"Un filosofo mancato" Aporie della concezione plotiniana della natura ["A Philosopher manqué". On...

38
Nature Studi su concetti e immagini della natura a cura di Antonello La Vergata Edizioni ETS

Transcript of "Un filosofo mancato" Aporie della concezione plotiniana della natura ["A Philosopher manqué". On...

NatureStudi su concetti e immagini della natura

a cura diAntonello La Vergata

Edizioni ETS

www.edizioniets.com

© Copyright 2014

EDIZIONI ETSPiazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa

[email protected]

DistribuzionePDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]

ISBN 978-884674062-5

Stampato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena

pervenuto al Dipartimento di Studi di Studi linguistici e culturali per la realizzazione del Progetto di ricerca “Natura, ambiente e qualità della vita - NAQUAVI” -

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Indice

Introduzione di Antonello La Vergata 7

Martino Rossi Monti «Un filosofo mancato». Aporie della concezione plotiniana della natura 13

Primo intermezzo. Simboli, foreste, treni 49

Roberto Bondí Templi vivi e leggi immutabili. La natura in Telesio e Campanella 57

Secondo intermezzo. Equilibri utopici 79

Agostino Cera Psyche e Physis. Uomo e mondo in Carl Gustav Carus 89

Terzo intermezzo. Turisti, lupi e macchine 119

Giacomo Scarpelli La morte di Pan. Frazer e il culto della natura 125

Quarto intermezzo. Relativismo naturale 147

Gaspare Polizzi Filosofia della natura e “contratto naturale” in Michel Serres 149

Quinto intermezzo. La chimica e la nuova Età dell’oro 181

Simone Pollo Oltre la natura umana? Osservazioni sull’antiantropocentrismo nell’etica contemporanea 185

Indice dei nomi 201

«Un filosofo mancato» Aporie della concezione plotiniana della natura*

Martino Rossi Monti

I. Delusioni

Nella sua autobiografia, Goethe dà una viva descrizione del modo nel quale, du-rante gli anni universitari a Strasburgo (allora territorio francese), la sua generazione accolse il Sistema della natura (1770) del barone d’Holbach, una sorta di sintesi del materialismo e meccanicismo settecentesco:

Nessuno di noi aveva letto quel libro fino in fondo, perché tutti ci sentivamo delusi nell’a-spettativa con la quale lo avevamo aperto. Vi si annunziava un sistema della natura, e noi tut-ti speravamo di impararvi realmente qualcosa sulla natura, il nostro idolo. […] E invece che senso di vuoto e di vano provammo in questa triste semioscurità ateistica, in cui scompariva la terra con tutte le sue creature, il cielo con tutte le sue costellazioni! Una materia doveva esistere dall’eternità ed essere mossa dall’eternità, e con questo movimento doveva produrre a destra e a sinistra e da tutte le parti, senz’altro, i fenomeni infiniti dell’essere. E l’avremmo persino accettato, se da questa sua materia in movimento l’autore avesse realmente costruito il mondo sotto i nostri occhi. Invece, della natura costui ne sapeva probabilmente non più di noi: infatti dopo aver piantato lì alcuni concetti generali li abbandona subito per trasformare in natura materiale, pesante, in movimento sì, ma informe e senza direzione, quel che invece ci appare superiore alla natura; e crede in questo modo di aver guadagnato molto1.

Questo senso di delusione e rifiuto di fronte a una natura privata di ogni incanto e ridotta a una sorta di cadavere2 – che in questo caso va visto nel contesto della ge-nerale insoddisfazione manifestata dalla scienza romantica, dalla filosofia della natura idealistica e da Goethe stesso (sulla scia del Kant della Critica del giudizio) verso il meccanicismo e l’atomismo newtoniano3 – si è ripresentato spesso, in forme più o me-no diverse, nella storia della nostra cultura. Esso non appartiene solo a un passato a noi vicino o al nostro presente, ma anche a epoche assai distanti e diverse dalla nostra.

In un celebre passo del Fedone, Socrate esprime la sua insoddisfazione per tutte quelle spiegazioni dei fenomeni naturali4 che fanno appello esclusivamente a cause

* Desidero ringraziare, per i loro preziosi commenti e suggerimenti, Roberto Bondì, Giuseppe Cambiano, Antonello La Vergata e Mario Vegetti.

1 Goethe (1811-1814; trad. it. 1957: II, 655-656).2 «Morto» o «cadaverico» (totenhaft) Goethe definisce infatti il libro di d’Holbach.3 Su questi temi si veda Poggi (2000).4 Va tenuto presente che la traduzione del greco phýsis con «natura» rende solo in parte la ricchezza di signifi-

cati dell’originale: phýsis (dal verbo phýo: «genero», phýomai: «nasco», «cresco») indicava, da un lato, sia il nascere sia il crescere e, dall’altro, sia l’origine sia il risultato finale di tale processo. Esso aveva anche il senso di «carattere essenziale» di una cosa, di «costituzione» nel senso dell’insieme delle proprietà che a quella cosa appartengono e

14 Martino Rossi Monti

e principi materiali. Agli occhi di Platone, infatti, l’universo è una totalità ordinata e vivente, e l’ordine è spiegabile solo sulla base di un principio intelligente, invisibile e immateriale che governa il tutto. Sostenere, come fanno in misura diversa i fisici io-nici, Empedocle e gli altri filosofi naturalisti, che alla base dei fenomeni e all’origine del cosmo stanno i quattro elementi e le loro interazioni significa, secondo Platone, porre per primo ciò che invece svolge solo un ruolo secondario e subordinato. Con grande delusione di Socrate, anche lo stesso Anassagora, che sembrava porre come causa di tutto una mente ordinatrice, in realtà «non si serviva affatto dell’intelligen-za, e non le attribuiva alcun ruolo di causa nella spiegazione dell’ordinamento delle cose e attribuiva, invece, il ruolo di causa all’aria, all’etere, all’acqua e a molte altre cose estranee all’intelligenza» (Fed., 98b-c)5. Questa polemica attraversa gran parte dell’opera platonica ed è ribadita con forza nel decimo libro delle Leggi, dove Pla-tone si scaglia contro coloro che sostengono che tutto ciò che è, che fu e che sarà è opera o della natura o dell’arte6 o del caso:

Essi – continua Platone – dicono che il fuoco, l’acqua, la terra, e l’aria sono tutti dovuti alla natura e al caso, mentre nessuno di questi elementi è prodotto dall’arte, e che i corpi che vengono dopo di questi, quelli della terra, del sole, della luna, e degli astri, si sono assolutamente generati da questi elementi inanimati: ciascuno di questi elementi, mosso a caso a seconda delle proprietà di ciascuno, incontrandosi ed accordandosi intimamente insieme – caldo con freddo, secco con umido, molle con duro, e così tutti quanti i contrari che sono costretti dalla sorte a mescolarsi in-sieme – hanno dato origine in questo modo all’intero cielo e a tutto quanto è compreso nel cielo, a tutti gli animali e a tutte le piante, e da queste cause presero origine tutte le stagioni, e tutto ciò dicono non sia opera di una mente ordinatrice, né di un qualche dio o di una qualche arte, ma, come diciamo, della natura e del caso7.

Dato che si parla di natura e di caso, non meraviglia che alcuni abbiano indivi-duato nell’atomismo di Democrito il principale bersaglio di queste righe. La teoria dei quattro elementi qui esposta, però, sembra escludere questa possibilità. Inoltre, il prosieguo del passo allude chiaramente a teorie sofistiche8. È probabile quindi che si tratti di idee diffuse al tempo di Platone, di una sorta di «nebulosa mal definita»

che emergono durante il suo sviluppo. In Platone e Aristotele, phýsis assume spesso il senso di «essenza» di qual-cosa. Di qui il termine venne a significare l’insieme dei fenomeni e dei processi, e l’indagine sulla natura venne fatta coincidere con la ricerca delle cause e dei principi alla base dei fenomeni. È in questo contesto che la natura diventa anche un concetto astratto, «passibile di personificazione linguistica […]. Le possibilità offerte dalla personifica-zione sono infinite: la natura è stata detta “madre” e “matrigna”, potente, gelosa dei suoi segreti, generosa, avara, terribile e così via» (Bondì, La Vergata, 2014: 10). Nella traslitterazione delle parole greche si è scelto di usare il solo accento grave sulla vocale tonica.

5 Su questo passo del Fedone, cfr. Furley (1987: I, 9-15).6 Ove non specificato diversamente, uso questo termine in senso generico, includendo sia l’arte sia l’artigianato.

Il greco tèchne (come il latino ars) indicava infatti sia l’uno sia l’altro. In realtà, il suo spettro di significati era assai più ampio, perché indicava genericamente una abilità, un saper fare: per questo rientravano nella categoria di “tecniche” tanto la falegnameria quanto la medicina, tanto la danza quanto la retorica. Secondo Halliwell (2002: 7-8), però, almeno a partire dal IV secolo a.C., attività che noi qualificheremmo come artistiche (soprattutto scultura, pittura, poesia, danza e musica) vennero riunite sotto la categoria di «arti mimetiche» a causa del loro carattere espressivo e rappresentativo.

7 Platone, Leggi, 889b-c. Cfr. Sofista, 265c-e.8 Su questo punto, cfr. Gemelli Marciano (2007: 46-47), che è anche un importante lavoro sull’atomismo antico

(sul caso come realtà solo apparente e sulla necessità in Democrito cfr. ivi: 296-298).

«Un filosofo mancato» 15

(Morel, 2002: 131) nella quale confluivano, mescolandosi, teorie e dottrine di diversa provenienza. È invece sicuro che Platone riteneva queste teorie non solo false da un punto di vista logico, ma anche moralmente pericolose: l’ateismo, il materialismo e il relativismo che esse incoraggiavano, infatti, sembravano togliere ogni fondamento stabile ai valori e all’ordine pubblico. La loro fallacia, d’altra parte, risiedeva nell’idea che la materia potesse organizzarsi da sola in modo ordinato senza la direzione di un principio intelligente, come se la priorità spettasse al corpo invece che all’anima.

Non è difficile cogliere il carattere antropomorfico della dottrina platonica: come il corpo umano non è in grado di vivere, di muoversi e di compiere scelte se non è vi-vificato dall’anima e indirizzato per il meglio dall’intelligenza, così l’universo, che per Platone è, letteralmente, un organismo vivente, perfetto e finito, non può non essere vivificato da un’anima e amministrato da una saggezza che orienta tutto verso il me-glio. In entrambi i casi, però, l’azione dell’anima e dell’intelletto è variamente ostaco-lata dalla materia, la quale deve essere ricondotta all’ordine per mezzo sia della forza sia della persuasione. In ogni caso, Platone, come altri prima e dopo di lui, credeva fermamente che la struttura del cosmo non fosse una qualsiasi fra le molte possibili, ma la migliore: ciò che «lega» e «tiene insieme» il tutto è infatti il bene (Fed., 99c).

