Un mondo fittizio dai contorni irreali? Alcuni esempi nel cinema dei telefoni bianchi"

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a cura di CHIARA COSTA, VALENTINA VALENTE, MATTIA VINCO ARTE TRA VERO E FALSO Atti delle Giornate di studio Padova 7-8 giugno 2010 Università degli Studi di Padova Scuola di dottorato in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo

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INTRODUZIONE III

a cura di

CHIARA COSTA, VALENTINA VALENTE, MATTIA VINCO

ARTE TRA VERO E FALSO

Atti delle Giornate di studio

Padova

7-8 giugno 2010

Università degli Studi di Padova

Scuola di dottorato in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo

INTRODUZIONEIV

Iniziativa finanziata con il contributo di: Università degli Studi di Padova sui fondi della Legge 3.08.1985, n. 429; Scuola di dottorato in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo, Dipartimento di Storia delle arti visive e della musica (Università degli Studi di Padova).

Prima edizione: dicembre 2014

ISBN 978 88 6787 341 8

© 2014 CLEUP sc“Coop. Libraria Editrice Università di Padova”via Belzoni 118/3 - Padova (t. +39 049 8753496)www.cleup.itwww.facebook.com/cleup

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Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Storia delle arti visive e della musica - Scuola di dottorato in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo.

Meris Nicoletto

Un mondo fittizio dai contorni irreali? alcUni esempi nel cinema italiano dei “telefoni bianchi”

1. Uno sguardo sulla cinematografia degli anni Trentabrignone, malasomma, mastrocinque, blasetti, c.l. bragaglia, matarazzo, mat­

toli, alessandrini, righelli, Gentilomo, camerini e altri di origine straniera, come max neufeld e Carl Boese, furono alcuni tra i registi italiani più significativi dei “te­lefoni bianchi”, filone comico-sentimentale che dominò la scena cinematografica per circa quindici anni1. Grazie a loro, possiamo dire che gli intrecci della produ­zione europea e americana si amalgamarono e si contaminarono reciprocamente, anche se con un netto prevalere della lezione d’oltreoceano.

non essendoci inoltre da parte del regime fascista una particolare preoccupa­zione nei riguardi del film di fiction, il “cinema déco”2 rimase una produzione piut­tosto libera da condizionamenti politici. la mancanza infatti, nella maggior parte delle pellicole, di espliciti riferimenti alla propaganda fascista ci porta a credere che uomini come Freddi, direttore della Direzione Generale per la Cinematografia, avessero più a cuore i desideri e il divertimento del pubblico che non il consolida­mento ideologico del fascismo.

Non è facile rispondere alla domanda se le pellicole dei “telefoni bianchi” veico­lassero il consenso o lo consolidassero attraverso la rappresentazione di un mondo fittizio dai contorni irreali. Siamo d’accordo con Adriano Aprà quando scrive che Luigi Freddi voleva un cinema di qualità, non di propaganda politica, vale a dire un cinema che divertisse il pubblico, che si rivolgesse al suo immaginario. Il diret­tore della DGC aveva capito che “il cinema è ‘falso’, non è ‘reale’”3. per questo nella produzione dei “telefoni bianchi” assistiamo al proliferare della finzione che addi­rittura genera altra finzione: i personaggi assumono identità false, vengono scam­biati per quello che non sono grazie a travestimenti ed equivoci che trovano la loro matrice nella sophisticated comedy hollywoodiana, che Freddi aveva apprezzato durante i suoi frequenti viaggi a Hollywood, ancor prima di diventare Direttore Generale per la Cinematografia.

1. Il filone inizia con La segretaria privata (1931) di Goffredo Alessandrini, film-simbolo cui si rifaranno, in maniera seriale, altre pellicole come La telefonista (1932) di nunzio malasomma e Due cuori felici (1932) di Baldassarre Negroni. Di fatto il primo film, che si può etichettare come “telefono bianco”, è Questi ragazzi (1937) di Mario Mattoli. La produzione déco raggiunse il boom negli anni dell’autarchia, ovvero dal 1938 al 1941, e proseguì fino al termine del conflitto bellico.

