Unione dei Comuni - percorso europeo e italiano
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Università Telematica e-Campus
Facoltà di Giurisprudenza
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
Le Unioni dei Comuni nel sistema europeo
Relatore: Prof. Sergio Marullo Di Condojanni
Tesi di Laurea di:
Alessandro Lucibello Piani
Matricola nr.002007727
Anno Accademico 2013/2014
INDICE
1. Prefazione
1.1 Scopo e obbiettivo dello studio pag.1
1.2 Metodologica applicata pag.2
2. I principali sistemi europei locali nei territori di tradizioni “civil law”
2.1 Enti Locali pag.3
2.2 Francia
a. percorso storico pag.6
b. la costituzione francese pag.9
c. situazione attuale pag.11
d. enti locali pag.14
e. IMC pag.15
f. dipartimenti pag.19
g. regioni pag.19
h. risorse Umane pag.20
i. criticità e successi pag.22
2.3 Germania
a. introduzione pag.30
b. percorso storico pag.33
c. governo locale pag.35
d. situazione locale pag.38
e. fondazione Bertelsman pag.40
f. la governance tedesca pag.44
g. il rinnovamento della politica dal basso pag.47
h. suddivisione degli enti locali pag.49
i. ordinamento comuni pag.52
l. unioni e circondari pag.54
m. riordino pag.56
n. conclusioni pag.58
2.4 Italia
a. percorso storico pag.62
b. periodo repubblicano pag.65
c. l’autonomia locale fino agli anni 90 pag.67
d. verso il Tuel pag.71
e. riforma del titolo V della Costituzione pag.74
f. le unioni di comuni pag.77
g. situazione attuale pag.79
h. i comuni oggi pag.83
l. l’esempio toscano pag.85
i. conclusioni pag.102
Bibliografia pag.105
1. Prefazione
1.1 Scopo e obbiettivo dello studio
Nel panorama italiano delle riforme amministrative degli ultimi vent’anni
emerge, ad oggi, il mancato raggiungimento degli obbiettivi annunciati oltre ad
una grande confusione sia per i mezzi normativi scelti che per le modalità con cui
sono stati coinvolti i diretti interessati (amministratori e dipendenti pubblici
locali). Per tali motivi è sembrato utile un breve percorso comparativo con quegli
Stati Europei a noi più vicini sia per la comune storia del diritto amministrativo
(Francia) sia per l’attuale peso nella Comunità Europea (Germania). Focalizzate
le situazioni e le esperienze francesi e tedesche passiamo ad analizzare la
situazione italiana ripercorrendo l’esperienza di cinque piccoli comuni Toscani
che, ligi al rispetto delle norme e delle riforme, si sono subito gettati
nell’applicare le riforme rispettando un obbligo formale che con il passare del
tempo, viste le continue incertezze, le modifiche normative e le proroghe dei
termini, sono state causa di confusione e appesantimenti dei processi, rendendo di
fatto impossibile il raggiungimento dell’obbiettivo prefissato.
Quello che storicamente stanno vivendo i Comuni in Italia è un processo iniziato
negli anni ’60 quando apparve evidente che le piccole autonomie locali non erano
più in grado di essere competitive nell’erogazione di servizi i cui parametri
qualitativi e quantitativi crescevano continuamente. La crescente professionalità
richiesta ai pubblici dipendenti per svolgere le funzioni, la specializzazione
obbligata a fronte di una crescente difficoltà nel districarsi tra le tante norme
2
erano problemi evidenti e su cui un piccolo Comune non era assolutamente in
grado di intervenire da solo, atteso che le sue economie di scala non
permettevano di ammortizzare adeguati interventi che richiedevano investimenti
e costi elevati. Non si deve neanche dimenticare, sebbene non sia materia di tale
scritto, come le migrazioni degli anni ’50-’70 dalle campagne ai grandi centri
abitati abbiano contribuito a ridurre i cittadini su cui suddividere i nuovi costi,
evidenziando ancora di più le loro difficoltà nel gestire l’aumentata complessità
tecnica della gestione dei Comuni a cui spesso si sono aggiunte nuove
competenze trasferitegli dallo Stato Centrale. Le profonde mutazioni sociali, la
ridefinizione dei rapporti tra enti confinanti dovuto alla crescente mobilità dei
cittadini, i principi dell’economia di mercato sempre più invadente, l’aumentata
concorrenza con la scomparsa delle tutele localiste per l’ingresso nel mercato
unico europeo, sono sfide ancora oggi non superate dai nostri enti locali.
1.2 Metodologica applicata
Questo breve trattato, partendo dai percorsi messi in atto nei diversi territori
europei presi ad esame, vuole evidenziare quali siano stati i punti di debolezza e
di forza di ciascuno senza tralasciare il punto di vista dell’architettura normativa
e senza perdere di vista anche un approccio sociologico, pur chiarendo che non si
tratta di uno studio sociologico.
Le Istituzioni, con le norme di diritto, definiscono i confini dei comportamenti
sociali legittimi, e con esse influenzano la percezione, le scelte e le strategie degli
attori. Nel contesto delle inter municipalità, ad esempio, presumiamo che gli
attori pubblici e privati siano razionalmente orientati verso un obbiettivo preciso
3
seguendo e applicando le regole del gioco prestabilite. Rilevanti pertanto sono sia
i formanti normativi che quelli sociali relativi all’orientamento delle politiche di
cooperazione sia per come sono rappresentate all’interno delle norme vigenti, sia
per come vengono rappresentate, e percepite, nella realtà quotidiana. I fattori
sociali, economici, demografici, culturali e dello sviluppo tecnologico influiscono
su livelli diversi:
-Nel contesto Istituzionale delle norme vigenti sia a livello Europeo che
Nazionale e poi della specifica normativa della cooperazione intercomunale;
-Nel disegno istituzionale della cooperazione per il grado di cooperazione
previsto e per le modalità di rappresentanza politica prevista;
Infine , non meno importanti, sono gli effetti reali e percepiti dai cittadini sui
servizi erogati e misurabili in termini di Efficacia, Efficienza e Democraticità.
Un altro elemento da tener presente è la comune origine storica del sistema
amministrativo italiano e francese. L’origine Napoleonica dell’impianto
amministrativo fa si che si evidenzi spesso un rapporto antagonistico nelle
relazioni Stato-Società con un fondante legale-tecnocratico, situazione diversa
dai paesi dell’area Germanica dove la relazione Stato-Società è molto più
organica e fondata su una policy legale-corporativistica.
2. I principali sistemi europei locali nei territori di tradizioni “civil law”
2.1 Enti locali
La posizione degli enti locali si può considerare centrale nella storia della
pubblica amministrazione europea e se ne ha la conferma con il frequente
4
riconoscimento a livello costituzionale (1831 Francia – 1948 Italia – 1949
Germania). Questo però non deve ingannare perché se è vero che tutti gli Stati
Europei hanno sottoscritto la Carta Europea delle autonomie locali1, di fatto le
differenze tra le architetture amministrative sono molto più evidenti delle
similitudini.
Ad esempio il numero medio di popolazione per un Comune Francese è di 1600 e
oltre il 75% dei Comuni Francesi hanno meno di 1000 abitanti. Completamente
diversa la situazione in Gran Bretagna dove la media di abitanti raggiunge i
130mila. In Italia la media è di circa 7500 abitanti per Comune mentre in
Germania per 11.334 Comuni abbiamo mediamente 7.213 abitanti.
Una possibile classificazione delle diverse architetture amministrative parte da
due concetti opposti:
- Un governo locale inteso come una comunità che partecipa alla vita e alle scelte
politiche;
- Un governo locale meramente inteso come erogatore di pubblici servizi vicino al
consumatore;
Nel Sud Europa (Francia-Italia- Spagna) è preponderante il concetto di comunità
che partecipa alla organizzazione politica dell’ente, nel Nord Europa (Norvegia,
Danimarca e Svezia) è preponderante il concetto di governo locale inteso solo
come erogatore di servizi. Le divere visioni hanno effetti anche sulla suddivisione
della spesa pubblica, si noti che nel sud Europa la spesa dei Comuni non supera il
1 ETS 122 – Local Self-Government, 15.X.1985 - La Carta europea dell’autonomia locale è stata proposta dalla Conferenza dei
poteri locali e regionali del Consiglio d'Europa nel 1981 e, dopo un lungo negoziato, poi aperta alla firma degli stati membri del
Consiglio d’Europa il 15 ottobre 1985. È stata firmata da tutti gli stati membri del Consiglio
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15% della spesa nazionale complessiva, mentre nel nord Europa arriviamo al 40%
del totale2.
Anche il principio di tutela delle autonomie locali non è inteso e applicato
uniformemente, emergono diverse modalità applicative sia del principio di tutela
sia per i diversi tipi di autonomia previsti. Se in Germania gli enti locali si
relazionano con i governi regionali e non con il governo centrale in Spagna
esistono divere categorie di municipalità. La previsione normativa francese ,
inserita nella costituzione, che i comuni hanno una competenza generale ha avuto
un impatto molto limitato nella realtà almeno fino a quando le decisioni locali
erano soggette alla supervisione amministrativa e le riforme del 1982, come
vedremo in seguito, pur avendo rafforzato l’autonomia dei comuni hanno fatto
emergere anche il limite nell’esercitarla per mancanza di competenze e risorse
appropriate.
Se i paesi nordici sono riusciti in forme di aggregazioni territoriali consistenti, nel
sud dell’Europa le resistenze sono state (e sono) notevoli ma le aggregazione
inter-municipali sono un fenomeno che, seppure in modo diverso per importanza e
grandezza, ha coinvolto tutta l’Europa occidentale.
I motivi per cui si è dato tanto peso alla cooperazione inter-municipale si possono
riassumere in questi elementi:
a.) Governance istituzionale per orientare gli enti al raggiungimento di economie di
scala soddisfacenti;
b.) Raggiungimento dei crescenti standard qualitativi dei servizi pubblici erogati al
minor costo possibile;
2 Page, E.C., & Goldsmtih (1987, pag. 157) Centre and locality: Explaining cross national variation
6
c.) Migliorare le procedure di esternalizzazione dell’erogazione dei servizi pubblici
riducendo lo spreco di denaro pubblico e rafforzare la capacità degli enti di
affrontare la sempre maggiore complessità del sistema economico;
d.) Mantenere intatta la presenza di un autonomia locale così come storicamente si è
formata e radicata nella cultura europea;
Come vedremo in seguito, uno dei problemi che emerge spesso, è il contrasto tra
la razionalizzazione della governance rispetto al mantenimento e alla
realizzazione dei valori democratici dell’autogoverno locale.
2.2 Francia
a.) Percorso storico
Per tutto il 19° secolo la Francia è stata impegnata nella riforme degli enti locali,
ossia la “décentralisation”. Essa è stata continuamente al centro del dibattito
politico amministrativo, ma non è sempre stato così. Storicamente la Francia ha
avuto percorsi di “centralizzazione” e “decentralizzazione” nel corso dei secoli,
basti pensare alle riforme attuate dal Cardinale Richelieu per portare il potere e il
controllo del territorio a Parigi, sotto il controllo del Re, combattendo quindi la
frammentazione allora esistente per cui ogni Provincia aveva Leggi e Statuti
propri che rispondevano a logiche di potere locale gestito dai possedenti fondiari
(allora i nobili) che impedivano alla neonata economia dei commerci di
svilupparsi. Nacque così la monarchia assolutistica francese, sull’equilibrio tra gli
interessi della nascente classe sociale dei commercianti sempre più influente e i
nobili proprietari terrieri. La rivoluzione del 1789, e subito dopo Napoleone
7
Bonaparte, fecero tavola rasa dell’allora vigente sistema e nacque una nuova
organizzazione dei “communes et départments” con statuti uguali su tutto il
territorio nazionale, sistema che è sostanzialmente sopravvissuto fino ad oggi ed
ha influenzato persino i territori non Francesi su cui Napoleone governò come
l’Italia dove, come vedremo, l’impostazione Napoleonica ha segnato il diritto
amministrativo fino ai giorni nostri. Per tali motivi non si può individuare nel
percorso francese un modello unico e le spinte centrifughe e centripete (autorità
prefettizia e assemblee locali) hanno caratterizzato la storia amministrativa
francese molto di più di quello che non si possa percepire da una prima lettura del
suo diritto amministrativo.
Avvicinandosi ai tempi nostri arriviamo all’anno 1970 quando in Francia, con
legge, si estendono le libertà dei municipi riducendo il potere dei Prefetti e, subito
dopo, inizia un operazione di riduzione del numero dei municipi incentivando la
strada delle fusioni. L’obbiettivo proposto non fu raggiunto, fallì clamorosamente
tanto che la riduzione si limitò a portare il numero di municipi da 38.600 a 36.600
avendo incontrato la forte opposizione sia da parte dei politici, che dei cittadini3 .
Solo dal 1982, grazie alla presenza di un Presidente appoggiato da una solida
maggioranza parlamentare, viene emanata una riforma che trasferiva il potere
amministrativo dei Prefetti al Presidente dei dipartimenti eletti dalle assemblee
ponendo fine al sistema Napoleonico e iniziando un susseguirsi di altri
trasferimenti di funzioni dallo Stato Centrale agli enti locali. Per rispondere
all’aggravio di attività amministrativa dovuta alle nuove funzioni sono nati gli enti
3 Robert Hertzog, in Local government in the Member States of the European Union: a comparative legal perspective, Angel-
Manuel Moreno, INAP 2012
8
di cooperazione inter municipali, figure intermedie rafforzate, a volte , da una
autonomia (e responsabilità) impositiva.
Anche i dipartimenti hanno avuto vita difficile, una prima riforma per dargli
maggior autonomia viene bocciata e causa persino le dimissioni del Presidente De
Gaulle nel 1969. Solo successivamente, dal 1972 al 1986, le riforme vengono
approvate prevedendo la nascita di comunità territoriali più vaste dei singoli
municipi e più adatte a gestire i poteri trasferiti dallo Stato centrale creando
economie di scala interessanti e capaci di bilanciare l’inevitabile aumento dei costi
di gestione che provocava il fenomeno di bilanci “fuori gestione”.
Oggi la crisi economica e finanziaria ha imposto il drastico taglio della spesa
pubblica incentivando, come previsto da una legge del 2010, le
aggregazioni/unioni a tutti i livelli di enti locale e che, come in passato, non trova
particolari appoggi tra i politici.
Il costo degli enti locali francesi si suddivide come segue :
* Fonte: Robert Hertzog, Local Government in France
% Costi Complessivi
Municipalità
Dipartimenti
Regioni
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Ricordiamo che il potere amministrativo in Francia è esercitato tramite due linee
direttrici principali.
La prima appartiene al Prefetto, nominato con decreto presidenziale e rappresenta
l’autorità dello Stato. Il Prefetto ha sempre rappresentato lo strumento prediletto
per il rafforzamento del potere centrale e dal 1982 ha iniziato a essere
gradualmente spogliato dei suoi poteri in un azione di de localizzazione del potere
Statale centrale a favore degli enti locali rappresentati da 36,791 Municipi, 2.599
Comunità, 15.099 Unioni, 4.039 Distretti e 26 Regioni (comprendenti i territori
oltremare).
La maggior frammentazione la si evince nei municipi dove sono ben 14.351 quelli
con meno di 300 abitanti, 20.233 hanno meno di 500 abitanti, 27.200 meno di
1000 abitanti, 866 municipio superano i 10.000 e solo 39 hanno più di 100.000
abitanti.
L’alta frammentazione è stata affrontata con lo stimolo ad una intensa
cooperazione inter-municipale che al 2010 coinvolge ben 35.041 municipi con
58,8 milioni di abitanti. Le forme di cooperazione proposte dal basso non sono
uniche e la scelta tra i diversi modelli a cui aderire è stata lasciata agli stessi
municipi che così hanno potuto muoversi adattando le scelte alle specifiche realtà
territoriali. Entità singole, multiple e sindacati misti sono alcuni esempi anche se
di fatto il perimetro ottimale (ambito territoriale ottimale) è stato raggiunto
raramente e sembra inevitabile un ulteriore intervento legislativo dall’alto.
b.) la Costituzione francese
10
L’art.34 della vigente costituzione riconosce il diritto all’autogoverno locale nel
contesto delle leggi determinate dal parlamento dove il Senato , organo dove
siedono eletti negli enti locali, rappresenta la garanzia che gli interessi locali siano
tutelati.
L’art.72 della vigente costituzione elenca le municipalità, i dipartimenti e le
regioni prevedendo la possibilità di crearne di nuove. Garantisce il diritto alla
“libre administration” nei limiti della legge e nel rispetto delle altre autonomie (tra
governi locali non ci sono poteri concorrenti).
La funzione (e obbligo) dello Stato è quella di garante della legalità delle
decisioni prese a livello locale mentre il comma 2 dell’art.72 attribuisce
l’autonomia finanziaria per gli enti locali insieme al principio dell’equo
trasferimento e compensazione se nuove funzioni vengono trasferite dallo Stato
(tralasciamo di analizzare qui la regolamentazione dei territori d’oltremare).
La chiave di lettura della costruzione amministrativa francese è nella definizione
di “libre administration” degli enti locali, così come citata dagli articoli 34 e 72
della costituzione, che soprattutto con le riforme degli ultimi anni è stato al centro
delle sentenze della Corte Costituzionale chiamata sempre più spesso a dirimere
vertenze da quando, nel 2009, la possibilità di presentare ricorso alla Corte è stato
esteso. La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha espresso posizioni
equilibrate mantenendo, insieme al Consiglio di Stato, un ruolo determinante per
tutelare lo Stato e il suo sistema legale unitario.
Curioso l’impatto che la Carta Europea delle autonomie locali, fortemente voluta
dal governo francese di allora e adottato immediatamente (15/10/1985) ha avuto
in Francia. Essa ha valore di legge superiore ma questo non è bastato a fargli
11
avere un impatto concreto nella normativa locale. Ad esempio, solo con la riforma
del 2003 è stato adottato il principio della sussidiarietà e il monitoraggio europeo
previsto dalla Carta non è mai stato compiutamente accettato e inserito nel diritto
amministrativo della Francia.
Un ruolo importante nel diritto francese lo giocano i codici, ossia le raccolte
generali delle leggi suddivise per settori. La consolidazione delle normative
amministrative francesi si chiama CGCT (Code géneral des collectivités
territoriales) dove leggi e decreti sono organizzati in articoli e suddivisi in capitoli
secondo uno schema logico.
c.) La situazione attuale
La reale applicazione del principio di autonomia degli enti locali francesi come
previsto dall’art. 72 della Costituzione è quindi avvenuta molto più lentamente di
come si possa immaginare. Le competenze degli enti locali sono sempre state di
fatto limitate e il trasferimento delle stesse dallo Stato Centrale è avvenuto solo
per “lotti” dovendo superare fortissime resistenze. Ad esempio solo nel 2004 sono
state trasferite ai Municipi alcune funzioni come l’assistenza sociale, i dipendenti
scolastici, la viabilità nazionale con il personale per la manutenzione e alle
Regioni, il personale non insegnate delle scuole, le ferrovie regionali, i
monumenti. Il trasferimento è avvenuto dopo l’inserimento formale nella
Costituzione del principio di compensazione ed equità finanziaria (avvenuto nel
2003) per cui ogni trasferimento di funzione deve portare con se l’equa risorsa
finanziaria (il budget dei dipartimenti è passato dai 43 miliardi di euro del 2003 ai
68,5 euro del 2009).
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Il meccanismo di trasferimento dei poteri amministrativi e delle relative risorse ha
creato una forte pressione sui governi locali che si sono ritrovati a dover spendere
cifre considerevolmente più alte e mai viste, ma con vincoli di obbiettivo ben
precisi trattandosi di servizi già in essere dove un peggioramento della qualità del
servizio erogato sarebbe stato subito imputato, da parte degli elettori, alla sola
male gestio del municipio. Immancabili sono sorte contestazioni sull’entità degli
importi trasferiti dallo Stato Centrale e non sono mancati i ricorsi alla Corte
Costituzionale con esiti alterni.
Il percorso delle riforme avvenuto in Francia appare quindi piuttosto accidentato,
poco lineare e a macchia di leopardo da cui non può stupire che sia stato
accompagnato da innumerevoli critiche e dibattiti. Le prime denunce sulla
tortuosità e irrazionalità delle norme che distribuivano le competenze locali
furono affrontate nel 2009 da una apposita commissione, la Commissione
Balladur4.
Uno dei problemi emersi riguardava la competenza degli enti locali che,
potenzialmente, si estendeva su qualunque tema. Essa creava una sovrapposizione
di azioni e una concorrenza di spesa pur non moltiplicando gli enti competenti.
La prima proposta del governo centrale fu di specializzare i dipartimenti e le
regioni prevedendone le competenze per legge, proposta respinta dal parlamento
nel 2009; la seconda proposta, presentata l’anno dopo, viene approvata, ma il
principio di specializzazione conteneva così tante deroghe ed eccezioni che ancor
4 Balladur fu nominato Presidente del “Comité de réflexion et de proposition sur la modernisation et le rééquilibrage des
institutions” dal Presidente Sarkosy per proporre una riforma organica delle istituzioni della 5° Repubblica Francese. Le sue
conclusioni hanno ispirato la riforma del 2008. Essa si è rifatta ai lavori della commissione Vedel del 1992 e sarà seguita nel 2012
dalla Commissione Hollande per il rinnovo e la deontologia della vita pubblica incentrata sul tema dei cumuli di mandato e dei
conflitti di interessi. Nel 2008 ha accettato di presiedere la commissione incaricata, sempre da Nicolas Sarkozy, di ridisegnare il
sistema delle autonomie locali in Francia, che si è insediata ufficialmente il 22 ottobre 2008 e che ha presentato il suo rapporto al
presidente della Repubblica il 5 marzo 2009.
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oggi se ne pagano le conseguenze e non si prevedono schiarite nel prossimo
futuro.
Attualmente gli enti locali sono tre:
i Municipi, i Dipartimenti e le Regioni.
I Municipi godono della cosiddetta “clausola generale di competenza” per tutto
quanto sia di rilevanza per l’ente locale e questo principio è stato interpretato dalle
Corti con la massima ampiezza possibile. Sport, cultura, ambiente, sviluppo
economico, cooperazione con autorità straniere, trasporti (aeroporti e porti), sono
solo alcuni dei temi in cui i municipi hanno poteri decisionali senza dimenticare la
pianificazione urbanistica. Il Sindaco mantiene anche la funzione di autorità di
governo per alcune questioni come il registro di stato (anagrafe) mentre al Prefetto
è lasciata la competenza di governare le forze dell’Ordine.
I dipartimenti (départements) hanno competenze varie.
La più importante risiede nella assistenza sociale a cui si aggiungono il personale
scolastico non docente, la viabilità, comprese alcune strade nazionali, trasporti
locali e scolastici, archivi pubblici, l’acqua, e, non da ultimo, i dipartimenti
offrono consulenza per gli investitori.