Come è stato più volte sottolineato, l’atteggiamento di Platone nei confronti dei fisici presocratici è in realtà ambivalente, dato che – come è evidente nel Timeo – le loro dottrine vengono da un lato incorporate nel discorso platonico sulla natura e, dall’altro, profondamente modificate per ciò che riguarda l’ordine e la priorità delle cause. Quelle che per i fisici presocratici erano cause prime (i singoli elementi mate-riali o le loro interazioni) diventano in Platone cause seconde o concause, delle quali il demiurgo – il dio “artigiano” che fabbrica il cosmo guardando a un modello eter-no – «si serve come di ministre al suo servizio, per portare ad effetto, quanto più è possibile, l’idea dell’ottimo» (Timeo, 46c-d). Semplificando, si può affermare che in Platone la materia è vista come strumento di un’arte divina che plasma il migliore dei mondi possibili. Ne consegue che la natura, intesa come l’insieme dei fenomeni e delle loro cause materiali, non è per Platone una realtà autonoma, ma qualcosa che dipende da altro e ha in altro il suo fondamento: per questo, a differenza di quello che penserà Aristotele, essa non può, da sola, essere causa, ma solo mezzo. La pro-duzione naturale, così come quella artigianale, è dovuta all’anima, e l’anima presup-pone un’intelligenza (Leggi, 982b). Come si vede dal passo delle Leggi citato sopra, per Platone natura e caso in fondo coincidono (Wieland 1962; trad. it. 1993: 306). Secondo Platone, parlare di «natura» in questo senso è quindi fuorviante, dato che la vera natura è l’anima (Leggi, 892b-c). La concezione che ho descritto è comune a tutta la tradizione platonica (che, è bene non dimenticarlo, si snoda per un arco di tempo di circa nove secoli), nella quale è facile riscontrare lo stesso atteggiamento di insoddisfazione e di insofferenza verso le spiegazioni naturalistiche che era proprio di Socrate. È certamente così in Plotino, vissuto nel III secolo d.C., il quale afferma, non a caso, che «la cosiddetta natura è un’anima» (Enneadi, III, 8, 4)9. Nel presente

9 Cito dall’edizione a cura di G. Faggin (Plotino, 1992), modificandone talvolta lievemente la traduzione. D’ora in poi i trattati e capitoli di ciascuna Enneade non saranno preceduti, nel testo, dalla specificazione “Enneadi”.

16 Martino Rossi Monti

saggio prenderò in esame alcuni aspetti della “filosofia della natura10” di Plotino cer-cando di mettere in luce almeno due aspetti: 1) il rapporto di quella filosofia con le concezioni della natura ad essa precedenti e contemporanee; 2) le difficoltà, le ambi-guità e le aporie che caratterizzano il pensiero di Plotino a questo proposito.

II. L’Uno

Secondo Plotino, «ricondurre tutte le cose a corpi, siano essi gli atomi o i cosid-detti elementi, e mediante il loro movimento irregolare esplicare l’ordine, la ragio-ne e l’anima dominatrice, è cosa insieme assurda e impossibile ed è più impossibile ancora, se così si può dire, partire dagli atomi»: se il movimento degli atomi non è regolare, come è possibile che sia regolare il risultato di quel movimento (III, 1, 3; cfr. VI, 8, 10)? Come tutti i cosiddetti neoplatonici, Plotino si riteneva un fedele interprete di Platone e non certo un innovatore, ma il suo pensiero si era dovuto inevitabilmente confrontare con la grande varietà di indirizzi e scuole filosofiche che lo avevano preceduto e ne aveva spesso incorporato elementi non marginali. Questo vale anche per il problema della natura e dell’origine del cosmo. A questo proposito, come ha scritto Dominic O’Meara (cit. in Opsomer, 2005: 68), la filosofia di Plotino si trova al punto di incontro tra due modelli di spiegazione alternativi sviluppatisi in gran parte all’interno della tradizione platonica: quello secondo il quale l’ordine è impartito da fuori a un caos preesistente e quello secondo il quale esso in qualche misura emana o deriva da una fonte trascendente e immobile. Il primo modello è quello demiurgico o artigianale del Timeo, mentre il secondo deriverebbe dal neopi-tagorismo e in un’ultima analisi da teorie elaborate nell’Accademia platonica stessa.

Plotino, come è noto, si orienterà decisamente verso il secondo modello, ma non riuscirà a liberarsi del tutto del primo: come vedremo, il dio artigiano di Platone gli creerà infatti non pochi problemi. In ogni caso, comune a entrambi i modelli (no-nostante le differenze) era la convinzione che la struttura ordinata dell’universo non potesse essere in alcun modo l’effetto di un caso cieco e irrazionale. La bellezza e l’ordine del tutto erano la testimonianza di un’origine e di un governo intelligente. Come si vede dal passo citato, infatti, Plotino doveva anche fare i conti con una tra-dizione di pensiero ben più pericolosa e inquietante: l’atomismo di Democrito e la sua versione epicurea. Quanto poco esaltante alle orecchie di un platonico dovesse suonare la spiegazione dell’origine del mondo (o meglio: dei mondi) propria dell’ato-mismo risulta chiaramente da questo passo del poema di Lucrezio:

Infatti certamente non secondo un progetto i principi delle cosedisposero se stessi al loro posto, con mente sagace,né davvero si accordarono su qual moto ciascuno dovesse produrrema, poiché in molti modi i molti principi delle coseda tempo ormai infinito colpiti da urti

10 La filosofia della natura di Plotino e dei neoplatonici è oggetto di un rinnovato interesse: cfr. Wagner (2002, a cura di); Chiaradonna, Trabattoni (2009, a cura di); Wilberding, Horn (2012, a cura di).

«Un filosofo mancato» 17

e trascinati dai loro pesi usano muoversie in ogni modo aggregarsi e sperimentare ogni cosa,qualunque cosa possano creare combinandosi tra di loro,allora avviene che, diffusi per grande tempo,provando aggregazioni e moti d’ogni genereinfine s’uniscono quelle che, a un tratto spinte insieme,di grandi cose divengono spesso l’esordio,di terra mare e cielo e dei generi dei viventi11.

Tutto questo era per Plotino – come per Platone – inaccettabile. A differenza di Platone, però, Plotino non credeva che alla base dell’ordine del mondo ci fosse un progetto o un disegno. Molte pagine delle Enneadi sono dedicate proprio alla critica di questa idea. Ma per Plotino, a differenza di Epicuro e Lucrezio, negare il disegno non significava affatto affermare il caso. Significava invece, come vedremo, sostituire a una razionalità che procede per calcoli, dubbi e deliberazioni, una forma superiore di saggezza che crea in modo immediato e per così dire automatico.

In che modo Plotino spiegava l’origine dell’universo? Bisogna subito precisare che per lui, come per Aristotele, il mondo non ha un’origine temporale, ma è eterno12. Non c’è quindi nessuna creazione dal nulla (un’idea assente nel pensiero greco) né al-cun ordinamento di un caos primigenio ad opera di un’arte divina13. Il mondo sensi-bile e visibile è l’esito estremo, sul piano materiale, di un principio primo, immateriale e assolutamente trascendente che Plotino chiama Uno o Bene. Da questo principio tutto procede eternamente: il tempo e lo spazio appartengono solo al mondo sensi-bile e non al loro principio e al processo che li genera. L’Uno, pur essendo del tutto autosufficiente, «trabocca» (V, 2, 1) e genera un secondo principio, l’Intelligenza, os-sia l’universo delle idee delle quali gli enti fisici non sono che il riflesso depotenziato. L’Intelligenza, a sua volta, genera l’Anima, la quale, come Anima del Mondo, crea il cosmo e dà forma alla materia servendosi delle idee ricevute dall’Intelligenza. Uno, Intelligenza e Anima sono dunque i tre principi o ipostasi all’origine di tutto: il mon-do sensibile è solo un’immagine di essi. La realtà materiale è quanto di più lontano vi sia dall’Uno, ma ciò non toglie che anch’essa ne sia in un certo modo partecipe, in quanto da Lui indirettamente generata. Questo processo, però, non ha una direzio-ne sola: ogni essere, indipendentemente dalla sua posizione nella gerarchia degli enti, reca in sé una traccia dell’Uno e per questo si sforza in ogni modo di ricongiungersi al suo principio per condividerne la perfezione. All’incessante processione dall’Uno, dunque, corrisponde un altrettanto incessante “ritorno” a lui.

Questo generare ciò che è altro da sé non comporta, per l’Uno, né perdita né in-debolimento né guadagno: l’Uno è come il sole che dona e diffonde la sua luce ri-manendo se stesso e, pensava Plotino, non perdendo nulla della sua energia; come

11 Lucrezio, De rerum natura, V, 419-431. Cfr. Cicerone, De natura deorum, I, 20.12 Sulla fortuna e ricezione di questa idea (inaccettabile per un cristiano) nel mondo medievale e nella tra-

dizione tomistica in particolare si veda Bianchi (1984); su creazione, tempo e atomismo tra antichità e medioevo cfr. Sorabji (1983).

13 Il verbo «creare» e derivati, dei quali farò uso d’ora in poi, non vanno dunque intesi nel senso giudaico-cristiano di creazione dal nulla da parte di una divinità onnipotente, ma, a seconda dei casi, come produzione da un sostrato preesistente oppure come “generazione” continua ed eterna.

18 Martino Rossi Monti

la luce è contemporanea alla fonte luminosa pur essendone dipendente, così ciò che è generato dall’Uno non è a Lui posteriore temporalmente, ma ontologicamente14. Ogni generato, in questo senso, è inferiore al generante, in quanto ne è immagine e riflesso: l’immagine conserva infatti qualcosa dell’originale, ma ne è al contempo dissimile oltre che dipendente. Per questo il processo creativo è discendente ed è de-scrivibile come una progressiva perdita di perfezione entro un contesto gerarchico: l’Intelligenza, provenendo dall’Uno è a Lui inferiore, così come l’Anima è inferiore all’Intelligenza dalla quale proviene, e così via fino alla tenebra materiale. Per quan-to Plotino non sia affatto avaro di affermazioni in favore del mondo sensibile, so-prattutto nella sua polemica contro gli gnostici15, tuttavia esso non è indispensabile all’Uno, come non lo è tutto ciò che dall’Uno procede. Il mondo è bello, non è se-parato dall’intelligibile, ne è bensì la «manifestazione» (IV, 8, 6); l’Uno è il Bene e in quanto tale deve effondersi, ma ciò non toglie che esso rimanga superiore e indiffe-rente alle sua “effusione”, della quale in definitiva non ha bisogno16.

Che cos’è allora la natura per Plotino? Nonostante Plotino faccia propri e rielabo-ri numerosi concetti aristotelici, per lui la natura è ben lungi dal configurarsi – ari-stotelicamente – come un processo che ha in sé i principi che lo orientano teleologi-camente verso il meglio. Come Platone, anche Plotino esclude che la natura possa fondarsi su se stessa: non si può quindi trattare del mondo sensibile senza riferirsi alla realtà intelligibile da cui esso dipende ed è causato. Né d’altra parte, data l’e-terogeneità dell’una rispetto all’altra, è possibile comprendere la realtà intelligibile sulla base delle categorie impiegate per comprendere la realtà materiale. Questo ra-gionamento crea non poche difficoltà: come si fa a sostenere insieme che il mondo sensibile è comprensibile solo in base a quello intelligibile e che i due mondi sono eterogenei (Chiaradonna 2002: 308-309)? Lasciamo per ora da parte queste aporie e torniamo all’immagine plotiniana della natura. Essa è per Plotino l’ultimo lembo, per così dire, dell’Anima, quindi è anche l’ultimo riflesso dell’intelligibile: dopo di lei non vi sono che copie (IV, 4, 13). La natura è dunque un’anima, una ragione (logos) che crea informando la materia con ciò che continuamente riceve dall’Anima:

14 «Se vogliamo parlare secondo ragione, la forza (enérgheia) che scorre, diciamo così, da Lui, noi la vediamo come luce che emana dal sole. Vedremo allora anche l'Intelligenza e la sua intera natura intelligibile simile ad una luce, ed Egli, invece, immobile sulla vetta del mondo dell’Intelligenza, regnare su di lei senza allontanare da sé la sua luce diffusa – altrimenti dovremmo ammettere un’altra luce anteriore alla luce –, irradiandola eternamente, im-mobile sopra il mondo intelligibile» (V, 3, 12). Cfr. I, 7, 1; V, 1, 7; Rist (1967; trad. it. 1995: pp. 110 ss.).

