmone,

proveniente da Scozia e Norvegia e venduto nei principali supermercati inglesi

conteneva DDT [Poulter, 2014]. Le autorità nazionali e internazionali, in particolar

modo quelle canadesi, hanno più volte minimizzato l'importanza e l'insorgenza di questi

fenomeni, nonostante i dati scientifici dimostrino il contrario; in alcuni allevamenti

cileni, ad esempio, la somministrazione degli antibiotici nel 2010 è stata 75 volte

superiore agli standard [Food and Water Watch, 2010]. Pesticidi, DDT, resti di alimenti,

escrementi e carcasse di animale, che molto spesso vengono rigettate nelle acque

[Allsopp et all. 2008], sono cause di un decisivo inquinamento marino con effetti sulla

biodiversità e sulla catena alimentare [Allsopp et all. 2008; Food and Water Watch,

2010]. Anche i salmoni selvatici risultano affetti dall'aumento degli antibiotici. La

maggior parte degli allevamenti è infatti situata lungo i percorsi migratori e ciò ha

dirette conseguenze sui flussi migratori dei salmoni selvatici, durante i quali essi

vengono a contatto con queste sostanze. Un altro fattore di rischio per i salmoni

selvatici è dato dalle masse di salmoni allevati che scappano dagli allevamenti, in

seguito ad attrezzature limitate o a errori umani [Allsopp et all. 2008]. Il contatto tra

specie allevate e non, determina una concorrenza per il cibo, con profonde conseguenze

sulla biodiversità e sulla catena alimentare marina; inoltre, quest'unione causa il

passaggio di malattie, batteri, pidocchi, che influiscono sulla sicurezza della carne e

sulla qualità [Allsopp et all. 2008; Food and Water Watch, 2010]. Il risultato derivante

dalla cattiva gestione e dall'incessante produzione è il 'primato' nella classifica degli

alimenti più contaminati in commercio [Edwards, 2002].

121

Figura 1 Salmone contaminato nei supermercati inglesi

Tale metodologia, se da un lato garantisce ai supermercati scaffali sempre pieni,

dall'altro incide negativamente sull'ambiente marino e sull'alimentazione umana.

Queste modalità di allevamento riguardano anche altre specie, come il persico, i

crostacei, i branzini, i tonni e le tilapie. La proliferazione degli allevamenti delle tilapie,

ad esempio, ha provocato cambiamenti degli ecosistemi marini, con il risultato che il

98% delle tilapie allevate sono all'esterno del loro habitat naturale [Allsopp et all. 2008].

L'enorme sviluppo dell'allevamento di tilapie è permesso dalla sua estrema

adattabilità all'ambiente, che le permette di vivere in acque dolci e salate. Ciò ha

portato, come spesso succede per una risorsa ampia e a basso costo, a un'esplosione di

domanda e offerta, soprattutto in Cina e in Asia e lungo le coste africane. In virtù del

basso costo e del rapido profitto, la Cina ha aumentato considerevolmente gli

investimenti nell'acquacoltura, aumentando il livello mondiale delle esportazioni di

pesce [Fao, 2014b], tra cui appunto le tilapie: gli analisti prevedono in questo senso che

nel prossimo futuro la Cina sarà il leader mondiale nella produzione di tilapie [Fazzino,

2010]. In futuro, si prevede che le tilapie raggiungeranno i mercati di tutto il mondo,

divenendo la prima specie di pesce consumato, specialmente negli Stati Uniti. La

dimensione globale che ha assunto la Cina nell'allevamento ittico, tuttavia, apre un

problema relativo alla qualità delle acque, ritenuta in molti casi tossica, come a Fuqing,

divenuta in pochi decenni il più grande produttore di prodotti ittici e il principale

fornitore degli Stati Uniti [Barbosa, 2007]. L'inquinamento delle acque produce pertanto

prodotti potenzialmente dannosi e di bassa qualità, oltre a una serie di effetti a catena,

come l'inquinamento delle fonti idriche destinate all'agricoltura e agli allevamenti

122

[Barbosa, 2007]. La produzione mondiale di tilapie non è limitata alla Cina. La Fao

identifica nei paesi in via di sviluppo un'ampia percentuale di piccoli o medi allevatori

che nel 2012 ha garantito il 61% di tutte le esportazioni mondiali di pescato, pari al 54%

del valore economico totale [Fao, 2014b]. In questo senso si può osservare la situazione

dei paesi delle coste africane, come la Nigeria, tra i principali esportatori di tilapie

[Agbebi and Fagbenro, 2006]. L'installazione di allevamenti di tilapie ha comportato in

Nigeria una diffusa deforestazione, la distruzione della vegetazione di mangrovie, oltre

ad avere impatti sulle popolazioni locali [Slowfood; Allsopp et all. 2008], analoghe a

quelle già osservate per il persico del Lago Vittoria.

Gamberetti e crostacei risultano la specie più commerciata al mondo, con il maggior

volume di unità allevate [Fao, 2014b]; al pari dei salmoni, l'aumento della produzione

durante il XX secolo ha permesso un abbattimento dei costi, rendendo questo alimento

accessibile per la maggior parte delle persone dei paesi sviluppati. L'acquacoltura ha

così permesso un aumento dell'offerta parallelamente ad una 'salvaguardia' di una

consistente parte di pesci selvatici [Naylor et all, 2000]. Con l'espansione dei mercati

degli anni '80 il consumo di gamberi è cresciuto visibilmente, suscitando l'interesse di

soggetti privati e dei governi; gli stati in via di sviluppo furono inoltre agevolati dai

prestiti e dagli investimenti della Banca Mondiale, specialmente in India e Cina [Nash,

2011]. Come per i salmoni anche per i gamberi e per i crostacei in generale,

acquacoltura significa aumento dell'inquinamento e riduzione della biodiversità

[Allsopp et all. 2008; Naylor et all, 2000;], come la distruzione delle mangrovie in

Malaysia, Indonesia, Cina, Filippine. La selezione delle qualità, sulla base dei dati

commerciali e di vendita, determina una radicalizzazione della biodiversità: secondo

una recente indagine, in Bangladesh per ogni gambero 'tigre' infatti, un gruppo di 12-

500 larve di altre specie è a rischio sopravvivenza; in Honduras invece è risultato che la

produzione di circa 3 miliardi di gamberi ha provocato la distruzione di circa 15-20

miliardi di esemplari di altre specie [Allsopp et all. 2008]. La selezione della specie più

venduta determina quindi una diminuzione della biodiversità, in un meccanismo già

visto in precedenza, come per l'allevamento del persico del Nilo nel Lago Vittoria.

L'acquacoltura, anche per i gamberi, si accompagna alla presenza di patologie, come

il White Spot virus che, nel corso degli anni, ha interessato milioni di esemplari,

provocando ingenti perdite alle industrie alimentari [Allsopp et all. 2008; Naylor et all.

123

2000]. Al pari di altre specie allevate, pertanto, anche ai gamberi vengono somministrati

antibiotici, che ne alterano qualità e organismo. Alcune analisi hanno infatti confermato

la presenza di sostanze come antibiotici, DDT, pesticidi e fungicidi nei gamberi,

principalmente di provenienza asiatica [McKenna, 2014]. Molte di queste sostanze

vengono somministrate illegalmente, dato il divieto di utilizzo - a causa della loro

pericolosità - imposto dalla Fao. Tuttavia, la mancanza di controlli, l'apertura di nuovi

mercati, l'ascesa di nuove classi media come in Cina e India, sono aspetti che sembrano

permettere la perpetuazione di queste modalità produttive, come ha sottolineato il

direttore di Food and Drug Administration (FDA): "Con la continua crescita

dell'industria dell'acquacoltura, l'interesse per l'uso di farmaci non approvati e sostanze

chimiche insicure nei lavori di acquacoltura, è cresciuto costantemente" [McKenna,

2014]. Il risultato è una totale disinformazione in merito a ciò che i consumatori

abitualmente mangiano.

Attraverso l'acquacoltura, il consumo di gamberetti è cresciuto senza sosta,

divenendo il principale 'seafood': negli Stati Uniti i gamberetti sono sempre stati in cima

nella classifica dei prodotti ittici consumati [About Seafood, 2014]. Nel 2011 il

consumo di gamberetti è stato il doppio di quello di tonno, il secondo più venduto

[About Seafood, 2014], per rimanere a livelli simili negli anni successivi. Uno dei

motivi di questo elevato consumo risiede nell'economicità del prodotto, in larga parte

dovuta all'adozione dell'industrializzata acquacoltura, che ha permesso di abbattere i

costi rispetto alle tradizionali attività di pesca.

Il tonno rappresenta un'importante risorsa alimentare ittica e di accumulazione di

capitale; il mercato del tonno è sempre stato molto importante per i consumi europei, in

particolare Spagna, Italia, Francia e di quelli asiatici come il Giappone, il principale

consumatore di tonno [Campling, 2012]. In Europa la pesca di tonni per i mercati

nazionali, seguendo le linee dell'accumulazione di capitale, è attiva fin dal XIX secolo,

con particolare riferimento alle flotte spagnole e francesi, che rifornivano costantemente

i mercati europei. L'aumento dei consumi, lo sviluppo industriale e dei profitti derivanti

hanno fatto del tonno una commodity, come riso, mais, olio di palma, soia [Fao, 2004].

Lo sviluppo della nascente industria legata a questo tipo di pesce portò alla nascita,

in Francia delle prime scatolette di tonno nel 1870 e dal 1900 negli Stati Uniti, come

sostituto delle sardine e del salmone, più costoso [Campling, 2012]. La

124

commercializzazione delle scatolette rispondeva a esigenze di trasporto di

mantenimento della qualità del prodotto e dell'accumulazione di capitale. In mancanza

delle tecnologie attuali infatti, la pesca di tonni e salmoni, i principali pesci consumati,

richiedeva ingenti sforzi economici e soprattutto modalità di conservazione e

distribuzione del prodotto [Campling, 2012]. La doppia dinamica di distanza e

durabilità, messa in luce da Friedman [1992] portò infatti alla creazione delle scatolette

di tonno nel 1870 - divenute ben presto una commodity più diffuse nel mondo [Fao,

2004] - e da allora, l'industria e la produzione di tonno non hanno cessato di crescere,

divenendo uno dei principali settori industriali mondiali, strettamente controllato

dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti [Campling, 2012], i principali consumatori

assieme al Giappone [Fao, 2004].

Lo sviluppo dell'apparato industriale, sul finire del XIX secolo, segnò una svolta nei

metodi di pesca: il business derivante dal mantenimento della biodiversità fu sostituito

dalla ricerca di quantità sempre maggiori di questa commodity che ne abbassarono i

prezzi. La produzione di scatolette fu affiancata da flotte sempre più numerose, come

quella francese, alla ricerca di quantità sempre maggiori, in seguito alla domanda

sempre più alta di tonno in scatoletta e non [Campling, 2012]. Secondo le stime Fao, la

produzione mondiale di tonno e derivati, come le scatolette, è passata dalle 400 mila

tonnellate del 1950, agli oltre 4 milioni di tonnellate del 2002 [Fao, 2004]. Questo

aumento è dovuto all'aumento dei consumi e all'evoluzione delle metodologie

produttive che, a partire dagli anni '50 del XX secolo, hanno subito un rapido processo

di industrializzazione [Campling, 2012]: la pesca industriale e il settore delle scatolette

si sono infatti evolute in maniera parallela grazie al progresso scientifico del post-guerra

e alle politiche statali, specialmente di Giappone e Stati Uniti che accentuarono la pesca

dei tonni del Pacifico [Campling, 2012]. Anche l'industria europea è stata molto attiva

sin dal dopoguerra, con le mire delle flotte francesi e spagnole orientate sull'Oceano

Atlantico e sulla fascia tropicale, lungo le coste occidentali dell'Africa decolonizzata. I

movimenti di tonni e delle flotte hanno portato alla commercializzazione di nuove

specie, abbandonandone altre troppe costose, in termini di pesca, combustibili, e prezzo

finale; il cambiamento delle zone di pesca, dal Golfo di Biscaglia alla fascia tropicale

dell'Atlantico ha determinato il consumo di nuove qualità: fino agli anni '60 il principale

tipo di tonno pescato era l'Albacore, ma a partire dal 1965 la qualità più pescata divenne

125

quella 'pinne gialle' dell'Africa occidentale [Campling, 2012]. In altre parole, l'industria

segue l'andamento geografico e quantitativo delle risorse a basso costo, con una duplice

motivazione: garantire il rifornimento alimentare dei paesi più ricchi e perpetuare il

processo di accumulazione di capitale. La maggior disponibilità di tonni del Pacifico

orientale, o dell'Atlantico della fascia tropicale rappresenta pertanto la modificazione

delle strategie dei pescherecci e dei consumi, all'interno di una struttura che al contrario

rimane stabile e in continua espansione.

L'ascesa delle multinazionali, già descritta altrove, ha avuto conseguenze anche

nell'industria legata alla pesca di tonni e alla produzione di filetti e scatolette,

accelerando lo sviluppo dei processi di pesca, di produzione e distribuzione, e incidendo

gravemente sull'equilibrio animale ed ecologico.

Il tentativo di incorporare società più piccole per formare multinazionali in grado di

controllare e indirizzare le scelte di mercato è una costante dell'attuale regime

alimentare, evidente anche nell'industria ittica e legata al tonno. In Francia, negli anni

'80 la produzione e la proprietà industriale era gestita da sei compagnie, capeggiate da

Cobrecaf il colosso di origine bretone nella pesca e produzione di tonno; nel 2008 la

proprietà era in mano a quattro soggetti, due multinazionali, un consorzio e Cobrecaf

[Campling, 2012]. Nell'ultimo ventennio Cobrecaf è stata interessata da molteplici

acquisizioni, di Heinze European Seafood, Lehmann Brothers, MW Brands (proprietaria

dell'italiana MareBlu) ampliando il raggio delle operazioni e dei guadagni e chiudendo

il 2008 con un fatturato di oltre 100 milioni di dollari. Negli Stati Uniti la produzione di

scatolette è controllata da un numero ristretto di soggetti; negli anni '80 la deregulation

finanziaria incentivò la vendita delle flotte a bandiere straniere, in relazione all'aumento

dei prezzi petroliferi e dei costi di gestione come assicurazioni e burocrazia. Al pari di

ciò anche la produzione di scatolette subì uno spostamento verso zone economicamente

più vantaggiose come Porto Rico. Il mercato interno di tonno, attualmente è dunque

controllato da: Starkist, leader industriale del settore, con il 40% delle vendite del

mercato statunitense e di proprietà della multinazionale Del Monte; Bumble Bee

Seafoods LLC, con circa il 24%, e Chicken of the Sea, una compagnia tailandese che

controlla circa il 17% [Fao, 2004].

La sovrappesca dell'ultimo trentennio ha garantito ingenti guadagni alle flotte private

e statali: limitato al contesto europeo, nel 2008 i profitti delle flotte si sono aggirati sui

126

1.76 miliardi di dollari, con un costo di circa 20 milioni per nave [Campling, 2012]. In

questi numeri rientrano anche le navi non registrate sotto la bandiera nazionale, ma

battenti bandiere di comodo (Flags of Convenience) che permettono di diminuire i costi

di gestione e le regolamentazioni imposte e garantendo così prezzi sempre economici.

Se da un lato crescono i guadagni, dall'altro diminuiscono le risorse disponibili, in

questo caso i tonni, da tempo a rischio sopravvivenza, in termini di specie. La riduzione

dei banchi determina gravi problemi all'ambiente marittimo e alla catena alimentare: un

esempio può essere la sovrappopolazione di alcune specie come le acciughe nel Mar

Nero o dei Gamberi nell'Atlantico Settentrionale, in seguito alla mancanza dei principali

predatori e del cambiamento dei rapporti nella catena alimentare [WWF, 2007b]. La

pesca nei territori dell'Atlantico Settentrionale ha infatti portato alla sparizione di questi

predatori; al loro posto si sono così sviluppati intensivi allevamenti di gamberi [WWF,

2007b], con le conseguenze ambientali già descritte. La diminuzione dei tonni ha

portato a pratiche di acquacoltura, nel tentativo di regolarizzare la produzione e la

quantità di tonno consumabile, limitando così gli effetti sull'ambiente.

L'acquacoltura, nonostante sia una forma antica di allevamento, risalente addirittura

all'Antico Egitto e alla Cina imperiale, rappresenta attualmente una forma di

accumulazione di capitale molto redditizia e incoraggiata dalla Banca Mondiale; anche

il pesce, in altre parole, da risorsa alimentare e di sostentamento è diventato sinonimo di

ricchezza e accumulazione. La visione della natura, descritta da Moore [2000b, 2003b,

2009, 2010, 2010b, 2011, 2013, 2014, 2014b], si fa evidente anche nel contesto ittico,

con il pesce che da risorsa per la vita diventa una forma di denaro.

2 Carne

Il consumo di carne è sempre stato al centro dell'alimentazione tradizionale, in

relazione anche alla necessità di rotazione delle colture a base di grano fortemente

diffusa nel Vecchio continente. Ciononostante, gli alimenti principali per la maggior

parte della popolazione erano generalmente a base di granaglie come grano, mais,

avena, molto più economici e disponibili della carne. Tradizionalmente infatti, in

passato la carne era associata a giorni speciali della settimana, a festività, a classi agiate

127

e borghesia; la restante parte dell'alimentazione quotidiana era occupata principalmente

da granaglie e verdure [Braudel, 1982]. Anche nel resto del mondo il consumo di carne

è sempre stato diffuso ma non al centro dell'alimentazione come le 'piante della civiltà'.

Il grano, il riso il mais, alimenti essenziali per la maggior parte degli uomini, non

rappresentano se non semplici problemi. Se invece si comincia a parlare di alimenti meno

comuni - e fra questi, già la carne [...] si contrappongono il necessario e il superfluo.

[Braudel, 1982, I, 161].