Sopra di essi abbiamo le regioni, tradizionalmente detentori di una leadership nei
settori dello sviluppo economico specialmente nell’erogare contributi a progetti
privati tema principale delle lotte di competenza con gli altri enti locali. In effetti
se si analizza la spesa delle regioni francesi si può capire meglio la situazione:
su un totale di 26.5 miliardi del 2010, l’educazione ha contribuito per 7 md, i corsi
professionali per 5,3. Il resto si divide tra il supporto al trasporto ferroviario
regionale dove la regione si accolla il deficit della gestione (SNCF) e la spesa per
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l’istruzione universitaria. Sempre per il principio della competenza generale
alcune regioni sono proprietarie di aeroporti, porti e strutture logistiche varie e
non disdegnano un certo attivismo nella cooperazione internazionale.
d.) Gli enti locali
I comuni (communes), chiamati municipalità, hanno statuti nati su base comune
ma con notevoli differenze tecniche in ordine ad elezioni, bilancio, accesso alle
agevolazioni, gestione del personale, salario. Parigi è l’unico caso di territorio
contemporaneamente municipio e dipartimento con la concentrazione dei poteri
nelle mani dello stesso Sindaco e del Consiglio Comunale.
Per gestire la complessità territoriale e bilanciare la concentrazione di poteri le
città di Parigi, Marsiglia e Lione sono suddivise in “communes
d’arrotondissment” tutte con il loro Sindaco e il loro consiglio, oltre al personale
amministrativo.
Il consiglio comunale è composto da 9 membri per i Comuni sotto i 100 residenti
fino a 69 membri per i Comuni sopra i 300mila residenti. Sono eletti per sei anni.
Per essere eletti sindaco al primo turno serve la maggioranza assoluta dei votanti
che non possono essere meno del 25 % degli aventi diritto, in tutti gli altri casi i
due più votati passano al secondo turno dove basta la maggioranza relativa dei
votanti. Per le elezioni dei consiglieri la legge prevede che chi vince al primo
turno, superando il 50% dei voti espressi, ottenga la maggioranza dei seggi e tutti
coloro che hanno superato lo sbarramento del 5% si suddividano i restanti. Nel
caso che nessuno abbia raggiunto la vittoria al primo turno, nel secondo turno si
ripresentano le liste che hanno superato uno sbarramento al 10% dove
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nuovamente chi ottiene la maggioranza relativa prende la maggioranza assoluta
dei seggi. Al potere centrale, ossia il governo, è consentito di decretare lo
scioglimento del Consiglio Comunale per impossibilità di adempiere ai propri
doveri indicendo a breve nuove elezioni.
Al Consiglio Comunale spetta la competenza esclusiva per alcuni atti come
l’adozione del Bilancio, la definizione delle aliquote delle tasse, le norme
urbanistiche e l’autorizzazione al Sindaco di firmare contratti e prestiti.
e.) IMC: Inter-Municipal cooperation
Un'altra particolarità francese risiede nella grande varietà delle tipologie di
cooperazioni intercomunali possibili e chiamate “Établissement public de
coopération intercommunale” (EPCI) ossia quelle strutture amministrative
francesi rette dalle disposizioni della quinta parte del Codice generale delle
collettività territorialità. Si tratta di raggruppamenti di comuni che hanno scelto di
gestire più funzioni in comune. Le EPCI hanno avuto uno sviluppo veloce solo
dopo l’entrata in vigore della Legge Chevènement (giungo 1999).
Attualmente la loro diffusione è altissima, in genere funzionano discretamente ma
sono tantissime e la loro parcellizzazione non ha agevolato la riduzione reale dei
costi delle amministrazioni. Per alcuni l’obbiettivo prossimo venturo sarà proprio
la riduzione per il tramite di fusioni che le rendano più solide ed efficienti.
La nascita delle prime idee di IMC viene individuata nel 1890, con l’istituzione
dei “Syndicat”, una sorta di unione tecnica. Nel 1959 si autorizzano unioni con
competenze limitate non solo agli aspetti “tecnici” e si supera il limite della loro
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approvazione all’unanimità riducendo il quorum al 50% dei comuni partecipanti e
ai 2/3 della popolazione o viceversa.
Negli anni 60 e 70 si formarono migliaia di unioni anche a seguito del boom
economico che richiedeva alla politica risposte efficienti e veloci ai repentini
cambiamenti.
La particolarità nel percorso istitutivo delle Unioni è che il Prefetto è chiamato a
far da garante del processo, finanche a stimolarlo.
L’IMC è un ente di secondo livello e come tale i membri della sua assemblea sono
eletti dai consigli comunali. La stessa assemblea chiamata “syndacat de
communes” elegge al suo interno il Presidente e il suo vice che hanno poteri
esecutivi. Le risorse di bilancio sono esclusivamente gli introiti pagati dagli utenti
per i servizi erogati insieme ai contributi erogati dai Comuni e calcolati in base a
criteri5 stabiliti nello Statuto.
Nel 1992 un nuovo provvedimento propone nuove forme di unioni accompagnate
da un maggior centralizzazione delle competenze e delle tassazioni, ma la
diffusione di queste fu lenta e contrastata proprio dalla complessità delle regole e
solo nel 1999 il Parlamento adotta, dopo una lunga gestazione, la legge sulla
“semplificazione della cooperazione inter-municipale” che ha ridotto i modelli di
cooperazione a tre soli.
Malgrado lo scetticismo di molti i processi di aggregazione e semplificazione
procedettero a ritmo serrato e nel 2005 si possono dire essere quasi esauriti.
Le ragioni di questo successo sono da ritrovarsi in diversi aspetti. Hanno
sicuramente svolto un ruolo predominante gli incentivi economici, uno in
5 Numero di abitanti, studenti iscritti alle scuole, lunghezza delle strade, capacità fiscale di ogni comune, etc)
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particolare: la esclusività conferita alle unioni per la tassazione delle attività
economiche.
Lo scopo di questo trasferimento della capacità impositiva dai Comuni alle Unioni
per le attività di impresa aveva due ragioni:
primo uniformare nei territori il trattamento fiscale delle aziende semplificando il
peso della burocrazia;
secondo, essendo una delle tasse più redditizie, avrebbe permesso effettivamente
alle Unioni di aver più voce nel capitolo della pianificazione dei servizi da
erogare;
Alla data del 1/1/2011 le comunità inter-municipali sono ben 2599 e coinvolgono
35.041 Comuni pari al 95,5% del totale e coinvolgono il 91.2% della popolazione.
I tre tipi di IMC sono:
- Communautés de communes (CC), specifiche per i comuni rurali e le piccole
città6
- Communautés d’agglomération (CA), specifiche per le città più grandi7
- Città Metropolitane (CU), ove ci siano almeno 55mial residenti8
Nella tabella sottostante riportiamo lo schema riepilogativo.
6 Senza limiti si numero queste comunità oggi sono 2387 con un popolazione di 28 milioni
7 Almeno 50mila abitatni e una città con più di 15mila, oggi sono 196 e coinvolgono 23,7 milioni di cittadini
8 Sono 16 in tutta Francia per 7,7 milioni di residenti
18
9
Le prime modifiche al sistema sono frutto del lavoro della commissione e sono
state inserite nella legge del 16/12/2010. Le previsioni normative vanno tutte nella
direzione di agevolare le Unioni tra municipalità appartenenti alla stessa comunità
territoriale ma non sembra che le indicazioni siano state recepite con grande
entusiasmo.
Questa la situazione fotografata al 2006 dalla quale emerge chiaramente il
successo delle CC (2389 communautès de communes, coinvolgenti 29.735
comuni e 26 milioni di cittadini).
10
9 Tabella tratta da : Il sistema di cooperazione intercomunale in Francia, Luigi Bobbio, 2008, Osservatorio sulla riforma
amministrativa (Regione Piemonte) 10
Tabella tratta da : Controverse sur l’intercommunalitè , Annuaire des collectivitès locale, Tome 26, 2006, pp. 475-484
19
f.) I Dipartimenti
I 101 dipartimenti francesi (inclusi quelli oltremare) sono una presenza
tradizionale nel panorama francese.
L’espansione degli IMC ha dato il via al dibattito sulla residua utilità di questi enti
stretti ormai proprio tra l’espansione di competenze delle IMC e le Regioni, ma le
resistenze sono ancora molto forti.
Ricordiamo che il Consiglio dipartimentale ha competenze specifiche sulla
gestione di alcuni servizi pubblici quali l’assistenza sociale, le strade, la
costruzione e manutenzione delle scuole secondarie, oltre ad erogare supporto per
le IMC e i Comuni.
I dipartimenti fino al 1982 erano un’emanazione diretta del potere statale.
La successiva legge elettorale dei dipartimenti francesi è stata studiata per
determinarne la maggior stabilità possibile.
Il conseillers généraux è eletto per sei anni, la metà dell’assemblea si rinnova ogni
tre anni e la legge elettorale prevede il doppio turno e l’astensione è storicamente
elevata. Dal 2014 è prevista l’unione delle cariche di consigliere regionale e
dipartimentale facendo così diventare oscuro il futuro di quest’organo.
Il problema maggiore dei dipartimenti è sempre stata la gestione di bilancio dato
che le principali materie di loro competenza hanno conti inevitabilmente sempre
in sofferenza (Assistenza sociale e scuola) sia perché la loro erogazione è in
continua crescita, sia perché non finanziate direttamente da una tariffa.
g.) Le Regioni
20
Le regioni sono l’ente di primo livello più giovane nel panorama normativo
francese dato che sono state introdotte del 1959 come distretti amministrativi
statali con compiti di guidare lo sviluppo economico locale coordinandolo con le
decisioni nazionali.
Non hanno alcun potere legislativo e tantomeno regolativo. La loro competenza
originaria riguarda la sola pianificazione dello sviluppo regionale e la verifica dei
piani finanziari di interesse regionale portati avanti da altri enti governativi. Dalla
loro nascita si sono aggiunte altre competenze, portando il peso finanziario delle
regioni al 13% del budget complessivo degli enti locali francesi, mentre serve
sottolineare che alcune regioni, come la Corsica, hanno competenze speciali più
ampie.
Il consiglio regionale è sempre eletto per 6 anni anche se gli eletti nel 2010
scadono anticipatamente quest’anno (2014) per riallineare tutte le elezioni
amministrative e poter applicare l’ultima riforma alla legge elettorale. La nuova
legge come già ricordato sopra, intervenuta anche per dare maggior stabilità alle
maggioranza che escono dalle elezioni, prevede che il consigliere territoriale
eletto sieda sia nel consiglio regionale che in quello del dipartimento.
Un funzione importante la svolge il Consiglio Consultivo Economico, Sociale e di
Sviluppo Regionale (CESER), nel quale sono rappresentati i vari interessi
regionali tra cui i Sindacati, le Università e le Associazioni. Il Consiglio rilascia
un parere sul bilancio annuale e ogni qualvolta lo richiede il Presidente.
h.) Risorse Umane
21
I dipendenti pubblici impegnati negli enti locali erano 1.825.000 nel 2011. Circa
1.4 milioni sono funzionari a tempo indeterminato reclutati tramite bando mentre
il resto sono dipendenti a tempo determinato.
La normativa nazionale regolante il pubblico impiego risale al 1940 ma è
applicata solo ai dipendenti statali. Gli enti locali hanno avuto sempre le mani
libere nella gestione delle assunzioni facendo emergere pratiche clientelari e
rendendo spesso insufficienti le qualifiche degli assunti rispetto alle mansioni
attribuite.
Nel 1970 il governo istituisce una nuova agenzia, il centro nazionale della
funzione pubblica territoriale (CNFPT) con lo scopo di organizzare corsi di
aggiornamento e specializzazione dei dipendenti pubblici degli enti locali al fine
di migliorarne la produttività.
Finanziata direttamente tramite le imposte sulle buste paga dei dipendenti pubblici
l’agenzia ha aperto diverse scuole distribuite in tutto il territorio francese. Nel
1983 e nel 1984 interviene una nuova e profonda riforma del contratto dei
dipendenti pubblici che vengono prima divisi in tre categorie (dipendente statale,
dipendente ente locale, dipendente ospedaliero) e poi si procede alla organizzare e
regolamentazione delle assunzioni e delle carriere. Nella specie per essere assunti
come dipendenti locali è necessario superare uno specifico esame dopo il quale si
è ammessi, per tre anni, in una lista a disposizione degli enti locali che cercano
personale. La normativa uniforme e la gestione “centralizzata” del personale
soprattutto per le piccole realtà ha permesso di aumentare la mobilità (le mansioni
e cariche sono uniformi) e ha migliorato notevolmente le competenze dei
dipendenti.
22
i.) Criticità e successi
Nel 2005 il tema del inter-comunalità esplode nei dibattiti pubblici. Il generale
consenso che le Unioni ebbero fino a quel momento sembra crollare e lasci spazio
ad un forte pessimismo.
Molti addebitavano proprio al sistema intercomunale la causa principale
dell’aumentare delle imposte locali, fenomeno che non poteva certo trovare
sostenitori tra i cittadini. Per questo troviamo una notevole mole di studi elaborati
da diverse commissioni di vario livello sul tema delle unioni comunali.
Tra giugno 2005 e febbraio 2006 escono ben 5 rapporti che trattano il tema. A
giugno 2005 viene pubblicato “Communes, intercommunalites, quels devenires?”
di M.Pierre-Jean Roset per conto del Consiglio Economico e Sociale (CES) , a
luglio 2005 esce il Rapporto Mariton dal nome del deputato che lo ha redatto per
conto dell’Assemblea Nazionale e intitolato “Rapporto sull’evoluzione della
fiscalità locale” a ad ottobre 2005 esce il polemico “Le livre noir de
l’intercommunalité” dei deputati Beaudin e Pemezéc, a Novembre è la Corte dei
Conti a pubblicare un rapporto intitolato: “L’intercommunalite en France” e a
febbraio 2006 è l’osservatorio sulla decentralizzazione del Senato della
Repubblica a pubblicare un rapporto dal titolo “L’intercommunalité a fiscalité
propre”.
I temi principali trattati esaustivamente dagli studi sono11
:
1.) La fotografia dello stato di fatto
2.) Il finanziamento degli enti locali in rapporto alle nuove funzioni e alla
pressione fiscale
11
Annuaire des collectivités locales , Année 2006 ,Volume 26 ,Numéro 26 (pp. 475-484)
23
3.) Il ruolo dell’ inter-communalità nella riforma dello Stato
La tabella riassuntiva delle caratteristiche degli EPCI al 200612
conferma il
successo che hanno avuto e la direzione intrapresa dai singoli Comuni. In
particolare la scelta di procedere con aggregazioni a fiscalità propria aveva
coinvolto la metà delle aggregazioni esistenti.
Nello specifico del tema della fiscalità molti sono gli studi che concordano che, se
da una parte si è avuto un notevole successo grazie alle agevolazioni date alle
intercomunalità anche per finaziare autonomamente i servizi erogati tramite il
coinvolgimento dei dipartimenti e delle regioni e l’eliminazione della concorrenza
fiscale tra comuni, dall’altra parte si mette in guardia sul rischio di un aumento
dell’imposizione locale dovendo partecipare direttamente alle spese locali.
Non ultimo si analizzavano i problemi della rappresentatività democratica
all’interno degli EPCI. In essi è cresciuto molto il potere dei consigli
intercomunali parallelamente ad un aumento dei poteri del Prefetto (per effetto
della de-concentrazione territoriale), ossia due soggetti il cui mandato non è
espressione diretta della volontà dei cittadini ma ha natura “technocratique”.
Se da una lato è vero che non avendo legittimazione democratica essi si
sottraggono alla responsabilità diretta verso i cittadini, è stato evidenziato come
l’assenza di natura politica di questi organi, sostanzialmente esecutivi e tecnici, li
dovrebbe portare ad agire secondo logiche “puramente” economiche.
Solo con le prossime elezioni questi enti di secondo livello avranno per la prima
volta un elezione diretta dove sarà indicato quale consigliere comunale sarà
destinato a sedere anche nel EPCI, questo dopo aver superato la resistenza di
molti Sindaci, in particolare quelli delle grandi aree urbane che hanno sempre
12
Vedi nota 8
24
difeso la capacità degli organismi sovracomunali di governare politiche e servizi
territoriali di grandi dimensioni. Da una parte si evidenzia come sia aumentata
l’integrazione grazie agli interventi resi più efficaci dall’allontanamento della
gestione dei servizi dalla politica e agli interessi legati alle sole elezioni di
“quartiere”, dall’altra ci si sofferma sulla loro “opacità” istituzionale nel momento
in cui diventano interlocutori di politiche dipartimentali e regionali come livello
intermedio di governo che porta ad aumentare la complessità del sistema locale
francese e a diminuirne la democraticità e trasparenza13
.
Il rapporto Mariton è molto meno cauto del CES e individua proprio nell’aumento
delle EPCI la prima causa dell’aumentata imposizione fiscale locale. Al suo
interno si crea una forte divisione tra chi accusa le inter-municipalità di essere una
fucina di poltrone e chi le difende. Ad ogni modo si evidenziano i punti critici
come l’aumento delle competenze di governo degli enti locali aggregati e le
differenze nella attribuzione delle competenze, ma il rapporto non perde di vista il
suo scopo, ossia censire la situazione delle riforme attuate.
Nel decennio 1993/2003 la spesa complessiva dei Comuni è aumentata di ben 3.9
volte14
e non si sono avuti effetti benefici nel quadro complessivo delle spese
delle EPCI, anche esse aumentate comparando il dato aggregato di riferimento
delle precedenti spese dei Comuni dove i costi per le funzioni sono passate dai
62,9 miliardi di euro del 1992 ai 78,4 spesi dagli EPCI nel 2003.15
Lo studio della Corte dei Conti e quello dell’Assemblea Nazionale hanno
entrambi concluso evidenziando due elementi comuni:
13
Il sistema di cooperazione intercomunale in Francia, Luigi Bobbio, 2008, Osservatorio sulla riforma amministrativa (Regione Piemonte) 14
13
Annuaire des collectivités locales , Année 2006 ,Volume 26 ,Numéro 26
25
-Un primo elemento riguarda la difficoltà di evidenziare i vantaggi ottenuti dalle
EPCI nelle economie di scala sia perché già inglobate nelle vecchie “syndacale”
sia perché la carenza di dati statistici relazionati alla qualità del servizio erogato
rende difficile far comparazioni.
-Un secondo elemento è direttamente correlato alla caratteristica dell’impianto
normativo di cooperazione che il legislatore ha imposto ai comuni specialmente a
livello fiscale.
Sia la normativa della fiscalità addizionale che quella della “taxe professionelle
unique” non hanno permesso una completa padronanza della gestione finanziaria.
La fiscalità addizionale non prevede alcun coordinamento esplicito tra le politiche
comunali e intercomunali quindi , al passaggio di competenze dai comuni alle
EPCI e al contestuale calo delle spese dei comuni, non corrisponde
necessariamente la riduzione dell’imposizione addizionale comunale che mantiene
cosi inalterate le proprie entrate. D’altra parte la complessità della “taxe
professionelle unique” con il suo sistema a due livelli, pur permettendo un
coordinamento tra le politiche fiscali e finanziarie dei comuni e delle EPCI ha
avuto un approccio molto difficile e poco compreso negli aspetti dinamici.
Altri temi, altrettanto importanti, meritano l’attenzione degli studiosi come gli
aspetti dell’impatto sociale delle EPCI e il benessere dei cittadini.
Un esempio e tema di sicuro impatto, poco valutato, è stato l’aumentato afflusso
ai servizi erogati nel comune centrale di cittadini residenti nei comuni limitrofi.
Questi, accedendo ai servizi erogati nel solo comune centrale, ma paganti le tasse
nei comuni di residenza, hanno creato squilibri nella gestione finanziaria dei
rapporti Comune-EPCI dato che i costi per l’aumento dei flussi di cittadini non
26
vengono contabilizzabili e la congestione nei punti di erogazione sono all’ordine
del giorno facendo percepire uno scadimento del servizio.
Anche le incertezze nelle strategie adottate per le riforme delle organizzazioni
territoriali da parte del governo hanno giocato un ruolo non indifferente.
Sono proprio le relazione della Corte dei Conti e del Senato a denunciare che le
fluttuazioni nelle strategie adottate sono una causa importante dei risultati
contrastati emersi.
Il rapporto del Senato evidenzia, ad esempio, che il legislatore ha considerato
l’intercomunalità a fiscalità propria come il prolungamento naturale
dell’intercomunalità “syndacale” del 1890.
In realtà i Syndacates erano semplici associazioni di Comuni per mettere in
comune i mezzi per assicurare servizi che da soli non sarebbero stati in grado di
erogare. Essi nascevano su base strettamente volontaristica, con voto unanime e i
Comuni sceglievano le competenze delegate. Non vi era alcun potere autonomo o
di ripartizione fiscale tra i Comuni.
Quindi i syndacat apparivano come il miglior alleato dell’immobilismo
istituzionale e ostacolo ad una vera e profonda riforma amministrativa. Al
contrario i distretti e le comunità, normate nel 1959, creati con la sola
maggioranza qualificata, gestiscono competenze obbligatorie previste dalla
norma, possono alzare le imposte, ricevono fondi e sostegno in base al grado di
integrazione. Per le EPCI è esemplificativo del cambio di passo la seguente
definizione estrapolata dal Codice generale delle collettività territoriali (CGCT):
“Le EPCI a fiscalità propria hanno lo scopo di elaborare progetti comuni di
sviluppo all’interno del perimetro solidaristico”,
27
principio che ha elevato e distinto notevolmente queste dalle vecchie Syndacat.
La presenza della possibilità di gestire una fiscalità propria non ha messo le stesse
completamente al riparo da notevoli incongruenze. Fino al 1999 in alcune EPCI i
membri delle assemblea potevano essere semplici cittadini senza essere anche
consiglieri nei loro comuni, perdendo così il coordinamento delle politiche
comunamli e intercomunali e limitando la legittimazione democratica con cui gli
EPCI imponevano nuove tasse.
Il legislatore ,tutto sommato, sembra aver sempre voluto favorire l’illusione che le
inter-comunalità fossero subordinate ai Comuni. Anche il principio di libera
associazione non ha mai avuto, nella dottrina francese, un definizione chiara che
ne stabilisse i confini in modo preciso e pertanto incontriamo posizioni ondigave
tra il concetto volontaristico delle aggregazioni e l’obbligo normativo che avrebbe
dovuto essere applicato materialmente dal Prefetto ma che , sia il rapporto del
Sentato che della Corte dei Conti, hanno accusato di aver avuto poca ambizione
nel ruolo di promotori delle aggregazioni.