15 Per la polemica contro gli gnostici cfr. Enn. II, 9 (secondo molti parte di un trattato più ampio comprendente anche III, 8, V, 8, V, 5). Sul rapporto (in realtà ambiguo e non senza punti in comune) tra Plotino e gli gnostici si ve-dano Puech (1960); Cilento (1971); Elsas (1975); Dillon (1980); Wallis, Bregman (1992); Torchia (1993); Sinnige (1999, in particolare pp. 67-74); Narbonne (2011). L’equazione gnosticismo-pessimismo cosmico e la caratterizzazione del III secolo d.C. come «epoca di angoscia» (cfr. Dodds, 1965; trad. it. 1970) è stata recentemente criticata da Lewis (2013: 13-28), il quale però trascura quasi completamente Plotino.

16 Sull’idea, di derivazione platonica (Timeo, 29e), che la divinità sia qualcosa di perfettamente completo, auto-sufficiente e assoluto, ma allo stesso tempo anche necessitato a espandersi e a effondersi dando origine a una molte-plicità (omne bonum diffusivum sui) restano fondamentali le considerazioni di Arthur Lovejoy (1936; trad. it. 1966: 55): questo non è un dio – scrive Lovejoy –, sono due dèi in uno. Siamo di fronte a una «compiutezza che tuttavia non è compiuta in se stessa», a una «immutabilità» che in qualche modo ha bisogno del «mutamento» e si estrinseca in esso. La tacita, ma cruciale assunzione alla base di questa idea è che l’esistenza di qualcosa di non eterno, non sovrasensibile, non perfetto sia in realtà qualcosa di intrinsecamente desiderabile.

«Un filosofo mancato» 19

questo processo è involontario, non riflessivo e quasi del tutto incosciente. Prima di esaminare questo aspetto, però, è necessario soffermarsi brevemente su quali erano stati, prima di Plotino, i modi principali di pensare la natura e l’origine del cosmo.

III. Che cos’è un demiurgo?

Nelle antiche cosmogonie e teogonie greche, è stato detto giustamente, il para-digma prevalente non è quello della creazione, ma quello della procreazione (Solm-sen, 1963, p. 473). Nella Teogonia di Esiodo, sia le componenti fisiche del cosmo sia gli dèi veri e propri non vengono plasmati o creati dal nulla, ma «nascono» o vengono «generati»: l’oceano, i fiumi, il mare, il sole, la luna e le stelle sono il frutto di una unione di divinità maschili e femminili; lo stesso accade per altri dèi come Crono, Zeus ed Era. Si hanno anche casi di partenogenesi (il Cielo nasce dalla so-la Terra) e di genesi, come quella della Terra e del Caos, difficilmente qualificabili come nascite. La genesi del cosmo e del suo ordine fisico è immaginata proiettando nelle divinità fattori biologici e comportamenti sessuali tipicamente umani, mentre l’instaurazione dell’ordine morale e politico deriva dal prevalere, dopo un’accanita lotta, di uno o più dèi su tutti gli altri (il che è stato visto come il riflesso dei rivolgi-menti politici che, all’epoca, portarono ad un regime monarchico17).

Nel Timeo di Platone, invece, ci si imbatte in una ben diversa rappresentazione dell’agire della divinità. Qui, all’interno di un racconto mitico definito «probabile» (29d), Platone descrive un demiurgo che, spinto dalla sua «bontà», guarda a un modello intelligibile e, «riflettendo» (30b) e progettando, plasma il cosmo fabbrican-dolo, componendo elementi già dati, ma dispersi e in disordine. In una successione incalzante di metafore attinte dal mondo delle tecniche18 il demiurgo è presentato come artigiano, falegname, costruttore, fabbro, pittore, vasaio, ceroplasta, tessitore e agricoltore. In questo passo, ad esempio, Platone descrive la forma che il demiurgo dà al mondo con parole che rimandano alle tecniche di costruzione e alla lavorazio-ne del legno e della pietra:

Appunto per queste cause e per questo ragionamento, lo costruì come un unico tutto, costitui-to dalla totalità delle cose, perfetto e immune da vecchiezza e da malattie. E diede ad esso una for-ma che gli era conveniente ed affine. Infatti, al vivente che deve comprendere in sé tutti i viventi è conveniente quella forma che comprende in sé tutte quante le forme. Perciò lo tornì arrotondato, in forma di sfera che si stende dal centro agli estremi in modo eguale da ogni parte, ossia la più perfetta di tutte le forme e la più simile a sé medesima, ritenendo il simile più bello del dissimile19.

Platone, però, chiama il demiurgo non solo «fattore» o «operaio» (entrambi tra-duzioni del termine greco poietès), ma anche «padre», e parla del cosmo come di

17 Cfr. Vernant (1962; trad. it. 1997: 93 ss.).18 Per uno studio dettagliato di queste metafore e della terminologia si veda Brisson (1998: 27-106). Sul Timeo in

generale si vedano anche Cornford (1935); Vegetti (2007). In un passo controverso e molto discusso della Repubblica (596b-597e), Platone attribuisce al dio anche la fabbricazione delle idee.

19 Platone, Timeo, 33a ss.

20 Martino Rossi Monti

qualcosa di «generato» (28b-29b), mostrando così un debito verso le antiche cosmo-gonie. Nonostante le differenze, l’artigiano e il padre hanno qualcosa in comune: entrambi sono all’origine dell’apparizione di una realtà ordinata i cui elementi co-stitutivi non possono essere da loro completamente controllati. Il demiurgo, il cui operato deve da un lato conformarsi al modello eterno e dall’altro fare i conti con la materia (che è ricettiva ma anche riottosa), è quindi un’entità distinta e priva di un potere assoluto: è un dio (30a), ma non un dio onnipotente (Brisson 1998: 31). L’u-niverso da lui creato rappresenta in ogni caso il migliore fra i possibili, in quanto la sua opera persegue per quanto è possibile l’ideale del bene. Le due immagini, quel-la dell’artigiano e quella del “generatore”, sono comunque difficilmente districabili: come un padre, il demiurgo genera un essere animato e intelligente, ma il linguaggio con cui viene descritta la creazione dell’anima del mondo e la sua infusione nel cor-po del mondo è quello delle tecniche artiganali (30b-c).

Il Timeo lasciava aperte molte questioni e fu per questo oggetto di lunghe contro-versie dentro e fuori della tradizione platonica20. Il racconto platonico era una meta-fora o andava preso alla lettera? Il cosmo aveva davvero avuto un inizio temporale? Chi era il demiurgo? Chi erano le divinità celesti che lo assistevano nella creazione degli esseri umani e degli animali? Qual era il ruolo della materia e della necessità? Come era possibile il passaggio da un modello ideale a un mondo materiale? Molti in-terpreti moderni sono concordi nel ritenere la figura del demiurgo solo una metafora del passaggio dal disordine all’ordine, ma una questione importante rimane: a quanto pare, nessuno prima aveva costruito una cosmologia ispirandosi sistematicamente alle tecniche artigianali. Nella città ideale tratteggiata nella Repubblica, Platone assegna ad artigiani, mercanti e agricoltori un ruolo subordinato e li priva dei diritti politici: considera la loro classe in quanto tale come indegna di ricevere l’educazione riservata ai guardiani e ai governanti filosofi. Nelle Leggi, nega loro addirittura la cittadinanza (come farà anche Aristotele nella Politica)21. Perché allora, nonostante il suo aristo-cratico disprezzo per il lavoro manuale, aveva scelto scelto di presentare il «padre» di questo cosmo bello e ordinato nelle vesti di un semplice artigiano?

La figura di un artigiano che, dall’esterno e nei limiti concessi dalla necessità ma-teriale, introduce nel mondo fisico ordine, bellezza e bontà era certamente preferi-bile per Platone all’idea che la natura avesse in sé la capacità organizzarsi nel modo migliore. Come si è visto, la forma, il fine e l’ordine devono venire da fuori, da un piano che trascende i fenomeni. Inoltre, Platone aveva ereditato la fiducia socratica nelle competenze tecniche degli artigiani: essi sanno quello che fanno e il loro agire non è casuale, ma è orientato verso un fine; sono capaci di armonizzare in un tutto ordinato e bello il materiale su cui lavorano (Gorgia, 503e)22. In effetti, come ha sot-tolineato Vidal Naquet (1983; trad. ing. 1986: 236), quasi tutte le grandi creazioni della cultura greca sono, in un modo o nell’altro, “demiurgiche”. Il demiurgo sa-rebbe in questo senso una sorta di versione immensamente potenziata dell’«eroe se-

20 Su questo tema si vedano Baltes (1976-1978); Runia (1986: 38-57); Dillon (2003: 24-25).21 Cfr. Platone, Leggi, 846d ss.; Aristotele, Politica, 1278a, 1319a, 1338b.22 Cfr. Solmsen (1963: 485).

«Un filosofo mancato» 21

greto» della civiltà greca: l’artigiano (ibidem). Va poi tenuto presente che il termine greco demiourgós non aveva solo il significato di «artigiano», ma indicava in generale una persona capace di eseguire un determinato compito, la cui natura poteva essere tecnica come politica: per questo significava anche «magistrato». In questa sua se-conda accezione, il termine rimanda non alla terza classe della città ideale platonica, ma alla prima, quella dei governanti filosofi, i quali hanno compiuto la loro ascesa spirituale verso l’idea del Bene, ma poi sono stati costretti a ridiscendere nella caver-na per occuparsi delle faccende politiche tenendo sempre lo sguardo interiore fisso alle idee che avevano contemplato. In questo senso, l’attività politica è l’aspetto me-no nobile della loro funzione all’interno della città.

Il termine “demiurgo”, ha sostenuto Brisson, si adattava perfettamente al ruolo di mediazione tra mondo intelligibile e mondo sensibile che il principio ordinatore del tutto doveva svolgere: nonostante le loro evidenti differenze, sia l’artigiano sia il magistrato hanno come campo d’azione la realtà materiale, con la quale devono scendere a patti. La produzione del mondo sensibile implica un intervento di qual-che tipo sulla materia, una progettazione e realizzazione. Non meraviglia allora che Platone abbia costruito una cosmogonia sul modello delle tecniche umane. D’altra parte, dato che l’attività politica – nonostante il grande valore che Platone le attri-buiva – rappresentava inevitabilmente una degradazione rispetto alla contemplazione distaccata della realtà intelligibile, è comprensibile che il divino creatore del mondo venga paragonato anche a una sorta di magistato (Brisson 1998: 100-101)23.

Nonostante tutto questo, lo “scandalo” di un dio artigiano doveva restare ta-le agli occhi di molti dei seguaci di Platone, tra i quali era assai diffusa la ben nota (per quanto non certo universale24) svalutazione del lavoro manuale tipica del mon-do antico – un aspetto, questo, talvolta sottovalutato dagli interpreti del platonismo. Di fronte al Timeo, Plotino si trovava in una situazione difficile. Come conciliare il suo modello derivazionistico con quello artigianale di Platone? L’antropomorfismo della dottrina del maestro era innegabile sia nel paragone con l’artigiano sia nell’attri-buzione al demiurgo di caratteristiche psicologiche tipicamente umane: il demiurgo infatti ragiona, riflette, si rallegra e si sforza in ogni modo di imitare e riprodurre nel sensibile un modello intelligibile da lui contemplato, laddove in Plotino non si ha al-cun ragionamento e il mondo è, sì, imitazione di un modello, ma imitazione che si attua immediatamente, senza sforzo o ragionamento. Va però precisato che Plotino, nell’interpretare il Timeo, si riallacciava a una tradizione, cominciata con gli imme-diati successori di Platone all’Accademia (Speusippo e Senocrate) che concepiva il discorso cosmogonico di Platone come un’allegoria dell’eterna derivazione del sensi-

23 Il fatto che l’azione della divinità fosse esemplata sulle tecniche artigianali sembra implicare che Platone at-tribuisse a queste ultime un valore assai positivo. In realtà, però, «l’estensione del modello tecnico dal piano della polis a quello dell’intero cosmo comporta come costo la perdita dell’autonomia delle tecniche umane, sia artigianali sia politiche, che tutte sono subordinate a un piano divino»; ne consegue che, come è evidente nelle Leggi, «il cor-retto comportamento dell’uomo consiste allora nell’inserirsi in un ordine che egli non ha prodotto, cioè nel seguire quella misura di tutte le cose che è la divinità, non l’uomo» (Cambiano, 1971: 253). Sull’ambiguità dell’atteggiamento di Platone verso gli artigiani come espressione di una contraddizione interna alla civiltà greca si veda Vidal-Naquet (1983; trad. ing. 1986: 224-245).