Attraverso l'evoluzione tecnico-scientifica e l'aumento delle classi medie però, il

consumo di carne nei paesi sviluppati è aumentato considerevolmente, così come le

terre destinate alla coltivazione e all'allevamento, soggette a una forte accelerazione

espansionistica verso la metà del XIX secolo [Lead, 2006]. Durante il primo regime

alimentare l'impero britannico ha aumentato i traffici e i commerci con le colonie come

l'Argentina, l'Australia, gli Stati Uniti e l'Uruguay [McMichael, 2009b], per la vendita di

carne in Europa. Durante il secondo regime alimentare, nelle vaste aree mondiali

gravitanti attorno l'egemonia statunitense [Arrighi, 1999; 2008] è cresciuta la

produzione di carne, tanto per il consumo interno, quanto per l'esportazione verso i

principali mercati mondiali. Attorno alla carne ruotano anche le sorti dei fast-food, la

cui espansione, iniziata negli anni '30, è stata garantita da un generale abbassamento dei

prezzi e un aumento della quantità disponibile. Uno dei motivi risiede nell'ampliamento

delle risorse: nello specifico, tra gli anni '50 e gli anni '80 i terreni destinati

all'agricoltura e all'allevamento sono stati maggiori di quelli degli ultimi 150 anni [Lead,

2006]. Il terzo regime alimentare ha invece concentrato la produzione mondiale nel Sud

del Mondo [McMichael, 2009; 2009b], azionando così lo sviluppo di una lunga filiera

alimentare e del ramificato sistema dei trasporti che culmina con i supermercati. Mentre

la crescita demografica mondiale è più che raddoppiata dagli anni 50' all'inizio del XXI

secolo, la produzione globale di carne ha ingrandito il proprio volume di oltre cinque

volte [WorldWatch, 2004], incidendo fortemente sulle abitudini alimentari della

popolazione mondiale: il consumo di carne a livello mondiale durante il terzo regime

alimentare è quasi raddoppiato, in seguito al crollo dei prezzi sul mercato della risorsa

[Kenner, 2009].

128

Come sostiene Tony Weis [2007], le diete attuali sono interessate da processi di

meatification, ossia da una crescita degli alimenti a base di carne a livello globale, ben

visibile, ad esempio, dalla proliferazione dei fast-food, che dal secondo dopoguerra

hanno raggiunto la maggior parte delle classi di consumatori. Secondo Maurizio

Pallante [2012], il consumo di carne è cresciuto a ritmi impressionanti negli ultimi due

secoli, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, causando un'ampia serie di danni

sull'ambiente, sulla salute umana e quella animale. Nel 2009 ciascuna persona, in

media, ha consumato 42 kg di carne, circa il doppio del 1961 quando il consumo fu di

23 kg [Weis, 2013]. In questo scenario, la maggior parte dei consumi è situata negli

Stati Uniti (120 kg pro capite), Australia e Nuova Zelanda (118 kg), Argentina (113 kg),

Canada (102) e l'Europa Occidentale (85 kg): queste zone del mondo, nonostante

rappresentino soltanto il 12% della popolazione mondiale, costituiscono il 34% della

produzione di carne, il 30% del consumo totale e il 68% delle esportazioni mondiali

[Weis, 2013]. Inoltre, l'ascesa della classe media in paesi come Cina [McMichael,

2009], Russia, India, Brasile, ha incentivato la produzione di carne e l'adozione di diete

iperproteiche. Cina e Brasile, ad esempio, hanno avuto una crescita evidente nel

consumo di carne [McMichael, 2005]: dal 1961 il consumo pro capite di carne è passato

da 4 a 59 kg nel 2009 in Cina, mentre in Brasile da 28 a 73 kg [Weis, 2013]. Anche la

produzione è salita vertiginosamente: nel 2009 i due paesi insieme hanno prodotto il

33% dell'intera produzione mondiale [Weis, 2013], con il Brasile come primo

produttore ed esportatore di carne al mondo [ERSAF, 2011].

Figura 2 Consumo pro capite di carne, 1961-2009, Weis (2013).

129

In questo scenario, le principali catene di supermercati europei e statunitensi

attualmente controllano il mercato della carne, principalmente importata dal Sud del

mondo [McMichael, 2005], per un pubblico sempre più vasto e uniformato ai prodotti

venduti dalla grande distribuzione. In Italia, nello stesso periodo considerato da Weis, il

consumo di carne è triplicato: nel 1994 il consumo medio annuale era di circa 85 chili,

l'equivalente di 235 grammi al giorno [Pallante, 2012].

Per aumentare l'accessibilità e garantire la stabilità dei prezzi, il terzo regime

alimentare ha dovuto infatti uniformare ed omologare i metodi produttivi, de-localizzare

la produzione, selezionare le specie da allevare, standardizzare i metodi di controllo e le

forme di nutrimento, ampliare i terreni destinati all'allevamento, in modo da contrarre i

costi di gestione connessi e aumentare l'offerta. L'allevamento intensivo è divenuto un

metodo adottato in tutto il mondo, ad eccezione di alcune nicchie in cui resiste un

allevamento di tipo tradizionale, in termini di pascoli, nutrimento e produzione.

Bovini, polli e suini sono divenuti il bestiame principale per l'allevamento,

congiuntamente con i consumi mondiali nei fast-food e di cibi pronti. Hamburger, petti

di pollo, bacon e altri derivati hanno conquistato tutte le principali diete alimentari e da

qualche anno si stanno espandendo anche nei mercati emergenti. Nel 1961 gli

allevamenti di bovini costituivano il 40% del volume mondiale di carne, seguiti da

quelli di suini (35%) e di pollame (13%); da allora il volume annuale di carne suina è

più che quadruplicato e quello di pollame è aumentato di circa 10 volte, a fronte di una

crescita demografica del 120% [Weis, 2013]. Nel 2010 le statistiche hanno segnato

un'evidente diminuzione del volume di carne bovina (21%) a favore di una crescita di

pollame (37%) e di carne suina (34%) [Weis, 2013].

La scelta di puntare su determinati prodotti risponde a precise esigenze di mercato, in

quanto la necessità di produrre cibo a basso costo è fondamentale per l'accessibilità

alimentare e costituisce un imperativo nel processo di accumulazione di capitale;

un'offerta di prodotti troppo ampia, con tecniche di allevamento sostenibili produrrebbe

infatti - all'interno del sistema attuale - un aumento dei costi di gestione e di

conseguenza una diminuzione dei profitti. Un esempio che ben dimostra tale scelta è

rappresentato dai dati Fao relativo ai consumi di pollame nel 2009 e che mostravano un

130

consumo di circa 13,6 Kg all'anno di pollame per persona, di cui 12 kg di pollo, circa

l'88% [The Poultry Site, 2013].

In questa visione sistemica risulta quindi più prolifica la standardizzazione dei

prodotti, e ciò è osservabile dall'andamento del consumo di pollo: la crescita mondiale,

come dimostra l'indice Hirschmann in relazione alla concentrazione di venditori,

produttori e consumatori di questa carne sparsi per il mondo, è stata impressionante: in

alcuni stati degli USA, l'indice è addirittura di valore massimo. La concentrazione di

venditori non è massima, ma quella di consumatori e compratori è al contrario totale

[Domina, 2009]. Non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo, come in Asia,

il consumo di pollame ha subito un notevole incremento: attraverso gli allevamenti

intensivi messi in mostra da Kenner [2009], il consumo di pollo tra il 2000 e il 2009 è

passato da 66,4 milioni di tonnellate a 91 milioni; in Asia la crescita di pollame

consumato è salita da 24,4 milioni di tonnellate a 35 milioni nel 2009, circa il 40% del

consumo totale; in Arabia Saudita negli ultimi vent'anni, la domanda di pollame è salita

di circa il 5% all'anno, con un consumo nel 2013 di circa 42 milioni di tonnellate per

persona [The Poultry Site, 2013]. Cifre simili testimoniano l'ingente produzione

mondiale attraverso allevamenti intensivi, molto spesso dannosi per la salute e la qualità

degli animali e quindi delle carni. Il caso dei polli è, ancora una volta, esemplare: nel

2006, circa il 70% della carne disponibile nei supermercati era prodotta da allevamenti

intensivi [Lead, 2006], crescendo ulteriormente del 21% nel 2010 [Weis, 2013].

Il sistema intensivo descritto è ovviamente valido anche per altri animali come suini

e bovini, ed è controllato principalmente dall'industria multinazionale. Negli anni '70 le

cinque principali multinazionali controllavano il 25% del mercato nazionale di carne;

nel XXI i quattro gruppi (Tyson, Cargill, Swift e Smithfield) principali ne controllano

oltre l'80% hanno iniziato una decisa politica accentratrice, divenendo nel XXI secolo i

principali fornitori di carne a livello mondiale [Kenner, 2009]. La salita al vertice della

piramide produttiva/distributiva è stata possibile grazie a una serie di standardizzazioni

degli allevamenti intensivi: il mais è divenuto così il principale, se non l'unico,

nutrimento dei capi di bestiame, siano essi bovini, suini o polli. Ciò ha permesso di

ridurre notevolmente i costi, ma ha richiesto una quantità di cereale, in primis mais,

sempre maggiore, in relazione all'aumento del volume di carne prodotta [McMichael,

2009, 2009b; Rosegrant, 1999]. Come osserva Michael Pollan in riferimento alla

131

produzione di polli per McDonald's: "tutta la carne di McDonald's è in realtà mais. I

polli sono diventati macchine per convertire due libbre di mais in una libbra di carne"

[McMichael, 2009]. Anche i bovini, per natura vegetariana e non adatti ad alimenti

come mais e mangimi, sono nutriti con questi cereali: per ogni chilo di carne prodotta

sono necessari 7 Kg di mais [Rosegrant, 1999], alterando in questo modo il

metabolismo e in ultima analisi la qualità delle carni [Kenner, 2009]. Tale meccanismo

incide profondamente sulla quantità disponibile e sui prezzi di carne, cereali e derivati,

alla base di qualsiasi dieta alimentare, con il risultato che fette di popolazione sempre

più ampie si alimentano di proteine animali, cibi iperproteici, salati e zuccherati, più

economici rispetto a frutta e verdura, il cui mercato risulta meno redditizio [Kenner,

2009]. L'eccessivo consumo di carne oltre a esporre i consumatori ai rischi derivanti da

un eccessivo apporto proteico, si dimostra rischioso anche, e sopratutto, in relazione alla

qualità di allevamento a cui sono sottoposti i capi di bestiame: la standardizzazione, la

meccanizzazione delle procedure, la riduzione dei costi e l'aumento dei capi allevati

determinano infatti condizioni decisamente precarie per gli animali. In questi ambienti

malsani si possono annidare e proliferare agenti patogeni che, se non eliminati, possono

contaminare la carne e risultare pericolosi per la salute umana. Un esempio in questo

senso è rappresentato dall'Escherichia Coli, un batterio presente negli organi a sangue

caldo e molto pericoloso per la salute, la cui presenza è stata riscontrata in maniera

evidente nei fast-food [Jay et all. 2014].

Le tecniche intensive - come alcuni metodi di acquacoltura visti in precedenza - se da

un lato garantiscono abbondanti livelli produttivi a costi bassi, dall'altro sono

responsabili di un decisivo peggioramento della qualità, ben visibile in relazione alle

epidemie di origine animale. La mancanza di trasparenza nei confronti dei consumatori

rende questi ultimi ignari delle modalità di produzione, orientate unicamente

all'accumulazione di guadagno, come ricorda Campling, [2012]. La produzione

intensiva ha abbattuto i costi, riempiendo le diete di milioni di consumatori di proteine

animali di scarsa qualità e sicurezza, nonostante pubblicità e marketing - i principali

metodi attraverso cui un consumatore medio entra in contatto con i prodotti alimentari -

affermino il contrario.

E' stato calato volontariamente un sipario tra noi e il luogo di provenienza del cibo. Le

industrie non vogliono si sappia la verità. Se il consumatore la sapesse non comprerebbe.

132

[...] Esiste un ristretto gruppo di multinazionali che controlla l'intera produzione alimentare

dal seme al supermercato e che sta assumendo un gigantesco potere. Non è solo una

questione di cibo: sono a rischio anche la libertà di espressione e il diritto di informazione.

[Kenner, 2009].

In questo scenario il consumatore viene pertanto estromesso dalla conoscenza di ciò

di cui si nutre, nonostante egli rappresenti il principale protagonista del sistema

alimentare: le sue decisioni riguardo a quali cibi comprare (fresco o lavorato), al

marchio (locale o multinazionale) e dove comprare (supermercati, negozi o direttamente

dai produttori) condizionano l'andamento dell'intero sistema alimentare

Il consumatore rappresenta il perno del mercato, in quanto dalle sue scelte dipende il

mercato stesso. Tuttavia, il meccanismo di espansione e incorporazione delle principali

multinazionali sta minando tali scelte alla base: con la monopolizzazione dei mercati -

nascosta dalla presenza di una serie molto numerosa di marchi e industrie

apparentemente indipendenti, ma di fatto parti di gigantesche lobby - il consumatore

non sarà più in grado di effettuare tali scelte, alla base delle libertà e dei diritti personali.

I mezzi di comunicazione, in questo scenario, giocano un ruolo molto importante,

presentando industrie e marchi come appartenenti a mondi incontaminati, naturali,

'verdi', nonostante la realtà sia diametralmente opposta.

133

4 Alternative alimentari

1 Transizione

L'idea di sfruttare le risorse oltre i limiti intrinseci di rinnovamento si è visto essere il

perno del sistema capitalista, in particolare riferimento alla produzione alimentare

globale: dai piccoli sistemi indipendenti e autosufficienti si è arrivati attraverso i secoli

a un unico sistema mondiale incentrato sulla crescita del capitale, dei prodotti e dei

consumi, attraverso meccanismi di espansione e di inglobamento [Wallerstein, 1984]. Il

Sud, da sempre terra di conquista dei paesi europei, è diventato la 'fattoria del mondo',

una gigantesca macchina produttiva, controllata da pochi gruppi industriali, necessaria

al mantenimento di sempre più persone, sempre più concentrate in grandi centri urbani,

la maggior parte dei quali nel Nord. La diffusione del sistema lavorativo industriale (la

catena di montaggio) anche in altri settori come quello agroalimentare ha permesso di

abbattere considerevolmente costi e tempi, assicurando un aumento della produttività,

grazie anche allo sviluppo tecnologico (come la robotizzazione) di molte pratiche che

hanno prodotto una diminuzione della domanda di forza-lavoro e, dunque, dei salari

[Araghi, 2003; McMichael 2009; Moore 2010b, 2014, 2014b; Pallante, 2012; Achbar,

2003; Kenner, 2009].

L'industrializzazione del sistema agroalimentare, oltre ad avere effetti sul sistema

lavorativo e sulla forza-lavoro, ha avuto conseguenze negative sull'ambiente circostante:

le colture e gli allevamenti intensivi hanno infatti causato un aumento nell'impiego di

sostanze chimiche, influendo negativamente sul clima, sulle risorse idriche, sulla qualità

del suolo, ecc. La stretta relazione tra la produzione capitalista e l'equilibrio ecologico è

stata espressa nell'analisi fatta da Marx, definita come scissione metabolica. Ciò era già

visibile a partire dal XVIII secolo, come afferma Foster [2009], tuttavia l'accelerazione

offerta dalla globalizzazione ha acutizzato tale scissione.

134

Il sistema capitalista, come si è visto nel capitolo 1, prese forma in seguito alla crisi

feudale, alla peste nera e alla rivoluzione apportata da un nuovo modo di concepire la

natura e le sue risorse, attraverso una visione utilitaristica e di sfruttamento. Il sistema

basato sul capitale non è pertanto l'unico concepibile e storicamente avvenuto. Questo

passaggio, fu attivato da un periodo di transizione, in cui l'orizzonte socio-culturale fu

riorganizzato e modellato sui nuovi valori economici e politici, gestiti dai regimi che di

volta in volta si sono succeduti. La genesi del sistema è stata quindi graduale,

investendo sempre più settori produttivi, classi sociali e aree geografiche, col passare

del tempo. Un contributo significativo all'accettazione e adozione del sistema fu il

processo di privatizzazione delle terre, specialmente nell'Inghilterra del XVII e XVIII

secolo, che diede una decisa spallata al precedente modo di considerare la relazione

uomo-natura. La tragedia dei beni comuni descritta da Hardin rappresenta, in questo

senso, un deciso contributo al nuovo orizzonte socio-culturale, in cui la natura diventa

una risorsa spendibile e accumulabile. A livello socio-culturale, la nuova effervescenza

scientifica, industriale, finanziaria agraria permise la nascita della borghesia, dei

consumi e delle possibilità di guadagno rispetto alle precedenti condizioni feudali; i

limiti naturali, eccezion fatta per alcuni casi, come le coltivazioni di zucchero nelle isole

mediterranee o dell'Atlantico [Moore, 2009] erano a livello globale, lontani dall'esser

raggiunti, permettendo in questo modo la sedimentazione del nuovo sistema a livello

socio-culturale.

I vari regimi che si sono succeduti, dal capitalismo di Genova e Venezia [Braudel,

1982] alle Province Unite, dall'impero britannico a quello statunitense [Arrighi, 1999,

2008], si sono sviluppati all'interno di una struttura sociale in cui il capitalismo si era

diffuso a livello culturale, lasciando gli oppositori in posizioni marginali e di nicchia

sociale. L'adozione del capitale, all'interno del processo transitivo, si collocò a livello di

'paesaggio', inteso come ambiente esterno e socialmente condiviso, in cui di volta di

volta si confrontarono fazioni contrapposte per il raggiungimento di ruoli egemonici.

Piccole realtà o nicchie, in seguito a matrimoni, espansioni militari e acquisizioni di

titoli, raggiungevano dimensioni tali da smuovere gli equilibri geopolitici [Arrighi,

1999]. La forza dinamica di tali movimenti transitivi restava comunque all'interno del

paesaggio capitalista.

135

La prospettiva di Arrighi sulla transizione del capitalismo a sistema egemonico

mondiale potrebbe essere supportata anche da un nuovo approccio che si sta affermando

in Europa, definito prospettiva multilivello della transizione sociotecnica. In realtà, tale

approccio è molto centrato sulle transizioni tecniche ma è indubitabile che queste siano

centrali al pari della dinamiche politiche, economiche e militari identificate dalla scuola

del sistema mondo.

