UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN STORIA E TUTELA...

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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN STORIA E TUTELA DEI BENI CULTURALI L’opera di Gianfrancesco da Tolmezzo a Barbeano e Provesano: iconografia tra tradizione e innovazione Relatore: professoressa Alessandra Pattanaro Laureando: Simone Toffolon - 483946 STB Anno Accademico 2013 – 2014

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA IN STORIA E TUTELA DEI BENI CULTURALI

L’opera di Gianfrancesco da Tolmezzo a Barbeano e Provesano:

iconografiatra tradizione e innovazione Relatore: professoressa Alessandra Pattanaro

Laureando: Simone Toffolon - 483946 STB

Anno Accademico 2013 – 2014

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INDICE

INDICE p. 3 I. INTRODUZIONE 1. Il motivo di questo lavoro e il suo significato p. 5 2. L’arte sacra è concepita per il contesto liturgico p. 6 3. Relazione tra fede e arte nella storia della Chiesa. p. 8 4. Funzione educativa dell’arte sacra p. 9 II. GIANFRANCESCO DA TOLMEZZO: NOTE BIOGRAFICHE p. 15 1. Origini p. 15 2. Formazione p. 15 3. L’opera p. 16 4. Opere perdute accertate p. 17 5. Lo stile: una possibile sintesi p. 18 III. IL CICLO DI AFFRESCHI IN SAN ANTONIO ABATE A BARBEANO p. 19 1. La chiesetta di San Antonio Abate in Barbeano di Spilimbergo p. 19 2. Tecniche di esecuzione e interventi di restauro p. 20 3. Il racconto della natività: elementi tradizionali e innovazioni. p. 20 4. L’adorazione dei magi: stupore, meraviglia, contemplazione. p. 25 5. L’ascensione: in dialogo con l’architettura e la luce. p. 28 6. Il racconto del Giudizio: lo scopo morale. p. 29 7. Profeti, evangelisti e dottori della Chiesa: presenze e significati. p. 30 8. Sintesi per una lettura iconografica e iconologica unitaria. p. 31 IV. IL CICLO DI AFFRESCHI IN SAN LEONARDO A PROVESANO p. 33 1. Il contesto storico e sociale dell’opera p. 33 2. Tecniche stilistiche e interventi di restauro p. 33 3. Il programma iconografico p. 34 4. La passione p. 35 L’ultima cena p. 35 L’orazione nell’orto degli ulivi p. 36 La cattura p. 37 Cristo davanti a Caifa p. 38 Cristo davanti a Pilato p. 39 La flagellazione p. 40

Verso il Calvario p. 41 Crocifissione p. 42 Deposizione e resurrezione p. 45

5. Il giudizio p. 46 I dannati p. 47

6. Riflessione sul carattere nordico degli affreschi di Gianfrancesco a Provesano p. 48 7. Le sante martiri p. 48 8. Riflessioni di sintesi p. 52 Bibliografia generale p. 54

Allegato fotografico

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I INTRODUZIONE

1. Il motivo di questo lavoro e il suo significato. Ho avuto la grazia di vivere – per sei anni interi – le mie prime esperienze di prete giovanissimo nella parrocchia del Duomo di Santa Maria Maggiore, in Spilimbergo, sulle rive del fiume Tagliamento che segna confine tra le due provincie di Pordenone e Udine. Il Duomo è lo scrigno di tesori più alto che la Diocesi di Pordenone possa vantare, e poterlo “abitare” nella quotidianità dei riti consente di vivere esperienze autentiche di bellezza. Va però detto – per amore della verità – che la sua luce e la sua notorietà non possono e non devono offuscare quelle perle luminose, più piccole ma non meno preziose, di cui è costellata la campagna friulana tutt’intorno. Nella medesima esperienza pastorale, avevo anche cura d’anime in una frazione di Spilimbergo, soggetta canonicamente al Duomo: Barbeano. La chiesa parrocchiale, pur di antica fondazione, si presenta oggi con un’architettura sobria e modesta. Ma ciò che destò il mio interesse fu la scoperta dell’oratorio di sant’ Antonio Abate, chiesina dalle dimensioni modeste, completamente fuori dall’abitato, ubicata dove finiscono le case e iniziano le distese di viti. In quell’oratorio ho celebrato per più di un anno a motivo di lavori di intervento nella parrocchiale. Per mesi e mesi ho officiato i riti materialmente immerso nelle forme e nei colori di Gianfrancesco da Tolmezzo che sul finire del ‘400 aveva interamente ricoperto con la sua arte le pareti e la volta del piccolo presbiterio. La mia riflessione nasce in quel contesto. Spesso durante le celebrazioni avevo modo di chiedere ragione a me stesso di quell’arte quasi “sprecata”, di quella bellezza traboccante di fascino eppure relegata in un luogo sempre chiuso e sconosciuto ai più. Mi chiedevo spesso quali criteri e ragioni, o semplicemente quali ambizioni avessero indotto una certa committenza – ecclesiastica o comitale che fosse – ad investire denari per dare lustro ad un luogo di fede modesto e lontano dai centro veri della vita sociale. Che senso poteva avere, in un contado sicuramente caratterizzato da tante realtà problematiche e povertà, interessarsi del bello, dare spazio all’arte, ricercare un uomo dalla mano capace e rivestito di una certa fama che – stabiliti tematiche e costi – prestasse la sua abilità per dotare la chiesetta di elementi che potessero renderla non solo preziosa di beltà ma anche religiosamente e liturgicamente espressiva. Le stesse riflessioni si riaccesero in me quando conobbi l’opera dello stesso Gianfrancesco nella vicinissima Provesano, con lo stesso stupore iniziale, con il medesimo fascino per quanto ancora custodito e degno d’ammirazione, con altrettanti “perché” da riconoscere e saziare. Il presente lavoro non vuole aggiungersi a quegli scritti – ormai datati o recentissimi – che in vario modo, con argomentazioni più brillanti o di scarso rilievo, hanno indagato quant’è possibile studiare della vita e dell’opera di Gianfrancesco da Tolmezzo. Non è questo lo scopo; ma quello – senz’altro modesto e senza alte pretese – di accostarsi ad un esempio notevole di arte friulana rinascimentale per poterne comprendere – a mo’ d’esempio – le ragioni, riconoscendo le funzioni e le finalità dell’arte sacra scritta dentro all’iconografia delle immagini. Gli affreschi composti dal pittore di Tolmezzo sulle calci di queste due chiese avevano preciso compito d’essere strumentali a funzioni di prestigio, di rito e culto, e divenire così, al tempo stesso, testimonianza forte d’un’epoca, di una società, di un sentire religioso. Si è cercato di capire quanto quegli affreschi riescono a comunicare ancor oggi, nel raccontare il messaggio per cui sono stati voluti, nel ridire con eleganza ciò che la committenza e il pittore hanno affidato con passione e competenza alle linee, alle forme, al colore.

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2. L’arte sacra è concepita per il contesto liturgico. Va sempre considerato come l’edificio chiesa, nel contesto di una comunità (e di una società), ha il carattere del luogo vissuto, abitato: non è lo spazio dove si custodisce il ricordo di una tradizione fissa ed immutabile, ma l’ambiente dove si rinnova un’esperienza di religiosità che può mutare, svilupparsi, proprio inserita nelle dinamiche della vita stessa dell’uomo. Questa esperienza si chiama “liturgia”, e ha carattere ben definito, ha intelligenza e consapevolezza: uno dei suoi cardini è proprio quello di poter continuamente essere vitale, espressiva, capace di comunicare e di dialogare – pur con alfabeto antico – nelle declinazioni dei linguaggi contemporanei. Non è fuori luogo soffermarsi a considerare questi concetti: ci si può rendere conto, infatti, come le caratteristiche dell’esperienza liturgica sono in forte sintonia con le realtà che fondano l’esercizio delle arti quando vengono adottate per essere veicolo di religiosità e sacralità. E’ preziosissima – in tal merito – la sintesi creativa suggerita da Romano Guardini a commento della sua famosa definizione di “Liturgia come gioco”. Scrive a proposito: “La liturgia non ha «scopo», o almeno non può essere ridotta soltanto sotto l'angolo visuale della sola finalità pratica. Essa non è un mezzo impiegato per raggiungere un determinato effetto (…); non può avere «scopo» alcuno anche per questo motivo: perché essa, presa in senso proprio, ha la sua ragione d'essere non nell’uomo, ma in Dio. Nella liturgia l'uomo non guarda a sé, bensì a Dio; (…). In essa l'uomo non deve tanto educarsi, quanto contemplare (…)1”.

Questa è già una prima considerazione di grande rilevanza: nella liturgia, così come nell’accostarsi al respiro delle arti, il fine non è necessariamente quello della comprensione intellettuale o del suscitare un ragionamento per ottenere poi un concetto. E’, in primo luogo, esperienza di “contemplazione” ad è questo che è costitutivo e significativo, perché capace di coinvolgere ciò che è sensazione e sentimento, toccando - e facendo vibrare - la dimensione emotiva dell’uomo, che in un secondo momento può divenire intellettiva, ma non in modo necessario. “Il senso della liturgia è pertanto questo: che l'anima (…) si inserisca nella vita (divina), nel mondo santo delle realtà, verità, misteri, segni divini, e cosi si assicuri la vera e reale vita sua propria2”.

Argomenta le sue intuizioni riferendosi ad esempi tratti da passi biblici: uno è tratto dal libro di Ezechiele, dove si descrive la grande visione del profeta, che Guardini rielabora traducendo così dal latino: “Questi fiammeggianti Cherubini «andavano dritti dove il vento li spingeva (…) né si voltavano nell’andare (…), andavano e venivano come la vampa della folgore (...) andavano (...) e si alzavano dal suolo; il fruscio delle loro ali assomigliava al murmure di molt' acqua (...) e quando si fermavano abbassavano nuovamente le ali 3». Come sono «senza scopo» codeste creature! Come sono addirittura sconfortanti per uno zelatore della funzionalità raziocinata!

Viene così presentato l’ aspetto della “gratuità” della bellezza, del senso di stupore e di meraviglia; ma è nella seconda citazione che si espone con un linguaggio davvero innovativo e – lo si può dire – persino affascinante; traduce dal Libro della Sapienza: “…parla l’Eterna Sapienza e dice: «Io stavo presso di Lui intenta ad ordinare le cose tutte, ed ero tutta compiacenza giorno per giorno, ricreandomi (ludens) in sua presenza ogni momento, ricreandomi sul globo terrestre ... ». Questa è la parola decisiva! Il Padre eterno si compiace che la Sapienza (…) si dispieghi dinanzi a Lui in una inesprimibile bellezza questo contenuto infinito senza alcuna «mira» - a che dovrebbe Egli «mirare»? -; ma nella pienezza più definitiva del senso, in mera e schietta gioiosità di vita: Egli «g io ca» dinanzi a lui4”.

1 Guardini, 1980,p. 51 2 Guardini, 1980,p. 52 3 Ez 1,4 ss 4 Guardini, 1980, p. 56

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Può sembrare inopportuno, o persino stravagante, che dentro riflessioni che si accendere nell’ indagine del rapporto che esiste tra fede e arte ci si riduca a parlare di un “gioco”. Eppure il significato che vi si nasconde dietro – o dentro – è nobilissimo. Guardini, dopo aver a lungo ragionano sui criteri che – nella vita dello Spirito – muovono il sentimento religioso proprio come frutto di un “ludens” totalmente gratuito, scende nella concretezza delle esperienze ragionando così: “Anche nell’ambito delle cose terrene vi sono due fenomeni che accennano alla stessa tendenza: il gioco del bambino e la creazione dell'artista. Nel gioco il bambino non si propone di raggiungere nulla, non ha alcuno scopo. Non mira ad altro che ad esplicare le sue forze giovanili, ad espandere la sua vita nella forma disinteressata dei movimenti, delle parole, delle azioni, e con ciò a crescere, a diventar sempre più perfettamente sé stesso. Senza scopo, ma piena di significato profondo è questa giovane vita; e il senso non è altro che questo: che essa si manifesti senza impedimenti nei pensieri, nelle parole, nei movimenti, nelle azioni, si renda padrona dell’essere suo, semplicemente esista. E (…) il suo gesto si tramuta da sé in ritmo ed immagine, in rima, melodia, canto. Questa è gioco (…). Nell’arte l'artista non mira ad altro che a risolvere questa tensione interiore, a dar espressione nel mondo dell'immaginazione a quella vita superiore a cui anela (…). Ed anche chi contempla l'opera d'arte non deve proporsi null’altro che di soffermarsi in essa, respirarvi, muoversi liberamente, prendere consapevolezza della parte migliore del suo essere, anelare al compimento della propria brama intima. Non deve perciò riflettervi sopra con critica «raziocinante» o cercarvi dottrina o savi ammonimenti. (…)5”.

E’ necessario soffermarsi anche su un’ulteriore ricerca di senso. Chi dovesse intendere l’opera d’arte sacra come semplice frutto di una ricerca estetica, sradicandola dal contesto per cui è stata concepita e partorita, la renderebbe sterile perché incapace di mettersi in dialogo in modo totalmente efficace. Ogni opera sacra può essere collocata in un museo: ma le si toglie la vitalità. E questo al di là di un criterio strettamente religioso, da devoto, col rischio di divenire persino devozionale. Due ce l ebr i esempli f i cazioni . Credo opportuno ritrovare – in tal senso - parole di Marcel Proust che, nella Francia del 1904, proponeva la sua riflessione6 circa l’inopportuna proposta di abolire i luoghi di culto per tramutarli in museo e di catalogare le opere del sacro semplicemente come beni culturali. La sua preoccupazione aveva radice nella consapevolezza che le cattedrali potevano essere luoghi di “bellezza” solo quando erano “officiate”. Scriveva che

“la rottura del governo francese con Roma sembra rendere prossima la discussione e probabile l’adozione di un progetto del signor Briand, ai termini del quale, di qui a cinque anni, le chiese potranno essere e saranno spesso dissacrate; (…) il governo (…) potrà trasformarle in tutto ciò che gli piacerà: museo, sala di conferenze, casino da giuoco. (…) Non vi è oggi un socialista di buon gusto che non deplori le mutilazioni inflitte dalla Rivoluzione alle nostre cattedrali, tante statue, tante vetrate infrante. Ebbene, meglio devastare una chiesa che dissacrarla. Finché vi si celebra la Messa, per mutilata che sia essa conserva ancora la sua vita. Dal giorno in cui viene dissacrata è morta, e se anche sia protetta come monumento storico di celebrazioni scandalose, non è più che un museo. (…) La liturgia cattolica è una cosa sola con l’architettura e la scultura delle nostre cattedrali, poiché le une e le altre hanno radice in un unico simbolismo. È noto come non vi sia nelle cattedrali (…) nulla che non abbia il suo valore simbolico. (…) La protezione anche delle più belle opere di architettura e di scultura francesi, che morranno il giorno nel quale non serviranno più al culto delle necessità dalle quali son nate, che è la loro funzione come essi sono i suoi organi, che è la loro spiegazione perché esso è loro anima, impone al governo il dovere di esigere che il culto sia perpetuamente celebrato nelle cattedrali, laddove il progetto Briand l’autorizza a fare delle cattedrali, in capo a qualche anno, i musei o le sale di conferenze (a immaginare il meglio) che gli piacerà 7”.

5Guardini, 1980, p. 626 Questo studio di Marcel Proust apparve nel «Figaro» del 16 agosto 1904, in occasione della legge di separazione della Chiesa dallo Stato francese, che prevedeva fra l’altro l’abolizione dei luoghi di culto, l’inventario di tutti i beni della Chiesa di Francia, ecc. Legge che fu occasione di vittoria spirituale da parte dell’episcopato francese, obbediente all’ordine di San Pio X: lasciarsi spogliare serbando, in povertà assoluta, il mandato pastorale. 7 Proust, 2006, pp 57-66

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Mentre in Francia si discuteva di questo, in Russia, in uno stesso clima di tensione, la rivoluzione bolscevica confiscava le preziose icone delle chiese ortodosse per esporle nei musei (correva l’anno 1918). Fu Pavel Florenskij a tentare inutilmente di scoraggiare questa pratica: “Scopo del Museo è proprio quello di portare via l’opera d’arte intesa, erroneamente, come una certa cosa che si può rimuovere, e trasportare dove si vuole, e collocare come si vuole. Scopo del Museo è, al limite, l'annullamento dell'oggetto artistico come cosa viva”8. Esistono sensi e significati che vengono dal vissuto storico della Chiesa, emblematici nelle dimensioni celebrative. Se si osserva un’esperienza di vita liturgica, ci si rende conto di quale sia una delle più radicali novità dell’esperienza del cristianesimo. La fede cristiana entra la vita dell’uomo in modo totalizzante, e ha saputo utilizzare ogni registro del linguaggio estetico umano per riuscire ad essere vivacemente espressiva. Non si fonda su un dato intellettivo; non mira ad essere ragionamento, studio, indagine filosofica, astrazione mentale – anche se sa usare questi raffinati strumenti in modo adeguato, quando necessario. Proprio perché la fede è “esperienza”, dalla concretezza della vita trae dinamiche e scelte. E la fase liturgica della vita di fede riesce ad abbracciare – per essere comunicativa ed efficace – la varietà dell’esperienza umana di un individuo, che – prima di essere credente – è uomo iscritto nella realtà. Il corpo è tutto coinvolto: la musica, il canto, le parole calme e ben pronunciate ed anche un silenzio educato, curato ed equilibrato, accarezzano l’udito; il colore delicato dell’affresco, quello cangiante della tela ad olio, quello del tessuto dei paramenti ci parla e ci ricorda verità attraverso le tinte che hanno simbologie e significati, mentre la grazia di elementi naturali riproposti negli altari fa sintesi della bellezza del creato; la sobria eleganza delle antiche chiese illumina la vista e parla di eternità; l’odore intenso dell’incenso accompagna parole solenni, il fumo e il calore delle candele richiama l’aroma del sacro. Il profumo del sacro crisma consacra, la fragranza dei fiori rende partecipe l’olfatto; i passi sul sagrato e nella navata indicano volontà di partecipazione; mani immerse nell’acqua ricordano grandi gesti di fede; il gusto, il sapore interpellano anche l’essere più intimo e discreto ad un coinvolgimento. Tutto questo - e sono solo dei richiami – è esperienza celebrativa; gesti, parole, riti ripetuti che sono capaci avere un sé efficacia di comunicazione e trasmissione di messaggi. Il riferimento all’esercizio dei cinque sensi non è gratuito: nelle indagini di carattere artistico poi viene messo in rilievo come tra tutti, quello del “vedere” sia il più acuto e delicato, e quello capace di essere più di altri assorbito nella memoria. Per questo arte e liturgia dialogano in modo efficace ed affascinante quando si coniugano in forme nuove, totalmente creative e sorprendenti in modo intelligente:

“perché alla memoria sfugge sensibilmente ciò che più somiglia alla vita quotidiana9”.

3. Relazione tra fede e arte nella storia della Chiesa. Anche senza entrare nel contesto di una esperienza di fede personale, che presuppone un coinvolgimento intimo (il quale ovviamente non si può indagare scientificamente), quanti si accostano allo studio e alla contemplazione di un’opera d’arte che abbia tematica sacra, inevitabilmente avvertono una consapevolezza: l’ingresso del Cristo nella storia dell’uomo ha segnato radicalmente le scelte e le forme dell’arte dentro la vita della Chiesa. Ciò che l’evangelista Giovanni rende con forte concretezza nel suo prologo (la Parola si fa carne, la divinità si riveste di umano) è l'elemento che ha fatto da spartiacque: la novità cristiana consiste proprio nell'affermare che Dio ha un volto umano; le vicende narrate nei Vangeli hanno come scenario concreto la dimensione del vissuto storico, a volte così semplice da apparire persino banale. La proibizione della rappresentazione di Dio che è scritta nel libro dell’Esodo, e che ha carattere insuperato per Ebrei, ha profondamente caratterizzato il cammino del Giudaismo in senso artistico. La

8 Florenkij, 2003, p. 57 9 Settis, 2010, p.184

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Chiesa ha compiuto una riflessione diversa, ritenendo che quella parola dettata da Dio a Mosè “non ti farai immagine alcuna” mirava a proibire una raffigurazione idolatrica del divino: tali sono le immagini pagane per l’Antico ed il Nuovo Testamento. Poiché, però, con l'incarnazione Dio si è reso visibile, egli ha mostrato la sua “forma”, scegliendo di avere sembianza umana, per mettersi in dialogo con l’uomo. L'arte sacra pertanto è essenziale nella vita della Chiesa. Con sguardo sintetico, nell'esortazione apostolica Sacramentum caritatis, si indica la bellezza artistica come una delle “modalità con cui la verità(…) ci raggiunge” (n. 35) e si richiama con urgenza il “legame profondo tra la bellezza e la liturgia”. Queste parole fanno parte della millenaria tradizione cattolica, che ha sempre promosso, spiegato e all'occorrenza difeso la funzione dell'arte nella crescita spirituale dei credenti e dell’esercizio pastorale della Chiesa. Già alla fine dell'era patristica, Gregorio Magno riassumeva l'esperienza dei primi secoli cristiani in termini che la tradizione ha sintetizzato poi con l'espressione di Biblia pauperum, che sarà usata in modo canonico per tutta l’epoca medievale; affermava il valore didattico dell’immagine religiosa narrativa (distinto dall’idolo e dall’idolatria che ne consegue), soprattutto in funzione degli incolti. Scrivendo (siamo verso il 600) ad un vescovo iconoclasta, sottolineava la finalità propriamente spirituale delle immagini sacre.

“Altro è adorare un dipinto, altro imparare da una scena rappresentata in un dipinto che cosa adorare”10.

Ricordiamo poi che Concilio II di Nicea11 trasse le giuste conclusioni arrivando ad affermare che la raffigurazione del Cristo e delle storie bibliche non solo doveva essere ammessa, ma addirittura raccomandata, perché efficace strumento per raccontare le storie della salvezza, e utilissimi da un punto di vista pastorale. Nei testi del Concilio Niceno II12 ci sono affermazioni che possono persino apparire feroci: “Uomini scellerati, e trascinati dalle loro passioni, hanno accusato la Santa Chiesa, sposata a Cristo Dio, e non distinguendo il sacro dal profano, hanno messo sullo stesso piano le immagini di Dio e dei suoi santi e le statue degli idoli diabolici. Se qualcuno rifiuta che i racconti evangelici siano rappresentati con disegni, sia anatema. Se qualcuno non saluta queste [immagini, fatte] nel nome del Signore e dei suoi santi, sia anatema”.

Non deve stupire tanta forza, parole così accese da sembrare stonate: difendendo la possibilità di raccontare la bellezza della fede per immagini, la Chiesa delle origini difendeva con autorità la stessa incarnazione del Cristo, messa in dubbio da pericolose forme di eresia che consideravano la presenza di Gesù nella storia come l’immagine di uno spettro, incapace di avere emozioni, e di percepire le verità della carne, mettendo dunque in crisi la fatica del morire vissute dal Cristo sulla croce. Senza l'incarnazione – e in questa parola non s’intende solo il mistero del Natale, ma della vita completa del Cristo - senza il prendere carne, l’assumere “figura” di Dio, non sarebbe pensabile la “forma” artistica. “Ciò che per quelli che sanno leggere è la scrittura, lo è l’immagine per gli occhi dei non istruiti, perché in essa persino gli ignoranti vedono ciò che devono imitare, in essa leggono anche coloro che non sanno leggere13”.