24 Cfr. su questo Cambiano (1971: 31); Cuomo (2007: 9 ss.).

22 Martino Rossi Monti

bile dall’intelligibile. All’aspetto progettuale e artigianale dell’agire demiurgico questi interpreti sostituivano una teoria dell’eterna generazione, facendo probabilmente ap-pello anche a una ambivalenza che era di Platone stesso, il quale come si è visto ave-va chiamato il dio sia «demiurgo» sia «padre» e «generatore» (Tim. 41a-b). Questa interpretazione viene respinta da Aristotele, che, nel difendere l’eternità del mondo, insiste sull’aspetto realistico del discorso platonico, accusandolo di ingenuità (Il cie-lo, I, 279b ss.). Nonostante ciò, proprio a partire da una idea aristotelica (Metafisica, VII, 1032b; 1034a), quella della presenza di un’idea-modello nell’anima dell’artigiano (umano), alcuni autori, soprattutto Seneca e Filone Alessandrino, privilegiano il lato progettuale e artigianale dell’operare divino, identificando le idee, il modello esterno al demiurgo nel dialogo platonico, con i pensieri di Dio stesso25. Alla luce di quest’ul-timo modo di leggere il Timeo riconfluiranno nel platonismo del II secolo d. C. tesi che i primi successori di Platone non avevano espresso o accettato, cioè: 1) l’inter-pretazione realistica del mito platonico (ad esempio in Plutarco); 2) l’identificazione delle idee con i pensieri del demiurgo; 3) l’insistenza sull’aspetto artigianale della cre-azione. Rifacendosi probabilmente ai primi platonici, Plotino rifiuta tutte e tre queste teorie e, nel farlo, si sforza di conciliare il suo pensiero con il contenuto del Timeo.

IV. La polemica contro il paradigma artigianale

L’idea che tra il piano intelligibile e quello sensibile si frapponesse un demiurgo che si serviva delle idee eterne come di “strumenti” del suo operare implicava che le idee non avessero in se stesse la forza necessaria per essere immediatamente pro-duttive, cosa che Plotino non era disposto ad accettare. In questo senso, la figura del demiurgo era un’eredità assai scomoda. D’altra parte, escluderlo significava tradire la fedeltà a Platone. La soluzione di Plotino fu quella di considerare vero demiurgo solo l’Intelligenza, ma di trasferire il maggior numero di attività “demiurgiche” all’A-nima26. Pensando di interpretate fedelmente il Timeo, Plotino polemizza più volte contro il paradigma artigianale della creazione27.

Una polemica simile era stata condotta (da prospettive completamente diverse) in ambito sia epicureo sia aristotelico. Verso la fine del II secolo d.C., diversi autori platonici cominciarono a pensare che l’identificazione tra il demiurgo e la divinità suprema – fino a quel momento prevalente – fosse inaccettabile. Numenio, ad esem-pio, la considerava un’idea empia28. Qualunque interpretazione si desse del Timeo,

25 Cfr. Isnardi Parente, 1999: 40-47, 128-136; Opsomer, 2005a. Sulla creazione in Filone si veda Calabi (2008: 3-16); su Filone e il Timeo cfr. Runia (1986).

26 Opsomer (2005: 69-70). In questo – suggerisce Opsomer – Plotino potrebbe essere stato influenzato da idee gnostiche, da teorie stoiche (il principio attivo universale degli Stoici era chiamato, tra l’altro, anche demiurgo e anima del mondo), dal dialogo pseudo-platonico Epinomide (981b) e da Plutarco, che attribuisce all’anima del mondo funzioni demiurgiche senza considerarla però come il vero demiurgo (che per lui è la divinità suprema in quanto Intelletto). Cfr. anche O’Brien (2009).

27 Diversamente Charrue (1987: 127-139), che, su questo punto, ipotizza una polemica diretta di Plotino contro Platone.

28 Fr. 12 des Places.

«Un filosofo mancato» 23

letterale o allegorica, ne risultava una divinità impegnata in attività poco dignitose, come la progettazione e la fabbricazione del mondo a partire da un caos preesi-stente, oppure (laddove il cosmo fosse ritenuto eterno) il controllo provvidenziale e l’attività di “manutenzione” dell’ordine universale. In entrambi i casi, la condizione beata che avrebbe dovuto caratterizzare la vita degli dèi era gravemente compromes-sa. La soluzione di molti platonici (Plotino compreso) fu quella di delegare il vero e proprio lavoro demiurgico o provvidenziale a entità di rango inferiore, lasciando alla divinità suprema il ruolo di causa fondativa.

È probabile che le critiche epicuree e aristoteliche abbiano svolto un ruolo impor-tante nell’evoluzione della tradizione platonica (Opsomer 2005). «Con quali occhi della mente il vostro Platone – chiede Velleio, il portavoce dell’epicureismo nel De natura deorum di Cicerone – ha potuto vedere quel grande processo di creazione con il quale egli immagina che il mondo sia stato costruito ed edificato dal dio? Qua-le metodo di costruzione, quali arnesi, quali leve, quali macchine, quali operai furo-no impiegati per un’opera così vasta?» (I, 8). Questa polemica echeggia in diverse pagine di Plotino, che sembra appropriarsene, per contrapporvi però un’immagine dell’operare creativo della natura ben diversa da quella epicurea. È probabile che Plotino abbia fatto proprie, rielaborandole e riadattandole alla sua filosofia, anche le critiche di Aristotele e della sua scuola al paradigma artigianale della creazione. Aristotele aveva preso alla lettera il Timeo e riteneva assurdo considerare il mondo generato e allo stesso tempo eterno: tutto ciò che è generato, infatti, è destinato a corrompersi. Similmente, per Plotino, non ha senso interrogarsi sul perché il mondo è stato fatto, dato che ciò significherebbe ammettere un inizio per ciò che è sempre stato (II, 9, 8). Aristotele, però, non aveva completamente rifiutato il modello artigia-nale; piuttosto, lo aveva incorporato nella sua concezione della natura: l’arte divina del demiurgo platonico (che operava dall’esterno) era diventata in Aristotele una ca-ratteristica immanente delle operazioni della natura. Come l’arte, la natura opera in vista di un fine, ma, a differenza dell’arte, lo fa dall’interno. L’analogia fra la natura e le tecniche è fortissima in Aristotele e ricorre continuamente nelle sue opere29: è l’arte a seguire il modello della natura, non viceversa, ma è chiaro che il concetto ari-stotelico di natura è modellato sull’operare delle arti (Solmsen 1963: 488)30. Sarebbe ingenuo pensare il contrario – così come sarebbe ingenuo pensare che, nonostante Aristotele non pensi la natura e il cosmo come governati da un’anima, la sua dottrina dei luoghi naturali non abbia nulla a che fare con la proiezione nella natura di inten-zioni umane (Kuhn 1957; trad. it. 1972: 122-127).

È molto importante sottolineare come per Aristotele la natura fosse in grado di operare finalisticamente e di produrre ordine senza deliberare né compiere ricerche

29 «Se una casa fosse tra le cose che sono per natura, essa verrebbe prodotta allo stesso modo in cui ora è costruita per mezzo della tecnica. E se le cose che sono da natura fossero fatte non solo da natura, ma anche fossero prodotte con la tecnica, sarebbero prodotte in quello stesso modo nel quale esse sono prodotte per natura» (Fisica, II, 8, 199a).

30 È assai significativo, in questo senso, che il termine scelto da Aristotele per indicare la materia ancora non formata (hyle) sia mutuato dalla falegnameria, dove indicava il legno grezzo in attesa di essere lavorato (Solmsen 1963: 492).

24 Martino Rossi Monti

(la rondine non progetta il suo nido, né la pianta il suo frutto). A differenza di quello che pensava Platone, fare a meno di una intelligenza che dall’esterno riflette, fab-brica e governa non significava abbandonare l’universo al caso: la natura offriva il modello di un processo autonomo, non casuale e del tutto intelligibile, nel quale la forma e l’ordine erano il prodotto di un operare automatico, irriflesso e inconsape-vole31. Anche in questo caso Aristotele lasciava intendere una (non del tutto perspi-cua) analogia con le tecniche, il cui operare sembrava assumere tratti automatici o istintivi: «anche l’arte non delibera» (Fisica, II, 8, 199a-b)32. Il demiurgo che Aristo-tele aveva “calato” nella natura era quindi un artigiano o un artista che, a differenza di quello platonico, non progettava e non rifletteva. La natura diventava così «una sorta di artigiano superiore» (Genequand, 1984: 107).

Queste idee ricorrono spesso nella polemica antiplatonica, antistoica e antiepicurea condotta dalla scuola aristotelica. Riccardo Chiaradonna (2008) ha ipotizzato che la critica di Alessandro di Afrodisia, il grande commentatore di Aristotele vissuto tra il II e il III secolo d.C., al paradigma artigianale della creazione possa aver influenzato il pensiero di Plotino. L’ordine del mondo sublunare non è, secondo Alessandro, dovu-to a una causa che riflette o calcola: la regolarità dei processi naturali viene garantita dai movimenti ciclici degli astri. Inoltre, fenomeni come la generazione (in cui le for-me si riproducono sempre uguali) dimostrano che non è necessario un modello ester-no da imitare, perché questo coincide con la forma in quanto fine intrinseco dei pro-cessi naturali. Non c’è bisogno di presupporre l’esistenza di una causa demiurgica che agisca, come in Platone, dall’esterno come un artigiano che calcola e progetta o, come negli Stoici, dall’interno come un «fuoco abile» (ignis artificiosus) e divino, razionale e provvidente. Alessandro polemizza anche contro gli epicurei, i quali hanno negato finalità alla natura perché l’hanno erroneamente associata alla scelta (proàiresis) e alla riflessione (logismòs): la causalità cosmologica dimostra che l’ordine e la finalità esi-stono, ma non dipendono da scelta e riflessione. Vale la pena di insistere su questo punto. Secondo Alessandro, l’arte (tèchne) agisce in base a una scelta e il fine per cui opera deve essere concepito nella mente come modello prima di essere attuato. Per questo motivo, l’arte è una «potenza razionale» (logikè dùnamis). La natura, invece, non agisce in base a una scelta o a un modello: essa è una «potenza irrazionale» (àlo-gos dùnamis). Parlare della natura come di un’«arte divina» è legittimo, ma solo nel senso in cui essa è capace di preservare, senza riflettere e pensare, l’armonia e la rego-larità che deriva dai movimenti di origine divina, ossia dai movimenti degli astri (ap.

31 La natura è così per Aristotele contemporaneamente fine, forma e causa efficiente. Sulla difficoltà di concili-are questa questa idea con la teoria di Dio come motore immobile (se basta la natura a rendere ragione dei fenomeni sublunari, che bisogno c’è di un primo motore?) cfr. Genequand (1984: 109).