2. Tale definizione alternativa risale a G.P. BruNetta, Mille e più di mille (lire al mese), in Risate di regi-me, a cura di m. argentieri, Venezia 1991, p. 101. il saggio è poi stato rielaborato e incluso in G.p. BruNetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime (1929-1945), roma 2001 e Il cinema italiano di regime. Da “La canzone dell’amore” a “Ossessione” (1929-1945), roma 2009.

3. a. aPrà, Linee di politica cinematografica da Blasetti a Freddi, in Cinema italiano sotto il Fascismo, a cura di r. redi, Venezia 1979, p. 111.

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Questa idea del cinema di qualità corrispondeva al progetto di un cinema strutturato in quadri stabili. per esempio Freddi, quando poi andrà alla Cines, si preoccuperà di avere degli attori sotto contratto, in questo a immagine delle majors hollywoodiane: cosa che permette di risparmiare soldi – discorso industriale-finanziario – e di elaborare un’im­magine del personaggio-attore stabile, sana, equilibrata, un’immagine della nazione, quindi del fascismo, come struttura che si regge in piedi e che ha la possibilità di durare a lungo4.

Che la tematica del travestimento, comune a molti lungometraggi, nascondesse la doppiezza e l’ambiguità del regime ci sembra una lettura troppo azzardata5. “il gioco delle parti” invece potrebbe alludere al rapporto tra le varie classi sociali, che non sfocia mai in un conflitto ma in una “riconciliazione”6, come ha detto andrew bergman, riferendosi alla commedia americana degli anni trenta, di cui quella italiana è un tentativo di imitazione. Ci sono infatti tra le due cinematografie degli elementi in comune. su tutti, la presenza di una netta frattura tra mondo rappre­sentato sullo schermo e realtà sociale. per esempio, la screwball comedy si fa por­tavoce di un messaggio positivo proprio quando l’America viveva uno dei momenti peggiori della sua storia. lo studio system però aveva elaborato a tavolino sceneg­giature in cui i contrasti sociali venivano sempre appianati e il pubblico trovava nelle pellicole del periodo della Grande depressione un messaggio di speranza nel futuro, rappresentato dal New Deal di Roosvelt.

In Italia invece, pur essendoci ugualmente una crisi economica innescata da quella americana, ma in un contesto politico del tutto diverso, le commedie comico-sentimentali veicolavano un’immagine pacificata del paese in cui il salto di classe avveniva grazie ad un colpo di fortuna, come nella “favola di Cenerentola”, così dif­fusa nelle commedie dell’epoca. Il cambiamento sociale in entrambe le produzioni non era tuttavia sempre possibile, anzi talvolta era salutare accettare il background da cui si proveniva, come il film di camerini, Il signor Max (1937), ci insegna.

La crisi economica mondiale, ma anche l’avvento del sonoro, costrinse il regi­me fascista a puntare in prevalenza sulla commedia e di avvalersi, come del resto anche altre produzioni cinematografiche estere, di soggetti o sceneggiature tratte da repertori esistenti, letterari o teatrali di provato successo. Il filone quindi dei film déco risultava del tutto innocuo agli occhi del regime, in quanto veicolava un’ideologia piccolo-borghese, i cui miti coincidevano o comunque non contrasta­vano con quelli del Fascismo. Qualora, all’interno delle pellicole, venissero affron­tate tematiche scabrose o immorali esse venivano collocate in un “altrove”.

Tale produzione evitava inoltre qualsiasi riferimento esplicito alla realtà politi­ca e sociale del tempo. La mappa geografica in cui tutto, o quasi, era lecito, dal tra­dimento extra-coniugale al divorzio, a certi comportamenti fuorvianti, come il fur­to, la truffa, il gioco d’azzardo, comprendeva, nella maggior parte delle pellicole,

4. Ivi, p. 112.5. V. ZaGarrio, L’immagine del fascismo. La re-visione del cinema e dei media nel regime, roma 2009,

p. 223.6. a. BerGMaN, We’re in the Money. Depression America and Its Films, chicago 1992, pp. 132­133 (1a ed.

New York-Evanston-San Francisco-London 1971).

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l’Ungheria, la Germania, la Francia o una città del mondo indefinibile, quasi mai italiana7. se la location era italiana, la condotta immorale apparteneva per lo più a personaggi stranieri, come accadeva nel cinema hollywoodiano.

