Una traduzione agonistica. A proposito della traduzione del nome di Dio

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Sediento de saber lo que Dios sabe Judà León se dio permutaciones de letras y a complejas variaciones y al fin pronunciò el Nombre que es la Clave Jorge Luis Borges Pianse sul tramonto dell'idea che era stato perfetto - una parola priva di senso - per tante e tante migliaia di anni Zach Hughes Auslegung ist Kunst F. Schleiermacher UNA TRADUZIONE AGONISTICA 1 A proposito della traduzione del nome di Dio 2 Nel caso della traduzione del nome di Dio ci si trova precipitati inesorabilmente nel groviglio spesso e 1 Questo articolo è stato pubbliucato in: Libri e Riviste d'Italia. La Traduzione . Saggi e documenti. Supplemento al n. 535-538 (2), (settembre-dicembre 1994), org.: LAGES, Susana K. , LOMBARDI, Andrea G et alii. “Esperienze e prospettive della traduzione in Brasile”. Roma: Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato / Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1995, p. 137-153. Il testo delle epigrafi è citato da: J. L. Borges. El Golem. Z. Hughes. Il campo degli Ufo [Seed of Gods], Milano: Mondadori [Urania], 1976, p. 138 e Friedrich D. E. Schleiermacher. Hermeneutik, Heidelberg, 1974. 2 Il nucleo centrale di questo testo (il brano 3, 14 dell'Esodo) è stato oggetto di ampi studi, negli ultimi duemila anni. Ritornarvi può sembrare pedante. L'ho già fatto in diverse occasioni, una delle quali è stato il IV Incontro Nazionale [brasiliano] di Traduzione, avvenuto a San Paolo nel 1990, presso la USP, il cui titolo è stato, appunto: "Acerca do problema da tradução do Nome de Deus" [A proposito della traduzione del nome di Dio]. Si tratta, dunque, di una ennesima variazione sul tema, anche se, allora, le dimensioni del testo presentato raggiungevano al massimo un quarto della lunghezza attuale (fortunatamente per il lettore ... di allora). Il testo della lunga nota di Erri de Luca alla sua traduzione nuova dall'ebraico di Esodo/Nomi . Milano: Feltrinelli, 1994, annunciata rafforza il ragionamento, qui solo abbozzato in maniera dilettante e, quasi, ludica.

Transcript of Una traduzione agonistica. A proposito della traduzione del nome di Dio

Sediento de saber lo que Dios sabeJudà León se dio permutaciones

de letras y a complejas variacionesy al fin pronunciò el Nombre que es la Clave

Jorge Luis Borges

Pianse sul tramontodell'idea che era stato perfetto- una parola priva di senso -

per tante e tante migliaia di anniZach Hughes

Auslegung ist KunstF. Schleiermacher

UNA TRADUZIONE AGONISTICA1

A proposito della traduzione del nome di Dio2

Nel caso della traduzione del nome di Dio ci si trovaprecipitati inesorabilmente nel groviglio spesso e

1 Questo articolo è stato pubbliucato in: Libri e Riviste d'Italia. La Traduzione.Saggi e documenti. Supplemento al n. 535-538 (2), (settembre-dicembre1994), org.: LAGES, Susana K. , LOMBARDI, Andrea G et alii. “Esperienzee prospettive della traduzione in Brasile”. Roma: Istituto Poligrafico eZecca dello Stato / Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1995,p. 137-153. Il testo delle epigrafi è citato da: J. L. Borges. El Golem.Z. Hughes. Il campo degli Ufo [Seed of Gods], Milano: Mondadori [Urania], 1976,p. 138 e Friedrich D. E. Schleiermacher. Hermeneutik, Heidelberg, 1974.2Il nucleo centrale di questo testo (il brano 3, 14 dell'Esodo) è statooggetto di ampi studi, negli ultimi duemila anni. Ritornarvi può sembrarepedante. L'ho già fatto in diverse occasioni, una delle quali è stato ilIV Incontro Nazionale [brasiliano] di Traduzione, avvenuto a San Paolo nel 1990,presso la USP, il cui titolo è stato, appunto: "Acerca do problema datradução do Nome de Deus" [A proposito della traduzione del nome di Dio].Si tratta, dunque, di una ennesima variazione sul tema, anche se, allora,le dimensioni del testo presentato raggiungevano al massimo un quartodella lunghezza attuale (fortunatamente per il lettore ... di allora). Iltesto della lunga nota di Erri de Luca alla sua traduzione nuovadall'ebraico di Esodo/Nomi. Milano: Feltrinelli, 1994, annunciata rafforzail ragionamento, qui solo abbozzato in maniera dilettante e, quasi,ludica.

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inestricabile, uno 'gnommero', nella densa e colorataespressione del genio linguistico di Carlo Emilio Gadda, unmagma angosciante. La stessa definizione del tema, la suaformulazione, ne condiziona in un certo senso il risultato,al punto da inficiarne irreparabilmente la pretesa obiettiva.Si tratta di un tipico groviglio ermeneutico, la cuisoluzione assoluta, evidentemente, non esiste. Secondo unalungimirante intuizione di Roland Barthes, che raccomanda diseguire il principio della Mathesis singularis3, cioè dellaprofonda, epidermica aderenza della spiegazione al testo, unaquasi tautologia. Un critico contemporaneo nordamericanocoraggioso e autorevole, ha affermato: "Non ci sonointerpretazioni ma solo mis-interpretazioni, così ogni formadi critica è una poesia in prosa."4 L'analisi letterariadiviene, tramite questa sua concezione, una metafora dellatraduzione come problema specifico dell'interpretazione e,seguendo il ragionamento del critico americano, attribuirleun valore nel conflitto, nella tensione, nello scontroferoce fra autore e suo precursore o meglio tra mondi inbilico su un abisso insondabile e impossibile che è quellodella interpretazione autentica, originale, primeva, una. Traduzionepuò voler significare due movimenti contraddittorii: da unaparte dovrà mettere in movimento le energie per realizzareuno scontro fra le concezioni racchiuse in universilinguistici comunicanti (in una concezione intertestualedella letteratura, non esiste un testo che non si leghi ad un

3Ne La chambre claire il semiologo francese afferma: "Porquoi n'y aurait-ilpas, en quelque sorte, une science nouvelle par objet? Une Mathesis singularis(et non plus universalis)?" R. Barthes in I. Calvino, Lezioni Americane,Milano, 1988, p. 644 H. Bloom. The Anxiety of Influence [Angoscia dell'Influenza, Milano, Feltrinelli,1983, p. 98]. Harold Bloom è autore di una Tetralogia dell'Influenza poetica checomprende, oltre al volume citato, anche Poetry and Repression [Poesia eRepressione], A Map of Misreading [Una mappa della dislettura] e Kabbalah and Crirticism[La Kabbalà e la tradizione critica]. Lo stesso autore ha pubblicato recentementeThe book of J, un polemico libro in cui attribuisce la stesura del complessodei testi biblici redatti da "J " ('Jehova' in tedesco, che è il nomecon cui il Dio appare in quella versione del testo) a una unicaredattrice, una sacerdotessa della corte del re Salomone.