Altro tema interessante, affrontato dalla normativa del 1999, è l’indicazione della
necessità di individuare gli ambiti territoriali ottimali: i territori dovevano essere
uniti e senza enclave, con l’obbiettivo di rafforzare la loro coerenza geografica ed
economica. Due erano le soglie di popolazione necessarie per costituire le EPCI,
500mila abitanti per le comunità urbane e 50mila per quelle le comunità
agglomerate. Quanto successo negli anni successivi alla riforma del 1999 indica
che non si è sempre raggiunto l’obbiettivo di individuare territori veramente
uniformi e pertinenti. Molto spesso i Prefetti hanno preferito rimettersi alle
individuazioni territoriali già fatte dagli eletti piuttosto che intervenire con una
28
reale opera di razionalizzazione16
e non si può non notare un certo “disordine
intercomunale” e una certa opacità in talune scelte.
Al “disordine intercomunale” non è mancato, a volte, l’abbinamento con una
insufficiente determinazione della suddivisione delle competenze tra comuni e
aggregazioni, tema che ha dato luogo a dibattiti senza fine tra gli eletti locali,
senza che alcuna delle soluzioni proposte abbia mai dato la sensazione di poter
essere risolutiva.
La Corte dei Conti ha voluto sottolineare come il confine tra le competenze sia
determinabile solo in presenza di un chiaro progetto di sviluppo e di un patto
finanziario tra i Comuni e le Intercomunalità che, troppo spesso, è mancante.
La soluzione a questa situazione di incertezza è arrivata con la legge del
13/08/2004 che ha imposto un slittamento al 2006 della definizione da parte dei
soggetti coinvolti dell’interesse comunitario, al di la di quel termine, in assenza
di una delibera, le competenze trasferite sono esercitate in assoluta autonomia da
parte delle Intercomunalità.
Sempre dal 1999, senza rimettere in discussione la “tax professionnelles”, la legge
autorizza l’applicazione di una tassazione, sulla proprietà fondiaria e abitativa,
addizionale alle tasse locali. Questo regime misto è stato applicato solo
marginalmente nel caso in cui la TPU non era sufficiente a garantire la copertura
dei costi o dove l’applicazione della TPU era difficile.
La TPU in sostanza non ha risolto tutti i problemi di Bilancio delle EPCI. I rischi
più evidenti sono collegati agli effetti della congiuntura economica a cui si sono
aggiunti i tagli nei trasferimenti dallo Stato centrale e soprattutto le limitazioni dei
margini di manovra con l’aumentare della pressione fiscale. 16
Annuaire des collectivités, Tome 26, 2006, Controverses sur l’intercommunalité, pag. 482
29
Da un lato si sono ridotte le entrate fiscali per la crisi economica, dall’altro si è
limitata l’autonomia delle EPCI limitando i margini di manovra per aumentare le
aliquote. Tutto questo è successo mentre dal Legislatore arrivavano forti pressioni
perché le EPCI assumessero sempre più competenze (e quindi costi) azzerando
inevitabilmente gli effetti positivi per i Bilanci ottenuti con le economie di scala.
Le contraddizioni , anche negli esiti che si leggono nei diversi rapporti, appaino
molto evidenti quando anche il rapporto Mariton evidenzia il rischio di aumento
della pressione fiscale senza spiegare come possano le EPCI gestire progetti di
una si fatta importanza senza risorse appropriate.
Un accusa non da poco per le EPCI è stata quella di essere “coquilles vides”, ossia
gusci vuoti.
Per rispondere a questa accusa si è passati dalla mera analisi quantitativa dei dati
ad un analisi qualitativa e come evidenziato nelle pagine precedenti, la Corte dei
Conti non ha lesinato critiche per come, nella pratica, sono state interpretate le
EPCI nella fase applicativa, in particolare dai politici.
In conclusione non possiamo non evidenziare che il successo quantitativo delle
EPCI francesi, analizzato sotto l’aspetto dell’appagamento delle erogazione delle
funzioni collettive, vada trattato con una certa cautela.
La stessa Corte dei Conti, non senza essere stata attaccata per le sue conclusioni,
afferma che non sono poche le EPCI che si sono trasformate in semplici agenzie
di riscossione per lo Stato centrale rinunciando a sviluppare veri progetti
intercomunali.
30
La timidezza nell’affrontare il tema della rappresentatività democratica a fronte
della profondità dell’intervento nella gestione delle funzioni ha aggravato la
percezione di groviglio amministrativo da parte dei cittadini.
2.3 Germania
a.) introduzione
Con circa 82 milioni di abitanti la Germania è la nazione più popolosa della
Europa comunitaria. Circa un terzo della popolazione vive in città con più di
100mila abitanti, una situazione simile ad altri paesi europei ma emergono
differenze se guardiamo al numero di città presenti (83), la maggioranza delle
quali sono negli “Alte Bundesländer”.
La struttura istituzionale tedesca è costruita su tre livelli di governo (federale,
nazionale e locale). Troviamo 16 Lander, di cui 3 città-stato, 408 Distretti (Kreise)
di cui 301 distretti rurali (Landkreise) e 107 città-distretto ( reisfreie St dte) e
12.302 comuni (gemeinde).
Mentre in Italia continua lo scontro tra l’Anci (Associazione nazionale comuni
italiani), l’Upi (Unione province italiane) e il governo sull’abolizione delle
province e l’accorpamento dei comuni, la Germania prosegue da tempo sul fronte
delle riforme territoriali con obbiettivi mirati e una forte azione dal basso che
come vedremo è voluta anche per ottenere il coinvolgimento attivo degli attori
veri delle riforme che sono gli stessi enti locali.
Fin dagli anni ‘70 i Länder tedeschi sono impegnati in una vasta opera di
ottimizzazione della struttura amministrativa tedesca che tocca i diversi gradi di
31
governo locale. Efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa sono la parola
d’ordine e l’obbiettivo dichiarato ogni azione riformatrice in Germania. I comuni
stessi, con svariate fusioni, alcune volontarie, altre imposte dall’alto, sono i primi
soggetti coinvolti. Dagli originari 24.000 comuni all’inizio degli anni ’80 il
percorso intrapreso ha ridotto i Comuni ad appena 8000.
Con la caduta del Muro, anche le neocostituite regioni orientali hanno dovuto
ridisegnare la carta delle istituzioni vicine al cittadino per comprimere gli sprechi
e semplificare il quadro giuridico. Anche i Landkreis, ossia i livelli di governo
intermedi tra comuni e Länder, sono stati interessati dall’opera di
razionalizzazione.
Da dodici si passa a soli sei, il più grande dei quali ha dimensioni maggiori del
Land della Saar e i nuovi nomi dei Landkreise li hanno decisi i cittadini con un i
referendum.
Il Landkreis o circondario, viene spesso assimilato alle nostre province. In realtà è
una “unione di comuni”, aggregatisi per coordinare tra loro l’erogazione di
determinati servizi.
Si tratta cioè di un livello di governo territoriale bottom-up e non top-down come
quello creato in Italia con le province.
Proprio perché istituite Bottom-Up non esiste un elenco predeterminato delle
competenze uguale per tutti i Landkreise. Senza contare che le città principali
ossia le Kreisfreie Städte, città libere dal circondario quelle che noi definiremmo
capoluogo, sono di norma escluse dall’amministrazione dei circondari e non
condividono con nessun altro comune le loro competenze.
32
La disciplina dei Landkreise è affidata dalla Legge fondamentale dei singoli
Länder e non alla Federazione. E per questo l’iniziativa legislativa per le riforme
parte dalle regioni o dagli stessi Kreise e non dallo Stato centrale.
Le differenze con la situazione italiana sono evidenti. I recenti progetti del
Governo sanciscono l’assoluto fallimento del ruolo delle nostre Regioni o di altri
organi come il Consiglio delle autonomie locali, previsto dall’art. 123 della nostra
Costituzione e come vedremo oltre , le differenze di approccio al problema sono
numerose.
Non per questo in Germania sono mancate le proteste e i ricorsi.
Nel caso del Meclemburgo, il Tribunale costituzionale del Land ha messo fine alle
polemiche rigettando il ricorso delle città libere di Wismar e Greifswald che cosi
sono state inglobate nei nuovi macrocircondari.
Le critiche principali, a sostegno della loro resistenza, erano legate alla perdita
della competenza in materia scolastica, di raccolta dei rifiuti e dell’assistenza
sociale mentre i favorevoli richiamavano i vantaggi messi in luce dal
Landesrechnungshof (la Corte dei Conti del Land) in termini di economie di scala
e riduzione della spesa pubblica , circa 40/50 milioni di euro annui.
Il parlamento del Kreis Müritz aveva quarantasette deputati mentre il nuovo
macrocircondario ne ha solo diciassette, un tema spesso al centro del dibattito
italiano.
Il calo demografico di alcune zone aveva fatto ridurre le entrate a tal punto che era
rimasto solo il denaro per pagare il personale amministrativo: un costo di circa
200 euro a cittadino, quasi il doppio rispetto al vicino Schleswig-Holstein.
33
Con la diminuzione dei fondi strutturali comunitari e dei sussidi provenienti dal
Solidarpakt, il programma per lo sviluppo dei territori dell’ex Germania-Est che si
esaurirà presto la scelta di unire le forze sembra indiscutibilmente l’unica strada
percorribile avendo come obbiettivo il mantenimento di standard di erogazione
dei servizi all’altezza della aspettativa dei cittadini tedeschi, per questo, in
Germania, la questione delle Unioni dei Comuni ha trovato difficilmente posizioni
contrapposte in base agli schieramenti politici quanto piuttosto posizioni calate
nello specifico singolo caso.
La Corte dei Conti, tramite la voce del suo presidente, reclama la necessità che
anche nei territorio dell’ex Germania occidentale si proceda con la drastica
riduzione del numero dei Comuni dato che su 814 comuni del Meclemburgo,
quasi 300 hanno meno di 500 abitanti.
b.) Percorso Storico
Ricordiamo che la Repubblica federale di Germania è uno Stato federale,
accentrato e cooperativo, contrassegnato dalla presenza forte del cancellierato e da
una struttura amministrativa policentrica dove il federalismo tedesco, insieme a
quello austriaco, rappresenta un esempio di sistema federale composto da Stati
unitari (Länder), decentralizzati in senso federale.
Dopo la Restaurazione la Germania era ancora divisa in numerose città-Stato e
Stati indipendenti che sono stati guidati verso l’unità dall’egemonia della Prussia,
un processo iniziato un secolo dopo quello francese come successo per la
codificazione ( BGB vs Codice Napoloenico).
* Paragrafo tratto da Quaderni Formez - Centro di Formazione Studi (dicembre 2004) - disponibili al link: http://biblioteca.formez.it/webif/media/Germania.pdf
34
Il congresso di Vienna sancì il diritto della Prussia a costituire la Confederazione
Tedesca (Deutscher Bund) con alcune caratteristiche di Stato Federale: potere
legislativo distribuito tra regioni e centro, presenza di una camera alta (Bundesrat)
formata da rappresentanti delle regioni (tuttavia, i poteri più significativi erano
concentrati nella camera bassa).
La Costituzione tedesca del 1945, la cosiddetta “Legge Fondamentale”
(Grundgesetz), fu elaborata prevalentemente da esperti tedeschi e soprattutto dai
responsabili delle amministrazioni dei Länder insediati dagli occupanti. Essa
definisce la Repubblica federale di Germania come Stato federale a governo
parlamentare.
La Legge Fondamentale prevede al centro due camere: il Bundestag, eletto a
suffragio universale e il Bundesrat, composto da delegati dei Länder normalmente
sostituiti quando cambia il governo del Land. Il numero dei Länder,
originariamente di 11, passò a 16 dopo la riunificazione del 3 ottobre 1990.
La Costituzione prevede un Presidente federale (Capo dello Stato) eletto per
cinque anni da un’apposita Assemblea federale formata da membri del Bundestag
e da rappresentanti dei Länder. Le sue competenze spaziano dalla nomina del
Cancelliere allo scioglimento del Bundestag, dalla proclamazione dello stato di
emergenza amministrativa alla promulgazione delle leggi.
In generale, i Länder esercitano la funzione legislativa per le materie loro
attribuite dalla Costituzione, mentre per le restanti materie implementano o
applicano le leggi federali (art. 83).
35
L’istruzione, ad esempio, è completamente affidata ai Länder, residuando alla
federazione la determinazione dei principi generali che riguardano l’istruzione
superiore;
La responsabilità del servizio sanitario è affidata in modo non esclusivo alle
autorità locali: alcuni servizi possono anche essere forniti dai Länder o da altre
istituzioni parastatali, tra cui le comunità religiose;
I fondi per l’assistenza sociale sono forniti dalla federazione, ma l’erogazione dei
servizi avviene a livello locale. La Costituzione (all’art. 28) garantisce alle
autorità locali/regionali la totale autonomia amministrativa.
c.) Governo Locale
Il governo locale ha dunque una lunga e solida tradizione in Germania:
il diritto di autogoverno è garantito dalla Costituzione federale ed è presente
altresì in ogni Costituzione di ciascuno Stato. L’art. 28 della Costituzione assegna
agli enti locali di base (Gemeinde, Staedte e Kreise) la responsabilità per tutte le
materie locali mentre l’organizzazione e la struttura interna degli enti è di
competenza dei Laender è causa delle grandi differenze tra un Land e l’altro.
Due sono i livelli di governo locale: municipale/comunale (Gemeinde), e
distrettuale/provinciale (Kreise), formato da aggregazioni di municipalità.
Il principale compito degli enti locali è la regolamentazione dei servizi pubblici
locali. Essi sono i responsabili dell’attuazione della legislazione federale e statale,
relativamente al Land di appartenenza.
I comuni hanno la piena responsabilità delle prestazioni sociali: garantiscono ad
esempio l’erogazione di sussidi per l’accesso agevolato ai servizi abitativi e
* Paragrafo tratto da Quaderni Formez - Centro di Formazione Studi (dicembre 2004) - disponibili al link: http://biblioteca.formez.it/webif/media/Germania.pdf
!*
36
assistenziali che sono si pagati dalle autorità locali ma finanziati dal governo
federale.
Ai comuni fa capo anche la produzione diretta di servizi generali, ad esempio la
polizia locale. Sono inoltre direttamente responsabili dell’assistenza agli indigenti,
tramite la costituzione di un fondo che finanzia le attività di ospizio e ricovero.
I comuni mettono a disposizione gli edifici scolastici, sia per i giovani che per gli
adulti (per le iniziative di formazione permanente); sono responsabili della
presenza e del funzionamento di istituzioni culturali quali le biblioteche, i musei, i
teatri, le orchestre e le scuole di musica; mettono a disposizione delle scuole e
delle associazioni sportive gli impianti necessari.
Nel campo tecnico, le autorità locali regolamentano l’utilizzo del territorio, la
viabilità e i parchi e sono responsabili della redazione dei piani di sviluppo locali.
Dove la fornitura di elettricità, di gas e di acqua non è stata data in gestione ad
aziende private, sono gli stessi comuni ad occuparsene. I comuni o le province
sono, inoltre, responsabili dello smaltimento delle acque fognarie e dei rifiuti, la
cui regolazione è competenza del Land di appartenenza. I comuni possono
scegliere tra molteplici modelli alternativi di organizzazione per svolgere le
proprie funzioni. I servizi di loro competenza possono essere forniti, per esempio,
ricorrendo alla gestione diretta o in economia, alla gestione da parte di imprese di
proprietà del governo locale o di imprese possedute dai comuni ma regolate dal
diritto privato, o alla fornitura da parte di soggetti privati che hanno ottenuto
l’abilitazione a operare.
Gruppi di comuni possono anche formare delle autorità ad hoc (Zweckverbände)
per realizzare specifiche funzioni. Le competenze del governo locale sono
37
regolate dal principio di sussidiarietà: la responsabilità primaria per le questioni
locali risiede nei comuni e nelle province e solo nel momento in cui queste
istituzioni non fossero in grado di svolgere le proprie funzioni il Land sarebbe
autorizzato a farsene carico.
Le entrate degli enti locali si distinguono secondo la costituzione in due tipologie:
tasse esclusive di competenza Federale o dei Laender o tasse condivise tra i
diversi enti. E’ previsto, oltre allo schema verticale di cui sopra, anche uno
schema orizzontale equitativo, cosiddetta di perequazione, a favore dei territori
disagiati. A giocare un ruolo preponderante sia per la loro incidenza sul totale
delle imposte sia per la possibilità degli enti locali di governare autonomamente
una parte dell’aliquota sono le imposte impersonali, ossia quelle sulla proprietà e
sulle attività d’impresa
Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, sulla scia di un modello di riforma
degli enti locali comune a tutto il nord europa, sono state promosse dai Länder
riforme che hanno portato ad un consistente allargamento delle dimensioni
minime dei comuni portate a 9.000 abitanti e in alcuni Länder a 30.000, e si è
assistito a divere fusioni. Queste riforme miravano a raggiungere una migliore
efficienza amministrativa dei comuni senza, tuttavia, perdere di vista il problema
di garantire un’adeguata rappresentanza democratica alle istituzioni così allargate,
istituendo meccanismi di elezione diretta dei sindaci.
I fondi necessari allo svolgimento delle funzioni di Gemeinde e Kreise
provengono, come sopra detto, da tributi locali (principalmente sugli immobili e
sulle attività commerciali) e in larga misura da trasferimenti dei Länder e dalla
federazione attraverso la perequazione fiscale (Finanzausgleich). Uno dei
38
problemi maggiori incontrato in Germania nello sviluppo della cooperazione è
stato proprio determinato dall’autonomia nel determinare le aliquote delle imposte
di competenza municipale che hanno spinto, inevitabilmente, i vicini a
considerarsi in primo luogo come dei concorrenti nell’accaparrarsi i cittadini per i
quali la riduzione delle imposte rappresenta un offerta sempre molto interessante
nella decisione di dove andare a vivere rendendo così la cooperazione tra comuni
più difficile.
d.) situazione attuale
Il dibattito sulla riforma della pubblica amministrazione ha inevitabilmente
investito i governi locali, proprio per la struttura Bottom UP tedesca che non
poteva prescindere da essi.
Un esempio di coordinamento dell’azione di riorganizzazione arriva dall’agenzia
comunale per la razionalizzazione dell’amministrazione, ommunale
Gemeinschaftsstelle für Verwaltungsvereinfachung (KGSt). Un ente molto attivo
nel suggerire, e quindi coordinare, le riforme da farsi. Essendo un ente autonomo,
al quale partecipano tre città-Stato e un buon numero di municipalità, fornisce
suggerimenti a tutti i suoi membri, sotto forma di pareri e relazioni su tutte le
questioni, in particolare riguardo a personale, finanza, organizzazione. Ogni tre
anni il KGSt organizza un forum, palestra di discussione e confronto per
funzionari delle amministrazioni ed esperti delle varie discipline e metodologie di
analisi ed intervento organizzativo. Recentemente il KGSt ha anche effettuato
confronti tra i servizi erogati dagli enti partecipanti, punto di partenza per
innescare azioni emulative o di benchmarking, ed ha svolto azioni di supporto
* Paragrafo tratto da Quaderni Formez - Centro di Formazione Studi (dicembre 2004) - disponibili al link: http://biblioteca.formez.it/webif/media/Germania.pdf
*
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delle società di consulenza interessate a intervenire a supporto delle
amministrazioni. Nell’ultimo decennio gli enti locali tedeschi hanno fornito un
contributo rilevante per modernizzare la pubblica amministrazione e realizzato
con successo considerevole le riforme loro proposte.
Si può affermare che in questo processo gli enti locali abbiamo reinterpretato il
proprio ruolo, con un’enfasi che passa dalla funzione tradizionale di autorità
pubbliche a quella di fornitori di servizi e che il maggior orientamento ai bisogni
dei cittadini e degli utenti abbia aperto nuovi canali e offerto nuove occasioni per
una rinnovata partecipazione del cittadino alla vita politica e amministrativa
locali.
Oggi gli enti locali operano in misura crescente come promotori/erogatori di
servizi rivolti ai cittadini stimolando proprio per questo i processi di
identificazione dei cittadini stessi con i propri rappresentanti politici. I processi
sono facilitati dalla consapevolezza che nel sistema tedesco operano istituzioni i
cui sforzi sono tesi a migliorare la propria efficienza. L’orientamento al cittadino,
la maggiore visibilità del programma politico degli eletti, il monitoraggio dei
fornitori di servizi operanti in concorrenza, la domanda di maggior efficienza
nella gestione economica sono tutti fattori che stanno incidendo sul
funzionamento degli enti locali. In questo senso si potrebbe sostenere che il
processo di globalizzazione, almeno in un’accezione europea, stia attualmente
investendo il funzionamento delle PA tedesche. In tale contesto si stanno
sviluppando ulteriori azioni, quali ad esempio:
• uso sistematico delle nuove contabilità (dei costi, per centro di costo o per linea
di attività) e dei processi di responsabilizzazione delle unità organizzative
40
decentralizzate sull’uso delle risorse, come base di valutazione dei nuovi prodotti
forniti dalla PA e delle strategie di controllo orientate al risultato;
• utilizzo di forme di contract management e obbligo di reporting, come base per
una maggiore trasparenza del funzionamento delle amministrazioni e per una
puntuale attribuzione di responsabilità personali sui risultati conseguiti;
• adozione di cultura e tecniche di gestione del personale ispirate ai moderni
principi di sviluppo delle risorse umane, con adozione di strumenti incentivanti;
• ricorso a confronto fra le performance conseguite da enti diversi, inteso non più
come fatto eccentrico e “politicamente scorretto”, ma come utile prassi ordinaria,
dalla quale trarre stimoli per un miglioramento emulativo.
A quest’ultimo proposito, qualche semplice dato. Ad oggi risultano in funzione
ben 85 circuiti di benchmark ed un’altra quindicina sono in progettazione; essi
riguardano più di 600 servizi diversi, per la cui realizzazione lavorano più di
3.000 operatori pubblici. Si tratta, quindi, di una realtà di dimensioni ancora molto
ristrette, seppure con buone potenzialità di sviluppo. I dati così raccolti sono
disponibili nel database IKON (rete IKO), recentemente elaborato e accessibile a
tutti gli enti locali aderenti.
e.) L’operato della fondazione Bertelsmann
La Fondazione Bertelsmann, fondata nel 1977 al fine di onorare (continuandolo
nel tempo) l’impegno socio-politico e culturale delle famiglie Bertelsmann e
Mohn, ha predisposto e realizzato numerosi progetti sulla riforma
dell’amministrazione, da sola o in collaborazione con l’Istituto per l’Impiego,
numerosi Ministeri nazionali, autorità locali tedesche e internazionali. Tra i temi
* Paragrafo tratto da Quaderni Formez - Centro di Formazione Studi (dicembre 2004) - disponibili al link: http://biblioteca.formez.it/webif/media/Germania.pdf
*
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trattati figurano il performance oriented management, il confronto tra le
prestazioni delle autorità di polizia e tra le iniziative intraprese la costituzione di
“autorità per il futuro” e della rete internazionale cities of tomorrow. Tra le
iniziative più recenti della Fondazione, particolarmente attiva su tematiche
dell’evoluzione delle forme di governo, figura la preparazione di una griglia
valutativa sulla governance negli enti locali, presentata ad un convegno
internazionale promosso dall’Università di Stoccarda (Proehl 2002).
