Il secondo popolo: conflitti e ricambio politico nei comuni popolari nei decenni tra Due e Trecento

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ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO NUOVI STUDI STORICI - 93 NOTARIATO E MEDIEVISTICA PER I CENTO ANNI DI STUDI E RICERCHE DI DIPLOMATICA COMUNALE DI PIETRO TORELLI Atti delle giornate di studi (Mantova, Accademia Nazionale Virgiliana, 2-3 dicembre 2011) a cura di GIUSEPPE GARDONI E ISABELLA LAZZARINI ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI PIAZZA DELL’OROLOGIO 2013

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ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO

NUOVI STUDI STORICI - 93

NOTARIATO E MEDIEVISTICA

PER I CENTO ANNI DI STUDI E RICERCHE DI DIPLOMATICA

COMUNALE DI PIETRO TORELLI

Atti delle giornate di studi (Mantova, Accademia Nazionale Virgiliana, 2-3 dicembre 2011)

a cura di GIUSEPPE GARDONI E ISABELLA LAZZARINI

ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO

PALAZZO BORROMINI

PIAZZA DELL’OROLOGIO

2013

Nuovi Studi Storici collana diretta da

Girolamo Arnaldi e Massimo Miglio

Il presente volume è stato realizzato con il contributo dell’Accademia Nazionale Virgiliana

Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo Redazione: Salvatore Sansone

ISSN 1593-5779 ISBN 978-88-98079-14-8

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ALMA POLONI

IL SECONDO POPOLO: CONFLITTI E RICAMBIO POLITICONEI COMUNI POPOLARI NEI DECENNI TRA DUE E TRECENTO

Questo contributo affronta, pur da un’ottica limitata e specifica, la que-stione del ricambio politico nelle città comunali, che è strettamente connes-sa a un tema che ha una solida tradizione nella comunalistica italiana, quel-lo della formazione e delle trasformazioni dei ceti dirigenti cittadini. Dopoun periodo di appannamento cominciato negli anni Ottanta del Novecento,nell’ultimo quindicennio il ricambio politico è tornato ad attirare l’interes-se degli studiosi1. L’allontanamento dalla prospettiva elitista a lungo preva-lente nelle ricerche sui ceti dirigenti ha però sollevato interessanti e in parteirrisolti problemi di metodo, di linguaggio, di modelli interpretativi2. Mi èsembrato perciò che l’argomento potesse trovare spazio in un convegnoaperto alla discussione di temi cardine degli studi comunalistici. Mi scusoquindi se questo intervento abbandona il binario della riflessione sull’ope-ra di Pietro Torelli. È evidente, comunque, che l’idea di ricostruire la fisio-nomia economica e sociale della classe politica comunale, e i suoi cambia-menti nel tempo, è tutt’altro che assente nel lavoro di Torelli, il quale si pro-poneva di svilupparla nel secondo volume di Un comune cittadino in terri-torio ad economia agricola. Essa percorre però in maniera carsica già ilprimo volume, che, a ben vedere, si apre proprio con un sondaggio proso-pografico sul ceto dirigente del primo comune mantovano.

1 Un punto di riferimento essenziale rimane P. Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzio-ne dei ceti dirigenti nel corso del XIII secolo, in Magnati e popolani nell’Italia comunale. Attidel XV Convegno internazionale di studi del Centro italiano di studi di storia e d’arte(Pistoia, 15-18 maggio 1995), Pistoia 1997, pp. 17-40; si veda anche R. Bordone - G.Castelnuovo - G. M. Varanini, Le aristocrazie dai signori rurali al patriziato, Roma-Bari 2004.

2 M. Vallerani, La città e le sue istituzioni. Ceti dirigenti, oligarchia e politica nellamedievistica italiana del Novecento, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico», 20(1994), pp. 165-230.

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Nelle pagine che seguono mi soffermerò su un periodo circoscritto,quello compreso tra il 1280 e il 1320, e prenderò in considerazione unnumero limitato di città, tutti comuni di popolo. Mi sembra tuttavia cheanche da questo campione ristretto emergano alcuni dei principali nodiproblematici relativi al ricambio politico, alle sue dinamiche, al suo rappor-to con le trasformazioni economiche, la mobilità sociale, i conflitti politici.

1. Forme e dinamiche del ricambio politico

Nella storia di tutti i comuni cittadini si possono individuare fasi diricambio politico intenso e accelerato, nelle quali cioè, in un arco di tempomolto ristretto, giunse ad occupare posizioni di potere un numero elevatodi individui e famiglie che fino a quel momento ne erano rimasti del tuttoo parzialmente esclusi3. Tali fasi sono in genere il riflesso di importantimutamenti negli equilibri politico-istituzionali. Anche in una situazione direlativa apertura del gioco politico e di ampia partecipazione, come eraquella dei comuni di popolo duecenteschi, le famiglie che erano riuscite aconsolidare la propria presenza all’interno del gruppo dirigente godevanodi una rendita di posizione che rendeva improbabile, in condizioni norma-li, un ricambio molto consistente. Per questo motivo il ricambio politiconon è mai una funzione diretta e immediata del tasso di mobilità sociale.La tendenza alla riproduzione delle élites politiche poteva essere interrot-ta da eventi esterni, più o meno traumatici, che mettevano in crisi le posi-zioni acquisite e aprivano nuovi spazi. Oppure la rottura dell’equilibriopoteva essere la conseguenza della pressione esercitata da movimenti poli-tici organizzati, che rivendicavano una diversa distribuzione del potereall’interno della società cittadina. La storia dei comuni di popolo tra Duee Trecento offre esempi interessanti sia del primo che del secondo caso.

Un esempio del ruolo giocato dai fattori esterni può essere individuatonelle vicende fiorentine degli anni Ottanta del Duecento. La pace del cardi-nale Latino Malabranca, legato papale, siglata dopo mesi di trattative nel

3 Il ricambio politico è stato in genere misurato attraverso l’analisi degli organi colle-giali di vertice: consoli, anziani, priori, ma anche commissioni di sapientes. Questa prospet-tiva non è del tutto soddisfacente (cfr. M. Vallerani, Comune e comuni: una dialettica nonrisolta, in Sperimentazioni di governo nell’Italia centro-settentrionale nel processo storico dalprimo comune alla signoria. Atti del Convegno [Bologna, 3-4 settembre 2010], cur. M.C. DeMatteis - B. Pio, Bologna 2011, pp. 9-34: 27-28, 30-31), ma mi pare che per il periodo quiconsiderato mantenga una sua validità. Non da ultimo perché proprio le regole per il reclu-