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testo ad esso precedente o futuro); dall'altra, dovrà fare iconti con tradizioni separate, viste dal punto di vistadell'universo culturale con il quale convivono, grosso modoquella dell'orizzonte "nazionale" così come è stato delineatodal romanticismo tedesco5. L'agonismo, a cui allude il criticocitato nel titolo di uno dei suoi libri6 evidenzia questaconcezione impudica, spuria, che nella lettura dellapsicanalisi ha trovato il grande momento ispiratore.Naturalmente l'approccio letterario al problema dellatraduzione può voler eludere una parte del problema (il veroproblema?), che da alcuni può essere sentito comesquisitamente linguistico e sul quale mi soffermerò piùtardi. In un altro testo della Tetralogia dell'Influenza già citata,e cioè Una mappa della dislettura [A Map of misreading], Bloom prendeposizione decisamente, in maniera dichiaratamente polemica,sull'approccio da lui scelto sul problemadell'interpretazione7:

"Dopo Nietzsche e Freud, èimpossibile ritornare interamente adun modo d'interpretazione che cerchidi restituire significati ai testi.Eppure, anche il più sottile dei'decostruttori' nietzschianicontemporanei di testi deve ridurretali testi, in una digressione o fugadalla psicologia e dalla storia.Niente impedisce a un lettore con lemie preferenze di risolvere tutti gli

5"Ogni lingua - afferma Humboldt - traccia attorno alla nazione allaquale appartiene un circolo dal quale non si può uscire, a meno che nonsi passi allo stesso tempo al circolo di un'altra lingua. [...] La linguaè il suo spirito e il suo spirito è la sua lingua. Mai sarà possibileesprimere soddisfacentemente la sua identità." In: Schaff, Adam. Linguageme Conhecimento, p. 24 e 276Agon. Towards a theory of revisionism [Agone. Verso una teoria del revisionismo] (1982, tr. it.1985)7'Interpretazione una volta significava 'traduzione', e essenzialmentelo significa ancora"(Bloom, Harold. A Map of Misreading, ed it.: Una mappadella dislettura, Milano, Spirali, 1988, p. 91)

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elementi linguistici di un testoletterario nella storia e similmentedi rintracciare tutti gli elementisemantici del discorso letterario inproblemi di psicologia."

L'opinione di Bloom è radicale, una forma diversa maanaloga a quella di Barthes, per affermare una sua Mathesissingularis. Come filo rosso nei suoi scritti corre, del resto,la consapevolezza di una sua lettura revisionista di SigmundFreud, inteso come grande scrittore e traduttore (osaccheggiatore) dei miti letterari e culturali dellatradizione occidentale, nella quale noi siamo immersi cosìprofondamente, al punto da non riuscirne a emergereincontaminati, al punto da non poterne avere una visioneobiettiva. La lettura di Bloom è "revisionista", in un sensodiverso da quello cui noi siamo abituati dai dizionari odalla pratica culturale8: revisionismo per Bloom è più di unavisione del mondo: riassume la nostra stessa maniera dipensare, poiché:

"il lettore più forte è quello cherevisiona talmente, da fare di ognitesto un testo tardivo, facendo percontro di sé come lettore qualcosa diaurorale, di più iniziale e nuovo diquanto qualsiasi testo completopotrebbe mai sperare di essere."9

8Conoscevamo il revisionismo nel movimento marxista dell'inizio delsecolo. Dobbiamo ora fare i conti con il revisionismo contemporaneo diquegli spocchiosi storici europei, fautori di una rilettura assolventedell'ombroso passato europeo.9H. Bloom, La Kabbalà e la tradizione critica [Kabbalah and criticism], Milano, Feltrinelli, 1981,p. 127)

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In questo spirito e facendo mia una preziosaraccomandazione di Spitzer10, in pratica una excusatio non petita,mi accingo a tracciare le coordinate del problema.

Si tratta della traduzione del verso 3,14 dell'Esodo,quella che nella versione a noi arrivata dei "settanta" dice:"Dio disse a Mosè: <Io sono colui che sono!> Dirai agliIsraeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi>11. Ricordiamone perbrevi cenni il contesto: l'Esodo ci presenta la storia diMosè, abbandonato dai propri genitori ebrei, neonato, in uncesto sul Nilo, per evitargli la morte decretata dal faraone.Raccolto (per curiosa coincidenza) dalla stessa figlia delfaraone, viene educato a corte e, successivamente, acquisisce(inspiegabilmente) coscienza della sua apparteneza al popoloebraico, al punto da arrivare a uccidere un egiziano "checolpiva [ ...] uno dei suoi fratelli" (Esodo, cap. 3, 11).Fuggito nel paese di Madian, ha una visione (il "rovetoardente"). Chi gli parla, si presenta dicendo: "Io sono ilDio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Diodi Giacobbe" e gli attribuisce un incarico decisivo : "Fa'uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!" (corsivomio). Visibilmente poco convinto della situazione che sitrovava a vivere, Mosè esige ulteriori spiegazioni, checircostanzino l'incarico e gli diano una prova, un elemento10"Io ho voluto accostarmi a Saint-Simon del tutto 'impreparato', come unatabula rasa, come un lettore dilettante; può darsi che mi sia lasciatoscappare molte cose essenziali, che spesso abbia ripetuto (male) cose giàdette (bene): ma sento di avere tutto il diritto di affermare che mi sonosforzato di guardare da solo... Tutto è già stato visto una volta:bisogna cercare di rivederlo in modo nuovo. Che questo riesca o no non èaffar nostro (L. Spitzer, Saggi di critica stilistica, Firenze, Sansoni, 1985, p.280-281)11La sacra bibbia, Roma, Conferenza episcopale italiana, 1974. Il richiamo ai"settanta" è contenuto nella presentazione, dove si dice: "Il Comitatoper la versione italiana della Bibbia incominciò col precisare a séstesso che la nuova versione [...] doveva essere condotta sui testioriginali, tenendo però conto della versione dei LXX, della Volgata edella Neo-Volgata e di quanto, nell'esegesi cristiana dei secoliprecedenti, potesse costituire un'indicazione impegnativa o utile per iltraduttore."(ib. p. X)

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su cui basare l'autenticità delle sue parole dinanzi alpopolo ebraico. La domanda che rivolge al suo interlocutore ècirca il suo nome: "<Ecco, io arrivo dagli Israeliti e dicoloro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma midiranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?>. Aquesto punto, gli sarà data la risposta su cui verte questapiccola ricerca, la frase fatale, che in ebraico suona: 'Ehjeh'asher 'ehjeh, la cui traduzione presenta i problemi chedelineerò.