L’idea di fondo che la fondazione ha sempre cercato di diffondere è che una
buona governance locale rafforza la democrazia in quanto canalizza tutte le risorse
localmente disponibili (rappresentate dai governi locali, dai cittadini e da tutti gli
altri partner: la comunità degli affari, le NPO, le istituzioni culturali, religiose e
civili, ecc) verso uno sviluppo locale funzionale a una migliore qualità della vita.
Per produrre gli effetti desiderati, la triangolazione pubblico-privato-terzo settore
richiede congiuntamente nuove partnership e uno stretto controllo democratico. Di
seguito sono riportate alcune azioni suggerite dalla Fondazione:
-Più democrazia e migliore qualità di vita nelle Comunità.
Una buona governance si realizza con una democrazia locale caratterizzata da
una cooperazione vivace con spirito di partnership fra il consiglio comunale,
l’esecutivo, l’apparato amministrativo, i cittadini e tutti i soggetti espressi dalla
società civile.
-Modellare la politica futura su obiettivi di policy comuni
Affinché un ente locale sappia fare fronte in modo pienamente adeguato alle sfide
del futuro, deve sapere sviluppare e realizzare una visione che sia globalmente
condivisa dai cittadini e dai loro rappresentanti politici.
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-Realizzare partenariati con maggior collaborazione e partecipazione
La compartecipazione efficace dei governi locali con i cittadini, con gli altri livelli
di governo, con soggetti del settore privato e del terzo settore, all’interno e
all’esterno dei confini comunali, costituisce un fattore vitale per la soluzione
fruttuosa dei problemi.
-Garantire un’amministrazione efficace ed efficiente con maggior cooperazione
All’interno di un buon contesto di governance, l’organizzazione amministrativa
deve essere efficace, efficiente, trasparente, competitiva e orientata ai servizi.
Occorre, a tale fine, promuovere la cooperazione e la partecipazione non soltanto
con i partner esterni, ma anche all’interno dell’organizzazione stessa,
verticalmente ed orizzontalmente. Questa cooperazione è responsabile della
qualità e dell’efficienza dei servizi, prodotti direttamente o acquisiti mediante
contratto sul mercato. Per stimolare azioni di questo tipo conviene che l’ente
locale elabori e renda pubblici dati e relazioni che diano conto del livello di
realizzazione degli obiettivi comuni.
-Abbinare il management strategico con una elevata trasparenza
La realizzazione degli obiettivi condivisi di policy deve avvenire tramite processi
ad un tempo trasparenti e strategici. Ciò avverrà se tutte le politiche e le azioni
realizzate sono rese pubbliche e valutate, adottando la prospettiva tipica della
policy analysis, secondo la quale la valutazione viene usata per correggere e
migliorare le politiche future. All’interno di questo processo conviene prevedere
anche l’utilizzo di misure e indicatori di qualità della vita come strument i
essenziali per esprimere valutazione pregnanti.
-Preparare il bilancio comunale con maggiore attenzione alle risorse
43
Come noto, la parola finale sul bilancio comunale spetta al consiglio. Tuttavia, il
coinvolgimento dei cittadini nella fase iniziale della sua predisposizione, quando
si tratta di definire le priorità, aumenta la trasparenza e l’accettabilità dell’intero
processo di bilancio. Una procedura maggiormente aperta ai contri buti di soggetti
esterni aumenta inoltre le possibilità che ai finanziamenti con fondi propri
dell’ente locale si affianchino finanziamenti privati e provenienti da altri livelli di
governo.
-Innovare e apprendere gli uni dagli altri
La trasparenza, la comunicazione degli obiettivi delle politiche e il pieno sviluppo
della dimensione dei risultati sono aspetti che qualificano e migliorano la
governance. L’adozione senza timori di pratiche diffuse di benchmarking e la
creazione di reti di informazione con altri comuni offrono significative occasioni
di apprendimento e di scambio delle innovazioni.
-Indicatori di qualità della vita: il network cities of tomorrow
La Fondazione Bertelsmann è stata tra le sostenitrici, negli anni ’90, della
creazione del network cities of tomorrow, che raccoglie comunità locali tedesche
e di altri Paesi. Il funzionamento della rete è scandito da cicli di lavoro biennali,
ciascuno caratterizzato da obiettivi specifici.
Tra i più significativi ricordiamo: l’amministrazione di qualità, la progettazione
strategica, strategie alternative per la fornitura dei servizi, politiche di sviluppo del
personale, partecipazione dei cittadini, concorrenza orizzontale (ovvero tra enti
omologhi) (primo ciclo, 1995-96); costruire la fiducia nell’ente locale, gestire le
informazioni strategiche (ICT), vivere la società multietnica, favorire lo sviluppo
economico locale (secondo ciclo, 1996-97); promuovere l’occupazione,
44
migliorare lo stile di vita di bambini, adolescenti ed anziani nella città (in un ciclo
successivo).
Filo conduttore costante tra tutti i temi trattati è stata la costruzione di una
strategia generale per la gestione dell’innovazione.
f.) La governance tedesca
Il modello tedesco non prevede autorità propriamente preposte alla regolazione
della governance. La regolazione economica in ambito di fornitura di servizi
locali come ad esempio lo smaltimento rifiuti e la fissazione delle relative tariffe
è affidata dalle leggi federali alle amministrazioni locali. Di fatto queste ultime
svolgono un’ampia gamma di funzioni di regolazione, nelle materie che rientrano
direttamente nella propria sfera di responsabilità e in altre nelle quali invece
operano su mandato dei governi superiori. Le municipalità, ad esempio, sono
tenute a garantire determinati standard, pur nell’ambito di una totale autonomia
organizzativa, standard fissati con leggi federali in materia di fornitura di servizi
di pubblica utilità (quali la produzione e distribuzione di energia elettrica e
acqua): è una situazione tipica dei rapporti inter-istituzionali del federalismo
tedesco.
Sono quindi alcuni principi posti alla base della Costituzione (anche “materiale”)
tedesca, i principi del federalismo e della sussidiarietà, che spiegano l’assenza
sostanziale di forme e strumenti di controllo esterni rispetto all’attività svolta dalle
municipalità.
* Paragrafo tratto da Quaderni Formez - Centro di Formazione Studi (dicembre 2004) - disponibili al link: http://biblioteca.formez.it/webif/media/Germania.pdf
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45
La legge federale garantisce alle municipalità totale autonomia finanziaria e gli
enti locali non possano contare sul sostegno finanziario del bilancio statale per
sanare eventuali gestioni deficitarie.
I comuni sono direttamente responsabili della determinazione delle tariffe dei
servizi offerti, congiuntamente al gestore dei servizi stessi. La normativa che
regola la formazione dei prezzi si fonda sui principi sanciti dagli ordinamenti
comunali (Kommunalabgabengesetze).
Nonostante le forti radici cooperative del federalismo tedesco, la crescente
collaborazione intergovernativa viene vista, in alcuni casi, come una minaccia per
l’indipendenza dei L nder e conseguentemente per il loro ruolo politico. La
ricerca di una linea di demarcazione meglio definita dei compiti e delle
responsabilità finanziarie rispettive di governo federale e dei Länder costituisce
oggetto di confronto continuo tra i due livelli di governo e caratterizza la vita
politica del Paese. Ultimamente i Länder chiedono un proprio ruolo autonomo nel
processo decisionale dell’Unione europea, che per essere realizzato richiederebbe
un emendamento alla Costituzione federale.
La governance interistituzionale in Germania assume particolare rilevanza
soprattutto in ambito locale, dove sono stati realizzati modelli ed esperienze
diversi. A livello centrale, invece come già illustrato è il particolare carattere
cooperativo del federalismo tedesco stesso a determinare una situazione
tipicamente di governance interistituzionale.
La devolution non è un tema dibattuto in Germania dato che già nel secondo
dopoguerra, riprendendo la storia costituzionale del Paese precedente al periodo
nazista, la Germania è stata ridisegnata come Stato federale decentralizzato.
46
Sebbene la Costituzione tedesca mirasse a creare la cornice istituzionale per uno
Stato federale nel quale fosse garantita la massima autonomia ai Länder, nel corso
della vita della Repubblica questa impostazione è stata progressivamente mitigata
in favore di una crescente compenetrazione fra i due livelli di governo.
Da un lato le competenze attribuite al governo federale per determinate materie
lasciano poco spazio per un intervento legislativo a livello statale, dall’altro i
Länder sono coinvolti direttamente e in maniera talvolta determinante nel
processo decisionale centrale.
Il modello attuale del federalismo tedesco viene definito di tipo cooperativo
perché si fonda su una cooperazione inter-istituzionale fra i vari livelli di governo
e sul coordinamento delle politiche fiscali.
Il coordinamento delle politiche fra i vari livelli di governo è istituzionalizzata in
una serie di organi, il più importante dei quali è il Consiglio di Programmazione
Finanziaria (Finanzplanungsrat), costituito dai Ministri delle Finanze dei Länder,
dal Ministro federale dell’Economia e dai rappresentanti degli enti locali. La
funzione del Consiglio, che rappresenta un forum di discussione utile al processo
decisionale, è consultiva.
Quanto alla partecipazione dei Länder al processo decisionale centrale, si
sottolinea il fatto che in Germania il livello di governo statale ha una rilevanza
maggiore rispetto ad altri Stati federali.
I Länder sono responsabili di una serie di politiche di primo piano, quali ad
esempio l’istruzione e la giustizia, ma entrano con i loro governi a far parte
direttamente del processo decisionale federale. Nella seconda camera, il
Bundesrat, siedono, infatti, i rappresentanti dei governi dei Länder.
47
g.) Il rinnovamento della politica dal basso
Si possono identificare due tendenze delle riforme che hanno coinvolto
l’amministrazione locale tedesca:
-riforme che puntano a migliorare la partecipazione dei cittadini;
- riforme che mirano a conseguire una maggiore efficienza per gli enti locali;
Negli anni ’80 è stata la prima linea a prevalere, mentre negli anni ’90 sono state
intraprese anche in Germania riforme ispirate al secondo concetto.
Le riforme degli anni ’80 sono il futto di un processo che è stato chiamato die
Erneuerung der Politik von Unten: il rinnovamento della politica dal basso.
Questo processo mirava all’istituzionalizzazione della partecipazione dei cittadini
dal basso, vale a dire alla creazione di meccanismi e strumenti per favorire
l’accesso dei cittadini al processo decisionale a livello locale. Dal momento che le
leggi che regolano e delineano la struttura del governo locale sono emanate dai
Länder, ne consegue che in Germania coesistono più modelli di governo locale.
Contrariamente alle tendenze in atto in altri Paesi, poca attenzione riscuotevano
temi come il contract management e il controllo dei costi. Il dibattito
sull’amministrazione pubblica era concentrato sul rinnovamento della politica dal
basso. Questo processo mirava a scardinare l’impostazione centralista, gerarchica
e tecnocratica dell’amministrazione pubblica, in favore di una strategia
decentralizzata, su scala ridotta, basata sulla cooperazione orizzontale, sulla
trasparenza e sulla ricerca di una maggiore partecipazione dei cittadini17
. Le
parole chiave erano quindi partecipazione e consenso e non efficienza e efficacia.
17
Hendriks F., Tops P., 1999
* Paragrafo tratto da Quaderni Formez - Centro di Formazione Studi (dicembre 2004) - disponibili al link: http://biblioteca.formez.it/webif/media/Germania.pdf
*
48
Negli anni ’60 e ’80 le forze, che nascevano intorno a interessi diversi, dalla
questione ambientale all’opposizione al nucleare, dalla rivendicazione delle pari
opportunità per le donne alla lotta contro le discriminazioni degli omosessuali,
hanno esercitato pressioni sul sistema dell’amministrazione pubblica, sollecitando
riforme in senso democratico a livello nazionale, ma soprattutto a livello locale.
Determinante in questo processo è stata la nascita, nel 1981, del Partito dei Verdi
(die Grünen), che si è fatto interprete di queste istanze. La rete dei movimenti
sociali otteneva, così, un supporto politico. Accanto ai Verdi, un ruolo importante
nella promozione delle riforme è stato giocato da un gruppo di pressione, die
Bürgerinitiativebewegung (il movimento di iniziativa dei cittadini), costituito da
cittadini e operante a livello locale. Questo movimento richiedeva un maggiore
coinvolgimento dei cittadini nell’ambito della pianificazione territoriale e della
partecipazione democratica alla vita pubblica delle città.
Le riforme adottate in molti Länder per rispondere a queste richieste non
rappresentano, per la verità, una rottura col passato. Spesso sono stati
istituzionalizzati meccanismi per garantire una maggiore partecipazione della
società civile, che erano già operanti nella prassi. Ad esempio, molte iniziative
hanno interessato il mercato del lavoro locale e le politiche sociali, dove sindacati,
camere di commercio e altre organizzazioni erano già coinvolte.
Anche le reti di organizzazioni svolgono un ruolo importante con funzioni
diversificate. Alcune costituiscono esclusivamente un forum per facilitare la
definizione collettiva di un percorso di sviluppo dell’area. Altre svolgono un ruolo
più attivo. Nonostante le reti spesso si formino spontaneamente e su un piano
informale, nel momento in cui esse vengono ufficialmente inserite nel processo
49
della pianificazione territoriale la cornice istituzionale prevale sullo spontaneismo.
Funzioni e responsabilità vengono chiaramente definite e distribuite fra i vari
soggetti.
h.) La suddivisione del Enti Locali
COMUNI (GEMEINDEN), CIRCONDARI (KREISE), UNIONI DI COMUNI
(GEMEINDEVERBÄNDE)
In assenza di una riserva costituzionale a favore del Bund, la disciplina del diritto
comunale spetta ai L nder, che sono tenuti a rispettare i principi di cui all’art. 28
LF. Tale articolo stabilisce esclusivamente quali siano gli Enti locali di rilievo
costituzionale (Comuni, Circondari e Unioni dei Comuni) e ne disciplina a grandi
linee gli elementi necessari e le garanzie essenziali di autonomia.
Tali Enti devono rispettare i principi fondamentali della Costituzione e prevedere
un organo elettivo, sono titolari di diritti ed obblighi giuridici.
Ai Comuni è garantito «il potere di disciplinare sotto la propria responsabilità e
nel rispetto della legge tutti gli affari della comunità locale»: ciò implica che tutte
le funzioni amministrative che interessano la comunità locale si presumono di
competenza comunale (competenza primaria).
Nella garanzia dell’auto-amministrazione trova fondamento anche la
responsabilità finanziaria del Comune, cui corrispondono entrate finanziarie
proprie.
Per quanto concerne i Circondari, la Legge fondamentale nulla dice in ordine
all’estensione della relativa autonomia, aspetto da cui si evince, come più volte
ribadito dalla giurisprudenza costituzionale, che il Circondario, a differenza dei
50
Comuni, non è titolare di una competenza primaria sugli affari del proprio ambito
territoriale, bensì solo dell’esercizio di funzioni espressamente attribuite dalla
legge del Land.
Benché la Legge fondamentale non abbia disegnato un modello unitario di Enti
locali, la legislazione dei Länder, pur con inevitabili differenziazioni, si
caratterizza per una certa convergenza in ordine alla struttura costitutiva degli Enti
e alla disciplina delle competenze.
In relazione alla garanzia costituzionale di un ambito di autonomia amministrativa
propria del Comune su tutti gli affari della comunità locale, dottrina e
giurisprudenza hanno distinto fra gli «affari inerenti l’autonomia amministrativa»
del Comune, che ricadono nell’ambito operativo proprio dell’ente locale, e gli
«affari su incarico», che rientrano nell’ambito operativo delegato all’ente locale
da parte del Land.
Gli «affari inerenti l’autonomia amministrativa» comunale sono quelli che
originano e si sviluppano nell’ambito della comunità locale: nel silenzio della
Costituzione, la dottrina e la giurisprudenza hanno fatto rientrare in questa
categoria la gestione del territorio, l’amministrazione del patrimonio comunale,
l’approvvigionamento idrico, la fornitura di energia elettrica e gas, la
conservazione e la promozione della cultura locale, la polizia urbana, il trasporto
locale, le questioni relative alla potestà dei Comuni di provvedere al reclutamento
di personale e al reperimento di risorse finanziarie, la pianificazione e
l’organizzazione territoriale, i servizi cimiteriali, ecc.
In tutte queste materie, il Comune gode di una competenza generale, in base alla
quale può decidere come e se occuparsi di un determinato affare.
51
Gli «affari su incarico», invece, sono quei compiti che ricadono nell’ambito
amministrativo e operativo assegnato dal Land al Comune, quali, ad esempio, il
rilascio dei passaporti e delle carte d’identità, l’istituzione e l’organizzazione delle
commissioni edilizie, il vaglio delle domande di risarcimenti di guerra e la loro
assegnazione, ecc.
All’ampia autonomia amministrativa riconosciuta ai Comuni fa riscontro un
diffuso sistema di controlli esercitati dagli organi amministrativi del Land che
vigilano sull’operato dell’amministrazione locale.
Il controllo è di legittimità quando concerne atti adottati dai Comuni nell’esercizio
della loro autonomia amministrativa; è di merito quando concerne atti relativi
all’ambito operativo loro assegnato dal Land.
La legge disciplina diversi dispositivi di controllo di legittimità:
-l’autorità del Land competente a esercitare il controllo di legittimità può
provvedere a raccogliere informazioni sull’attività dell’amministrazione locale;
-può annullare un atto comunale o richiederne l’annullamento al Comune stesso;
-può domandare al Comune di adempiere alle proprie obbligazioni entro un
termine appropriato;
In ultima istanza, la suddetta autorità può provvedere alla nomina di un
commissario che svolga tutti o alcuni compiti in luogo dell’organo comunale
competente, con oneri a carico dell’amministrazione comunale.
L’autorità di controllo dispone anche di strumenti preventivi che impediscono agli
atti
illegittimi di perfezionarsi (riserva di autorizzazione), o che rendono possibile un
controllo immediato (riserva di denuncia).
52
Tutti i provvedimenti dell’autorità di controllo sono impugnabili.
Il controllo di merito mira, invece, ad accertare, in caso di provvedimenti
discrezionali, l’opportunità e la proporzionalità dell’attività dell’amministrazione
locale.
Le autorità di controllo possono impartire istruzioni vincolanti per il
comportamento futuro de Comune, oppure predisporre correzioni e procedere
all’annullamento di misure già prese. Il Comune può eccepire dinanzi a un
tribunale amministrativo che il controllo di merito abbia inciso sul suo diritto di
auto-amministrarsi.
La distinzione fra affari inerenti l’autonomia delle amministrazioni locali e affari
delegati dallo Stato è di grande rilievo giuridico: nel primo caso, infatti, i Comuni
godono di un’alta tutela giuridica contro leggi dello Stato federale e dei Länder
attraverso il Tribunale costituzionale federale e quello del Land (art. 93 LF); nel
secondo caso, invece, i Comuni, godono della sola tutela presso la giurisdizione
amministrativa. Qualora la violazione del diritto all’autonomia amministrativa sia
contenuta in un atto regolamentare del Land, i Comuni possono adire in via diretta
i tribunali amministrativi per il controllo di legittimità.
i.) L’ordinamento dei Comuni
I Comuni sono innanzitutto costituiti da un organo di rappresentanza dei cittadini
che, a seconda del Land, prende il nome di:
Consiglio comunale - Gemeinderat
Consiglio - Rat
Rappresentanza cittadina - Stadtvertretung
53
Assemblea elettiva della città - Stadtverordnetenversammlung
L’organo rappresentativo è competente per tutti gli affari essenziali del Comune,
emana le ordinanze e i regolamenti, delibera su tutte le misure rilevanti e nomina
le cariche comunali più importanti. Accanto all’organo rappresentativo e
deliberante, è previsto un organo di vertice, monocratico o collegiale, che si
occupa della preparazione e dell’esecuzione di tutte le delibere dei Consigli
comunali e che è a capo dell’apparato amministrativo comunale. Nella prassi
amministrativa tedesca si suole distinguere fra i seguenti quattro modelli di
organizzazione comunale:
-il modello magistratizio (Magistratverfassung);
-il modello del borgomastro (Bürgermeisterverfassung);
-il modello tedesco-meridionale (Süddeutsche Ratsverfassung);
-il modello tedesco-settentrionale (Norddeutsche Ratsverfassung).
Nel modello magistratizio, l’organo al vertice dell’amministrazione comunale,
detto Magistrat, è un collegio costituito da consiglieri di carriera e volontari,
presieduto dal borgomastro, il quale è eletto direttamente dai cittadini.
Nel secondo e nel terzo modello l’organo di vertice è il borgomastro, autorità
monocratica, eletta rispettivamente dal Consiglio comunale e dalla cittadinanza.
Nel modello tedesco-settentrionale, voluto dagli inglesi nelle loro zone di
occupazione, il Consiglio è il solo vero e proprio organo amministrativo del
Comune, mentre il borgomastro, che lo presiede, ha solo compiti di
rappresentanza. I compiti dell’amministrazione, in specie la preparazione e
l’esecuzione delle delibere consiliari, sono svolti dal «direttore comunale»
54
(Gemeindedirektor), carica non elettiva, ma tecnica, nominato dal Consiglio tra
funzionari competenti.
Negli ordinamenti comunali si riscontra un progressivo incremento di più incisive
forme di partecipazione popolare (audizione di cittadini in Consiglio comunale o
in commissioni comunali, diritto di proposta dei cittadini al Consiglio comunale,
diritto di rivolgere quesiti, di muovere obiezioni al progetto di bilancio comunale)
e di democrazia diretta.
l.) Unioni di Comuni e i circondari
Le «Unioni di Comuni» si collocano su un livello amministrativo immediatamente
superiore rispetto ai Comuni. Al riguardo, l’art. 28, c. 2 LF stabilisce che «anche
le Unioni di Comuni, nel loro ambito di funzioni legislativamente determinato,
godono del potere di autoamministrazione sulla base delle leggi».
Essi sono enti territoriali di diritto pubblico, dotati di un proprio statuto, di
un’assemblea dei rappresentanti degli Enti e di un presidente. Benché enti di
rilievo costituzionale federale, le Unioni di Comuni non sono enti necessari, ma
aggregazioni di Comuni su base volontaria anche se spesso tale elemento è frutto
delle concrete pressioni del Land, supportate da incentivi finanziari. Costituite
secondo legge per svolgere nel modo economicamente più razionale e sostenibile
i compiti eccedenti la capacità operativa dei singoli Comuni.