E’ doveroso riconoscere che l’immagine ha veri vantaggi rispetto alla scrittura, prima fra tutti una forte capacità di coinvolgere e di commuovere. Uno dei grandi studiosi del testo sacro, Bonaventura, in tal senso scrisse: “L’introduzione delle immagini ebbe una triplice causa: l’inculturazione dei semplici, la tiepidezza degli affetti, la labilità della memoria... In effetti ciò che noi vediamo suscita in maniera più forte il nostro fervore rispetto a ciò che noi ascoltiamo14”.

10 Gregorio Magno, PL, p. 79 - 81 11 Conciliorum Oeumenicorum Decreta, 1972, p. 131ss 12 Jedin H., 1978, pp. 47 - 50 13 Gregorio Magno, PL, Epistola 11,3

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Signi f i cat i . E’ estremamente interessante poi quell’indagine15 che nei secoli è andata consolidandosi, e chiarendosi, e che nei frutti dei lavori del Concilio Vaticano II trova lucidità in alcuni testi: uno fra tutti, il capitolo VII della Sacrosanctum Concilum (SC), tutto dedicato all’arte sacra e alle sue funzioni. Facendo una mirabile sintesi del percorso storico, e di quella consapevolezza che nel cammino dei secoli ha identificato nel linguaggio dell’arte uno strumento prezioso per accedere nella realtà del divino, e quindi nel mondo religioso, si afferma che la Chiesa, nella sua vita liturgica, non può esprimersi senza servirsi delle esperienze “del bello”. Ma c’è una riflessione da compiere, delicata e rispettosa, che desidera chiarire e distinguere, proprio per essere corretta. La Chiesa, infatti, e la liturgia in modo del tutto particolare, non si accontenta di affidare il proprio messaggio all’arte in quanto luogo di bellezza; e nemmeno ad un’arte semplicemente “religiosa”. Sente il bisogno di affidarsi ad un’arte che sia “sacra”, possibilmente “liturgica” quando riveste il suo compito di annuncio nelle celebrazioni e nella catechesi. E’ esperienza quanto si evince dai Padri conciliari riuniti nel Vaticano II, che educano a leggere la storia della liturgia in perenne relazione con quella dell’arte, per comprenderne motivi di scelte e di valutazione. L’arte va sempre accostata come frutto e manifestazione del genio dello spirito umano. E va colta prima nel suo aspetto più materiale e concreto - che secondo la mens greco-latina - designa l’arte come “tecnica”; quindi come oggetto pensato dall’intelligenza e dalla fantasia dell’uomo e poi plasmato dell’abilità delle sue mani; poi nel suo aspetto più libero, che secondo il linguaggio di Tommaso d’Aquino rientra nell’ambito di “arti liberali”, con quell’accezione attenta a valutare l’esperienza del bello sempre declinata associata al vero ed al buono. 4. Funzione educativa dell’arte sacra. La Chiesa, accolto quanto detto come base fondante, da rispettare e difendere, si accorge di aver bisogno di un’ulteriore servizio da richiedere a ciò che è bello, e ha radice in verità e in bontà: deve poter servire alla celebrazione cultuale della fede. Deve saper parlare un linguaggio che non può essere soltanto buono e vero, che non è semplicemente religioso, ma che miri a muovere un sentimento di bene verso un possibile relazionarsi al divino, rivestendosi di quei criteri che rendono l’arte strumento prezioso ed insostituibile per parlare di Dio secondo il linguaggio della Chiesa nel tempo in cui essa vive. E’ ancora Romano Guardini a dare – con grande lucidità – parole che indichino quel ruolo che la Chiesa chiede e affida all’arte in senso educativo. Scrive: “Neppur l’arte ha uno scopo. Si dovrebbe altrimenti pensare che la sua ragione d'essere sia la necessità dell’artista di procurarsi con essa di che nutrirsi. (…) L'opera d'arte deve essere soltanto sp l endor ver i ta t í s . Quando la vita si sottrae al rigoroso ordine dei fini, allora diventa un gioco. Muore, però, anche quando la si vuoi costringere nella rigida armatura di una dottrina puramente utilitaria. I due elementi si integrano reciprocamente. Lo scopo è il fine dello sforzo, del lavoro, dell’ordine; il senso è il contenuto dell’esistenza, della vita che fiorisce e matura. I due poli dell'essere pertanto sono: scopo e senso, sforzo e crescita, lavoro e produzione, ordinamento e creazione. Si può anche affermare che la liturgia, ogni sua azione ed ogni sua preghiera, ha lo scopo di educare religiosamente.”

Senza scivolare nella fantasia e in immaginazioni prive di ogni radice storica, in questo genere d’indagine è importante porsi domande corrette, considerando davvero scelte e volontà che – nella struttura di una chiesa, piccola o grande – sono ora il segno della storia e di una storia religiosa in particolare. L’esempio è questo: si pensi come poteva apparire, sul finire del ‘400, il contado dove sorgeva il villaggio di Provesano – da poco scampato, o comunque sfiorato dall’ira dei Turchi - e la campagna di Barbeano. Di certo poche erano le case capaci di trasudare una certa nobiltà; a volte era compromessa persino la dignità di un’abitazione decente, con l’unica legittima preoccupazione della 14 Bonaventura, In primum librum sententiarum, III d IX a 1 q 2 15 Estivill, 2012

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sicurezza, del rifugio, al di là di ogni intento estetico e di ben che minimo prestigio. Eppure: qui, come in altri luoghi dell’Italia quattrocentesca le chiese innalzate anche con fatica sono luoghi di autentica bellezza, sopravvissuti ai secoli – proprio per la loro qualità– e divenuti ora testimonianza non solo dell’arte intesa nel senso più nobile, ma delle scelte che vi si nascondono dentro. E’ inevitabile lasciarsi stimolare da alcuni quesiti, che hanno nel “perché” la loro unitaria radice. Cosa porta il popolo di un contado – e chi lo guida, e lo rappresenta, ovviamente – a scegliere di costruire un luogo sacro che si distingua da ogni altra costruzione per nobiltà e splendore? In uno splendido saggio su “Pittura ed esperienze sociali nel Quattrocento”16, Michael Baxandall ci consegna i criteri per cui, in quel tempo, valesse la pena per un uomo facoltoso - che avesse quindi grande disponibilità economica da voler investire bene- far uso dei propri “denari” per edificare o rendere bello un luogo sacro. Gli stessi intenti si possono riferire anche alle scelte di un popolo, che pur non avendo la stessa disponibilità economica, ha comunque la volontà di edificare – e di farlo bene – lasciandosi guidare nell’impiegare con intelligenza le risorse. Senz'altro Baxandall riscontra tra le motivazione “il piacere e il merito di spendere bene”, avere la lungimiranza di “compiere un buon investimento”, avere il gusto di “commissionare buoni dipinti”... o occasione per divenire noti, famosi, apprezzati. Ma al di sopra di tutto vi erano tre motivazioni chiarissime: l'onore a Dio, l'onore della città, la memoria di se stessi. Una chiesa – dunque – un edificio sacro costruito secondo i più bei criteri dell'arte e nel tempo arricchito di tesori sempre nuovi secondo i gusti dei tempi - non aveva solo uno scopo funzionale (la necessità di un ambiente per la preghiera) ma nella sua stessa architettura vi era scritta la lode a Dio, nei suoi arredi vi era il punto di riferimento per una città (un villaggio) che in essa riscopriva la capacità di “plasmare bellezza” per una causa importante; il fatto – infine - che nei secoli si potesse far memoria – “dire bene” - di chi aveva saputo rendere a Dio un culto per mezzo delle arti più nobili che sanno rendere visibile l'invisibile bellezza. In senso più stretto, e più vicino quindi anche alla nostra indagine, ci si chiede il “perché” di complesse e coraggiose scelte iconografiche, che in tante chiese – oggi – rimangono esempi altissimi di pittura o di scultura. Sin dai primordi della vita della Chiesa, ci si accorge come le arti visive si siano sviluppate in stretta relazione con il culto, inteso nella sua accezione più ampia e totale. Il numero 122 di S.C., come già riferito, dichiara con solennità il rapporto che unisce liturgia e arte usando la felice espressione “nobile servizio”. Non si intende con questo mancare di rispetto quando si usa la formula ars ancillae liturgiae: la parola serva potrebbe essere intesa con sospetto, soprattutto da una certa cultura contemporanea, ma chi la usa intende invece riconoscerle un servizio prezioso e nobilissimo, il più alto forse al quale può essere innalzata un’attività umana, quando le si riconosce il ruolo di essere ponte tra reale e divino: aiutare Dio a comunicare in modo umano il proprio messaggio. Entro questi criteri va collocata – al giusto posto – la teologia dell’immagine, per capire che ruolo riconosce il magistero ad ogni linguaggio visivo che manifesta il sacro in forma accessibile. Non esiste sintesi più lucida di quei punti che l’allora cardinal Ratzinger definiva nell’indicare le caratteristiche di un’arte ordinata alla liturgia: per prima cosa, scriveva, “la totale assenza di immagini non è concepibile con la fede nell’incarnazione di Dio”; a seguire, “l’arte sacra trova i suoi contenuti nelle immagini della storia della Salvezza; le immagini sacre rimandano al sacramento, all’azione liturgica; la sacralità dell’immagine nasce dalla contemplazione, e porta ad essa”17.

16 Baxandall, 2001, p. 3 - 7 17 Ratzinger, 2010, pp. 129 - 132

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A completare e ampliare quanto detto sinora, sono importanti gli studi di Salvatore Settis, che con abilità e competenza ci indica altre chiavi li lettura per entrare nella dimensione liturgica aiutandoci a scoprire il senso dello stupore e della meraviglia. Nella sua indagine sull'iconografia religiosa dell'Italia in ambito Rinascimentale, ci accompagna dentro la realtà del luogo e del tempo sacro. Ci racconta – nel riferire della cultura e della mentalità dell'uomo religioso del ‘500 – come si percepisse l'esigenza di contrapporre al giorno di lavoro – quindi quotidiano, con la sua dimensione faticosa e a volte mal sopportata - il giorno festivo: dimensione pensata e caratterizzata per essere “diversa”. L'ambiente e il tempo sacro sono necessari, all'uomo, e devono avare caratteristiche precise ed ordinate, perché non sono concepite solo come teatro del sacro - di cerimonie e riti - ma devono poter offrire un'immagine del tempo di Dio che si contrappone e insieme si integra al tempo dell'uomo nella sua vita d'ogni giorno. La chiesa è il luogo della memoria, il luogo dove la vista – il più acuto dei nostri sensi – ha modo di esercitarsi e di armonizzare vita e fede, sentimento ed intelligenza, festa e quotidianità. Grande era la consapevolezza che tutto ciò che più assomiglia alla nostra vita quotidiana, con grande facilità sfugge insensibilmente alla nostra memoria e quindi viene dimenticato. Alberto Magno e Tommaso d'Aquino già avevano messo in evidenza che nell'esperienza della fede l' “arte della memoria” aveva un posto di privilegio. Scrive Salvatore Settis: “Uova di struzzo, meteoriti, corna di unicorno, artigli di grifone, zanne di mammuth, coccodrilli impagliati erano e qualche volta sono ancora sospesi, offerti alla meraviglia nelle chiese medievali (…). Qui i fedeli possono dunque trovare le cose curiose e rare che le loro case non hanno (…); trarne – se non insegnamento, perlomeno meraviglia18”.

E poi ancora: “...la chiesa – come edificio – aveva bisogno di distinguersi da ogni altro edificio per la forma e per la sua collocazione nel tessuto urbano; in secondo luogo essere decorata d'immagini”.

La chiesa doveva essere il luogo in cui il credente che vi entrava poteva fare esperienza di “meraviglia”, lasciarsi incantare, aprire il cuore alla bellezza per far nascere stupore: e farne memoria preziosa per rivivere poi, nel tempo, quanto aveva sentito vibrare dentro di sé nel luogo e nel tempo del culto. Quanto si è detto è senz'altro riferito – spesso – alle grandi cattedrali e alle basiliche delle città; ma lo si deve poter affermare anche dentro il contesto modesto d'un paese, dove – con lo stesso criterio – gli uomini hanno saputo e voluto rendere la propria chiesa un luogo che fosse scrigno di bellezze e che suscitasse stupore e meraviglia per l'eleganza e la grazia di quanto v'era custodito.

I mirabi l ia si fanno exempla . Non va infine dimenticato che l'arte – nell'esperienza delle fede – ha sempre avuto un ruolo catechistico, d'insegnamento, potremmo dire: didattico. Un ruolo che le viene dalla sua natura e che ha saputo esercitare con l'indicibile passione di tanti artisti in quei luoghi che la storia canta per bellezza. Quanto è esposto in una chiesa, soprattutto quando è un'opera di qualità, confezionata con intelligenza e buon gusto, parla: racconta alla mente e al cuore il messaggio del Vangelo. Nulla è posto a caso; nulla è solo frutto di buon gusto; i segni e simboli dialogano, e continuamente ci richiamano le verità che la Chiesa consegna.

Questo si è cercato di mettere in evidenza studiando e cercando di leggere in interezza il pensiero e l’iconologia iscritti nell’opera di Gianfrancesco a Barbeano e a Provesano: poter interpretare con verità il messaggio dei racconti affrescati, con la volontà di non fermarsi soltanto alla narrazione di episodi e dei fatti tratti dalle Scritture ma intendendo anche recepire quelle simbologie che potevano essere strumento di informazione e di indicazione di vita, ricercandone le fonti nel testo biblico, nell’arte della

18 Settis S., 2010, 185

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stampa, nel contesto storico e sociale più prossimo all’opera; individuare le scelte iconografiche che nello spettatore del tempo potevano suscitare stupore e meraviglia in ogni senso, suscitando emozione e sentimento capaci poi di attivare le dinamiche della memoria dentro l’esperienza del sentire religioso, personale e collettivo.

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II GIANFRANCESCO DA TOLMEZZO:

NOTE BIOGRAFICHE

“…è noto che Venezia e Firenze furono i centri di massima fioritura della pittura quattrocentesca ma (…) il primo Rinascimento venne accolto con maggior comprensione a Padova, città nella quale i rapporti culturali con la Toscana avevano assunto un nuovo incremento dovuto alla presenza dell’esule fiorentino Palla Strozzi. In quel centro culturale è attivo fin dal 1432 Filippo Lippi e poi Paolo Uccello nel 1445. Il maggior apporto al rinnovamento si deve poi all’arte di Donatello che lavora a Padova tra il 1443 e il 1452. Sarà tutttavia l’opera di Andrea Mantegna a conferire a Padova una posizione eminente e a farne il centro propulsore della rinnovata pittura rinascimentale nell’Italia del nord. Per Gianfrancesco da Tolmezzo son convincenti raffronti fatti con i dipinti di Antonio Vivarini e di Andrea da Murano ma egli certamente guardò anche all’opera del Mantegna oltre che all’arte grafica dei nordici. Filtrata attraverso queste fonti la pittura friulana con Gianfrancesco può parlare un linguaggio nuovo19”.

1. Origini. Come spesso accade quando ci si riferisce ad artisti detti “minori”, nati, cresciuti e vissuti nelle pieghe modeste e nascoste delle terre lontane dai grandi centri di produzione delle arti in genere, anche di Giovanni Francesco Dal Zotto la storia ci consegna poco: e quello che ci da - con sicurezza, s’intende – come testimonianza, e non solo come racconto di popolo o supposizione, è inevitabilmente legato alla sua produzione artistica. Accanto ad ogni opera, ad ogni ciclo d’affresco, compare uno stralcio della sua esistenza, che poco a poco danno l’insieme della vita di quest’uomo. E’ lui stesso a dirci che era nato a Tolmezzo, quando nel 1493, firma gli affreschi in S. Martino a Socchieve: lo si dice figlio del sarto - ricordato anch’egli come pittore - Odorico Daniele da Socchieve. Nell’ “Opera imperfetta”, Raffaella Cargnelutti s’immagina la formazione artistica di questo giovane ragazzo del Friuli, che in casa un poco respira la passione e la tecnica per le “cose belle”: per il disegno, per l’armonia, per il colore in genere. Presso parenti di Udine, Gianfrancesco si dimostra curioso nel gironzolare per la bottega di dipintori e intagliatori di quei tolmezzini che l’ospitavano. E probabilmente si dimostra un buon garzone, abile nel triturare e mescolare impasti di terre per dare tinte, leganti, produzioni chimiche che sarebbero poi divenuti brani d’arte raccontati dentro un affresco o una tavola posta su un altare20. 2. Formazione. Dati certi, testimonianze messe per iscritto sulla formazione di Gian Francesco, non ne esistono. Possono essere ricavate – ma con delicatezza e una certa prudenza - dal suo stile, dalle scelte che compie, da certe figure che hanno modelli nell’arte che lo precede o che lo circonda. E anche il filtro dei grandi critici d’arte che ne hanno curato studi e ricerche, risulta spesso inesatto, inadeguato, falsato da qualche fraintendimento pur fatto – si capisce – in buona fede. Ad oggi, si considera per lo più inesatto il profilo redatto a suo tempo dal Cavalcaselle21, mentre si accolgono con rispetto gli scritti (inseriti nello studio sul Pordenone redatto nel ’39) di Giuseppe Fiocco22; quello di Bettini23 e quelli Marini. In studi di qualche decennio fa, c’è stato chi avanzava la proposta di collegare i suoi inizi all'attività del pittore Bellunello24, o di Domenico da Tolmezzo25. Ad oggi con una certa sicurezza si concorda nel considerare senza problemi la presenza di Gianfrancesco - come garzone - in una grande bottega, a Padova o a Venezia: lì potrebbe aver avuto modo di conoscere e apprezzare i disegni dell’arte 19 dal discorso tenuto da Gino Pavan, Soprintendente per i BAAAAS del Friuli-Venezia Giulia in occasione della presentazione ufficiale dei lavori di restauro ai cicli di Barbeano e Provesano, tenuto a Spilimbergo nell’ottobre del 1983 (Archivio storico della parrocchia di S. Maria Maggiore in Spilimbergo, cartella “Restauri dopo terremoto”). 20 Cargnelutti, 2012, p. 21 21 Cavalcaselle, a cura di Bergamini G., 1973, pp. 20 s., 127-129, 288 22 Fiocco., 1969, pp. 17-21, 24-29, 32, 34 s., 38, 48, 65, 113, 115 s., 133, 149, 157-159, 171 23 Bettini, 1938-39, 5, pp. 465 s., 468-472, 477 24 Marini, 1940, 8, pp. 29-32; 1941, n. 2, pp. 95-103; 1942, pp. 37-68; 25 Rizzi, 1979, pp. 71-86

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d’oltre Alpe26. Lo si immagina con una certa facilità, intento ad osservare con sguardo curioso, a copiare con scrupolo, persino forse spinto ad acquistare stampe che diverranno per lui modello per la sua futura prodizione di pittore, in modo certo nel ciclo di Provesano. I suoi studiosi concordano nel definire il suo linguaggio “decisamente veneto, figlio di Andrea Mantegna27” e “dei Vivarini”, ripensando ai primi suoi cicli, da lui firmati e datati 1482: si pensi agli affreschi sulla facciata della chiesa a Vivaro, sulle rive del Tagliamento; a quelli nel coro della parrocchiale di San Nicolò di Comelico, nel Cadore. 3. L’opera. Del ciclo eseguito per la parrocchiale di Vivaro rimangono soltanto tre frammenti: una Pietà e due teste di santi, non meglio identificati, conservati all'interno della chiesa. Provengono dalla demolizione della chiesa (1820) quando si edificò quella attuale: forse erano gli unici lacerti rimasti leggibili, e che valse la pena conservare. Accanto agli elementi che si richiamano alle grandi botteghe venete del Quattrocento - innanzitutto il segno incisivo di Mantegna, quindi la scuola plastica dei Vivarini - ne compaiono altri che caratterizzano lo stile proprio di questo pittore carnico e che saranno sempre presenti nella sua attività di frescante: un marcato espressionismo, una predominanza della linea nella composizione, un accento nordico del tutto particolare. Il 20 novembre 1489 Gianfrancesco ha senz’altro già compiuto il ciclo gli affreschi nella chiesetta di S. Antonio a Barbeano28, con il racconto della Natività, l'Adorazione dei magi, l'Ascensione di Cristo e il Giudizio universale, e nella crociera sopra l’altare il classico progamma di Dottori della Chiesa con Profeti ed Evangelisti; sulla volta tra presbiterio e navata, Gianfrancesco colloca dieci figure a mezzo busto di Profeti. Di lì a pochi anni, Gianfrancesco sale a Forni di Sotto, per affrescare – nella chiesa di San Lorenzo - l'abside, datata 1492 ma non firmata. Ancora una volta, nella volta è riproposto l’impianto di Profeti e Dottori della Chiesa; sulle pareti si allineano in basso figure di Apostoli (come sarà a Provesano) e in alto alcune di Evangelisti; un certo risalto è dato alla rappresentazione del Martirio di s. Lorenzo, titolare della chiesetta; sull'arco trionfale, una Annunciazione e S. Martino e il povero tra i ss. Nicolò e Antonio Abate; nell'intradosso dell'arco, figure a mezzobusto di Sante, tema che sarà ripreso con grazia anche a Provesano. Nel ’93, pochi meis dopo, si spostò a Socchieve, dove firma – datandola – l’opera ad affresco nella chiesa di San Martino. Seguendo lo schema fortunato del ciclo di Barbeano dipinse Dottori della Chiesa nella volta del coro, Natività e vari Santi sulle pareti, un'Annunciazione sull'arco trionfale e varie figure di Sante nell'intradosso dell'arco; tuttavia in questo caso una maggiore apertura alle conquiste rinascimentali porta le figure a essere inserite in uno spazio ben definito tridimensionalmente29. E’ datato 1496 il suo ciclo meglio conservato, quello forse più articolato, e affascinante, che tuttoggi sia possibile ammirare: si trova nella parrocchiale di S. Leonardo a Provesano, firmato e datato sopra la figura del S. Sebastiano. In aggiunta alle consuete presenze di Profeti e Dottori, di Sante e dei santi Sebastiano e Rocco, dipinse sulle pareti dell'abside scene dell'Apocalisse e nove episodi della Passione di Cristo intorno a una grande Crocifissione. Sono stati questi nove riquadri che da sempre hanno affascinato ed interessato studiosi d’arte30, per l'evidente carattere nordico che li distanzia nettamente dalla produzione precedente del pittore: negli anni ’50 del secolo scorso, si è trovata radice certa di quest’ influsso nel riscontro oggettivo di alcune stampe tedesche, con grande probabilità reperite o acquisite a Venezia, luogo forte di dialogo delle arti anche attraverso le nuove forme di divulgazione dei modelli31.

26 Marini, 1980, pp. 29-32; 27 Valcanover, 1955, pp. 29-35; Casadio 1983; G. Bergamini, 1972; 28 Joppi, 1887, p. 78 29 Carlotta Quagliarini, 2000, Volume 54 30 Cavalcaselle, 1867; Marini, 1942, p. 49; Fiocco, 1951-52, p. 8; Marchetti, 1953, p. 168 31 Marini, 1955, pp. 163-166

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“In questi affreschi l'espressionismo violento e drammatico tipico della scuola tedesca assume un netto predominio sugli altri elementi pittorici; le forme venete sono abbandonate per figure dipinte ancor più schematicamente, per colori meno brillanti, panneggi più contorti ed espressioni di un realismo caricato”32.