32 È questa l’interpretazione di Tommaso d’Aquino (In libros Physicorum, 2, 14, 8): l’artigiano delibera solo quando è incerto e non padroneggia l’arte. Chi scrive non riflette sul modo in cui deve dar forma alle lettere, né il citaredo su quali corde toccare (se lo facesse, apparirebbe assai inesperto). Una volta che si padroneggia l’arte, si smette di deliberare. In nulla arte e natura sembrano differire, se non nel fatto che la prima opera dall’esterno e la seconda dall’interno. La natura, conclude Tommaso, è dunque un’arte divina immanente nelle cose, in virtù della quale le cose vengono indirizzate a un fine determinato. «Chi riflette è simile a uno che suoni la cetra per acquistare l’arte del citaredo, o a uno che si eserciti per conquistare qualche abilità», aveva detto Plotino (IV, 4, 12): quando l’abilità è acquisita si smette di riflettere. Sul citaredo, cfr. anche Aristotele, Metafisica, 1049b. Cfr. infra.

«Un filosofo mancato» 25

Simplicius in Phys. 310-311; In Met., 104)33. Come ha sottolineato Genequand (1984: 116), Alessandro, negando ogni razionalità alla natura, la pone, al contrario di Ari-stotele, al di sotto dell’arte. Questo declassamento della natura farebbe parte, secon-do Genequand, di un processo di progressiva “platonizzazione” dell’aristotelismo. A questo bisogna aggiungere, però, che l’assenza di scelte, calcoli e ragionamenti – che in Alessandro sembra essere alla base di questo declassamento – assume invece nella tradizione neoplatonica un valore decisamente positivo. Per Plotino, la razionalità che si esprime in calcoli, scelte e rilessioni è al di sotto della razionalità che si esprime nel-la contemplazione o nella sovrarazionalità propria dell’Uno.

Platone, come si è visto, aveva attribuito esplicitamente al demiurgo la riflessione (logismòs), attribuzione poi divenuta corrente nel platonismo. Plotino afferma però che non bisogna assolutamente prendere Platone alla lettera: «lassù non c’è alcun ra-gionamento; ma si parla di ragionamento [Tim., 34a] per indicare che tutto avviene come agirebbe un saggio, quaggiù, dopo un ragionamento; e si parla di previsione (proòrasis) perché tutto avviene come un saggio prevederebbe»34. Sia per Alessan-dro di Afrodisia sia per Plotino, dunque, alla base dell’ordine naturale non ci sono né scelte né ragionamenti né progetti né, tantomeno, il caso. I loro presupposti, però, sono completamente diversi: in Plotino l’ordine e la razionalità non derivano dall’a-zione degli astri né si basano sull’autosufficienza dei processi naturali, ma hanno una causa e un fondamento sovrasensibile. Per essere cause, le idee non hanno bisogno di essere immerse nel divenire dei loro effetti, come vogliono gli aristotelici (D’Ancona, 2009: 370, n. 4). La pista seguita da Chiaradonna mi sembra sia quella giusta, e credo che l’idea, tipica della tradizione aristotelica, di un ordine non causale e al contempo non consapevolmente progettato – quindi di un’arte che crea senza riflessione e scelta – abbia esercitato una influenza decisiva sul pensiero plotiniano. Credo anche, però, che a questo punto ci si possa porre un interrogativo che Chiaradonna non mi pare si sia posto: non è anche sulla base di questo modello (opportunamente modificato) che Plotino pensa la causalità intelligibile? Non è la produttività dell’Intelletto, dell’Ani-ma del Mondo e della natura al di là della scelta e della riflessione? Non è forse il produrre dell’Uno stesso al di là del caso, della scelta, della riflessione e perfino del pensiero (VI, 8)? Non sarà opportuno riflettere maggiormente, a questo proposito, anche sulle affinità tra il produrre della natura e quello dell’Uno35?

V. «Un filosofo mancato»

Nel sistema plotiniano la creazione di questo mondo spetta alla terza ipostasi, l’A-nima. Essa si mantiene a metà tra l’intelligibile e il sensibile, in quanto deve mediar-li: con la sua parte più alta contempla l’Intelligenza e le ruota attorno, con l’altra,

33 Su questo cfr. anche Accattino (2003).34 VI, 7, 1. Cfr. Chiaradonna (2008: 395).35 È quanto suggerisce anche Desideri (1998: 138-139). Sul «sovrapensiero» dell’Uno e sul suo essere al di là

del caso e della scelta, cfr. Beierwaltes (1993: 53-60). Sull’autocoscienza metaintenzionale dell’Uno e in generale sul rapporto tra conscio e inconscio in Plotino resta fondamentale Schwyzer (1960).

26 Martino Rossi Monti

l’Anima del Mondo, riproduce per così dire sensibilmente ciò che contempla, av-volgendolo nel tempo. In particolare, le cose nascono grazie alla natura, ultima fran-gia dell’Anima e principio operante direttamente sulla materia attraverso le «ragioni seminali». Queste ultime, un’eredità del pensiero stoico, sono potenze immateriali ricevute dall’Intelligenza e costituiscono il fondamento di una molteplicità razionale e non caotica (IV, 3, 10). Il lògos, al quale Plotino fa più volte riferimento, non è un’ipostasi (almeno secondo la maggioranza degli interpreti), ma un aspetto dell’In-telligenza, dell’Anima e della natura; è la razionalità che l’Intelligenza comunica a tutto ciò che viene dopo di lei. Si manifesta, nell’Anima, come pluralità di ragioni seminali che sono il riflesso delle idee; nella natura, come forza che plasma dall’inter-no i viventi e i loro organi; nel cosmo, come provvidenza che produce un’armonia di contrari (III, 2, 16)36.

Sulla scia del Timeo e dei filosofi stoici, Plotino concepisce il cosmo come un gran-de essere vivente. L’universo gli appare come una totalità animata in ogni sua parte, anche la più piccola e apparentemente insignificante, ed è bene tener presente che non si tratta di una metafora. Un’infinita varietà di esseri si rinnova continuamente:

Nell’universo c’è un’indescrivibile e meravigliosa varietà di potenze; ed è così anche nelle stelle che vanno errando nei cieli. Il mondo non dovette trasformarsi in cosmo allo stesso modo di una casa inanimata, la quale, per quanto sia grandiosa e vasta, è pur sempre formata di materiali che si possono enumerare per specie, come pietre e legnami e, se si vuole, di altre cose ancora. No, esso è desto in se stesso in ogni sua parte e vive in molteplici forme e non può esserci cosa che esso non possieda. […] Siamo noi che neghiamo la vita a ciò che non si muove coscientemente per se stesso: ogni cosa vive una sua vita segreta ed anche ciò che vive coscientemente è formato di parti che non vivono coscientemente e tuttavia apportano me-ravigliose potenze di vita a un organismo così strutturato. […] Anche l’universo crea senza bisogno di una decisione (proàiresis), poiché esso è anteriore ad ogni decisione37.

Secondo quello che Arthur Lovejoy ha denominato il «principio della pienezza», tutto ciò che costituisce il mondo intelligibile deve tradursi sensibilmente: tutte le idee devono attualizzarsi, ogni possibilità deve realizzarsi. Questa traduzione si attua però secondo Plotino in modo immediato, senza calcoli e progetti. Il cosmo non è un oggetto fabbricato le cui parti possano essere isolate ed enumerate una per una: come in un essere vivente, ogni parte è viva e connessa al tutto. Tutte le cose, insiste Plotino richiamandosi di nuovo a un’idea stoica, sono tenute insieme da un legame di «simpatia». Ma non è pensabile che qualche dio, riflettendo, abbia progettato il mondo nella sua mente per poi, in questo o quel modo, trasporlo nella realtà. L’i-dea del disegno non era solo platonica: Filone l’aveva conciliata con il creazionismo biblico e si ritrovava anche in autori cristiani e gnostici. Era anche un’idea stoica: «non riesco a comprendere come possano verificarsi senza una mente, una ragione, un piano, un disegno questa regolarità nei corpi celesti, questo così grande sincroni-smo in orbite così diverse durante tutta l’eternità», afferma Balbo, il portavoce della filosofia stoica nel De natura deorum di Cicerone (II, 21). Plotino rigetta con forza

36 Deck (1967: 56-63); Rist (1967; trad. it. 1995: 124-146). Cfr. Armstrong (2013: 98 ss.).37 Enn., IV, 4, 36.

«Un filosofo mancato» 27

queste idee. L’ordine e la razionalità non derivano da un progetto:

Noi diciamo che le cose dell’universo e l’universo stesso sono in quello stato in cui il loro creato-re, con una libera scelta (proàiresis), li avrebbe voluti, e cioè come se, avendo preparato un progetto (proièmenos) e fatte le debite previsioni (proidòn) secondo i suoi calcoli (logismòi), avesse operato con provvidenza (prònoia). Invece no; poiché le cose sono eternamente in questo stato ed eterna-mente sono generate, è evidente che anche le loro forme, stabili in un ordine superiore, risiedono lassù tutte insieme. Perciò gli esseri intelligibili sono al di là della provvidenza e al di là della scelta, e tutte le cose che appartengono all’essere sono eternamente immobili come l’Intelligenza38.

E ancora:

Poiché noi ammettiamo che esso [l’universo] derivi, nel suo essere e nella sua costituzione, da un altro essere, dobbiamo forse credere che il suo creatore (poietès) abbia dapprima escogitato (epinoèsai) da sé la terra e la necessità di collocarla al centro, e poi l’acqua così che sovrasti la ter-ra, e poi tutte le altre cose sino al cielo, e in seguito tutti i viventi e le loro forme, proprie di ogni specie, quante esistono ancora oggi, e dentro, in ciascuna, le viscere e, fuori, le membra, e che, do-po aver ordinato direttamente ogni dettaglio, abbia posto mano (epicheirèin) all’opera? No, que-sto progetto non è possibile: poiché donde sarebbe venuto ad uno che non aveva mai visto nulla? E, quando anche l’avesse tratto da altro, non avrebbe potuto realizzarlo come fanno gli artigiani (demiourgòi) che si servono di mani e di strumenti, perché mani e piedi vennero dopo39.

Ma in che modo allora l’universo sensibile deriva dall’Uno attraverso l’Intelletto e l’Anima? Riguardo a questo problema – che è uno dei più spinosi della sua filoso-fia – Plotino non possiede un’efficacia pari a quella che dimostra nella sua polemica contro i sostenitori del paradigma artigianale. La sua preoccupazione principale era quella di preservare le ipostasi da quelle attività, come la riflessione, la progettazione e la vera e propria produzione, che sembravano difficilmente separabili dal concetto di demiurgia e che erano sintomo di imperfezione. È significativo a questo proposito che l’Uno, che è al di là perfino del pensiero e dell’essere e che sembra possedere una sorta di autocoscienza sovrarazionale, venga definito da Plotino creatore e ge-neratore, ma mai demiurgo. Dall’Uno fino all’estrema propaggine del mondo intel-ligibile (la natura), ogni produzione avviene nell’immobilità e in assenza di sforzo e riflessione. Il problema di chi effettivamente debba – è il caso di dirlo – sporcarsi le mani e agire sulla materia viene continuamente rimandato: il vero demiurgo è l’Intel-ligenza, ma essa trascende la vera e propria creazione del mondo sensibile, la quale viene affidata all’anima, la cui perfezione Plotino si sforza di preservare delegando il compito alla natura. La trascendenza di ogni principio, come ha scritto molto effica-cemente Jan Opsomer (2005), viene salvata assegnandogli una sorta di «cameriera» (quella dell’Anima è appunto la natura)40. Ma nemmeno la natura, come vedremo,

38 Enn., VI, 8, 17.39 Plotino, Enn., V, 8, 7. Sulla cosmologia plotiniana – un aspetto spesso trascurato – si veda l’importante lavoro

di Wilberding (2006).40 Questo aveva anche il non trascurabile vantaggio di allontanare il più possibile dalle ipostasi la responsabilità

del male nel mondo. Similmente, in Timeo, 41a-42e, il demiurgo aveva affidato ai suoi “assistenti”, gli astri, il compito di generare gli animali e di aggiungere alla parte divina dell’anima – della quale lui stesso aveva fornito il «seme» – le parti mortali dell’uomo, ossia il corpo e la parte irascibile e concupiscibile dell’anima.