Il testo di questo capitolo dell'Antico Testamento cisuona molto familiare, poiché è fondante per la nostracultura. Senza questa frase essa ci apparirebbe,probabilmente, orfana, monca, incompleta. Conviviamo conquesto testo da sempre, prima di leggerlo, prima didiscuterlo, senza avere, a volte, la possibilità diconfrontarci realmente con esso, mai. Si tratta di un branodefinitivamente classico della nostra tradizione, forse fratutti il più classico (se è consentita la comparazione),analogo a quello del viaggio di Ulisse. L'uno, in un certosenso, ci dà una definizione, un punto fermo, unafocalizzazione del problema delle nostre radici. L'altrosimbolizza il viaggio nella nostra letteratura, il viaggionel testo, il viaggio testuale12. Un testo classico, si sa, contienetutto: citazioni, intertestualità, testi (di altri autori)interi, testi iniziati e mai completati, allusione a testipossibili, inizi e finali di testi non ultimati, testi ancoramai pensati, del tutto ipotetici, impossibili; un testoclassico contiene inoltre la lettura di altri testi, il lorocommento, le nostre idee sul commento; infine, un testoclassico esibisce le teorizzazioni sul valore relativo di ognicommento, idee su una rilettura nuova e, per restare nellospirito del commento che Foucault dedica all'enumerazionecaotica di Borges all'inizio del suo Le parole e le cose, a volte,anche resti di una lista di letture ideali, la cui esistenza12Maria Corti ha scritto su questo tema Il viaggio testuale, nel quale lametafora del cammino, del percorso, del viaggio viene seguita attraversola storia della letteratura.

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non sarà mai possibile verificare. Direi che un testo classico, difatto, ci contiene. Un testo classico è un qualcosa nel quale noiviviamo. Un testo veramente classico, inoltre, devepermetterci di rigirarci tra le righe, mantenendo la nostralibertà (interpretativa) e così, ad ogni lettura, ci sipresenta differente, o ci dà l'illusione di averne scopertosfaccettature nuove, angoli reconditi poco esplorati, camminievidenti, ma finora gelosamente celati, percorsi avventurosinella linearità delle parole, ghirigori apparenti dietro aiquali si riflette un'antica (e a noi tanto necesssaria)saggezza. La differenza, con il curioso elenco di Borgescitato da Foucault, forse, sta nel fatto che lui allude a"una certa enciclopedia cinese": E noi sappiamo che finge. Ame sembra, invece, che un testo analogo noi lo abbiamoveramente, ed è, appunto, l'Antico Testamento: la nostraenciclopedia, quella occidentale, così classica e, ancora,tanto nascosta13.

L'interpretazione che segue non ha la minima pretesa ditracciare linee, piani o orizzonti teorici, coerentemente conle premesse affermate. Semmai si vuole constatare che,assiomaticamente, la natura del problema che si è posto aitraduttori (sia linguistica che culturale o ideologica) hacondizionato, in maniera determinante, la soluzione trovataper un testo che ha avuto ed ha tutt'ora dei riflessiculturali, religiosi, ideologici al di là del suo valorespecificamente letterario. Sull'autore effettivo della Bibbiaa lungo si è discusso. Alla fine del secolo scorso la ricercadi studiosi (di formazione sopratutto tedesca) portò adindividuare vari "strati" del testo. L'ultima e(immancabilmente) più polemica e paradossale di queste

13I riferimenti di questo brano sono troppo evidenti per nasconderli:Borges a parte (ma Borges è sempre da considerarsi hors concours), si trattadell'I. Calvino di "Perché Leggere i classici", del "What is classic", diT.S. Eliot e di "Fiducia in se stessi" del critico americano R. W.Emerson. Tra gli altri. Forse ci si potrà aggiungere anche un pizzicodell'Inferno di Dante (IV, 94), dove ci conduce tra i partecipanti della"bella schola" dei classici.

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opinioni è nuovamente quella di Harold Bloom che, in The Bookof J, sostiene l'allarmante e affascinante tesi che l'insiemedei brani convenzionalmente denominati "J" erano statieffettivamente scritti da un'unica persona: una sacerdotessadella corte del re Salomone! Solo l'interpretazionesuccessiva e la sovrapposizione di brani tratti da altretradizioni ne avrebbero fatto un testo eminentementereligioso.

Una prima sorpresa sarà quella di constatare chel'episodio del "roveto ardente" non contiene nella versionejahvista la richiesta del nome da parte di Mosè, né la rispostache è stata citata14. Il problema del redattore "J" non ètanto la certificazione del nome (e dunque) il problemadell'identità del suo interlocutore. Mosè, infatti, afferma:"Loro non mi crederanno". L'argomento viene dislocato su untema diverso, rilevante, ma non identico: "Per favore, mioSignore [...] non possiedo il dono della parola [...] e daquando hai parlato al tuo servo, continuo ad avere la linguapesante [...]" (ib 160-161). L'ultimo aspetto è tantorilevante, da meritare un apposita considerazione nel saggiodi Sigmund Freud Mosè e il monoteismo15, che traccia delleconclusioni sicure: "Mosè parlava un'altra lingua16 che nonpoteva comunicarsi con i semiti neo-egiziani senza l'ausiliodella traduzione." Ciò suona a Freud una conferma della tesidi questo suo scritto: "Mosè era un egiziano". Nel suo librol'ipotesi da lui difesa piuttosto enfaticamente è che Mosèera un alto dignitario della corte di Akhenaton che, pur dinon abbandonare la fede monoteista, si è messo alla testa di

14Dice una nota alla Bíblia de Jerusalém: "La tradizione jahvista fa rimontareil culto di Jahweh alle origini dell'umanità (Gn 4, 26) e utilizza questonome divino in tutta la storia patriarcale. Secondo la tradizioneeloista, alla quale questo testo appartiene, il nome di Jahweh, così comeil nome del Dio degli ancestrali, fu rivelato unicamente a Mosè. Latradizione sacerdotale concorda con quest'ultima; specificando solo cheil nome del Dio degli ancestrali era El Shaddai (vedi Gn 17,1) ..."15Der Mann Moses und die monotheistische Religion, Frankfurt a. M.: Fischer(Studienausgabe), 1982, BD X, p. 482-316Letteralmente "era un differente nella parola", Anderssprachiger in tedesco),

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un popolo di schiavi liberatisi e ha trasmesso loro leproprie conoscenze linguistiche e religiose. Si tratta di unatesi di tutto rispetto, che spiega diversi punti oscuri,primo fra i quali la enorme e sospetta coincidenza delsorgere, in un raggio di poche centinaia di chilometri e dipoche decine di anni, di due religioni monoteiste, pur moltodifferenti: quella di Akhenaton e quella di Mosè.