Lo schema proposto, definito prospettiva multilivello, è stato formulato per la prima

volta da Rip e Kemp e ripreso da Geels e Shot [Hargreaves, Longhurst and Seyfang,

2013], e consiste in un'analisi su più livelli dei processi transitivi. L'espansione del

capitale come sistema, e della propria struttura sociale è, in questo senso, osservabile

secondo lo schema proposto da Geels e Shot [2007], in cui le dinamiche di espansione

sono analizzabili attraverso tre livelli interpendenti e in costante interazione tra loro. La

proposta dei due sociologi consiste in un analisi multilivello della struttura sociale,

composta dal livello dell'orizzonte (landscape), quello dei regimi (regimes) e, infine, le

nicchie (niches), queste ultime geograficamente localizzate e con caratteristiche e valori

differenti od opposti alle posizioni dominanti [Geels and Shot, 2007]. Landscape sta ad

indicare l'ambiente circostante all'interno di un particolare sistema sociale in cui norme,

valori, consumi e vita quotidiana sono socialmente definite e stratificate; tali pratiche

sociali sono governate, coordinate e sviluppate dai regimi, la configurazione di attori

dominante [Avelino and Rotmans, 2010]. Le nicchie infine rappresentano il luogo delle

innovazioni e delle spinte al cambiamento [Smith, 2007], resistenti allo schema

dominante imposto dal regime, quest'ultimo garante dello status quo [Avelino and

Rotmans, 2007].

L'esperienza storica suggerisce e dimostra che i cambiamenti radicali hanno preso

forma in ambienti ristretti, ovvero nicchie situate ai margini del regime [Smith, 2007]. Il

quadro descritto restituisce una situazione di sviluppo dinamico, in cui nicchie e regimi

influenzano attivamente l'andamento, il progresso e lo sviluppo socio-culturale, a livello

dell'orizzonte: la diffusione di pratiche, inizialmente di nicchia e successivamente a

livello di regime determina, infatti, una netta modificazione del tessuto sociale.

Trovando una conferma allo schema proposto attraverso le analisi geopolitiche di

Arrighi e Wallerstein, la crescita a regime si è osservata in merito all'espansione di

Genova, Venezia e delle Province Unite, in grado, attraverso lo sviluppo dei servizi

136

bancari, finanziari e commerciali, di influenzare e indirizzare gli equilibri geopolitici

europei. Il regime è infatti definito come una costellazione di "pratiche dominanti,

regole e assunzioni condivise", che agisce come un'influenza omogenea nella sfera

sociale [Geels, 2011]. Una precisazione importante è che i regimi non corrispondono

soltanto al buon governo, o alla tirannide, della politica: la deregulation degli anni '80 e

la globalizzazione del decennio successivo [Arrighi, 1999] hanno infatti agevolato

l'ascesa delle lobby nel panorama geopolitico e finanziario, stabilendo secondo alcuni

studiosi nuove tipologie di regime. L'attuale regime alimentare, controllato dalle

multinazionali rappresenta un chiaro esempio di questa presa di potere: esso è infatti

controllato dai prezzi dei mercati e non da stati o imperi [McMichael, 2009].

La struttura sociale inserita in un paesaggio capitalista e governata da regimi che di

volta in volta sostituiscono i precedenti (basti pensare all'attuale momento di transizione

nel panorama geopolitico, con la crisi egemonica statunitense e l'ascesa cinese e delle

lobby) presenta al suo interno alcune nicchie, un livello sottostante ai regimi, in cui si

registrano le principali innovazioni tecnico-scientifiche, socio-culturali ed economiche

[Geels and Shot, 2007]. Tali innovazioni possono confluire nel paesaggio socio-

culturale ed essere adottate dai regimi, oppure rimanere su dimensioni marginali,

scomparire o, al contrario, scardinare i regimi e provocare cambiamenti al paesaggio

circostante. Tale analisi, che ben si presta alle concezioni sul capitale elaborate da

Braudel, si presenta quindi come dinamica e in trasformazione: in altre parole, i processi

transitivi che possono prender forma all'interno dei micro-livelli (nicchie), non seguono

un andamento lineare ma sono al contrario segnate dalla presenza di attori diversi

disposti su più livelli, socio-culturali, geopolitici ed economici.

All'interno dell'analisi multilivello bisogna tenere conto anche della componente

legata al potere, all'esercizio di esso e alle forme di esercizio, molto spesso tese al

mantenimento dello status quo, in termini politici, economici e sociali. Il potere qui è

visto dunque come un insieme coeso di soggetti unicamente interessati al mantenimento

del potere. Tali alleanze sono riscontrabili nelle industrie petrolifere e nella produzione

di energia da combustibili fossili, nonostante le alternative siano ampiamente disponibili

[Geels, 2014].

Contemporaneamente all'analisi multi-prospettica delle transizioni vanno considerate

anche le pratiche quotidiane di ciascuna persona; transizione non solo in termini socio-

137

tecnici, ma anche sociali [Hargreaves, Longhurst and Seyfang, 2013] e delle scelte

quotidiane, per esempio di consumo di ciascun soggetto. Le pratiche quotidiane come

cucinare, usare l'automobile, lavorare, dormire, ecc, definiscono il grado di

organizzazione sociale e i possibili processi transitivi [Hargreaves, Longhurst and

Seyfang, 2013; Shove and Walker, 2010]. Queste, in altri termini, si sedimentano nel

contesto e nello spazio quotidiano socialmente diffuso e condiviso [Shove and Pantzar,

2005], divenendo talvolta tratti caratteristici di alcuni strati sociali. A livello alimentare,

per esempio, basta considerare il ruolo giocato dal caffè come pratica sociale e

simbolica più che realmente funzionale [Franchi, 2007]. Modificare questo insieme di

pratiche socialmente radicato si presenta pertanto complesso, in ragione dei tanti

elementi che compongono il tessuto sociale, non ultimo i mezzi di comunicazione che

orientano e indirizzano l'opinione pubblica [Lippman, 2004].

Nel panorama attuale, sempre più globalizzato - sia mediaticamente, sia

politicamente - si sta osservando la nascita di piccole nicchie, distinte per pratiche e

consumi quotidiani, rispetto al trend generalizzato. La scarsezza di risorse disponibili,

l'aumento dei costi energetici e dell'inquinamento, l'indebolimento della forza-lavoro,

l'aumento del costo della vita e dei prezzi alimentari - in particolar modo durante il

biennio 2007-2008 - hanno aperto un ventaglio di innovazioni, all'interno di nicchie

sempre più folte, alternative ai modelli di crescita proposti.

Nuove realtà riconducibili ai movimenti di sostenibilità alimentare e ambientale

hanno preso piede in tutto il mondo nel corso dell'ultimo decennio, nonostante il

mancato risalto offerto dai media, offrendo così alternative potenzialmente valide al

panorama del capitalismo. Tra di esse alcune possono esser considerate come estreme,

altre, al contrario, più concilianti con le pratiche quotidiane di ciascun individuo e del

tessuto sociale in generale, tutte però orientate alla sostenibilità ambientale. E'

importante considerare che ciascuna modifica alle pratiche quotidiane corrisponde a un

miglioramento o peggioramento delle condizioni ambientali e alimentari: il grado di

conversione a pratiche sostenibili e ecologicamente idonee è infatti inversamente

proporzionale al mantenimento dell'orizzonte sociale attuale orientato alla produttività,

all'aumento dei consumi e all'accumulazione di capitale [Latouche, 2007; Pallante,

2012].

138

La transizione è un fatto intrinseco alla società in perenne mutamento ed evoluzione;

tuttavia i tempi di tale cambiamento sono relazionati a molteplici fattori, così come gli

esiti. Lo si è visto nel cambiamento dei regimi geopolitici, nella produzione e nel

consumo alimentare e nei cambiamenti prodotti sull'ambiente circostante, caratteristiche

ineliminabili di un sistema basato sulla valorizzazione economica della natura [Araghi,

2003; Foster, 2009]. Le nicchie 'alternative' si caratterizzano in questo senso non per la

sostituzione di vecchi prodotti con altri nuovi, ma in un cambiamento radicale del

sistema tecnologico, incluso un mutamento dei consumi, delle preferenze dei

consumatori e dei prodotti stessi [Smith, 2007]. Tali tentativi di innovazione

attraversano una lunga serie di ostacoli, legati in primo luogo alla dimensione culturale,

fortemente influenzata dai mezzi di comunicazione, dalle pratiche quotidiane

socialmente stratificate [Shove and Walker 2010] e dalla marginalità sociale in cui esse

si manifestano [Geels 2011; Geels and Shot, 2007; Frison, Cherfas and Hodgkin, 2011].

Ciononostante, l'esito non è scontato: come dimostrano le tante iniziative ecologiche

sorte nell'ultimo ventennio in tutto il mondo (come i movimenti di sovranità alimentare,

o la nascita di istituti bancari 'etici'), la resistenza culturale della maggior parte della

società si scontra con la presenza di nicchie produttive e sociali.

In Italia tuttavia il fenomeno ha avuto un discreto seguito da quando ha avuto

origine: la crescita e la stabilizzazione di alcune di esse sono eventi che si stanno

verificando con una certa frequenza, specialmente nell'ultimo decennio e in relazione

alla crisi economica e all'incertezza occupazionale [Mostaccio, 2015]. Le nicchie,

attraverso un'azzeccata pubblicità, hanno attratto fette di consumatori più attente alla

qualità alimentare, riuscendo così a trovare una collocazione, seppur parziale e minima,

nel mercato interno.

2 Sostenibilità alimentare

La lunga analisi sui regimi alimentari, all'interno del sistema del capitale, ha

evidenziato alcuni aspetti solitamente lasciati ai margini dell'opinione pubblica e delle

politiche governative, risaltando modelli orientati al consumo. La lunga filiera percorsa

139

dal cibo, come si è visto proveniente da tutto il mondo, molto spesso lascia infatti il

posto, di fronte al consumatore, ad una spettacolarizzazione del cibo e del contesto

alimentare: il cibo fa parlare di sé e viene presentato come qualcosa di spettacolare,

necessario al soddisfacimento dei più particolari gusti alimentari [Franchi, 2007].

Raramente infatti si fa menzione dei costi necessari alla produzione, al trasporto e alla

distribuzione che influiscono sensibilmente sui prezzi e sulla qualità finali [Pallante,

2012]; la cultura dell'immagine, ovvero quella del XXI secolo, non lascia infatti molto

spazio a tematiche simili, focalizzando l'attenzione su elementi come gusto, sapore,

estetica, rarità.

All'interno dell'orizzonte del consumismo bulimico delle società più avanzate, e delle

classi agiate dei paesi in via di sviluppo, stanno però nascendo nicchie alternative al

sistema vigente, in contrasto con i metodi intensivi di produzione, con l'inquinamento

derivante, con lo sfruttamento senza sosta delle risorse naturali e con le lunghe filiere.

Fin dal secondo dopoguerra il tessuto sociale, a cominciare dagli organi di informazione

ed educazione come media e scuola, hanno puntato l'attenzione sul progresso raggiunto

dalla produzione industriale (di qualsiasi settore) de-localizzata, in grado di garantire

alla maggior parte delle classi sociali dei paesi sviluppati tenori di vita al di sopra delle

possibilità strutturali [Foster, 2009]. Il cibo si è pertanto arricchito di una serie di

connotazioni e caratteristiche che l'hanno portato, all'interno della percezione sociale, a

venir descritto esclusivamente attraverso alcune caratteristiche come gusto, raffinatezza,

ricercatezza, e non provenienza, qualità. L'apertura della forbice tra le classi ricche e

quelle povere, ha portato in anni recenti alla contrapposizione tra cibo fast e slow

[Franchi, 2007], estremizzando l'attenzione sul cibo come prodotto da assorbire e da

gustare, ed escludendo la dimensione produttiva.

Fin dal primo colpo d'occhio le due sponde sono facilmente visibili per quello che

riguarda la tavola: lusso e miseria, sovrabbondanza e penuria. Detto questo, corriamo

verso il lusso. E' lo spettacolo più vistoso, meglio inventariato e anche più attraente per

un osservatore d'oggi, comodamente seduto nella sua poltrona. L'altra sponda si rivela

desolante. [Braudel, 1982, I, 164]

140

Con il boom economico del secondo dopoguerra, le industrie alimentari hanno preso

il sopravvento nella produzione di cibo agendo massicciamente sui consumi mondiali e

distogliendo l'attenzione sulle fasi dei processi di produzione [Kenner, 2009].

Il 'metabolic rift', la scissione metabolica descritta da Marx e ripresa dal

neomarxismo contemporaneo costituisce un'importante analisi su un serio problema

all'equilibrio ecologico e alle relazioni uomo-mondo [Foster, 2004, 2009, 2011, 2012,

2013]. Nel concetto espresso dalla scuola marxista si racchiude l'andamento

insostenibile dell'industria e della produzione del sistema capitalista, determinato quasi

totalmente da dinamiche di accumulazione di capitale, e non di salvaguardia

dell'ambiente.

Gusti, economicità e raffinatezza infatti sono indicatori deboli riguardo all'impatto

ecologico e ambientale di ciò che le masse consumano in termini alimentari: riguardo

all'ultimo anello della produzione alimentare, il consumatore, ciò che si osserva è una

generale perdita della percezione e della scelta dei prodotti. Frutta e verdura, ad

esempio, hanno assunto nel tempo aspetti pressoché 'perfetti' esteticamente,

discostandosi dai prodotti originari, restituendo pertanto solo un'immagine, un

simulacro di quel prodotto [Kenner, 2009]. Ciò è dovuto ai metodi produttivi e agli

standard alimentari e sanitari, che producono una generale conformità in termini di

prodotti, dieta e garanzie: l'ampio uso di sostanze chimiche, di agenti stabilizzanti, della

lavorazione industriale e di conservanti per il trasporto permette quindi di avere prodotti

identici tra loro, a costi relativamente contenuti, e approvati clinicamente. Questo è

permesso da almeno tre fattori: l'uso di sostanze chimiche e delle biotecnologie ha

permesso - seppur con un andamento decrescente - di aumentare i raccolti e le

esportazioni, soddisfacendo così la domanda mondiale di beni; la continua espansione e

privatizzazione dei terreni specialmente nei paesi più arretrati rappresenta un altro

mezzo per la stabilità dei prezzi nelle economie principali, assicurata inoltre ad una

forza-lavoro in condizioni di semi-schiavitù [Araghi, 2003]. La somma di tali fattori

coincide con un prodotto finale qualitativamente scarso, potenzialmente dannoso ed

economicamente poco più vantaggioso di quelli coltivati localmente [Latouche, 2007;

Pallante, 2012]. Il vantaggio economico dei prodotti industriali perde pertanto rilevanza

se riletto alla luce di altri fattori, risultando inoltre nullo se considerate le spese sanitarie

legate all'alimentazione. In questo quadro non bisogna scordare la drastica e continua

141

riduzione delle risorse naturali, come le materie prime e i combustibili fossili che, come

si è visto, hanno generato una corsa al business dell'agrofuels [McMichael, 2010b] e un

generale aumento dei beni di prima necessità.

La situazione descritta dimostra in tutti i suoi aspetti l'alto impatto ecologico,

ambientale, socio-culturale ed economico di un regime alimentare improntato sulla

produzione industriale su larga scala: l'economicità dei fast-food, garantita da prodotti

qualitativamente scarsi ma accattivanti e serviti da una manodopera a basso costo, molto

spesso è protagonista di casi di malnutrizione, obesità, virus o epidemie, come si è

osservato nei capitoli precedenti. In questo scenario i singoli individui affetti da disturbi

derivanti dalla malnutrizione dovranno investire parte dei propri soldi per le cure

mediche, annullando in questo modo i presunti vantaggi ottenuti da cibi economici e

fast [Latouche, 2007

].

Si viene così a delineare uno scenario nuovo ed alternativo: la presa di coscienza di

questa serie di problematiche ha aperto nel recente periodo alcune possibili alternative

di produzione e consumo alimentare scollegate dal regime industriale e promotrici delle

metodologie della sostenibilità alimentare. Questo concetto racchiude un ampio

ventaglio di possibili alternative rispetto all'orizzonte attuale e ai regimi che ne

mantengono l'equilibrio; il perno centrale del concetto di sostenibilità è comunque il

rispetto dei ritmi naturali, dei prodotti locali coltivati con tecniche biologiche, della

biodiversità e della qualità originaria dei prodotti. L'agricoltura biologica è un metodo di

coltivazione che ha come obiettivo il rispetto dell'ambiente, degli equilibri naturali e

della biodiversità, della salute dell'operatore e del consumatore. In essa non vengono

impiegati nè antiparassitari nè concimi di sintesi chimica e l'azienda agricola viene vista

come un “agro-eco-sistema” nel quale l'attività agricola si inserisce in un contesto

ambientale naturale cercando di conservarne il più possibile le caratteristiche [Regione

Piemonte, 2012].

In questo senso la sostenibilità alimentare coincide con quella ambientale:

l'agricoltura sostenibile infatti rappresenta il punto di equilibrio tra i valori ambientali,

quelli produttivi e quelli di erosione del terreno: il superamento, in altri termini, della

relazione utilitarista della natura e delle sue risorse. La ripresa di un equilibrio nelle

relazioni tra uomo e natura inaugura il concetto di resilienza: esse consiste nella

142

capacità di un ecosistema (inclusi quelli umani come le città) o di un organismo, di

ripristinare l’omeostasi, ovvero la condizione di equilibrio del sistema a seguito di un

intervento esterno (come quello dell’uomo) che può provocare un deficit ecologico

ovvero l’erosione della consistenza di risorse che il sistema è in grado di produrre

rispetto alla capacità di carico”. In poche parole resilienza e sostenibilità vanno a

braccetto quando un sistema è in grado di “mantenere il proprio funzionamento

nonostante un cambiamento o uno shock subito dall’esterno” e in riferimento ad una

comunità locale, quando “è in grado di essere indipendente per quanto riguarda la

produzione dei beni di prima necessità”. “Pensa globale, compra locale”, è solo uno dei

famosi motti che accompagnano e semplificano questo concetto.