La commedia “all’ungherese”, altra definizione attribuita a questo filone cine­matografico, dal momento che molti film erano ambientati a Budapest, trasferiva sullo schermo un mondo di benessere che non poteva trovare rispecchiamento nella realtà del periodo, come non poteva risultare verosimile che gli intrecci esili e paradossali, nonché prevedibili, lasciassero spazio ad una rappresentazione rea­listica della vita quotidiana. Infatti queste pellicole hanno per protagonisti coppie alla ricerca di avventure extraconiugali, più per gioco o passatempo che non per una seria inclinazione; oppure giovani scapestrati che mettono la testa a posto gra­zie all’incontro fortuito con una fanciulla onesta e carina; o ancora avvenenti se­gretarie che riescono a far perdere la testa al capufficio fino a farsi condurre all’al­tare. Le storie quindi si concludono sempre felicemente con il ritorno all’ordine.

L’artificialità di questa produzione filmica non si coglie soltanto nella sua collo­cazione in un “altrove”, ma anche nella sua dimensione di commedia “da camera”8, per il suo essere ambientata in spazi per lo più chiusi, come il teatro di posa appun­to. La critica coeva si dimostrò piuttosto caustica nei riguardi di questa produzione priva di qualsiasi “aggancio con la realtà” e vide schierarsi sulle stesse posizioni, in nome della “battaglia per il realismo”, non solo redattori e collaboratori di riviste quali “cinema” e “bianco e nero”, ma anche di pubblicazioni allineate con il regi­me, quali “Film” e “Lo Schermo”. Come scriveva su “Cinema” il Presidente della Confederazione dei Lavoratori dell’Industria, Tullio Cianetti, il cinema doveva an­dare verso il popolo, secondo l’imperativo mussoliniano:

Se si vuole non tanto attirare il popolo agli spettacoli (ché la corrente dei fedeli al cinema ha bisogno di pochi incoraggiamenti) ma impadronirsi della sua anima, bisogna liberarlo dell’eterna visione borghese e piccolo borghese che imperversa sugli schermi. Non si può giurare davvero che il mondo dei frak e delle capigliature al platino siano tutto il mondo; ma i sentimenti che suscita il cinema non restano al di qua e al di là d’una ribalta: essi prendono interamente possesso del pubblico. tutti si mettono in frak e tutte posseggono chiome platinate9.

Si chiedeva dunque una cinematografia più aderente alla realtà e invece la pro­duzione sfornava film appunto fatti di interni, ovvero dapprima i teatri della Cines di pittaluga10 e poi quelli di Cinecittà, inaugurata dal Duce nel 1937, in cui venivano

7. I due film, di cui parleremo nel secondo paragrafo, sono particolarmente significativi: Dora Nelson, per esempio, pur affrontando tematiche imbarazzanti, come l’adulterio o la truffa, è girato a Cinecittà e sono riconoscibili, anche se rare, alcune riprese in esterni di Roma. Invece Contessa di Parma, girato negli studi della fert di torino, offre alcune immagini esterne della città piemontese.

8. m. arGeNtieri, Dal teatro allo schermo, in Risate di regime ..., p. 87.9. t. ciaNetti, Deve il cinema andare verso il popolo o viceversa?, “cinema”, i, 1936, 9, p. 334.10. Gli stabilimenti Cines vennero inaugurati nel 1930, ma nel 1935 vennero distrutti da un incendio. Nel

1937 nacque Cinecittà, voluta da Luigi Freddi come risposta a Hollywood. Fino al 1938 le sale cinematogra­fiche proiettavano prevalentemente film americani. Solo con l’entrata in vigore della legge sul monopolio e la chiusura, per protesta, degli uffici di quattro case di produzione americane (MGM, Fox, Paramount e War­ner) aumentò la produzione di film italiani.

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prodotti film con scenografie lussuose e opulente all’interno delle quali si muovo­no duchi, conti, marchesi, ma anche uomini d’affari, ingegneri, architetti, avvocati, chirurghi, un’élite pronta ad offrire alla media e piccola borghesia un “sogno” di cui nutrirsi per dimenticare il mondo reale con i sacrifici richiesti dal regime e la guerra incombente.