La dipendenza da incisioni di Martin Schongauer appare davvero incredibilmente puntuale nelle raffigurazioni del Cristo davanti a Pilato, nella Flagellazione, nella Salita al Calvario, nel Cristo davanti a Caifa e nella Deposizione. Sarebbe invece ripresa da una stampa del cosiddetto Maestro I.A.M. la scena con la Cattura33. Di lì a poco, Gianfrancesco ebbe l’audacia di riprendere i medesimi soggetti, con gli stessi impianti, le stesse scelte stilistiche ed iconografiche, e quindi medesime fonti e modelli, per accingersi ad intraprendere l’impresa pittorica nei pressi di un castello sopra Aviano, in una chiesetta campestre – tuttoggi fuori dell’abitato, intitolata a San Gregorio. Correva l’anno 1497, anche se la cronologia di quest'opera rimane ancora un problema aperto: Gianfracesco dipinse sulle pareti della navata dodici scene della Passione di Cristo, di cui ne rimangono otto; il richiamo al ciclo e Provesano, e naturalmente al disegno delle stampe tedesche, è fortissimo. Una breve esperienza di lavoro la vive anche nelle periferie della città di Pordenone: il 3 luglio 1499 Gianfrancesco in società con il pittore Pietro da Vicenza, si accorda per rappresentare Storie della Vergine e Storie dei ss. Martino e Felice in tre cappelle della chiesa di S. Maria a Cordenons – opera che andò poi distrutta in interezza. Messi da parte i modelli tedeschi delle stampe della Passione, superati nettamente gli spunti nordici, sceglie il ritorno ad un linguaggio più classico, decisamente tradizionale: ne è esempio emblematico la sua ultima decorazione giunta a noi integra, tuttoggi esistente nella chiesa di S. Floriano a Forni di Sopra. La data è posta con chiarezza: "1500 XVII Aprilis": il ciclo ripropone il solito schema con i Dottori della Chiesa sulla volta, Apostoli e Santi con S. Floriano sulle pareti, figure di Sante a mezzobusto sull'intradosso dell'arco e, sull'arco, una Madonna con il Bambino e s. Floriano. Si può supporre che a quest’opera, dallo stile e dalle scelte antiche, abbiano collaborato garzoni o comunque mani diverse; tra questi, forse anche il figlio Nicolò, che compare insieme con il padre come testimone in un atto nel 1504 a Forni di Sotto34. 4. Opere perdute accertate. Esiste tutta una memoria documentata di opere andate completamente perdute, attribuibili con buona certezza al pittore di Tolmezzo: gli affreschi eseguiti per il coro della chiesa di S. Pantaleone a Invillino nel 1501; quello a Pesariis – del 1505 – compiuto nella chiesa di S. Giacomo, e quello, dell’anno successivo, per il coro della chiesa dei Ss. Filippo e Giacomo a Sezza; perduti sono andati anche un gonfalone e una pala d'altare eseguiti in collaborazione con il figlio Nicolò per la parrocchiale di Arba nel 1503, come pure la pala eseguita per la chiesa di S. Leonardo a Gemona nel 151035. Inizialmente riferita al pittore Antonio da Firenze36, la pala d'altare della chiesa di S. Giuliana a Castello d'Aviano (Madonna e il Bambino tra i ss. Nicola, Dorotea, Giuliana, Caterina, Apollonia e Gregorio) è stata attribuita con sicurezza alla mano di Gianfrancesco (1507) così come - dello stesso anno - una serie di pitture a fresco di cui rimangono solo due scene: La Madonna con il Bambino tra i ss. Giovanni Battista e Leonardo (strappata e conservata al Museo civico di Pordenone) e l'Uccisione da parte del prefetto di Nicomedia di un gruppo di persone convertite al cristianesimo da s. Giuliana, ancora in situ.

32 Quagliarini, 2000, Volume 54 33 Shestack 34 Joppi, 1890, p. 89 35 Joppi, 1890, pp. 89 s.; Bergamini, 1988, pp. 498 s., 503 s.; Goi, 1985, p. 193 36 Forniz, pp. 62-64

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A Pordenone Gianfrancesco ha senz’altro conosciuto un buon periodo produttivo, e di lavoro, sia grazie ad una committenza civile, sia per mezzo di quella ecclesiastica, molto continua nella sua vita d’artista. Nelle nobilissime facciate del corso Vittorio Emanuele e Garibaldi, scenario splendido, che ancora ci consegna un’immagine altissima di Medioevo colorato ed elegante, si trovano tracce certe del suo pennello. Quest'attività a Pordenone, oscilla tra gli ultimi anni del Quattrocento e il primo decennio del XVI secolo. Si riconoscono riferimenti al suo stile in un fregio con puttini, stemmi e clipei contenenti profili maschili e femminili37; Suoi affreschi – pur molto rovinati – sono ancora esposti (strappati dalla loro collocazione originale, e ricollocati) nel Duomo Concattedrale (S. Luca e la Pentecoste)38 e un lacerto di affresco – più completo - con S. Barbara nella chiesa detta del Cristo (S. Maria degli Angeli)39. 5. Lo stile: una possibile sintesi. Gianfrancesco morì nel 1511 a causa della peste. “Dopo i mediocri giudizi e le confuse notizie sulla sua pittura riportati dai primi studiosi che si interessarono al suo lavoro40, Gianfrancesco da Tolmezzo è oggi comunemente considerato la più importante personalità pittorica attiva in Friuli tra gli ultimi decenni del Quattrocento e il primo Cinquecento; il caposcuola di quella pittura friulana che si andava aprendo alle conquiste rinascimentali: è stato anche proposto, in particolare, da Fiocco e da Marini, un alunnato di Giovanni Antonio Pordenone presso di lui, ipotesi poi abbandonata negli studi più recenti41”42. Nelle riflessioni attuali, è ormai esclusa quella credenza secondo cui (dal Cavalcaselle in poi) si vedeva in Gianfrancesco il padre del Pordenone. Dice in merito Casadio: “…troppo gravoso per questo artista” un simile riconoscimento. Le gravi perdite della sua opera – soprattutto quelle su tavola – comporta una fragile veduta d’insieme non solo della sua vita ma in particolare della sua esperienza artistica. Di certo si possono affermare due componenti: una formazione che ha radice nell’ambiente veneto, in riferimento in modo del tutto particolare ad Andrea Mantegna; e un forte espressionismo nordico - così acuto da esser talvolta violento – da disorientare spesso i critici circa formazione e opera. Non si può giustamente non considerare il luogo geografico in cui l’artista nasce, cresce e lavora: luogo di confine, come scrive Longhi, “luogo dove si meticciano le culture”. E questo vale molto. E’ Valcanover – nel 1955 – che puntualizza, secondo il suo studio, i precedenti immediati di Gianfrancesco nella pittura veneta del suo tempo: li riscontra nell’ambito dei grandi fatti artistici padovani, proponendo raffronti molto convincenti con Antonio e Bartolomeo Vivarini e Andrea da Murano. Remigio Marini, poco dopo, propone il legame tra il pittore carnico e Andrea Mantegna, dimostrandolo attraverso un confronto puntuale tra l’Adorazione dei Magi oggi al Metropolitan di New York – coeva dei lavori alla Cappella Ovetari - e lo stesso soggetto di Gianfrancesco a San Nicolò di Comelico. Secondo Marini, è puntuale il riferimento al linguaggio dell’umanesimo veneto rinascimentale. Vi si legge la volontà di presentare il tema del tragico, con una certa grazia, ma con verità: e di qui si apre la spiegazione anche delle correnti nordiche. In tutti questi elementi, hanno grande peso una vasta gamma cromatica di autentica vivacità, tanto intensa da non poter fare a meno di riferirsi alle forti e cangianti linee delle opere lignee carniche. Via via che Gianfrancesco lavora, e cresce, si dimostra sempre più capace di organizzare lo spazio, costruendolo con una profondità senz’altro di origine mantegnesca. E’ stato detto in merito, ed è vero, che non è facile trovare riferimenti precisi e puntuali ad opere precedenti: la maturità dell’artista è stata tale da assorbire i modelli per farne poi una sintesi così equilibrata da essere capace di riprodurre senza copiare o riproporre in modo sterile, senza personalità. Forse è qui, almeno in radice, una certa grandezza di quest’uomo. 37 Ganzer, 1984; G. da T., 1991, pp. 19-22 38 Goi, 1985, p. 192; G. da T., 1991, pp. 22 s. 39 ibid., p. 24 40 Di Maniago, 1823, pp. 37 s.; Cavalcaselle, 1867, p. 128 41 Bonelli - Casadio, 1983, p. 11 42 Quagliarini, Volume 54 (2000)

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III

IL CICLO DI AFFRESCHI IN SAN ANTONIO ABATE A BARBEANO

“Un tempo Dio, non avendo né corpo né figura,

non poteva in alcun modo essere rappresentato da un’immagine. Ma ora che si è fatto vedere nella carne e ha vissuto con gli uomini,

posso fare un’immagine di ciò che ho visto di Dio” 43 1. La chiesetta di san Antonio abate in Barbeano di Spilimbergo La chiesetta sorge ai margini del modesto abitato di Barbeano, a pochi passi dal cimitero, lungo una stradina che va a perdersi in mezzo alla campagna, in una terra fatta di sassi – il letto del torrente Cosa è a breve distanza; nell’altra direzione, oltre l’abitato di Gradisca, si apre il vasto letto bianco del fiume Tagliamento. Queste indicazioni di un paesaggio - ora semplicemente suggestivo - davano un tempo la descrizione chiarissima di questa rete di viottoli, di guadi, di “passaggi” che per viandanti e pellegrini erano segni di percorsi sicuri, che portavano verso Roma, da una parte, e verso il tragitto più complesso e arduo di Santiago, dall’altra. Ce lo dice anche la puntualità con cui in gran parte delle chiesette quattrocentesche di tutta questa zona è affrescato il san Rocco, signore e patrono dei pellegrini: da quello gigante del Duomo di Spilimbergo, a quello più modesto di san Nicolò a Tauriano (che dopo il fascinoso restauro dell’estate del 2013 è di nuovo ben visibile); poi su, andando verso le montagne, quello sbiadito di santa Croce a Baseglia, o di san Marco a Gaio. Il patrono dei viandanti dava garanzia d’esser sulla giusta strada, e ciò dava serenità al cuore; i porticati delle chiese davano invece ristoro e alloggio al corpo stanco e provato dal cammino. A sant’Antonio il San Rocco è stato ormai da tempo consumato del tutto (e non risulta in archivio documentazione in fotografia ), slavato poco a poco dal corso della storia; il nobilissimo portico, massiccio e vetusto, senz’altro antico e bello quanto il resto del fabbricato, fu demolito negli anni ’50 del ‘900, quando l’arte non aveva ancor margini istituzionali di salvezza, e nelle scelte della tutela ci si appellava al buon senso dei parroci di campagna, calcolato e pesato sulle finanze modeste delle fabbricerie. Se demolire era meno dispendioso che custodire, ciò aveva priorità su qualsiasi disquisizione di estetica e di salvaguardia. E’ risaputo che negli ultimi anni ’60 del 1900, una certa parte della popolazione del paesino consigliava al parroco di demolire la chiesa, poiché non si riteneva di poter recuperare in alcun modo l’edificio disastrato e il ciclo d’affresco in condizioni fatiscenti44. L’immagine originale della chiesa, così com’era in pieno ‘400, ci viene da poche foto malconce del 1943, riapparse in una recente pubblicazione di carattere parrocchiale 45 , e provenienti dall’Archivio Fotografico di Udine. Di per sé il luogo, modesto all’apparenza, e fuori dai centri veri di potere e religione, ha una storia che si può tratteggiare con poco. Lo stesso Ernesto Degani, monsignore e storico della Diocesi di Concordia, che con dovizia e scrupolo stese una maestosa sintesi della storia delle parrocchie e delle arti custodite nelle chiese, dedica a questa chiesa davvero poche righe: “…nei campi di Barbeano esiste ancora la chiesa di s. Antonio decorata dal pittore Giovanni Francesco da Tolmezzo, il quale a Spilimbergo, il 20 novembre 148946, cedeva ai nobili di quel luogo il credito di 40 ducati dovutogli per pitture eseguite in essa chiesa, pitture che ancora

43 Giovanni Damasceno, 1,16 44 La confidenza è raccontata da chi l’ha vissuta in prima persona in Rizzotti (a cura di), 2011, p. 11 45 Rizzotti (a cura di), 2011, p.12 46 Il documento d’archivio, stilato da Eugenio di Spilimbergo in data 20 novembre 1489, di cui lo Joppi da notizia certa – per averlo visto – non è più reperibile, a seguito dei danni subiti dall’Archivio di Stato nel disastroso terremoto che colpì il Friuli nel 1976.

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sussistono”47. E niente più, se non dirci che l’edificio era stato consacrato il 15 luglio 1459. Ma se all’esterno il guscio antico di questo scrigno d’arte è stato nel tempo graffiato e mortificato da scelte infelici, il suo interno ha ancora quell’anima calda e colorata, capace davvero di parlare ad ogni visitatore (turista o fedele che vi sia capitato per caso, o mosso da curiosità sana e affamato di bellezza) cui fa appena cenno monsignor Degani nel suo percorso d’arte. 2. Tecniche di esecuzione e interventi di restauro48 Il ciclo d’affresco ha subito gravi danni, e risulta oggi mutilato in alcune sue parti, che tuttavia non compromettono una lettura d’insieme chiara e nel complesso piacevole. Anche la mancanza di figure nell’arco trionfale va ritenuta una perdita, più che un’opera incompiuta. Il grande terremoto del Friuli (6 maggio – 11 e 15 settembre 1976) ha segnato anche la chiesetta di sant’Antonio, oltre ad aver disperso, costretto in ginocchio o addirittura cancellato interi brani del patrimonio artistico friulano; ma proprio da quella che fu una grande tragedia, nacque – come per altri grandi scenari d’arte friulana – la possibilità della riscoperta e del restauro. A Barbeano, un primo intervento fu promosso nel 1979; quello più significativo, e definitivo, risale invece al 1983, e ha consentito di indagare con metodo scientifico la tecnica pittorica di Gianfrancesco, e di individuarne le fasi del dipingere, dal disegno preparatorio agli ultimi ritocchi. Fu possibile vedere come il pittore dipingesse con ocra rossa o gialla lo schema della figura direttamente sull’intonaco, e che oggi è ben visibile (per la caduta del colore a secco) nella figura del profeta Davide o nel Cristo dell’ascensione. Come operasse nel lavoro da eseguire a fresco non è possibile dirlo: l’impasto del colore ha strato così spesso, denso e coprente – sia negl’incarnati come nei panneggi – da non consentire visione nell’intonaco sottostante. Fin dal lavoro a Barbeano, il pittore tolmezzino dimostra una tecnica semplice ed immediata che resterà costante per tutta il suo percorso di artista: egli preferisce stendere sull’intonaco il colore a tono, cioè già definito nella tinta e impastato sulla tavolozza, e non procedere a stesure di diverse pellicole che daranno l’effetto voluto solo nella loro visione finale. Non ci sono sovrapposizioni di velature, ma campiture dense, omogenee, fermate sull’intonaco con mano decisa. Soprattutto negl’incarnati dei volti, Gianfrancesco rivela una scelta di tecnica precisa: prima viene dipinta la campitura; poi – con tratti netti, molto sottili – prende forma il disegno del volto. Non è scorretto poter dire che prima colora e poi disegna. L’effetto è una linea di grande chiarezza. Nel comporre i panneggi, parte da una base cromatica sempre molto chiara; questo sfondo viene poi modulato con colori via via più scuri per definirne i volumi e le ombre e le sommità delle pieghe; i contorni sono dati con la sottolineatura di un segno bruno, incisivo, dall’andamento molto spezzato, quasi geometrico e tagliente. Solo nel caso di angeli o del Cristo ascendente al cielo, si riscontrano scelte diverse: il panneggio è definito con una linea di colore molto scialbo, ben diluito, che serve a dare un senso di grande leggerezza e valore mistico. 3. Il racconto della Natività: elementi tradizionali e innovazioni. Quando Gianfrancesco da Tolmezzo si accinge ad affrescare le pareti del piccolo presbiterio di sant’Antonio siamo ormai, secondo la critica attuale, sul finire del ‘400. I severi dettami del Concilio di Trento, che avrebbero successivamente (per quasi quattro secoli) condizionato e forse a volte mortificato le arti, non erano ancora stati sanciti; eppure nell’opera di Gianfrancesco già si riflette quel certo modo d’intendere l’arte non solo con il criterio della bellezza ma come vero e proprio strumento per raccontare non solo, come modello chiaro e luminoso nel quale il fedele può contemplare il mistero e dal quel scaturisce il messaggio delle Scritture attraverso l’insegnamento della Chiesa. Un primo esempio di queste scelte è la rappresentazione composta e solenne della sacra famiglia (fotografie: II, A; III)

47 Degani, 1977, p. 369 48 Bonelli, 1983, p. 27ss

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Gianfrancesco tralascia il modo classico, descrittivo, di raffigurare la natività del Cristo con la naturalezza e la verità degli eventi, anche nella sua forma storica, rappresentata e quasi teatrale. Per comprenderne le differenze basti fare riferimento al pulpito di Nicola Pisano nel duomo di Pisa (1260), dove la scena della natività è rappresentata con grande naturalezza: la madre, stesa sul giaciglio, allunga la mano, con materna tenerezza, per aggiustare le fasce che avvolgono il bambino posto nella mangiatoia. Pur intagliata nel marmo con quel gusto classico che ha il sapore dell’antica arte romana, la Madonna del Pisano è il ritratto d’una donna che ha appena dato alla luce un figlio, coi lineamenti e la postura segnati dalle fatiche e dai dolori del parto: prima d’esser la madre di Dio è semplicemente madre, e compie i gesti suggeriti dall’istinto degli affetti. Le stesse attenzioni si colgono anche nella raffigurazione della natività che Giotto ha affrescato a Padova nella cappella degli Scrovegni (1303 – 1305): anche qui è raffigurata una donna che ha appena partorito, che si prende cura di quel bambino deposto nella mangiatoia. Davanti a queste immagini, ogni donna poteva riflettere in Maria la propria maternità, il proprio essere “mamma”; poteva condividere con la madre di Dio le gioie più intime, le bellezze nascoste di chi ha custodito nel proprio grembo un bambino e ora può vederlo, abbracciarlo e baciarlo. Nella Madonna di Gianfrancesco sono presenti altri messaggi. Altre scelte iconografiche, che hanno radici nella cultura religiosa del Nord Europa. All’artista non interessa la rappresentazione storica dell’evento ma la riproposizione d’un mistero, d’una verità di fede: l’incarnazione del Figlio di Dio, che va contemplata, adorata, meditata ed interiorizzata. Maria pertanto non appare più con le sembianze - al tempo stesso sofferte e gioiose - tipiche della donna che ha appena dato alla luce un figlio: il suo è l’atteggiamento devoto e composto d’una donna in preghiera. Si può dire di più; è una madre, non solo una donna, che contempla e che prega! Gianfrancesco qui ha dato figura al versetto evangelico di Luca:

“Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore ”49. Ecco dunque: il volto un po’ teso, le mani giunte, lo sguardo immerso nel mistero. In merito va mossa una riflessione, non fuori luogo: il pittore era evidentemente guidato da una committenza, che aveva intelligenza e conoscenza della Scrittura, potendola scrutare e studiare nella lingua latina, non sempre così facile da accostarsi a chiunque sul finire del ‘400. I testi dei Vangeli non erano così accessibili a tutti, per difficoltà di comprensione ma anche per rigide scelte ecclesiastiche. Di più facile consultazione erano invece opere di carattere devozionale e spirituale, tradotte e divulgate, e per questo spesso più conosciute degli stessi testi biblici. In relazione all’affresco in esame, è possibile ritrovare buona radice descrittiva nel noto scritto medievale che racconta delle visioni e rivelazioni mistiche di santa Brigida50. Sul racconto del Natale, il testo (tradotto in lingua italiana dal latino), dice che “…la Vergine si inginocchiò con molta devozione e cominciò a pregare. Ella, voltata la schiena alla mangiatoia, alzò il viso al cielo e volse lo sguardo verso oriente. Con le mani alzate e gli occhi rivolti al cielo stava in ginocchio come rapita in dolcissima estasi di contemplazione, inebriata di divina dolcezza51”.

Descrivendo poi l’atteggiamento di Maria dopo aver partorito, viene detto:

49 Lc 2,19 50 Brigida – nata in Svezia nel 1303 e morta a Roma nel 1373 – secondo i suoi biografi e padri spirituali visse esperienze forti di mistica, nelle quali ricevette rivelazioni dettagliate raccolte in otto volumi. Tra i testi, moltissimi di carattere morale, vi sono racconti molto puntuali della vita di Cristo, che furono, in quel tempo, fonti ispiratrici per l’arte, nell’Europa del Nord e nell’Italia rinascimentale. 51 Brigida di Svezia, 2002, p.74

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“Quando la Vergine sentì di aver partorito, subito chinò il capo e giunse le mani al petto; poi con grande riverenza cominciò ad adorare il Bambino”.

Nel rappresentare i l p i c co lo Gesù , Gianfrancesco attinge al gusto artistico antico (realistico, descrittivo) che si riscontra anche nell’arte e nella scrittura delle icone orientali. Non ci mostra quel bambino che il Concilio di Trento, con una certa solennità e durezza, imporrà ai presepi, e che lungo le scelte estetiche dei secoli successivi è giunto sino ai giorni nostri: un bambino che pare già un Cristo in trono - pur sulla paglia - col volto radioso; un’aureola preziosa; le braccia aperte, tese come in un abbraccio; le gambe e i piedi incrociati, già presagio della morte di croce. Un bambino che trasuda tutta la sua regalità, che in sé rappresenta simbologie teologiche, ma che perde ogni naturalezza. Gianfrancesco si discosta anche dal racconto dei Vangeli, i quali affermano che Maria “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’alloggio”52.

Il pittore di Tolmezzo, coi suoi colori e con la sua arte, racconta a modo suo la nascita del Cristo, senza smentire il Vangelo, ma volendo dargli, in un breve brano d’affresco, tutta la sua drammaticità, la passione, la verità che rappresenta e che qui viene ri-presentata attraverso le figure. Contemplando con attenzione le immagini, ci si addentra nel particolare, e ci si accorge delle scelte stilistiche: la mangiatoia c’è, è collocata alle spalle di Maria, ma è vuota, posta in un piano secondario e senza importanza, addirittura senza paglia. Il bambino, senza fasce, è deposto su un panno bianco, steso in terra. Nudo; sulla nuda terra. Anche qui il testo di Brigida regala preziosi spunti iconografici alla committenza e al pittore, quando dice che “il glorioso Bambino” giaceva “a terra, luminoso, nudo ma pulitissimo. La sua pelle era nitidissima e sul suo corpo non c'era alcunché di sudicio o di impuro”.

In questa immagine la Chiesa leggeva il richiamo teologico molto forte al Cristo deposto dalla croce, steso in quel lenzuolo che Giuseppe d’Arimatea aveva comprato e nel quale, con gesto di pietà, raccoglie il corpo martoriato di Gesù; e contemplando quel neonato, ritratto nelle fattezze naturali e nei movimenti d’un bambino che vagisce e si guarda attorno, riecheggiano con la gravità e la durezza proprie delle pagine dell’Antico Testamento i lamenti di Giobbe:

“Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò”53. Con questa scelta - se di scelta si tratta - e comunque con questa rappresentazione stilistica e iconografica, Gianfrancesco e chi lo guida pongono il racconto per immagini dell’incarnazione visto non come riquadro poetico sulla maternità ma in quell’ottica più profonda e completa che è la storia della salvezza. L’incarnazione è vista in rapporto alla morte e resurrezione di Gesù. In quegli eventi trova il significato totale e completo. E dunque, il volto solenne e pensoso della madre può esser interpretato anche in questo senso: la maternità stessa di Maria è tutta tesa a quel fine che è il messaggio della Scrittura nei Vangeli: la vittoria della vita su ogni genere di morte. Cronologicamente non sarebbe corretto far questo tipo di richiamo, ma ad un fine di comprensione totale del ciclo degli affreschi ed in maniera più avvolgente, rimirando il volto di Maria che contempla, con sguardo mesto, il corpicino del bambino, nasce una citazione alla profezia che l’evangelista Luca mette in bocca al santo vecchio Simeone quando annuncia: 52 Lc 2, 7 53 Gb 1,21

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“...anche a te una spada trafiggerà l’anima”54.