Tornando alla nostra sorpresa sulla omissionedell'episodio del nome nella versione jahvista, dovremoconcludere che la comunicazione relativa al nuovo nome nondoveva essere rilevante, poiché il nome già doveva essere eraconosciuto (indipendentemente dal fatto che si trattasse diJahvè o no). Non esiste altra spiegazione possibile, poichéla comunicazione del nome, che nella cultura e religioneegiziana aveva tanta importanza17, in quella ebraica dovevaaverne una decisiva. Come si giustificherebbe quel precettodella Torà che suona: "Non pronunzierai invano il nome delSignore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chipronunzia il suo nome invano." (Esodo cap. 20, 7). Ilgroviglio continua e, se possibile, più spesso di prima. Comevolevasi dimostrare. Quale sarà il nome che dovrà essereinvocato? Gerschom Sholem, il più grande studiosocontemporaneo del misticismo ebraico, attribuisce al profetaZaccaria la seguente affermazione:

"Il nome di Dio attesterà ungiorno l'unicità di Dio e lotestimonierà in tutte le lingue e

17Secondo la leggenda egiziana, nella lotta mitologica fra Isis (sposa diOsiris) e Ra (Dio del Sole) , la prima organizza un trabocchetto percontrollare Ra: <Dimmi il tuo nome, padre divino, poiché un uomo vivequando si pronuncia il suo nome>. La risposta sarà: <Neanche gli dèisanno il mio nome...>. Alla fine di un tira e molla il nome vienerivelato, ad Isis ma non a noi lettori. Questo le darà poteri superioriagli altri dèi (in: A. Shorter. Os Deuses Egípcios. São Paulo: Cultrix, 1984,p. 82). Il confronto con la leggenda del Golem (Vedi G. Scholem, Zur Kabbalaund ihrer Symbolik [A Cabala e seu simbolismo]. São Paulo: Perspectiva, 1978, 190),dove il nome miracoloso di Dio (Schemhamphoras) viene pronunciato per darevita a una figura di fango, mostra una forte analogia della funzione delnome nelle due tradizioni, quella egiziana e quella ebraica.

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presso tutti i popoli. Un giornomuterò la lingua dei popoli in unalingua più pura perché possanoinvocare il nome di Dio all'unisono.Ecco, il senso originale messianicodel nome divino."18

Si potrà obiettare che nello stesso Pentateuco (perrestringere l'analisi al testo del Vecchio Testamento ebraico)Dio aveva ricevuto diversi nomi: Jahweh, El Shaddai, e altriancora.

La seconda sorpresa sta nella risposta, del tuttoenigmatica, contenuta in Esodo, 3, 14: nessuno fra i nomi danoi conosciuti viene usato nella risposta, nessun nomeproprio19. La frase ha un suono quasi oracolare. Appareplausibile, secondo l'ipotesi avanzata tra gli altri daFreud, che il Dio di Abramo diviene in questo momento il Dio diMosè, giustificando quindi un'identificazione che prima nondoveva esistere o non doveva essere conosciuta, tranne a pochiiniziati (il che, grosso modo, si equivale). Il suo nome,quindi, non è un nome proprio, anche perché "[ciò presupporrebbe]l'esistenza di altri dèi. Il monoteismo puro, invece, non dànessun nome a Dio,"20. La novità nell'atteggiamento di Mosèsi chiarisce in un altro nebuloso episodio, che costituisceuna terza sorpresa. Il motivo per cui Mosè viene accolto comeleader del popolo e interprete del dio, del suo dio, delnuovo dio, del dio che gli aveva confidato il suo nome, èlegato alla natura "segnica" di questo dio, al suoconvertirsi, tradursi in linguaggio:

"Mosè e Aronne andarono eadunarono tutti gli anziani degliIsraeliti. Aronne parlò al popolo,riferendo tutte le parole che ilSignore aveva dette a Mosè, e compì isegni davanti agli occhi del popolo.

18G. Scholem. Le Nom et les symboles de Dieu dans la mystique juive [Der Name Gottes unddie Sprachtheorie del Kabbala], Paris: du Cerf, 1983, p 61. 19Si tratta della frase già citata, dunque non di un nome vero e proprio.20J. Lehmann. Moses, der Ägypter [Mosè l'egiziano]. Roma: Garzanti, 1987, p. 200.

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Allora il popolo credette." (Esodo, 4, 28,corsivo mio)

Il popolo crede solamente quando vede dei segni, di cuiperò non capisce il significato. Solo Mosè potrà tradurli; eera Aronne il suo interprete (e traduttore) designato.L'elemento caratteristico della nuova religione ebraica è undio indissolubilmente legato a una maniera astratta diesprimersi, al potenziale sprigionato dal sistema alfabeticodella lingua ebraica (rispetto ai geroglifici egiziani, adesempio). La scena dell'investitura, quella che ha impressoun marchio indelebile fino ai nostri giorni, è quella delcapitolo 19 dell'Esodo: Mosè avrà un incontro "faccia afaccia" con il Signore, ma riuscirà a comunicarel'incomunicabile, a tradurre l' intraducibile: il suoincontro avverrà "faccia a faccia" con il misteroinsondabile. Nessun altro potrà testimoniare, né contestarequesta scena originata nella coscienza (o nella fantasia) diMosè (o del poeta che l'ha elaborata, il ché per noi lettoritardivi in fondo si equivale). Mosè si conferma all'altezzadella situazione. è un leader carismatico e come tale vienericonosciuto. La suspension of desbelief, ossia la fiducia delpopolo ebraico, è totale, incondizionata: nelle parole diAronne, così come in quelle (tradotte) di Mosè, così come inquelle (trasmesse) del Dio. Non tutti i traduttori, si noti,godranno di questo privilegio e, comunque, non in questamisura. La scena è sovraccarica di suoni e immagini forti,degna del Giudizio Universale, ed è invece solo l'aurora delnostro mondo moderno:

"Ed ecco al terzo giorno, sul fardel mattino, vi furono tuoni, lampi,una nube densa sul monte e un suonofortissimo di tromba: tutto il popoloche era nell'accampamento fu scossoda tremore. Allora Mosè fece uscireil popolo dall'accampamento incontroa Dio.

Il monte Sinai era tutto fumanteperché su di esso era sceso il

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Signore nel fuoco e il suo fumosaliva come il fumo di una fornace.Tutto il monte tremava molto. Ilsuono della tromba diventava semprepiù intenso: Mosè parlava e Dio glirispondeva con voce di tuono."