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febbraio del 1280, imponeva la creazione di una nuova magistratura, i quat-tordici, che andava a sostituire i dodici buoni uomini guelfi, l’organo di ver-tice degli ultimi anni di prevalenza guelfa. Ai quattordici dovevano avereaccesso, a quanto pare in proporzioni definite, guelfi, ghibellini e neutrali4.Secondo Silvia Diacciati, con neutrali si intendevano sostanzialmente gliesponenti delle corporazioni di mestiere, considerate un elemento di equili-brio e stabilità, indipendente dalle divisioni partigiane5. Questo interventoesterno indebolì la posizione dominante esercitata nel periodo di prevalen-za guelfa dalle grandi casate dell’aristocrazia guelfa e dalle poche ricchefamiglie mercantili di origine duecentesca e popolare – Mozzi, Spini, Bardi– che erano riuscite a integrarsi in un’élite politica piuttosto chiusa. Ai quat-tordici, in effetti, ebbero accesso anche esponenti delle arti maggiori chenon avevano avuto un ruolo di rilievo nei vent’anni precedenti. L’aperturaimprovvisa di nuovi spazi politici fece saltare gli equilibri consolidati e portòa un progressivo aumento del peso delle corporazioni, in particolare di quel-le maggiori, imprimendo una forte accelerazione a un processo che eracominciato già negli ultimissimi anni di predominio guelfo. Ciò si tradusse,come in una reazione a catena, prima nel rafforzamento del ruolo delle artinelle procedure di elezione dei quattordici, poi, nel giugno del 1282, nellafondazione di un nuovo organo collegiale, i priori delle arti, che dapprimaaffiancò i quattordici, i quali infine scomparvero dopo i primi mesi del 1283.

Alla conclusione di questo processo, che si consumò nel giro di pochis-simi anni, la città si trovò con un gruppo dirigente largamente rinnovato,all’interno del quale le potenti casate aristocratiche, sia guelfe che ghibel-line, praticamente non trovarono più spazio. Resistettero per il momentole poche famiglie mercantili che negli anni del predominio guelfo avevanocompiuto passi importanti verso l’assimilazione ai “grandi”, che tuttavia dilì a poco sarebbero state magnatizzate. Ma il priorato divenne soprattuttol’espressione politica di alcune famiglie che avevano costituito l’élite delprimo popolo, ma che poi nel ventennio dei regimi ghibellino e guelfo non

tamento di questi organi furono al centro delle rivendicazioni dei movimenti politici deidecenni tra Due e Trecento. Si può quindi ritenere che l’analisi della composizione di que-sti collegi sia in grado di fornire informazioni relativamente attendibili sui ritmi del ricam-bio e sulle sue connessioni con i mutamenti dei rapporti di forza.

4 Per questa fase della storia fiorentina cfr. in particolare D. Medici, I primi dieci annidel priorato, in S. Raveggi- M. Tarassi - D. Medici - P. Parenti, Ghibellini, guelfi e popolograsso. I detentori del potere politico a Firenze nella seconda metà del Dugento, Firenze 1978,pp. 165-237; S. Diacciati, Popolani e magnati. Società e politica nella Firenze del Duecento,Spoleto 2011, pp. 303-353.

5 Ibid., pp. 342-343.

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avevano avuto accesso alle posizioni di potere, e di numerose famiglienuove, che si erano affermate attraverso la mercatura nella seconda metàdel Duecento, e tra il 1260 e il 1280 si erano soltanto affacciate alla parte-cipazione politica. Tra queste ultime si possono citare cognomi molto noti,grandi protagonisti del Trecento fiorentino, come Acciaiuoli, Strozzi,Medici, Peruzzi, Dell’Antella, Del Bene.

I comuni duecenteschi offrono però anche esempi molto interessanti difenomeni di consistente ricambio politico determinato da rivoluzioni ori-ginatesi dall’interno del sistema, per effetto dell’azione di movimenti orga-nizzati che miravano a un cambiamento dei rapporti di forza tra le diversecomponenti socio-politiche presenti nello spazio politico comunale. Uncaso evidente è l’affermazione dei movimenti popolari intorno alla metàdel Duecento nella maggior parte delle città dell’Italia centro-settentriona-le. Tuttavia, in molti comuni di popolo si può individuare ancora un’altrafase, compresa più o meno tra il 1280 e il 1320, fortemente caratterizzatadalla pressione di forze organizzate che rivendicavano una redistribuzionedel potere politico tra i gruppi sociali che pure si riconoscevano nel comu-ne popolare. Tanto che si potrebbe parlare di una vera e propria secondarivoluzione popolare, estendendo anche alle altre realtà la lettura già forni-ta da Giovanni Villani, che per Firenze coglie perfettamente la cesura rap-presentata dal movimento di Giano della Bella, e parla appunto di «secon-do popolo», dopo il «primo popolo» coincidente con l’affermazione delmovimento popolare nel 12506. Questa seconda ondata popolare è forsestata un po’ sottovalutata dalla storiografia, anche perché essa si manifestòin contesti politici particolarmente esplosivi, nei quali le lotte del “nuovopopolo” si sovrapposero a conflitti di natura fazionaria, in particolare tra“bianchi” e “neri”, e in alcuni casi anche a tentativi di affermazione signo-rile, in un intreccio non facilmente districabile7.

6 G. Villani, Nuova cronica, ed. G. Porta, Parma 1990-1991, IX, 1; per il «primo popo-lo» ibid., VII, 39.

7 A. Poloni, Il comune di popolo e le sue istituzioni tra Due e Trecento. Alcune riflessio-ni a partire dalla storiografia dell’ultimo quindicennio, «Reti Medievali-Rivista», 13/1 (2012),http://rivista.retimedievali.it.

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2. Il secondo popolo: alcuni esempi

Arezzo era un comune di popolo dal 12568. Dal 1266 il vertice istituzio-nale era rappresentato dai ventiquattro del comune e del popolo, che aveva-no sostituito gli anziani. Come questi ultimi, i ventiquattro erano eletti sullabase della ripartizione topografica in quartieri. Alla metà degli anni Ottanta,tuttavia, la struttura istituzionale del comune subì importanti mutamenti. Fuinfatti introdotto un nuovo ufficiale forestiero, lo iudex appellationum.Compare inoltre una nuova magistratura collegiale, i subpriores delle quindi-ci arti, guidati da un prior, forestiero: nel 1285 priore e subpriori agivano alfianco dei ventiquattro in un importante atto di governo. La sfortunata situa-zione documentaria di Arezzo non consente neppure di capire esattamentequanti fossero i subpriori, che comunque erano espressi direttamente dalmondo delle arti. In ogni caso, dietro le modifiche dell’assetto istituzionalesi intravede chiaramente la spinta di un movimento politico che aveva la pro-pria base nelle corporazioni professionali. Lo iudex appellationum sembrauna figura molto simile al giudice sgravatore che, in quegli stessi anni, veni-va introdotto a Perugia: un ufficiale forestiero al quale era affidata la giuri-sdizione d’appello, cioè la possibilità di intervenire sulle sentenze del pode-stà e del capitano del popolo. Per Perugia, l’istituzione di questo magistratoforestiero è stata messa in collegamento con un mutamento negli equilibripolitici, a favore di quello che un po’ approssimativamente viene in generedefinito “popolo minuto”9. Anche ad Arezzo la comparsa del giudice degliappelli si inserisce in una fase nella quale il baricentro del comune di popo-lo si stava, per così dire, spostando a sinistra10.