A proposito di questa cinematografia, Gian Piero Brunetta ha scritto:

[…] Vestiti, canzoni, oggetti, arredi, comportamenti ci parlano di una realtà dell’imma­ginazione collettiva al lavoro, più reale del reale. Un’Italia povera, ad economia preva­lentemente agricola, priva di materie prime, costretta dalle sanzioni ad inventare tessuti sintetici come l’Angorsolo, il Lanital, il Lanasol, la Cisalfa, la Cisnivea, il Cocafil, il Filital, il lenolux, il linicot e il lunesil, desidera coprirsi di banconote o di debiti, sogna gli abi­ti di seta, le pellicce o i velluti che le protagoniste di decine e decine di film cambiano in continuazione11.

la commedia déco gronda ottimismo da tutti i pori, facendo dimenticare che, quanto nella vita reale è, per la maggioranza degli italiani, impossibile, vale a dire le mille lire al mese, l’abito da sera, le partite di tennis, il gioco del bridge, i camerieri, le auto di lusso, i balli, la casa enorme ed arredata con oggetti pregiati e così via, di­venta, dapprima nel buio della sala e poi al di fuori di essa, tutt’uno con le aspirazio­ni dello spettatore, sedotto dai simboli del benessere che popolano queste pellicole.

2. Alcuni esempi di commedia del “doppio” come falsificazione della realtà

in italia già a partire dalla prima pellicola sonora, La canzone dell’amore di Gennaro Righelli (1930), si era assistito alla proliferazione di film che erano il ri­sultato di una cooperazione internazionale europea. Oltre al film su citato, ricor­diamo La segretaria privata (1931) di Goffredo alessandrini, La telefonista di nunzio malasomma (1932), Due cuori felici (1932) di baldassarre negroni, Non c’è bisogno di denaro di amleto palermi, Paprika (1933) di carl boese.

Si tratta di film di chiara ascendenza teatrale

che battono anche bandiera tedesca e francese. Un solo set li unisce, al di sopra delle di­versità linguistiche e somatiche, un unico apparato scenografico, per il resto armeggian­do dietro alla macchina da presa le diverse troupes, gli attori, i registi, e gli sceneggiatori che adattano il soggetto alle esigenze dei vari pubblici12.

La commedia comico-sentimentale sfugge a qualsiasi definizione perché non veicola gli ideali del regime, se non in minima parte, ma neppure adotta la linea del consenso, mancando appunto di contenuti anti-fascisti. Fa invece propri alcu­ni topoi della letteratura e del teatro come il travestimento e l’inganno che risal­gono alla “Commedia Attica Nuova”, come ha sottolineato Vito Zagarrio: “Il tema del doppio nelle commedie del periodo, costruite secondo lo schema dell’inganno e del travestimento, presentano ovviamente un fortissimo legame con lo schema

11. G.p. BruNetta, Mille e più di mille ..., p. 98. 12. m. arGeNtieri, Dal teatro allo schermo ..., pp. 84-85.

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base della ‘Commedia Attica Nuova’, ed in particolare con quella di plauto. basti pensare ai Menaecmi, alle Bacchides, ad Anphitruo e al Miles Gloriosus”13.

Un film della cosiddetta produzione déco che esemplifica il tema del doppio14 e dell’illusione scenica in maniera significativa è Dora Nelson (1939) dell’esordien­te mario soldati, tratto dalla sceneggiatura di Louis Verneuil per l’omonimo film francese del 1935 diretto da René Guissart. Dora Nelson è una diva del cinema che crede di essere una principessa russa. Sta girando un film in costume, in cui inter­preta proprio la parte di una principessa, quando improvvisamente si scaglia con­tro il suo partner che non esita a definire con disprezzo “borghese” per il modo in cui balla. Fin da subito l’attrice famosa dà del filo da torcere al regista e al produt­tore per il suo carattere scontroso e la sua eccentricità. Quando lascia arrabbiata il set, il produttore, preso dal panico, chiede come si possa sostituirla.