Interessante notare, in questa scena, l'enfasi dataall'aspetto auditivo (la voce di tuono di Dio). A. Momiglianocritica implicitamente la tesi (sostenuta fra gli altri daBultman), secondo cui "la conoscenza greca è fondatasull'occhio, mentre la conoscenza ebraica [...] è fondatasull'orecchio"21. Personalmente ritengo si tratti, invece, diuna tesi estremamente interessante e produttiva, daperseguire secondo il principio revisionista di Bloom, giàcitato. Non occorre infatti cadere in banali contrapposizionirazziali (che Momigliano pare tema, date le posizionidell'autore della tesi che lui critica), quanto di stabilirealcune connessioni. Il legame che esiste, ad esempio, tra ilconcetto di conoscenza greco e neolatino e la visione: ilnostro verbo vedere, testimoniato da una radice (indeuropea):

"WHEID largamente attestato, chedefinisce il 'vedere' come mezzo diconoscenza. Il perf[etto] significa<ho visto e quindi so>, ed èattestato nelle aree indiana, greca,germanica, armena, slava, celtica,latina." e veda "dal sanscrito veda,forma sostantiv[ata]del perf[etto]veda 'io so', identico al gr[eco](w)oida, al lat[ino] vidi e al ted[esco]weiss 'io so' "22

Veniamo finalmente alla frase dell'Esodo 3, 14, chedovrà contenere, anche se enigmaticamente espressa, larisposta sul nome, e che spesso è stata tradotta con "Io sonocolui che sono". Il filosofo tedesco Martin Buber, autore21A. Momigliano. La storiografia greca. Torino: Einaudi, 1982, p. 66.22G. Devoto. Avviamento all'etimologia. Milano: Mondadori, 1982, voci vedere eveda.

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insieme a Franz Rosenzweig di una nuova traduzione dellaTorà ebraica (il Vecchio Testamento ) in tedesco, preferiscela dizione : "Io sarò presente come colui che sarà presente23. Dice lo stesso autore:

"'ehjeh 'asher 'ehjeh '. Spessoviene interpretato come <Io sonocolui che sono> nel senso chel'interlocutore interpellato da Mosèdefinisce se stesso come colui che èo colui che è in eterno, colui chepersiste immutabilmente nel suoessere. Ma questo sarebbesemplicemente un tipo di astrazionecome di solito non avviene in periodidi crescente vitalità religiosa; ilverbo, nella lingua biblica, nonrende affatto questo significato diesistenza pura, ma significaaccadere, divenire, esserci, esserpresente, essere così e così, ma nonessere in sè." (ib., p. 122)

Un grande pensatore di origine ebraica, Walter Rehfeld,ha dedicato, tra i molti altri, un ampio studio a questotema, pubblicato con il titolo Tempo e religião24.

"É tramite il verbo hayá que Dio siidentifica, quando, al momento diricevere la missione di liberare ifigli d'Israele in Egitto, Mosèchiede quale risposta dovrà darecirca l'identità di chi gli avevadato tale investitura. La risposta fu

23La traduzione di M. Buber e F. Rosenzweig Die fünf Bücher der Weisung.Verdeutscht von M. B. gemeinsam mit F.R., Heidelberg, L. Schneider, 1981["I cinquelibri dell'Istruzione. Traduzione di M.B. e F.R."]) è stata completataalla fine degli anni venti dal solo M. Buber, a causa della morte del suocollega di lavoro. L'originale della frase suona in tedesco: "Ich werdesein als der Ich sein werde".24W. Rehfeld. Tempo e Religião. São Paulo: Perspectiva, 1988.

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Ehyeh asher Ehyeh [...]: <Sarò quelloche Sarò>, o <Diventerò Quello cheDiventerò>, o ancora <DiventeròQuello che Farò>. "

La traduzione della forma durativa del portoghese "irei-a-ser" e "virei-a-ser" e "farei" usati da Rehfeld nel suotesto ripropone seri problemi di traduzione. La traduzione initaliano potrebbe essere espressa tramite la seguentiperifrasi, la cui resa supera di molto il limitedell'inaudibile: "starò per diventare", oppure,letteralmente: "andrò a diventare" e "diventerò a essere" e"farò", (in questo contesto: "starò per fare"). Il tuttosuona molto caricato, perché giustamente privilegia la resadel carattere imperfettivo dell'affermazione su cui misoffermerò più avanti.

Il nome dell'interlocutore di Mosè è da considerarsidecisivo, sia se nel testo biblico riusciremo a scovarne unadefinizione convincente, sia che questa definizione non sitrovi (confermando l'impossibilità di pronunciarne il nome),sia che la definizione si trovi, ma sia interpretabile invari sensi, lasciando quindi un grande spazio alla scelta, aquello che potremo chiamare, in questo caso specifico, unaspetto del "libero arbitrio" del traduttore. La conferma diuna qualsiasi di queste ipotesi o la plausibilitàdell'insieme delle tre ipotesi apre lo spazio a unadistorsione borgesiana della questione: trattandosi di un temadi tale importanza, la stessa formulazione della domanda, insé, costituisce parte della risposta, poiché, nellaformulazione già è contenuta in gran parte la rispostapossibile, come in un assioma matematico. Se ci possiamochiedere quale è il vero nome di Dio, e non scartiamo a priorila questione come uno dei tanti "falsi problemi", come unodei problemi "non pertinenti", vietato dall'ortodossiainterpretativa, del canone, dell'autorità, già ammettiamo lapossibilità che le risposte possano essere ambigue, plurime,infinite. Vale qui la pena di ricordare due cose:

1. La Kabbalah, che etimologicamente vuol dire"tradizione" e si lega alla tradizione di esegesi orale e

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scritta del misticismo ebraico25, può essere considerata unaversione ebraica della retorica e come tale può essererivalutata, liberandola dal velo brumoso di misticismoprotoromantico che aleggiava su di essa, a partire dal suouso rinascimentale cristiano. L'operazione potrebbe produrregli effetti del polemico restauro degli affreschi dellaCappella Sistina: colori sgargianti e grande sorpresa.