Tra questa Vergine di Gianfrancesco posta dentro il presepe e quella da lui affrescata sotto la croce nella chiesa di Provesano la differenza stilistica è davvero poca: Maria non è posta davanti alla carne d’un bambino ma davanti ad un mistero nel quale è iscritta, immersa, senza comprenderlo in pienezza. Nel rappresentare poi la figura di Giuseppe , Gianfrancesco si attiene alla tradizione nella quale convergono le scelte di guardare a colui che è chiamato a far da padre a Gesù come ad un vecchio, saggio e casto, che sa prendersi cura di Maria e del bambino con il rispetto dell’uomo giusto. Giuseppe ci appare dunque per quello che nella storia dell’arte e della Chiesa è sempre stato: è ritratto nella postura composta dell’uomo quieto, dell’antico profeta, con la barba bianca e il bastone. Basterebbe questa semplice lettura per cadere nella convenzione ormai assorbita dalla religiosità per definire questo personaggio. In realtà c’è da dire molto di più, perché non solo la riflessione attenta dei Vangeli dà a quest’uomo la sua dignità, ma anche le stesse scelte stilistiche di Gianfrancesco - figlie delle correnti artistiche ch’egli ha conosciuto, studiato, ammirato - ci consegnano letture attente e opportune, che erano motivo di apprendimento. Innanzi tutto, la collocazione di Giuseppe non è casuale. Maria è posta nell’arco di pietra che fa da ingresso alla stalla; Gesù giace ai suoi piedi; entrambi sono protetti dalla travatura del tetto a due spioventi che si protende sul davanti della costruzione per garantire riparo al bambino appena nato e alla donna. Giuseppe è un pochino discosto; siede fuori dal riparo del tetto, e pur contemplando anch’egli il bambino, non gli è prossimo quanto la madre. Le catechesi della Chiesa, che di lì a poco il Concilio di Trento avrebbe fissato e definito solennemente - assieme alle preghiere a san Giuseppe, alle litanie - ce lo presentavano come il “custode”, il “protettore” della santa famiglia, e quindi della Chiesa stessa55. Ma Giuseppe non è posto in disparte perché deve “custodire”, cioè difendere il bambino da un eventuale pericolo che si presentasse. Secondo l’antica tradizione delle icone, nella rappresentazione della natività, Giuseppe è sempre posto lontano dalla coppia madre-figlio perché questo modulo iconografico indica la sua non- partecipazione alla concezione del bambino. E’ il modo più autentico e più concreto di cui l’arte possa servirsi per rendere visibili le parole dell’evangelista messe sulle labbra di Maria nel racconto dell’annunciazione:

“Come è possibile? Non conosco uomo”56.

Giuseppe è presente nel mistero dell’incarnazione, ma la sua è presenza discreta, attenta ed umanissima, e al tempo stesso estranea: è immerso nello stesso mistero, in modi e con sensazioni diversi da quelli della sua sposa, ma anch’egli partecipa di Dio, ed esercita, pur nelle fatiche della sua umanità, la fede grande dell’uomo giusto57. Nel tepore della piccola stalla compaiono, alle spalle di Maria, le figure classiche del bue e dell’asino. Essi fanno parte - nella Tradizione - dell’iconografia dei presepi fin dall’antichità, sia in Occidente come nelle icone scritte in Oriente. Sono cornice canonica al bambino di Betlemme, come si legge anche nella vita58 di Francesco di Assisi, laddove si racconta del primo presepe di Greccio, che Giotto ha poi affrescato nei dipinti della Basilica di Assisi; e di cui anche Brigida di Svezia parla nel racconto delle sue rivelazioni, già citate59.

54 Lc 2,35 55 Ireneo di Lione, PL, p 692-694 56 Lc 2,34 57 Giovanni Crisostomo, PG, p.57, 57s 58 Tommaso da Celano, 2012, p. 85 59 “…ed avevano un bue ed un asino. Giunti che furono nella grotta, il vecchio legò il bue e l'asino alla mangiatoia, poi

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E’ risaputo che nessuno degli Evangelisti ne fa memoria nel proprio racconto; eppure essi sono sempre presenti: con quali significati? Il bue e l’asino non sono effimeri prodotti della fantasia e della pietà popolare, ma sono divenuti ingredienti dell’evento natalizio a motivo della fede della Chiesa nell’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. In Isaia leggiamo infatti: “Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende” 60. Facendo riferimento a questo versetto letto in chiave profetica, asino e bue diventano allegoria e vi si legge il riferimento alla capacità di aprire gli occhi alla conoscenza del mistero: davanti a Dio tutti gli uomini erano come buoi e asini, privi d’intelligenza e di conoscenza. Esiste poi un’altra lettura della presenza di questi due animali nella scena della natività, che i Padri della Chiesa leggono come il superamento - nella nascita del Messia - dell’opposizione antica tra il popolo ebraico, rappresentato nel bue, e quelli pagani, rappresentati dall’asino: il bue era l’animale abitualmente ucciso nei sacrifici; l’asino, bestia da soma, portava i simulacri degli dei. Qualcuno vi ha letto le rappresentazioni del bene (il bue) e del male (l’asino): il bambino sarebbe dunque un’anticipazione del Cristo in croce, posto tra due malfattori, uno capace di accogliere il suo messaggio di salvezza, l’altro chiuso ad ogni pentimento e ad ogni conversione. Volendo ricercare nella Scrittura si può fare riferimento alla grande patientia del bue, animale mansueto e obbediente che si trova nel libro dei Proverbi61 nei Numeri62 e nel Deuteronomio63, dove compare come segno di ricchezza di un individuo che se ne serve, proprio per la sua mitezza e forza, nei lavori dei campi. Ed è, come già accennato, l’animale tipico del sacrificio, sul quale l’offerente, toccandolo con la mano sulla testa, trasferisce i propri peccati affinché siano consumati nel fuoco del sacrificio. Anche l’asino è simbolo di mitezza, di tenacia, di determinazione, di umiltà. Gesù compì il suo solenne ingresso in Gerusalemme in groppa ad un asino, che era la cavalcatura regale usata in tempo di pace (il cavallo invece era usato in tempo di guerra) come Matteo racconta nel suo Vangelo64, portando a compimento la profezia di Zaccaria65: Gesù si mostra un re umile, portatore di pace. La presenza di un asino davanti al bambino può essere poi riferita al racconto dell’asina del profeta Balaam che devia il suo cammino perché per tre volte scorge l’angelo di Dio, mentre il profeta non s’accorge di nulla: facendo dunque riferimento a questo brano del libro dei Numeri66, la figura dell’asino diventa un ammonimento, un richiamo, per quanti non sono capaci di leggere e di scorgere la presenza di Dio nella quotidianità, nelle cose piccole, umili, che non si rivelano con forza e volontà di comando, come quel bambino deposto nella mangiatoia. A fare da sfondo al brano d’affresco della natività, dietro la piccola stalla, si apre uno scorcio di paesaggio collinoso, che - attraverso forme e colori - dà l’idea d’esser articolato in dirupi, rive scoscese, rocce... In questo scenario è raccontato l’annuncio ai pastor i così come lo leggiamo in Luca67. Gianfrancesco affida al suo pennello il sapore descrittivo della verità traducendo nelle linee e nelle tinte

uscì…”. 60 Is, 1.3 61 Pr 14,4 62 Nr 22,4 63 Dt 25,4 64 Mt 21,7 65 Zc 9,9 66 Nm 22, 22 - 35 67 Lc 2, 8 – 18: “C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: <<Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia>>”.

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il racconto, iscrivendolo nel contesto storico del suo tempo. Mentre Maria e Giuseppe vestono tuniche e manti proprie del tempo storico della nascita di Cristo, i due pastori sono rappresentati nell’abbigliamento del ‘400. Questo lo si riscontra spesso, quando l’intento è quello di voler contestualizzare ed attualizzare la parola del Vangelo nel tempo e nel luogo in cui la Chiesa vive: qui ed ora. Ancora una considerazione. Il contesto pittorico della natività è incorniciato tra i due pennacchi della volta a crociera, in una lunetta che sovrasta il piccolo presbiterio e l’altare; un altare di dimensioni modeste, aggraziato, senza sovrastrutture, che con la sua pietra bianca contrasta senza stridere coi colori vivaci dello sfondo affrescato e dello zoccolo pitturato – in un’epoca successiva al Quattrocento - a finto panneggio. Immaginando l’altare adornato e pronto per le celebrazioni - così come era prescritto secondo le rubriche del Concilio di Trento, con le tre tovaglie, coi sei candelabri e la croce nel mezzo, i vasi dei fiori, i palmieri e le carte-glorie - senz’altro l’arredo liturgico andava a turbare, e in parte a coprire, l’armonia dell’adorazione dei magi, ma non la lunetta della natività. Dunque, durante la celebrazione della messa, il fedele assistendo ai riti che venivano officiati, alzando di poco lo sguardo dal celebrante, poteva fissare lo sguardo nel mistero del Natale. Al momento dell’elevazione, l’ostia tenuta in mano dal prete s’accostava e si sovrapponeva al corpo del bambino steso a terra, sul panno bianco. Nella fede, il mistero dell’incarnazione poteva rendersi visibile nel mistero eucaristico. E viceversa. Non si può avere certezza se queste finezze, questi accostamenti siano dovuti a scelte precise, di stile, nel progetto pittorico totale. Forse lo spazio della cuspide fra i pennacchi poteva meglio prestarsi alla rappresentazione intima della famiglia che non lo svolgimento orizzontale sottostante dove in modo più ampio poteva essere raccontato il corteo dei magi. 4. L’adorazione dei magi: stupore, meraviglia, contemplazione. Fra i racconti dell’infanzia – che si ricordano e celebrano nelle liturgie del tempo di Natale – l’incontro dei magi col bambino è senza dubbio uno di quelli più carico di suggestioni, stupore e mistero. A questo brano l’arte ha saputo e voluto dare grandi attenzioni, perché le modalità del racconto e i messaggi che ne derivano si prestano – se letti in un certo modo – a dar vita a brani fascinosi di affresco, complessi cortei regali scolpiti nel candore del marmo, raffinati ricami che nei paramenti e negli arazzi narrano volti e gesti dal sapore magico, iscritti nei linguaggi più articolati o in pochi tratti. Come sempre, il Vangelo (in questo caso è l’evangelista Matteo68 che scrive) è sobrio, attento alla verità senza appagare tutte le curiosità, capace di saziare, senza tuttavia dire tutto; completo nel suo contenuto, senza avere quel carattere descrittivo, attento ad accendere tutti i particolari. Tutto ciò che non si trova nel Vangelo ha suscitato in chi si è accostato a questa pagina, a questa scena, grandi interrogativi e di conseguenza ha cercato risposte in vario modo: per rispondere, la ragione ha dovuto attingere alle tradizioni, alle culture, alle intuizioni – più o meno felici -, alle fantasie perché si presta a suscitare con efficacia il senso intimo di una meraviglia, di stupore, che – lo diceva Settis – viene assorbito dalla memoria in carattere profondo e riaccende, a tempo debito, i messaggi cui è legato. Questo affascinante declinarsi dello stupore acquista altezze diverse, e balza con disinvoltura tra racconto e leggenda, lasciando spesso che la narrazione storica sfoci in termini fiabeschi, che non feriscono, ma a volte adombrano. Ecco, dunque, che si dice che erano tre (numero dedotto dal dono di: oro, incenso e mirra) anche se il testo biblico parla genericamente di “alcuni magi”; ecco che spuntano nomi dal sapore dell’Oriente – ma nessun Vangelo li dice- ; compaiono descrizioni favolose dei loro viaggi del loro corteo, addirittura

68 Mt 2, 1 - 12

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delle loro conversioni. Tutto ciò ha partorito una larghissima diffusione dell’iconografia di questo episodio, ed ogni artista si è dato libertà d’interpretare e rivestire questi misteriosi personaggi di fascino, mistero, persino magia: certamente di tanta bellezza. Immediatamente sotto alla scena della natività, come completamento, Gianfrancesco secondo un suo stile nel suo modo ha raccontato il corteo e l’adorazione dei magi (fotografia: IV); lì dove, fra tutto il resto, brilla per bellezza ed eleganza, e gentilezza, quel bellissimo volto di donna che rappresenta la Vergine, ritratta nell’atto di presentare il piccolo Gesù al primo sapiente. Anche l’occhio poco educato del turista distratto coglie una differenza: la donna dipinta in questa scena non è più l’umile Madonna del presepe sovrastante. E non c’è più il piccolo neonato steso miseramente su un panno – allusione alla deposizione dalla croce -; l’immagine della donna trasuda l’atteggiamento tipico d’una imperatrice che mostra al popolo il figlio del re. In questo, Gianfrancesco aveva certamente colto – lui, e il committente ecclesiastico che lo guidava – l’autentico significato della memoria liturgica dell’Epifania: la manifestazione, lo splendere della luce. Se nel Natale si celebra una gioia intima, custodita nel contesto modesto del presepio, accostato dai pochi pastori, l’Epifania ha un carattere decisamente più aperto, perché nell’immagine degli uomini che giungono da lontano la Scrittura intende vedere e rappresentare i popoli della terra, tutti. Ciò che era stato custodito nell’ottava di Natale tra le braccia di Maria, ora viene con solennità consegnato alla storia. La Vergine Maria è posta – come già nella scena della Natività – davanti all’ingresso della costruzione che la incornicia come una statua posta nella nicchia di un altare. Siede in trono, di tre quarti, tenendo il piccolo Gesù sulle ginocchia. La donna non ha più il velo che le adombra il volto, come lo riavrà a Provesano sotto la croce. I capelli luminosi e dorati, intrecciati sulla fronte, e lasciati cadere in morbidi boccoli sul collo, incorniciano un volto di autentica eleganza, bello davvero, che nulla può invidiare al ritratto d’una nobile dama. La capacità ritrattistica di Gianfrancesco viene riconosciuta sia in questo brano d’affresco, sia – poi – nei volti degli apostoli, vibranti di espressioni realistiche. Maria è avvolta in un ampio mantello di un intenso colore blu notte, che nel linguaggio orientale delle icone e dell’iconografia sacra rivela la presenza del divino che avvolge e che vivifica l’umano. Nell’apertura del manto si intravvede la finezza della veste più intima, segnata al collo da una bordura dorata, e tramata a broccato, come potevano essere nella realtà gli abiti delle gran signore o i paramenti liturgici dei preti. Anche alla rappresentazione del Cristo bambino, il pittore tolmezzino dà nuovi caratteri rispetto al Gesù del presepio: anch’egli ha capelli ricci e dorati, incorniciati dalla piccola aureola tipica delle sculture lignee medievali (che non aveva nella scena sovrastante); siede sulle ginocchia della Madre, che sorreggendolo lo volge al primo dei sapienti giunto per l’atto di adorazione. Benedice con solennità, con le tre dita alzate, compiendo il gesto liturgico che nella celebrazione evoca il mistero della Trinità. Così disegnato, con la pisside (che ha or ora ricevuto in dono) stretta nel pugno sinistro, con la destra alzata nell’atto di benedire, perde la veridicità di un racconto descrittivo, e assume quello simbolico e allegorico, avendo la sembianza di un pontefice romano che celebra o di un imperatore che esercita potere. E’ la consegna del bambino, del Figlio di Dio fatto uomo. La verità scritta nella fede trova concretezza della forma, nel colore, e nel disegno che vogliono suscitare meraviglia, stupore e maestà. A rimanere umilmente se stesso, al di fuori dell’alone sacro e istituzionale, resta Giuseppe. Veste, come poco sopra, l’abito con le medesime tinte e le stesse forme; solo il bastone, che nella scena superiore era d’un bel legno invecchiato e persino scolpito, qui diventa verde, forse senza un preciso significato, forse ad indicare che tra i due racconti – per essere aderenti al Vangelo – passò comunque del tempo. Contemplandolo si coglie un’indicazione modesta ma genuina: Giuseppe reca nella mano destra il copricapo, che anch’egli – pur essendone “padre” – toglie al cospetto del Cristo, come segno di umile rispetto per chi è più grande. Dall’immagine, il fedele impara i gesti del culto: l’uomo che entra in

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chiesa, leva il cappello dal capo, come anche i magi hanno già provveduto a compiere. Questa scelta di iconografia Gianfrancesco con grande probabilità la coglie dalle stampe – sempre più presenti, al tempo, in messali o nelle Bibbie, o nei commenti ai testi sacri dei grandi studiosi: Giuseppe posto accanto a Maria in quella precisa collocazione, ritratto col berretto in mano, è preso da una stampa coeva- 1490- di un certo Maestro di Zwolle (fotografia: V), un incisore attivo nei Paesi Bassi fino alla fine del XV secolo,69 Il primo dei magi giunto innanzi alla donna col bambino ha perduto la parte più espressiva del suo volto di anziano, eppure riesce ad essere ancora capace di parlare a chi lo guarda a motivo della grazia con cui sfiora – con la sua ruvida mano di vecchio – il piedino del piccolo che si trova all’altezza del suo sguardo spento da una larga traccia di affresco perduto. Forse Gianfrancesco intendeva fissare il gesto feudale divenuto poi sacro e persino liturgico del bacio del piede, segno di sottomissione totale e di servizio, che è rimasto come atto di saluto al romano pontefice70 fino alle riforme di Giovanni XXIII. Eppure una sua certa abilità a raccontare il quotidiano rendendolo luminoso, sembra quasi consegnarci un messaggio nuovo, audace, persino coraggioso, ma profondamente autentico. Se ci domandiamo: chi è quest’uomo – primo tra altri – che giunge? E’ un vecchio, cioè, nel linguaggio antico: un saggio, un sapiente! Uno studioso, un ricercatore, un uomo che desidera comprendere, vedere, capire. Ce lo dice il Vangelo, in verità, perché i magi erano tutto questo. Un gran signore, un uomo di studio – e anche un ricercatore della fede. Attraverso la lettura e lo studio, egli – assieme agli altri - cercava il Dio fatto bambino, una realtà decisamente nuova, sconosciuta, misteriosa; certo dentro di sé – lui e gli altri – s’aspettavano segni prodigiosi, potenti, esperienze degne di regalità, divinità e umanità tutte intrecciate assieme. Cose da prodigio! Forti e persino violente, per manifestare la grandezza del divino. Ed ecco invece: un bambino. Un bambino rappresentato col carattere della regalità, ma che è pur sempre una creatura fragile ed indifesa. Ed è Dio, cioè potenza totale. Un bambino-uomo, che vagisce, sgambetta, sorride, piange e strilla; una creatura bisognosa di tutto, anche d’esser nutrita, lavata, amata. Ecco chi è Dio. Quel bambino. La sapienza s’incontra e si scontra con un Dio imprevedibile, non banale e non scontato. Meraviglia. Davanti a questo mistero del credere, l’uomo sembra permettersi una confidenza: sfiora e accarezza il piedino di quel Dio così piccolo e tenero. Disarmato da ciò che nelle dinamiche della società e della vita politica era segnato da gesti solenni fissi e ben precisi, al sapiente non resta che entrare nella relazione con un bambino attraverso un gesto di tenerezza umana, quasi un gioco. Certo la fede non è uno scherzo, ma assume l’incarnato degli affetti. L’affresco educa ad assumere i segni esteriori nel ripetere i gesti del rito – mettersi in ginocchio, levarsi il cappello, assumere un contegno devoto – senza perdere la possibilità di una verità che si celebra solo se si coinvolge l’interezza della persona umana, non ultima la parte del sentimento e degli affetti. Anche il secondo dei magi, e il terzo, si apprestano a compiere i loro gesti di culto, a consegnare incenso e mirra. La scelta dei loro panneggi rivela in uno la dignità del rango (il grande abito di colore verde con la mantelletta d’ermellino); nell’altro la vita cavalleresca, testimoniata da quella spada che compare sotto all’ampio mantello che si apre. Può sembrare eccessiva, o fine a se stessa, quella complessa rappresentazione dell’ambiente che fa da cornice ai fatti. Persino i dettagli del corteo cavalleresco, che si è fermato, ed attende paziente che tutto sia compiuto. In realtà, nel contesto storico in cui Gianfrancesco lavora, l’attenzione data all’ambiente in cui sono raccontati i fatti del Vangelo, è decisiva. Di lì a poco Ignazio di Loyola avrebbe dato alle stampe i suoi “Esercizi spirituali”: un testo estremamente dettagliato e articolato, che informa nel dettaglio sul come formare la propria disciplina spirituale attraverso veri e propri “esercizi”, cioè scelte concrete di riflessione e meditazione, nello scopo morale

69 2009, pag. 27 70 Il bacio del piede, segno di venerazione, risale almeno al sec. VIII, quando Giustiniano II rese questo omaggio a papa Costantino (708-716).

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di cambiare vita. Ebbene, entro queste dinamiche, prescrive a chi si accinge a meditare un episodio del Vangelo una grande attenzione all’immaginare ciò che viene detto a parole cercando di fissarlo con lo sguardo della mente. Raccomanda di far precedere ogni meditazione da una “composizione di luogo”, in cui immaginare nei minimi dettagli la scena evangelica. Se Gianfrancesco, come ogni artista, si appassiona e si diletta nella ricerca gustosa del particolare, lo fa proprio con questo intento: non produrre arte fine a se stessa, non decorare; ma rendere l’immagine viva e funzionale. 5. Ascensione al cielo: in dialogo con l’architettura e la luce. Sulla parete di destra del piccolo presbiterio, Gianfrancesco rappresenta l’ascensione (fotografia: VII) . Forse la scelta d’inserire qui questo brano evangelico è data anche dal fatto che lo spazio pittorico è condizionato rispetto agli altri due: la porta della sagrestia – in basso, sulla destra – ed un’ampia finestra dal gusto gotico, chiedono (meglio: impongono) che la collocazione di figure e tematiche sia studiata in rapporto a queste presenze architettoniche. La scelta ne risulta senza dubbio opportuna. L’ascensione di Cristo al cielo, così come raccontata nel Vangelo di Luca71 e nel libro degli Atti degli Apostoli72, non ha né il susseguirsi di fotogrammi della natività, ne la possibilità d’intrecciarsi con fantasie legittime e plausibili come il racconto dei magi, né il carattere descrittivo e carico di elementi di suggestione che avrà, come sarà visto, la tematica complessa del Giudizio, che per essere raccontata ha bisogno di un brano di affresco libero. Gianfrancesco compone l’ascesa di Gesù come fosse un altare trecentesco di gusto nordico, di quelli con le figure scolpite – composte e solenni – e cariche di oro e di colore cangiante: il Cristo al centro, sulla cuspide, e i santi ai piedi, affiancati, esposti alla venerazione dei fedeli ma al tempo stesso oranti e rispettosi del mistero nel quale sono iscritti. Lo schema è proprio questo: il risultato è davvero efficace. A Gianfrancesco - e, come si diceva già, a chi commissiona e consiglia - va dato il merito di aver agito con l’intelligenza di aver saputo e voluto intrecciare in un’armonia di grande equilibrio il tema a fresco e la presenza della luce che entra dalla vetrata. Il posto che nell’altare tridentino va dato al mistero, è stato lasciato alla “luce”: ad una luce che non è accidentale o solo funzionale, ma che diventa il significato dell’opera e che si fa “presenza”. E’ l’ingresso del divino nella materia. Quella luce pastosa che filtra ad accendere il racconto di tutto il ciclo dell’affresco (unica apertura in tutto il presbiterio) dà spessore e vita ad ogni figura dipinta, scivolando sulla calce impastata di colore e accendendo sguardi e incarnati. Sulla cuspide della finestra è il Cristo. E’ suggestivo poter entrare nella mente creativa dell’artista che legge la Scrittura (ed è aiutato a farlo), si lascia accarezzare dall’intelligenza e dalla fantasia, e compone davanti a sé nello sguardo dell’immaginazione la scena che è appena stata raccontata. Come rappresentare questo evento, che esce in modo complicato dall’esperienza concreta delle “cose” di cui ogni uomo “sa” perché prima “ha visto”? Gianfrancesco si domanda come si rappresenta un uomo fatto di carne che senz’ali sale nell’aria. Ecco dunque la soluzione resa visibile: quattro angeli con grazia e delicatezza sorreggono il corpo glorioso di Gesù e lo portano verso l’alto, tirandolo per la veste o spingendo con riguardo ginocchio e braccio. Tutto è molto composto: in effetti non viene data l’idea di una salita impetuosa, con panneggi gonfiati dalla forza del vento o attraverso scelte di carattere teatrale. Eppure l’effetto è reale: un’ascesa metodica, composta ma effettiva, lenta eppure senza resa.