28 Martino Rossi Monti

usa mani e strumenti, ma crea «contemplando». Il problema è quindi continuamente scansato e allontanato, mai risolto, e lo dimostrano le raffinate discussioni che anco-ra circondano il problema del ruolo e dell’identità del demiurgo e della natura nelle Enneadi.

Non meraviglia quindi che Plotino si mostri spesso ambiguo a questo riguardo e oscilli tra posizioni diverse, e non credo sia possibile spiegare queste oscillazioni appellandosi all’evoluzione del suo pensiero. Nell’ottavo trattato della quinta En-neade (dalla quale è tratta la seconda delle citazioni riportate sopra), ad esempio, la traduzione del modello intelligibile (paràdeigma) nel sensibile è presentata come un evento istantaneo, al di là del tempo: la totalità sensibile, in quanto immagine di quel modello si è manifestata «improvvisamente» e senza mediazioni, grazie alla semplice «vicinanza» dell’Intelligenza. Il cosmo è immagine di una realtà superiore, e si realizza al modo in cui in uno specchio appare il riflesso di una cosa: ciò esclu-de, tra l’altro, che tale immediato riflettersi possa essere equiparato ad un copiare. Il mondo sensibile non è copia perché non c’è alcun copista né alcuna mediazione tra l’intelligibile e il sensibile. In questo caso, infatti, la stessa mediazione dell’Anima è considerata trascurabile (V, 8, 7). In realtà, non c’è mai stato un momento nel quale la materia fosse priva di ordine, nel quale il corpo del mondo fosse separato dall’A-nima: ci è concesso isolare questi elementi con il pensiero solo allo scopo di com-prenderli meglio (IV, 3, 9). Di ogni cosa si possono trovare infinite ragioni, ma esse vengono ontologicamente dopo la cosa stessa, la quale semplicemente si dà in quanto immagine immediata di un modello sovrasensibile. È come se le premesse del sillogi-smo, invece di precedere e determinare, necessitandola, la conseguenza, ne fossero il risultato: ciò che appare a noi come conseguenza è in realtà premessa, e viceversa41.

Quando si tratta però di precisare – passando dall’Intelletto all’Anima – il modo nel quale questo immediato riflettersi avvenga, le cose si fanno molto più compli-cate, e Plotino non può fare a meno di giustapporre all’immagine del riflesso e del-la derivazione immediata quella – debitamente ripulita da elementi ritenuti inferiori o volgari – della produzione artigianale e artistica. La natura, come abbiamo visto, crea in modo involontario, non riflessivo e quasi inconsapevole. Più precisamente, la natura crea contemplando. Plotino dedica alla contemplazione un intero trattato, l’ottavo della terza Enneade. Secondo la maggioranza degli interpreti, esso contie-ne la più matura delle riflessioni del filosofo sul concetto di natura42. La stranez-za dell’idea che la natura crei attraverso la contemplazione viene spesso rilevata dai

41 Enn., V, 8, 7: «Tu puoi apportare delle ragioni per le quali la terra è al centro, perché è sferica, perché l’eclittica è così disposta; ma lassù non è stato deliberato di farle così perché doveva essere così, ma perché il mondo di lassù è così com'è, anche il mondo di quaggiù è bello: è come se nel sillogismo causale la conseguenza preceda le premesse invece di venir dopo. La creazione non procede né da un ragionamento (akolouthìa) né da un progetto (epìnoia), ma è prima di qualsiasi ragionamento e progetto, poiché tutte queste cose, ragionamento (lògos), dimost-razione (apòdeixis) e prova (pìstis), sono posteriori. Dal momento che c’è un principio [l’Intelligenza], tutto ciò ne deriva senz’altro, immediatamente; ed è ben detto [cfr. Aristotele, Fis., 1, 5, 188a] che non bisogna inventare alcuna causa di tale principio, che è tale nella sua perfezione da fare tutt’uno col fine: esso è insieme principio e fine, è tutto insieme con se stesso e non ha bisogno di nulla».

42 Per un approfondimento, si vedano Deck (1967: 64-72); Hadot (1968: 124-128); Morel (2009); Wildberg (2009); D’Ancona (2009). Sulla contemplazione, cfr. Gatti (1982).

«Un filosofo mancato» 29

commentatori, e l’effetto sugli uditori di Plotino doveva essere simile, visto che egli stesso la avanza come «per scherzo» (III, 8, 1). L’inizio è contemporaneamente un richiamo e una critica ad Aristotele: Plotino afferma che tutti gli esseri aspirano alla contemplazione e la raggiungono nel limite delle loro possibilità. È un richiamo per-ché ricalca un altro celebre incipit, quello della Metafisica (I, 1, 980a: «tutti gli uomi-ni per natura tendono al sapere»); è una critica perché Aristotele riservava la con-templazione solo all’uomo, anzi solo alla parte divina dell’uomo (Cilento 1971: 122). Tutto contempla, dunque: questa l’audace affermazione di Plotino. Ma che cos’è la contemplazione? Per Plotino, la contemplazione (theorìa) è una visione intellettuale nella quale ciò che vede e ciò che è visto coincidono, una forma di conoscenza che assomiglia a una sorta di calmo possesso interiore e non alla ricerca di qualcosa che ancora non si è afferrato.

Fin dal tempo dei presocratici, una tenace tradizione (oggi tutt’altro che scompar-sa) aveva contrapposto alla contemplazione interiore e disinteressata della verità una conoscenza volta al perseguimento di fini pratici e all’azione vera e propria. È noto che per Platone tornare a occuparsi della vita politica dopo aver contemplato l’idea del Bene equivaleva a una ridiscesa nella caverna. Aristotele, per parte sua, aveva insi-stito sulla superiorità della vita teoretica su quella pratica. A partire dal I secolo a. C., la maggior parte delle scuole filosofiche abbracciarono l’idea che la suprema saggezza consistesse in una conoscenza puramente intellettuale, senza rapporto con il mondo dei sensi. Le conseguenze di questa idea sul piano etico sono piuttosto evidenti: l’a-zione e la saggezza pratica rischiano di diventare un fattore di disturbo piuttosto che di progresso morale. Più si accentua il divario tra lo spirito e la materia, più diventa difficile dimostrare che l’azione e la vita pratica debbano essere oggetto di seria atten-zione da parte dell’anima. Questo problema divenne cruciale nella tradizione platoni-ca, che più di ogni altra aveva insistito su quel divario (Dihle, 1982: 65-66).

Tutto questo vale naturalmente anche per Plotino, nella cui filosofia il problema del passaggio dalla contemplazione all’azione è vissuto sempre con un certo disa-gio. Sul piano del divino, Plotino non può scansare il problema di come (e perché) la realtà intelligibile agisca su quella sensibile, formandola. Sul piano dell’umano, il saggio sa che la virtù è necessaria, ma sa anche che «si può essere felici anche non agendo, e non meno, ma più che agendo» (I, 5, 10). Darsi ai mestieri manuali e alle tecniche è stintomo di un’insufficienza: le arti e i lavori manuali sono ciò a cui si ri-ducono coloro che, come i bambini meno intelligenti, sono incapaci di dedicarsi alla conoscenza e alla contemplazione (III, 8, 4). In questo senso, l’azione è il risultato di un’incapacità di raggiungere o di tener fermo con la propria mente l’oggetto che si cerca. La contemplazione, però, ha per Plotino anche un aspetto creativo: nel suo si-stema, infatti, ciascuna ipostasi si determina contemplando quella superiore. La con-templazione si traduce in immediata creazione, senza che questo comporti perdita o indebolimento nel generante: contemplando l’Uno, l’Intelligenza genera le idee, con-templando l’Intelligenza, l’Anima e la natura generano le ragioni seminali. Man ma-no che ci si allontana dall’Uno e ci si avvicina alla materia, però, la contemplazione si affievolisce fino a diventare, nel caso della natura, «offuscata»: ogni contemplazione infatti è immagine di quella superiore e questo comporta un progressivo indeboli-

30 Martino Rossi Monti

mento. Ciò che è creato dalla natura (il cosmo sensibile) è quindi sterile, nel senso che non è più un’ipostasi. Come ha scritto Eric Dodds (1973: 134), la natura, come il politico e l’artista, è un filosofo mancato: la sua contemplazione è diventata così de-bole che non è capace di mantenersi nelle altezze dell’intelligibile, ma può esprimersi solo nella creazione di qualcosa di materiale.

VI. Meccanici, ceroplasti, geometri

Nel trattato sulla contemplazione (III, 8), Plotino fa di tutto per preservare l’ope-ra della natura da ogni associazione con il lavoro manuale:

Che la natura non abbia né mani, né piedi, né strumenti naturali o acquisiti, ma abbisogni di una materia su cui agire e a cui dare una forma, è noto a tutti. Ed è anche necessario esclu-dere dall’opera della natura qualsiasi lavoro di leva (tò mochlèuein). Infatti, quale impulso e quale leva potrebbero produrre così grande varietà di colori e di figure? Gli scultori in cera, ai quali ci si riferisce di solito credendo l’opera loro simile a quella creatrice della natura, non possono creare i colori, ma, prendendoli altrove, li applicano agli oggetti che fanno. Infatti bisogna pensare che, per quelli che professano quell’arte, deve esserci in loro un punto sta-bile, su cui realizzano l’opera delle loro mani; una cosa è necessario ammettere nella natura e tener presente che anche qui deve esserci una potenza stabile che non opera con mani e che rimane totalmente immobile43.

I ceroplasti modellano la cera sulla base di una immagine mentale che resta fer-ma mentre le loro mani si muovono. La natura, invece, è tutta immobile, non opera estrinsecandosi, mentre è la materia che si muove e si organizza per effetto della sua sola contemplazione. Inoltre, gli artigiani usano strumenti e operano dall’esterno su un materiale già dato, al quale applicano colori e altri ornamenti reperiti altrove. La natura, al contrario, non ha a disposizione strumenti o realtà già formate, perché è lei a produrre le forme e i colori.

Di solito gli interpreti si affrettano ad assicurarci che questo tipo di immagini di-mostrano il rifiuto categorico, da parte di Plotino, del modello tecnomorfo. Ciò è in parte vero e, come si vedrà tra poco, Plotino aveva più di un obbiettivo polemico in mente. Ci si deve però chiedere se Plotino sia davvero riuscito a pensare la natura e l’arte umana come completamente separate, se, quindi sia stato davvero capace di la-sciarsi alle spalle una tradizione che, da Platone ad Aristotele e agli stoici, tendeva a pensare queste due realtà come in qualche misura connesse. Nonostante tutte le dif-ferenze, sia i platonici sia gli aristotelici sia gli stoici vedevano l’ordine naturale come effetto di un’arte (esterna o immanente, riflettente o inconscia, divina o meno che fosse). In altre parole, siamo sicuri che l’immagine del ceroplasta sia evocata solo per essere esclusa? Siamo sicuri che da quell’immagine non emerga anche che in fondo

43 Enn., III, 8, 2; cfr. V, 9, 6. Non entro qui nello spinosissimo problema di quale sia per Plotino la natura e l’origine della materia e il suo rapporto con il male. Basti tener presente che considerarla come un sostrato preesi-stente significherebbe per Plotino cadere in un dualismo al quale egli tenta in ogni modo di sottrarsi (tutto infatti deve derivare dall’Uno). Per un orientamento cfr. Isnardi Parente (1999: 136-145); O’Brien (1999).

«Un filosofo mancato» 31

la natura per Plotino è come un ceroplasta, ma un ceroplasta che crea senza usare mani e strumenti? O come un musicista che fa risuonare la sua melodia solo pensan-dola, senza toccare lo strumento? Come stanno insieme, infine, l’affermazione che è «ridicolo» paragonare l’Anima ai fabbricanti di statue (come fanno gli gnostici – II, 9, 4) e quella secondo la quale l’universo è «come una grande e bella statua animata e prodotta dall’arte (tèchne) di Efesto» (III, 2, 14) 44? I frequenti paragoni plotiniani tra l’attività creativa dell’Anima del Mondo e la creazione artistica testimoniano la presenza nel pensiero di Plotino di radicati schemi di pensiero che assai difficilmente convivevano con il modello derivazionista al quale egli voleva mantenersi fedele.