Uno della troupe (Carlo Ninchi) suggerisce di prendere una sua vicina di casa, una modista simile come una goccia d’acqua a Dora Nelson e soprattutto in grado di recitare come lei, con l’inflessione straniera e la erre moscia. È evidente che sarà la medesima attrice, assia noris, ad interpretare entrambe le parti, quella di dora e quella dell’umile Pierina. La sosia è talmente brava che riesce persino a salvare il matrimonio della figlia dell’industriale Ferrari (Giovanni - Carlo Ninchi), che la capricciosa attrice ha sposato in seconde nozze. Soldati svela, in questa pellicola, sia il meccanismo della finzione cinematografica, ovvero il film dentro il film, sia il “doppio simulato della vita”, in cui il rapporto con il mondo reale “dovrebbe” esse­re più verosimile. Invece scopriamo che Dora Nelson è vittima di un assurdo intri­go orchestrato da una banda di malviventi capeggiata dal suo primo marito, che si è finto morto in un incidente ferroviario. L’uomo è intenzionato, con la complicità di un falso principe, che ha promesso a Dora di diventare principessa di uno stato immaginario, a estorcere alla moglie un’ingente somma di denaro per poi sparire per sempre. L’inganno alla fine viene a galla e l’attrice “vera” torna a casa dal mari­to, che però ha scoperto che la moglie è ancora sposata. Annullato il primo matri­monio, il ricco borghese può sposare la sosia della moglie.

Da questo sunto possiamo trarre alcune conclusioni: la commedia pone di fron­te allo spettatore da un lato la vita come un film, perché spezza l’illusione scenica facendoci vedere le riprese di una “finzione” (il film che sta girando Dora Nelson), dall’altro l’assurdità dell’intreccio in cui verità e menzogna si mescolano continua­mente. Il regista inoltre riprende la “favola di Cenerentola” per mettere in rilievo la contrapposizione di classe sociale: mentre la principessa è arrogante, volubile e adultera, la ragazza di umili origini è gentile, umile e fedele. come ha ribadito mar­cia landy15, questo film assomiglia alle commedie di Hollywood in cui spesso una povera giovane, dopo essere stata vittima di tutta una serie di prove e di equivoci, può finalmente entrare a far parte dell’alta società. Infatti Guido Fink ha rinvenu­

13. V. ZaGarrio, L’immagine del fascismo ..., p. 200.14. Molte altre pellicole del “cinema déco” affrontano questa tematica; tra le più significative citiamo:

Darò un milione (1935), Il signor Max (1937), Batticuore (1939) di camerini.15. m. laNdy, The Folklore of Consensus. Theatricality in the Italian Cinema (1930-1943), new York

1998, pp. 57-58.

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to in questa commedia “all’ungherese”, come in un altro lavoro di mario soldati, Quartieri alti (1943­44), il tocco di lubitsch con le famose porte che si aprono e si chiudono in continuazione “per scandire i giochi dell’amore e del caso”16.

Un altro film in cui viene tolto il velo alla finzione cinematografica e allo stesso tempo risulta molto evidente l’influenza americana è Contessa di Parma di ales­sandro blasetti (1937), considerato da Vito Zagarrio un “piccolo capolavoro di screwball comedy che non sfigura affatto rispetto ai suoi omologhi americani”17. La vicenda raccontata non si discosta di molto dalla trama di altri film dell’epoca in cui i protagonisti sono vittime di scambi di persona e di equivoci. La giovane prota­gonista dell’intreccio è una mannequin, marcella (elisa cegani), che si guadagna la vita lavorando per la casa di mode “Primavera”, di cui è direttore il francofilo com­mendatore carrani (Umberto Melnati). Egli ha escogitato l’idea pubblicitaria di far partecipare ai ritrovi mondani della città le modelle della sua ditta, affidandole a sedicenti gentiluomini, che devono presentarle come parenti o amiche.

Un giorno, all’Opera, Marcella, che indossa un vestito chiamato “Contessa di Parma”, viene scambiata per un’autentica nobile da Gino Vanni (antonio cen­ta), campione di calcio, ingenuo e scapestrato. I due giovani si incontrano ancora per caso all’Ippodromo di Mirafiori, dove Marcella si è recata per lavoro e Gino per scommettere. Entrambi puntano su un cavallo che poi vince la gara, ma, nel momento in cui il giovane si offre di andare a ritirare per entrambi la vincita di duemila lire, marcella si allontana per poco tempo richiamata dal suo datore di lavoro. Gino rimane con le duemila lire che scatenano il movimento all’interno della vicenda e soprattutto impediscono ai due protagonisti di strapparsi la “ma­schera” che hanno indossato: Marcella vorrebbe dire a Gino che è una modella impiegata in una casa di mode; Gino vorrebbe rivelare alla ragazza che ha dovuto dare il suo denaro a dei creditori. Il giovane squattrinato è però il nipote della si­gnora marta rossi (Pina Gallini), la proprietaria dell’atelier gestito dal francofilo Carrani. L’arrivo della donna al Grand Hotel rende l’intreccio della storia ancora più ingarbugliato.