Il loro ambito di competenze è definito per legge, che può loro attribuire sia
materie tipicamente rientranti nell’autonomia comunale, sia l’attuazione di
competenze dell’amministrazione del Land. In tema di controlli valgono
considerazioni analoghe quelle fatte per i Comuni. Un discorso a parte merita il
55
Consorzio comunale finalizzato (kommunaler Zwecksverband) che è un insieme
volontario o obbligatorio di Comuni costituito con uno specifico mandato, talvolta
a termine, relativo a singoli compiti amministrativi.
Il Circondario (Kreis o Landkreis), ente territoriale di diritto pubblico presente in
tutti L nder e previsto dall’art. 28 LF, è un tipico ente intermedio tra il livello
comunale e quello regionale, assimilabile alla provincia italiana o al dipartimento
francese, ma con elementi differenziali. Nel prevedere tale ente, la Legge
fondamentale non ne definisce, come invece per i Comuni, un ambito primario di
competenza, ma garantisce solo il carattere democratico e rappresentativo della
relativa struttura.
In tutti i L nder il Circondario si articola in tre organi fondamentali: l’Assemblea,
la Commissione e il Presidente.
La competenza circondariale, di carattere sussidiario rispetto a quella comunale, è
definita dalla legge di ciascun Land. La divisione dei compiti ricalca il modello
comunale, per cui è dato distinguere gli «affari inerenti l’autonomia
amministrativa del Circondario» come i piani di sviluppo economico, tutela
dell’ambiente e del territorio rurale, sanità, scuole professionali, centri giovanili,
strade distrettuali, assistenza sociale, smaltimento rifiuti dagli «affari su incarico o
su istruzione », consistenti in materie in cui il Circondario esercita compiti
amministrativi delegati per conto del Land. L’ampiezza di ciascuna delle due
categorie di affari varia in ragione della legislazione del Land.
Anche la vigilanza del Land sull’operato del Circondario rispecchia il modello
comunale di controllo sugli atti.
56
Per quanto concerne, poi, i rapporti tra Comuni e Circondari, da un confronto
delle diverse normative, possono individuarsi le seguenti tipologie:
- Comuni che fanno parte di un Circondario (kreisangehörige Gemeinden): a tale
categoria appartengono di regola i Comuni di minori dimensioni, sul cui territorio
il Circondario è competente nelle materie di sua spettanza.
- Città (trattasi dei Comuni di medie dimensioni) appartenenti a un Circondario
(kreisangehörige St dte), cui la legge ha attribuito anche l’esercizio di alcune
funzioni circondariali.
I Circondari che le includono, quindi, hanno una competenza residuale nel
territorio di tali Città e piena, invece, nel resto del territorio ove insistono Comuni
minori.
- Città extracircondariali (Kreisfreie Städte): si tratta dei Comuni di maggiori
dimensioni, che svolgono in proprio oltre alle funzioni comunali anche in toto
quelle circondariali, assimilabili ad enti di ambito metropolitano. In tal caso il
territorio circondariale e comunale coincidono.
Nella esperienza tedesca si rinvengono, inoltre, i Consorzi “superiori”, enti
aggregativi di Circondari e talvolta anche di Comuni per provvedere a compiti di
natura ‘supercircondariale’. I Consorzi superiori hanno organizzazioni differenti
da Land a Land.
m.) Il progressivo riordino territoriale degli Enti locali
L’ordinamento territoriale tedesco si caratterizza dunque per una costante
attenzione da parte dei Länder, al riordino dei Comuni e Circondari, al fine di
ridurne il numero attraverso incorporazioni e fusioni, nell’ottica di una gestione
57
più razionale ed economicamente sostenibile degli ambiti territoriali. In ciò,
peraltro, i Länder sono stati sempre sostenuti dal Governo federale, che, attesa
l’impossibilità di realizzare riforme territoriali degli stessi ex art. 29 LF, ha visto
nel riordino degli Enti locali sollecitata dai Länder una possibile strada per
ottenere una reale riduzione dei costi e un’ottimizzazione della gestione del
territorio.
In una prima fase alcuni Länder hanno privilegiato le fusioni spontanee e
volontarie, sulla base di accordi di diritto pubblico tra gli enti interessati previsti
da apposite leggi che preordinavano il percorso verso la fusione, anche attraverso
nuove forme giuridiche di unioni di comuni o prevedendo particolari sovvenzioni
e misure finanziarie premiali. Laddove i Länder hanno riscontrato resistenze, oltre
all’adozione di leggi che introducevano forti penalizzazioni finanziarie nei
confronti degli enti restii al riordino, l’accorpamento è avvenuto per legge o, in
casi di minore importanza, con decreto governativo a contenuto normativo.
La legittimità costituzionale dei processi di accorpamento territoriale, di fronte
alle eccezioni di incostituzionalità mosse dagli enti interessati è stata più volte
affermata dal Tribunale costituzionale federale (ordinanza 27.11.1978) che ha
precisato che «la garanzia costituzionale dell’autonomia comunale tutela il
Comune come livello istituzionale necessario, ma non può impedire al legislatore
di preordinare progetti di riordino territoriale che portino a fusioni o
incorporazioni di Comuni, per motivi di utilità generale, sentiti gli enti territoriali
coinvolti». Il Giudice costituzionale si è, comunque, riservato, caso per caso, di
verificare se il legislatore statale abbia bilanciato accuratamente tutti i motivi
attinenti al bene della collettività, così come vantaggi e svantaggi della
58
regolamentazione statale e se l’intervento legislativo sia appropriato, necessario e
proporzionale.
Le riforme territoriali portate avanti in una prima fase tra il 1968 e il 1978 (e poi
riprese dopo la riunificazione nei L nder dell’Est), hanno conseguito risultati
considerevoli, sia per quanto concerne i Comuni, ridotti da 24.282 a 8505 (-65%,
con punte di -80% in alcuni Länder), sia per i Circondari, ridotti da 425 a 237, (-
44,7%).
Il processo di riordino territoriale ha, ovviamente, interessato i Comuni di minori
dimensioni, determinandone una netta diminuzione. In particolare, nel periodo
1968-1989 i Comuni inferiori a 500 abitanti sono passati da 10760 a 1735; quelli
tra 500 e mille abitanti da 5706 a 1400; quelli tra 1000 e 2000 abitanti da 3850 a
1631; quelli tra 2000 e 5000 abitanti da 2406 a 1699.
La riduzione di Comuni e Circondari ha comportato un ridimensionamento del
numero di amministratori di enti locali: nei Circondari si è passati da 15.615 a
13.286 amministratori (- 14,9%); nelle Città extra circondariali da 5441 a 4169 (-
23,4%); nei Comuni da 216.248 a 128.191 (-40,7%).
Il processo di riordino ha conosciuto una sua seconda fase dopo la riunificazione,
tra il 1991 e il 1994, per riordinare i territori della ex Germania Est, in
considerazione della eccessiva parcellizzazione della popolazione in troppi piccoli
Comuni, conducendo al dimezzamento del numero dei Circondari, passati da 189
a 92 e alla riduzione di circa il 17% del numero dei Comuni, passati da 7622 a
6293.
n.) Conclusioni
59
La situazione tedesca come abbiamo visto è assai diversa dalla situazione
Francese e come vedremo in seguito anche da quella Italiana. Ogni Stato tedesco
ha una vera e propria “personalità giuridica” autonoma con una propria
costituzione e quindi le proprie norme per la suddivisione dei poteri e
dell’organizzazione degli enti locali. La competenza legislativa può essere
esclusiva, concorrente o regolata da una legislazione quadro mentre il potere
esecutivo resta concentrato nei Laender. I diversi tipi di cooperazione sperimentati
in Germania partono da un approccio “informale” alla cooperazione. Un
approccio seguito spesso dalle conferenze regionali soprattutto negli anni ’90
quando era necessario diffondere, confrontarsi e studiare il tema delle riforme
degli enti locali. Il primo vantaggio di quest’approccio è dato dalla motivazione
dei partecipanti che si sono sentiti coinvolti prima ancora che le decisioni fossero
prese effettivamente.
La Kooperationshoheit (potere di cooperazione), distinto tra negativo e positivo,
ossia tra quello imposto e quello volontaristico, è stato definito dalla Dottrina
come uno strumento di azione che “apre” la protezione costituzionale dell’art.28
comma 2 e diversi sono stati gli studi dottrinali per incernierare la legittimazione
della limitazione del potere di autogoverno a favore di un esercizio indiretto delle
funzioni compensato da poteri di istruzione e partecipazione nel rispetto del
cosidetto Ubermassverbot, ossia il divieto di eccesso legislativo, caratteristica
del diritto tedesco che indica la tutela dall'eccessiva ingerenza da parte del
legislatore in relazione ai diritti fondamentali, il riferimento al rispetto del
principio di proporzionalità è calzante. In tal senso influisce la questione dei
confini comunali entro i quali i Comuni hanno autonomia legislativa mentre le
60
Unioni, operando oltre i confini degli stessi Comuni facendo venire meno la loro
competenza e di non poco conto, in tal senso, sono i conflitti di competenza che si
possono verificare tra Zweckverband (Unioni) e reis essendo quest’ultimo anche
esso portatore della protezione costituzionale. Interessante, a tal proposito,
l’interpretazione prevalente data in Germania al problema: se la competenza del
reis non è comprimibile data la tutela costituzionale lo è quella dell’Unione che
nasce come organo di secondo livello per sopperire il difetto di capacità dei
Comuni di gestire le loro funzioni originarie.18
L’eventuale obbligatorietà della
collaborazione imposta dal Land o dal Bund troverebbe un solo limite nella
facoltatività dell’azione trasferita, ove essa fosse una funzione obbligatoria la
coercizione sarebbe plausibile, non quando la loro azione fosse facoltativa e
comunque deve rispettare il Ubermassverbot. In Germania la scelta delle Unioni è
preferita anche per questo motivo, il trasferimento dei compiti all’ente associativo,
rispetto alla fusione, consente la conservazione dell’autonomia politico-
democratica e dell’identità dei piccoli Comuni. Dunque la rappresentatività della
cittadinanza ha avuto, e detiene tuttora, un livello di importanza non trascurabile e
tutt’ora fortemente tutelato come dimostrato da numerose sentenze delle corti
costituzionali. In conclusione possiamo sottolineare come in Germania gli esiti
migliori della cooperazione intercomunale si riscontrino laddove vi sia un
iniziativa dal basso tale che la condivisione della funzione provenga da una
spontanea iniziativa dei Comuni partecipanti. In tale caso ci troviamo di fronte ad
un emanazione di quel diritto tutelato costituzionalmente di autoamministrazione.
Nei casi di associazione obbligata e imposta è assolutamente necessario che i suoi
presupposti siano adeguatamente precisati e circoscritti. 18
Shmidt-Jortzig, Kooprationshoheit, in A.V. Mutius, Selbsterwaltung
61
E’ interessante addentrarsi nei diversi sistemi di rappresentatività previsti per le
diverse Unioni dove , escludendo quelle territoriali che possiedono un assemblea
eletta direttamente dalla comunità locale (Verbandsgemeinde e Samtgemeinde)
tutte le altre sono enti di secondo livello dove nell’assemblea sono rappresentati
tutti i membri per il tramite di almeno un componente per Comune
nominato/eletto dall’organo rappresentativo dell’ente stesso o
dall’amministrazione comunale a secondo della previsione statutaria. E’
interessante rilevare che per mantenere la corretta rappresentatività tra i diversi
membri si trovano statuti che prevedono un numero diverso di membri in funzione
dei residenti o un unico rappresentante con voto multiplo, sempre e comunque da
esercitare unitariamente. I componenti dell’assemblea sottostanno a due vincoli
nei confronti dei loro mandanti, il diritto di istruzione e il diritto di revoca.
Ricordiamo che le unioni si finanziano , prevalentemente , tramite tasse , tariffe e
corrispettivi e sono previsti anche casi di trasferimenti a sostegno di singoli
comuni con particolari meccanismi di perequazione finanziaria. La diffusione
della cooperazione in Germania è dunque particolarmente diffusa e presenta
soluzioni organizzative tra le più diverse. La rigidità della disciplina pubblicistica
ha stimolato spesso gli enti a trovare forme di cooperazione di tipo privatistico o
più informali soprattutto su temi non obbligatori. La coesistenza nel dettato
costituzionale di due principi apparentemente antitetici come la effettività
dell’azione amministrativa e l’autonomia organizzativa ha di fatto favorito la
volontaria allocazione dei compiti presso livelli amministrativi più alti per
assicurarne la regolare erogazione.
62
Totale Comuni Totale Abitanti Comuni fino a
5mila abitanti
% comuni % abitanti
11.933 82milioni 9.375 76% 16%
2.4 Italia
a.) Percorso Storico
In Italia la presenza e l’importanza dei Comuni risale al periodo medioevale19
quando le
nascenti borghesie mercantili riuscirono a prender le redini dei governi delle città
costituendo associazioni volontarie chiamate “universitates” soprattutto nelle zone
settentrionali. Fu solo con il dominio napoleonico che venne introdotto un sistema di
organizzazione dei poteri locali piramidale-gerarchico, che rispecchiava quello francese.
Il territorio era ripartito in dipartimenti, distretti, cantoni (a soli fini elettorali) e comuni.
Al dipartimento era preposto un prefetto, nominato dal Ministro dell'Interno, al distretto
un sottoprefetto e al Comune un Podestà che era al contempo capo dell'ente e delegato
del Governo. Con la caduta di Napoleone e la restaurazione dei precedenti ordinamenti
monarchici, il nuovo sistema di organizzazione amministrativa fu generalmente
mantenuto essendosi rivelato efficiente20
. Così fece anche il Regno di Sardegna, la cui
legislazione fu estesa a tutto il territorio nazionale nell’anno 1965 (legge n. 2248) dando
finalmente attuazione alla previsione dell’art. 74 dello Statuo Albertino entrato in vigore
dal 1848. In base a questa legge il territorio dello stato era diviso in province con a capo
il prefetto, circondari con a capo il sotto-prefetto e comuni con a capo il sindaco, che
manteneva l'ambigua natura di rappresentante della collettività e di organo locale dello
19 M.S. Giannini, I comuni, ISAP, Vol I, 1967 20 L.Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica, Bologna, Il Mulino,1983
63
Stato. Questa legge, oltre un secolo e mezzo orsono, prevedeva la facoltà per i Comuni
di formare tra di loro dei consorzi per esercitare “funzioni di scambievole interesse”.
Tale istituto era rivolto agli enti che, per l’esigua popolazione e le scarse risorse, non
avevano una dotazione, in termini di mezzi e risorse, bastevole per svolgere le stesse
autonomamente e per i quali “ la popolazione affezionatissima al proprio comune, non
consentiva la fusione con i loro contermini maggiori.” I Comuni potevano quindi
provvedere in modo congiunto, mediante l’istituto del consorzio di servizi e funzioni
obbligatori di cui è restata traccia nelle leggi speciali che hanno istituito i consorzi per la
costruzione delle strade, delle opere idrauliche, di bonifica e irrigazione.
Un cenno lo meritane anche la Legge n.5865 del 1888, con cui venne introdotta la
Giunta Provinciale e soprattutto una Legge voluta da Giolitti, la nr.103 del 1903, con
cui, attraverso la municipalizzazione dei servizi di pubblico interesse, cercò di
disinnescare il crescente pericolo autonomista e delle spinte centrifughe.
Dopo il 1903 la produzione giuridica del Regno d’Italia in materia di enti locali rileva
una progressiva tendenza espansionistica per cui la legislazione dello Stato si
sovrappose gradualmente alla legislazione comunale e tolse praticamente ai Comuni la
possibilità di municipalizzare i servizi. Formalmente era in vigore la legge del 1903, nei
fatti era svuotata dall’interno21
, un fatto che in Italia si è ripetuto in diverse epoche.
Il sindaco veniva nominato con regio decreto fra i consiglieri comunali. Solo nel 1889
fu introdotta l'elezione da parte del consiglio comunale, sempre tra i suoi membri e la
durata del mandato era di 4 anni con possibilità di rielezione.
La previsione di principio enunciata già nel 1865, trova applicazione solo nel periodo
fascista. Sono due i decreti di questo periodo per noi importanti da citare, il R.D. 2839
21 M.S.Giannini, I Comuni, cit
64
del 1923 e il R.D. 383 del 1927. Essi soppressore coattivamente circa 2000 Comuni di
piccole dimensioni a testimonianza di come già allora , da parte del governo, esistesse la
percezione del problema dell’eccessiva frammentazione dei comuni in unità di esigue
dimensioni. In fine ricordiamo il Regio Decreto n.383/1934 che conferì al Governo il
potere, da esercitarsi entro due anni, di eseguire una generale revisione delle
circoscrizioni comunali al fine di prevenire ad un ampliamento, a una riunione, o
comunque alla modificazione delle stesse. Nel 1934, in modo autoritario ma efficace,
entra in vigore il Testo Unico della legge Comunale e Provinciale che stabilisce la
facoltà di accorpare i Comuni inferiori a 2mila abitanti e privi dei mezzi per provvedere
adeguatamente ai pubblici servizi. L’effetto di questa norma fu la soppressione o
aggregazione di circa 2184 comuni di modeste dimensioni.
Nel 1921 esistevano in Italia 9124 Comuni e tra l’anno 1922 e 1945 i Comuni soppressi
furono 2165, di questi 468 furono subito ricostituiti con la Costituente e nel 1951 i
Comuni censiti erano 7804 mentre altri 8 si costituiscono nel 1952. Ricordiamo inoltre
che la Costituzione Repubblicana aveva riservato da subito alle Regioni la competenza
delle circoscrizioni comunali (Art. 117 e 133).
Con l'avvento del fascismo, gli organi democratici comunali erano stati soppressi e
sostituiti da organi di nomina governativa ritornando ad uno schema “napoleonico”. Il
Comune di Roma fu trasformato in Governatorato (R.D.L. 28 ottobre 1925, n. 1949). In
seguito fu introdotta la figura del podestà, inizialmente nei comuni con meno di 5.000
abitanti con il R.D.L. n. 237 del 1926 e poi in tutti gli altri con il R.D.L. n. 1910 del
1926. Tali leggi di riforma, confluite poi nel Testo unico della legge comunale e
provinciale del 1934, delinearono un sistema nel quale tutte le funzioni in precedenza
spettanti al Sindaco, alla Giunta e al Consiglio Comunale, venivano attribuite a un unico
65
organo, il podestà, nominato con regio decreto per cinque anni ma revocabile in ogni
momento. Il podestà era affiancato da una consulta municipale composta da almeno 6
consultori nominati dal prefetto o, nelle grandi città, dal ministro dell'interno, con sole
funzioni consultive su alcune materie indicate dalla legge e su tutte le altre questioni che
il podestà avesse ritenuto di sottoporgli. Nei comuni con più di 5.000 abitanti il podestà
poteva essere affiancato da uno o due vice-podestà, secondo che la popolazione fosse o
meno superiore a 100.000 abitanti, nominati dal ministro dell'interno. La città di Roma
aveva un ordinamento differenziato, essendo le funzioni municipali attribuite a un
governatore, coadiuvato da un vicegovernatore, sempre di nomina regia, e dalla consulta
di Roma, costituita da 12 consultori nominati dal ministro dell'interno.
b.) Il periodo repubblicano
In seguito alla caduta del fascismo il sistema elettivo fu ripristinato ma solo con la legge
n.142 del 1990 si disciplinano organicamente gli enti territoriali dopo la costituzione
della Repubblica.
La Costituzione Repubblicana gioca un ruolo importante nelle linee di sviluppo della
materia. L’art. 5 riporta che “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le
autonomie locali” evidenziando quindi due principi, quello dell’autonomia e quello del
decentramento pur restando in un ordinamento unitario.
L’art.114 della Costituzione, nella formulazione originaria, richiamava un quadro
istituzionale suddiviso in Regioni, Province e Comuni a cui l’art 115 forniva autonomia
e l’art 128 ne richiamava la piena autonomia all’interno delle leggi generali dello Stato
che ne determinano le funzioni.
66
Nel 1953 con la legge n. 71 , formata da un solo articolo a firma di Einaudi Presidente e
De Gasperi-Scelba per il Governo, fu riconosciuta la possibilità ai Comuni, riuniti o
soppressi durante il fascismo, di ricostituirsi anche in assenza del requisito minimo
demografico che scendeva a soli 3000 abitanti. Questa proposta di legge è frutto di tre
senatori democristiani (Rosati-Bareggi-Cemmi) che esordivano nella loro presentazione
invocando a gran voce l’antica libertà comunale soppressa e sovvertita nel ventennio.
Nei lavori preparatori di tale legge22
troviamo alcuni dati interessanti. I comuni censiti
sono 7804 (alla data del 4 nov 1951), di questi ben 4427, ossia il 56,72 % ha una
popolazione inferiore ai 3000 abitanti e di questi ben 1192 sono inferiori ai 1000
abitanti. Di questi ultimi poi sono 981 quelli dislocati nell’Italia settentrionale, cioè non
nelle zone storicamente meno progredite. A quel epoca il paragone con altri Stati
contigui era favorevole all’Italia. La Francia contava circa 38mila comuni con una
popolazione media di poco superiore ai mille abitanti, la Svizzera contava 3118 comuni
con una popolazione media di 1304 abitanti.
Il deputato relatore alla Camera suggerisce di non avversare per formulazione astratta il
ripristino delle autonomie comunali quanto piuttosto di provvedere ad adeguare “più
convenientemente il sistema legislativo vigente per le amministrazioni locali in rapporto
alle situazioni reali”. Chissà cosa direbbe, a distanza di oltre 60 anni e alla luce della
situazione attuale del processo di riduzione dei piccoli comuni, quello stesso deputato.
Tra gli argomenti affrontati nell’occasione non mancò il dibattito sulla preoccupazione
della “consistenza finanziaria” dei piccoli comuni. I favorevoli alla ricostituzione dei
piccoli comuni hanno ricordato la particolarità geografica del nostro territorio con la tesi
era che i 3000 abitanti minimi fossero un numero sensato per le zone pianeggianti o in
22 Camera dei Deputati, Relazione della 1a Commissione Permanente N. 1648-A
67
riva al mare ma non per quelle zone di frazioni lontanissime tra di loro in terreni
impervi e di scarsissima comunicazione.