Ma chi erano i destinatari della polemica plotiniana? Probabilmente più di uno. Nel Timeo (74c), Platone aveva paragonato il demiurgo anche a un ceroplasta; ma non è questo, direi, il bersaglio di Plotino (piuttosto sono coloro che hanno preso questa immagine alla lettera). Uno dei bersagli erano sicuramente gli gnostici, co-me dimostra la frase polemica sui fabbricanti di statue citata sopra. Ma il paragone, come suggerisce lo stesso Plotino, era diffuso. Nel Didascalico (VIII), Alcinoo, un platonico vissuto pare nel II secolo d.C., parlando della disponibilità della materia informe a ricevere le forme, aveva fatto riferimento a coloro che, prima di modellar-le, levigano la cera e l’argilla rendendole il più possibile prive di forma. Nei Pensieri (VII, 23), lo stoico Marco Aurelio aveva paragonato alla cera la sostanza a partire dalla quale la natura universale plasma e riplasma gli esseri. In effetti, come ha sot-tolineato Morel (2009: 395, n. 1), proprio nella sua critica alla dottrina stoica della provvidenza divina, Alessandro di Afrodisia, nel De mixtione (226 – SVF, II, 1048), fa riferimento ai ceroplasti come a un modello indegno dell’agire divino. A questo proposito, come emerge dai lavori importanti di Sylvia Berryman (2002; 2009), si possono individuare inaspettate convergenze – nonostante le evidenti differenze – tra la tradizione neoplatonica, quella aristotelica e quella galenica.

Il medico Galeno (II secolo d.C.), al contrario di Plotino, era un sostenitore entu-siasta della teoria del mirabile disegno e faceva largo uso di paragoni tra la saggezza e previdenza della natura e la progettualità tipica delle tecniche umane. Anche lui, però, aveva criticato la similitudine con i ceroplasti. Galeno, infatti, distingueva due modi nei quali la natura poteva essere pensata come progettante: nel primo (quel-lo da lui favorito), la natura possiede capacità che sfuggono agli artigiani e ai mec-canici, come quella di compiere dall’interno trasformazioni qualitative (ad esempio, mutare il cibo in sangue e il sangue in ossa o carne); nel secondo, invece, la natura, come uno scultore, si limita a modellare dall’esterno un materiale già dato ed è inca-pace di mutarne la qualità:

44 Si tenga presente che, secondo Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XXXV, 153), la realizzazione di modelli o sculture in cera faceva parte delle competenze degli scultori almeno a partire dallo scultore greco Lisistrato (IV secolo a.C.), ma si trattava probabilmente di una pratica ben più antica. A Roma era particolarmente diffuso l’uso della cera per la realizzazione delle maschere funerarie, ricavate dal viso del morto, dipinte e poi esposte durante i funerali e nelle case (ivi, XXXV, 6; cfr. Polibio, Storie, VI, 53). La cera era usata anche come materiale per le statuette dei Lari, per le figure degli scacchi e per le bambole da bambini (Plinio, Nat. Hist., VIII, 215). L’uso è documentato anche nelle pratiche magiche, dove malefici o incantesimi venivano compiuti su riproduzioni in cera della persona da colpire. Sulla preparazione della cera, cfr. ivi, XXI, 49.

32 Martino Rossi Monti

Infatti questa natura che configura le parti [dell’animale] e che a poco a poco le fa crescere è certissimamente estesa attraverso queste parti: infatti essa le configura e le nutre e le accresce in-teramente non soltanto dall’esterno. Infatti Prassitele o Fidia o un altro scultore usavano adornare solo dall’esterno la materia, nella misura in cui potevano toccarla, ma han lasciato l’interno non ornato, non lavorato, non toccato dall’arte e senza una provvidenza, poiché essi non potevano pe-netrare in esso fino in fondo e toccare tutte le parti della materia. La natura invece non è così, ma rende ogni parte dell’osso osso, della carne carne, del grasso grasso e così ciascuna parte del resto: nessuna parte è per lei intoccabile, inelaborabile o inadornabile. Fidia, invece, non poteva rendere la cera avorio o oro, né oro cera: ciascuno di questi corpi rimanendo ciò che era all’inizio, rivestito solo dall’esterno di una forma e di una figura artistiche, era divenuto una statua perfetta. La natu-ra invece non conserva l’antica forma di nessuna materia45.

Secondo Galeno, la natura ha saggiamente fornito gli organi di alcuni «poteri» (dunàmeis) che rendono possibili determinate alterazioni qualitative. Queste altera-zioni non possono essere spiegate in termini non finalistici e quantitativi, ossia facen-do riferimento a proprietà o strutture materiali e alle loro interazioni. Anche Aristo-tele, come abbiamo visto, pensava a una finalità interna della natura, ma, al contrario di Galeno, aveva escluso una consapevole progettualità. Come Galeno, però, aveva insistito, contro gli atomisti, sull’impossibilità di spiegare i mutamenti qualitativi ri-ducendoli al disporsi causale delle particelle nello spazio. Da una prospettiva diffe-rente, Plotino, che esclude sia il caso sia la progettualità, accoglie l’idea aristotelica dell’irriducibilità dei mutamenti qualitativi e, come Galeno, vuole preservare la no-zione di trasformazione qualitativa per rendere conto del funzionamento degli orga-nismi: al contrario della natura, il ceroplasta non può creare materiali e colori, può solo usare quelli esistenti (Berryman 2009: 226).

Nel passo sui ceroplasti citato sopra, Plotino escludeva anche che la grande «va-rietà di colori e di figure» potesse essere stata prodotta per mezzo di un «lavoro di leva». In V, 9, 6, Plotino aveva scritto che la natura plasma la materia «non con spinte meccaniche, né per mezzo di leve, di cui si parla tanto, ma rendendola partecipe delle ragioni seminali». A chi si riferiva? L’idea che gli arti corporei funzionassero secon-do il principio della leva era stata avanzata da Aristotele ed era diventata un luogo comune nelle discussioni sul moto degli animali. Galeno l’aveva ripresa per illustrare la trasmissione del movimento dai muscoli ai tendini e ai nervi (De usu partium, I, 17; IV, 2). L’atomista Lucrezio aveva fatto ricorso al paragone con le macchine che smuovono e sollevano grandi pesi «con sforzo leggero» per illustrare come il corpo si muova per effetto di «corpuscoli così piccoli» (De rer. nat., IV, 898-906; cfr. Pseudo-Aristotele, Meccanica, 847b). In quanto legato anche alla trasmissione dei movimenti (e non solo della forza), il principio della leva si collegava anche a tutti quei congegni semoventi noti come autòmata, i quali, una volta azionati, funzionavano da soli e da-vano l’illusione di essere vivi. Aristotele aveva paragonato il meccanismo che regola i movimenti degli animali a quello degli automi, salvo poi escludere che i due mecca-nismi fossero identici, dato che, al contrario degli organismi, gli automi non sono in grado di trasformare il materiale di cui sono fatti (un argomento che si ritrova, come

45 Galeno, Le facoltà naturali, II, 82-83. Sul rapporto tra Galeno e la tradizione platonica cfr. Vegetti (2014).

«Un filosofo mancato» 33

si è visto, anche in Galeno)46.Come ha sostenuto Sylvia Berryman, nell’antichità si disputavano il campo non

solo l’ipotesi finalistica (interna o esterna) e quella materialistica o atomistica, ma anche una terza ipotesi, quella meccanica. A partire dall’età ellenistica, il fiorire di teorie nel campo della meccanica e lo sviluppo della tecnologia esercitarono una notevole influenza su molti pensatori greci, fornendo modelli esplicativi alternativi a quelli correnti: «la possibilità che gli animali, i corpi celesti, gli esseri umani – o addirittura l’universo intero – funzionassero come congegni meccanici meritava at-tenzione» (Berryman 2009: 2). La categoria di «meccanica», che secondo Berrryman non entrò in uso prima della metà del IV secolo a.C., non si riferiva genericamente al mondo della tecnica, ma a un nuovo genere di oggetti piuttosto vario: congegni pro-gettati per sollevare pesi, muovere fluidi, lanciare proiettili, riprodurre il movimen-to dei pianeti e imitare esseri viventi. Nonostante la loro eterogeneità, tutti questi oggetti evidenziavano le potenzialità della materia e dei suoi movimenti, mostrava-no che cosa si poteva far fare alla materia. Sembra esserci stata una ricezione filo-sofica delle idee e dei modelli provenienti dal mondo della meccanica, soprattutto nella tarda antichità: questa ricezione (che non è certo paragonabile per estensione e portata a quella avvenuta in età moderna) coinvolgeva campi diversi del sapere, dalla filosofia naturale alla medicina, dall’astronomia alla cosmologia. Molto spesso, l’esistenza di un’ipotesi meccanica emerge dalle pagine dei suoi molti detrattori, e Plotino è certamente uno di questi. La sua polemica contro leve e spinte meccaniche è probabilmente da inserire – se Berryman ha ragione – anche in questo contesto.

La natura, dunque, è contemplazione: crea rimanendo in sé, immobile: il suo es-sere è il suo stesso creare. Essa possiede già tutto e non ha bisogno di cercare o pro-grammare nulla, a differenza del pensiero riflessivo. Se infatti Plotino esclude dall’o-pera creativa della natura il lavoro manuale, l’uso di congegni meccanici e l’assem-blaggio delle parti, esclude anche il lato riflessivo tipico delle arti e delle tecniche, dove pianificazione e realizzazione procedeno nel tempo attraverso dubbi e tentativi. Gli esseri viventi, invece, sembrano formarsi istantaneamente come totalità già co-ordinate, sul modello degli esseri intelligibili: «la causa produce tutte insieme (suna-pogennào – verbo plotiniano) le parti di ciascun essere, e le parti sono d’accordo fra loro» afferma Plotino (VI, 8, 14). Tutto sembra l’effetto di un disegno, ma la natura, come l’Uno, non ha progettato nulla. Le ragioni seminali, queste forze organizzatrici che dall’interno plasmano i viventi, hanno agito anch’esse per mezzo di una saggezza immediata, senza ragionamenti o progetti: «tutto ciò che una riflessione (logismòs) assai penetrante potrebbe scoprire di meglio, si trova già tutto nelle ragioni seminali ancor prima di qualsiasi riflessione» (VI, 2, 21). Ma come e perché la natura crea? Plotino fa rispondere direttamente alla natura:

Se qualcuno le chiedesse in vista di cosa produce, essa, qualora volesse ascoltare quella do-manda e parlare, direbbe così: – Meglio sarebbe non interrogare, ma comprendere e tacere, come faccio io che taccio e non ho l’abitudine di parlare. – Ma comprendere che cosa? – Che l’esse-re generato è oggetto da me contemplato (thèama) ed oggetto naturale della mia contemplazione

46 Su questo cfr. Henry (2005); Cambiano (2006); Vegetti (2007a); Berryman (2009: 201-215).

34 Martino Rossi Monti

(theòrema); ed io stessa che sono nata da una simile contemplazione (theoria) ho una naturale ten-denza alla contemplazione; ciò che in me contempla produce un oggetto di contemplazione, come i geometri che contemplano tracciano delle figure; io invece non ne traccio, contemplo soltanto, e le linee dei corpi si realizzano, come se uscissero da me [«come cadendo giù»]. Io posseggo la disposizione di mia madre e dei miei genitori: anch’essi derivano da una contemplazione ed io sono nata senza che essi abbiano agito, ma sono stata generata perché essi sono ragioni superiori e contemplano se stessi.