Uno dei possibili metodi di agricoltura sostenibile è senz'altro il ritorno alla

coltivazione di più colture rispetto alle attuali industrializzate ed intensive monocolture:

si è osservato infatti che l'inserimento di più colture nello stesso appezzamento produce

raccolti superiori, una più rapida rigenerazione dei suoli, prodotti qualitativamente

superiori, nonché un miglioramento delle condizioni climatiche e dell'aria [Frison,

Cherfas and Hodgkin, 2011; Fukuoka, 2011]. Un simile metodo produttivo sarebbe

totalmente incompatibile con l'immenso apparato industriale delle multinazionali che

quotidianamente riforniscono i supermercati e i grossisti di cibo: a partire dagli anni '50

infatti, l'industrializzazione agricola ha comportato un nuovo ruolo delle fattorie e delle

aziende agricole, non più come produttori di cibo ma come intermediari di una più

lunga catena alimentare incentrata sul consumatore e sulla grande distribuzione. In

Inghilterra, a titolo di esempio, è stato calcolato che circa il 95% fa la spesa al

supermercato [Smith, 2007]; percentuale che si è visto essere simile nella maggior parte

dei paesi sviluppati; è in questo panorama socio-culturale che si può comprendere la

reale dimensione di nicchie socio-tecniche poste ai margini dei regimi.

Le nicchie ed i regimi infatti hanno come scopo finale due obiettivi opposti: al posto

dell'accumulazione di capitale, osservata nel processo produttivo delle grandi catene e

delle grandi firme, le nicchie agricole propongono prodotti qualitativamente migliori e

con metodi in sinergia con i ritmi naturali e con l'ambiente circostante.

Negli ultimi anni, complice una serie di fattori tra cui la crisi economica, l'aumento

dei prezzi alimentari e i disastri ecologici occorsi, si è assistito a una crescita di tali

nicchie e di un consumo più attento a questioni etiche, sociali, ecologiche [Zanoli e

143

Vairo, 2012], nonché qualitative. Ciò è stato possibile grazie anche all'aumento

dell'attenzione politica riguardo alle tematiche alimentari e all'agricoltura, sempre più

subordinata al capitale finanziario e multinazionale: i principali organi di governo

nazionale ed europeo hanno infatti aumentato finanziamenti, campagne pubblicitarie e

sovvenzioni alle nuove forme di agricoltura sostenibile e biologica [Zanoli e Vairo,

2012].

Nel 2007, l'Unione Europea ha adottato una nuova linea politica in materia di

agricoltura sostenibile: al punto 1 del documento pubblicato si legge infatti che:

"La produzione organica è innanzitutto un sistema di gestione agricola e produzione

alimentare che combina le migliori pratiche ambientali, il più alto livello di biodiversità, il

preservamento delle risorse naturali, il miglioramento del benessere degli animali e un

metodo di produzione in linea con le preferenze di alcuni consumatori di prodotti generati

da processi e ingredienti naturali" [EC, 2007, p.1].

In concreto la strategia adottata dai paesi membri ha riguardato lo sviluppo di sistemi

di coltivazioni mantenibili nel tempo, al contrario delle sementi geneticamente

modificate che, come si è visto, vanno riacquistate a ogni raccolto [Laskawy, 2010;

Moore 2014], in quanto le seconde generazioni si presentano altamente instabili

[Benbrook, 2009]; in secondo luogo le nuove linee politiche riguardano la coltivazione

diversificata e di qualità, cercando di mantenere i prezzi in linea con quelli mondiali;

una crescita dell'attenzione ambientale e verso la salvaguardia della biodiversità, in

particolare la protezione degli animali; l'investimento verso l'agricoltura biologica e

sostenibile passa anche dalla crescita della fiducia dei consumatori e dalla cura degli

interessi di ciascuno [Ec, 2007].

La crescita dell'interesse e degli interventi delle istituzioni ha alimentato il varco

nell'attenzione sociale, culturale e mediatica sulla sicurezza alimentare, aperto in

precedenza da iniziative indipendenti e private: i cittadini, specialmente negli stati dove

l'interesse verso la sicurezza alimentare è alto (l'Italia è uno di questi), hanno infatti

accresciuto il numero di iniziative e progetti, la maggior parte dei quali sorti in maniera

spontanea [Mostaccio, 2015]. Riguardo alla protezione della biodiversità e allo sviluppo

di colture diversificate e di qualità, l'Unione Europea (con l'Italia in testa) ha rifiutato

l'introduzione di OGM, salvo modificare la decisione su pressione delle multinazionali,

144

rimandando la scelta ad ogni singolo stato. Nonostante l'introduzione in alcuni paesi

come in Spagna di alcune varietà di semenze geneticamente modificate (precisamente la

qualità MON810, di Monsanto), in Italia ciò è stato sempre respinto grazie a

un'opinione pubblica e alla politica particolarmente attente alle questioni alimentari.

Il rifiuto di coltivazioni dannose per la salute ha aperto e apre la strada alla possibilità di

poter aumentare quelle biologiche, visto il terreno socio-culturale particolarmente

favorevole: in diverse regioni, in seguito alle Politiche regionali e ai Piani per lo

sviluppo rurale oltre che dal libero associazionismo, sono sorte numerose nicchie di

produzione agroalimentare sostenibile [Carbone, Gaito, Senni, 2005] che, in molti casi,

prevedono anche altre attività [Zanoli e Vairo, 2010], come di riabilitazione per malattie

specifiche, di educazione ambientale, di turismo e ristorazione, in un contesto

multidimensionale [Carone, Gaito, Senni, 2005]. Un esempio della nuova agricoltura

riguarda i progetti organizzati assieme alle scuole (medie ed elementari specialmente),

attraverso cui bambini e giovani entrano in contatto con la dimensione naturale,

ecologica e agricola che agevola l'apprendimento dell'universo agroalimentare per le

fasce più giovani. Nel mondo sono sorti moltissimi progetti di questo tipo; in Italia ciò è

accaduto soprattutto attraverso iniziative private come il progetto di Slow Food

denominato 'Orto in condotta', che dal 2004, anno di nascita del progetto, si è espanso

sino a contare circa 435 orti nella penisola, di cui un centinaio condotti direttamente da

Slow Food. Solo in Piemonte, secondo i dati di Slowfood, gli orti in condotta sono quasi

130, distribuiti tra scuola materna, elementare, media, superiore, piattaforme comunali e

musei.

L'agricoltura, in seguito ai nuovi progetti PAC (Politica agricola comune), si è infatti

aperta a una serie di pratiche alternative e parallele alla semplice produzione agricola: il

futuro, disegnato dalla nuova riforma PAC, sottolinea infatti come le prospettive

dell’evoluzione dell’agricoltura siano legate da un lato ad un pieno ed effettivo recupero

di competitività del settore (ricambio generazionale e formazione del capitale umano;

ricambio, ristrutturazione e innovazione del capitale fisico; qualità della produzione) e

dall’altro, ad un investimento nella multifunzionalità e diversificazione delle attività.

L’ampliamento dei confini tradizionali dell’agricoltura (coltivazione e allevamento)

nasce all’interno del processo di riorganizzazione del settore, avviatosi negli ultimi

decenni sulla spinta del nuovo indirizzo della politica agricola comune, da un lato come

145

strategia utilizzata dalle aziende agricole per far fronte alla riduzione e all’instabilità dei

redditi, consentendo in questo modo la sopravvivenza dell’attività primaria; dall’altro

lato come strumento per sottolineare il potenziale economico e il ruolo strategico del

settore, ai fini dello sviluppo all’insegna della sostenibilità non solo economica ma

anche culturale, alimentare, territoriale e ambientale. Favorire la diversificazione delle

attività rientra tra gli strumenti rivolti a restituire centralità e dunque nuovi spazi a

questo settore produttivo, contribuendo a riaffermare il suo ruolo strategico sul piano

dello sviluppo futuro. L’agricoltura, infatti, oltre alla funzione strettamente produttiva

svolge altre funzioni riassumibili in quattro tipologie: funzioni verdi (gestione del

paesaggio e tutela della biodiversità); funzioni blu (gestione delle risorse idriche e

preservazione dai rischi idrogeologici); funzioni gialle (sostegno allo sviluppo rurale,

riferimento culturale e d'identità, attrattiva turistica); funzioni bianche (qualità,

sicurezza e salute dei prodotti alimentari) [Tolomeo, 2013].

Sostenibile infatti è un concetto che trascende dalla dimensione puramente

economica: rappresenta il tentativo di un mutamento culturale, una presa di coscienza

dell'alto costo ambientale, prodotto dallo stile di quotidiano, contemporaneamente alla

bassa qualità dei prodotti abitualmente consumati [Pallante, 2012]. La rinascita di

un'agricoltura (urbana o rurale indistintamente) locale romperebbe infatti il legame che

unisce la produzione e i consumi nelle varie parti del mondo. I prodotti alimentari

risulterebbero qualitativamente migliori, grazie alle politiche nazionali in merito agli

OGM e alla riduzione di sostanze chimiche, per il mantenimento durante le fasi

distributive, con una serie di positivi effetti a catena: la notevole riduzione

dell'inquinamento, un miglioramento delle condizioni ambientali, la ripresa delle

economie locali, un miglioramento della trama sociale, la diminuzione delle malattie

provocate da intossicazione alimentare, la riduzione della perdita della biodiversità, la

rinascita del legame con il contesto naturale lentamente dimenticato a partire dalla

rivoluzione industriale, dalla privatizzazione dei beni comuni e dalla visione utilitarista

di essa.

L'innovazione come si è visto avviene nelle nicchie socio-tecniche e l'agricoltura e

l'allevamento sociali e sostenibili ne sono in questo senso la conferma: esse si

caratterizzano dalla presenza di attività extra-agricole (per esempio con ruoli di

formazione ed educazione, rivolte a fasce sociali vulnerabili, come le persone affette da

146

malattie mentali, anziani, bambini, ecc...), oltre che dalla sostenibilità della produzione

agroalimentare [Carone, Gaito, Senni, 2005]. Il carattere multidimensionale aiuta a

rinfocolare il rapporto fra le città e le vicine campagne, in quanto l'inclusione di pratiche

differenti da quella della coltivazione, come appunto l'educazione o la cura e la terapia

attraverso il contatto con animali e piante ha permesso di osservare la campagna con un

altro punto di vista rispetto alla sola dimensione lavorativa e contadina.

Il problema di fondo, che ha portato all'elaborazione di alternative sostenibili, è

l'insostenibilità del sistema globalizzato, in cui il mantenimento degli equilibri

geopolitici ed economici è dettato dalla necessità di crescita costante del fatturato

interno, attraverso la produzione, i consumi, le esportazioni, ecc... [Latouche, 2007].

"L'economia, dominata dalla logica finanziaria. si comporta come un gigante che non è

in grado di stare in equilibrio se non continuando a correre, ma così facendo schiaccia

tutto ciò che incontra sul suo percorso" [Latouche, 2007, p.27].

Come analizza Moore, la crescita interna rappresenta una costante del capitalismo sin

dai suoi albori: in un contesto come quello del XVIII secolo ciò era possibile data

l'enorme disponibilità di risorse primarie, di forza-lavoro, di energia e di cibo, ma

l'espansionismo coloniale, l'aumento demografico, l'eccessivo sfruttamento e la recente

globalizzazione hanno seriamente minato le possibilità di una crescita continua e

costante. La terra e le sue risorse corrispondono a un sistema finito, mentre quello

votato all'accumulazione di capitale si presenta come potenzialmente infinito,

divenendo quindi insostenibile a livello tanto ambientale, quanto sociale ed economico.

In ragione di quest'analisi, molti studiosi hanno pertanto teorizzato la necessità di un

cambiamento sostenibile che favorisca il riassestamento dell'ambiente circostante,

fortemente provato dallo sfruttamento ultrasecolare. E' necessario, in altre parole, un

cambiamento rispetto al carattere dissipativo dell'attuale sistema: esso infatti per sua

natura, tende al consumo e allo spreco, e non alla conservazione e al riciclaggio

[Rullani, 2012]. Un cambio delle pratiche sociali, di mentalità è pertanto necessario per

una sostenibilità alimentare e naturale [Mostaccio, 2015], ed è dunque normale che il

seme di un cambiamento così significativo risieda in piccole nicchie socio-tecniche. La

rottura delle lunghe filiere, la ripresa della sovranità alimentare, posseduta dalle grandi

multinazionali a partire dalla supermarketizzazione degli anni 80-90, la rinascita dei

147

consumi di prodotti locali sono elementi alla base di ogni logica sostenibile, o

insostenibile, a seconda dei punti di osservazione.

3 Sovranità alimentare e filiera corta

L'esplosione delle multinazionali, in maniera specifica nel contesto alimentare

[Achbar, 2003; Kenner, 2009], contemporaneamente a quella dei supermercati [Burch

and Lawrence, 2005] hanno spostato l'origine dei prodotti alimentari, dalla dimensione

locale a quella di 'cibo da nessun posto' (food from nowhere) [Bove and Dufour, 2001;

McMichael, 2005], generando una serie di ricadute, apparentemente positive, sul mondo

dei consumatori. Attraverso il risparmio sull'acquisto nei supermercati di prodotti, a

prima vista più gustosi e migliori, i consumatori hanno infatti scambiato la produzione e

la sovranità alimentare locale, con altri di dubbia qualità, ricchi di sostanze chimiche

(necessarie per il trasporto, per il mantenimento delle qualità e per l'estetica dei

prodotti), provenienti molto spesso da manodopera sottopagata nei paesi del Sud del

mondo [McMichael, 2009; 2009b] e favorendo così un meccanismo a catena, dominato

dalle grandi aziende. Il termine sovranità alimentare è stato introdotto per la prima volta

dal movimento contadino internazionale Via Campesina nel World Food Summit del

1996, da sempre attento alle tematiche alimentari e di sostenibilità: tale concetto

stabilisce che "tutte le persone in ogni momento hanno accesso fisico, sociale ed

economico ad alimenti sufficienti, sicuri, nutrienti che garantiscano le loro necessità e

preferenze alimentari per condurre una vita attiva e sana". La sovranità alimentare

delinea pertanto una struttura politica che richiama gli stati all'impegno alla lotta contro

l'insicurezza alimentare, definendo gli elementi su cui basare tale sfida e che si pongono

come alternativa all'attuale sistema dominato dalle aziende di grandi dimensioni e dalle

liberalizzazioni del commercio mondiale.

In tutto il mondo e specialmente nei paesi del Sud, la perdita della sovranità

alimentare rappresenta una forte minaccia alla stabilità sociale e culturale: la de-

contadinizzazione infatti è una delle conseguenze di questa perdita, che spinge masse di

contadini a popolare le città, in condizioni di vita misere e producendo un aumento dei

148

consumi nei supermercati [Reardon and Berdegué 2002; Reardon, 2003; Reardon,

Timmer and Berdegué, 2004, 2005].

Il problema inerente alla rinascita di una sovranità alimentare comprende quindi

numerosi livelli di cambiamento: il piano giuridico e dei trattati commerciali stipulati tra

i vari paesi e le varie organizzazioni internazionali; politiche interne, nuove riforme

agrarie e del lavoro, in modo da bilanciare la produzione destinata alle esportazioni e

quella per il fabbisogno locale; investimenti economici; un cambiamento socio-

culturale, attento ai consumi e alla produzione locale; una maggiore protezione dei

prodotti nazionali; la reintegrazione di masse di disoccupati nel mondo del lavoro.

A livello generico, una possibile definizione di sovranità alimentare riconduce a

quattro elementi ben definiti: in primo luogo il diritto al cibo; il secondo è l'accesso alle

risorse produttive (accesso alla terra, all'acqua, alle risorse genetiche e alle risorse

naturali in generale). A fianco dell'accessibilità si pone la necessità di riforme agrarie

che riequilibrino la distribuzione delle terre e limitino o vietino le coltivazioni di OGM;

il terzo principio riguarda la produzione agroecologica, attraverso una maggior

promozione dei prodotti ecologici e lo sviluppo di politiche per il territorio e per

l'agricoltura sostenibile, volte alla nascita di mercati locali; il quarto punto riguarda

appunto la nascita e lo sviluppo dei commerci e dei mercati locali.

Come si può osservare, la sovranità alimentare è precedente alla pura attività agricola

e comprende un cambiamento della strutturazione sociale a livello locale, nazionale e

globale. Una questione di diritti, di democrazia e di sovranità che punta a garantire

l'accesso al cibo, la funzione sociale condivisione e lo stesso diritto a produrre per un

consumo locale. La sovranità alimentare significa possibilità per gli Stati, le regioni, le

comunità locali in tutto il mondo di decidere autonomamente cosa produrre, di scegliere

metodi di coltivazione sostenibili, rispettosi dell’ambiente e delle tradizioni locali, di

decidere su quali mercati e a quali destinatari indirizzare gli alimenti, di offrire cibi sani

e a prezzi accessibili anche alle fasce meno fortunate della popolazione mondiale, di

promuovere in sostanza la riduzione della fame e della povertà.

Tuttavia, affinché ciò avvenga è necessaria una presa di posizione della politica

nazionale, la cui mancanza coincide con il mantenimento delle posizioni di forza da

parte dei colossi finanziari ed industriali: in Ecuador, ad esempio, paese da sempre al

centro dell'interesse privato [Perkins, 2012], si è assistito a un'effervescenza collettiva

149

(composta da gruppi eterogenei), che, negli anni '90 ha portato alla messa in discussione

dell'intero impianto produttivo, richiamandosi proprio al concetto di sovranità

alimentare grazie all'appoggio di Vía Campesina. Dalla fine degli anni Novanta, questi

movimenti hanno assunto la sovranità alimentare come priorità politica, dando vita alla

Mesa Agraria, uno ‘spazio di concertazione’, entro cui viene ripensata la questione

agraria e da cui scaturisce un repertorio comune di azione collettiva. Con Mesa Agraria,

l'obiettivo della classe contadina cambia: la battaglia non è più per l'inclusione dei

contadini nel modello agrario dominante - rincorrendo la logica della modernizzazione,

dell’aumento della produttività e dello 'sviluppo' - ma aspira, piuttosto, ad una

transizione agro-alimentare come alternativa a quella perseguita dalle politiche

neoliberiste. L’avvio di un processo interno di analisi e dibattito conduce

all'elaborazione di un documento (Agenda Agraria de las Organizaciones del Campo

del Ecuador) che pone al centro dell’agenda politica il paradigma della sovranità

alimentare, così come il relativo ed imprescindibile accesso ad investimenti e risorse.