Durante uno dei vani tentativi di restituzione delle duemila lire, Marcella finge di vivere al Grand Hotel dove l’ingenuo Gino l’accompagna. Qui la signora Ros­si incontra casualmente Marcella mentre finge di cercare proprio la proprietaria della casa di mode, che la prende in simpatia e riconosce che la giovane sta indos­sando un suo modello. Marcella, tessendo l’elogio del vestito, viene nominata capo reparto dalla zia di Gino. la modella non sa che la signora rossi è la zia di Gino, né Gino conosce la vera identità di Marcella; la zia Marta, a sua volta, non sa che Marcella è la falsa contessa amata dal nipote. Solo alla fine la matassa si dipana quando Gino raggiunge la giovane al Sestriere. Marcella indossa, nel corso di una sfilata, un vestito da sposa, ma Gino non ha ancora capito che la giovane è una mannequin.

16. G. FiNk, Sopra l’automobile, una carrozza: «Dora Nelson» e «Quartieri alti», in Mario Soldati. La scrittura e lo sguardo, Torino 1991, p. 182.

17. V. ZaGarrio, L’immagine del fascismo ..., p. 221.

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Alla fine Marcella si toglie la “maschera” e rivela a Gino di essere solo una mo­della. I due si abbracciano davanti al pubblico che naturalmente crede, come af­ferma Carrani, di essere di fronte ad una “trovata stupenda”. In proposito scrive Zagarrio: “I due eroi vengono sorpresi nel bel mezzo delle loro effusioni, ed allora il finto abito da sposa diventa vero, il pubblico della sfilata sembra quello di una chiesa e i due ‘sposi’ escono tra due ali di folla plaudente”18. Contessa di Parma è un film che strizza l’occhio alla sophisticated comedy americana per la scelta degli interni, per la presenza del Grand hotel, per le inquadrature in primo piano e per l’effetto flou da diva americana riservati alla cegani.

Pure Blasetti ha tolto il velo, come Soldati in Dora Nelson, alla finzione cine­matografica: lo spettatore assiste ad una doppia rappresentazione: quella della sfi­lata di moda in cui le indossatrici “recitano una parte” e quella della vita reale, che però viene manipolata dalla dimensione artificiale della prima. In altre parole il malinteso iniziale della falsa identità rende fittizia anche l’identità dei protagoni­sti, in particolare quella di marcella che non riesce mai a togliersi la “maschera” di aristocratica che Gino le ha attribuito. Significative le parole della giovane che non tollera ormai più il peso della falsa identità: “Sono stanca di sembrare quella che non sono”.

L’happy ending, così diffuso nelle commedie brillanti, non solo italiane, era funzionale all’ideologia familistica del regime. È il personaggio della zia Marta a farsi interprete di alcuni capisaldi della politica fascista: l’autoritaria donna crede infatti che la moglie ideale per il nipote sia una ragazza umile in grado di lavorare e di “fare le polpette”. Più di altri film dei “telefoni bianchi”, Contessa di Parma rivela inoltre, in modo molto diretto, la scelta purista in ambito linguistico portata avanti dal regime in nome dell’autarchia.

blasetti, autore di pellicole di propaganda fascista, quali Sole, Terra madre e Vecchia guardia, non evita, neppure in un film disimpegnato come questo, un’e­splicita condanna dei forestierismi linguistici, in particolare francesi, molto diffusi nel mondo della moda italiana che viene esaltata e proposta come migliore di quel­la francese, sempre attraverso la figura della signora Rossi19.