71 Lc 24, 50 – 53: “Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio”. 72 At 1, 9 – 11: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se n'andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: "Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo".”

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Attorno, nel candore della calce, un’ordinata orchestra d’angeli fa da sottofondo alla luce e rende liturgico questo momento: così come se fosse una corale ad accompagnare il gesto del celebrante che si spinge oltre la pesantezza del velluto dei paramenti e innalza in alto le mani per mostrare a tutti il calice. Da un punto di vista stilistico, va senz’altro messa in luce la bella abilità ritrattistica di Gianfrancesco, che nei volti degli apostoli fissa una grande espressività. E’ questo a dare veridicità al progetto del racconto, che nel disegno è molto geometrico, spigoloso, ordinatissimo oltre ogni realismo. Gli apostoli sono raccolti in file molto composte, quasi inquadrati dentro il cerimoniale rigido d’un rito. A rendere tutto molto caldo e veramente espressivo sono proprio quei tratti realistici disegnati con un’attenzione minuziosa ai particolari: i lineamenti, le rughe e l’incarnato dei volti, barbe e capelli fluenti, acconciature ricciolute raccolte con buon gusto. Gli occhi elevati al cielo (così come sottolinea, nel testo, il dialogo con l’angelo) e mani composte nel gesto antico della preghiera, dell’orante: potremmo dire che Gianfrancesco dipinge, in questi apostoli, il modello – anche formale – di chi contempla il mistero, pur senza capirlo.

6. Il racconto del Giudizio: lo scopo morale Il racconto del giudizio (fotografia: VI) scende sulla parete posta in fronte all’ascensione come un grande arazzo colorato che, per sventura, è stato consumato nella parte bassa, e si presenta mutilato, senza avere una delimitazione geometrica ed ordinata, ma chiudendosi a brandelli, anche se resi composti nel lavoro di restauro. Il tema non è preso dalle similitudini evangeliche (pecore e capri) ma piuttosto da alcuni brani del libro dell’Apocalisse, le cui citazioni sono però diluite dentro una letteratura medievale di carattere moraleggiante. In centro è la figura trionfale del Cristo giudice, posto in una mandorla dalle tinte di un rosso cupo – ma che altro non è che il fondo dato per la stesura dell’azzurrite, oggi scomparsa73-; la figura è contornata da un doppio intreccio di amorini: il volto è solenne, incorniciato dall’oro dei capelli; il corpo dalla muscolatura classica, avvolto in un mantello, lascia nudo il torace, così da poter mettere in evidenza la mano segnata dalla ferita del chiodo che indica il costato aperto e sanguinante. Quest’accento, questa sottolineatura dei rivoli di sangue, non hanno nessun valore macabro: è un modo estremamente concreto per presentare i segni della passione che il corpo risorto porta in sé, quella verità della sofferenza fisica della passione che non viene superata e dimenticata. Questo stesso valore, viene dato anche a quegli angeli che, posti in alto, alla destra e alla sinistra della mandorla, reggono trionfalmente le arma Christi74: sono i richiami concreti di quel dolore che ha condotto - passando per la morte - alla gloria. La colonna della flagellazione, la canna con la spugna imbevuta d’aceto, la lancia del soldato, la corona di spine abbandonata sulla croce vuota: questi – e altri - strumenti della passione venivano esposti nei riti della settimana santa per ricordare le sofferenze umane del Cristo, e il loro valore eroico. In uno sguardo teologico, essi diventano quasi vessilli di trionfo. Questi angeli non sono rappresentati come chierici devoti che portano fra le mani sante reliquie: piuttosto evocano antichi soldati che rientrano dal campo di battaglia portando i vessilli del trionfo, così come descritto nelle note gregoriane dell’antico inno75 della domenica di passione:

“Vexilla Regis prodeunt; fulget Crucis mysterium, quo carne carnis conditor suspensus est patibulo76”.

73 Bonelli, 1983, p. 27 74 Hesemann, 2003 75 L'inno venne composto da Fortunato e fu cantato per la prima volta a Poitiers nel 568. Ne emerge subito con chiarezza il senso salvifico della Croce, al tempo stesso dolorosa e poi gloriosa; esaltata come il vessillo del Re (Vexilla Regis). 76 Graduale Triplex, 1974, p. 39 Traduzione delle prime due strofe: I vessilli del Re avanzano;/risplende il mistero della Croce,/al cui patibolo il creatore della carne/con la propria carne fu appeso. / Confitti con i chiodi le membra,/ tendendo le mani, e i piedi,/ per la [nostra] redenzione/ qui è stata immolata la vittima.

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Un elegante richiamo a questo genere di rappresentazione è possibile riconoscerlo nella tempera del 1455, dipinta da Andrea Mantegna (oggi al National Gallery di Londra) in cui sono raffigurati quattro amorini che mostrano al Cristo orante nel Getsemani la profezia della sua passione imminente. Poco sotto al trono, divisi in due gruppi, sono posti due cori di oranti: alla destra, la Vergine con sei apostoli; a sinistra, Giovanni Battista con gli altri sei. Come nella scena dell’ascensione, sono rappresentati nell’atteggiamento tipico di chi prega – e ne diviene modello per altri -: in ginocchio, le mani giunte così come indica il cerimoniale, gli occhi elevati al cielo. Solo Maria, fra tutti, alza le mani mostrando il palmo: un gesto inteso a metà tra lo stupore e l’antico gesto dell’orante che viene dalle rappresentazioni paleocristiane delle catacombe. Proprio sotto alla mandorla col Cristo giudice, è raffigurato un turbine di angeli: non sono creature musicanti, come quelle dell’ascensione poste in fronte a quest’affresco, ma alludono alle trombe del giudizio raccontate nel libro dell’Apocalisse. E nell’unico lacerto d’affresco rimasto visibile – che par quasi disegnato e colorato a pastello, con piccoli colpi di pennello leggeri e delicati – è raffigurato uno scorcio di cinta dalle mura alte e preziose, nelle quali si apre la porta per far entrare un fiume di popolo, accolto da angeli festanti e musicanti. E’ possibile avere corrispondenza tra il testo biblico e quanto è dipinto da Gianfrancesco. Nell’Apocalisse si parla di una “città santa, Gerusalemme” il cui “suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli (…). La città è a forma di quadrato (…) Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. (…) Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose77”.

Quanto riportato trova corrispondenza nei lacerti d’affresco, purtroppo troppo compromessi per consentire un’indagine completa. E’ possibile scorgere le mura, intarsiate di intarsi preziosi che possono essere interpretati come le pietre di cui parla il testo: e anche gli angeli, posti a semicerchio su alti basamenti posti sopra il portale, trovano puntuale riferimento. E’ il racconto dell’ingresso dei beati nel Paradiso. Manca totalmente, perché è andata perduta, la parte che riguardava i tormenti dei dannati, a cui senz’altro Gianfrancesco aveva concesso spazio più ampio e leggibile, dando alla descrizione delle punizioni un compito morale di particolare rilevanza. 7. Profeti, evangelisti e dottori della Chiesa: presenze e significati. L’uso di affrescare nelle lunette e nei pennacchi della volta figure di evangelisti e dottori della Chiesa è largamente diffusa: Gianfrancesco la conosce bene, e la adotta in ogni ciclo di affresco con grande creatività e competenza. La simbiosi tra il luogo architettonico – la volta del presbiterio, coi suoi costoloni in evidenza, ben strutturati – e quanto vi viene affrescato sopra è significativo: la struttura portante dell’edificio coincide con la struttura su cui verte la Chiesa. E il progetto iconografico è ben strutturato: il fondamento nell’esperienza dell’Antico Testamento incarnata nelle figure dei profeti maggiori; l’incarnazione della Parola di Dio nell’esperienza umana del Cristo, nelle figure dei quattro Evangelisti; lo strumento prezioso che rende attuale ed efficace il messaggio antico e sempre nuovo attraverso il magistero della Chiesa, lo studio e il commento alle Scritture, raffigurato nei quattro padri della Chiesa occidentale, incorniciati nei loro studi, seduti in grandi scrittoi gotici, così solenni da sembrare piccole cattedrali. Proprio in queste lunette, in questi pennacchi, Gianfrancesco si diverte a mostrare la sua grande passione per il quotidiano: scrittoi ingombri di carte, libri (richiamo alla Scrittura) abbandonati in disordine sui leggii e sulle mensole; sportelli dimenticati aperti, nei quali si intravvedono clessidre che si affacciano da un pertugio (il richiamo al tempo, che non passa inosservato, ma che diviene luogo della

77 Ap 21, 11ss

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rivelazione); molto bello il riferimento alla candela posta dentro lo scanno, richiamo al versetto che insegna “né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone78”. C’è poi una grande cura per il gusto del bello, persino di un certo sfarzo: le mitrie dei vescovi non sono semplicemente raffigurate a damasco, ma impreziosite di gemme, di ricami molto realistici, così com’erano – in quel tempo – le mitrie gemmate; anche i piviali sono raccontati con verità, rifiniti nei dettagli, così come i rocchetti, i guanti. Un’attenzione alle minuzie liturgiche che rivela una certa frequentazione dei luoghi e degli armadi di sagrestia, se non altro per mestiere. Da un punto di vista di stile, ci si accorge che proprio nelle vele è largamente presente la componente veneta di Gianfrancesco: la struttura in cui sono inserite le figure dei Dottori “ricorda bene la decorazione della Cappella Ovetari degli Eremitani di Padova, per i toni goticheggianti dei troni, legati a posizioni attardate79”. C’è un certo contrasto tra una struttura ancora molto rigida ed impostata e i volti dei personaggi, credibili ritratti. 7. Sintesi per una lettura iconografica e iconologica unitaria. Nella sua unità, nel suo graduale procedere di mistero in mistero, il ciclo rappresentato può consegnare questo tipo di messaggio teologico: Dio è entrato nella storia nascendo come bambino in Gesù; ha scelto di incarnarsi non in modo prodigioso e magico, ma di nascere nel contesto umano di famiglia (Natale); si è poi fatto conoscere come Figlio di Dio (Epifania); a conclusione della sua esperienza terrena è salito al cielo (Ascensione) lasciando ai suoi discepoli l’insegnamento del suo messaggio di bene che è codificato nel Vangelo. La fede afferma che in un giorno non definito ritornerà come giudice per pesare nell’amore da lui sperimentato in pienezza nella croce (segni della passione) tutti gli uomini della terra, per dare ai giusti l’accesso all’eternità nel Paradiso, e rispettare chi ha rifiutato la sua proposta di bene e ha scelto il tormento degli inferi. Questo è stato annunciato dai profeti, raccontato dagli evangelisti, studiato e reso concreto come indicazione di vita attuale dai padri della Chiesa (volta). A queste verità si accede con un atteggiamento di umiltà e disposizione alla conversione, raccomandata da figure bibliche affrescate nel sottarco, dei quali sono ben riconoscibili Davide e Giona, nella cui storia biblica è centrale l’esperienza del peccato e della redenzione. In senso più totale, il lavoro di Gianfrancesco a Barbeano mostra come l'arte di ispirazione cristiana è testimone del desiderio di ogni epoca di manifestare la pulchritudo stessa della fede. E’ possibile dire che non è semplicemente esperienza vera, o buona: è bella. Se non fosse bella, la fede non potrebbe essere desiderabile, non potrebbe conquistare cuori e menti, sentimento e intelligenza. Il racconto e il messaggio unitario proposto mettono in risalto uno dei cardini preziosi dell’esperienza del credere: la rivelazione, la parola, l’ingresso di Dio nella storia dell’uomo si manifesta con la dicitura greca di doxa, termine che in lingua italiana si rende come “gloria”. Non ci si riferisce però alla sfumatura del pensiero antico, da intendersi come manifestazione del potere, della forza, che diventa quindi richiamo – per chi la subisce - ad un’obbedienza totale, ad un’umile sottomissione servile. Va piuttosto considerato come un significato in cui si condensa il fascinoso apparire di Dio: manifestandosi, non può non attrarre e conquistare a sé, tanta è la sconvolgente bellezza che si rivela. Più che di sudditanza si parla di coinvolgimento.

78 Mt 5, 15 - 16 79 Bergamini, 1990, p.23

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La scelta dell'arte come strumento efficace dell’annuncio non può dimenticare la verità e la bontà di ciò che racconta e di come lo racconta. Compito specifico della via pulchritudinis – anche se non esclusivo, perché proprio di tutta la catechesi - sarà quello di manifestare il fascino dell’incarnazione, il suo proporsi come evento nato dalla libertà di Dio, capace di attrarre lo sguardo, la mente e il cuore dell'uomo. L'arte, infatti, consegna sempre un “corpo” alla parola, permettendole di toccare i diversi sensi. Dona concretezza, materia, esperienza tangibile. In questo senso l’opera d’arte non si oppone alla parola, bensì la esige e la presuppone, e la completa. Immagine e parola permettono insieme di giungere a quella capacità di sintesi che la maturazione di una fede richiede.

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IV IL CICLO DI AFFRESCHI

IN SAN LEONARDO IN PROVESANO

“…dopo un faticoso viaggio a cavallo, era giunto nel villaggio di Provesano. Si era portato appresso quelle stampe che aveva acquistato a Venezia, perché pensava di prenderle a modello per affrescare nel presbiterio la Passione di Nostro Signore e, sulla parete di fondo della chiesa, una grande Crocifissione. (…) Le scene erano uniche, e rare. Avrebbero impressionato e commosso i fedeli che, in quel tempo martoriati da carestie, pestilenze, guerre turchesche non sapevano più a che santo votarsi” 80 1. Il contesto storico e sociale dell’opera. Si è scelto di incastonare come apertura a questo capitolo sul ciclo di Provesano queste efficaci parole tratte dal testo “L’opera imperfetta”, cui si è già fatto riferimento, perché pur non avendo prettamente carattere scientifico, rendono bene, con pochissimi cenni, il contesto storico in cui Gianfrancesco dev’essersi trovato ad operare- arrivando nel villaggio -, e danno profonda concretezza alla realtà storica d’un pittore che si appresta a contrattare con i committenti il carattere e la qualità della sua opera, vendendo la sua arte come merce di spessore, e guadagnandosi stima e buon nome. Due infatti sono i riferimenti da rilevare: i modelli di stampe tedesche, mostrati come punto di partenza di garanzia per la felice riuscita dell’opera; e la pesantezza del tessuto sociale, segnato – in un modesto contesto come poteva essere Provesano al limitare del ‘500 – e umiliato da problematiche di vario genere, che andavano a mortificare l’animo e la vita del popolo, suscitando nell’esperienza religiosa una via di fuga. Non è inutile raccogliere dati che possano presentarci la realtà vissuta da Provesano negli anni immediatamente precedenti l’arrivo di Gianfrancesco. Villaggio contadino alle dipendenze dei signori di Spilimbergo, vi rimase soggetto anche quando – era il 1420 - la Repubblica di Venezia conquistò il Friuli, fino ad allora governato dal patriarca di Aquileia. Gravi eventi ne segnano pesantemente il succedersi della storia: dal 1478 vi sono scorrerie di turchi che sfoceranno nella più tragica del 149981; e poi epidemie coleriche, raccolti faticosi e magri, povertà largamente diffusa, alta mortalità infantile, incursioni di lupi feroci, presenze magiche ed esoteriche oscure. In questo clima molto cupo, l’esperienza delle fede era motivo di respiro e di speranza, anche se vissuta in modalità molto diverse, spesso fragili: tempi – da un lato – degli operatori dell’occulto, delle streghe, di polveri magiche e sortilegi; ma anche tempi di chi parte per i grandi pellegrinaggi alla ricerca di reliquie e miracoli. Sono necessari, per la fede semplice del popolo, strumenti chiari ed espressivi di culto, capaci di educare, muovere alla pietà, dare indicazioni buone e certe di dottrina sana. La decorazione della chiesa non è certo una scelta estetica: è un’esigenza di formazione umana e spirituale di fedeli provati, scoraggiati e disorientati. Lo stesso titolo della chiesa parrocchiale – dato a Leonardo – richiama, in questo santo patrono, la liberazione dei prigionieri. Il ciclo degli affreschi, da un punto di vista iconografico mostra scelte precise, date con un certo ordine – ben inquadrate, come fotogrammi d’una pellicola cinematografica moderna, o, meglio ancora, come cartoline capaci di riproporre alla memoria del fedele scene di teatro sacro alquanto diffusi in quell’epoca. Eran frequenti, infatti - soprattutto nei giorni della settimana santa - sacre rappresentazioni che, con un certo diletto, ma con tutta la serietà tipica dell’ambito del divino, riproponevano ai fedeli i grandi misteri della passione e morte del Signore: venivano raccontati nei sagrati, e spesso erano preludio o addirittura parte stesse delle grandi e solenni azioni liturgiche che venivano poi officiate

80 Cargnelutti, 2012, p. 35 81 Peressini R., 2006

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all’interno delle chiese. Si potrebbe aver quasi l’ardire di riconoscere a Gianfrancesco l’abilità di aver fissato sulla calce le immagini di questi sacri teatri, come ai giorni nostri saprebbe fare un buon fotografo. 2. Tecniche stilistiche e interventi di restauro82 Anche la chiesa di san Leonardo di Provesano risentì delle scosse del terremoto del’ 76. Già nell’estate del 1981, però, era stato ultimato il restauro, intrapreso e diretto con grande attenzione al recupero e alla salvaguardia del prezioso ciclo d’affresco. Proprio nella sede di questi delicati lavori è stato possibile indagare con precisione e senso di meraviglia scelte e tecniche dell’artista, consentendo di leggere con ulteriore chiarezza le dinamiche del suo lavoro. Un primo dato riguarda il modo di condurre gli stadi preparatori: l’arriccio è dato da una malta grossolana, di calce e sabbia del Tagliamento. Lo spessore consente di colmare con facilità le irregolarità della parete (le muratura sono quasi totalmente di sasso) e ha uno spessore molto regolare. L’intonaco, è invece molto sottile (uniformemente di 5 millimetri di spessore), composto di calce, sabbia di fiume (ma molto fina) impastata con paglia tritata, scelta che consente di rallentare il processo di essicazione delle malte: in tutto il ciclo pittorico l’intonaco è ben pressato, steso con grande cura, e la superficie totale appare quasi tirata a specchio. Senza dover ricorrere ad indagini particolari, solo osservando gli effetti della luce radente, è possibile leggere come la stesura dell’intonaco sia stata effettuata a giornate: nella parete di fondo, dove è raccontata la grande crocifissione, l’estensione segue con precisione il perimetro dei contorni delle figure; sulle due pareti laterali invece, dove le scene sono raccontate a riquadri, e ripartite in tre registri, il lavoro è distribuito secondo la costruzione dei ponteggi, predisposti per un lavoro a giornate verticali. Con facilità si possono leggere ad occhio nudo le giunture di fine giornata, che non sono state poi in alcun modo mascherate o dissimulate. Dalla relazione della squadra di restauro di Massimo Bonelli, che ha diretto e operato in cantiere, emergono elementi di studio sul disegno preparatorio di Gianfrancesco. Va detto che è mancata la possibilità di individuare e indagare brani di sinopia, per mancanza di zone d’arriccio scoperto – ma è molto probabile che ne abbia fatto uso. E’ stato invece possibile rilevare per bene le tecniche operate per la trasposizione del disegno preparatorio sull’intonaco fresco: per dimensionare i riquadri architettonici si è fatto ricorso alla battitura dei fili, tecnica che prevedeva di mettere in tensione una cordicella intrisa di terra rossa fissata a due chiodi conficcati nel muro, facendola poi vibrare come una corda di violino perché lasciasse impressa nella calce la linea di disegno. Nel manto della Vergine sotto la croce, e nella maggior parte delle aureole, si è ricorsi invece all’incisione diretta, che consisteva nell’incidere direttamente l’intonaco fresco attraverso un punteruolo, a mano libera, senza ausilio del cartone preparatorio: nella maggior parte del ciclo, invece, si è ricorsi alla tecnica del disegno diretto, impiegando pigmenti di ocra gialla e rossa, come linea portante del disegno, anch’esso eseguito con una certa fantasia e creatività. Gianfrancesco fa poi uso dello spolvero o della stampigliatura unicamente per ottenere precisione e armonia nei motivi naturalisti, antropomorfi e di architettura che decorano le cornici e delimitano li spazi del racconto. L’indagine ha consentito infine di valutare anche la pellicola pittorica, effettuata in gran parte secondo la tecnica dell’affresco; sono riscontrabili però molte zone, non sempre di piccole dimensione, rifinite a tempera, che di conseguenza oggi risultano perdute. 3. Il programma iconografico Il ciclo si compie nel contesto del solo presbiterio della chiesetta; ha inizio nella lunetta sinistra della parete destra del presbiterio e si conclude nelle due lunette della parete di fronte, passando per la