2. La stessa tradizione cabalistica, in fondo, ècostruita attorno alla problematica di una definizione: essa sipresenta come la vera tradizione, assioma che porta a unparadosso estremamente produttivo: la Kabbalah è infattitradizione orale relativa a testi scritti (ed altamente astratti,come lo è il Sefer Yetzirah), ma è, allo stesso tempo, unatradizione scritta di momenti essenzialmente orali. Si veda, adesempio, il momento fondante già citato (Esodo 4, 28),quando Aronne traduce i segni comunicatigli da Mosè, ed ilpopolo dimostra fiducia nelle sue capacità traduttorie.Dentro alla tradizione cabalistica, una sua corrente piùradicale è la cabala luriana secondo la quale:

"ogni parola della Torà possiedeseicentomila <facce>, ossia,stratificazioni di significato, oentrate, una per ognuno dei figlid'Israele che si trovavano ai piedidel Monte Sinai. Ogni faccia sidirige unicamente a uno di loro; eunicamente questi potrà vederla e

25Sul termine Kabbalah o Cabala si vedano le considerazioni illuminanti diGerschom Scholem, nei suoi numerosi testi su tale movimento, tra le qualiscelgo la seguente, più vicina a uno spirito chassidico o favolistico,vicina allo stile di Borges: "Nel suo commento al Sefer Yezirah [...], Judahb. Barzillai afferma che i saggi <usavano trasmettere affermazioni diquesto genere ai loro discepoli ed ad altri saggi, privatamente e in unsussurro, tramite la kabbalah>". Questo apologo contiene in sè ladefinizione del termine: la lingua si disfa e si rifà mito, con unmovimento che Harold Bloom aveva individuato nella poesia: parafrasandoBloom, si potrebbe dire che ogni definizione e ogni parafrasicostituiscono una storia che il lettore dovrà ripercorrere a ritroso,reinventare, comporre.

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decifrarla. Ogni essere umano ha ilsuo proprio e unico accesso allaRivelazione. L'autorità non risiedepiù in un singolo e inequivocabile<significato> della comunicazionedivina, ma nella sua infinitacapacità di assumere nuove forme. "26

Possiamo aggiungere che il messaggio che Mosè trasmetteè chiaro, solo nella misura in cui lo riteniamo tautologico,autofondante, il che significa anche limitato alla sua forma.L'idea è che Mosè trasmette un messaggio il cui contenuto è,in una certa misura, irrilevante (torniamo all'ipotesi delfalso problema), poiché quello che per noi conta, nellaeconomia della lettura, è il suo effetto sulla trama: nonsappiamo quello che effettivamente sia stato detto da Dio aMosè (si trattava di un "faccia a faccia", probabilmenteincomunicabile); non sappiamo quello che Mosè abbia detto aAronne (l'ha detto in lingua egiziana, ammettendo l'ipotesidi Freud?); non sappiamo quello che Aronne ha detto al popoloebraico, o meglio, abbiamo alcune, poche frasi, di cui nonconosciamo l'intero contesto, tranne le efficaci pennellatedel nostro redattore. Sappiamo però che si è scatenato uneffetto enorme: il testo è divenuto, grazie alla sua forzapoetica (ipotesi di Bloom) o retorica27, un testo fondantedella nostra tradizione culturale. L'effetto del messaggio(indice della capacità di persuasione di Mosè nei confrontidel suo popolo o della credulità di quest'ultimo) è la libertàconquistata, la traversata del deserto, l'affermazione di un utopia,la fondazione di uno stato.

26G. Scholem. A Cabala e seu Simbolismo op. cit., p. 21.27È secondario, in fondo, verificare chi abbia redatto il Vecchio Testamento,almeno per le finalità di questa piccola ricerca, poiché qualsiasi testo,anche quello poetico, può divenire normativo e viceversa. Si pensi aitanti documenti giuridici protoitaliani, citati alla stregua di documentiletterari e, al contrario, ai tanti "notari" dell'epoca della nascitadella nostra lingua, che sono da noi apprezzati fondamentalmente comepoeti.

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Non tutti, però, vissero felici e contenti. Freud, inuna maniera singolarmentre autolesionista per la tradizioneebraica a cui apparteneva, sostiene di essersi trovato difronte all'evidenza di una fine tragica dell'uomo Mosè,ucciso dal suo stesso popolo alla vigilia dell'arrivo allaterra promessa. Preparando il lettore alla terribilerivelazione dell'orribile gesto, ci affida preziosissimielementi del suo metodo ermeneutico-poliziesco, creando unavivacissima e letteraria atmosfera di attesa28:

"Saltano agli occhi quasi in tutto[il testo] vistose omissioni,ripetizioni fastidiose,contraddizioni palesi, segnali che citradiscono cose, la cui comunicazionenon era stata intenzionale. LaEntstellung di un testo è simile a unassassinio. La difficoltà non stanell'esecuzione dell'atto, bensìnell'eliminazione delle tracce. Allaparola Entstellung occorrerebbeattribuire il doppiosenso cherivendica, anche se oggi non se ne fauso. Entstellung non dovrebbesignificare solamente: modificarenella sua manifestazione, bensìanche: portare in un altro luogo,dislocare altrove. Nel caso delleTextentstellungen [deformazioni del testo],

28La parola tedesca Entstellung si presta a un doppiosenso che conferma laricchezza letteraria dei testi di Freud. Da un lato significa deformazione,procedimento tipico che avviene con i contenuti latenti del sogno.Dall'altra significa dislocamento, semanticamente vicina alla parolatedesca Verschiebung (spostamento, dislocamento), usata nella psicanalisiper indicare lo spostamento energetico (per es. da un'immagine adun'altra di un sogno). Il tutto crea per il lettore un clima di "giallo",alla ricerca degli autori dell'assassinio e del suo effetto, una ricercadi "indizi, di "prove" e il loro occultamento. In definitiva: laspasmodica ricerca "revisionista" per arrivare al problema primevo, autentico,vero.

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troveremo certamente nascosti in unbrano qualsiasi il represso [dasUnterdrückte] e il denegato [dasVerleugnete], anche se modificati estrappati al contesto. 29

Ma questa della distorsione e dell'assassinio è giàun'altra storia. È difficile seguire tutti i fili che sioriginano in questo momento tanto drammatico e produttivo.Tornando al momento citato. Assistiamo a una triplacomunicazione che coinvolge tre piani differenti: quellodella psicanalisi (sostanzialmente incomunicabile), poiché ciòche nel "testo" del discorso psicanalitico viene ricercato èl'omissione, l'atto mancato, cioè un'assenza. Questo stessopiano, potrebbe però paradossalmente essere quello delmisticismo, il cui orientamento è l'attribuire a un testo ciòche non c'è, ciò che il (lettore) mistico crea, aumentandoloa dismisura, sino a farlo prevalere sul testo originario. Unsecondo piano potrebbe essere quello della storia o diqualsiasi altra visione "basata sui fatti", che riconosce alconcetto di "realtà" uno statuto autonomo, indipendente dallinguaggio. Infine un terzo piano, che è quello dellalinguistica, della retorica e della letteratura, piani dovel'attenzione è concentrata sulla forma, sugli elementi dellinguaggio, sui segni, sulle connessioni. Quest'ultimo pianoè quello che a noi interessa di più. Naturalmente tra i trepiani c'è un incrocio costante di informazioni, approcci,connessioni. Nessuno dei tre si presenterà mai completamenteindipendente dagli altri due. Difatti, nella letteratura ècomune cercare ciò che nel testo è stato omesso (nelprocedimento di H. Bloom, già citato, questo è uno degliaspetti essenziali) o attribuire al testo ciò che(apparentemente) non c'è o, infine, in una visione mimeticadella realtà, paragonare i livelli di "realismo" in undeterminato testo. Ma, se consideriamo la traduzionedell'episodio citato in Esodo 3, 14, troveremo che lacomunicazione del personaggio-Mosè (tramite il personaggio-

29S. Freud. Der Mann Moses..., op. cit., p. 493.