Già allora si anticipava dunque una distinzione tra i diversi comuni che poi ha trovato
posto nelle normative : i comuni hanno una diversa classificazione che va da urbani a
rurali e di montagna. Ad ogni modo i primi 15 anni di epoca repubblicana trascorrono
nel faticoso lavoro di eliminare i contrasti tra la Costituzione e gli istituti o le tracce
normative di origine fascista rimasti in vigore nella normativa sulle autonomie regionali
e locali. Tra gli anni sessanta e settanta si inizia a discutere di come attuare le previsioni
costituzionali e poi, fino agli anni novanta si interviene finalmente con le norma
attuative delle previsioni costituzionali che modificano l’assetto ereditato
aggiornandolo gradualmente ai principi dello sviluppo delle autonomie locali.
c. Le autonomie locali fino agli 90
La caratteristica “forma di governo” dei Comuni italiani fino al 1990 è rappresentata
dalla centralità del Consiglio comunale, unico organo eletto direttamente dal corpo
elettorale con un sistema proporzionale, che a sua volta eleggeva il Sindaco. Il
Consiglio esercitava i poteri ‘politici’ e di gestione di cui il Sindaco era l’esecutore
mentre il controllo formale sulla regolarità degli atti spettava al Segretario Comunale,
organico del Ministero dell’interno ed, ex art. 130 della Costituzione, al Co.Re.Co.
organo regionale (controllo preventivo). Di fatto, come già ricordato, fino agli anni ’70
si assiste solo alla rimozione dall’ordinamento esistente delle norme inserite durante il
periodo fascista ed in contrasto con la nuova Costituzione e ci si concentra sulla
ricostituzione degli organi elettivi nei comuni e nelle province. Ogni proposta di
intervento normativo teso al decentramento fallisce prima ancora di nascere.
68
L’assoggettamento degli enti locali allo Stato centrale è totale e tutte le competenze
esercitate dagli Enti locali restavano comunque statali. La situazione appare
radicalmente diversa rispetto ad oggi non solo dal punto di vista della gestione del
potere tra i vari organi istituzionali ma anche sotto l’aspetto della funzione della stessa
burocrazia dell’ente locale. Considerando che sia l’attività di indirizzo che di adozione
dell’atto erano di competenza dell’organo politico, assessore o sindaco, è evidente la
marginalità dell’apparato burocratico, soprattutto allorquando confrontato con il sistema
vigente. I dipendenti esercitavano, in sostanza, attività istruttorie all’adozione del
provvedimento. Anche l’assenza di un regime proprio delle entrate, non erano infatti
previsti tributi locali, con il trasferimento di tutte le risorse dal centro, aveva creato una
sostanziale irresponsabilità degli enti locali per le spese assunte generando un
sostanziale inefficienza del sistema e una totale mancanza di stimoli a gestioni efficaci.
Le principali difficoltà erano legate al fatto che il Consiglio Comunale esercitava un
eccessiva concentrazione di funzioni con conseguenti difficoltà, rallentamenti e
politicizzazione degli atti. I Consiglieri chiamati a esercitare le funzioni amministrative
prevalentemente non erano di carriera amministrativa quindi non erano dotati delle
necessarie competenze e in tale quadro normativo la Giunta esercitava solo funzioni di
stretta esecuzione. Emersa l’incapacità dei consigli di amministrare iniziano le prime
modifiche per cercare soluzioni più snelle ed efficienti. Alcune anticipazione sono
modelli poi tradotti nella L. 142/1990.
Dagli anni novanta inizia una nuova fase anche in Italia, probabilmente influenzata dalla
ratifica nel 1989 della Carta Europea dell’Autonomia locale.
Nel 1990 entra in vigore la L.142 “Ordinamento delle autonomie locali”, poi abrogata
dal Tuel, che prevede:
69
- L’incentivazione dei processi di fusione tra Comuni con popolazione
inferiore ai 5000 abitanti anche attraverso la formula dell’Unione quale tappa
intermedia;
- Lo sviluppo delle formule d’associazione e collaborazione tra comuni
attraverso le convenzioni, i consorzi, le unioni e gli accordi di programma;
- La nuova disciplina delle Comunità montane;
L’Ordinamento delle Autonomie Locali all’art. 26 prevedeva le “Unioni di Comuni”
ma in previsione di una loro fusione:
“Due o più comuni contermini, appartenenti alla stessa provincia, ciascuno con
popolazione non superiore a 5.000 abitanti, possono costituire una unione per
l'esercizio di una pluralità di funzioni o di servizi.”
In questo articolo è ridondante il concetto di fusione tra comuni, addirittura prevedendo
la fusione, cosi come stabilita dagli articoli della Costituzione, di diritto e in via del tutto
obbligatoria da parte della Regione quando questa eroghi all’Unione di Comuni dei
contributi aggiuntivi. Vincoli, obbiettivi e dichiarazioni di principio che certo non
stimolavano gli amministratori locali ad iniziare il percorso dal basso.
Nel 1993, con la legge n. 81, venne introdotta l'elezione diretta del sindaco e la nomina
dei componenti della giunta da parte dello stesso. Di fatto la norma riduce la centralità
del consiglio comunale e in questo modo la forma di governo del comune, in
precedenza riconducibile al modello parlamentare, venne avvicinata al modello
presidenziale mentre, ricordiamo, la forma dello Stato centrale rimane saldamente legata
alla centralità parlamentare come definita dalla Costituzione Repubblicana. La stessa
legge aveva fissato in quattro anni la durata del mandato del sindaco (art. 2) poi
allungato a cinque (art. 51 del D. Lgs. n. 267/2000). Le ragioni sostanziali del perché gli
70
enti locali in Italia abbiano faticato cosi tanto nel ritagliarsi un ruolo attivo si possono
ricondurre alla situazioni post bellica. Dopo il «soffocamento» delle libertà locali
attuato dal fascismo (Trentin 1929), la difficoltà dei comuni a raggiungere, nel
dopoguerra, una condizione di sufficiente autonomia è riconducibile anche al ruolo
giocato dai partiti, che finirono per svolgere una funzione di supplenza nei confronti di
una rete amministrativa che stentava a riorganizzarsi. Ponendosi, dunque, il problema
della mancata autonomia dei corpi intermedi, è impossibile non fare i conti con la
centralizzazione indotta dai partiti, l'attività verticistica dei quali rispondeva del resto, ai
bisogni della ricostruzione. Si sovrapponevano, così, due centralismi: il tradizionale
centralismo amministrativo dello Stato unitario, organizzato per ministeri, e il
centralismo dei partiti, a caccia di consenso e di voti sul territorio .
Alla Giunta viene trasferito l’esercizio reale delle funzioni amministrative nei casi in cui
c’è la sussistenza dei requisiti d’urgenza, atti che ottenevano quindi solo
successivamente la ratifica consiliare. La strada individuata aveva un evidente impatto
istituzionale e politico: la Giunta, espressione della maggioranza del consiglio,
esautorava, nei fatti, il ruolo del consiglio. Il Paradosso di questo primo intervento è
dato dalla sostanziale insindacabilità degli atti di Giunta perché di fatto non erano
rispettati neanche i principi previsti dall’ordinamento. Ritroviamo infatti l’assenza di
termini di vigenza dei provvedimenti adottati in attesa di ratifica e il merito
dell’esercizio d’urgenza era considerato elemento di valutazione ex post. Questi due
semplici elementi rendevano insindacabili gli atti da parte degli organi giurisdizionali.
Inoltre non essendo intervenuti con una netta distinzione di funzioni tra Giunta e
Consiglio, le delibere venivano comunque trasmesse a con la conseguenza di una
cronica mancanza di tempo e di competenze per l’approfondimento e di sovente si
71
otteneva una ratifica automatica. Si possono schematizzare tre situazioni tipiche riferite
a tre classi dimensionali dei Comuni:
-nei Comuni sotto i 5.000 abitanti il ruolo dei sindaci diventava determinante anche per
il legame personale con i consiglieri che si limitavano a ratificare ma proprio in questo
caso il consiglio, numericamente contenuto, avrebbe potuto operare nel rispetto dei
principi dell’ordinamento;
-per i comuni di grandi dimensioni ove si potevano trovare anche 80 consiglieri, era
maggiormente comprensibile la “variante applicativa di sistema”;
- nei comuni medi il sistema formalizzato funzionava. La giunta effettivamente era
organo di stretta esecuzione.
d.) verso il TUEL (267/2000)
Nel 1990, come già accennato, probabilmente anche sotto la spinta e l’influenza di
quanto succedeva nel resto d’Europa, il legislatore italiano aveva iniziato ad affrontare
il tema della riduzione del numero di comuni con il contestuale innalzamento della
media di abitanti per Comune che non avrebbe dovuto essere inferiore a 10mila.
La legge 142/90 aveva iniziato ad affrontare la questione , prevedendo come regola che,
per l’istituzione di nuovi Comuni, si dovesse rispettare la nuova e più alta soglia
demografica di 10.000 abitanti assegnando alle Regioni il compito di introdurre
programmi quinquennali di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusione dei
piccoli Comuni.
In questo quadro, come sopra detto, il ruolo delle unioni di Comuni fu concepito
esclusivamente come uno stadio preliminare alla successiva fusione. Si trattava, infatti,
di una forma di gestione associata da sperimentare per il periodo massimo di dieci anni,
72
trascorsi i quali, senza che si fosse conclusa la fusione dei singoli Comuni, l’unione
sarebbe stata sciolta.
Queste norme non hanno prodotto risultati significativi, probabilmente perché
puntavano soprattutto sulla fusione dei Comuni per ridurne il numero tralasciando di
considerare che un tale percorso avrebbe incontrato ostacoli insormontabili dovuti al
radicamento culturale e storico verso il proprio campanile.
Nel 1999 la legge n. 265, cosiddetta Napolitano-Vigneri, introduce alcune significative
novità in materia di autonomia ed ordinamento comunale, modificando (e integrando) la
legge 8 giugno 1990, n. 142 e definendo in modo più completo, rispetto alla normativa
precedente, gli spazi di autonomia dei Comuni. Sul terreno della valorizzazione
dell'impianto autonomistico, questa legge attua un rilevante ammodernamento
dell'ordinamento di tutti gli enti locali, tentando di adeguare i principali istituti della
legge n. 142 alle innovazioni in atto nel nostro ordinamento (soprattutto a quelle emerse
nell'ambito del processo riformatore delle leggi Bassanini), e allo stesso tempo cercando
di aggiornare e consolidare l'impianto esistente, alla luce dell'esperienza applicativa
consolidatasi a partire dall'emanazione della legge del 1990. E' dunque una legge che,
proseguendo nella complessa strategia riformatrice del sistema di governo locale, si
propone di rivisitarne la materia per conferirle maggiore organicità e completezza, senza
tuttavia modificare del tutto le caratteristiche di fondo del sistema amministrativo
locale.
Fra i punti più innovativi della legge c'è sicuramente quello di aver compiuto progressi
rilevanti in materia di autonomia normativa locale, e, in particolare di aver ampliato gli
spazi di autonomia riconosciuti allo statuto. Su questo versante la riforma tende a porre
rimedio ad una delle grandi contraddizioni della legge n. 142 del '90, ossia quella di
73
aver riconosciuto per la prima volta l'autonomia statutaria a Comuni, e Province, e allo
stesso tempo averla rinnegata coprendo gli spazi riservati alla normativa autonoma con
discipline statali troppo puntuali e dettagliate.
Per questa ragione l’obiettivo perseguito dalla legge 265, i cui contenuti sono stati poi
trasferiti nell’attuale Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), era quello di produrre un
consistente aumento del numero delle unioni su base volontaria, cioè senza un progetto
di accorpamento imposto dall’alto, sorretto da un’opera di promozione iniziata con la
legge finanziaria del 1999. Tutto ciò nella convinzione, da parte del legislatore, che
fosse comunque utile, indipendentemente dall’eventuale fusione, che si praticasse
l’esercizio associato delle funzioni comunali, così da poter finalmente essere in grado di
stimolare il trasferimento delle funzioni di maggiore rilevanza in una struttura collettiva
ottenendo gli auspicati benefici nella riduzione dei costi. La legge Vigneri-Napolitano,
significativamente intitolata “Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli
enti locali'', ha così posto mano a un generale riordino della legislazione in materia,
delegando il governo a predisporre un Testo Unico in materia di ordinamento degli Enti
locali avente ad oggetto l’attività deliberativa e di amministrazione attiva nonché la
finanza e la contabilità. Sulla base dei criteri e principi direttivi presenti nella legge
delega, il Governo ha quindi adottato il Testo Unico degli Enti Locali (D.Lgs. 18 agosto
2000, n. 267) che rappresenta simbolicamente la conclusione del decennio di riforme
iniziato con la legge 142/1990.
L’entrata in vigore del Tuel (D.lgs 267/2000) crea finalmente anche in Italia un corpo
normativo omogeneo con alcune novità importanti come l’adeguamento degli Statuti e
dei Regolamenti, la responsabilizzazione diretta dei dirigenti, i tributi locali, una
maggiore autonomia nelle assunzioni di personale, i bilanci e i controlli. Gli articoli dal
74
nr. 30 al 35 del Tuel regolano le forme associative per le gestioni associate dei servizi
prevedendo cinque situazioni:
- Convenzioni
- Consorzi
- Unioni di Comuni
- L’esercizio associato
- Gli accordi di programma
La visione del legislatore è quella di lasciare al piccolo Comune massima libertà di
scelta ma di dargli dei modelli e delle scelte allorquando si rendesse conto che da solo
non è più in grado di erogare i servizi richiesti dalla cittadinanza. L'Unione tende quindi
ad assumere un carattere polifunzionale, spettando all'atto costitutivo ed al regolamento
la delimitazione effettiva dell'ambito di attività ad essa demandate.
In sintesi e in modo meno generico possibile per il legislatore lo scopo dell'Unione è
promuovere lo sviluppo dell'intero territorio sul quale la stessa insiste e promuoverne la
crescita delle comunità che la costituiscono, attraverso la gestione collettiva ed unitaria
delle funzioni a tale ente attribuite ma mantenendo in capo ai singoli Comuni le funzioni
e le relative competenze che più da vicino ne caratterizzano le specifiche peculiarità.
In tale sistema normativo, orientato verso l’associazionismo malgrado un inefficacia
concreta, si è innestata la riforma costituzionale del 2001.
e.) La riforma del Titolo V
Il titolo V è stato riformato con la legge Costituzionale nr. 3 del 2001 che voleva dare
piena attuazione all’art. 5 della Costituzione riconoscendo le autonomie locali quali enti
esponenziali preesistenti alla formazione della Repubblica. Il nuovo art. 118, in
75
particolare, ha codificato a livello costituzionale i principi di sussidiarietà, adeguatezza
e differenziazione, in base ai quali il legislatore ha attribuito tutte le funzioni
amministrative ai Comuni, salvo che – per assicurarne un esercizio unitario – si renda
necessario conferirle a Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato omettendo di
citare le Unioni di Comuni.
Il principio di Sussidiarietà è un principio normativo per il quale i poteri devono essere
assegnati al livello di governo più basso possibile, cioè quello più vicino ai cittadini,
purché sia in grado di gestirli in modo adeguato. La storia legislativa italiana dell’ultimo
decennio ha però fallito integralmente l’opera attuativa della riforma che alla fine è
perennemente in mezzo al guado, applicata nei principi spesso solo ove gli enti locali
hanno voluto e potuto perché insieme alle funzioni sono arrivate anche le risorse, vedi le
Regioni rispetto al caso dei Comuni.
Per realizzare sinergie ed economie di scala nel frattempo l’ordinamento ha previsto
varie forme associative, tra le quali l’Unione di Comuni è quella dotata delle maggiori
potenzialità in termini di integrazione ed oggi risulta l’unica perseguita e stimolata dal
legislatore.
Per il legislatore è importante trasferire le funzioni alle Unioni in modo che le leggi
statali e regionali, di attuazione dell’art. 118 Cost., possano contare sull’esistenza di un
ambito territoriale adeguato alla gestione delle funzioni conferite dalle stesse leggi e si
possa evitare di dover ricorrere alla loro allocazione in capo a diversi livelli di governo
come la Città Metropolitana, la Provincia, la Regione o lo Stato.
I ripetuti interventi modificativi della legge n. 142/1990 e le rilevanti innovazioni
legislative susseguitesi nell'arco di un decennio, ma soprattutto la ristrutturazione
organizzativa recata dalla legge n. 127/1997 e le nuove funzioni attribuite alle
76
autonomie dalla legge n. 59/1997 e relativi decreti di attuazione, hanno quindi imposto
una revisione organica a livello ordinamentale degli enti locali. La Costituzione non
definisce il principio di sussidiarietà, ma lo riconosce e lo pone alla base della stessa
strutturazione dello Stato, costituito dagli enti territoriali, elencati partendo dal più
vicino al cittadino (il comune); attribuisce inoltre le funzioni amministrative ai diversi
enti alla stregua dello stesso principio, cioè assegnandone la generalità ai comuni e agli
enti di ambito territoriale più ampio solo quelle che meglio sono esercitate a livello
superiore. Fanno, infine, da corollario al principio di sussidiarietà, quelli di
differenziazione (degli ordinamenti) e di adeguatezza (del complesso di funzioni
attribuite alla dimensione degli enti).
Il percorso indicato dalla Legge Vigneri-Napolitano si caratterizzava, come abbiamo
visto, per il riconoscimento di una più ampia autonomia degli enti locali all’interno
della quale assumono rilievo centrale l’autonomia statutaria e regolamentare e un
atteggiamento di favore verso la gestione sovracomunale delle funzioni di competenza
tra più enti locali incentivando le funzioni e le unioni oltre a introdurre una nuova
disciplina per le comunità montane.
I principi enunciati come fondamentali e guida delle scelte sono sempre gli stessi:
razionalizzare l’utilizzo delle risorse, ottenere le economie di scala, migliorare ed
incrementare i servizi ai cittadini, diminuire l’incidenza della tassazione, ottenere
contributi economici straordinari, diventare competitivi, mantener la propria autonomia,
acquisire voce e peso nelle scelte di sviluppo, ma tutto questo presupponeva che chi era
chiamato in causa, l’ente locale, sapesse far tesoro della propria autonomia attivandosi
nella costruzione di un sistema di governo locale atto a raggiungere gli obbiettivi
sollecitati dal legislatore.
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f.) Le Unioni del TUEL
L'Italia registra, nel 2011, 8.092 Comuni23
, di questi, in base agli ultimi dati ISTAT
dell'anno 2011, circa 500 superano i 15.000 abitanti, circa centocinquanta superano i
50.000 abitanti, tra cui 80 capoluoghi di provincia (37 capoluoghi hanno invece
popolazione inferiore ai 50.000 abitanti). Le principali differenze rispetto alla
numerosità della popolazione riguardano il Piemonte composto da 1.206 Comuni
(media: un Comune ogni 3.700 abitanti), la Toscana con 287 comunità (media: 13.065
abitanti), e il Molise da 136 (media: 2.351 abitanti).
Nel 1861, anno dell'unità d'Italia, i comuni erano 7.720, in corrispondenza del
censimento del 1921 è stato registrato il maggior numero di comuni circa 9.195, mentre
al censimento successivo del 1931 si registrarono 7.311 comuni, valore minimo mai
raggiunto grazie ai già descritti accorpamenti imposti dal governo fascista.
L’associazionismo ha avuto uno sviluppo, sotto forma di Unioni di Comuni, che in
pochi anni ha portato le unioni da un numero veramente esiguo, 67 nel 2000, a ben 352
unità nel 2011, registrando in un decennio un aumento del 425%, interessando 1.752
Comuni e coinvolgendo una popolazione di circa 6,5 milioni di abitanti, a fronte dei
quasi 5 milioni del 2000. Non certo un successo esplosivo ma comunque un dato
rilevante, considerando anche che più dell’80% dei Comuni interessati ha una
popolazione inferiore ai 5000 abitanti. Tale incremento è stato possibile in seguito alla
rimozione di una serie di vincoli legislativi che, originariamente pensati per favorire la
fusione tra comuni di piccole dimensioni, ne riducevano, di fatto, l’autonomia locale.
Tabella Anci suddivisione geografica 2011 24
23 Elaborazione Ancitel, su dati ISTAT 2011 24 Dati raccolti ed elaborati da ANCITEL2011, Area Piccoli Comuni/Unioni di Comuni.
78
L’Unione indicata dal Tuel, nell’intenzione del legislatore, non si limita ad essere una
risposta alle problematiche dei piccoli comuni, ma cerca di andare oltre il mero confine
territoriale considerando l’importanza di partecipare alla programmazione territoriale
regionale (forse cercando di riprendere il successo del modello tedesco). Essa ha
personalità giuridica come pure la qualifica di ente locale (art.2 e 32 del Tuel) mentre la
Costituzione nel nuovo titolo V tace al riguardo.
L’Unione, sulla carta, sembra la miglior soluzione per superare lo scoglio della
geografia e delle resistenze campanilistiche, storiche e sociali. Il legislatore inoltre
conferisce alle Regioni il compito di svolgere la funzione amalgamante (quello che in
Francia hanno fatto i Prefetti ed in Germania i Land).
Il legislatore nell’elaborare le caratteristiche organizzative delle Unioni ha descritto
regole sintetiche e minime, le cui attuazioni possono essere molto diverse fra di loro
proprio perché venissero costruite in funzione delle singole esigenze territoriali ed
istituzionali.
Tra gli elementi determinati ci sono la presenza di un presidente eletto tra i Sindaci dei
Comuni dell’Unione e un consiglio nominato sempre tra i consiglieri dei singoli comuni
con la garanzia della rappresentanza delle minoranze. Alle Unioni competono gli introiti
derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai contributi sui servizi ad esse affidati,
79
semplificando cosi le procedure di accertamento e riscossione ed evitando inutili
passaggi attraverso i comuni impositori, questo almeno nelle ottimistiche previsioni del
legislatore. Alle regioni è lasciato il compito di prevedere gli ambiti territoriali ottimali
di gestione delle funzioni associate e questa è una delle prima previsioni che ha “legato
le mani” a quei comuni che non essendo preparati al tema non hanno espresso da subito
le proprie osservazioni in materia. D’altro canto doveva essere previsto dallo stesso
legislatore che i Comuni delle zone disagiate sarebbero stati quelli che avrebbero
dimostrato una maggior reticenza nell’avvicinarsi al tema delle Unioni non solo perché
storicamente gelosi della loro municipalità e indipendenza ma anche perché questa era
la condizione naturale in cui erano costretti dalla geografia e la “chiusura” ad ogni
forma di collaborazione non era tanto per cattiva volontà quanto per cultura indotta …
aiutati che dio ti aiuta, non aspettarti nulla da chi, benché sia tuo vicino e vive anche a
pochi Km non può raggiungerti perché, ad esempio, la neve ha bloccato la strada.
La decisione sull’ambito territoriale vincola tutto il processo e come vedremo in seguito
può presentare ostacoli al successo dell’Unione stessa.
g.) Situazione attuale
Anche in Italia abbiamo dunque assistito, sotto la spinta della crisi economica, al
perenne dibattito sulla riforma dell’ordinamento degli enti locali e ad una sostanziale
continua metamorfosi kafkiana che nel suo lento fluire, accompagnato da violente e
improvvise accelerazioni, non permette di comprendere a fondo quale sia il modello di
amministrazione locale che si vuole adottare. A oltre 10 anni dalla approvazione della
riforma del titolo V della Costituzione essa non è ancora stata attuata completamente e
l’ordinamento vigente è in continuo conflitto tra i principi precedenti, vedi il T.U.E.L.