Nel 1287 il movimento ultrapopolare trovò un convinto leader nel luc-chese Guelfo da Lombrici, in quel momento priore delle arti11. Le crona-

8 C. Lazzeri, Guglielmino Ubertini Vescovo di Arezzo (1248-1289) e i suoi tempi,Firenze 1919; G. P. Scharf, Fiscalità e finanza pubblica ad Arezzo nel periodo comunale (XIIsecolo-1321), «Archivio storico italiano», 164 (2006), pp. 215-266; Scharf, Potere e societàad Arezzo e nel suo contado nel XIII secolo (1230-1320), in corso di stampa.

9 J. Grundman, The «popolo» at Perugia (1139-1309), Perugia 1992. Sara Menzingerha tuttavia osservato che l’istituzione del giudice sgravatore rispondeva anche a problemipiù complessi e con radici più antiche: S. Menzinger, Giuristi e politica nei comuni diPopolo. Siena, Perugia e Bologna: tre governi a confronto, Roma 2006, pp. 166-170.

10 A proposito degli anni 1285-1287 Gian Paolo Scharf parla di «“biennio rosso” delpopolo aretino»: Scharf, Potere e società ad Arezzo cit.

11 Su questo personaggio A. Poloni, Figure di capipopolo nelle città toscane fra Due eTrecento: Guelfo da Lombrici, Giano della Bella, Bonturo Dati e Coscetto da Colle, inEsperienze di potere personale e signorile nelle città toscane (secoli XIII-XV). Atti delConvegno (Volterra, 21-23 ottobre 2011), cur. A. Zorzi, in corso di stampa.

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che non sono chiarissime su quanto accadde quell’anno, ma è probabileche priore e subpriori conquistassero un ruolo istituzionale di maggiorrilievo, emarginando i ventiquattro12. In ogni caso, l’arrivo di Guelfo segnòil passaggio a una politica molto più radicale, e accesamente antinobiliare.Il fronte aristocratico, spaccato tra guelfi e ghibellini, ritrovò allora, sottola guida del vescovo Guglielmino degli Ubertini, una momentanea unitànella reazione contro le arti e il loro pericoloso priore. Quest’ultimo, messoin fuga, fu catturato e tenuto prigioniero per qualche tempo; l’esperienzadel governo delle arti fu bruscamente soppressa.

Anche Lucca era un comune di popolo almeno dall’inizio degli anniSessanta del Duecento13. Anche qui gli anziani, eletti sulla base della ripar-tizione topografica in porte, occupavano il vertice del sistema istituziona-le. Nel 1292, però, compare un nuovo organo collegiale, i priori dellesocietà delle armi, che erano diciassette, quante appunto erano le società:ogni compagnia, infatti, eleggeva direttamente un priore. L’affermazionedei priori fu piuttosto lenta14. Nel 1300, però, essi ottennero di affiancaregli anziani, sullo stesso piano, in tutti gli affari politici, e di condividernetutti i poteri. I priori avevano una fisionomia sociale piuttosto diversa daglianziani. Nel priorato si esprimeva in particolare un gruppo di famigliemercantili di grande successo ma di origine recente, affermatesi nel com-mercio internazionale a partire dagli anni Sessanta del Duecento15.Accanto ad esse, come conseguenza del reclutamento dal basso, partecipa-vano anche altre componenti sociali, mercanti di minor calibro, piccoliimprenditori, bottegai, artigiani benestanti. Non sembra invece avereaccesso al priorato nessuna delle famiglie più in vista del gruppo dirigentepopolare, che avevano guidato il popolo nella prima metà del secolo e ave-vano poi dominato l’anzianato. Dal 1301, anzi, la presenza di queste fami-glie diminuì notevolmente anche nell’anzianato. Molte di esse avevano

12 Gli avvenimenti aretini del 1287 sono narrati in Annales Arretinorum Maiores etMinores, edd. A. Bini - G. Grazzini, in R.I.S.2, 24, Città di Castello 1909, p. 9; D.Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, ed. G. Luzzato, Torino 1968, I, 6;Villani, Nuova cronica cit., VIII, 115; Le Croniche di Giovanni Sercambi, lucchese, ed. S.Bongi, Lucca 1892, I, p. 45.

13 A. Poloni, Strutturazione del mondo corporativo e affermazione del Popolo a Lucca nelDuecento, «Archivio storico italiano», 165 (2007), pp. 449-486.

14 Su questa fase della vita politica lucchese cfr. A. Poloni, Lucca nel Duecento. Unostudio sul cambiamento sociale, Pisa 2009, pp. 145-182.

15 Sul commercio e l’industria lucchesi nel Duecento cfr. I. Del Punta, Mercanti e ban-chieri lucchesi nel Duecento, Pisa 2004; Poloni, Lucca nel Duecento cit.

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infatti aderito alla fazione “bianca”, mentre lo schieramento ultrapopolareche si esprimeva nel priorato, avendo assunto posizioni guelfe radicali, èdai cronisti assimilato ai “neri” fiorentini e pistoiesi. All’inizio del 1301 ibianchi furono costretti ad abbandonare la città in seguito alla violenta rea-zione popolare causata dall’uccisione del giudice Opizo Opizi, molto vici-no ai neri. Infine nel 1308, con la riscrittura degli statuti cittadini, le piùinfluenti famiglie del vecchio gruppo dirigente popolare furono inseritenella lista di casastici et potentes, i magnati lucchesi, ed escluse dalle cari-che riservate ai popolari, a cominciare da anzianato e priorato.

Il movimento politico che si era affacciato sulla scena all’inizio deglianni Novanta, e che, a differenza che a Firenze, ad Arezzo e, come vedre-mo, a Perugia, non aveva trovato una base organizzativa nelle arti, ma nellesocietà armate popolari, aveva ottenuto un ricambio consistente del grup-po dirigente. Ma non era ancora finita. Nel 1310 il “popolo minuto” – usoquesta definizione per comodità espositiva, nonostante sia inadeguata, eper di più assente dalle fonti lucchesi –, sotto la guida di Bonturo Dati, unodei mercanti internazionali di successo, ma di origini oscure, che avevanoavuto un ruolo di primo piano nella fondazione dei priori, impresse unanuova svolta radicale alla politica lucchese16. Molte famiglie del “popolograsso” – tra le quali, presumibilmente, anche alcune di quelle responsabi-li della rivoluzione degli anni Novanta – furono cancellate dalle matricoledelle società armate, cioè, di fatto, escluse dai privilegi riservati ai popola-ri, e, ovviamente, dal priorato. Il baricentro sociale del governo popolaresi spostò ulteriormente verso il basso e il bacino di reclutamento degliorgani di vertice, priorato e anzianato, si allargò a comprendere non soloesponenti delle arti minori, ma addirittura, a quanto sembra, settori delproletariato urbano, da sempre esclusi da qualsiasi forma di partecipazio-ne politica. Questa esperienza durò soltanto tre anni, e anzi nel 1314 l’im-posizione violenta della signoria di Uguccione della Faggiola costrinseall’esilio molti dei protagonisti della vivace stagione politica cominciata neiprimi anni Novanta.