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Aronne e tramite il testo del Vecchio Testamento) avvienesui tre piani, quasi a pari merito. Mosè, infatti, riferisceun episodio e un interlocutore suo personale (che gli appare"faccia a faccia"), un interlocutore della tradizionepatriarcale (il Dio di Abramo, che simbolizza la tradizione,la storia) e, infine, il nome, tradotto al popolo, con lafunzione retorica di convincere della possibilitàdell'impossibile. Il nome di Dio (o la sua assenza, la suaambiguità) viene quindi ad assumere la funzione di unametafora: una metafora delle metafore, che preannuncia econtiene tutte le altre: la traversata del deserto, la terrapromessa e altri miti e, agli occhi di almeno tre delletradizioni fondanti della cultura occidentale (ebraica,cristiana e islamica), regge l'edificio della piramidelinguistica e concettuale della nostra cultura, cioècondiziona in maniera determinante il mondo concettuale,letterario, psicologico in cui viviamo.

"Si può intendere l'Esodo come un esempio di quella cheoggi si chiama 'liberazione nazionale' "(Michael Walser:Esodo e Rivoluzione, p. 28). Un' altra versione accentua ilcarattere linguistico della lettura, connettendone la visionedel mondo trasmessa ai problemi della struttura dellinguaggio usato. E. Arcaini 30 afferma giustamente che:

"il traduttore deve essere unlinguista; anzi è il linguista che ènella migliore posizione teorica peressere traduttore, in quanto possiedegli strumenti di analisi del codiceed è in grado di tener conto deifenomeni di cui tratta"

Dobbiamo quindi cercare nel nostro brano l'aspettospecificamente linguistico della questione e lo troviamostrettamente connesso con quello culturale. Si veda, adesempio, l'interessante analisi antropologica di Jack Goody31

che si pone la seguente domanda: "In che maniera dipendono i30E. Arcaini. Linguistica e Traduzione. Bologna: Pàtron, 1991, p. 16. 31La logique de l'écriture. Aux origines des sociétés humaines. Paris: Colin,1986

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sistemi cultuali dai loro modi di comunicazione specifici?"(op. cit., p. 13) e chiarisce: "Il fatto che la parola siascritta [...] spiega la diffusione caratteristica dellereligioni chiamate religioni universali (islam, cristianesimoe ebraismo" (ib. p. 14). In altre parole, si tratta quidell'ipotesi più volte rielaborata, a partire dalRomanticismo tedesco, di un rapporto vincolante fra lingua ecultura. La risposta implicita alla annosa domanda ripropostada Sapir-Whorf32, sta nel rapporto fra i due universi, quellolinguistico e quello culturale e teoricamente non èdefinibile. Per noi, infatti, è divenuta essenziale laposizione del lettore che non è altro che la enfatizzazionedel ruolo del 'libero arbirtrio', inteso nel senso dellalibera scelta del lettore-traduttore, che assume però la suaresponsabilità. Una pietra miliare di un'etica della letteraturaancora tutta da indagare.

Nel suo ampio studio sul testo biblico già citato,Walter I. Rehfeld enfatizza una particolarietà sintatticadella lingua ebraica, che assume un'importanza decisiva perla traduzione dell'Esodo 3, 14 preso in esame.

"La prima cosa che richiama lanostra attenzione è [...] il fattoche le flessioni verbali nonsignificano solo che un'azione o unavvenimento si sono realizzati primao durante il momento presente o sirealizzeranno dopo di esso; [...] seun'azione o un avvenimento sonoavvenuti appena un'unica volta e inuno spazio di tempo relativamentebreve, al punto da essere visto comeun tutto semplice e completo, senzapoter distinguerne fasi costituential suo interno (perfettività) o se,al contrario, l'azione o

32In: Adam Schaff. Linguagem e conhecimento, Coimbra: Almedina, 1974. Lastessa domanda era stata posta, tra gli altri, dai romantici tedeschi,evidentemente.

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l'avvenimento durano a sufficienzaper concentrare l'attenzione sullastruttura temporale interna; se ilprocesso sta iniziando, si stasviluppando, si sta completando, sepossiede fasi ripetute o ingloba unperiodo relativamente lungo(imperfettività). Talicaratteristiche del tempogrammaticale sono chiamate 'aspetti'.Nella maggioranza delle lingue èpossibile distinguere tra tempo easpetto. Nell'ebraico biblico taledistinzione non è possibile [...]L'imperfetto ebraico ha pertanto unsignificato più ampio dello stessotermine applicato alle flessionidelle grammatiche greche e latine. Il'perfetto' ebraico generalmenteesprime un'azione conchiusa, completae, pertanto, passata, anche se ancorasi fa sentire nel presente e perfinonel futuro. L'imperfetto, al contrario,designa quello che sta per succedere,ma ancora non raggiunge la suaconclusione, il cui processo perduranel presente e, forse, si estenderà alfuturo."33

Riunisco i brandelli dell'abbozzo di ipotesi che stodelineando:

1. Esiste un unico passo del Vecchio Testamento, in cuiviene formulata a Dio la richiesta di identificarsi tramiteil suo nome.

2. La risposta è enigmatica, poiché non contiene un nomeproprio, bensì una frase oracolare, interpretabile in moltisensi diversi. Secondo Buber: "Come tutte le spiegazioni di

33W. Rehfeld, op. cit., pp. 130-131.

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nomi 'ehjeh 'asher 'ehjeh non è un nome, ma una frase realmentepronunciata" (M. Buber: op. cit.). Si può dubitare dellasicurezza dell'affermazione quasi mistica di Buber (la fraseè stata "realmente pronunciata"?), ma non si può negare cheessa è presentata in un contesto in cui la sua naturaoracolare e la sua enigmaticità appaiono plausibili, poichésono frutto di una doppia traduzione (da Mosè ad Aronne e daquesti al popolo ebraico).

3. Possiamo considerare la risposta da vari punti divista, cioè che l'ambiguità le è inerente ed è intenzionale ene costituisce il nucleo, o che si tratta di un falsoproblema, poiché l'assenza della risposta in sé è già unarisposta, poiché volge i riflettori non più sul contenuto (ilsignificato, il rispecchiamento mimetico della realtà), masullo stesso materiale linguistico, mistura di parole, suoni,spazi bianchi34.