Dora Nelson e Contessa di Parma uscirono sugli schermi quando il “cinema déco” era ormai adulto, ma gli intrecci erano rimasti leggeri e centrati sul tema della falsa identità, che può ricordare il teatro pirandelliano, ma con schemi narra­tivi che rinviano più alla “palliata” latina, al teatro del Cinquecento, alla Commedia dell’Arte che non al dramma novecentesco. Pierina-Dora e Marcella, le protagoni­ste delle due pellicole, sono attrici che assumono una “maschera”, cui alla fine ri­nunciano per ritornare ad essere quelle che sono, ma il travestimento ha permesso loro di avanzare di qualche gradino nella scala sociale. Le due novelle “ceneren­tole” si muovono in un ambiente da favola che parla un linguaggio internazionale più che italiano.

18. Ivi, p. 222.19. V. ruFFiN e P. D’aGostiNo, Dialoghi di regime. La lingua del cinema degli anni trenta, roma 1997,

pp. 51­52.

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come giustamente sostiene brunetta, tale ambiente offre un ampio spaccato di un “lessico scenografico e abitativo, di una tensione verso soluzioni d’arredamen­to indifferenti ai confini ideologici”20. Eppure, anche nell’ambito delle scelte delle scenografie, degli arredi, nonché dei vestiti, la critica coeva si dimostrò alquanto polemica, come si evince da queste parole di Gino Visentini su “Cinema”:

Nel film italiano spesso appaiono ambienti assolutamente falsi, costruiti sulla falsariga di architetture provvisorie. Così l’arredamento di tali ambienti fa pensare ai padiglioni di una mostra dell’artigianato o delle arti figurative. Tutto vi appare gelido, squallido, disumano; le parole che gli attori si trovano a dovervi pronunciare cadono nel vuoto e si spengono senza una eco di naturalezza e di verità umana21.

Non meno polemico si dimostrò Emilio Ceretti sulle pagine di “Film”:

I produttori, generalmente, hanno paura dell’aria aperta; un falso ambiente ricostruito ha per loro più valore di un pino, un bel fondale dipinto più prestigio di una foresta o di un ruscello. Eppure, il nostro paese possiede un patrimonio naturale di cui nessun’altra nazione dispone, qualcosa di grande e meravigliosamente vitale che potrebbe conferire un tono e servire da balsamo vivificatore a tutta la nostra produzione22.

Il pubblico italiano invece contemplava sullo schermo quanto era presente nel­le fiere e nei saloni internazionali: dagli abiti raffinati e pregiati delle sfilate di mo­da agli arredamenti usciti dalla fantasia di grandi ingegneri e architetti, come pino Viola per Dora Nelson e enrico paolucci per Contessa di Parma. e in particolare il pubblico femminile, soprattutto quello che non si poteva permettere più di un vestito o nemmeno uno, rimaneva ammaliato dalle pellicce di Viscardi presenti in entrambi i film, dai vestiti della Casa Federici di Roma, in via Condotti, indossati da Dora, e dai modelli della ditta Mary Mattè di Torino, fatti sfilare da Marcella23. Come mai allora questo filone “di cassetta”, come diremmo oggi, ebbe un vita così duratura nonostante fosse osteggiato dalla critica? perché la maggior parte degli italiani, che andava spesso al cinema come unica fonte di svago, sentiva che quelle storie erano in sintonia con i propri desideri, per lo più irrealizzabili sul piano pra­tico, ma estremamente vivificanti su quello emotivo:

Grazie, dunque ad uno stridentissimo contrasto tra realtà e fantasia, tra vita e cinema, tra essere e divenire, il cinema déco, che – per tutto il conflitto – ingloba in sé la comme­dia dei telefoni bianchi, la commedia sofisticata, la commedia rosa, quella all’ungherese e tic e tac, può mantenere intatto il suo prestigio e consentire a un consistente numero di italiani di continuare a sognare una vita in un’Europa di cartapesta, in un mondo falso e artificiale, ma perfettamente isolato e impermeabile ai rumori e ai traumi della guerra24.

20. G.p. BruNetta, Mille e più di mille ..., p. 101. 21. G. ViseNtiNi, Verità negli ambienti, “Cinema”, III, 1938, 44, p. 269.22. e. ceretti, I produttori italiani hanno paura dell’aria aperta?, in “film”, iii, 1940, 2, p. 5. 23. p.m. de saNti, …e l’Italia sogna. Architettura e design nel cinema déco del fascismo, in Storia del

cinema mondiale. L’Europa. Miti, luoghi, divi, a cura di G.P. Brunetta, 5 voll., Torino 1999, I, p. 467.24. Ivi, p. 483.