82 Bonelli, 1983, p. 27ss

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grande crocifissione del fondo. Le due pareti laterali sono concepite in modo simile: due lunette in alto; una fascia centrale (con tre riquadri nella parete di sinistra; due – perché uno rubato dall’apertura della finestra – in quella destra). La fascia inferiore racconta tematiche che si discostano dal grande dramma della Passione: a destra la teoria del gruppo degli Apostoli, posti come dodici colonne d’un maestoso tempio, come i pilastri possenti d’una basilica romana; a sinistra, e dietro l’altar maggiore, scene di giudizio e di tormenti dal sapore dantesco. La volta – come ormai consuetudine nell’intera produzione dell’artista tolmezzino - pone l’architettura portante delle vele in dialogo con la struttura dogmatica della Chiesa, data dalle figure di Profeti, Evangelisti e Dottori, secondo il significato di profezia antica che deve essere rivelata, Parola del Vangelo che si incarna, studio della Scrittura che rende attuale il messaggio del Testo. 4. La passione L’ul t ima cena Nella necessità, o nella scelta, di dover e poter collocare il racconto dell’ultima cena in uno spazio mortificato dalla curvatura della volta, Gianfrancesco inventa questo scorcio prospettico del tutto inusuale, mostrando l’ambiente del cenacolo con la tavola posta in diagonale, disegnando il volume delle figure in modo tale da non restare penalizzate – anche nelle posture - dalle ristrette dimensioni del riquadro83. Il momento rappresentato è quello raccontato dall’evangelista Giovanni84: il protagonista della scena è il Cristo, ripreso mentre condivide il boccone con Giuda, che gli siede di fronte. Il gesto che mette i due in relazione tra loro, da solo, sarebbe bastato ad identificarli. Ma altri due dettagli ci confermano su chi sia Giuda: il sacchetto bianco ch’egli tiene nella mano destra e tenta di nascondere dietro le spalle, contenente il denaro col quale aveva in precedenza venduto Cristo al Sinedrio85; e il gesto particolarissimo che non nasce dalla narrazione evangelica, ed entra in un ambito quasi morale, di giudizio, pesantemente educativo e di forte impatto. L’apostolo che siede accanto a Giuda si discosta da lui, si volta verso l’assemblea dei fedeli, e con volto segnato dal disgusto non può fare a meno di turarsi il naso, chiudendolo tra il pollice e l’indice della mano destra, come se innanzi a lui – sulla tavola – fosse posta una pietanza putrefatta, marcia, capace di suscitare ribrezzo col proprio odore nauseante86. E’ un avvertimento; un ammonimento (fotografia: XIII, B). Da un punto di vista scenografico, il gesto dipinto ha grande respiro teatrale; da un punto di vista di significato, è eloquente più di una predica. Nel disegno dell’affresco, si rileva con immediatezza come il racconto di Giovanni trovi facile riscontri: i due discepoli posti in primo piano, di spalle, in animato dialogo, sono l’immagine di quanto il Vangelo narra per voce di Giovanni quando si legge che “…dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: "In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà". I

discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse”87; il discepolo che Gesù amava gli è posto accanto, così come il testo racconta, chinato sul suo petto mosso da profondo affetto, da amicizia turbata dal grave annuncio (della morte). 83 Nella rappresentazione di questo stesso soggetto nella cappella campestre di San Gregorio a Castello d’Aviano, pur ripetendo alcune scelte stilistiche, la posizione della tavola è posta in modo consueto, consentendo una rappresentazione degli Apostoli più libera, ordinata e tradizionale. 84 Gv 13, 21 – 26: “Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: "In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà". I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: "Dì, chi è colui a cui si riferisce?". Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: "Signore, chi è?". Rispose allora Gesù: "È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò". E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone”. 85 Mt 26, 14 – 15: “Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti e disse: "Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?". E quelli gli fissarono trenta monete d'argento”. 86 La medesima scelta è ripetuta anche nel ciclo di Castello d’Aviano. 87 Gv 13, 21 - 22

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Ciò che colpisce ancora l’attenzione – scelta ripetuta poi anche a san Gregorio, a Castello d’Aviano – è la raffigurazione degli scanni su cui siedono gli apostoli, resi in modo tanto particolareggiato e creativo, al punto che ciascuno di quanti sono visibili all’osservatore ha un sedile con uno schienale totalmente diverso da quello posto a fianco (fotografia: XIII, A). Il dettaglio del cagnolino (richiamo alla fedeltà, in questo casa tradita) è frequente nelle rappresentazioni sia delle nozze di Cana, sia dell’ultima cena, ed è diffusissimo nelle stampe riprodotte sui messali e nelle raffigurazioni della Scrittura; così come la grande anfora, qui dalle fattezze di una brocca di metallo, che richiama il gesto della lavanda dei piedi che, secondo il racconto di Giovanni, al momento della cena Cristo ha appena compiuto88 Orazione ne l l ’or to deg l i u l iv i Il contesto naturale in cui è inserita la scena mostra la volontà di descrivere ciò che è scritto nel testo sacro (il disegno simbolico del torrente Cedron89; il recinto che segna lo spazio del giardino) e al tempo stesso i riferimenti concreti alla vita del villaggio in cui sorge la chiesa che fa da scenario a questa Bibbia per i poveri. Si è voluto vedere nella modalità con cui è intrecciato il recinto un riferimento all’abilità quotidiana dei contadini del tempo di Gianfrancesco a fabbricare simili manufatti agresti per orti e campi. Diverrebbe essere dunque un tentativo, per nulla ingenuo, e già visto a Barbeano nella scelta dei costumi, di rendere attuale una racconto antico, iscrivendolo nel sociale del tempo. Sembra comunque opportuno rilevare che uno stesso recinto, col cancelletto spalancato, è presente nell’ Orazione nell'orto di Giovanni Bellini, una tempera su tavola realizzata tra il 1465 e il 1470 e oggi al National Gallery di Londra. In quel cancello aperto, molti predicatori hanno letto una possibile indicazione alla libertà del Cristo, che avrebbe potuto scegliere la fuga invece di andare incontro alla morte, scomparendo nella notte. Ma non è possibile avere certezza né sul fatto che a questo si rifacesse il pittore di Tolmezzo, né se nelle sue esperienze di bottega veneta abbia davvero avuto modo di vedere e studiare l’opera del Bellini, del cui stile nulla mai si riscontra nella sua opera. Nell’affresco, dunque, Cristo è posto al centro della scena, ritratto nell’atteggiamento tipico del devoto medievale: in ginocchio, con le mani giunte – così come prescrivevano le rubriche liturgiche – in una postura composta e solenne. Il suo volto e rivolto verso quell’angelo che aleggia sulla calce bianca della scena, e che sembra scendere a consegnare un calice liturgico, a rendere visibile (come già in altri artisti prima e dopo di Gianfrancesco, tra cui lo stesso Bellini poco fa citato) il versetto evangelico di Matteo: “E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!”90.

Il Cristo appare perdersi sullo sfondo, a causa del colore del suo manto, dipinto a secco sull’intonaco ed ora perduto (rimangono le tracce delle pieghe della veste, essendo tracciate a fresco in ocra rossa, come guida per il disegno della figura). Il tono di colore della lunetta è dato dal gruppetto dei tre apostoli (Pietro, Giacomo e Giovanni91), ritratti addormentati92. Pietro è sempre facilmente identificabile non solo per la sembianza del volto (uomo maturo e con una barba ben curata che gli incornicia il volto - segnato dal sole - di un buon pescatore) ma anche dalla spadina che tiene ferma in pugno, preludio di quanto accadrà nella scena sottostante; Giovanni, pur non avendo qui i simboli iconografici che lo distinguono quand’è ritratto come evangelista o come apostolo (aquila; calice con il serpente, libro) lo si

88 Gv 13, 1 - 20 89 Gv 18, 1: “Detto questo, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là dal torrente Cèdron, dove c'era un giardino nel quale entrò con i suoi discepoli”. 90 Mt 26, 39; pochi versetti dopo, al 42, di nuovo è detto: “E di nuovo, allontanatosi, pregava dicendo: "Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà".” 91 Mt 26, 37 “E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedèo, cominciò a provare tristezza e angoscia”. 92Mt 26, 40 “Poi tornò dai discepoli e li trovò che dormivano”.

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riconosce dalle sembianze giovanissime, quasi fanciullesche, che sempre lo caratterizzano nell’arte, essendo considerato il più giovane nel gruppo degli apostoli. Dietro a lui, Giacomo, con il lembo del mantello in testa, lo si identifica per esclusione. Lo stesso impianto scenografico darà vita ad un riquadro nel ciclo di Castello di Aviano. La cattura Il nobile Duomo di santa Maria Maggiore, a Spilimbergo, cappella comitale dei signori di quella Città, è davvero poco distante; tanto più che è certo che Gianfrancesco, fin dai tempi del suo lavoro a Barbeano, aveva avuto con i conti un certo dialogo, legato a prestiti e a debiti poi saldati93. Ci si riferisce a questo, perché nel riquadro che rappresenta Gesù catturato dai soldati, ci si accorge di qualche citazione – pur sommaria, ben diluita nell’armonia dell’opera – della stessa scena raffigurata dalla scuola di Vitale da Bologna tra il 1350 e il 1359. Il riferimento è soprattutto al gioco degli elmetti dei soldati che fa da orizzonte alla scena, come a significarne una moltitudine. A Spilimbergo il disegno è più povero, molto geometrico, privo di volume. Qui in realtà c’è un certo spessore, una profondità della scena, quasi si tratti di una quinta teatrale su cui si recita il dramma. E come in ogni buona scenografia, l’artista pone i piani, i livelli: il turbine della folla, della ressa, della soldataglia che fa chiasso in secondo piano, come fosse lo sfondo; la quinta innanzi a cui si rappresenta il “fatto”; i protagonisti in primo piamo, accerchiati in verità da una corona di personaggi minori. L’episodio veramente rappresentato, anche se inserito nel racconto più ampio della passione, è un gesto di delicatezza del Cristo, così come il Vangelo stesso lo racconta, e che Gianfrancesco sa rendere con tono di particolare realismo e drammaticità (fotografia: XV). Un riferimento a questo impianto di racconto lo si trova anche in una delle stampe (fotografia: XIV) del ciclo della Passione di Martin Schongauer, di cui si avrà modo di trattare. Ma pur essendo possibile rintracciare citazioni puntuali, Gianfrancesco non tiene – in questo caso – presente quel riferimento come farà invece in altri riquadri con grande puntualità. Gesù è accerchiato, come un “brigante94”: uomini d’armi lo fermano, lo arrestano, a momenti lo porteranno via. Pietro è lì, attore tra i protagonisti, e il suo impulso di uomo semplice abituato alla concretezza immediata della vita, lo porta ad agire d’istinto: ha con sé una spada, si getta nella turba, e colpisce. Chi viene ferito è un servo - vien detto abbia nome Malco95 - che è a servizio del sommo sacerdote. Non era certo il più pericoloso, tra tutti. Ma è lui a perdere l’orecchio. E qui prende colore il racconto di Gianfrancesco: in primo piano è Pietro, con la spada in una mano e la fodera nell’altra, che fissa Gesù con lo sguardo smarrito di chi si rende conto d’essere stato scoperto e non sa che scusa accampare per difendersi; a terra, gemente, è il servo. Si potrebbe dire che dalla sua bocca spalancata, storta, scomposta in una smorfia di dolore, esce l’urlo disperato di chi si scopre sanguinante: e il dolore del ragazzo è dato in modo plastico anche dai nervi tesi del braccio alzato e del polpaccio in primo piano, poi dal modo inumano di come punta il piede destro sulla roccia, snodando il ginocchio in un’articolazione impraticabile. E’ come un ragno che teme d’essere pestato: infila le sue “zampe” tra le gambe del soldato che non si cura di lui, e si appella con lo sguardo al volto pur sereno del Cristo – già prigioniero –. Nel gruppetto degli apostoli, rappresentato simbolicamente nel lato sinistro del riquadro, si riconosce – primo fra tutti – Giuda, che tiene ben stretto tra le mani il sacchetto coi trenta denari d’argento. E’ affrescato in un posto di buona visibilità, perché in questo contesto ha avuto un ruolo da protagonista, fondamentale: è lui che ha venduto il Messia, è lui che giunto nell’orto ha permesso ai soldati di

93Ernesto, 1977, p. 370 94 Mt 26, 55 “In quello stesso momento Gesù disse alla folla: "Siete usciti come contro un brigante, con spade e bastoni, per catturarmi”. 95 Gv 18, 10

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riconoscerlo baciandolo96, è lui che ora vede l’esito feroce della sua azione, della sua scelta, e di lì a poco non reggerà all’angoscia del rimorso. L’abilità ritrattistica di Gianfrancesco emerge con una certa vena drammatica: ci sono delle linee disordinate, poco armoniche, e a volte il disegno risulta fragile (anche per questi motivi Giuseppe Fiocco si riferiva all’attività del pittore, presa nel suo complesso, parlando di un’arte selvaggia fatta di aggrovigliata bellezza; come di una rude e seriosa pittura) . Ma nell’insieme esiste una certa suggestione con contrasto tra il volto ordinato e disteso di Gesù e le smorfie e i ghigni feroci dei quattro soldati che lo circondano. E se è vero che le armature e gli elmi contribuiscono a renderli goffi, e soffocati dentro le lamiere, è anche vero che l’effetto è buono, perché non manca di sottolinearne brutalità e ferocia. Credo sia lecito porsi un interrogativo, non del tutto irrilevante. Le armature, con cui il tolmezzino riveste i soldati che infieriscono sul Cristo, hanno un sapore orientale, arabeggiante. E anche le lame delle armi, hanno un sapore che si allontana dalle daghe romane. Preferisce copiare modelli nordici (che troverà ben disegnata nelle stampe tedesche) che non indagare e riproporre una verità storica. Pur in formula di racconto, e di romanzo, attraverso suggestione quindi, si è affermato che Gianfrancesco ha cercato di dare un volto – diremo meglio: una veste – alle paure concrete della gente che avrebbe pregato nella chiesa di san Leonardo; ha cercato di assegnare un nome al male. Vestendo i carnefici di Cristo da soldati turchi, ha dato un ordine alla realtà e un significato alla storia, volendo porre quanti erano stati vittime delle sevizie degli invasori accanto all’innocente trascinato sulla croce, il Cristo. Così facendo, si riconoscerebbe a Gianfrancesco – e alla committenza – il nobile intento di dare un valore al soffrire e un significato allo sperare. Cristo davanti a Cai fa In questa scena (fotografia: XVIII) si riscontra il primo bellissimo riferimento puntuale alle famose stampe tedesche di Martin Schongauer97 (fotografia: XVII). Pur comprendendo che l’artista ha accolto da quest’arte nordica spunti già ben definiti, non si può fare a meno di riconoscere anche in quest’affresco richiami puntuali all’invasione turca. Il primo uomo accanto al seggio del sommo sacerdote, per esempio, ha il capo coperto da un elegante turbante, secondo il costume dei soldati orientali; così quello che gli sta di fianco. E’ vero che Schongauer e di conseguenza Gianfrancesco possono aver avuto l’intento di richiamare il tempo storico delle vicende della passione, riferendosi così al contesto sociale e culturale in cui la vicenda umana della Cristo ha avuto vita. Probabilmente le due volontà finiscono per cucirsi in modo così abile da non permettere di vedere le cuciture stesse, e lasciare così la possibilità di accogliere i due messaggi a seconda delle volontà e delle aspettative di chi guarda, contempla, riceve un insegnamento o è mosso alla devozione. In questo viene anche rivendicata la libertà del messaggio dell’arte, che si serve di tecniche e di figure per suggerire e suscitare a ciascun spettatore messaggi precisi ma sentimenti diversi, non opposti, senz’altro multiformi. Di sicuro, nel vestire Caifa, lo Schongauer prima e Gianfrancesco poi mancano delle informazioni necessarie – da un punto di vista di ricerca storica – per pararlo secondo la verità e gli usi del tempo di Gerusalemme antica. L’abito è mortificato da deturpamenti (dipinto a tempera, è andato perduto) e da un restauro eseguito con poca cura a suo tempo: un ampio manto bianco, che lo incappuccia e gli lascia scoperte braccia e gambe infilate in una povera calzamaglia. Sembra più un mago, che un aristocratico. Restano invece ben vitali, ed estremamente espressivi, i volti della corte e di qualche soldato. Ai lineamenti delicati di Gesù, il cui volto presenta un incarnato chiaro, incorniciato da una barba nobile e dalla capigliatura che – prima ancora dell’esile aureola – sembra già segnare la sua divinità, si contrappongono i volti molto rustici degli uomini che gli sono posti accanto. Caifa stesso non ha la grazia e la nobiltà di chi proviene da una famiglia aristocratica (com’era storicamente la sua), ma il suo

96 Mt 14, 45 “Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta” 97 Martin Schongauer (1448 - 1491) è stato un pittore e incisore tedesco, considerato il più abile ad incidere su rame della prima scuola tedesca.

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volto grasso, pesantemente segnato da rughe, e l’incarnato così definito, lo rappresentano più come un buon contadino, un ometto da osteria, che il sommo sacerdote di Gerusalemme; così anche soldati e armigeri, sembrano davvero gli uomini del popolo, come fossero ritratti veri, colti nella contemporaneità, tra la gente di paese. Con una sottolineatura però: il ghigno, le smorfie, lo sguardo spento e cattivo, li qualificano secondo la dicitura del Salmo 22, che con queste parole li dipinge, soprattutto nell’uso liturgico della celebrazione del venerdì santo: “Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo”; “Mi circondano tori numerosi, mi accerchiano grossi tori di Basan. Spalancano contro di me le loro fauci: (…) Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa. Essi stanno a guardare e mi osservano…”98

Ma anche nell’iconografia del Cristo si riscontra la traduzione in immagine di un versetto dell’Antico Testamento: l’uomo con turbante che presenta Gesù lo consegna trascinandolo per una corda che gli si stringe come cappio al collo, non tanto come fosse una bestia feroce da domare, ma più che altro come un animale da portar a macellare. Ecco dunque la radice biblica: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”99

In tutto ciò non è inopportuno riflettere sul prezioso legame tra arte e liturgia: i riti, in modo particolare quelli della settimana santa, densi, appassionati, carichi di suggestioni, di segni, simboli, calore umano, si prestano ad una teatralità che non ha solo il gusto di ciò che è scenografico, e che piace, ma che ancora una volta va ad accarezzare quelle due esperienze dell’animo e della mente umana che dialogano tra vivere la meraviglia e poi farne memoria. La teatralità di quelle sacre rappresentazioni che nella seconda domenica di passione e nel venerdì santo davano un’anima tragica ai racconti dei Vangeli, viene quasi a fissarsi sulla calce: si ricerca la possibilità di aiutare la memoria del devoto ad essere rinnovata, richiamando nell’immagine dipinta quei teatri che si mettono in opera solo una volta l’anno. E in questo si riscontra la volontà di riproporre il gioco moralistico dell’abbinare il volto dolce all’animo buono del Cristo e la maschera feroce al personaggio crudele che si accanisce sull’innocente, non solo per raccontare un fatto, ma per educare alla moralità del bene. Cristo davanti a Pi lato La scena dell’incontro con Caifa va a concatenarsi con quella che gli è posta innanzi, nella fascia centrale della parete sinistra: qui è rappresentato Cristo condannato da Pilato (fotografia: XX). Anche in questa scena compare una fortissima citazione di una nota stampa di Schongauer (fotografia: XIX). Va precisato, per onor del vero, che Gianfrancesco non si limita ad una traslitterazione del disegno dalla carta stampata alla calce, limitandosi solo a dare la tinta agli spazi rimasti vuoti tra le linee fortemente marcate. Pur restando fedele al grande maestro tedesco, nell’impianto scenico e nell’impostazione delle figure, l’artista tolmezzino sente propria l’opera, non può accontentarsi di copiare. Da un punto di vista stilistico, cerca di ammorbidire il secco taglio dell’incisione con una linea più fluida anche se robusta, con un delicato e piacevole uso del chiaroscuro100: ne scaturisce una elegante resa plastica delle figure. Resta pur vero che Gianfrancesco si è lasciato affascinare dallo stile nordico, dallo spirito gotico di Schongauer, che si riflette – oltre alle evidenti citazioni delle stampe – un po’ in tutto il ciclo di Provesano (e, a seguire, poi, di Castello di Aviano).

98 dal Salmo 22 99 Is 53,6-7 100 Bergamini, 1972, pag. 15

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Questa parte della passione, così com’è raccontata nei sinottici e come la descrive Giovanni, è abbastanza complessa: ecco perché spesso, negli esempi dell’arte, viene semplificata, attraverso simboli e piccole astuzie. In quanto Gianfrancesco affresca si contempla il compimento dell’incontro tra Gesù e il procuratore romano Ponzio Pilato: le fasi del processo romano, avvenuto dopo quello illegale celebrato nottetempo nel Sinedrio, si sciolgono con la condanna a morte – caldeggiata ed ottenuta da parte dei capi del popolo – di Gesù. A significare il suo distacco dalla vicenda, Pilato compie il gesto notissimo del lavabo. Ecco dunque che viene dato risalto a questo rito, dal sapore quasi liturgico, della purificazione. In effetti, nel rito stesso della Messa di quel tempo, il sacerdote officiante che all’offertorio compiva l’abluzione delle dita delle mani per poter celebrare in modo degno, aveva assunto il significato del richiamo a questo versetto evangelico. Pilato siede in trono, un seggio di marmo intagliato, con la base lavorata curiosamente a punta, come nella stampa tedesca. Il suo abito non può essere in alcun modo quello di un funzionario dell’impero romano, che esercita il diritto nella Gerusalemme del tempo del Cristo: veste piuttosto come un notabile, un uomo di studio e di legge che amministri la giustizia nel villaggio o, al massimo, presso la corte dei signori di una cittadina. Sia nella stampa che fa da modello, sia nelle recezione di Gianfrancesco, manca il dato storico. Probabilmente non era dato ai committenti e all’artista conoscere con verità come potesse essere vestito Pilato, o c’è nascosta dietro una volontà? Difficile poter dare risposta obiettiva e fondata su dati di archivio. Potrebbe comunque trattarsi di una scelta: la volontà di attualizzare il racconto, di renderlo capace di parlare, vivo; ma anche l’intento morale, che richiama alla Verità, e al modo con cui la si ricerca e la si rispetta. Del resto anche per i soldati si ribadiscono riflessioni già compiute: abiti e armature contemporanee, persino molto preziose, sbalzate e trapuntate nei corsetti; di nuovo turbanti, dal sapore orientale. Volti di giovani uomini, espressioni furbesche – come i due che sembrano spiare da dietro il servitore che versa l’acqua -: merita una sottolineatura il profilo dai lineamenti cattivi del vecchio che spunta da dietro al Cristo, raffigurato davvero quasi come una bestiolina viscida, che tende insidiosa la mano, e che guarda negli occhi Pilato. Gesù è sempre l’agnello condotto al macello, trascinato – pur con garbo – dal soldato: sul capo già porta quella corona di spine che il Vangelo101 ci dice essergli stata conficcata dai soldati in segno di spregio e umiliazione. La f lage l lazione E’ emblematica, nella rappresentazione della flagellazione (fotografia: XXII), la citazione della stampa tedesca di Schongauer (fotografia: XXI): sempre però con la garanzia di essere accolta e resa calda – non solo dalla presenza del colore – nell’interpretazione di Gianfrancesco102. Il contesto architettonico risulta identico. E anche la collocazione dei personaggi, il loro disegno, il movimento e l’armonia dell’insieme. Al centro è Cristo. Le mani sono legate dietro la schiena, e il corpo è imprigionato alla colonna del supplizio da un semplice filo di corda che lo trattiene al ventre. Pensando all’evento storico di una fustigazione compiuta secondo il diritto romano, avendo consapevolezza della crudeltà e della ferocia con cui veniva inflitta, ci si rende conto della volontà di dare comunque al Cristo un’immagine elegante, modesta, aggraziata. Il suo volto è sereno; il petto è segnato dalle ferite, rigato dal sangue, ma in un modo davvero composto, senza accentuare in alcun modo nulla di cruento: è simbolico.

101 Gv 19, 2 - 3 102 “…possiamo dire che se Gianfrancesco s’attiene molto accosto al modello, non per questo rinuncia alla libertà di modificarlo, di aggiungere personaggi, d’inquadrarli in nuovi ambienti, d’immaginare composizioni diverse e diverse espressioni e tipologie: di tradurre, soprattutto, nella propria personale inconfondibile scrittura. Le stampe (…) dell’incisore tedesco non gli servono che da canovaccio (…) per opere cui nessuno potrà negare un carattere strettamente originale”. Marini, 1942, p. 159

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Nella stampa originale, Gesù ha un portamento ed un’anatomia statuaria: è magrissimo, con una muscolatura e nervatura – soprattutto nelle gambe – molto evidente, a sottolineare una certa tensione, più che bellezza del tratto. Il volto, senz’altro raffinato, è cupo, triste, corrucciato, preoccupato. Da come appare il disegno, nessun colpo è stato ancora inferto: è lì che attende la prima mossa, freme ed è teso, pronto a percepire il dolore. In Gianfrancesco il Cristo è già ferito, ma il suo volto non è sconfitto. Continua ad essere l’innocente portato a morire – senza colpa – come l’agnello di profetica memoria: ma proprio perché innocente, pur sanguinante, è sereno103. Attorno a lui si compie una danza macabra: davvero, sia nella stampa, ma in modo del tutto particolare nell’affresco di Gianfrancesco, si percepisce una certa linea ritmica nel rappresentare il corpo dei carnefici, anche se i loro volti rivendicano una certa brutalità d’espressione. E’ detto in proposito che “…le grifagne e ghignanti figure della stampa prendono nell’affresco un più umano e meno ripugnante aspetto; e, a parte la veste abbandonata per terra, tutto il panneggio, così goticamente aggrovigliato e tormentato nell’originale, viene riportato dall’artista alla sua logica e naturale semplicità”104.