Non è il caso di soffermarsi sul movimento fiorentino guidato da Gia -no della Bella, negli anni Novanta del Duecento, molto noto e studiatoapprofonditamente17. Si possono comunque notare le numerose somi-

16 Poloni, Figure di capipopolo cit. Sulle attività economiche di Bonturo, Poloni, Luccanel Duecento cit., pp. 92-103, e Appendici, pp. 207-214.

17 Mi limito solo ai lavori più recenti, nei quali si può trovare un’esauriente bibliogra-fia delle opere precedenti: P. Parenti, Dagli Ordinamenti di Giustizia alle lotte tra Bianchi eNeri, in Raveggi – Tarassi – Medici - Parenti, Ghibellini, guelfi cit., pp. 239-326; G. Pinto,

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Della Bella, Giano, in Dizionario Biografico degli Italiani, 36, Roma 1988, pp. 680-686; A.Zorzi, Politica e giustizia a Firenze al tempo degli Ordinamenti di Giustizia, in Ordinamentidi giustizia fiorentini. Studi in occasione del VII centenario, cur. V. Arrighi, Firenze 1995,pp. 105-147; Diacciati, Popolani e magnati cit., pp. 353-355, 365-387.

18 Grundman, The «popolo» cit.; J.-C. Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria,Marche e Lazio, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, VII, 2, Torino 1987, pp. 321-606:454-458, 472-476,479-487.

19 Grundman, The «popolo» cit., pp. 142, 203.20 Cfr. nota 9.21 La rubrica statutaria che contiene questa disposizione è edita in J. Grundman, The

Popolo at Perugia. 1139-1309, Ph. D. dissert., Saint Louis, Missouri, 1974, App. IV, pp. 558-559.

glianze con le vicende aretine e lucchesi, compresa l’importanza, per la for-mazione e soprattutto la tenuta dei movimenti popolari radicali, di figuredi leaders come appunto Giano, Guelfo da Lombrici, Bonturo Dati.

Anche Perugia era un comune di popolo dagli anni Cinquanta delDuecento18. Dopo un lungo periodo di sperimentazione istituzionale, dal1266 il vertice del comune era occupato dai cinque consoli della mercan-zia. Ma anche nella città umbra dagli anni Ottanta si intravedono segnalievidenti di una crescente pressione per una diversa distribuzione del pote-re tra le componenti sociali del popolo, e anche qui, come a Firenze e adArezzo, le forze che si opponevano alla preminenza degli strati più elevatidel mondo mercantile trovarono una struttura organizzativa nelle arti. Iprimi successi arrivarono già nel 1283-84, quando i consoli della mercan-zia furono sostituiti dai consoli delle arti19. I membri del collegio eranosempre cinque e ai mercanti erano riservati due seggi. Un terzo seggioandava ai rappresentati dei cambiatori, mentre gli altri due erano ricoper-ti, a turno, da esponenti delle altre arti. La durata dell’ufficio fu però ridot-ta da sei a tre mesi, per poi essere portata a due mesi nel 1293, rendendoquindi più rapida la rotazione tra le arti. Anche l’introduzione del giudicesgravatore, a metà degli anni Ottanta, fu per molti versi una vittoria delmovimento popolare fondato sulle arti20. Negli anni Novanta quest’ultimocontinuò a ottenere risultati significativi: nel 1296, addirittura, fu stabilitoche in caso di conflitto normativo gli ordinamenti delle arti dovessero pre-valere sullo statuto del popolo21.

Ma la svolta definitiva avvenne nel 1303. I consoli delle arti furono sop-pressi, e sostituiti dai dieci priori delle arti. Di questi, due dovevano pro-venire dalla corporazione mercantile. Gli altri otto seggi erano occupati aturno dalle altre arti. Nessuna arte, a parte i mercanti, poteva avere più diun priore per bimestre, e nessuna poteva avere un priore per due bimestri

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consecutivi. Responsabili dell’elezione dei priori erano i rettori delle arti,che si riunivano alla scadenza di ogni collegio priorale per discutere i siste-mi elettorali. Se le vittorie degli anni Ottanta e Novanta avevano indeboli-to la posizione dell’élite politica popolare, il cambiamento istituzionale del1303 aprì le porte a un importante ricambio politico e all’ingresso nelgruppo dirigente cittadino di individui e famiglie provenienti da ambientisociali diversi da quelli che si erano espressi nel consolato22.

Poco dopo l’istituzione del priorato fu introdotto un altro nuovo uffi-cio, il vexillifer populi, le cui competenze non sono chiare. Si sa però chel’ufficio sopravvisse per quindici anni, e che per tutto questo tempo essofu ricoperto, unica carica comunale a sfuggire alle regole della rotazione,dallo stesso uomo, il potente nobile Filippo Bigazzini23. Filippo era, difatto, una sorta di nume tutelare del movimento popolare radicale.L’imposizione di nuove forze politico-sociali si sovrapponeva e si intreccia-va con l’affermazione di una forma di potere personale per molti versi assi-milabile alle eterogenee sperimentazioni signorili che in quegli stessi annicaratterizzavano molte città comunali. Si tratta di un’ulteriore confermadella complessità di questa fase politica, nella quale convivevano senzanecessariamente confliggere, e spesso anzi convergendo in forme inedite,diversi progetti di potere.

Nel caso di Bologna, tensioni sociali, lotte di parte e progetti di affer-mazione personale formano un groviglio particolarmente difficile da scio-gliere. Nei primissimi anni del Trecento le trame di Azzo VIII d’Este,signore di Ferrara, Modena e Reggio, che mirava a impadronirsi anche diBologna, provocarono una frattura all’interno del gruppo dirigente cittadi-no, una parte del quale appoggiava le ambizioni del marchese24. Il partitocontrario a questa fazione (detta «marchesana») per rafforzare la propriaposizione si avvicinò ai Lambertazzi e cercò una connessione con il coor-dinamento sovracittadino formato dai ghibellini romagnoli e dai “bianchi”delle città toscane. I marchesani si collegarono di conseguenza ai neri fio-rentini, pistoiesi e lucchesi. La storiografia locale parla perciò anche perBologna di bianchi e neri, ma gli schieramenti erano più mutevoli che nellecittà toscane. Tra il 1301 e il 1306, comunque, prevalsero i bianchi.

22 Sulla politica di questo gruppo dirigente rinnovato si veda anche J. Grundman,Perugia and Henry VII, «Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria», 105(2008), pp. 277-407.