L'importanza di Mesa Agraria continua a crescere fino all'incontro con il Governo che

inaugura l'ingresso del concetto di sostenibilità alimentare all'interno della legislazione

ecuadoriana, con la Ley de Seguridad Alimentaria y Nutricional del 2006 [Giunta e

Vitale, 2013]. Il successo dell'iniziativa arriva due anni dopo con la stesura della nuova

Costituzione che supera l’idea dell’accumulazione e della crescita illimitata come fine

ultimo dello sviluppo, affermando un nuovo principio ordinatore: il sumak kawsay,

principio andino della ‘buona vita’ (buen vivir), alla cui luce costruire un nuovo patto

sociale fra gli esseri umani e fra questi e la natura, che rispetti dunque la sostenibilità

dei processi di riproduzione sia dell’esistenza umana, sia di tutte le altre forme di vita

[Giunta e Vitale, 2013]. La sovranità alimentare, assunta come uno dei diritti del buen

vivir e tradotta in obbligo dello Stato, diventa caposaldo della strategia di sviluppo, che

tuttavia fatica a tradurre in legge i principi sanciti: realizzarne la portata avrebbe infatti

significato sollevare ed affrontare nell’agenda politica ed istituzionale la discussione

intorno alle relazioni di potere che presiedono al controllo sociale del sistema alimentare

[Giunta e Vitale, 2013]. La scarsa intraprendenza delle masse di contadini e di indigeni

ha infatti rafforzato le posizioni di potere dei principali attori nel settore agroalimentare,

i grandi gruppi industriali; il risultato è stato un impasse politico-sociale, del quale a

trarne a vantaggio sono i proprietari terrieri, i gruppi industriali e le multinazionali.

150

Il concetto di sovranità alimentare permetterebbe, a livello di massimi sistemi, la

possibilità di non esser più dipendenti dai prodotti presenti sul mercato, ma da quelli

coltivati con metodi sostenibili: la riduzione della globalizzazione alimentare

produrrebbe effetti vantaggiosi anche nelle popolazioni delle periferie produttive, specie

nel Sud del mondo. Il caso dell'Ecuador è esemplificativo dell'importanza ricoperta

dalle istituzioni in materia di sovranità alimentare: nonostante l'innovazione delle

nicchie socio-tecniche e il rapido sviluppo di esse nella produzione alimentare

sostenibile come le colture biologiche, il ruolo giocato dalle istituzioni resta

logicamente centrale al pari di quello delle industrie e delle multinazionali.

Recentemente in Inghilterra, il gruppo non governativo APPG (All Party

Parliamentary Group) ha proposto un disegno di legge per l'aumento dell'attenzione

mediatica e dell'opinione pubblica attorno al tema della sostenibilità ambientale e

alimentare per il recupero della biodiversità e per lo sviluppo e rafforzamento del

concetto di sovranità alimentare, sulla scia dei successi ottenuti in Ecuador. Com'era

prevedibile, la proposta non ha trovata la sperata attenzione, venendo prontamente

accantonata dal Governo britannico [Atzori, 2014].

Senza il sostegno delle istituzioni, i movimenti e le associazioni di cittadini si

trovano esposti di fronte al potere delle grandi aziende e alle relative strategie di

accumulazione di capitale, più che di salvaguardia del territorio o della biodiversità. Nel

frattempo sono proliferate le associazioni di contadini, agricoltori, allevatori e cittadini,

come quelle che hanno dato vita alla Dichiarazione di Nyéleni (2011): tale documento,

firmato dai 400 membri dei 34 stati europei partecipanti al Forum europeo per la

sovranità alimentare [Rizzo, 2013] sancisce la nascita ufficiale di un movimento che

raggruppa un folto gruppo di produttori agricoli, circa 500 rappresentanti di 80 paesi

sparsi nel mondo, il cui obiettivo principale riguarda il raggiungimento della sovranità

alimentare di ciascun paese.

La Dichiarazione del movimento ha come principi la sovranità alimentare di tutte le

popolazioni; la riqualificazione del ruolo femminile all'interno della produzione

alimentare; il diritto di ciascun popolo a vivere con dignità; la conservazione e la

riabilitazione degli ambienti naturali, la ripresa delle tradizioni alimentari e delle

metodologie di pesca rispettose dei ritmi naturali; il rispetto delle differenti tradizioni,

delle culture, dei cibi, delle lingue parlate e i metodi di organizzazione sociale; la

151

richiesta di riforme agrarie e per il territorio che regolarizzino le modalità di

coltivazione, allevamento e dei diritti cittadini, compresi quelli delle comunità indigene;

la compresenza di più culture in un determinato ambiente; la difesa del territorio nei

confronti delle azioni e le strategie di accumulazione delle multinazionali e delle

industrie. Questi principi, se messi in atto da una parte consistente delle popolazioni,

produrrebbero delle evidenti crepe al sistema alimentare, economico e geopolitico

attuale: la disponibilità a basso costo di prodotti locali causerebbe infatti ingenti perdite

all'agrobusiness, limitando di riflesso anche le guerre per il cibo [Franco e Marino,

2012], a volte caricate di altri significati religiosi, etici, ecc... [Shiva, 2010].

In Italia, nonostante l'attenzione alimentare sia più alta che altrove, in alcuni casi

molto più alta, l'interesse politico per lo sviluppo di una sovranità alimentare è rimasto

negli anni molto scarso, limitando il contesto a realtà locali, indipendenti e spontanee, al

contrario decisamente attive e in crescita. Al di là di associazioni, movimenti di

consumatori e piccole cooperative, la legislazione italiana risulta carente delle

disposizioni necessarie allo sviluppo giuridico della sovranità alimentare. Il Comitato

Italiano per la Sovranità Alimentare (CISA) è una realtà associativa (nato in seguito a

quello Internazionale) che raggruppa un ampio schieramento di organizzazioni sociali e

non governative intorno all’idea che agricoltura e alimentazione debbano godere di una

sollecitudine continua e di un’attenzione che va molto oltre la dimensione settoriale,

essendo a loro ancorato il concreto esercizio di diritti fondamentali. Il CISA rappresenta

una rete con circa 270 associazioni in Italia, di varia natura: sindacati, pensionati,

movimenti ambientalisti ed ecologici, di sostenibilità alimentare, organizzazioni non

governative. Tutte le associazioni aderenti al comitato fanno esplicito riferimento a un

miglioramento delle condizioni di produzione, di consumo, di accessibilità ed

economiche, in relazione al contesto alimentare attuale, attraverso dinamiche di

votazione democratica e partecipazione volontaria. Il CISA infatti si impegna a lavorare

alla promozione della sovranità alimentare che richiama, richiede ed orienta la

definizione di politiche economiche, agricole e ambientali che declinino il rispetto dei

diritti umani fondamentali contemplando sia i diritti individuali che quelli collettivi. La

crescita del CISA è testimoniata dall'aumento di iscrizioni e partecipanti e

dall'attenzione mediatica; questa, come altre possibili alternative, è tuttavia ancora

152

caratterizzata da livelli e dimensioni ancora marginali rispetto all'enorme flusso di

capitale e di prodotti alimentare da e per la grande distribuzione.

Una delle modalità attraverso cui attuare drastici cambiamenti all'insostenibilità

ecologica ed economica del terzo regime alimentare risiede nella rottura delle filiere

lunghe, descritte nei capitoli precedenti. Per Filiere corte si intendono tutte quelle

modalità di commercializzazione dei prodotti alimentari che si caratterizzano, da un

lato, per la riduzione o l’eliminazione degli intermediari fra i produttori agricoli e i

consumatori e, dall’altro, per la dimensione locale delle transazioni commerciali. Le

Filiere corte sono state protagoniste negli ultimi anni di un impetuoso sviluppo e, per

quanto veicolino ancora una quota trascurabile dei prodotti agroalimentari

commercializzati, sono protagoniste di un vivo dibattito scientifico e politico del quale

l’opinione pubblica è sempre più consapevole.

Lo sviluppo di filiere corte permette di tagliare considerevolmente i costi legati al

trasporto, all'imballaggio, alla conservazione dei prodotti, all'utilizzo di sostanze

chimiche, all'inquinamento derivante, apportando pertanto miglioramenti sociali,

purtroppo non definibili attraverso valori e parametri esclusivamente economici.

L'attenzione rivolta verso la creazione di filiere corte è in aumento, specialmente in

relazione al periodo di instabilità economica, di lavoro e di insicurezza alimentare

attuale: contrariamente al paesaggio (landscape) organizzato attraverso una produzione

industriale e a basso costo del cibo, si riscontrano sempre più nicchie socio-tecniche al

cui interno la filiera corta ha preso il sopravvento. Le Filiere corte sono state

protagoniste negli ultimi anni di un impetuoso sviluppo con l’affermarsi di esperienze

molto diverse fra loro [Franco e Marino, 2012], tutte accomunate da un discreto

successo mediatico ed economico.

La vendita diretta dei prodotti agroalimentari è la forma più tradizionale e diffusa di

filiera corta e, genericamente, viene effettuata dalle aziende di piccole o medie

dimensioni, le uniche caratterizzate da un rapporto con il territorio, con le tradizioni e

con il contesto locale. La filiera corta rappresenta pertanto un meccanismo attraverso

cui recuperare e rinsaldare il rapporto tra produttori e consumatori, con un maggiore

interesse verso l'ambiente esterno e le risorse offerte [Franco e Marino, 2012]. Nel

2007, le piccole-medie aziende che in Italia, accanto alla grande distribuzione,

vendevano al dettaglio ai consumatori locali erano circa il 30% di quelle totali [Franco e

153

Marino, 2012]. Tale percentuale è cresciuta negli anni nel territorio italiano, in relazione

a una serie di variabili come: l'area geografica (Nord, Centro, Sud), gli organi e le

autorità garanti e organizzative (Regione, Provincia, Comune), le aree e la frequenza di

mercato, le classi sociali che abitualmente acquistano tali prodotti e la frequenza con cui

essi vengono acquistati [Franco e Marino, 2012]. Il superamento del sistema della

grande distribuzione è ancora lontano, ma come analizza Mostaccio [2015],

"Alcuni supermercati sono già in crisi, altri chiuderanno presto. Nel lungo futuro a

resistere saranno i piccoli punti vendita, con la sparizione degli ipermercati. Con la chiusura

dei piccoli negozietti a conduzione familiare, gli acquisti quotidiani vengono fatti sempre

più nei supermercati di prossimità, e sempre meno negli ipermercati, in considerazione con

l'invecchiamento della popolazione e l'indisponibilità a raggiungere i centri commerciali,

situati fuori dalle città o dai paesi".

Il declino dei supermercati è dettato in parte dallo sviluppo delle nicchie sostenibili,

in parte dalla crescente sfiducia dei consumatori verso i prodotti industriali della grande

distribuzione; al contrario, si registra una crescita d'interessi verso le strategie

sostenibili, in cui la filiera corta rappresenta uno dei punti di maggior forza e seguito. E'

chiaro che un simile capovolgimento produttivo, dalla grande distribuzione al consumo

di prodotti locali all'interno di una filiera corta, non può essere rapido, né totale, ma

secondo gli esperti, la delicata situazione ambientale, economica, politica e di consumo

mondiale non permetterà una crescita infinita di produzione e consumi, soprattutto nel

contesto europeo, statunitense e giapponese [Rullani, 2012], realtà in cui ciò avvenne

nell'immediato dopoguerra.

All'orizzonte si ipotizza dunque un cambiamento nel lungo periodo dei sistemi di

produzione e delle modalità di accessibilità e consumo alimentare, specialmente nei

paesi più sviluppati; la sostenibilità ambientale e alimentare costituiranno punti di

primaria importanza all'interno delle politiche di questi paesi, in cui le filiere corte, il

'chilometro 0', gli orti urbani, i Gruppi d'Acquisto come i GAS e i GAC, le coltivazioni

sinergiche aumenteranno il proprio peso nella produzione agroalimentare nazionale

[Mostaccio, 2015; Rullani, 2012].

154

4 I gruppi d'acquisto GAS e GAC

In risposta alle crescenti disuguaglianze economiche e sociali che l'attuale modello di

globalizzazione economica ha prodotto si stanno affermando pratiche alternative che si

richiamano al concetto di economia solidale che propone di democratizzare l'economia

locale, di legittimare l'economia non mercantile, di valorizzare gli scambi non monetari

ed informali [Rossi e Brunori, 2011; Sivini, 2007].

La filiera corta rappresenta una modalità di rottura con il regime alimentare globale e

una ripresa dei rapporti tra territorio e popolazione, elemento caratterizzante ed

onnipresente nell'ultra millenaria storia dell'uomo. Tale ripresa potrebbe portare alla

comparsa di tante piccole nicchie agroalimentari, molto presenti e radicate nel territorio

e svincolate da oneri internazionali, permettendo in questo modo una ripresa anche del

mondo del lavoro, una ricostituzione delle relazioni tra produttori e consumatori,

smarrita dal'acquisto 'self-service' di 'food form nowhere' del supermercato. La ripresa

di una solidarietà e delle relazioni sociali rappresenta uno degli aspetti positivi e degli

elementi fondanti un GAS: in questo modo infatti si può entrare in contatto con il

prodotto alimentare attraverso forme più profonde della semplice dimensione

economica, ottenendo così più informazioni. Se l'alimento in questione fosse carne

bovina, il consumatore potrebbe venire a conoscenza del tipo di alimentazione, di

allevamento, di macellazione, e altre informazioni, al contrario celate dalla grande

distribuzione. Il cibo prodotto localmente, 'chilometro zero' permette infatti una maggior

trasparenza nei confronti dei consumatori, a prezzi contenuti, aumentando pertanto la

sicurezza e la fiducia verso i produttori.

I GAS, ma non solo, producono un miglioramento delle condizioni socio-culturali e

alimentari rispetto a quelle attuali. I gruppi di acquisto solidali sono gruppi di persone

che acquistano insieme, seguendo il principio della solidarietà, che li porta a preferire

produttori piccoli e locali, rispettosi dell'ambiente e delle persone, con cui entrare in

relazione diretta. Il concetto che sta alla base dei GAS è quello di filiera corta, cioè

l'avvicinamento fra produttore e consumatore finale, sia in termini geografici,

privilegiando le aziende più vicine, sia in termini "funzionali", tagliando gli intermediari

quali i grossisti e i negozianti. Nel caso dei GAS la filiera è la più corta possibile, infatti

i consumatori si rivolgono direttamente ai produttori. I criteri con cui gli aderenti ai

155

GAS selezionano prodotti e produttori sono quelli classici del consumo critico, senza

però mai perdere di vista la qualità del prodotto. L'obiettivo dei membri dei GAS non è

quello della ricerca del risparmio, ma quello di acquistare prodotti rispettosi

dell'ambiente e delle persone: il fatto di farlo in gruppo e rivolgendosi direttamente ai

produttori, porta anche ad una sostanziale riduzione del prezzo rispetto ad un prodotto

delle medesime caratteristiche acquistato in negozio [Rossi e Brunori, 2011; Saroldi,

2008].

Il punto di partenza è decisamente opposto rispetto al consumo tradizionale: alla base

dei gas non vi è infatti la ricerca ossessiva di risparmio economico, come gli acquisti a

cui l'uomo contemporaneo è abituato, ma al contrario un contenimento dei prezzi a

favore di un deciso aumento della qualità dei prodotti offerti, attraverso una ripresa delle

relazioni sociali e di una nuova valorizzazione del territorio. In altre parole, lo sviluppo

e l'adozione di un cambiamento culturale oltre alle pratiche alimentari quotidiane.

I tre principali motivi che inducono la nascita di un GAS sono la volontà di cambiare

modelli di consumo, la ricerca di una alimentazione sana e la volontà di sostenere i

piccoli produttori [Rossi e Brunori, 2011]. Si nota che in particolare, la prima è indicata

come la motivazione più importante da quasi il 70 per cento dei gruppi presenti in Italia

e censiti. Ciò conferma come questi processi di organizzazione abbiano una valenza

biopolitica [Goodman, 2004].

Considerando la situazione globale e le lunghe filiere produttive che culminano nei

supermercati, la ripresa dei legami con i produttori locali permette di ridurre, o

quantomeno tamponare, la difficile situazioni cui sono sottoposti i lavoratori e

braccianti dei territori del Sud e, in generale, delle periferie produttive. In termini

globali questo consentirebbe, a livello teorico, una diminuzione dell'effetto squeeze

[Sivini, 2007], dei trasporti, dell'utilizzo di imballaggi e di materiali inquinanti

[Latouche, 2007; Mostaccio, 2015; Pallante, 2012; Saroldi, 2008]. La partecipazione ai

gruppi di acquisto permette inoltre di aumentare l'esperienza relazionale e sociale

all'interno dei gruppi, di acquisire maggiori competenze alimentari, grazie anche alla

vicinanza dei produttori.

Generalmente le dimensioni dei gruppi di acquisto sono contenute e variano da

poche famiglie a centinaia di iscritti, così come le modalità e strategie. Sono gli obiettivi

descritti a rimanere uguali per tutti i gruppi, alcuni di questi costituiti in associazioni,

156

altre organizzati internamente ma privi di statuti ufficiali. Al di là delle differenti

sfumature che i GAS possono assumere, i gruppi raccolgono ciclicamente le

informazioni sui prodotti alimentari disponibili e sulle richieste dei consumatori. Tali

richieste vengono sommate per formare l'ordine complessivo del gruppo in periodi e

con modalità di pagamento precedentemente stabiliti [Mostaccio, 2015; Saroldi, 2008;

Sivini, 2007]. Tali modalità di acquisto permettono alla sfera dei consumatori di

mantenere pressoché intatti i costi per l'alimentazione ma con una qualità molto

maggiore. Sono queste le modalità che spingono le persone a entrare nei gruppi di

acquisto, sottolineate nel Documento di Base dei GAS:

"Un gruppo di persone decide di incontrarsi per riflettere sui propri consumi e per

acquistare prodotti di uso comune, utilizzando come criterio guida il concetto di giustizia e

solidarietà, dà vita a un GAS. Finalità di un GAS è provvedere all'acquisto di beni e servizi

cercando di realizzare una concezione più umana dell'economia, cioè più vicina alle

esigenze reali dell'uomo e dell'ambiente, formulando un'etica del consumare in modo

critico che unisce le persone invece di dividerle, che mette in comune tempo e risorse

invece di tenerli separati, che porta alla condivisione invece di rinchiudere ciascuno in un

proprio mondo (di consumi)" [GAS, 1999].