80
che è antecedente ad essa, ed i principi enunciati nella riforma ma che non hanno
trovato ancora una concreta attuazione normativa. Se il quadro normativo risulta
piuttosto confuso la colpa è ascrivibile anche al trasferimento al tavolo delle riforme
delle contrapposizioni tra i due principali schieramenti politici di questo decennio, il
PDL di Silvio Berlusconi che per aver l’appoggio della Lega Nord di Bossi ha
appoggiato la richiesta di riforme federaliste e il Partito Democratico, storicamente
molto radicato nel territorio a livello di enti locali e che ha sempre sospettato di tutte le
proposte di modifica vedendole, in primis, come tentativi di sovvertire e attaccare
proprio la loro preminenza nel controllare gli enti locali.
L’unico obbiettivo che emerge, al di la degli slogan legati alle tensioni politiche
momentanee, soprattutto per le dichiarazioni programmatiche che accompagnano i
diversi provvedimenti, è la riduzione della spesa pubblica.
Risale al 2001, come abbiamo visto, la modifica del Titolo V della Costituzione che ha
fatto delle autonomie locali il baricentro dell’amministrazione pubblica. Questa scelta
ha prodotto un costante incremento delle funzioni amministrative esercitate a livello
locale e soprattutto un aumento del carico di lavoro e di responsabilità per i relativi
apparati che contemporaneamente sono sottoposti ad una drastica cura dimagrante . Gli
anni successivi alla riforma del Titolo V della Costituzione hanno immediatamente fatto
capire quali erano i problemi dell’attuazione concreta di tale riforma. La tecnica
legislativa utilizzata è stata pesantemente criticata per la sua approssimazione e quasi
“improvvisazione”25
, cosi come i tanti dubbi di legittimazione costituzionale di alcune
norme hanno portato molti ad invocare, a volte la riscrittura, a volte la corretta
applicazione.
25 V.Tondi della Mura, La riforma delle Unioni di Comuni fra Ingegneria e approssimazione istituzionali, in Federalismi, 2/2012
81
Ad un analisi esterna, non può non evidenziarsi come tutti gli interventi siano
concentrati nel porsi come obbiettivo il contenimento dei costi, dimenticandosi sempre
il tema del buon andamento delle amministrazioni locali, facendo si che le logiche
istituzionali risultassero del tutto marginali rispetto al tema economico, probabilmente
proprio per gli scontri in atto a livello politico dove, tralasciato il principio del
contenimento della spesa pubblica che nessuno si sentiva di contestare, su tutto il resto
si continuava a dire tutto e il contrario di tutto senza avere un chiaro obbiettivo della
riforma.
Spesso, per giustificare la richiesta di un intervento sulla spesa, si è richiamata la
necessità di adempiere ad obblighi imposti dalla BCE26
e dal Parlamento europeo
travisando, forse di proposito, che l’intervento del Parlamento Europeo ha solo
richiamato gli Stati all’esigenza di articolare le competenze secondo un principio di
efficienza, non mettendo in alcun dubbio il principio delle autonomie locali mentre la
orami famosa lettera di Trichet dell’agosto 2011 chiedeva solo “un miglioramento
dell’efficienza e della capacità di assecondare le imprese italiane”. In questo percorso
accidentato non si può non inserire la variabile della “questione morale” dove la
profonda crisi e la sfiducia dell’opinione politica verso la politica ed i suoi costi ha
soffiato sul vento dei tagli indiscriminati e non organici. Anche una valutazione sui
tempi di attuazione delle proposte contenute nelle riforme evidenzia come essendo di
fronte a tempi tutt’altro che rapidi nella loro attuazione, esse si possano ritenere azioni
strutturali piuttosto che congiunturali.27
Come già detto la maggior parte delle norme riformatrici sono frammentate in numerosi
testi normativi statali, spesso articoli di leggi finanziarie o decreti contenenti le manovre
26 Lettera del 5 agosto 2011 spedita dal presidente della BCE Trichet al governo italiano in cui si esprime la necessità di una
revisione dell’efficienza dell’amministrazione pubblica abolendo o fondendo alcuni strati amministrativi intermedi (vedi provincie) 27
G.D’Auria, La Manovra d’Agosto, in GDA, 2012
82
correttive. Il percorso attuativo della riforma costituzionale del 2001 attraverso
l’attuazione della delega legislativa (Legge 131/2003) è stato presto abbandonato perché
ne il governo ne il Parlamento sono riusciti a portare a termine la complessa riforma. Il
passaggio di competenze dallo Stato agli enti locali (Regioni in particolare) con la sola
riserva al legislatore statale degli “organi di governo, sistema elettorale e funzioni
fondamentali di Comuni, Provincie e Città metropolitane” non ha di fatto regalato un
autonomia reale agli enti locali atteso che la materia della finanza pubblica è restata
saldamente nelle mani del legislatore statale.
Le iniziative legislative regionali intercorse in questi anni, nelle materie a loro delegate,
sono state quasi sempre obbligate e indirizzate dal legislatore statale che ha finito per
condizionare fortemente anche gli spazi entro cui gli enti locali avrebbero potuto
effettivamente esercitare la loro autonomia. Emblematica a tal riguardo la vicenda delle
comunità montane. Pur avendo la Corte Costituzionale riconosciuto la più ampia
autonomia di intervento da parte del legislatore regionale28
, il venir meno del
finanziamento da parte dello Stato, giustificato dall’esigenza della riduzione della spesa
pubblica, ha condotto la maggioranza delle Regioni alla decisione forzata della loro
soppressione. Si possono notare facilmente le differenza nell’effettiva applicazione dei
principi federalisti tra il sistema italiano e quello tedesco dove l’autonomia dell’ente
pubblica è tutelata costituzionalmente con un limite individuato, soprattutto dalla
dottrina, nell’efficienza dell’esecuzione della propria funzione che però non è solo una
mera enunciazione dogmatica ma un principio sentito. Il diritto esclusivo di esercitare la
funzione è bilanciato dall’obbligo di erogare un servizio efficiente secondo certi criteri
standard. Il modello italiano applicato in questi anni, come si desume dalle riforme,
28 Tubertini, Riflessioni sullo stato attuale e futuro delle comunità montane nel quadro delle forme associative tra enti locali, in
Astrid Rassegna, n.3/12
83
forse riconosce questo problema, ossia di contemperare il diritto con un obbligo, ma
memore della sua cultura di Stato centrale ha trovato la presunta soluzione nel rinviare
alla competenza regionale ma solo entro limiti ben precisi, finendo per collocare la
legge regionale in una dimensione meramente esecutiva-attuativa di scelte d’indirizzo
operate dall’altro e quando così non è stato si sono accesi violenti scontri arrivati fino
alla Corte Costituzionale che hanno creato ulteriori incertezza.
h.) i Comuni oggi
Per quanto concerne le caratteristiche che un centro municipale debba avere per essere
considerato “piccolo ” la dimensione demografica è la prima a risaltare e definire e a
determinarne gran parte dei problemi che li affliggono, dovuti spesso – come si vedrà –
alla difficoltà di garantire quella qualità e quantità di servizi efficienti in un bacino
d’utenza limitato. Gran parte dei comuni italiani conta solo poche migliaia di abitanti, e
sono centinaia, soprattutto nelle aree montane e insulari, quelli che non superano i 1000
residenti.
Il peso dei piccoli comuni, nel contesto italiano, risulta evidente nella seguente tabella:
84
Alla variante demografica corrisponde la variante geografica di notevole disomogeneità
che caratterizza tutta l’Italia rendendo estremamente difficile sintetizzare dei modelli
per la sola fascia di abitanti. Problema che, come visto, già ai tempi dell’Unità d’Italia
fu rilevato.
Se le condizioni geografiche sono sostanzialmente rimasto invariate nel corso degli anni
la perdita di popolazione è stato invece un aspetto particolarmente preoccupante nella
realtà dei piccoli comuni. La riduzione degli abitanti comporta la riduzione delle risorse
per l’erogazione dei servizi e quindi una progressiva difficoltà nell’erogare i servizi fino
alla loro rarefazione. Spesso, pur di non arrivare alla chiusura, i piccoli comuni cercano
di mantenere i servizi aperti ad ogni costo e questo incide sulla qualità degli stessi che
non riescono a soddisfare e tantomeno a competere con gli aumentati standard richiesti
dai cittadini ed erogati dai comuni più grandi, l’effetto perverso è che la distanza tra i
piccoli comuni e i grandi centri urbani aumenta ancor di più creando una popolazione
che ha un accesso ai servizi di serie A e una popolazione di serie B. Al degrado sociale
si accompagna molto spesso anche il degrado ambientale per un territorio dove alla
rarefazione della popolazione si accompagna l’abbandono della normale manutenzione,
soprattutto nei territori rurali e montani dove antiche consuetudine e il rispetto delle
buone regole creavano le migliori condizioni per una stretta collaborazione dei membri
della comunità, pratiche oggi scomparse.
La risposta data a queste problematiche è stata principalmente nel suggerire di
raggiungere economie di scala tali da permettere di migliorar o mantenere l’erogazione
dei servizi anche in questi comuni cercando di trovare un equilibrio sostenibile tra
investimenti ragionevoli, costi sostenibili e servizi erogati. La cooperazione e
l’associazionismo , nelle loro diverse forme, sono la strada indicata a più riprese e, a
85
seconda del momento, con diversi gradi di obbligatorietà da parte del legislatore
italiano, esattamente come successo in Germania e Francia ma con una peculiarità tutta
nostra e più sopra ricordata: a latere dei progetti di riforma, rimasti per lo più incompiuti
e impantanati nelle lotte politiche, sono intervenute modifiche legislative urgenti legate
alle esigenze di equilibrio del Bilancio Statale, spesso proprio solo in contesti relativi
alle materie finanziarie, senza una progettualità complessiva istituzionale come abbiamo
visto esserci sempre stata in Germania. Proprio la natura emergenziale degli interventi,
spesso totalmente privi di un percorso di condivisione con i soggetti degli stessi
interventi, ossia gli enti locali, se non anche in contrasto con i percorsi delle riforme o
comunque in modo non organico, hanno creato ulteriori freni e ritardi ad una effettiva
modernizzazione reale degli enti locali italiani in termini di efficienza e qualità.
i.) L’esempio Toscano
La leggere regionale toscana nr. 68 del 2011 -norme sul sistema delle autonomie locali-
deriva direttamente dalla riforma dell’art.117 della Costituzione per cui alle Regioni
spetta la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata
alla legislazione dello Stato e quindi il potere regolatore del sistema delle autonomie
locali. Ai Comuni, sempre per disciplina dell’art 117 della Cost. spetta la potestà
regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle
funzioni loro attribuite.
La legge regionale toscana nr.68 del 2011, composta da ben 117 articoli, abroga la nr.77
del 1995 -Sistema delle autonomie in Toscana: poteri amministrativi e norme generali
di funzionamento- che era composta da soli 21 articoli e prevedeva, all’art. 11, lo
stimolo alle fusioni per i Comuni inferiori ai 5000 abitanti e il richiamo ai percorsi delle
86
convenzioni, dei consorzi e delle unioni. Fin dal 1995 si prevede l’istituzione del
Comitato delle Autonomie Locali (CAL) per il conseguimento delle finalità stabilite
dalle norme regionali. Un comitato, che seppur non conosciuto dal pubblico e con poca
visibilità reale, ha idealmente lo scopo di permettere alle cariche elettive locali più
significative di trovare lo spazio per partecipare ed esprimersi sulle riforme necessarie
per rendere efficienti e efficaci gli enti locali che loro stessi amministrano. Le Unioni,
volontarie incontrano da subito un limite geografico: sono limitate ai Comuni
appartenenti alle stesse Province; probabilmente per evitare “disordini” nei confini
amministrativi che avrebbero complicato l’attività di servizi erogati a livello provinciale
e così è rimasto anche nella legge del 2011 e la questione, esplosa con la discussione
sulle proposte di accorpamento e ora abrogazione delle Provincie, non è ancora stata
risolta oggi.
Se nel 1995 i “Comuni esercitano la generalità delle funzioni amministrative di tipo
gestionale non riservate, secondo i criteri della presente legge, alla Regione, alle
Province o ad altri enti locali, in armonia con quanto disposto dall’art. 9, comma 1,
della legge 8 giugno 1990, n. 142” nel testo del 2011, che non può prescindere dal
TUEL vigente, non si specifica alcunché sull’autonomia gestionale dei Comuni mentre
nel Capo III si dettagliano le norme sul funzionamento delle Unioni.
Il preambolo della legge esprime la necessità di procedere nel riordino della normativa
regionale di settore avviando, al tempo stesso, un più ampio percorso di riforma
complessiva dell’ordinamento locale, volto ad accrescerne l’efficienza ed a ridurne i
costi di funzionamento, quindi ancora una volta l’obbiettivo principe della norma ha un
contenuto finanziario e tralascia, o perlomeno considera secondari ricercare processi di
miglioramento della formazione delle decisioni politiche interne dei Comuni. Si prevede
87
invece un apposita commissione congiunta tra il Consiglio Regionale e il Consiglio
delle autonomie locali (CAL), a cui viene attribuito il compito di elaborare, sulla base
degli approfondimenti necessari e nelle more della definizione del quadro normativo
nazionale, proposte per il riordino dell’ordinamento regionale degli enti locali e per
l’individuazione dei principi, delle norme e delle politiche della cooperazione tra la
Regione egli enti locali stessi. Con l’istituzione della commissione congiunta si mira a
valorizzare il ruolo del CAL quale organo di rappresentanza del sistema delle autonomi
e locali della Toscana;
Si dà attuazione alle norme del decreto legge 78/2010 convertito, con modificazioni,
dalla legge 122/2010, per l'esercizio associato obbligatorio delle funzioni fondamentali
dei comuni; Per dare piena attuazione a tali norme statali, che dispongono sull'esercizio
associato obbligatorio, mediante convenzione o unione, delle funzioni fondamentali dei
comuni, si dettano anzitutto norme integrative su dette forme associative, nel rispetto
della ripartizione delle competenze legislative stabilita dall'articolo 117 della
Costituzione e degli orientamenti assunti dalla Corte costituzionale circa il carattere
tassativo delle materi e indicate dalla lettera p) del secondo comma dell'articolo 117
stesso le norme integrative regionali sono comunque dettate nell'ambito dei principi del
d.lgs. 267/2000 (TUEL);
Le Unioni secondo la legge regionale hanno l'obiettivo di assicurare il buon
funzionamento di un soggetto che è destinato ad assolvere ad un ruolo nuovo e di
grande rilievo per i comuni di minore dimensione demografica obbligati dalla legge
dello Stato all'esercizio associato delle funzioni fondamentali. L'unione deve perciò
essere dotata di organi che siano in grado di costruire un indirizzo politico-
amministrativo unitario e deve funzionare con continuità.
88
Già il DL 78/2010 all’art. 14 comma 30 aveva stabilito che le Regioni, nelle materie di
cui all'articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, individua con propria
legge, previa concertazione con i comuni interessati nell'ambito del Consiglio delle
autonomie locali, la dimensione territoriale ottimale per lo svolgimento delle funzioni
fondamentali e così la legge regionale prevede l'identificazione di 37 ambiti di
dimensione territoriale adeguata , nei quali sono compresi tutti i 90 comuni tenuti a
detto esercizio, identificati sulla base delle soglie di popolazione definite dalle norme
statali.
Se in passato l’obbiettivo dichiarato era stimolare la fusione tra Comuni, con la nuova
legge, probabilmente consci del mancato raggiungimento di tale obbiettivo malgrado
l’imposizione dall’alto, le fusioni non sono più centrali e ci sono meno vincoli ma non
si rinuncia a specificare, al punto 17 delle considerazioni introduttive, che l’obbiettivo,
malgrado il rafforzamento delle Unioni resta proprio la fusione:
“17. Si favoriscono processi aggregativi, anche attraverso l’incentivazione
all’istituzione delle stesse unioni di comuni, che possano portare nel tempo a fusioni. E’
stabilito, perciò, il principio che la Regione promuove i processi di fusione, in
particolar e dei comuni tenuti all’esercizio obbligatorio di funzioni fondame nt ali,
dandovi attuazione attraverso la previsione di contributi regionali di sostegno alle
fusioni, di disciplina degli effetti della fusione, di impegni specifici per raggiungere
intese e promuovere le leggi di fusione;”
All’art.1 della nuova legge è sintetizzato lo scopo della stessa ed emerge in maniera
evidente la volontà di intervenire sul lato economico, ora definita cooperazione
finanziaria:
89
“La presente legge detta norme sul sistema delle autonomie in Toscana, definendo gli
strumenti per la cooperazione finanziaria e l'attuazione della legislazione statale
sull'esercizio associato delle funzioni fondamentali dei comuni, per il riordino di enti, e
per lo sviluppo delle politiche in favore dei territori montani e disagiati, anche
insulari.”
All’art 6 si precisa cosa si intenda per cooperazione mediante l'organizzazione dei flussi
informativi, la condivisione dei dati finanziari e tributari, la gestione del patto di
stabilità territoriale, il potenziamento delle azioni di contrasto all'evasione fiscale e
l'adozione di misure per la riduzione dell'indebitamento degli enti locali. Il cittadino in
quanto tale, come cliente e usufruitore di un servizio pagato con i soldi pubblici sembra
scomparire totalmente dal panorama del legislatore toscano mentre opera e definisce gli
enti locali. Il dato centrale, su cui sembra costruito tutto l’impianto e i conseguenti
processi, è focalizzato sulla riscossione delle imposte e sul passaggio di dati tra i diversi
livelli di enti locali. Il legislatore toscano aveva già chiaro dove si andava a parare per la
tassazione locale, infatti il sistema catastale deve diventare “connesso” tra tutti gli enti e
l’altra direttrice è la gestione di un sistema informativo unico per monitorare la spesa
degli enti locali.
La Regione si riserva una certa autonomia di intervento economico perequativo a favore
di comuni per i quali lo ritiene necessario e inserisce nella legge norme di primalità
indirizzate a promuovere comportamenti virtuosi. Questo succede prima ancora di
definire quali siano gli organi delle Unioni e i loro principi di funzionamento di cui al
Titolo III. Infatti tutto il Titolo II norma primalità e stimoli per pratiche virtuose
preminentemente rilevanti ai soli fini del patto di stabilità, un po’ come se volessi
definire il modo di attribuire un punteggio di una gara prima ancora di aver definito che
90
tipo di gara sia. Le norme regolatrici delle Unioni, enti di secondo livello, prevedono la
presenza come consiglieri di tutti i Sindaci e dei consiglieri dei singoli comuni nel
numero di uno ciascuno per la maggioranza e uno scelto tra le liste non collegate al
Sindaco impedendo cosi che eventuali defezioni tra le maggioranze dei singoli comuni
possano di fatto spostare gli equilibri dentro il consiglio dell’Unione. L’unione è retta da
una giunta composta di diritto dai Sindaci dell’Unione e tra questi, la giunta stessa o il
consiglio dell’Unione, sceglie il Presidente.
La Giunta e il Consiglio esercitano le funzioni attribuite dalla legge, dallo statuto e dai
regolamenti e compiono tutti gli atti rientranti nelle funzioni di governo che non siano
riservati, dalla legge e dallo statuto, al consiglio o al presidente. La Giunta adotta i
regolamenti sull'organizzazione degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei principi
stabiliti dallo statuto e degli indirizzi deliberati dal consiglio. Un’altra norma che aiuta
nell’individuare luci e ombre della legge regionale toscana è l’art.42 comma 2 quando
stabilisce che i Comuni sono tenuti a trasferire all'Unione le risorse finanziarie
sufficienti alla copertura integrale delle spese per il funzionamento dell’Unione stessa, e
comunque allo svolgimento delle funzioni, dei servizi e delle attività dell'ente. Nessun
autonomia impositiva è quindi prevista a favore dell’Unione, lasciando sostanzialmente
in un guado il Presidente dell’ente che, seppur dotato formalmente dei poteri per
caratterizzare con la sua Giunta le line guida dell’Unione, è poi totalmente vincolato alla
effettiva disponibilità del singolo comune di trasferire le risorse, evidenziando dunque
una totale discrasia tra i poteri di governare dell’Unione e la effettiva possibilità di
attuare tale potere.
Il problema di fondo sembra risiedere nei motivi stessi che il legislatore mette a
fondamento della legge: principalmente motivi di contenimento e razionalizzazione
91
della spesa pubblica senza considerare che i risparmi economici ottenibile nelle gestioni
dei Comuni non possono prescindere da modelli di erogazione dei servizi che
dovrebbero garantire livelli qualitativi in linea con la media nazionale senza creare
quindi cittadini di serie A (comuni metropolitani) e di serie B (comuni rurali) e che, tali
risparmi, sebbene facilmente individuabili e misurabili in termini numerici, non sono
assolutamente altrettanto facilmente ottenibili nella reale azione di governo del territorio
se non accompagnati da un contemporaneo miglioramento dell’efficacia ed efficienza
della macchina amministrativa, sia nei mezzi che nella preparazione del personale e i
tagli ai capitoli di spesa hanno spesso proprio impedito qualsivoglia investimento in tal
senso.
Resta materia oscura e completamente ignorata dalla legge regionale la questione dei
rapporti tra i Consigli e le Giunte dei Comuni con quelle dell’Unione. In pratica il
trasferimento della funzione fondamentale all’Unione, che sembra un atto tutto
sommato semplice, lo è solo nell’ipotesi che l’Unione sia un passaggio verso la fusione
dove gli organi dell’Unione stessa si preparano alla assunzione di tutte le responsabilità,
politiche, amministrative e tecnica nell’erogazione del servizio.
Emerge poi un altra contraddizione, di fatto abbiamo visto che le attuali Unioni hanno
iniziato a costituirsi solo quando la questione delle fusione è stata accantonata o
comunque messa in disparte, però l’impianto delle stesse è rimasto sostanzialmente lo
stesso di prima e prevede lo spostamento delle funzioni verso l’Unione non solo dal
punto di vista dell’erogazione del servizio ma anche della programmazione politica in
vista, appunto, del successivo passaggio alla fusione che a quel punto appare come un
evento naturale e conseguenziale alla inutilità concreta dei singoli Comuni spogliati di
tutte le loro funzioni. Dalla lettura combinata della legge regionale toscana nr. 68/2011
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e di uno Statuto come quello dei Colli Marittimi Pisani si evince che i percorsi di
governance tra i singoli comuni e l’Unione son un tema totalmente assente, la domanda
del perché sia capitato, malgrado la autonomia lasciata ai Comuni dalle riforme
autonomiste la dice lunga sulla impreparazione degli amministratori locali a gestire un
processo cosi delicato.
All’art 3 troviamo dettagliate le finalità dell’Unione:
Art. 3 - Finalità
1. L’Unione si costituisce allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di
funzioni e servizi di
competenza dei Comuni aderenti. A tal fine essa rappresenta l’ambito ottimale per la
gestione associata delle funzioni e dei servizi.