23 Grundman, The «popolo» cit., pp. 234 ss.24 V. Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna, Bologna 1901, pp. 75 ss; G.

Milani, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italianetra XII e XIV secolo, Roma 2003 (Nuovi Studi storici, 63), pp. 377 ss.

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In questo contesto già complicato si inserì anche qui l’irrequietezzadell’eterogeneo fronte sociale che si esprimeva nelle organizzazioni popo-lari. Già nel febbraio del 1302 furono approvate alcune provvigioni chemiravano a limitare l’influenza delle famiglie popolari più potenti – quelloche a Firenze si sarebbe definito il “popolo grasso” – nell’anzianato25.Quello stesso anno venti società delle arti si unirono in una federazione. Acapo di essa fu posto un difensore delle venti società, che negli anni suc-cessivi acquisì una posizione istituzionale di rilievo. Egli aveva un suo con-siglio di quaranta membri e le deliberazioni di questo organo potevanoessere sottoposte al consiglio del popolo. Il difensore andò inoltre a unirsial direttivo composto dagli anziani, dal preconsole dei notai e dai ministra-li delle due società preposte a turno alle altre. Questo vertice rinnovatoall’inizio del 1303 emanò alcune provvigioni che rimettevano in vigoremolte delle disposizioni degli ordinamenti sacrati e sacratissimi lasciatecadere negli anni precedenti e rafforzavano le leggi contro i grandi.

Nel 1306 una serie di tumulti pose fine al predominio bianco. La tran-sizione fu accompagnata e favorita da nuove agitazioni nell’inquietomondo dell’associazionismo popolare. Sette società delle armi parteciparo-no in prima linea ai disordini di quell’anno, e poco dopo si unirono in unafederazione. Il cambio di regime si rifletté sulla struttura istituzionale, conl’acquisizione di un ruolo centrale da parte dell’unione delle sette società26.Essa espresse due nuovi ufficiali, il barisello e il preministrale delle settesocietà, che si riunivano con gli anziani per gli affari di governo. Il nuovoassetto degli organi di vertice vide invece scomparire il difensore dellesocietà delle arti, mentre anche i ministrali delle due società preposte allealtre vennero spinti in secondo piano. Come dimostra l’analisi condotta daSarah R. Blanshei, le sette società coinvolte nella federazione erano quelleche avevano il più basso livello di preminenza familiare27: rispetto alle altresocietà, cioè, esse erano meno caratterizzate dall’egemonia di un grupporistretto di famiglie. Le sette società, insomma, avevano un profilo socialeparticolare, in qualche modo più egalitario e “popolare” delle altre asso-ciazioni; pare quindi confermata l’intuizione di Gina Fasoli, che avevanotato come la federazione avesse il proprio centro nel quartiere di portaStiera, «il meno aristocratico della città»28.

25 Vitale, Il dominio cit., p. 86.26 Ibid. pp. 111 ss.; G. Fasoli, Le Compagnie delle armi a Bologna, «L’Archiginnasio»,

28 (1933), pp. 158-183, 323-340: 324-326.27 S. R. Blanshei, Politics and Justice in Late Medieval Bologna, Leiden-Boston 2010,

pp. 117 ss.28 Fasoli, Le Compagnie cit., p. 325.

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La federazione delle venti società delle arti, nata anch’essa come unareazione popolare al protagonismo politico delle più potenti famiglie del-l’aristocrazia ma anche del popolo, era apparsa troppo compromessa conla parte bianca; la carica di difensore, del resto, istituita per rappresentareun ampio ed eterogeneo aggregato sociale, era stata poi occupata da espo-nenti di rilievo di quella fazione. L’iniziativa delle sette società delle armiera volta quindi probabilmente sia ad affermare una linea guelfa radicale,contro il filoghibellinismo dei bianchi, sia di nuovo a rilanciare una politi-ca di contenimento delle casate più influenti e di allargamento del gruppodirigente cittadino.

A complicare ulteriormente le cose, c’è da dire che la carica di barisel-lo fu fino al 1321 costantemente ricoperta da Giuliano Raminghi e dai suoifigli, che appartenevano a una delle sette società, quella dei beccai29.Raminghi sembra dunque il leader del movimento radicale (ultraguelfo eultrapopolare, come lo schieramento lucchese che aveva dato vita al prio-rato) organizzato intorno alle sette società delle armi. Ma gli anni di preva-lenza delle sette società furono anche quelli nei quali si rafforzò l’egemo-nia personale del banchiere Romeo Pepoli, anche grazie ai rapporti strettiproprio con i Raminghi30. Sulla lotta di fazione e sulle rivendicazioni di unadiversa distribuzione del potere si innestarono dunque anche, in uno sce-nario di grande complessità, due diversi progetti di affermazione persona-le e familiare, per di più non in contrasto tra loro, ma alleati.

A Pisa nell’aprile del 1316 una sollevazione popolare portò alla finedella signoria di Uguccione della Faggiola31. Della situazione che si vennea creare all’indomani della cacciata del “tiranno” gli storici hanno messo inluce soprattutto l’emergere della figura del conte Gherardo (Gaddo), unodegli animatori della rivolta antiuguccioniana, con il quale di fatto iniziò lalunga fase della signoria filopopolare dei Donoratico32. Ma in quegli stessianni la vita politica pisana conobbe anche un altro protagonista: Bonac -

29 Sulle competenze del barisello, Milani, L’esclusione dal comune cit., pp. 399-404. Ilbarisello aveva già fatto una fugace comparsa nella documentazione bolognese nel 1279.

30 M. Giansante, Patrimonio familiare e potere nel periodo tardo-comunale. Il progettosignorile di Romeo Pepoli banchiere bolognese (1250c.-1322), Bologna 1991.

31 A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche in unComune italiano: il Popolo a Pisa (1220-1330), Pisa 2004, pp. 275 ss.

32 G. Rossi Sabatini, Pisa al tempo dei Donoratico. 1316-1347, Firenze 1938. Questafase della vita politica pisana è stata recentemente al centro di un’importante rilettura: G.Ciccaglioni, Dal Comune alla signoria? Lo spazio politico di Pisa nella prima metà del XIVsecolo, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 109 (2007), pp. 235-270.

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corso detto Coscetto da Colle, un piccolo mercante che gestiva con il fra-tello una bottega per la vendita di lana e pannilana. Il domenicano RanieriGranchi nel De preliis Tuscie – un poema i cui primi sette libri furono com-posti probabilmente negli anni Trenta del Trecento, pochi anni dopo lamorte di Coscetto – descrive una sorta di diarchia, nella quale Gherardo diDonoratico e il da Colle reggevano le sorti politiche della città stretti in unambiguo rapporto di alleanza e di controllo reciproco, di sostegno e didelimitazione dei rispettivi spazi di potere33. La fortuna di Coscetto tra-montò con la morte improvvisa del conte nel 1320. In seguito il da Colleincorse nella feroce ostilità di Ranieri di Donoratico, che lo portò allamorte nel 132234.