La stampa è senza dubbio più raffinata, definita nel dettaglio, capace di rappresentare persino il petto villoso del soldato; l’affresco rivela invece una certa profondità, il colore scivola dando vigore alle figure. Verso i l Calvario Gianfrancesco riprende l’impostazione scenica di una stampa tedesca (fotografia: XXIII) (sempre di Schongauer) anche per la scena (fotografia: XXIV) di Gesù che attraversa la città per uscire verso il luogo del supplizio, fuori dalla cinta muraria. In questo riquadro trovano collocazione episodi raccontati dal Vangelo e quelli – che poi ebbero grande fortuna, essendo persino inserito nella pratica di pietà della Via Crucis - della donna pietosa che, avendo pulito il volto sanguinante e sudato del Cristo, ne riceve in dono l’immagine impressa nel panno. Veronica: vera-icona. La tradizione medievale dava molto risalto a questo genere di racconti, non canonici, ma pur sempre rispettati, che si prestavano a tante riletture morali, di significato, d’esempio di comportamento e di dottrina. Al centro – sia nella stampa, sia nel dipinto – è proprio il Cristo, in una lunga tunica bianca, con la croce posta sulla spalla sinistra. Il volto – ordinato – è incorniciato dalla corona fatta di spine. Della donna (detta Veronica), non si scorge il volto. Un fazzoletto le copre fronte e sguardo, lasciandole libera lo bocca. Solitamente è la donna che con entrambe le mani regge i lembi del panno – con cui ha appena assistito Gesù - e mostra l’immagine impressa, come fosse non solo un dono o addirittura un trofeo, ma come una preziosa reliquia. Schongauer rappresenta Gesù che sembra consegnare alla donna il velo che reca impressa l’immagine del suo volto, con le medesime caratteristiche di un’icona orientale. E’ un gesto strano, poco comprensibile, eppure evidente. Nella stampa anche Maria ha il volto velato e nascosto: Gianfrancesco preferisce darle uno sguardo – sofferto, senz’altro – umanissimo. 103 Scrive Marini, citando l’opera di Bartsch: “ (…) il Flagellato di Schongauer è la macilenta degradata figura in cui par si compiaccia di rappresentar il Cristo l’incisore tedesco: un martire poveruomo. Il Flagellato di Gianfrancesco, anche nella rude forma che lo costruisce, vuole e sa efficacemente conservare la dignità del personaggio divino”. Marini, 1955, 165 104 Marini, 1955, p. 166

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La croc i f i ss ione Tutto questo grande ciclo d’affresco ha il suo apice nella maestosa crocifissione (fotografia: XXXII) che, come un immenso arazzo, scende e vela l’intera parete di fondo del presbiterio, divenendo uno scenario spettacolare non solo per la navata unica della piccola chiesa, e nemmeno solo per il modesto altare policromo, ma per ogni azione liturgica che su quell’altare sarebbe stata celebrata. Diciamo che nella crocifissione l’intero impianto d’affresco ha il suo apice, ma non il suo culmine: il termine cui tutto tende e in cui tutto si compie è la scena della risurrezione (fotografia: XXVIII), posta in alto, sul lato destro. Compiendo forse un gesto intellettuale un poco audace, potremmo dire che a Provesano trova compimento non solo questo ciclo di affresco, ma anche quello che era stato compiuto pochi anni prima nella vicina cappella di Barbeano. Quella natività, quel bambino nudo posto sulla nuda terra, trova pieno significato nel Cristo morto e risorto di Provesano; il fatto poi che nessuna scena si ripeta, ma che ci sia quasi un completamente nei confronti uno dell’altro, è davvero suggestivo, ma rimane suggestione se una anche semplice documentazione non ne può dare riscontro. Dunque: nella grande scena della morte di Cristo convergono con grande precisione i testi dei Vangeli; scelte mosse dalla pietà popolare e dalle tradizioni; gusti scenografici tipici del tardo ‘400. Anche se non mortificata da inquadrature che soffocherebbero questo impianto così libero e arioso, la scena è suddivisa in tre fasce, come le pareti laterali: nella prima vi sono Maria e le donne a sinistra e un gruppo di soldati sulla destra; nella seconda, soldati a cavallo e scorci di paesaggio; nella terza, in alto, le tre croci, su uno sfondo scenico davvero elegante e raffinato, molto più dettagliato e curato di quello più modesto della chiesetta di sant’Antonio. In basso, a sinistra, ai lati dell’altare, viene posta l’immagine della Vergine Maria (fotografia: XXXI)

fortemente segnata dal dolore, assistita da colui che Cristo amava e da alcune donne. La presenza di queste figure è riferita dai Vangeli. 105 E’ vero che se la presenza di queste figure trova radice nella Scrittura, il fatto rappresentato non racconta per immagini ciò che è scritto – il dialogo del Cristo agonizzante con la madre e il discepolo, in cui la Chiesa legge l’affidamento di se stessa alla Vergine -. Gianfrancesco e chi lo guida qui non hanno volontà di essere fedeli al testo, per dare suggestione al sentimento, ma raccontano più volentieri del tormento che solo una madre può provare nel dover contemplare il dolore fisico e la solitudine del proprio figlio: Maria, velata come una monaca di clausura, è ritratta in uno svenimento composto ma realistico, sorretta con grazia dal giovane discepolo, dalla donna col capo velato dalla fasciatura, mentre alle sue spalle una ragazza si raccoglie in preghiera e una donna matura, di cui uno scorcio di volto emerge da un ampio panneggio, vive un dolore composto. E’ probabilmente un brano di affresco in cui il Tolmezzino riflette il dolore di tante madri, ripensando ai recenti fatti tragici in cui tante vite, più o meno giovani, erano state falciate con durezza. Posto lì, di fianco all’altare dove il prete sale per consacrare e benedire, si poteva anche credere che il dolore stesso avesse potuto essere purificato dall’esperienza del sacro, divenendo in modo misterioso esperienza di grazia. Comunque di consolazione. L’arte non si presenta mai fredda, meccanica: in chi ha il genio di incarnarla in un tessuto vivo di storia e in chi ha la passione per accoglierla si esercita sempre una comprensione che non si può separare da sentimento e da affetti reali. Come notata per altri casi Salvatore Settis106, la funzione della Vergine Addolorata posta sotto la croce è quella di far entrare l’osservatore dentro la scena raccontata, perché ne sia partecipe. Attraverso il dolore umanissimo della donna che piange suo figlio, lo spettatore è mosso a sentimento di pietà per raggiungere – attraverso di lei – il dolore stesso del Cristo. Il riferimento allo Stabat Mater di Jacopone da Todi (che mette in notazione gregoriana le parole del Vangelo di Giovanni appena citate) risulta anche in questo caso quanto mai opportuno:

105 Gv19,25-27: “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre…” 106 Settis S., 2010, p. 228

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“Stabat Mater dolorasa iuxta crucem lacrimosa…107”

L’esperienza del “vedere” è profondamente vera ed educativa nei gesti della religiosità. La traduzione dello Stabat Mater – ancora – lo richiama con puntualità: “qual è l’uomo che non si lasci commuovere vedendo il Cristo sopportare tanto dolore, tanto tormento?” Sul lato destro dell’altare è invece affrescato con precisione, e dettagliato gusto narrativo (fotografia: XXIX), il brano evangelico secondo cui “I soldati (…), quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura: Si sono divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte108”. Questo tema ha grande rilevanza negli scritti dei Padri della Chiesa109: è sempre stata data una importanza rispettosa e carica di suggestione, anche se la spartizione delle vesti di Gesù può apparentemente sembrare un “episodio marginale” della Passione, descrittivo e funzionale all’evento storico, senza per forza avere particolari significati teologici. Da un punto di vista di concreta praticità, uomini di una certa rudezza, abituati a rapportarsi con la ferocia del male in cambio di uno stipendio – forse nemmeno troppo dignitoso – aveva stabilito consuetudini per guadagnare ad ogni costo qualcosa, fosse anche vivendo di una forma di sciacallaggio persino sugli indumenti di chi era condannato a morte. Una tunica di buona fattura non andava sprecata: conveniva che fosse uno solo ad averne beneficio. Basterebbe questo ragionamento del tutto umano per non dare troppo rilievo al richiamo. Eppure il grande diletto dei Padri della Chiesa per l’allegoria e la ricerca di significati, ne ha tratto un senso che ha poi attraversato tutta la storia della Chiesa e dell’indagine biblica. Agostino, a proposito, ragiona in questi termini: “Qualcuno si domanderà che cosa significhi la divisione delle vesti in quattro parti e il sorteggio della tunica. La veste (…), divisa in quattro parti, raffigura la sua Chiesa distribuita in quattro parti, cioè diffusa in tutto il mondo. E' per questo motivo che, altrove, il Signore dice che invierà i suoi angeli per raccogliere gli eletti (…) dalle quattro parti del mondo: oriente, occidente, aquilone e mezzogiorno. Quanto alla tunica tirata a sorte, essa significa l'unità di tutte le parti, saldate insieme dal vincolo della carità. (…) E' da questa totalità, indicata dal termine greco, che la Chiesa prende il nome di "cattolica". La sorte poi che cosa sta a indicare se non la grazia di Dio? (…) la sorte esprime il favore di tutti, dato che è nell'unità che la grazia perviene a tutti. E quando si tira a sorte non si tiene conto dei meriti delle singole persone, ma ci si affida all'occulto giudizio di Dio110”. Questo simbolismo era entrato con grande suggestione nei gesti sacri della settimana santa. A termine della Missa in coena Domini, a ricordo delle umiliazioni subite dal Cristo, e della sua spogliazione, uno ad uno venivano tolte le tovaglie (simbolo delle vesti del Signore) da ogni altare, e tutto veniva reso spoglio e disadorno, mentre echeggiava l’antifona gregoriana “Diviserunt sibi vestimenta mea111”. Fulcro di tutto l’impianto scenico è la grande croce, su cui pende con una certa signorilità il corpo del Cristo inchiodato (fotografia: XXXIV). E’ croce alta, ad indicare una maestà, una grandezza che non è solo fisica. Quel legno è “albero”, che ha radici profonde e fronde che ricercano altezze al di là delle realtà materiali. Questa croce così alta e solenne non ha volontà di racconto storico, ma di significato: il pensiero dei grandi commentatori della Scrittura trova ancora una volta in Agostino un bel brano di sintesi, quando spiega:

107 Sequenza gregoriana attribuita a Jacopone da Todi (XIII secolo) anche se controversa.; 108 Gv 19, 23-24 109 Cipriano, 2007, III-VI-VII. 110 Agostino, 2005, omelia 118 111 dal Salmo 22

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“Il fatto che tutto questo sia stato compiuto da uomini malvagi, non cioè dai seguaci di Cristo, ma dai suoi persecutori, non significa che non possa raffigurare qualcosa di buono. Che dire infatti della stessa croce, che anch'essa certamente venne fabbricata e inflitta a Cristo dai nemici e dagli empi? E tuttavia bisogna ammettere che in essa vengono raffigurate le dimensioni di cui parla l'Apostolo: larghezza, lunghezza, altezza, profondità”. E' larga nella trave orizzontale su cui si estendono le braccia del crocefisso, e significa le opere buone compiute nella larghezza della carità; è lunga nella trave verticale che discende fino a terra, sulla quale sono fissati i piedi e il dorso, e significa la perseveranza attraverso la lunghezza del tempo sino alla fine; è alta (…) poiché tutto quanto noi facciamo in larghezza e lunghezza, cioè con amore e perseveranza, deve tendere all'altezza del premio divino. E' profonda, infine, in quella parte della trave verticale che viene conficcata in terra; essa è nascosta e sottratta agli sguardi umani, ma tuttavia da essa sorge e si eleva verso il cielo la parte visibile della croce: significa che tutte le nostre buone azioni e tutti i beni scaturiscono dalla profondità della grazia di Dio, che sfugge alla nostra comprensione e al nostro giudizio112”.

Ancora una volta la scelta allegorica riesce a dare senso anche a ciò che può sembrare materialmente povero o semplicemente descrittivo. Ma nel grande brano della morte del Cristo convergono anche passioni che trovano radice nel sentimento, nella ritualità, nel modo di rivivere e celebrare queste memorie. Il solenne inno del Venerdì Santo lo ribadisce con forza e insistenza quasi enfatica, nei versi che – resi in italiano – così recitano: “O Croce di nostra salvezza, /o albero tanto glorioso, /un altro non v’è nella selva, /di rami e di fronde a te uguale./Per noi dolce legno, che porti /appeso il Signore del mondo”113.(…) Or piega i tuoi rami frondosi, / distendi le rigide fibre, / s’allenti quel rigido legno / che porti con te per natura; / accogli su un morbido tronco / le membra del Cristo Signore”.

Di fianco al Cristo, a destra e a sinistra, due angeli, con gesto liturgico raccolgono in calici d’oro il sangue che sgorga dal corpo ferito di Gesù, così come da una fonte, perché non vada disperso, sprecato, perduto. Innalzati su due pali più grezzi, spogli e bassi, che non presentano la vitalità e le nervatura fresche della croce centrale, pendono i due ladri (fotografia: XXXIII A; B) che secondo il racconto del Vangelo erano stati condannato a morire assieme a Gesù. Secondo il racconto degli evangelisti, uno dialogando con Cristo si pentì della vita viziata dal male; l’altro morì bestemmiando. Ecco dunque la resa in immagine di quanto raccontato: entrambi sono segnati e feriti dai patimenti – le gambe, in modo particolare, presentano larghi solchi nelle carni, date dalle funi con cui erano stati legati -; ma mentre quello di sinistra già esanime, presenta una anatomia distesa, serena, quello a destra si contorce – la muscolatura è tesa, vibrante – non potendo difendersi (poiché legato) da un orrendo demonio con le fattezze di creatura mitologica che gli ruba dalla bocca la rappresentazione allegorica della sua anima, e quindi gli toglie la salvezza. Sotto ai condannati, nel turbinio di presenze bibliche e cavalleresche, si scorgono riferimenti evangelici e creatività artistiche del pittore. Si scorge la canna con la spugna imbevuta d’aceto114; la lancia con cui viene aperto il costato del Cristo morto. Elementi che per tutto il racconto della Passione – soprattutto nello scritto di Giovanni – mettono in evidenza gli oltraggi e i patimenti di Gesù, divenendo però in seguito, nella memoria della sofferenza, elementi che pongono in risalto l’eroismo della morte di croce come gesto di sublime carità. Nella visione liturgica della morte come passaggio per una vita nuova, questi richiami all’umiliazione e al soffrire divengono strumenti di grazia; già nell’inno gregoriano proprio della settimana santa era uso cantare: “Ecco aceto, fiele, canna, sputi, chiodi, lancia; /il corpo mansueto è perforato /e ne scaturiscono sangue ed acqua; /la cui corrente lava /la terra, il mare, le stelle, il mondo115”.

112 Agostino, 2005, omelia 118 113 Venanzio Fortunato, Inno, sec.VI in MESSALE ROMANO, Venerdì santo, Passione del Signore 114 Gv 19, 29 115 Graduale Triplex, 1974, p. 43

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Nell’angolo che fa da raccordo al grande affresco di fondo e la parete della sagrestia, dove nel basso è affrescata la teoria degli apostoli, è posto – come fosse stato aggiunto, una figura di santo che sembra poter essere identificata con l’Evangelista Giovanni. Gianfrancesco sembra aver scelto di non metterlo sotto la croce a ricevere la consegna della Chiesa nella figura della Vergine, pronunciata dal Cristo agonizzante. Posto qui, rivolto verso i fedeli, col libro in mano, sembra dare figura al suo stesso versetto evangelico: “Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”116.

E’ garanzia che quanto è stato affrescato non è fiaba ma è la raffigurazione fedele dei testi dei Vangeli, che Giovanni ha raccontato dopo aver vissuto gli eventi che descrive. Per i fedeli deve essere motivo di certezza e di serenità: quanto contemplano è il contenuto della fede della Chiesa. La deposizione ne l sepolcro e la r i surrezione Sono poste in alto, nella parete di sinistra, nello spazio sotto la volta, affrontate. Puntualissime le citazioni di due stampe di Schongauer, che saranno ancor più fedeli nella riproposta di Castello d’Aviano, anche se meno brillanti e vitali da un punto di vista cromatico e di disegno. Nella prima: Cristo è deposto non in un sepolcro secondo le citazioni del Vangelo (scavato nella roccia), ma in una tomba dall’architettura rinascimentale, un monumento funebre, quasi un altare. Da quello stesso sepolcro, che un angelo s’appresta a scoperchiare con intraprendenza, esce il Risorto, secondo le classiche rappresentazioni del tempo: con una anatomia molto elegante, i segni della passione, la bandiera bianca della vittoria. Attorno a lui i soldati – in dettagliati abiti da armigeri quattrocenteschi – dormono; solo un paio di destano, colti da timore e stupore. Al di là della descrizione grafica, molto legata alla linea dei disegni d’Oltralpe e in sintonia con l’intero ciclo d’affresco, si ritiene opportuno compiere una riflessione. Nella fede cristiana il centro della dottrina è proprio questo episodio: Cristo risorge dalla morte, rimette ordine (cosmos, in dicitura greca) laddove il peccato dell’uomo (Adamo) aveva portato disordine (caos), il tutto letto in una chiave di significato teologico e dogmatico di misericordia, riconciliazione, redenzione. Eppure a questo fatto salvifico, a questo nodo centrale della religione, è assegnato – fra tutti – un posto davvero modesto: in alto, chiuso dall’angolatura della volta che scende nel pennacchio, poco visibile, raccontato con iconografia molto accademica, statica, solenne – senz’altro – ma sobria. E’ evidente che si preferisce dare tutto il risalto alla morte in croce. L’amore eroico del Cristo lo si riconosce – secondo l’impostazione iconologica del ciclo d’affresco – sulla croce: morto. E per quanto la Chiesa si sforzi di ribadire che il senso è un unitario (morto e risorto, in un unico grande evento di memoriale e di azione liturgica) il sentimento sente una devozione più forte nell’affetto alla croce, esperienza incarnata nel dolore umano. In questo non si può non leggere la realtà del tempo: il popolo che vive la fatica vede con occhio più pulito il proprio Dio identificato nel Gesù che muore. La fede di chi soffre si identifica nella fede di chi ha sofferto e ora vive in eterno, promettendo la stessa possibilità di vita nuova. Qui nasce la speranza, nella concretezza.

116 Gv 19, 35s

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6. Il giudizio La fascia più bassa di questa parete – spezzata in due dalla presenza della vetrata - è dedicata al racconto del giudizio, del premio per giusti e del castigo per i dannati. E’ un tema molto caro alla spiritualità del Medioevo, presente con grande facilità nelle controfacciate o addirittura in facciata di grandi edifici sacri. L’affresco è mortificato sia dalla presenza di una nicchia aperta per collocarvi le ampolline necessarie al servizio all’altare, sia da ampie lacune, dovute in parte alla presenza della paglia tritata presente nell’impasto che trattiene l’umidità e nel tempo ha provocato il distaccamento di larghe porzioni d’affresco. L’iconografia richiama fortemente l’affresco di Barbeano, anch’esso del resto ferito ampiamente da perdite. Sulla destra, una grande porta si apre nella muratura della Città Santa, la Gerusalemme del cielo. La tinta data è quella dell’oro117, come riferisce il libro dell’Apocalisse. Ai lati dell’arco della grande porta sono posti angeli con grandi trombe, raffigurati secondo quanto scrive sempre l’Apocalisse, e che trova poi riscontro anche nella melodia gregoriana della Messa dei Defunti, molto diffusa e conosciuta per tutto il Medioevo. Le anime – nude – dei beati, guidate da figure di angelo, sono accolte sul portale da Pietro e da Giovanni Battista, facilmente identificabili dai loro noti attributi iconografici. Poco di lato, accanto al fregio della finestra, è raffigurato un angelo che, sulla cima d’un monte, indica ad un giovine in abito quattrocentesco tutto quanto sta accadendo. La tradizione popolare lo indica come l’angelo custode; può però trattarsi verosimilmente di un ulteriore preciso riferimento al libro dell’Apocalisse, quando Giovanni annota, nel ricordo della sua visione apocalittica e profetica:

“L'angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme118”. Quanto raffigurato, dunque, non sarebbe uno stralcio del solito tema del giudizio, ma un preciso racconto dell’Apocalisse. E si spiegherebbe, di conseguenza, il macabro riferimento che lì a fianco trova immagine nel racconto dei dannati, con il versetto “…ma per i vili e gl'increduli, gli abietti e gli omicidi, gl'immorali, i fattucchieri, gli idolàtri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. È questa la seconda morte…119", in opposizione ai beati che stanno già entrano nella Città Santa. Con buona probabilità, Gianfrancesco ripete qui, in questa fascia modesta alla base di tutto il racconto della salvezza, un frammento di quel tema di giudizio già rappresentato a Barbeano ma che, in larga parte, è andata perduto (o distrutto, a causa di una certa visione di moralità che nascerà di lì a poco).