A livello occupazionale, la rinascita delle relazioni con i produttori locali permette di

ridurre la percentuale di disoccupati, reintegrandoli nel contesto agroalimentare. Come

si legge nel Documento di Base:

"I produttori piccoli sono in generale ad elevata intensità di mano d'opera (ore di lavoro

utilizzate per un prodotto), rispetto alle aziende grandi che sono per lo più ad elevata

intensità di capitale (quota di finanziamenti utilizzata per un prodotto). La scelta dei primi

rispetto ai secondi è quindi uno strumento importante per creare occupazione, ovvero per

fare in modo che i soldi che spendiamo servano a pagare in misura maggiore chi ha

lavorato rispetto alle banche o agli azionisti" [GAS, 1999].

Lo sviluppo dei GAS a livello nazionale, in prevalenza nel Nord, ha permesso negli

anni - grazie al supporto di altre associazioni, come le Botteghe del Mondo e le

organizzazioni di finanza etica - di istituire la Rete Italiana di Economia Sostenibile

(RES), e di aumentare la presenza sul territorio. La RES rappresenta l'insieme delle

nicchie di produzione sostenibile, rifacendosi ad alcuni principi condivisi da tutti i

157

gruppi partecipanti [RES, 2007]: uno dei punti fondamentali dell'economia sostenibile si

basa sui principi di cooperazione e di reciprocità, prendendo le distanze dalla

dimensione competitiva tipica del sistema capitalistico.

La rete dei GAS, come si è visto, si è espansa rapidamente in tutto il territorio

italiano, in particolare nelle vicinanze delle città, in cui l'attenzione al cibo e alla qualità

risulta maggiore, al pari dei consumi nei supermercati. Nel 2008 si stimava che i gruppi

d'acquisto totali fossero quasi un migliaio in Italia, metà dei quali indipendenti e dunque

non riconosciuti in forme associative. Attualmente si ipotizza che questo numero possa

essere raddoppiato, con circa 980 GAS ufficialmente riconosciuti circa 200 mila iscritti

[Regazzola, 2014].

A Torino, il coordinamento tra GAS ha dato vita ad una associazione ed una mailing

list cui sono iscritti i GAS di città e dintorni. In relazione ai vari periodi dell'anno, i

produttori propongono i propri prodotti stagionali all'interno del gruppo. Quando è il

tempo delle arance, ad esempio, l'associazione Mani Tese si occupa di gestire un ordine

collettivo per i GAS della zona, inviando un messaggio sulla mailing list con le

indicazioni per eseguire l'ordine. In questo modo vengono raccolte le richieste di tutti i

gas per formare un ordine complessivo verso il produttore; nel giorno della consegna

ogni gas andrà poi a ritirare le sue cassette. In questo modo, nel corso dell'inverno

2007/2008, sono stati raccolti da 60 gruppi su quattro consegne ordini per 53 pedane di

agrumi, più di 500 quintali. Il campo del produttore siciliano, che fornisce diversi gas

del nord, ormai non è più sufficiente; per questo motivo gli agricoltori vicini sono stati

coinvolti nel progetto ed hanno costituito un consorzio per rispondere alle richieste dei

gas. Gli agrumi vengono pagati loro un prezzo che può essere anche 5 volte superiore a

quello a cui sarebbero costretti a vendere nei canali della distribuzione tradizionale,

mentre ai componenti del gas le arance biologiche vengono a costare meno che al

supermercato [Saroldi, 2008].

Nel 2007, l'enorme risonanza dei Gas li ha fatti diventare formalmente "soggetti

associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere attività di acquisto

collettivo di beni e distribuzione dei medesimi con finalità etiche, di solidarietà sociale e

sostenibilità ambientale" (Legge Finanziaria 2008, art. 1, comma 268).

A fianco all'esperienza in continua crescita dei GAS, sono sorti altri e diversi

progetti, con i medesimi obiettivi ma con organizzazioni e metodologie un po'

158

differenti. Tra di essi si possono citare i GAP (Gruppi di Acquisto Popolare), nati

dall'impegno politico del Partito di Rifondazione Comunista come risposta alla crisi

economica, per acquistare collettivamente generi alimentari di base, utilizzando come

supporto logistico le sedi del partito presenti sul territorio; un'altra tipologia è quella dei

GAF (Gruppo di Acquisto Familiare), composti da gruppi di famiglie con figli che si

accordano per acquistare dai produttori beni o generi alimentari specifici che incidono

pesantemente sulla spesa mensile, come pannolini e prodotti per l'infanzia [Mostaccio,

2015].

La filiera corta e il cambiamento socio-culturale verso una produzione alimentare

sostenibile si è presentata a Torino e in Provincia anche attraverso i GAC, Gruppi di

Acquisto Collettivo, un movimento parallelo e con molte analogie rispetto ai GAS

diffusi a dimensione nazionale. Analogamente ai GAS anche i GAC sono gruppi di

consumatori e produttori con l'obiettivo di fornire cibo qualitativamente superiore,

attraverso una filiera più corta possibile che riduca l'inquinamento e che recuperi il

valore della relazioni uomo-territorio e uomo-natura; la differenza sostanziale tra GAS e

GAC è che questi ultimi sono nati come progetto della Provincia di Torino in relazione

alle difficili condizioni di strati sociali 'vulnerabili', ovvero coloro che, per condizioni

oggettive legate ad aspetti come salute e lavoro, rischiano un significativo

impoverimento delle loro condizioni materiali [Mostaccio, 2015]. Al contrario dei GAS

che si caratterizzano da una partecipazione spontanea e individuale che, attraverso

l'aggregazione, porta alla costituzione di gruppi sempre più folti e numerosi, i GAC

hanno preso forma da un progetto di politiche pubbliche volte al contrasto della

vulnerabilità sociale e della povertà [Mostaccio, 2015]; questo progetto interamente

promosso dalla Provincia di Torino è stato gestito interamente dall'associazione

Movimento Consumatori, costituendo una fitta rete di produttori e consumatori,

all'interno del territorio torinese. Rispetto ai gruppi di acquisto auto-organizzati, nei

GAC gli ordini vengono gestiti dall'associazione, che si fa carico della gestione degli

ordini, dei pagamenti, e delle relazioni tra produttori e consumatori [Mostaccio, 2015].

"Il principio ispiratore del progetto, essenzialmente culturale, è che a tutti deve essere

dato di poter accedere a prodotti alimentari di alta qualità. Il tutto è partito su volontà della

Provincia nel 2006, e fu quasi un'eccezione rispetto ad altre realtà. La provincia e la

Regione sono sempre state attente alle reti di acquisto informali, solidali: nel 2006

159

l'Assessore Artesio decise di sperimentare reti alternative di consumo e vendita, con

l'obiettivo di nutrirsi meglio e, magari, di riuscire a risparmiare qualcosa sulla spesa"

[Mostaccio, 2015].

Rispetto alle altre organizzazioni volte alla sostenibilità alimentare, i GAC si

caratterizzano per la presenza del Movimento Consumatori che svolge numerosi compiti

organizzativi: innanzitutto seleziona i fornitori dei gruppi d'acquisto e contratta i prezzi

a listino; garantisce la qualità dei prodotti attraverso analisi in laboratorio; gestisce i

gruppi; riceve gli ordini da ciascun GAC presente sul territorio; contatta i produttori e

redistribuisce i prodotti; gestisce la contabilità e organizza eventi collaterali [Mostaccio,

2015], come quelli promozionali e di sensibilizzazione. In questo senso il GAC si

presenta più stabile rispetto ad altri progetti, in quanto dispone di sedi stabili dove poter

ritirare la spesa, uno statuto associativo e un organo direttivo, gestito dal Movimento

Consumatori: essi pertanto permettono un più alto grado di associazionismo e di

disponibilità di prodotti, selezionati attraverso il bando Mio Bio, che ha, tra i vari

parametri, l'adesione alle coltivazioni biologiche e a 'chilometro 0' [Mostaccio, 2015].

"Solo nei casi dove ciò non è possibile, e in questo senso il paniere piemontese si

presenta piuttosto scarno, ci rivolgiamo a produttori nazionali, purché essi coltivino

attraverso metodi biologici e sostenibili" [Mostaccio, 2015].

Nel 2006, i gruppi di acquisto collettivo erano soltanto tre. Con il tempo si sono

moltiplicati, la Provincia ha sempre rinnovato il suo interesse e nel 2009 essi divennero

più di dodici a Torino e provincia, un totale di 617 famiglie. Attualmente i GAC attivi

sono 9, frequentati da circa 600 famiglie, in linea con i numeri dell'ultimo quinquennio

[Movimento Consumatori, 2015]. Man mano che le famiglie aumentano, il potere

contrattuale sui prezzi migliora e se il produttore non risponde ai requisiti i gruppi

hanno la forza per cambiarlo e trovarne uno migliore. Nei due anni successivi alla

nascita il GAC ha iniziato la costruzione di un paniere al cento per cento biologico e di

alta qualità che oggi comprende circa 100 prodotti, tutti italiani con l' eccezione di quelli

ex-coloniali, caffè, zucchero. Tutti sono forniti in regime di filiera corta. Nel giugno del

2009, considerata la crisi e le forti necessità di contenimento dei prezzi, l'associazione

160

decise di puntare sulla convenienza aggiungendo anche un paniere non bio, sempre a

filiera corta e a 'chilometro 0' [Strippoli, 2009].

Le fasce di consumatori maggiormente interessate sono le fasce tra i 35 e i 55 anni,

mediamente con un alto grado di istruzione e di qualificazione:

"A comprare e ad entrare nei GAC sono soprattutto famiglie, in media con un doppio

stipendio spesso basso, e soprattutto con un alto grado di qualificazione. Noi conosciamo

tutti gli iscritti, in quanto il rapporto è diretto, confidenziale: alcuni di essi sono laureati,

ricercatori universitari, professori; altri hanno qualificazioni come Master; altri ancora sono

liberi professionisti. Il target sta lentamente diventando questo: famiglie o individui medio-

bassi e con un elevato livello di istruzione, che combacia con un'altrettanto elevata

attenzione alimentare" [Mostaccio, 2015].

L'esperienza dei GAC, nata per volontà della Provincia, è però proseguita senza le

sovvenzioni iniziali, nonostante l'iniziale entusiasmo degli enti politici. Attualmente la

piattaforma, gestita dal Movimento del Consumatori continua le proprie attività

organizzative, attraverso il pagamento di 25 euro per l'iscrizione annuale di ciascuno,

più 2 euro legati ai costi extra, da pagare per ogni spesa [Movimento Consumatori,

2014]. L'attuale stato delle cose permette pertanto di proseguire in questa direzione,

nonostante stia venendo a mancare l'appoggio di chi, quasi 10 anni prima, ne aveva dato

il via libera. Logicamente, gruppi di acquisto come i GAC torinesi, o i GAS nazionali,

non nascono con finalità di lucro: ciononostante, nel caso dei GAC la creazione, negli

anni, di un apparato logistico, produttivo e di acquisto, necessiterebbe di un rinnovato

interesse da parte delle istituzioni cittadine e del territorio. In questo modo si potrebbe

contribuire a una decisa stratificazione del fenomeno, che comunque ha visto negli anni

una positiva partecipazione cittadina, in merito a questa food policy innovativa,

sostenibile e spontanea [Mostaccio, 2015].

"Nei nostri ordini ci sono diversi articoli, come olio e farina, attraverso cui i

consumatori associati producono pane, pizza, pasta fresca, ecc... Le persone, dopo un lungo

periodo di alimenti precotti, surgelati e trasformati, stanno ritornando ad autoprodurre cibo,

attraverso i principali ingredienti che acquistano dai GAC. E' questo il messaggio che deve

passare, una svolta di abitudini e mentalità. [...] La nostra è una provocazione culturale, il

messaggio che deve arrivare a livello sociale e politico è che è ora di una nuova food

policy" [Mostaccio, 2015].

161

Nuove politiche alimentari. E' questa la finalità dei gruppi d'acquisto che negli ultimi

vent'anni sono sorti in tutta Europa, in particolare in Spagna e Francia con gruppi

informativi; la rottura del legame con la grande distribuzione organizzata e con la

dipendenza dei prezzi dei mercati mondiali costituiscono gli obiettivi finali del gruppi

d'acquisto collettivi, attraverso una ripresa culturale e sociale dei concetti di produzione

agroalimentare e di filiera. In questo scenario però non deve mancare l'appoggio delle

istituzioni, fondamentali nel dare sfogo all'espansione sociale di queste nicchie

agroalimentari e di consumo.

"Noi dobbiamo tornare a coinvolgere le produzioni locali in filiere alternative. Il

modello deve necessariamente essere il gac o il gas, ma è fondamentale offrire ai produttori

locali un'alternativa concreta di vendita, rispetto alla grande distribuzione o ai mercati. Di

per sé gruppi simili non possono essere alternativi a un sistema globalizzato; le istituzioni

devono riconnettere le produzioni locali con le masse di consumatori. Nel contesto di

Torino, il Comune e la Provincia dovrebbero fare degli sforzi verso questa direzione,

introducendo in questo contesto anche la Regione e i prodotti locali, che anziché esser

collocati nella grande distribuzione potrebbero venire utilizzati nelle mense e negli

ospedali, producendo un duplice effetto, da un lato più salutare nei confronti di fasce di

persone particolarmente delicate, dall'altro sviluppando una maggior collaborazione tra enti

e istituzioni locali e produttori" [Mostaccio, 2015].

La debolezza legislativa attuale rappresenta tuttavia uno dei limiti al possibile

rovesciamento culturale e consumistico di massa, che al contrario necessiterebbe di una

maggiore educazione sul tema. Lo scarso interesse delle istituzioni tuttavia, coincide

con quello delle grandi firme alimentari, concentrate a mantenere l'attuale sistema di

produzione e di vendita, anche attraverso la ricorrente pubblicità, ad esempio come

quell'acqua in bottiglia sulle pagine della maggior parte dei quotidiani [Mostaccio,

2015]. Lo strapotere economico e finanziario delle multinazionali e della grande

distribuzione fa da contraltare alla fragilità dei gruppi d'acquisto collettivo: in questo

contesto, lo spazio offerto dai nuovi mezzi di comunicazione, come il web e i social

network può costituire un possibile canale comunicativo al fine di sensibilizzare sempre

più fasce sociali.

162

Attraverso l'espansione di filiere alternative e l'attenzione socio-culturale si possono

porre una serie di rimedi positivi alla critica situazione ambientale riassumibile nel

concetto di metabolic rift, sempre più evidente a livello globale. Le previsioni future

basate sul mantenimento dell'attuale livello di vita, in cui i consumi costituiscono una

parte rilevante, sono piuttosto negative, e solo una decisa inversione di rotta permette il

riassesto ecologico mondiale. Come ha descritto Jason Moore, il sistema capitalista ha

raggiunto i limiti intrinseci e legati con l'andamento ecologico: il sociologo statunitense

si spinge oltre, definendo il capitalismo come un sistema ecologico, caratterizzato

dall'incessante prelievo ed esaurimento delle risorse disponibili. L'innovazione apportata

dai gruppi d'acquisto rappresenta un ottimo punto di partenza nella ripresa delle

relazioni col territorio, ma soprattutto nella presa di coscienza delle condizioni

ecologiche mondiali, alquanto instabili come dimostra la difficile situazione delle api.

5 Le api: un anello indispensabile nella catena alimentare

Il ruolo delle api è sempre stato centrale nella produzione di cibo, sia per i consumi

umani, sia per quelli animali, sia per la riproduzione vegetale. Questi insetti

rappresentano un nodo cruciale nell'intera catena alimentare: le api, oltre ad essere

importanti per la produzione di miele, cera, propoli, polline, pappa reale, veleno e loro

derivati, hanno un ruolo fondamentale nell’impollinazione dei fiori di molte piante da

frutto. L'importanza delle api all'interno della catena si esplicita anche a livello

ecologico: senza di esse molti frutti, semi e verdure non sarebbero più disponibili in

quantità sufficienti per il consumo umano e anche molti degli habitat naturali oggi

esistenti sarebbero irrimediabilmente compromessi e vi sarebbe quindi una conseguente

diminuzione anche della disponibilità di cibo per gli animali selvatici. Circa i tre quarti

delle piante con fiore (specialmente le angiosperme) infatti, necessitano

dell’impollinazione animale e direttamente o indirettamente circa un terzo di tutto ciò

che mangiamo ha a che fare con l’impollinazione delle sole api [Barletta, 2015].

163

L'impollinazione delle api rappresenta infatti l'80% della riproduzione delle

angiosperme, piante consumate anche dall'uomo [Barletta, 2015].

Un terzo del cibo che mangiamo e fino al 90% delle piante selvatiche dipendono

dall'impollinazione delle api e di altri insetti impollinatori e 71 delle 100 colture più

importanti per l'alimentazione umana sono impollinate dalle api, dai pomodori alle mele

e le fragole [L'Espresso, 2014].

Fino agli anni '70 la situazione delle campagne era tale da garantire grosse

produzioni di miele; con la massiccia industrializzazione del sistema alimentare e

l'adozione delle monocolture ha creato nuove pratiche di allevamento come quelle

legate al nomadismo degli apicoltori, divenute ormai tradizionali. "Il nomadismo fu una

pratica in risposta alle politiche agricole che penalizzavano l'equilibrio ambientale e

dunque la salute delle api e la produzione di miele" [Barletta, 2015]. Tuttavia, il

semplice nomadismo (migliorato nel tempo grazie a tecnologie all'avanguardia) non è

una risposta alla situazione dell'apicoltura, come dimostra il caso di Dave Hackenberg,

un apicoltore statunitense che nel 2006 notò un'improvvisa epidemia nelle arnie

trasportate dalla costa orientale fino alla Central Valley in California, luogo coltivato

interamente a mandorli e in cui si produce l'80% delle mandorle presenti sui mercati

mondiali [Benjamin, 2008]. Durante il trasporto e il soggiorno nella valle dei mandorli,

l'apicoltore osservò morie di api unite all'abbandono completo di numerose arnie.

Generalmente, una piccola parte degli sciami muore o contrare malattie; in questo ed

altri casi, tuttavia, epidemie ed abbandoni rappresentavano più della metà delle intere

popolazioni [Benjamin, 2008; Barletta, 2015]. Le anomalie, sempre più diffuse, sono

spiegate dall'insieme di numerosi fattori, nessuno dei quali però così potente da generare

effetti così catastrofici.