Le fonti documentarie sembrano confermare questa immagine. Aquanto pare, fino al 1319 il conte Gherardo non assunse alcun titolo for-male, ma esercitò la propria influenza dall’interno delle commissioni disapientes, che proprio in quegli anni, e come probabile conseguenza delmutamento degli equilibri politici, persero ogni carattere di eccezionali-tà35. Il Donoratico sedeva costantemente tra i savi; accanto a lui, e per lostesso quartiere, quello di Kinzica, troviamo molto spesso Coscetto. Fudunque attraverso le commissioni che l’influenza politica del conte e del daColle trovò una dimensione istituzionale.

Il conte era appoggiato dalle principali famiglie del gruppo dirigentepopolare, che erano state duramente colpite negli anni di Uguccione dellaFaggiola36. Ma, nell’instabilità seguita alla caduta del Faggiolano, e protrat-tasi per alcuni anni, come dimostrano i ripetuti tentativi di rovesciare ilnuovo regime, trovarono probabilmente spazio le richieste di quelle com-ponenti della società cittadina che, come nelle altre realtà analizzate nellepagine precedenti, rivendicavano un maggiore peso politico. Coscetto erail loro portavoce e il loro leader.

L’anzianato, la magistratura di vertice del comune di popolo pisano,era espressione delle élites delle tre corporazioni mercantili – l’ordine delmare, l’ordine dei mercanti e l’arte della lana –, élites che, per altro, tende-vano a sovrapporsi. Negli anni di Coscetto si riscontra un’apertura dell’an-zianato a segmenti sociali che nel passato non vi avevano avuto accesso senon occasionalmente, in particolare all’ampio e poco definito “ceto

33 R. Granchi, De preliis Tuscie, ed. M. Diana, Firenze 2008: «Totum Comune tene-mus», fa dire tra l’altro il Granchi a Coscetto, rivolto al conte Gherardo (p. 221).

34 Poloni, Trasformazioni della società cit., pp. 310-315.35 Ibid., pp. 283-294.36 Ibid., pp. 339-355.

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medio” al quale egli stesso apparteneva, composto da mercanti di minoreimportanza, bottegai, piccoli imprenditori tessili: un’aggregazione sociale,insomma, per molti versi simile a quella che a suo tempo a Firenze avevasostenuto Giano della Bella. Il da Colle garantiva l’adesione di questi grup-pi al programma di ristrutturazione politica e istituzionale portato avantidal “popolo grasso” e da Gherardo di Donoratico negli anni successivi allaconclusione della signoria di Uguccione. In cambio, tuttavia, Coscetto e lecomponenti sociali che rappresentava pretesero l’avvio di un processo diricambio politico, attraverso un allargamento della base di reclutamentodegli organi di vertice del comune di popolo. Non si può fare a meno diosservare, tra l’altro, che il rapporto tra il da Colle e il conte Gherardoricorda per molti versi quello tra Giuliano Raminghi e Romeo Pepoli aBologna.

Esigenze di spazio impongono di interrompere qui le esemplificazioni,ma è probabile che un’analisi più estesa mostrerebbe che anche in altrerealtà cittadine, in questi stessi decenni tra Due e Trecento, erano in attodinamiche simili a quelle osservate per Arezzo, Firenze, Lucca, Perugia,Bologna e Pisa. È evidente, per esempio, che la fisionomia sociale di colo-ro ai quali lo statuto senese del 1286 riservava l’accesso alla magistraturadei nove – che dovevano essere «de mercatoribus […] vel de mediagente»37 – era del tutto simile a quella dei protagonisti dei rivolgimentianalizzati nelle pagine precedenti. Le ricerche più recenti hanno appuratoche i nove erano in gran parte proprio mercanti di media condizione, lana-ioli, prestatori, qualche raro esponente del commercio alimentare; nessungiudice, nessun notaio, nessun mercante di caratura internazionale38. Ladefinizione di «mercatanti […] overo de la meça gente» – così nel volga-rizzamento del 130939 – , anzi, è in fondo più efficace di “popolo minuto”per descrivere la base sociale dei movimenti politici attivi tra Due eTrecento.

37 La rubrica è ora edita in A. Giorgi, Quando honore et cingulo militie se hornavit.Riflessioni sull’acquisizione della dignità cavalleresca a Siena nel Duecento, in Fedeltà ghibel-lina affari guelfi. Saggi e riletture intorno alla storia di Siena fra Due e Trecento, cur. G.Piccinni, Pisa 2008, I, pp. 133-207: 201.

38 Ringrazio Sergio Raveggi per avermi fornito alcune anticipazioni sui risultati diun’importante ricerca prosopografica in corso sul gruppo dirigente popolare di Siena. Finoalla pubblicazione di queste indagini il riferimento rimane W. M. Bowsky, Un comune ita-liano nel medioevo. Siena sotto il regime dei Nove, 1287-1355, Bologna 1986; Bowsky, The“Buon Governo” of Siena, 1287-1355. A Medieval Oligarchy, «Speculum», 37 (1962), pp.368-381.

39 Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, ed. M. S.Elsheikh, Siena 2002, II, p. 535.

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In tante città, insomma, la complessità degli scenari politici e la convi-venza, in forme molto varie, di diversi progetti di potere non può nascon-dere l’esistenza di forti pressioni per un ampliamento e una maggiorediversificazione sociale del gruppo dirigente comunale.

Dal punto di vista delle parole d’ordine e del programma politico, imovimenti che operarono in questa fase non inventarono nulla di nuovo,ma pescarono a piene mani dal repertorio “classico” del popolo. Le politi-che attuate dalle forze radicali, dove esse giunsero al governo, si presenta-no come un’evidente ripresa dei temi che avevano animato le lotte delpopolo fin dalla prima metà del Duecento. Fiscalità, giustizia, recupero emigliore gestione dei diritti e dei beni del comune, contenimento dei com-portamenti violenti dei magnati – oltre, ovviamente, al contrasto alla con-centrazione del potere nelle mani di pochi – sono ovunque i capisaldi del-l’azione dei gruppi dirigenti trasformati dall’apporto di nuove componen-ti sociali.

3. Congiuntura economica, tensioni politiche e ricambio

Naturalmente l’interrogativo più importante, ma anche quello al qualeè più difficile rispondere, è perché i decenni a cavallo tra Due e Trecentosi siano caratterizzati così fortemente, in molte realtà, per l’irrequietezza diampi settori della società cittadina, che dimostrarono peraltro una spicca-ta capacità di incanalare la propria insoddisfazione in forme organizzate edi imporsi in modo efficace sulle piazze e nei consigli. Viene spontaneoconsiderare le espressioni di malcontento come una reazione quasi natura-le a un peggioramento delle condizioni di vita, o a un restringimento deglispazi di espressione politica. E in effetti, quando si è tentata una spiegazio-ne delle vicende qui considerate, essa è stata in genere cercata nel rallenta-mento dell’economia, nel manifestarsi cioè dei primi segnali della crisi tre-centesca, e nell’oligarchizzazione che stava portando alla concentrazionedel potere nelle mani di una ristretta plutocrazia e all’esclusione dai pro-cessi decisionali dei consigli più ampi e rappresentativi.