4. Se è effettivamente il modo imperfettivo ad esprimersi(secondo le considerazioni di W. I. Rehfeld citate),qualsiasi traduzione dovrà essenzialmente tenerne conto efarcene percepire la presenza in modo tangibile, solido,inequivocabile.

La scelta del tempo presente per la traduzione dellafrase in questione ("Io sono colui che sono") è certamente lapiù lontana di tutte le possibili soluzioni e non riproduce34Si veda, a questo proposito, un interessante affermazione di Scholem inLe nom et les symboles de Dieu...(op. cit., p. 72-72, corsivo mio) "Ma per icabalisti le sefirot e le lettere, parti costitutive del verbo divino, nonsono che due metodi per rappresenteare simbolicamente la stessa realtà.In altri termini, che ci si figuri il processo della manifestazione,dell'esteriorizzazione di Dio con l'aiuto del simbolo della luce, dellasua diffusione e del suo riflesso, o che si comprenda questo processocome un'attività del linguaggio divino, del verbo che si trasforma e delnome divino che si decompone nella creazione, tutto sommato non si tratta peri cabalisti di una questione di scelta fra due simbolismi equivalenti, quellodella luce e quello del linguaggio [ ...] Il movimento tramite il qualesi effettua la creazione può dunque essere interpretato anche come unmovimento linguistico."

M. Buber, op. cit., p. 458, corsivo mio) accentua il carattereorale del contesto: "Tale nome, che ha carattere interamente orale e habisogno di un'intergrazione tramite gesti ..."

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affatto l'effetto desiderabile. Al contrario di una rispostaaperta ("sarò quel che sarò"), che un futuro del tuttoenigmatico potrebbe darci (ma cosa vuole effettivamente direquesta frase al futuro? Indica una possibilità, una sempliceipotesi? Indicano la facoltà divina di creare?), il presentepresenta una definizione lapidaria, ontologica, marmorea,pietrificata: "sono colui che sono" e, (ci viene spontaneo diaggiungere), colui che è stato, è e sempre sarà. La forza ideologicadi un'interpretazione di Dio presente nella storia culturaleoccidentale, a partire da una visione e una cosmologiaplatonica (ossia sempre una traduzione)ci induce in tentazione einsinua il sospetto che, dietro al dislocamento (alladeformazione) della traduzione ci sia qualcuno o qualcosa cheviene assassinato, nel senso della frase citata di Freud. C'èuna enorme differenza, fra il pensare un Dio che è perfetto nelnome, è compiuto, e, dunque, vede, prevede e provvede ilnostro futuro, dall'alto della sua predestinazione e un Dioimperfetto, la cui azione deve essere integrata da quelladell'uomo .

Sarebbe semplicistico concludere questo testo con unanuova proposta di traduzione. Vari esempi interessanti sipossono trovare in prestigiosi nuovi tentativi, come quellodi Martin Buber e Franz Rosenzweig in Die fünf Bücher der Weisung,già citato, probabilmente il maggiore sforzo moderno apartire dall'originale ebraico. L'unica risposta forse puòessere cercata, in un racconto che, non a caso, figuraallusivamente alla fine del fondamentale libro di ScholemMajor Trends in Jewish Mysticism. La storia in questione racconta inpoche parole la storia di una persona che racconta la storiadi una persona, che racconta la storia di una persona... checerca di raccontarci qualcosa. Qualcosa come il procedimentocaratteristico di 'mise en abîme' borgesiano, fra realtà efinzione. O forse, più banalmente, la riproduzione del suonodi un disco incantato, che ripete incessantemente una melodiatroncata, spezzata e sprigiona un fascino illimitato,indescrivibile. O forse si tratta di un'allusione, da partedi Scholem, al fatto che l'evocazione, la memoria del contestopossibile di un testo, sia da giustapporre al significato del

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testo (nel senso in cui lo suggerisce la stessa Cabala, cherichiama sempre l'interdipendenza tra oralità e scrittura):poiché entrambe sono da considerarsi parte integrante delcontesto, della cornice, dell'orizzonte di significato di untesto35. Il grande interesse che si è sviluppato attorno allateoria della traduzione, di cui la stampa di questo numerospeciale della rivista è un evidente esempio, potrebbe esserevisto non solo alla luce dell'esigenza, implicita e ribadita,di stabilire ponti fra le culture, bensì quella direcuperare, in un'epoca di apparente unanimismo postmoderno,il valore del dibattito, della polemica, del conflitto: unaconcezione, appunto, agonistica della traduzione.

35Un interessante filo rosso da perseguire è rappresentatodall'osservazione di Émile Benveniste, che attribuisce a un interventoideologico esterno una modificazione linguistica fondamentale, che ha ache fare con il tempo e il modo usato nella traduzione della frase inquestione, cioè il futuro e l'imperfettivo. Benveniste attribuisce lamodificazione in questione a una volontà di far prevalere la dottrinadella predestinazione, il che è certamente un prisma ideologico. Sel'ipotesi si potesse confermare, si dovrebbe dire che la frase sul nomedivino è stata intenzionalmente tradotta con il presente e chel'eliminazione del futuro sintetico latino (un futuro senza la perifrasi el'uso dell'ausiliare: cantabo invece di cantare habeo), ci ha privato di unpiccolo elemento di libertà, almeno linguistica. Dice Benveniste: "Nelsintagma latino come si è effettivamente costituito, habere con l'infinitoha la funzione di indicare la predestinazione dell'oggetto destinato a esserefatto tale. Si tratta di un valore semantico nuovo e distintivo,completamente differente dal valore d'intenzione che spesso è associataalla nozione di futuro. Questa perifrasi, al momento della sua nascita,possiede un a struttura sintattica particolare [...] Sarà che essarappresenta il sostituto del futuro? Nient'affatto ..."(É. Benveniste,Problemas de Lingüística Geral II [Problèmes de Lingüistique Générale II], Campinas,Pontes, 1989 pp.131-132). Si tenga conto che questa trasformazionepotrebbe celare o rappresentare una metafora, partendo dall'etimologiadella parola futuro, che viene, secondo Devoto, da una radice indeuropeacreare (G. Devoto, op. cit.). Un Dio della Creazione (nel futuro) e un Dioontologico rappresentano, effetivamente, due concezioni diverse, opposte,in conflitto radicale, agonistico. Sul tema dell'assenza del futuronell'ebraico antico si esprime anche A. Momigliano La storiografia greca.Torino: Einaudi, 1982, p. 68: "Poiché il verbo ebraico comprende soloperfectum e imperfectum e non ha futuro ...".

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Andrea Lombardidocente di lingua e letteratura italiana

presso l'Università di San Paolo

pubblicato in Libri e riviste d´Italia ,