A partire dall'inquinamento, dall'utilizzo su scala globale di agenti chimici (pesticidi

come i neonicotinoidi, fungicidi, ecc...) e dai batteri come la varroa (un agente

importato in Europa in seguito al commercio di api con il Sud-Est asiatico) il numero di

api è sceso costantemente. I neonicotinoidi, introdotti come alternativa al DDT, sono

una classe di insetticidi, fortemente neurotossici, derivanti dalla nicotina. Possono

essere spruzzati sulle foglie, messi nel suolo in forma granulare o usati per trattare i

semi. Questi pesticidi sono solubili in acqua e vengono pertanto assorbiti dalle radici

delle piante che, attraverso i tessuti, raggiungono i frutti. I neonicotinoidi hanno preso

164

piede così rapidamente da coprire, nel 2011, il 40% del mercato globale. Nei paesi

sviluppati l'uso dei neonicotinoidi è diventato predominante [Goulson, 2013]. Gli effetti

dei pesticidi sulle api si possono dividere in due categorie: quelli fisiologici e quelli

comportamentali. Per quelli fisiologici si osserva una perturbazione nello sviluppo

neurale delle larve e degli individui adulti, un'alterazione dell'attività respiratoria, una

decisa riduzione della longevità delle api adulte e un danneggiamento dei tessuti

dell’intestino. A livello comportamentale si è notato invece che per bassissimi dosaggi

l’attività motoria delle api risulta aumentata mentre aumentando le dosi di pesticida

fornito alle api, queste tendono a diminuire sempre più i loro movimenti. La massiccia

esposizione cui sono sottoposti insetti, animali, piante ed esseri umani costituisce una

delle cause delle malattie più diffuse, anche le più gravi.

Le colonie che contraggono virus, batteri, tarme e sono esposte a un eccessivo

utilizzo di pesticidi, fungicidi (spesso vi è un legame molto forte tra le infezioni e gli

agenti chimici), vengono sterminate in maniera improvvisa ed efficace: questa è la

Sindrome da Spopolamento degli Alveari (o Colony Collapse Disorder).

Il legame tra inquinamento, salubrità ambientale, salvaguardia delle api e dunque

della catena alimentare è messo in evidenza da alcuni rimedi che negli anni sono stati

adottati: la massiccia industrializzazione delle periferie mondiali, come lo sviluppo

industriale di paesi come Cina, Brasile e India ha drasticamente peggiorato le condizioni

dei terreni, oltre ad aver diminuito la popolazione di api e l'impollinazione dei fiori tanto

da intraprendere soluzioni come l'impollinazione umana o artificiale al posto delle api.

In Cina per esempio, nelle piantagioni dello Sichuan, l'impollinazione dei fiori è ad

opera dell'uomo: gli abitanti di interi paesi lavorano all’impollinazione manuale delle

piante da frutto. La stagione dell’impollinazione manuale dura un paio di settimane,

dalla metà alla fine di aprile. Si tratta di un calendario molto serrato: le condizioni

meteo e il ciclo di fioritura detta i tempi. Le foreste, habitat naturale delle api sono stata

abbattute per far posto ai campi, ma i principali antagonisti delle api sono i pesticidi;

questo perché la terra coltivabile in Cina sta diventando sempre più inadeguata alle

esigenze dei suoi abitanti e i contadini vogliono, dunque, ottimizzare il territorio a

disposizione e abbondano nell’utilizzo di prodotti fitosanitari per eliminare gli insetti

che minacciano i raccolti. I cambiamenti in atto nell’economia cinese rendono

l’impollinazione manuale sempre più costosa e si rischia lo stallo nelle coltivazioni che

165

adottano questa tecnica. Una soluzione per sostituire gli 'uomini-ape' sarebbe quella di

affittare le arnie da parte di apicoltori itineranti, ma, senza una diminuzione dei

pesticidi, questo non sarà possibile. [Thibault, 2014]. La soluzione descritta sottolinea,

implicitamente, due argomenti centrali per il sistema-mondo, legati indissolubilmente: il

primo è il ruolo ricoperto dalle api all'interno dell'ecosistema; il secondo è costituito

dalle condizioni di quest'ultimo, messo a dura prova dalle attività industriali ed

inquinanti dell'uomo.

L'importanza delle api, come detto, risiede nel ruolo centrale all'interno della catena

alimentare, umana e animale: il lavoro di impollinazione svolto dalle api, incide sul

50% circa degli alimenti consumati abitualmente, come carne e verdura, sul vestiario (la

pianta di cotone viene impollinata dalle api), sulla produzione di estratti medicinali

[Barletta, 2015]; senza di esse, una grossa quantità di piante, animali, prodotti agricoli

sparirebbe in quanto direttamente relazionati alla sopravvivenza e all'attività di questi

insetti. In questo senso, l'attività di impollinazione umana in sostituzione delle api,

assume dei tratti poco esaltanti.

Le api, oltre a essere determinanti per la catena alimentare, sono anche degli

importanti indicatori della qualità ambientale, in quanto il loro indice di mortalità è

relativo alla salubrità dell'ecosistema, osservabile anche attraverso la qualità del miele

prodotto e relativa alla presenza di fungicidi, pesticidi e metalli pesanti riscontrabili

[Celli, 2003; Barletta, 2015]. In altre parole, le analisi sulla qualità del miele permettono

di osservare l'andamento ecologico, definendo il grado di inquinamento ambientale. Il

declino demografico delle api rappresenta dunque un fondamentale punto di vista, e di

analisi, sull'impatto ecologico dell'attuale sistema basato sul capitale e

sull'accumulazione di esso: dagli anni '80 in avanti, la popolazione di api, e degli altri

insetti impollinatori (come farfalle, scarafaggi, ecc...) è scesa vertiginosamente, in

parallelo con l'evoluzione del sistema globale e della produzione industriale su larga

scala. Che vi sia più di una relazione tra queste due sfere non vi è alcun dubbio e tale

legame è già stato descritto nei capitoli precedenti; è in questo senso dunque che

bisogna concentrare l'attenzione, verso cioè un sistema sostenibile in grado di

preservare l'attività delle api e degli insetti fondamentali, e di conseguenza, l'intera

catena alimentare. Un altro motivo (perfettamente aderente all'attuale sistema) per la

riconsiderazione del ruolo occupato dalle api è l'apporto economico che le loro attività

166

riproducono nel sistema attuale: esse infatti rappresentano una voce importante delle

economie statali, in quanto la produzione agricola (in primis) dipende in larga parte

dall'attività di questi insetti, come si è visto per il caso cinese.

Per sensibilizzare l'opinione pubblica e tentare di porre un freno a questa continua

perdita di biodiversità, a Torino è nato un progetto di allevamento di api e produzione di

miele all'interno della città, Urbees, coordinato e organizzato da Antonio Barletta.

Attualmente il successo ottenuto ha permesso di organizzare progetti analoghi anche a

Milano e in Liguria. L'iniziativa, segue la scia di altre grandi città, come New York,

Parigi, Londra, Hong Kong, Melbourne, in cui si è assistito alla promozione di tali

attività, all'interno del contesto urbano.

Uno dei motivi di questa nuova attività risiede nella scelta delle api di spostarsi dalle

campagne e migrare verso le città [Barletta, 2015].

Stiamo modificando l'ambiente esterno, attraverso la continua industrializzazione e

questo è osservabile anche dal comportamento delle api, che sono indicatori infallibili

riguardo al livello di inquinamento. L'evoluzione industriale delle campagne, le

monocolture, pesticidi e fungicidi sono elementi che spingono le api a migrare verso altri

scenari, alla ricerca di cibo, di piante selvatiche e di biodiversità, paradossalmente

osservabile nei contesti urbani. In città infatti l'industria alimentare si occupa della

distribuzione e non della produzione; le piante ornamentali e officinali, solitamente presenti

sui balconi delle città, offrono quindi ciò che le campagne industrializzate, e in cui

predomina la monocoltura, non riescono più a garantire alle api. La migrazione verso le

città costituisce un elemento di novità e rottura con le tradizionali forme di impollinazione e

rappresenta un indicatore fondamentale dell'attuale salute delle campagne e dell'effettiva

biodiversità presente [Barletta, 2015].

La Sindrome da Spopolamento degli Alveari, osservata globalmente e in maniera

decisa nell'ultimo decennio, rappresenta un insieme di cause (virus, batteri, agenti

chimici, mancanza di nutrimento in seguito alla monocoltura) che portano alla moria di

interi sciami o all'abbandono degli alveari per non infettare le intere colonie.

Quando le api contraggono virus o batteri, o semplicemente si ammalano, scelgono se

continuare a vivere nell'alveare o se abbandonarlo per evitare il contagio. Le api che

contraggono la varroa, o sono colpite dai neonicotinoidi e fanno ritorno all'alveare possono

167

causare la morte dell'intera colonia nell'arco di una paio di giorni al massimo [Barletta,

2015].

La difficile situazione dell'ambiente esterno spinge le api verso i contesti urbani,

generalmente considerati più dannosi e tossici per animale ed esseri umani. Il paradosso

dell'ultimo decennio è dunque la migrazione di sciami di api verso i centri urbani, più

ricchi di piante selvatiche (sui balconi, nei parchi, negli orti urbani), senza pesticidi, o in

maniera rilevante, in quanto in città la coltivazione di piante non avviene con fini

produttivi, piuttosto con fini ornamentali e dunque la presenza di sostanze chimiche

nocive è decisamente inferiore rispetto alle campagne. L'abbandono degli alveari e la

migrazione delle città se da un lato mette in evidenza la situazione ambientale, dall'altro

presenta una serie di possibilità nuove e compatibili con l'equilibrio ambientale.

E' paradossale, ma è una situazione reale e concreta e che ogni anno si presenta in molte

città italiane, quella cioè dell'arrivo di diversi sciami naturali. Di sciami naturali ve ne sono

ormai pochissimi poiché la maggior parte delle api viene allevata. Il degrado ambientale e

delle campagne però spinge questi insetti selvatici, non addomesticabili come le mucche,

verso le città dove, paradossalmente le api hanno trovato le condizioni necessarie per

alimentarsi, riprodursi e produrre miele, di ottima qualità [Barletta, 2015].

Il cambiamento dei comportamenti delle api è stato al centro del progetto Urbees,

nato nel 2010 e che in poco tempo ha portato all'installazione, in alcuni punti della città,

di diversi apiari. Dal parco a Mirafiori, con la partecipazione di Miraorti, al Bunker, al

Parco d'Arte (PAV) di via Giordano Bruno, le arnie cittadine hanno moltiplicato

grandezza e produzione di miele; allo stadio attuale, il progetto presenta ampi margini di

crescita, viste le contenute quantità di miele prodotto e di api allevate. Relativamente al

miele, la stima è di quasi mezzo quintale di Millefiori, l'unico producibile nel contesto

urbano. Cifre simili non possono garantire una modificazione della situazione ecologica,

culturale ed economica ma costituiscono delle solide basi di partenza; l'andamento di

progetti come Urbees o come i Gas è determinato in larga parte dall'accettazione sociale

e culturale, nonché politica. A tal proposito, le api costituiscono un argomento

legislativo lievemente ambiguo: a fianco delle leggi regionali relative alla protezione

degli apiari e di pene legate alla distruzione di essi (ad eccezione dei casi di contrazione

di virus, malattie da parte degli sciami stessi) si incontrano alcuni casi in cui le api sono

168

definite animali pericolosi per l'uomo. L'ambivalenza di fondo non garantisce quindi, al

momento, una decisa spinta delle istituzioni verso progetti come Urbees, che rimangono

limitati alla crescita lenta dell'interesse collettivo. La produzione di miele urbano

dipende quindi da almeno tre fattori: in primo luogo la situazione ambientale delle

campagne e delle città e la relativa quantità di api migranti verso i centri urbani; la

disponibilità cittadina a sostenere e diffondere l'allevamento urbano di api rappresenta il

secondo punto; in terzo luogo l'apporto delle istituzioni e dei media, che come descrive

Gramsci danno forma al pensiero culturale egemone.

Oltre a costituire una via di mantenimento della popolazione di api, il miele e gli

apiari urbani permettono di monitorare positivamente la qualità ambientale del contesto

urbano e rurale [Barletta, 2015]. Uno dei punti centrali del progetto riguarda non

soltanto la produzione di miele, quanto lo studio e l'analisi delle api in città, il

comportamento, la salute, ed anche il grado di inquinamento cittadino, dato che le api

rappresentano un ottimo indicatore di questo parametro. Le api infatti sono degli ottimi

indicatori del livello di salute ambientale: "le api costituiscono il miglior monitoraggio

ambientale possibile, meglio di qualsiasi altra tecnologia attuale. Ciascun individuo

delle colonie visita circa 1000 fiori al giorno, coprendo una distanza pari a circa 7 km2"

[Barletta, 2015]. Il lavoro svolto dalle api offre un ottimo spunto per l'attività scientifica

di analisi del territorio:

"Il biomonitoraggio è l'obiettivo parallelo alla produzione di miele che si propone

Urbees. Osservare il comportamento delle api e analizzare i capi e il miele in laboratorio

sono attività che permettono di analizzare positivamente il livello di polveri sottili, metalli

pesanti e altre forme di particolato presenti nell'aria e nelle fonti idriche. Il monitoraggio

scientifico sovente fatto in ufficio è qualitativamente inferiore rispetto a quello che le api

quotidianamente offrirebbero. [Barletta, 2015].

Il biomonitoraggio rappresenta una innovazione sostenibile, eco-compatibile e in

grado di salvaguardare un elemento imprescindibile della catena alimentare. A tal

proposito vi sarebbe una massima di Einstein (ma mai direttamente confermata)

secondo cui la sparizione delle api comporterebbe l'estinzione dell'uomo nell'arco di

quattro anni. Al di là della reale attribuzione, questo scenario è confermato dall'esempio

dell'impollinazione umana in Cina, ma non solo. La crescita di innovazioni socio-

169

tecniche come Urbees permetterebbe dunque di scongiurare simili scenari, grazie alla

rinnovata protezione di questi importanti e naturali indicatori ambientali [Barletta,

2015]. L'innovazione socio-tecnica di Urbees si evidenzia nella validità scientifica delle

analisi condotte in laboratorio sui vasetti prodotti, nonché appunto sul biomonitoraggio

offerto dagli insetti; il miele analizzato in laboratorio ha registrato infatti la presenza di

metalli pesanti in quantità molto inferiori rispetto ai limiti stabiliti. La bontà

(gastronomica e scientifica) certificata del prodotto ha permesso di superare l'iniziale

diffidenza di apicoltori e cittadini, incontrando successivamente una crescente

disponibilità cittadina. Allo stato attuale il miele prodotto, che assume il nome di

ciascun coltivatore (a questo proposito vi sono il miele Antonio, il miele Andrea, Elvira,

Bunker, PAV, ecc...) ha attirato un'alta attenzione mediatica e il progetto, dopo la fase di

assestamento iniziale, sembra pronto a un'espansione socio-culturale.

6 Contro lo spreco

La transizione socio-tecnica descritta passa attraverso una maggior sensibilizzazione

del concetto di spreco alimentare e una modifica delle pratiche quotidiane, quelle che

contribuiscono in maniera significativa alla quantità di cibo sprecato annualmente.

Lo spreco di cibo rappresenta una conseguenza negativa della società

contemporanea; come si è visto in precedenza, la potenzialità della produzione

alimentare globale sarebbe tale da sopperire alle mancanze fisiologiche di ciascuna

popolazione. Nonostante questo, il divario tra le fasce sociali che hanno un massimo

accesso al cibo e quelle le cui possibilità sono ridotte al minimo si sta ampliando

considerevolmente; i rapporti Fao stimano gli indigenti a quasi un miliardo di persone,

quasi un settimo della popolazione mondiale. Nell'ultima decade, l'attenzione mediatica

è aumentata nei confronti di questa piaga sociale, con campagne di sensibilizzazione e

di educazione alimentare, così come le iniziative cittadine e popolari contro il continuo

spreco. In tutto il mondo sono sorti progetti attorno al riciclaggio del cibo, limitando

pertanto una parte considerevole di scarti; progetti di vendita senza imballaggi (in grado

170

di ridurre il consumo e spreco di plastica e di sostanze inquinanti e difficilmente

smaltibili); associazioni di produttori che vendono al ribasso i propri prodotti,

perfettamente commestibili, pur di non sprecarli; applicazioni di smartphone e mailing

list online per la condivisione di cibi e piatti cucinati tra condomini degli stessi edifici.

La lista di progetti e innovazioni finalizzati alla limitazione dello spreco alimentare è

molto lunga ed eterogenea; i progetti seguono l'andamento socio-tecnico descritto da

Geels e quello delle pratiche quotidiane di Shove: le nicchie contro lo spreco infatti

sono limitate a precisi contesti sociali, culturali e spaziali, così come sono influenzati

dalla modificazione delle pratiche quotidiane di ciascuna persona (inserita nella routine

delle pratiche società), come l'acquisto al supermercato, o la cospicua produzione

annuale di rifiuti, come descritto da Roberto Cavallo [2011]. Mediamente infatti,

l'acquisto dell'acqua in bottiglia, dei detersivi, di prodotti con imballaggi, assieme allo

spreco alimentare e di altre risorse è stimabile in 100 chili annui per persona [Cavallo,

2011].

All'interno del termine 'spreco alimentare' trova posto una pratica globalmente

diffusa da parecchio tempo, ovvero lo scarto del cibo per ragioni estetiche, eccessi di

produzione e vicinanza con le date di scadenza. Per far fronte a questo tipo di spreco,

dettato da questioni culturali e non dall'effettiva malignità dei prodotti, sono sorti diversi

progetti di riciclo: uno di questi è lo Rub & Stub, un ristorante danese in cui viene

servito soltanto cibo 'riciclato', la cui maggior parte di cibo arriva da due catene di

supermercati danesi [Saporiti, 2013] che, appunto, per ragioni culturali sono costretti a

scartare ingenti quantità di cibo. Rub & Stub è composto da cuochi ed ex dipendenti di

grandi supermercati, molto vicini dunque allo spreco quotidiano alimentare.

Un progetto simile è il Daily Table, in Massachusetts, organizzato da Doug Rauch,

ex presidente della Trader Joe’s: un ibrido tra un negozio e un ristorante che venderà

cibi o piatti preparati con alimenti appena scaduti e a prezzi fortemente scontati.