Questo schema esplicativo lascia però piuttosto insoddisfatti, o perlo-meno non sembra applicabile a tutti i contesti. Esso è, per esempio, deltutto inadeguato per dare conto dell’esperienza fiorentina di Giano dellaBella. Non c’è davvero nessun indizio di difficoltà economiche nellaFirenze dei primi anni Novanta, che anzi era sempre più decisamenteavviata a divenire una superpotenza commerciale. Dal punto di vista poli-tico, non sembra affatto che gli anni precedenti fossero caratterizzati da

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una chiusura delle istituzioni o da una compressione degli spazi di parteci-pazione. Al contrario, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novantafurono approvate importanti riforme, che ridisegnarono i sistemi di gestio-ne delle finanze cittadine, inasprirono i provvedimenti contro i magnati e,soprattutto, portarono da sette a dodici – con l’inclusione di cinque artimediane – il numero delle arti maggiori, alle quali era riconosciuto unruolo politico di rilievo40. Del resto, sia Dino Compagni che GiovanniVillani osservano che il periodo subito precedente alla comparsa del movi-mento di Giano era stato caratterizzato da un’eccezionale prosperità e pro-prio queste condizioni particolarmente felici, nell’interpretazione morali-stica dei due cronisti, avrebbero risvegliato la «superbia» dei cittadini,soprattutto dei nobili e dei grandi41.

Anche a Lucca la fondazione del priorato, nei primi anni Novanta,seguiva una fase di grande espansione economica42. Per Pisa l’idea di unairreversibile decadenza economica conseguente alla sconfitta della Meloriadel 1284 è stata ormai fortemente ridimensionata, se non abbandonata, esembra difficile anticipare al secondo decennio del Trecento una crisi cheeffettivamente colpì la città tirrenica solo dopo la perdita della Sardegna,nel 132643. Per quanto riguarda le dinamiche politiche, è interessante nota-re come, ancora a Lucca, la svolta radicale di Bonturo Dati, nel 1310, nonvenisse affatto dopo un momento di chiusura degli spazi istituzionali, maal contrario dopo il più grande processo di rinnovamento del gruppo diri-gente cittadino che Lucca avesse conosciuto dall’affermazione del popoloa metà secolo. A Bologna l’esperienza delle sette società seguiva alcuni annicaratterizzati da un revival delle parole d’ordine del popolo grazie all’azio-ne della federazione delle venti società delle arti. A Perugia la rottura del1303 non seguiva una fase di chiusura, ma al contrario un quindicennio diprogressivo e condiviso rafforzamento della posizione politica delle arti.

Bisogna ammettere che le nostre conoscenze sull’economia delle cittàcomunali tra Due e Trecento sono piuttosto insoddisfacenti, soprattutto sesi esce dall’ambito del grande commercio internazionale, che peraltro inte-ressò un numero limitato di realtà. Dove si è tentata un’analisi più appro-

40 L. Tanzini, Il più antico ordinamento della Camera del Comune di Firenze: le«Provvisioni Canonizzate» del 1289, «Annali di storia di Firenze», 1 (2006), pp. 139-179,<http://www.dssg.unifi.it/sdf/annali/annali2006.htm>; Diacciati, Popolani e magnati cit.,pp. 359-364, 367.

41 Compagni, Cronica cit., I, 11; Villani, Nuova cronica cit., IX, 1.42 Poloni, Lucca nel Duecento cit., pp. 87-110.43 M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura a Pisa nel Trecento, Pisa 2002 [ed.

orig. 1973].

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fondita, i risultati sono stati a volte sorprendenti. È il caso di una delle cittàcitate nelle pagine precedenti, Arezzo, a lungo ritenuta poco più di unborgo agricolo. Da alcuni studi recenti emerge un’immagine del tuttodiversa44. La città di inizio Trecento appare caratterizzata da un tessutoeconomico molto dinamico, con un settore produttivo e commercialeestremamente diversificato nel quale erano impegnati un numero consi-stente di addetti – artigiani, mercanti-imprenditori, commercianti al detta-glio – con ruoli e qualifiche differenziati. Le manifatture tessili, lanierasoprattutto ma anche cotoniera, appaiono ben sviluppate e allineate, dalpunto di vista tecnologico e organizzativo, alla ben più nota industria fio-rentina. Eppure Arezzo non era inserita nei circuiti del commercio inter-nazionale. Sembra quindi probabile che queste produzioni fossero destina-te al consumo interno di una città che, per quanto piccola, raggiungevaallora la sua massima espansione demografica, ma anche, e questo è il datosu cui varrebbe la pena soffermarsi, alla distribuzione nel contado.

In effetti, sappiamo pochissimo sui consumi nelle campagne di Due eTrecento. Uno studio di Charles Marie de La Roncière dimostra che ilperiodo compreso tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecentoè quello in cui il territorio fiorentino raggiunse il più alto livello di integra-zione economica45. Il contado era coperto da una fitta rete di mercati didiverso livello – locale, sovralocale e sovraregionale – coordinati tra loro.Attraverso questa struttura capillare di luoghi di scambio i prodotti dell’ar-tigianato e delle manifatture cittadine – in particolare, ancora una volta,tessili – raggiungevano gli angoli più remoti del territorio soggetto aFirenze. La redistribuzione dei tessuti fiorentini era gestita da operatorilocali, attivi nei borghi e nei villaggi, che si rifornivano in città direttamen-te dai produttori (i lanaioli), ma anche da grossisti e venditori al dettaglio46.

44 F. Franceschi, Arezzo all’apogeo dello sviluppo medievale: aspetti economici e sociali,in Petrarca politico. Atti del Convegno (Roma-Arezzo, 19-20 marzo 2004), Roma 2006, pp.159-182.

45 C. M. de La Roncière, Firenze e le sue campagne nel Trecento. Mercanti, produzione,traffici, Firenze 2005; si tratta della terza parte della thèse dello studioso francese, che nonaveva trovato spazio in Prix et salaires à Florence au XIV siècle. 1280-1380, Roma 1982.

46 Questo quadro trova conferma in altri lavori dedicati a questi temi. Si veda peresempio un breve ma denso articolo di Thomas Blomquist nel quale lo studioso analizzal’attività di numerosi pannarii lucchesi come emerge già da un registro notarile del 1246. Iclienti di questi piccoli imprenditori cittadini erano mercanti rurali che rivendevano i panninelle località del contado: T. Blomquist, The Drapers of Lucca and the Marketing of Clothin the Mid-Thirteenth Century, «Explorations in Economic History», 7 (1969), pp. 65-73;un’immagine simile emerge, per il periodo tra fine Duecento e inizio Trecento, dalla docu-mentazione pisana analizzata da D. Herlihy, Pisa nel Duecento, Pisa 1973, pp. 161-192.