I dannati ne l lo zocco lo ne l c i c lo pi t tor i co120 Nello zoccolo dietro l’altare, Gianfrancesco rappresenta con linea vibrane un susseguirsi di scene macabre – in parte, anche queste, oggi compromesse nella lettura, ma ancora capaci di mostrare singolari affinità di forma e di disegno con la pittura demoniaca tedesca e fiamminga dei secoli XV e XVI. Vi si può trovare anche il riflesso della stampa con cui Schongauer in forma fantasiosa racconta le tentazioni di Antonio abate, nel deserto, collocandolo in un nuvolo di figure demoniache che lo trasporta e lo tormenta: creature dalla muscolatura di bestie, con artigli e becchi, ali di pipistrello, lineamenti che molto richiamano lo stile nordico di raccontare il male e la dannazione (fotografia: XXXV). E’ un ambito, questo, che desta una certa curiosità e lascia aperti interrogativi affascinanti. Il tema ha un rapporto col vicino brano tratto dall’Apocalisse: il soggetto medievale del giudizio finale nella predicazione, soprattutto davanti all’immagine del Cristo crocefisso, era consueto, anzi, canonico. 117 Ap 21, 18: “…la città è di oro puro…” 118 Ap 21, 10 119 Ap 21, 8 120 Marchetti, 1953, pp. 163-169

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Davanti alla morte del Signore, veniva suscitato il pentimento del peccato – redento da quel sangue –, per meritare l’ingresso nella vita eterna; al contrario esisteva la pena degli inferi coi loro tormenti. Non stupisce, quindi, che vi sia rappresentato un brano d’inferno per impressionare i fedeli: stupiscono le modalità, lo stile, le scelte. La visibilità è limitata; i disegni sono solo abbozzati, come se fosse stata compiuta soltanto la sinopia – ma così non è, perché si tratta già di un affresco finito, sul quale è tratteggiato un apparente bozzetto. Più che un tema di giudizio vero e proprio, sembra uno scorcio senza sfondo di un luogo di dolore, popolato senza armonia da figure capaci di suscitare impressione e tremore, simile a quelle della stampa citata: uno scheletro umano con l'arco ancora teso in mano; un giovane cavaliere sgozzato; turbe di diavoli sproporzionati, magrissimi e alti, senz’ali, con teste di lupo, di bestia feroce e bifronte; corna caprine, gambe secche di uccelli rapaci, lunghe code da drago. Un popolo segnato dalla paura attende di essere afferrato, dietro un recinto di corna, di orecchie aguzze, di grinfie: qualcuno, già spinto in avanti alla rinfusa, cerca di stringersi ad altri, di trovare conforto. Da un punto di vista di tematica, ma soprattutto di stile – e di scelte iconografiche - non si possono semplicemente citare le note tradizioni italiane in merito, che attingono alla profondità della Commedia dantesca, alla Babilonia Infernale di Giacomino da Verona, o ad altri esempi classici del genere; d’altra parte sembra troppo audace richiamarsi già al surrealismo sfrenato di Hieronymus Bosch, di Pieter Brügel il Vecchio, di Mandyn, di Huis, di Grünewald. Eppure non è scorretto ritenere che ci si trova sensibilmente vicini: ci sono senza dubbio scene che presentano analogie - di contenuto, non di forma - così palesi con queste di Provesano, da non potersi facilmente considerare del tutto casuali. Probabilmente anche in questo caso visione e studio di disegni nordici hanno suscitato in Gianfrancesco la volontà di copiarne le macabre fantasie. Nella sensibilità dei mistici e dei pittori teologi nordici, come nella più pura letteratura classica – soprattutto greca - il bello si identifica con il buono, e con il vero: perciò la tentazione non si presenta mai - come invece si sceglie di fare nell'arte italiana del tempo – secondo canoni di seduzione. Se una forma di seduzione vi si trova, questa si fonda sul fascino del macabro, dell’orrendo, di ciò che spaventa e colpisce la mente, marcandosi nella memoria, per destare – anche nel ricordo – senso di disagio e di inquietudine. Si può affermare che per certi versi vengono attuate quelle stesse dinamiche che Salvatore Settis mette in luce per ciò che riguarda meraviglia davanti alla bellezza e a ciò che è “strano”, “diverso”; e per quanto riguarda poi la memoria stessa. Lo scopo che il fedele possa essere spaventato da ciò che vede rappresentato nella chiesa, soprattutto nel Nord Europa, dove all’immagine si accompagna sempre più ad una forte arte predicatoria, mira a suscitare lo spavento per ciò che è male, che prende il nome di peccato, e che mostra le sue conseguenze: più il fedele trema, più è indirizzato al pentimento e ad una sana scelta di vita. In questo sarà forte la predicazione di Lutero: una fede fondata sulla paura. Diventa difficile poter dire con sicurezza se Gianfrancesco abbia avuto modo di conoscere di persona qualcuno dei pittori mistici tedeschi, svizzeri o fiamminghi suoi contemporanei; resta plausibile l’ipotesi che abbia potuto vedere i lavori di quelli della generazione precedente; certamente si ha dato oggettivo che conosceva e ha voluto riprodurre opere a stampa presumibilmente reperite a Venezia. Non ci sono fonti, però, per poter ritenere con buona garanzia se questo suo unico brano di pittura “demoniaca” possa essere sufficiente per svelare se avesse compreso l'intimo spirito delle loro rappresentazioni e le fonti, spirituali e mistiche che vi si nascondo dietro.

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7. Riflessioni sul carattere nordico dello stile di Gianfrancesco a Provesano. Se ne parla con chiarezza, e facendo una brillante sintesi di buoni nomi di uomini di arte, in uno scritto di Marini, pubblicato sotto il titolo “Arte veneta e arte nordica in Gianfrancesco da Tolmezzo”121. Si scrive che “la componente teutonica (…) è una costante. (…) si osservi la linea angolosa e spinosa, il panneggio accidentato e contorto, quel realismo caricato, le figure spezzate in due, colori contrastanti e urtanti, rudezza amata come forza”.

Viene persino detto che

“nessuno dei carnici, dei friulani, nessuno persino dei minori veneti”

può annoverare un linguaggio così particolare, dove il colore veneto (lingua intimamente compenetrata di padovanismo) riesce a declinarsi in una così rude - anzi: “rustica” – teutonicità. Si rileva con serenità che va accettato il fatto di poter leggere nell’opera di questo pittore carnico, la capacità di dialogo forte – non senza qualche fatica – del patavinismo rustico con la flessione nordica: e tutto ciò – si dice nel saggio – con coerenza e costanza. Ma si ammette che a Provesano la “parlata gotica diventa violenta”, e ciò rappresenta un distacco del tutto eccezionale dall’intera produzione. Gli affreschi cantano il racconto della Passione con un “tedeschismo così caricato ed espressionista da non trovare analogie (…) in tutta la pittura italiana”. Queste scelte – come si è visto nella descrizione delle scene – hanno radice concretissima, che già Giuseppe Fiocco aveva intuito ed individuato, quando commenta “tanto aspro e violento è il loro deformismo, così teutonica è la tipologia della gran parte dei personaggi122”. Così Cavalcaselle aveva rilevato “volgarità nelle scene123”, criticando aspramente il “manigoldo che afferra Cristo per i capelli” e il gesto volgare dell’apostolo che si tura il naso per non percepire il fetore di Giuda. 8. Le sante martiri. Disegno ed iconografia con cui sono rappresentate rientrano nei canoni della tradizione e ciascuna delle giovani martiri è facilmente identificabile attraverso puntuali attributi. Da un punto di vista stilistico, si rileva con chiarezza ciò che si era visto in sant’Antonio: nel comporre i volti, alcuni davvero raffinati, quasi dei ritratti rinascimentali, Gianfrancesco ricorre alla tecnica con cui prima stende la tinta, uniformando i colori in modo da dare volume e calore, e poi con segno calligrafico disegna e definisce i lineamenti, dando espressione con una certa grazia. Stessa scelta anche per le acconciature, una diversa dalle altre, in cui ridisegna con fantasia modi nuovi d’intrecciare le chiome – fermate da diademi o corone, anche floreali – o di lasciar cadere con libertà e volume i boccoli sulle spalle delle fanciulle. Sono tutte martiri, e ciascuna porta in mano la palma, segno di vittoria che trova radice biblica nell’Apocalisse124: coloro che sono stati sconfitti agli occhi del mondo e della storia, in uno sguardo di fede hanno vinto, perché hanno conquistato il premio vero: la salvezza. A Barbeano, le figure bibliche del sottarco avevano un risvolto teologico: per entrare nell’esperienza del sacro, comprenderla e viverla, era necessario accostarsi da penitenti e convertiti.A Provesano i messaggi sono molto più concreti, e mirano a rispondere a domande immediate e legittime di un popolo che ha fame e bisogni materiali, che ricerca serenità di vita. Tutte queste figure di sante, di grazia contadina, sono legate alla vita semplice della terra e ad una protezione da malattie diffuse, carestie frequenti. Alcune sono prese dal Canone Romano della Messa; altre dal culto dei santi ausiliatori125.

121 Marini R., 1955, p. 62 122 Fiocco, 1943, pp. 16 - 18 123 Cavalcaselle, 1876, p. 124 Ap, 7,9: “Dopo queste cose guardai e vidi una folla immensa che nessuno poteva contare, proveniente da tutte le nazioni, tribù, popoli e lingue, che stava in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, vestiti di bianche vesti e con delle palme in mano”. 125 Fu una devozione tipicamente tedesca, diffusa nel XV secolo, ma abolita – poiché teologicamente infondata - da Paolo VI nel 1969.

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Orsola Non è molto frequente veder rappresentata sant’Orsola nelle chiese di questa parte del Friuli. Ma va ricordato che Gianfrancesco proveniva da Tolmezzo, e non è impensabile che avesse già potuto ammirare lo splendido ciclo d’affresco (del primo ventennio del 1300) di Vigo, in Cadore, in cui con grande eleganza è raccontata la vicenda e il martirio di questa giovane nobile e delle undici (divenute per errore undicimila) compagne martiri. Orsola visse probabilmente nel IV secolo. Una Passio del X secolo, la presenta giovane, bellissima, figlia di un re bretone, che accettò di partire per un viaggio incontro allo sposo – pagano – a condizione ch’egli si convertisse alla sua fede. Partì con 11.000 vergini (dieci in realtà, divenute così numerose per l’errore d’un monaco nello stilare il numero romano di riferimento) ma l'incontro con gli Unni di Attila provocò il loro martirio (secondo la leggenda), avvenuto molto più probabilmente sotto Diocleziano (da un punto di vista storico)..Margher i ta di Antiochia Nata ad Antiochia di Siria nella seconda metà del III, secondo la trazione muore martire intorno al 305. E’ voluta tra le sante qui dipinte - molto probabilmente - per il suo ruolo di patrona dei contadini (riferimento rilevante per un popolo che vive d’agricoltura), delle partorienti (in un contesto storico dove morire di parto è frequente). E’ curioso ammirare come nell’affresco Margherita abbia – come attributo iconografico - un piccolo drago accovacciato in grembo, e come si gli relazioni con disinvoltura, quasi fosse l’agnello che porta in grembo Agnese, o un animale domestico, come nei ritratti del Rinascimento. Il riferimento alla figura mitologica nasce dalla credenza che alla fanciulla prigioniera fosse apparso un drago per sbranarla, che ella fece fuggire compiendo il segno della croce. In altri racconti è detto che il drago la divorò, ma ella ne squarciò il ventre uscendone viva e vittoriosa (allusione alquanto creativa al profeta Giona ricettato dal ventre del pesce, riferimento biblico-allegorico alla risurrezione di Cristo. Apollonia Figura per lo più sconosciuta nel culto contemporaneo, ebbe invece grande rilievo nell’iconografia e nella religiosità antica, soprattutto medievale. Il suo martirio – a differenza di altri, molto adombrati nella leggenda - è riportato dallo storico Eusebio di Cesarea, che nella sua “Historia Ecclesiastica” scritta nel terzo secolo, riferisce di alcuni episodi dei quali era stato testimone diretto. Nel 248 ad Alessandria d’Egitto, a seguito di una sommossa popolare contro i cristiani, infuriò una feroce persecuzione. In questo contesto di violenza, fu catturata anche Apollonia, rappresentata nell’iconografia sacra - come tutte le sante vergini - in giovane età, ma definita da Eusebio come “parthenos presbytès”, vergine anziana. Con violenza le colpirono le mascelle facendole uscire i denti, anche se la tradizione descrivo il suo martirio praticato con crudeltà e pazienza meschina nel cavarle ad uno ad uno i denti con una tenaglia, immancabile distintivo iconografico nella sua raffigurazione artistica. Il suo martirio fu per secoli motivo di dibattito. Fu detto infatti che, acceso un rogo fuori la città, la minacciavano di gettarcela viva, se non avesse bestemmiato Dio. Apollonia con astuzia chiese di essere per un momento sciolta dalle catene, e fuggendo alla sorveglianza delle guardie si getto da sola tra le fiamme, pur di non commettere peccato grave. Molti padri della Chiesa, tra cui Agostino126 stesso, s’interrogano sul limite che esista tra il suicidio e l’atto eroico che le veniva riconosciuto.

126 Agostino nel “De civitate Dei”, si chiede se è lecito darsi volontariamente la morte per non rinnegare la fede; egli dice: “Non è meglio compiere un’azione vergognosa, da cui è possibile liberarci col pentimento, più che un misfatto che non lascia spazio ad un pentimento che salvi?”. L’interrogativo rimane posto nella sua riflessione, senza trovare chiarimento.

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E’ collocata tra le altre sante per essere patrona di tutti quei mali che ferivano la bocca e i denti. E’ legata anche alla chiesa di Barbeano, in cui Gianfrancesco già aveva lavorato, essendo – con Antonio abate – patrona. (fotografia: XXXVII, C) Lucia E’ una delle sette donne menzionate nel Canone Romano. Fanciulla della città di Siracusa, la Chiesa la venera vergine e martire, credendola morta sotto la persecuzione di Diocleziano del 304. Gli atti del suo martirio raccontano di torture atroci inflittele dal prefetto Pascasio. Proprio nelle catacombe di Siracusa, le più estese al mondo dopo quelle di Roma, è stata ritrovata un'epigrafe marmorea del IV secolo che è la testimonianza più antica del culto di Lucia. Una devozione diffusasi molto rapidamente: già nel 384 il vescovo Orso le dedicava una chiesa a Ravenna; Onorio I – di lì a poco - una a Roma. Nell’iconografia sacra Lucia reca sempre su un piccolo vassoio o in un calice i suoi occhi. E’ improprio però dire che – come per Apollonia, o per altre vergini martiri – quest’attributo che la identifica e la rende riconoscibile ai fedeli, nasce dal racconto del martirio. Dietro queste scelte, ci sono criteri molto complessi, spesso difficili da comprendere con chiarezza. In epoche in cui per rendere comprensibili le raffigurazioni dei santi, non potendo affidarsi ai lineamenti dei volti e dei corpi – com’è ovvio invece per l’arte fotografica dei tempi moderni - gli artisti attingevano con intelligenza alla letteratura agiografica, il cui riferimento più conosciuto era la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, fonte creativa di gran parte dell’iconografia religiosa. In quello scritto, ciò che riguarda Lucia è preceduto da riflessioni su valenze etimologiche e semantiche relative all’accostamento del suo nome proprio con la realtà della “luce”, che nel Vangelo è ricca di riferimenti e significati. E’ certo comunque il fatto che nell’opera di Gianfrancesco, Lucia riveste il ruolo di patrona della vista, e di quanti la invocano per ottenerne protezione. (fotografia: XXXVII, B) Agata Come per Lucia, anche per Agata è aperta la riflessione se questo nome sia quello proprio della fanciulla catanese morta nel 251, o se è quel nome che le è stato dato dalla comunità dei credenti, dopo morta, cogliendolo dalle sue virtù (Agata, dal greco, significa semplicemente “buona”). La sua vita ha buoni riferimenti storici. Nacque nei primi decenni del III secolo in una ricca e nobile famiglia di fede cristiana. Giovanissima si consacrò a Dio. Gli atti che la riguardano hanno lo stesso schema già presente in altre Passio: tentativi di seduzione non corrisposti da parte di un proconsole; processo e torturata nelle quali Agata dimostra nobiltà d’animo e fortezza; gesti di crudeltà e furore da parte dei soldati - le fece strapparono i seni con enormi tenaglie – che dopo averla martoriata la lasciarono morire in carcere. Il suo nome è nell’elenco del Canone Romano. (fotografia: XXXVII, A) Maria Maddalena Per tutta l’antichità ci fu confusione nel comprendere se la ragazza dal nome “Maria”, più volte presente nei Vangeli (di Magdala, sotto la croce, sorella di Lazzaro…) fosse la stessa persona o fossero figure diverse. San Gregorio Magno volle che si ritenesse che in tutti i passi evangelici era considerata una sola e medesima donna, identificandola e volendo celebrare la santa donna cui Gesù apparve dopo la Risurrezione. È questa la Maddalena che la Chiesa oggi commemora. Quando Gianfrancesco la affrescò, Maddalena era molto venerata come “penitente”, cioè come colei che dopo una vita dissoluta si era convertita, vivendo di grandi mortificazioni. Spesso era ritratta nuda, con lunghi capelli che la coprivano interamente per pudore. A Provesano le viene dato come segno iconografico il vasetto d’alabastro contenente profumo prezioso, in riferimento sia al Vangelo in cui la peccatrice lava e profuma i piedi a Cristo127, sia quello del mattino di Pasqua128. (fotografia: XXXVIII)

127 Lc 7, 36-38

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Agnese Romana, di una illustre famiglia patrizia cristiana, nata nel III secolo. Agnese, già consacrata a Dio, durante una persecuzione (non è possibile stabilire se quella del 251 di Decio o del 304 di Diocleziano) fu denunciata come cristiana dal figlio del prefetto di Roma, invaghitosi di lei ma respinto. Fu umiliata in ogni modo: esposta nuda al Circo Agonale, nei pressi dell'attuale piazza Navona, in un postribolo (dove Borromini le innalzerà la basilica). Dopo vari tormenti – avvolti da racconti leggendari - fu allora trafitta con colpo di spada alla gola, nel modo con cui si uccidevano gli agnelli. Per questo nell'iconografia è raffigurata spesso con una pecorella o un agnello, simboli del candore e del sacrificio: anche Gianfrancesco le pone l’affresca con l’agnellino in braccio. Anche in questo caso, il nome e l’aggettivo che qualificano la giovine si fondono fino a rendere difficile da comprendere se fosse quello suo vero, o se la Chiesa glielo assegna cogliendolo dal suo atteggiamento e dai racconti della Passio. Il nome compare nel Canone Romano. (fotografia: XXXVII, D) Rosa da Viterbo Beata (non è santa) storicamente ben identificabile. Nata a Viterbo nel 1233 da famiglia di modeste condizioni, a 17 anni entrò nell’ordine delle terziarie francescane. Visse esperienze di pellegrinaggio e scelte radicali di dura penitenza. Mentre si faceva intensa la guerra tra Guelfi e Ghibellini fu esiliata: tornò in patria dopo la morte di Federico II, ma la sua vita fu assai breve. Sulla sua morte - Viterbo, 6 marzo 1251 - non si sa praticamente nulla. Gianfrancesco, che probabilmente sceglie d’inserirla tra le sante per il suo forte esempio di carità, per la vita ascetica e di grande pellegrina, le consegna come attributo iconografico quello allusivo al suo stesso nome, una rosa, che le pone in mano e con la quale le intreccia in capo una corona. Barbara Nata in Nicomedia nel 273, e per questo “barbara”, cioè straniera, non romana. Tra il 286-287 Barbara fu Rieti, al seguito del padre Dioscoro, molto vicino all'imperatore Massimiano Erculeo: per questo motivo la sua conversione alla fede cristiana fu causa di attriti feroci col padre stesso, al punto di tentare la fuga, finendo comunque incarcerata (in quella torre che Gianfrancesco sceglie come richiamo iconografico alla sua prigionia) dal prefetto Marciano. Durante il processo che iniziò il 2 dicembre 290 Barbara difese il proprio credo: fu torturata in modo doloro e umilante, come spesso avveniva nei confronti delle giovani credenti. Il 4 dicembre, infine, fu decapitata con la spada dallo stesso Dioscoro. La tradizione invoca Barbara la morte improvvisa: per i moribondi, con buona probabilità, è collocata tra le sante di Provesano. Il suo essere patrona di altre categorie di persone e di mestiere viene molto dopo, nella storia. (fotografia: XXXVI) Cater ina d’Alessandria La ruota dentata – strumento della sua tortura – identifica sempre con grande puntualità la bella diciottenne cristiana, figlia di nobili, abitante ad Alessandria d'Egitto, città nella quale nel nel 305, arrivò Massimino Daia, nominato governatore di Egitto e Siria. Negli stessi festeggiamenti per il suo arrivo, Caterina rifiutò di compiere sacrifici all’imperatore. La condanna fu una morte orribile: una grande ruota dentata fece strazio del suo corpo. Secondo la leggenda, sopravvissuta miracolosamente alle sevizie, fu poi decapitata. Il riferimento alla ruota, nell’Occidente medievale le valse il titolo di patrona dei mugnai. In questa veste fu raffigurata a Provesano.

128 Gv 20,11-18

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7. Riflessioni di sintesi. Nel progetto completo questa rappresentazione iconografica può essere buon esempio di una prospettiva che è tipicamente catechetica, oltre che teologica, e vive di una dimensione unitaria. Spesso, infatti, è difficile, dalla lettura e dallo studio del testo sacro, cogliere il senso d’insieme di una particolare vicenda della vita di Cristo: il racconto, nei diversi autori, viene frazionato in frammenti, in volontà diverse di mettere in evidenza un particolare fra tutti gli altri, privilegiando alcune scene a scapito di altre, valorizzando una parola e tralasciandone altre, a seconda delle sensibilità personali. Ma quando la parola scritta diventa immagine, l'artista si trova a dover compiere un lavoro di sintesi dell'evento. Questo accade nei grandi della storia dell’arte, e nelle esperienze più semplici: il racconto sacro, narrato a più voci - spesso ripetuto secondo alfabeti diverse - appare difficile da riassumere; l’abilità dell’artista sta nel concepire un'immagine che non rispecchi un solo versetto biblico, ma che sia capace di ricrearlo – senza falsarlo – rivestendolo persino di un'interpretazione: spesso diventa opera commentaria, impastata di sentimento, toccante – all’occhio devoto – più di uno studio scientifico, più di un’omelia. Questa esperienza è particolarmente rispondente alla catechesi: si ha come fine della formazione uno sguardo educato del credente; la sottolineatura delle diverse sfumature e scelte lessicali, l’attenzione del dettaglio grammaticale, sono invece tipiche di studi accademici e scientifici. Questa osservazione consente di mettere in luce come l'iconografia sia capace di fissare la perenne validità e vitalità della ri-presentazione dei “misteri” di Cristo o della storia della salvezza. Ci viene mostrato con franchezza: per il catecumeno di ogni tempo, per il fedele sprovveduto di ogni minima nozione di cultura, non è importante l’indagine che si può fare sulle profondità delle parole e sulle radici semantiche, quanto piuttosto il messaggio totale di quello che gli viene raccontato. Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica 129 ripropone quanta attenzione e cura debba esser data ai “misteri”, perché nell’esperienza del “racconto” è data l’efficacia dell’annuncio, non affidato a dogmi o a concetti. Questo il testo di riferimento: “Il Simbolo della fede, a proposito della vita di Cristo, non parla che dei misteri dell'incarnazione (concezione e nascita) e della Pasqua (passione, crocifissione, morte, sepoltura, discesa agli inferi, risurrezione, ascensione). [...] La catechesi, secondo le circostanze, svilupperà tutta la ricchezza dei misteri di Gesù130”.

Come a Provesano, così nella storia delle immagini in genere – soprattutto quelle sacre - la rappresentazione artistica non solo obbliga a considerare unitariamente i singoli eventi della rivelazione raccontati nella Bibbia, ma anche li struttura frequentemente in cicli ed in programmi iconografici armonici, invitando a considerare in unità pure l'intera storia della salvezza. A suo modo, la rappresentazione iconografica ripropone, infine, la forte relazione che esiste tra tradizione e Scrittura. Il loro rapporto è stato messo in luce più chiaramente dal documento conciliare Dei Verbum: esse sono necessarie l'una all'altra per manifestare la pienezza della parola di Dio. In questi versi emerge che alla comprensione della parola non può bastare l'esegesi, proprio perché la rivelazione va oltre il testo della Bibbia. L'uomo attende la “visione”: Dio stesso la offre, donando all'uomo il suo Figlio nella carne.

129 “Questi testi del magistero sono il retroterra della valutazione dell'allora cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger, nell'introduzione al Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica per cui egli stesso aveva scelto un corredo d'immagini di varie epoche e culture. Si diceva che “gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza”; il ruolo dell'arte veniva definito come “un indizio... di come oggi più che mai, nella civiltà dell'immagine, l'immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico”. Dall’ L'osservatore Romano, edizione quotidiana del 30 ottobre 2009. 130 Catechismo della Chiesa Cattolica, 512 - 513

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Il registro della Scrittura si coniuga qui con il registro dell'immagine, mentre la rivelazione stessa di Dio supera l'una e l'altra. La tradizione, della quale l'iconografia fa parte, esiste per offrire ciò che la Scrittura non potrebbe mai dare, anche se la si leggesse infinite volte. In maniera suprema la Chiesa porge la pratica dei sacramenti quando il sacerdote in persona Christi ripete parole, gesti, riti e mette in relazione Dio con l’uomo attraverso la percezione dei sensi, realtà tangibili che mille letture dei racconti non potrebbero offrire. Ma anche nella raffigurazione artistica è la stessa parola di Dio che risuona e che è capace di offrirsi non solo all'udito dell'uomo, ma anche alla sua contemplazione, perché egli la possa assaporare e godere per ricevere da essa un significato particolare.

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