L'obiettivo è quello di sensibilizzare le persone circa le date di scadenza riportate sulle

confezioni che spesso causano confusione nei consumatori che, nel dubbio, buttano

prodotti che potrebbero essere ancora consumati [Saporiti, 2013].

In tutto il mondo sono sorti progetti tesi al contenimento dello spreco alimentare; a

Torino, una recente iniziativa tra i negozianti del quartiere di Santa Rita ha dato il via a

un progetto di vendita al ribasso, attraverso sconti, promozioni e offerte diffuse tramite

171

e-mail. Il progetto, Last Minute Market Sotto Casa, questo il nome, è iniziato nel 2013

per iniziativa di Francesco Ardito e Massimo Ivul che, grazie alla partecipazione del

Politecnico di Torino hanno sviluppato un live marketing (un mercato in tempo reale) di

prossimità che consente a negozi con prodotti alimentari in eccedenza o in scadenza di

informare con immediatezza e semplicità i cittadini. Per poter partecipare al progetto è

necessario iscriversi al sito e comunicare il luogo abitativo, in modo da ottenere

informazioni sui punti vendita più prossimi; l'iscrizione al gruppo permetterà di

rimanere aggiornati sulle ultime promozioni di qualsiasi negozio, punto vendita o

mercato aderente all'iniziativa, selezionato in base alla vicinanza con il luogo abitativo.

I prodotti generalmente riguardano i beni di prima necessità come pasta, pane, farine,

carne, pesce, verdura, frutta, prodotti gastronomici e industriali, ma non mancano

offerte su detersivi, biancheria ed altri prodotti, a seconda dei tipi di negozi e delle

promozioni. Partito dal quartiere Santa Rita, il progetto si è esteso in poco tempo a molti

negozi distribuiti in tutta la città di Torino, raggiungendo inoltre un risalto mediatico

nazionale, a testimonianza della bontà dell'iniziativa, definita dagli ideatori 'win win

win', in quanto garantisce una vittoria per i venditori che non sono così costretti a dover

gettare via il cibo, per i consumatori che possono così comprare prodotti

qualitativamente validi e a prezzi inferiori rispetto alla grande distribuzione, e per il

pianeta, in quanto lo spreco alimentare viene contenuto. Un grande mercato online, in

cui le offerte non sono più trasmesse attraverso le grida dei commercianti, ma tramite e-

mail, in modo istantaneo e gratuito.

La portata innovativa di Last Minute Market è legata, come si vede, all'evoluzione

tecnologica del periodo attuale, e al modo più sapiente di utilizzo di essa: la creazione di

un social network col fine di ridurre lo spreco di cibo, garantendo un guadagno ai

venditori e un risparmio ai consumatori è vincente sotto molti punti di vista, come

risulta anche dall'interesse suscitato verso quotidiani, riviste alimentari e socio-culturali.

Lo sviluppo telematico ha permesso la fioritura di molti progetti simili a quello di Las

Minute Market: a Trento infatti è nata l'applicazione per smartphone, tablet e pc Bring

The Food, dedicata alla limitazione degli sprechi. Tale applicazione permette a chi ha

eccedenze alimentari di metterle a disposizione di enti caritatevoli che assistono le

persone indigenti del territorio, attraverso la supervisione del Banco Alimentare. Il

Banco Alimentare può verificare gli accreditamenti, monitorare le richieste di

172

donazione di alimenti e autorizzare (o non-autorizzare) il recupero e la ridistribuzione

dei quantitativi di cibo segnalati in rete; la non autorizzazione può scattare nel caso in

cui, secondo Banco Alimentare, non sussistano le condizioni logistiche e/o igienico

sanitarie affinché il trasferimento degli alimenti venga eseguito efficacemente ed in

condizioni di sicurezza alimentare. In questo modo, le eccedenze alimentari vengono

utilizzate come forma di sostentamento per le fasce più povere, limitando spreco e

inquinamento e provvedendo ad un riassesto dei rapporti sociali fra cittadini.

La nascita di pratiche di Food Sharing come quelle descritte rappresenta la felice

unione di nuovi modelli socio-culturali affiancati da un uso sapiente della tecnologia

disponibile, in quanto permettono di ridurre gli sprechi alimentari, l'inquinamento

(derivante dalle modalità di smaltimento), e porre un rimedio all'aumento dei prezzi

alimentari e di conseguenza degli indigenti. Lo sviluppo di forme alternative alla

sempre più globalizzante GDO rappresenta la felice presa di coscienza di classi sociali,

individui e movimenti di persone, nei confronti di metodi produttivi che rischiano di far

sprofondare il pianeta nella catastrofe, come si è compreso all'interno del lavoro svolto.

Il cambiamento culturale e le innovazioni socio-tecniche residenti nelle nicchie offrono

metodi alternativi e di salvaguardia dell'ambiente, in particolar modo Urbees e altri

progetti paralleli, oltre a consumi eco-compatibili come i Gruppi di Acquisto Sostenibili

e le varie derivazioni che, da un circa un decennio stanno popolando i centri urbani

italiani e mondiali. A livello sociale, l'adozione di simili modelli da parte della

collettività è ancora lontana e il suo successo è tutt'altro che scontato, se riconsiderato

nel contesto attuale in cui le multinazionali alimentari, di semenze, di produzione di

energia e della grande distribuzione dominano i mercati alimentari e del lavoro

mondiali. Come dimostrato però, la maggior adesione e la nascita di nuove nicchie

alternative rappresentano delle feconde alternative al sistema basato unicamente sul

capitale che, come descritto, sembra aver toccato i limiti costitutivi.

173

Conclusioni

Il lavoro svolto ha permesso di stilare un'evoluzione del sistema capitalistico,

attraverso una visione legata al cibo, una risorsa fondamentale per la nostra vita,

partendo dalle sue origini e le principali tappe storiche del percorso, culminato nella

globalizzazione degli anni '90. Una delle principali risorse necessarie per garantire tale

successo, in termini di diffusione, di sviluppo, di radicamento e di evoluzione socio-

culturale a livello di landscape è stato appunto il cibo e la produzione alimentare; i

prodotti alimentari, infatti, al pari delle risorse energetiche, materie prime e forza lavoro

hanno garantito il successo di alcuni regimi su altri all'interno del panorama,

riorganizzato attraverso la valorizzazione monetaria delle risorse naturali. Come si è

visto, già a partire dalle prime forme di capitalismo cittadino, con gli esempi delle

Repubbliche di Genova e Venezia, il commercio di materie prime e risorse alimentari

come legname e grano, assieme alla circolazione del denaro furono metodi capitalistici

che produssero - rispetto agli stati-nazione dotati di apparati governativi ancora legati

alla tradizione feudale - iniziali forme di egemonia capitalista. Dopo secoli di inattività,

nuove forme di espansione delle frontiere presero piede; questo è stato osservato

attraverso l'espansione della coltivazione della canna da zucchero e del caffè,

mostrando come l'adozione di un sistema che preleva più risorse di quante la natura

riesca a produrne causava continue espansioni alla ricerca di nuovi appezzamenti da

coltivare, nuove risorse primarie, nuova forza-lavoro, nuove fonti energetiche. Ben

presto altre realtà, come le Province Unite si dotarono del medesimo apparato, grazie

alle riserve di grano del Baltico, alle Compagnie delle Indie che rifornivano i mercati

europei di prodotti ottenuti attraverso la schiavitù e l'allevamento coloniale. Il grano del

Baltico riforniva i mercati europei e rappresentava una delle principali forme di

finanziamento alle spese militari e navali, mentre il capitale finanziario transitante da

Amsterdam permetteva un ruolo privilegiato nei rapporti geopolitici europei; le risorse

alimentari costituivano dunque un'importante arma, in mancanza di grossi eserciti o

territori, come appunto nei casi delle città-stato. Nel caso delle Province Unite il

174

capitalismo aveva raggiunto dimensioni mondiali (se si limita il contesto al sistema

Europa-mondo) determinando una globale accettazione e adozione del sistema basato

sul capitale, garantito dall'egemonia olandese.

Il presente lavoro ha messo in mostra le relazioni esistenti tra le espansioni verso

territori vergini (per mantenere alta la competitività militare, politica ed economica nel

'ring' europeo) e la degradazione del terreno, la diminuzione dei raccolti, della

biodiversità, l'inquinamento ambientale provocati dall'insaziabilità intrinseca al sistema;

riguardo all'importanza della biodiversità, già Darwin ed altri suoi contemporanei,

descrissero l'argomento con toni poco rassicuranti. A distanza di due secoli la pericolosa

relazione si è ormai estesa in tutto il pianeta.

Quando il panorama socio-culturale e geopolitico si dotò definitivamente di

fondamenta capitalistiche, le maggiori potenze tentarono di scalzare le Province Unite

dal ruolo di regime. Lo sviluppo di un impero basato sui rapporti con le colonie e con i

territori assoggettati fu invece uno dei capisaldi dell'egemonia britannica, 'l'officina del

mondo' che estese sotto il proprio controllo il consumo di beni prodotti a livello globale.

La privatizzazione dei beni comuni fu la scintilla per lo sviluppo della proprietà privata

e del capitale d'impresa e per la successiva rivoluzione industriale. Lo sviluppo

scientifico, industriale e la catena di montaggio premisero infatti di accrescere

notevolmente la produzione dei raccolti, di beni alimentari e non, richiamando folte

masse di lavoratori dalle campagne. La nascita di centri urbani e del proletariato

rafforzò il ruolo delle città nei confronti delle campagne; la disponibilità di lavoratori a

basso costo e di miniere, materie prime e risorse alimentari nei territori coloniali garantì

all'Impero britannico il mantenimento nelle proprie mani l'equilibrio mondiale sino allo

scoppio delle due guerre mondiali, che sancirono la fine della dominazione europea,

spostando il centro di potere oltre Atlantico, contrastato dal blocco comunista.

Nel passaggio all'egemonia statunitense anche la produzione alimentare cambiò volto

attraverso l'introduzione di sostanze chimiche. I negativi effetti del trittico agricoltura-

industria-sostanze chimiche erano per'altro stati già notati sul finire del XIX secolo, con

la ricerca da parte di Francia, Germania e Impero britannico di fertilizzanti naturali

come il guano del Pacifico per rispondere alle devastanti conseguenze dei primi

esperimenti di sostanze chimiche nell'agricoltura; un altro esempio è rappresentato dalle

Dust Bowl, tempeste di sabbia che sconvolsero gli stati centrali del Mid-West durante

175

gli anni '30 in seguito all'uso intensivo di agenti chimici. Il felice sviluppo delle nascenti

lobby orbitante attorno a imprese agricole, industrie chimiche, mezzi di comunicazione

e grande distribuzione fu tuttavia in grado di imporre a livello mondiale il modello di

agricoltura industriale e intensivo.

Lo sviluppo demografico mondiale, cresciuto durante l'arco del XX secolo, è un

apparente motivo per l'adozione di tale sistema agroalimentare, al cui centro si trova

l'accumulazione di capitale; durante l'egemonia statunitense, attraverso l'influenza

politica, commerciale e culturale verso i territori periferici, la produzione industriale

agroalimentare fu adottata tanto nei paesi sviluppati quelli in quelli in via di sviluppo,

attraverso programmi di sviluppo come la Rivoluzione Verde, in cui furono introdotti i

primi tentativi di biotecnologie come gli organismi geneticamente modificati.

L'aumento del peso ambientale di tali iniziative legate all'aumento della produttività ha

apportato sensibili crepe all'equilibrio ambientale del sistema-mondo, tuttavia celato dai

gruppi dominanti e di conseguenza dall'attenzione sociale e culturale.

Le politiche neoliberiste dei governi di Inghilterra e Stati Uniti hanno velocizzato

l'ascesa delle multinazionali nello scacchiere politico-economico e finanziario mondiale,

specialmente in seguito alla caduta del Muro di Berlino e alla fine del comunismo, come

antagonista al capitalismo; la risultante globalizzazione ha annichilito il peso politico,

inerme (ma anche connivente) di fronte all'ascesa vertiginosa del potere finanziario e

delle multinazionali. Il progressivo adeguamento alle leggi del mercato ha esposto

nazioni, popoli e governi allo sviluppo di un sistema caratterizzato dal radicale

deterioramento delle risorse produttive come i territori agricoli, tamponato

parzialmente, ad esempio, attraverso l'uso di sostanze chimiche che hanno favorito la

crescita vertiginosa dei profitti del capitale privato.

La concentrazione del potere, nel XXI secolo, con la crisi geopolitica del regime

statunitense, bersagliato negli anni da più avversari all'imperialismo democratico' a

stelle e strisce, sembra essersi trasferita verso il capitale cinese e quello lobbistico;

all'interno del capitale privato spicca la posizione occupata dalla grande distribuzione

che negli anni ha imposto il proprio modello di vendita a qualsiasi settore. A questo

proposito è infatti utile osservare come negli anni siano sorti varie tipologie di

supermercato: di alimentari, di mobili, di giocattoli, di prodotti farmaceutici, ecc... Il

modello del supermercato (ipermercati, supermercati, punti vendita di prossimità,

176

discount) è quindi entrato nel tessuto delle pratiche sociali quotidiane, divenendo il

principale metodo d'acquisto, a qualsiasi latitudine, come dimostrato nel terzo capitolo.

L'insaziabile appetito del capitalismo tuttavia deve fare i conti con i limiti costitutivi

del pianeta terra: mentre in passato, come testimoniato dai percorsi storici dell'Olanda e

della Gran Bretagna, le espansioni costituivano nuova linfa vitale per il mantenimento

dei ruoli centrali del potere, il raggiungimento prossimo dei limiti planetari non

permette ulteriori espansioni se non al di fuori della terra. La precaria condizione delle

fonti idriche, dei suoli, delle risorse minerarie, primarie ed energetiche non può

permettere ulteriori slittamenti temporali, specialmente considerando l'evoluzione di

nuove realtà come in Brasile, Cina, India, fortemente influenzate dall'accumulazione di

capitale.

All'interno del lavoro ho descritto i problemi salutari, ecologici ed economici

derivanti dall'adozione del sistema di produzione intensiva: al pari delle monocolture

controllate attraverso l'uso di sostanze tossiche, ho evidenziato come anche

l'allevamento e l'acquacoltura intensivi, segnati da politiche volte alla massimizzazione

dei profitti, costituiscano un pericolo per l'uomo e per l'ambiente circostante.

La dimostrata pericolosità ecologica dell'attuale sistema fa da rovescio alla nascita di

nicchie socio-tecniche (in tutto il globo) caratterizzate dalla sostenibilità e dalla ripresa

della sovranità alimentare; dai sistemi di agricoltura collettiva e naturale di alcune

popolazioni africane, ai gruppi d'acquisto collettivi, all'apicoltura urbana, in tutto il

mondo sono nati movimenti contrari alla tipologia produttiva vigente, proponendo

forme alternative in sintonia con il ritmo produttivo naturale. Ho focalizzato l'attenzione

principalmente sui gruppi d'acquisto e sull'apicoltura urbana, in quanto implicano un

profondo cambiamento su più livelli: in primis quello alimentare e salutare, poiché i

prodotti consumati sono qualitativamente molto superiori a quelli industriali, arricchiti

di sostanze tossiche; in secondo luogo quello culturale, in quanto la restaurazione dei

legami con il territorio e con una filiera produttiva il più possibile corta ha determinato,

e richiede, un'evoluzione nei rapporti sociali. La ripresa delle relazioni con i produttori

locali, assieme alla miglior qualità del cibo consumato esplicitano il valore

fondamentale della sovranità alimentare, in termini gastronomici, salutari e socio-

culturali; in terzo luogo le nicchie alternative che ho descritto rappresentano vie

alternative ai metodi produttivi attuali, contrassegnati da livelli alti di disoccupazione e

177

precariato. Tali nicchie hanno infatti rappresentato per i soggetti coinvolti possibilità di

guadagno alternative alla stagnazione lavorativa ed economica. L'ultimo punto riguarda

il miglioramento delle condizioni ambientali grazie alla rinata valorizzazione della

filiera corta e delle metodologie di coltivazione e di allevamento rispettose delle risorse.

Grazie al paragone con i metodi industriali tesi alla contrazione delle spese e

all'aumento dei profitti - identificabile felicemente nell'esempio offerto dall'allevamento

di bovini, suini e pollame a base di mais - si è descritta la differenza sistemica dei due

modelli proposti, quello delle nicchie socio-tecniche (legate a processi transitivi) e

quello del capitale, attivo fin dal XV secolo: da un lato l'accumulazione di potere,

l'espansione e il mantenimento delle influenze di potere sulle periferie mondiali, a

scapito di una progressiva sterilità ambientale, una diminuzione della biodiversità e di

un generale peggioramento delle condizioni di vita, come qualità del clima, delle fonti

idriche e alimentari, queste ultime negate a un sempre più alto numero di indigenti;

dall'altro lato, la proposizione di sistemi alternativi, organizzati per mezzo della

partecipazione attiva dei consumatori alla produzione alimentare, in termini di

attenzione alimentare e ripresa delle relazioni con i produttori locali, questi ultimi

altrimenti esposti alle leggi di mercato che agevolano la produzione su vasta scala delle

grandi imprese multinazionali. La riattivazione della produzione e dei consumi locali,

messi in pausa dalla massiccia urbanizzazione del secondo dopoguerra, potrebbe

garantire una possibile serie di effetti positivi a catena, come descritto. Il lavoro ha però

sottolineato che affinché ciò avvenga sono necessari processi transitivi, relativi al

rinnovamento del paesaggio socio-tecnico e culturale dominante. Lo stretto legame che

quotidianamente relaziona queste diverse sfere socio-tecniche, come teorizzava

Gramsci, è vincolato al pensiero e alla cultura. Il mantenimento di un pensiero

dominante relazionato all'accumulazione di capitale, restituirà - nello schema proposto

da questo lavoro - una successione di regimi in cui la produttività e la crescita del

capitale resteranno centrali nelle politiche di governo; diversamente, la comprensione a

livello di pensiero dominante dei limiti strutturali del sistema attuale potrebbe portare a

innovazioni eco-compatibili e positive anche per le attività umane. Dei due l'uno,

considerando però che, mentre le innovazioni sostenibili possono rappresentare allo

stadio attuale delle provocazioni e raramente dei sistemi alternativi, il capitalismo

sembra essere prossimo ai limiti costitutivi della Terra.

178

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