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Certamente non è questa la sede per affrontare temi così complessi.Questi pochi accenni dovrebbero tuttavia essere sufficienti a seminarealmeno qualche dubbio sull’idea che le tensioni politiche di fine Duecentoe inizio Trecento si inseriscano in un quadro di disagio economico einquietanti segnali di crisi. In molte realtà questa fase fu caratterizzata nonsoltanto dal culmine dello sviluppo demografico, ma anche dalla massimapenetrazione economica e politica della città nelle campagne, prima chedai decenni centrali del Trecento lo spopolamento, le guerre, fenomeni diaffermazione neosignorile e rifeudalizzazione mettessero in crisi il rappor-to delle città con il loro contado comunale. Non si può poi non notare chela vivacità economica che emerge dagli studi su Arezzo, o dal quadro di deLa Roncière, doveva favorire proprio quei settori sociali che abbiamo vistoprotagonisti dei movimenti politici di questa fase, bottegai, piccoli impren-ditori tessili, commercianti al dettaglio, artigiani, il cui benessere dipende-va strettamente dall’espansione dei consumi locali.

I sociologi, del resto, hanno spiegato da tempo che il malcontento diun gruppo non è necessariamente legato a un peggioramento oggettivodelle sue condizioni economiche, della sua posizione sociale o delle suepossibilità di espressione politica. Al contrario, esso può essere la conse-guenza imprevista di un accresciuto benessere o di un’ascesa del grupponella stratificazione sociale. L’insoddisfazione deriva da aspettative frustra-te. La frustrazione può certo essere il prodotto di un deterioramento dellasituazione economica e sociale, ma può essere anche il risultato di un innal-zamento delle aspettative. È l’idea esistente dietro il concetto di «privazio-ne relativa», che implica quello di «gruppo di riferimento»47: la soddisfa-zione di un individuo o di un insieme di persone dipende dal gruppo concui essi si confrontano. Banalmente, se ci si limita a confrontarsi con per-sone del proprio stesso status o di status inferiore, le aspettative restanobasse e il malcontento rimane sotto controllo, mentre, se si è indotti a con-frontarsi con persone in posizione più elevata nella stratificazione econo-mica, sociale o politica – o tutte e tre –, le aspettative aumentano e la loromancata soddisfazione può produrre frustrazione e tensione sociale.

È possibile che in molti comuni di popolo tra Due e Trecento sia acca-duto proprio questo. L’insoddisfazione dell’eterogeneo “ceto medio”composto da commercianti, piccoli imprenditori e artigiani potrebbe cioèessere stata determinata da una crescita delle aspettative e da un mutamen-to di prospettiva che lo portò a paragonare la propria condizione, e più

47 W.G. Runciman, Ineguaglianza e coscienza sociale: l’idea di giustizia sociale nelle clas-si lavoratrici, cur. A. Pichierri, Torino 1972.

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specificamente il proprio peso politico, con quelli dell’élite dirigente for-mata da ricchi mercanti, banchieri, giuristi. Il cambiamento del gruppo diriferimento e l’accentuazione del sentimento di privazione potrebberoessere la conseguenza, almeno in alcune realtà, di un aumento della pro-sperità e della forza numerica ed economica di questi segmenti della socie-tà cittadina. Si tratta comunque di un’ipotesi di lavoro che, a mio parere,varrebbe la pena verificare. L’ampia partecipazione politica, caratteristicadistintiva dei comuni di popolo di fine Duecento, può a sua volta averecontribuito all’incremento delle attese.

Il dato fondamentale da tenere in considerazione, poi, è la grande forzadell’ideologia popolare. Studi ormai numerosi, riguardanti, molto significa-tivamente, anche regimi signorili, dimostrano la straordinaria vitalità, finoalmeno al pieno Trecento, del discorso politico del popolo, con il qualeogni progetto di potere fu costretto a confrontarsi48. L’insoddisfa zione dif-fusa tra Due e Trecento, qualunque ne fosse la causa, non rimase un disa-gio indeterminato, ma trovò facilmente parole d’ordine ampiamente condi-vise intorno cui aggregarsi, così come solide strutture associative – arti esocietà popolari – per organizzarsi. I movimenti attivi tra Due e Trecentonon fecero che appropriarsi del linguaggio e del discorso del popolo, e sudi essi costruirono la propria identità politica di gruppo. Le tensioni socia-li e politiche che caratterizzarono questa fase potrebbero insomma nonessere il riflesso della crisi del comune, e del comune di popolo in partico-lare, ma l’espressione parossistica della sua vitalità e dell’alto livello di poli-ticizzazione della cittadinanza.

Qualunque interpretazione se ne dia, sarebbe importante comprende-re un po’ meglio questi fenomeni. Molte delle esperienze analizzate nellepagine precedenti ebbero vita breve e i processi di radicale ricambio poli-tico che esse avviarono furono nella maggior parte dei casi bruscamenteinterrotti. Tuttavia, in molte realtà la rivendicazione di una diversa distri-buzione del potere politico riemerse in vari momenti nel corso dell’interoTrecento, da parte delle stesse componenti sociali che avevano animato imovimenti di inizio secolo. In alcuni casi, queste pressioni riuscirono anco-ra, anche se per brevi periodi, a rovesciare i rapporti di forza e ad allarga-re notevolmente il bacino sociale di reclutamento degli organi di vertice49.

48 Per i contesti signorili cfr. R. Rao, Signorie cittadine e gruppi sociali in area padanafra Due e Trecento: Pavia, Piacenza e Parma, «Società e storia», 118 (2007), pp. 673-706;Rao, Il sistema politico pavese durante la signoria dei Beccaria (1315-1356), «Mélanges del’École française de Rome. Moyen Âge», 119 (2007), pp. 151-187.

49 Come per esempio a Firenze negli anni Quaranta e alla fine degli anni Settanta, e aPisa alla fine degli anni Sessanta: J. M. Najemy, Corporatism and Consensus in Florentine

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Si tratta dunque di un aspetto non trascurabile dell’evoluzione politica esociale della tarda età comunale, che attende ancora di essere chiarito neisuoi tanti punti oscuri.

Electoral Politics, 1280-1400, Chapel Hill 1982, pp. 126 ss, 217 ss; G. Ciccaglioni, Prioresantianorum, primi tra gli Anziani. Criteri di preminenza, cicli economici e ricambio dei grup-pi dirigenti popolari a Pisa nel XIV secolo, in Firenze e Pisa dopo il 1406. La creazione di unnuovo spazio regionale. Atti del convegno (Firenze 27-28 settembre 2008), cur. S. Tognetti,Firenze 2010, pp. 1-48.

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