2. L’Unione si pone altresì la finalità strategica di perseguire obiettivi di:
a) pari opportunità (garantire a tutti i cittadini dell’area i medesimi diritti di accesso
ai servizi);
b) efficienza e contenimento dei costi, ottimizzando il rapporto tra i costi stessi e la
qualità del servizio, attraverso le economie di scala derivanti dall’uso integrato dei
fattori di produzione interni ed esterni all’ente, in direzione di una tendenziale
riduzione dei costi;
c) efficacia (aumentare la specializzazione degli addetti per un miglior servizio al
pubblico) e maggiore qualità dei servizi;
d) sviluppo di politiche integrate unitarie, per impiegare al meglio le vocazioni e
potenzialità di ciascun territorio, ricercando l’armonizzazione dei regolamenti in
tutti i campi;
e) peso politico dell’area (elevare la forza contrattuale della zona rispetto ai livelli
politici e amministrativi sovra ordinati);
f) adeguatezza dimensionale (i difficili problemi di ordine ambientale, economico,
sociale e migratorio richiedono enti strutturati per gestire risposte complesse);
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g) valorizzazione e sviluppo professionale delle competenze, ampliando le
possibilità di utilizzazione delle professionalità;
h) salvaguardare le peculiarità ambientali del territorio. Tutelare il patrimonio
artistico, paesaggistico, culturale e le tradizioni locali;
i) valorizzazione della partecipazione, dell’informazione e della trasparenza, in
applicazione delle leggi nazionali e regionali vigenti;
Tutti temi, materie e valori, che seppur condivisibili, non trovano puntuale riscontro in
alcuna parte dello Statuto e non individuano quali risorse e mezzi il Presidente abbia a
disposizione per intervenire concretamente.
All’art 9 troviamo la descrizione delle funzioni dell’Unione:
Art. 9 - Funzioni dell’Unione
1. L’Unione esercita, in luogo e per conto di tutti i comuni partecipanti, le funzioni
fondamentali e i servizi stabiliti dalla legge. E precisamente:
a)organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e
controllo;
b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi
compresi i servizi di trasporto pubblico comunale;
c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente;
d) pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la
partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale;
e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di
coordinamento dei primi soccorsi;
f) organizzazione e gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero
dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi;
g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle
relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall'articolo 118, quarto
comma, della Costituzione;
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h) edilizia scolastica (per la parte non attribuita alla competenza delle province),
organizzazione e gestione dei servizi scolastici;
i) polizia municipale e polizia amministrativa locale;
2. I Comuni aderenti possono altresì conferire all’Unione ulteriori funzioni oltre che
compiti di rappresentanza generale nell’interesse dei Comuni aderenti.
3. L’Unione può, a richiesta, fornire servizi anche a favore di enti pubblici terzi,
sempre ché le attività richieste siano incluse nell’insieme di funzioni già attivate e
con addebito dei costi relativi, previa stipula di convenzione regolatrice dei rapporti.
4. L'Unione assuma l'esercizio di funzioni di altri soggetti pubblici, diversi dagli enti
locali, per esercitarle
limitatamente al territorio dei comuni associati.
Terminata l’elencazione delle funzioni, che non aveva a mio parere bisogno di entrare
nel dettaglio essendo funzioni di competenza comunale già stabilite dalla legge, all’Art
11 si trova un breve accenno agli standard qualitativi di erogazione dei servizi che nel
medio periodo deve indirizzarsi verso un livello omogeneo di servizi e tariffe, ancorché
potenzialmente variabile entro un intervallo contenuto e prestabilito in rapporto a
specificità territoriali e situazioni storiche consolidate, senza perder di vista la necessità
di conseguire condizioni di pari opportunità e trattamento per i cittadini residenti nei
Comuni aderenti. La stessa norma prevede un eccezione importante e lascia salva la
facoltà per il singolo ente aderente di prevedere e richiedere all’Unione standard di
servizio superiori al livello comune deciso ed applicato. Per farlo deve anche conferire
all’Unione medesima le necessarie risorse aggiuntive sulla base della quantificazione
effettuata dagli organi tecnici. Anche qui emerge l’ambiguità di chi, in sostanza, prenda
le decisioni. I Comuni o l’Unione? e sulla base di quali poteri reali ed effettivi può il
Presidente dell’Unione pianificare azioni e obbiettivi comuni? Se rimane chiaro che il
Comune possa chiedere all’Unione un servizio su misura, è sicuramente più oscuro e
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carente di reali strumenti regolatori il percorso tramite il quale un Comune può
prevedere standard di livelli diversi, atteso che l’ufficio che li determina risponde alla
Giunta dell’Unione e non ai Comuni. In pratica abbiamo una riserva di competenza di
indirizzo politico al Comune membro senza però che questa sia inserita in un chiaro
percorso istituzionale utile ad evitare conflitti.
Se scindiamo il ruolo del Sindaco-Assessore e dei consiglieri nominati nel consiglio
dell’Unione e guardiamo allo Statuto del singolo comune di appartenenza sorge chiara
la domanda: fin dove e con quale incisività può spingersi il singolo Comune con la sua
Giunta e il suo Consiglio Comunale nel chiedere? E fin dove può incidere nelle
politiche di programmazione dell’Unione?
Se il succitato Art. 9 conferisce all’Unione il potere di esercitare le funzioni
fondamentali e i servizi stabiliti esso stesso determina che ciò avviene solo “in luogo e
per conto di tutti i comuni partecipanti”, quindi possiamo presumere che avvenga per
delega di esercizio o mediante una qualche forma di intesa o convenzione approvata dal
singolo consiglio comunale su proposta della sua giunta, ma allo stato attuale non vi è
traccia di un percorso istituzionale regolamentato atto soprattutto ad impedire i possibili
conflitti che si possono verificare. Emerge che non si è valutato un aspetto non
indifferente circa lo sviluppo sociale ed economico dei cittadini e la valorizzazione del
territorio, temi su cui gli enti locali dovrebbero impostare la propria attività
confrontandosi quotidianamente attraverso canali predisposti appositamente e in cui agli
interlocutori siano conferiti i poteri di incidere con ruoli chiaramente riconoscibili anche
per i cittadini e soprattutto per le imprese. Da questo punto di vista, è logico che quanto
più un soggetto pubblico è dotato della forza, delle competenze e del potere contrattuale
necessari, tanto meglio può corrispondere alle esigenze della popolazione e del
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territorio, misurandosi attivamente con i problemi e operando le scelte che gli
competono. Nel caso di specie si evidenzia come la delega all’Unione dovrebbe dar vita
ad un rapporto particolare tra delegante e delegato, da non confondersi con un rapporto
di gerarchia. Nel diritto amministrativo il rapporto nascente dalla delega è un rapporto
di supremazia, in cui il delegante è titolare di alcuni poteri e diritti sul delegato, il quale
a sua volta è in posizione di soggezione e di obbligo. Per la delega, infatti, non si
richiede il consenso del delegato, il quale non può né rifiutare né restare inerte, tant’è
che è previsto il potere sostitutivo del delegante in caso di inerzia del delegato. Quando
la delega conferisce il potere di esercitare una competenza «entro i limiti delle direttive»
del delegante, il delegato gode di una circoscritta discrezionalità nell’eseguire le
istruzioni impartite; l’inosservanza delle direttive può dar luogo a responsabilità perché
le direttive non sono soltanto una prescrizione alla persona ma anche un limite ai poteri
e alle facoltà conferite con la delega, da cui deriva l’illegittimità del provvedimento
eventualmente emanato in contrasto, ma di tutto questo non vi è alcuna traccia.
L’attuale inquadramento istituzionale che si legge dallo Statuto corrisponde più al caso
di una delega in bianco all’Unione ed in particolare alla Giunta dell’Unione dove,
presumiamo, il legislatore abbia ritenuto sufficiente la presenza del Sindaco come tutela
e garanzia degli interessi del singolo Comune. Qui il Sindaco può enunciare le proprie
direttive che però non provengono da un percorso condiviso con le istituzioni
rappresentativi del proprio territorio (consiglio comunale e giunta) ed egli siede in
minoranza. Questo vuoto, o meglio assenza di coordinamento tra i tavoli istituzionali
esistenti, impedisce di vedere l’Unione dei Comuni per quello che altrove (vedi Francia
e Germania) ha rappresentato.
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L’Unione dei Comuni dovrebbe principalmente risolvere i problemi nella erogazione
dei servizi grazie ad una maggior competenza tecnica rispetto all’ufficio del piccolo
Comune e grazie ad una migliore condivisione delle risorse disponibili, producendo nei
fatti una migliore idoneità o abilità nell’eseguire gli atti e quindi la funzione
amministrativa. Dovrebbero essere in conclusione proprio le norme di competenza,
espressione non di una mera esigenza di divisione del lavoro, a determinare i processi di
formazione delle direttive in cui non si può prescindere da una determinazione precisa
di chi abbia la responsabilità politica di programmazione e indirizzo ai vari livelli.
I modelli organizzativi e gestionali dovrebbero prevedere l’iter con cui la delega, che
attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla
specifica natura delle funzioni delegate, possa prender vita coinvolgendo effettivamente
le istituzioni preposte alla rappresentanza democratica ma questo, per ora, non risulta
essere espressamente previsto. La giurisprudenza di legittimità ha sempre affermato la
necessità imprescindibile di uno specifico e puntuale contenuto della delega, che deve
essere dettagliata, articolata ed esplicita nel definire compiti e funzioni e non può essere
una delega in bianco come successo fino ad ora.
Il mantenimento da parte dei Comuni degli Statuti vigenti al momento della nascita e
costituzione delle Unioni probabilmente risponde alla necessità politica di sotto pesare
l’influenza dell’Unione stessa sul futuro del Comune. Non si fanno intravedere ai
Consiglieri la perdita di potere che, formalmente, sembra non esserci dato che le loro
competenza Statutarie restano invariate. Il passaggio delle prime funzioni dai Comuni
alla Unione avviene con convenzioni che si limitano a stabilire la distribuzione dei costi
tra i membri dell’Unione e determinano il funzionamento e l’organizzazione dell’ufficio
stesso all’interno dell’Unione, compito che per statuto dell’Unione spetterebbe alla
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Giunta dell’Unione e non certo alle convenzioni con i singoli membri, quindi si ignora
completamente la natura e l’obbiettivo della delega stessa, ossia la regolamentazione del
rapporto tra singolo Comune membro e l’ufficio dell’Unione finanche a travilacarla.
Nella convenzione regolante il passaggio della funzione delle Polizia Municipale
dell’Unione dei Colli Marittimi Pisani è previsto un “sistema direzionale” (art.9) così
articolato:
- il Presidente della Giunta dell'Unione coordina in generale l'attività di Polizia
Locale del territorio dell'Unione, nel rispetto delle specifiche prerogative dei
Sindaci fissate dalla legge;
- la Giunta dell'Unione definisce le direttive e gli indirizzi della gestione del servizio
e ne verifica l'attuazione;
- il Comandante del Corpo/Responsabile del servizio coordina l'impiego tecnico-
operativo degli addetti sulla base delle esigenze del servizio ed assolve le funzioni
di cui all'art.9 della Legge 65/1986, delle Leggi Regionali in materia e di quelle
previste dal Regolamento del Corpo, inoltre, ha il compito di recepire le direttive
generali dei Sindaci elaborando piani operativi, uniformare tecniche operative ed
organizzative del servizio, aggiornare il personale, relazionare il Presidente e la
Giunta dell'Unione sul funzionamento e sull'efficacia del servizio.
- Il Comandante dei Corpo/Responsabile del servizio è responsabile della gestione
operativa dei personale e delle risorse strumentali affidategli e svolge le funzioni
organizzative e gestionali in modo da attuare le direttive e gli obiettivi determinati
dalla Giunta dell'Unione.
Una prima e semplice contraddizione di processo la si individua quando stabilisce che la
Giunta dell’Unione e il Presidente definiscono le direttive e gli indirizzi della gestione
con l’unico limite delle prerogative dei Sindaci fissati dalle leggi mentre il Comandante
del Corpo ha il compito di recepire le direttive generali dei Sindaci. Quindi a chi
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risponde il Comandante del Corpo? Quali direttive sono più pregnanti, quelle dei
Sindaci o della Giunta o del Presidente dell’Unione? Cosa succede se le direttive della
Giunta, dove un sindaco è un minoranza, fossero in contrasto con quelle dei Sindaci?
La questione delle prerogative dei Sindaci facente la funzione di ufficiali di governo con
le responsabilità della gestione della Sicurezza e di polizia giudiziaria, funzioni
affidategli dalla legge, dove pur non avendo un vero potere di indirizzo quanto piuttosto
un obbligo di esercizio non sembra essere un problema. Esse sono state delegate
all’Unione senza bisogno di specificare i contenuti della delega in quanto già definiti
proprio nel limite delle prerogative determinate dalla legge e restava solo da definirne
l’obbligatorietà del rispetto per il delegato, ossia l’Unione, cosa puntualmente fatta.
Risolto questo aspetto resta dunque assolutamente carente la definizione di come gestire
la definizione delle linee guida (direttive) per l’ufficio e neanche la definizione delle
regole per la determinazione delle quote parte dei costi aiuta a ritrovare il bandolo della
matassa.
Rispetto ad altre regioni italiane in Toscana si è quindi proceduto rimanendo
nell’ambiguità di considerare le Unioni ancora come strumento per arrivare alle fusioni
e quindi, di fatto, tutto il processo della loro nascita ha l’obbiettivo di “svuotare” le
competenze dei singoli membri trasferendoli tout-court al nuovo ente, con una delega in
bianco cosi che, alla fine del processo, emerga una sostanziale inutilità dei singoli
comuni rimasti, facilitando di fatto la fusione.
Per valutare un approccio diverso si prenda l’esempio dell’Unione di Comuni nell’alta
Padovana29
dove gli organi sono così definiti: il Presidente, il Vicepresidente, il
Consiglio di Amministrazione, il Comitato, le Commissioni. L’uso terminologico di
29 Corso per Master in Regolazione politica dello sviluppo locale, LE UNIONI DEI COMUNI Relatore:Prof. Paola Santinello, A.A. 2005/2006
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parole come Consiglio di Amministrazione e Comitato lascia intendere chiaramente una
diversa visione di cosa sia l’Unione, non un surrogato più grande dei singoli comuni
bensì un fornitore di servizi ai singoli comuni. Nelle commissioni si è creato un secondo
anello di congiunzione tra Comuni e Unioni oltre al Sindaco. Esse sono composte
dall’Assessore competente per materia per ogni Comune dell’Unione, e da tre
componenti del Comitato stesso, hanno funzioni propulsive, consultive e di studio per
ciascuna funzione trasferita all’Unione. Se pensiamo alla situazione francese e tedesca
risalta subito che in Italia , pur lasciando piena libertà di organizzazione agli Enti
Locali, nel caso Toscano le Unioni hanno tratto impulso dal solo scopo di rispettare la
norma generale e accedere ai contributi lasciando cadere in secondo piano l’elemento
fondamentale della politica che è la ricerca di intese programmatiche per stimolare
progetti di sviluppo che coinvolgano tutti gli enti territoriali responsabili di un territorio
sia in senso orizzontale (comuni-comuni) che verticale (comuni-unioni-province-
regione).
Tornando ad analizzare lo Statuto dell’Unione dei Colli Marittimi Pisani emergono
almeno altre due evidenti contraddizioni. La prima riguarda la suddivisione dello
Statuto stesso che non ha una ripartizione sistematica e logica all’insegna della
tradizione giuridica italiana. Nel titolo I , norme generali, assente una forte enunciazione
di principi ispiratori, troviamo già all’articolo 5 e 6 le norme per lo scioglimento e
recesso dall’Unione, quasi che uno dei problemi più sentiti al momento della
costituzione dell’Ente non fosse il perché e il come si volesse stare insieme ma piuttosto
il come e quando si potesse recedere. Il titolo II si occupa dell’organizzazione degli
organi dell’Unione ( Presidente, Giunta, Consiglio e Commissioni) , perfette copie dei
conosciuti organi dei Comuni, il titolo III e IV, senza capire perché, si occupano della
101
organizzazione amministrativa e gestionale entrando in dettagli regolamentari che nulla
hanno a che fare con uno Statuto, il titolo V si occupa dei rapporti con i cittadini e della
trasparenza mentre il tiolo VI prevede le norme finali e transitorie dove l’unico articolo
veramente importante sembra il nr. 54 dove si stabiliscono le procedure per le modifiche
statutarie che, in linea con le disposizioni del TUEL, rimandano la competenza ai
singoli consigli comunali su iniziativa degli stessi o della Giunta dell’Unione,
tralasciando però completamente di prevedere un iter propositivo dello stesso Consiglio
dell’Unione che coinvolga la Commissione competente, strada logica se si vuol tutelare
una certa unità di intenti attraverso un luogo di mediazione ove siano tutti rappresentati.
Il percorso tedesco insegna proprio la necessità di un approccio culturale di dialogo tra i
soggetti coinvolti che qui è totalmente trascurato. L’unica previsione che sembra essere
stata presa in considerazione è il rispetto della sovranità dei singoli enti locali che si
associano, per cui ogni modifica debba da loro essere approvata, nessun dibattito o
proposta in merito al come si possa fare un accordo sulle eventuali modifiche è stato
preso in considerazione. Il che lascia capire che l’ipotesi di eventuali modifiche non è
stato preso in considerazione nella veste propositiva e coordinata ma solo nell’ipotesi di
contrasti.
La riorganizzazione interna delle risorse è un altro tema estremamente problematico. Il
legislatore è ben conscio che per riorganizzare gli uffici servano investimenti economici
concreti e agisce di conseguenza dettando norme che elargiscono contributi a chi decide
di avviare il percorso (prima per le Unioni ora per le fusioni). Quello che manca
totalmente è una concreta proposta di modelli di riferimento che rispettino la diversità
sociale, economica, dimensionale e geografica delle tante realtà italiana e permettano
alle comunità di scegliere quello che si ritiene più idoneo. L’Unione dei Colli Marittimi
102
Pisani, cinque comuni con circa 8000 abitanti, ha preso come modello di riferimento la
vicina Unione della Val d’Era, 13 Comuni aderenti, oltre 116.000 abitanti e circa 621
Kmq di territorio che rappresenta ad oggi una delle più grandi unioni di comuni italiane,
evidente che i due soggetti hanno ben poco in comune soprattutto nella organizzazione
degli uffici dove le risorse e le esigenze dell’uno non sono minimamente comparabili
con l’altro a partire dalla gestione e definizione dell’organigramma del personale.
I. conclusioni
Le conclusioni non sono facili da scrivere essendo tutti noi ancora in mezzo a un
percorso di riforme non concluso e soprattutto in gran parte ancora non attuate. Mentre
le esperienze e i percorsi non sono conclusi si discute di modifiche in corso d’opera
(Del Rio) proprio in queste ore. Preme però evidenziare che gli elementi esperienziali
dei percorsi francesi e tedeschi sono rimasti, nel percorso italiano, presenti solo nelle
enunciazioni di principio e nel sottofondo delle applicazioni. Probabilmente per una
diversa visione ed esperienza culturale storica dei nostri amministratori sulla quale non
si è intervenuto al momento di conferirgli l’autonomia di gestione e costruzione delle
Unioni.
Di certo, oggi, lo Stato centrale mantiene il controllo della spesa locale con un mezzo
assai semplice, il controllo assoluto sulle risorse economiche grazie ai tagli. Tagliati i
trasferimenti e introdotte le imposte locali, i Sindaci , pur ricevendo l’autonomia, si
sono trovati a gestire non solo la responsabilità della spese ma anche la reperibilità delle
stesse risorse e non solo per i progetti straordinari ma anche per la semplice spesa
corrente. Così, invece di concentrarsi sulla organizzazione dell’ente alla luce della
nuova autonomia si sono preoccupati, nella migliore delle ipotesi, di organizzare
103
l’esazione delle tasse e contenere gli effetti dei tagli mentre nella peggiore delle ipotesi
si sono messi alla finestra e hanno atteso non si sa bene cosa.
La cronica carenza di personale aggravata dal blocco delle assunzioni e dalla mancanza
di aggiornamento per il personale si è tradotta, specialmente nei Comuni più piccoli, in
un grave e costante calo qualitativo a causa del mancato e fisiologico turnover con
personale nuovo, magari appena uscito dalle università o dai corsi di specializzazione e
quindi più preparato e aggiornato soprattutto nell’uso dei nuovi mezzi telematici, uno
dei cardini per l’ammodernamento e per far ricrescere l’efficienza dei nostri piccoli
comuni,
Se paragoniamo l’attuale sistema delle amministrazioni locali ad una piramide troviamo
alla base i piccoli comuni che reggono il peso di tutta la struttura senza essere non solo
dimensionati ma neanche qualitativamente pronti per farlo. L’intervento attivato dal
legislatore è stato solo volto a cercare soluzioni dimensionali, stimolando l’aumento
della misura dei blocchi alla base unendoli tra loro, ma se essi sono composti di
materiale friabile la soluzione non può reggere oltre il primo breve momento. Ove la
debolezza delle Unioni si evidenzierà compiutamente si renderà necessaria e inevitabile
la fusione dei Comuni membri dato che la retrocessione degli stessi dall’Unione, anche
se politicamente voluta, non troverebbe più le risorse per essere compiuta veramente.
Allo stato attuale, preso atto della vigente normativa, ai Sindaci non è precluso un
percorso di difesa del loro comune che dovrebbe essere inteso non come erogatore di
servizi in proprio inteso ma come punto di incontro e di raccolta delle esigenze del
proprio territorio che poi, istituzionalizzate, vengono trasferite all’Unione per
provvedere ad una corretta risposta.
104
Il dimensionamento geografico minimo, proprio per le peculiarità territoriali italiane,
non può essere determinato in un numero di abitanti uniforme per tutta Italia ma
andrebbe perlomeno corretto sia con un indice relativo alla tipologia del comune (ad
esempio pianura, montagna, collina) come pure con un valore correttivo collegato alla
superficie del territorio governato correlato all’indice di densità abitativa.
La rivisitazione delle logiche degli ambiti territoriali ottimali può sembrare un dettaglio
rispetto ai grandi problemi che si incontrano sul percorso della ottimizzazione del
sistema amministrativo italiano ma le tecniche attuate per determinarli portano con se
uno dei motivi dei ripetuti fallimenti: lo scarso coinvolgimento della popolazione locale
nelle decisioni di come e perché intraprendere un determinato percorso e non un altro
per arrivare all’obbiettivo.
Un primo intervento rapido e di cui i singoli comuni partecipanti alle Unione possono
farsi carico è la costruzione di un percorso bidirezionale tra singolo comune e Unione
nella gestione delle linee di indirizzo politiche che si distingua rispetto al percorso
unilaterale che coinvolge l’organizzazione del personale e delle risorse.
Testi finita di scrivere a Riparbella (PI) – 15 giu 2014
Alessandro Lucibello Piani
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