Ciò che è all’opera nella natura è una saggezza immediata, attraverso la quale gli esseri si formano in un colpo solo, senza la mediazione di strumenti, concetti, di-scorsi o decisioni. La natura, dice Plotino, è come un geometra che non ha bisogno di tracciare con le sue mani le figure che contempla nella sua mente, perché esse si realizzano da sé, «cadendo giù», semplicemente perché contemplate. Come nel caso dei ceroplasti, anche qui Plotino ricorre a similitudini tratte dall’operare umano, ma cerca di purificare tale operare da elementi che disturbano la sua immagine della natura.

In questo senso, il paragone con i matematici è significativo e richiama certamen-te un passo della Repubblica di Platone (510b ss.), dove la matematica, che svolge un ruolo fondamentale nel programma educativo, è presentata come uno dei gradini che permettono di elevarsi alla contemplazione della realtà intelligibile. Qui Socra-te afferma che i matematici si servono e ragionano di figure visibili, ma pensando a qualcosa di non visibile, ossia a ciò di cui quelle figure sono immagine: tracciano figure, ma solo come ausili per cogliere qualcosa che si può vedere solo con la men-te47. Laddove però vengano applicate e si orientino verso il sensibile (con l’eccezione delle applicazioni belliche), l’artimetica e la geometria, secondo Platone, perdono la loro funzione educativa, ponendosi al servizio di interessi materiali (ivi, 526c-527c). Reviel Netz – che ha dedicato uno studio importante alla natura e al ruolo di queste figure (diagràmmata) nella matematica antica – ha sottolineato il carattere ambiguo e «liminale» della matematica. Nel mondo antico – scrive – essa era «essenzialmente connessa al mondo materiale: era spesso nota semplicemente come geometrìa [mi-surazione del terreno], un termine di per sé carico di implicazioni economiche. Era connessa a pratiche come il tracciare figure, per non parlare della costruzione di congegni meccanici, cosa che sconfinava nel banausico. D’altro lato, la matematica era estremamente teorica, nel senso che per la maggior parte era priva di connes-sioni immediate con la vita di una persona […]. L’immagine del matematico come di una persona priva di senso pratico era ben nota nell’antichità. Talete cadde in un pozzo mentre contemplava i cieli; Ippocrate di Chio fu truffato. D’altra parte, Talete ammassò una fortuna grazie alle sue conoscenze astronomiche» (1999: 304). I mate-matici, sottolinea Netz, appartenevano di norma all’élite aristocratica, e la necessità

47 Cfr. anche Platone, Eutidemo, 290c. Secondo Aristotele, la costruzione di figure non era invece un elemento accessorio, ma serviva a rendere evidente la verità del teorema in esame (Analitici posteriori, 77a). Nel Menone, Platone sembra sostenere una idea simile: Socrate guida uno schiavo alla risoluzione di un problema geometrico facendo uso di figure disegnate (82b-85e). Secondo Knorr (1975: 73-74), questo significa che, in realtà, Platone e Aristotele la pensano su questo allo stesso modo. Mi sembra più giusto insistere sul fatto che Platone si mostra tipi-camente ambiguo e oscillante a questo riguardo.

«Un filosofo mancato» 35

di tracciare figure e di acquisire l’abilità manuale per farlo doveva dare loro il senso di una pericolosa e compromettente prossimità alle competenze delle classi inferiori. «Contemporaneamente troppo pratico e troppo etereo, il matematico greco occu-pava una posizione difficile, liminale, in una società dove il confine tra il pratico e il non-pratico era avvertito come particolarmente significativo» (ivi: 305)48.

Quella di Netz è una generalizzazione da trattare con cautela, soprattutto ove la si estenda al mondo antico nel suo complesso. È certo, però, che l’ambiguità di cui parla era particolarmente sentita nella tradizione platonica, da Platone fino al ne-oplatonico Proclo (V secolo d. C.): in quella tradizione, le matematiche occupava-no una «zona intermedia» tra il mondo sensibile e quello intelligibile (Cambiano, 2006a: 132) e proprio per questo potevano svolgere una funzione propedeutica all’a-scesa verso la vera realtà (cfr. I, 3, 3). Dato che Plotino assegna alla natura la scomo-da posizione di intermediario tra l’intelligibile e il sensibile, non è forse casuale che abbia scelto di illustrare la sua attività con una similitudine tratta dal mondo della geometria. È un paragone che, rispetto all’immagine dei ceroplasti, ci proietta ben più in alto nella scala dell’essere: nella classificazione delle arti (tèchnai) in V, 9, 11, infatti, alla geometria (che si occupa degli intelligibili) spetta, insieme alla sapienza, il posto più alto. Tuttavia, il geometra traccia figure, e, nel farlo, oltre a far uso di mani e strumenti, rischia anche di “contaminare” la purezza e perfezione degli enti che contempla49. Non è forse casuale, in questo senso, che nel suo commento a Euclide Proclo abbia per così dire trasposto nell’immaginazione (phantasìa) l’operazione del tracciare figure al fine di visualizzarne ed esplicitarne le proprietà: «occorreva una forma di movimento perché i lògoi geometrici potessero incarnarsi in figure suscetti-bili di operazioni, divisioni, aggiunte, e così via» (Cambiano, 2006a: 141). Si trattava, però, di un movimento “interiore” e non sensibile, simile forse alle manipolazioni delle immagini mentali studiate dallo psicologo e neuroscenziato Stephen Kosslyn (1994: 335-339), il quale tra l’altro ha insistito sul potenziale conoscitivo e creativo di queste operazioni.

Ma torniamo alle parole pronunciate dalla natura di Plotino: «Io non traccio figu-re, contemplo soltanto, e le linee dei corpi si realizzano». Alla luce di quanto detto fin qui, mi riesce difficile non percepire in questa rivendicazione (oltre a una certa affinità con l’«onnipotenza del pensiero» tipica del mondo magico) anche un certo orgoglio aristocratico50. Ancora una volta, mi sembra ci sia qui una forte tensione: da un lato, Plotino fa di tutto per eliminare ogni rappresentazione antropomorfica della natura; dall’altro, non può fare a meno di ricorrere a immagini e similitudini trat-

48 Su questi temi si veda anche Cuomo (2001: 39-61; 192-211). Sul passo platonico e sul ruolo della matematica nella tradizione platonica cfr. anche Burnyeat (2012).

49 Cfr. Enn., VI, 3, 16, dove Plotino distingue tra due tipi di geometria e aritmetica, l’uno rivolto al sensibile, l’altro all’intelligibile.

50 Diversamente Hadot (1968: 124-125), che insiste, richiamandosi a Proclo, sul fatto che nel platonismo tardo «la costruzione di una figura geometrica non è più confusa con la produzione di un oggetto fabbricato», salvo poi dover precisare che, nel caso della natura di Plotino, «la mano del geometra non interviene». Sulla scrittura e sul ruolo delle figure nella geometria greca cfr. Cambiano (2006b). Charles-Saget (1982) non fornisce un esame del passo plotiniano, ma lo menziona solo di passaggio (si vedano però le pp. 162-166 sull’atteggiamento di Plotino verso la matematica); piuttosto sbrigativa e poco illuminante su questo punto anche Slaveva-Griffin (2009: 9).

36 Martino Rossi Monti

te dal mondo delle attività umane, salvo poi eliminare da quelle stesse attività ogni compromissione con il mondo dell’azione, della manualità e del pensiero rifletten-te. È come se l’idea contemplata nella mente si realizzasse da sola, dando forma alla materia senza la mediazione di mani e strumenti: l’attività umana è dunque elevata a principio cosmico, ma solo nella misura in cui è debitamente purificata dagli elemen-ti che più disturbano lo spiritualismo aristocratico di Plotino. È bene tenere sempre presente, infatti, quale fosse l’opinione di Plotino (e della tradizione cui appartene-va) a proposito del lavoro manuale e della differenza fra il saggio e «i molti».

[Il saggio] sa che duplice è la vita, quella dei saggi e quella della maggioranza; quella dei saggi è rivolta verso l’essere eccelso, verso l’alto; quella di coloro che sono più umani51 si sud-divide in due: l’una si ricorda ancora della virtù e partecipa in qualche modo del bene; e c’è quella folla spregevole dei lavoratori manuali (phàulos òchlos òion cheirotèchnes) destinati a produrre ciò che è necessario ai migliori52.

Non si trattava certamente di un’opinione originale: la maggior parte delle scuo-le filosofiche dell’antichità l’avrebbero sottoscritta. Questo non significa che Plotino mettesse un matematico o uno scultore come Fidia sullo stesso piano di un vasaio o di un fabbro. Ciò non toglie che il lavoro delle mani (e chi lo praticava) richiamasse alla sua mente l’aggettivo «spregevole»: questo, anche se non desta meraviglia visto il ruolo che la schiavitù svolgeva nell’antichità53, non va mai dimenticato, soprattut-to quando ci si interroga su quali fossero gli argomenti “forti” alla base del rifiuto dell’immagine dell’artigiano divino – e anche quando si vagheggia di una francesca-na caritas o universale «dolcezza» di Plotino verso l’intero genere umano54.

VII. Modello biomorfo?

Si è spesso insistito sul carattere biomorfo del processo produttivo delle ipostasi plotiniane: a differenza del cosiddetto modello tecnomorfo, esemplato invece sull’a-gire tecnico e fabbricativo dell’uomo, il modello di Plotino sarebbe esemplato sul-lo spontaneo generarsi della vita e per questo, qualcuno ha aggiunto, esso sarebbe molto meno antropomorfico degli altri55. In effetti, in passi celebri Plotino illustra la derivazione delle cose dall’Uno paragonandola a processi come l’irradiazione della luce dal sole, il trasmettersi del calore dal fuoco o del freddo dalla neve, lo spander-si del profumo dalle sostanze odorose o il formarsi di ombre e di immagini rifles-se (V, 1, 6). Altrettanto celebri sono le immagini della sorgente e delle radici di un grande albero (III, 8, 10). Onnipresente poi è il termine «generazione» (gènesis) per esprimere il produrre dell’Uno e delle ipostasi (un termine che, per inciso, non mi

51 Nel senso di inferiori al saggio, “non divini”.52 Enn., II, 9, 9.53 L’unica differenza tra schiavi e operai, aveva detto Aristotele, è che i primi provvedono ai bisogni di una

persona sola mentre i secondi a quelli di molti (Politica, 1278a).54 Cfr. Faggin (1993: 140); Hadot (1997; trad. it. 1999: 92).55 Mathieu (1967: 110).

«Un filosofo mancato» 37

pare esattamente alieno da elementi antropomorfici: in III, 8, 11, ad esempio, Ploti-no parla dell’Intelligenza come di un «figlio» generato dall’Uno)56. Non si è invece insistito abbastanza, mi pare, sul fatto che alle immagini biomorfe si alternano spesso altre immagini, tratte dal mondo delle attività umane. Questo succede soprattutto quando si tratta dell’Anima e della natura, alle quali spetta il compito ingrato di fare finalmente qualcosa, di produrre qualcosa di materiale. Non stupisce allora che qui subentrino similitudini o immagini tratte dal mondo della tecnica e dell’arte vera e propria57, dato che si è in presenza di una materia che deve essere formata.

Tali similitudini, però, sono ambigue, e perfino pericolose, perché danno un’im-magine empia e umiliante della divinità, quindi Plotino si affretta a negare che la natura sia davvero come un ceroplasta o un geometra o un artista58. Ne deriva l’idea della contemplazione produttiva, affascinante quanto si vuole, ma piena di contraddi-zioni: in definitiva, essa è un fare che non è un fare, un produrre senza produrre. La conclusione di Deck (1967: 108-109) – raggiunta con una certa fatica e a quanto pa-re per lui soddisfacente – secondo la quale Plotino avrebbe in mente un fare (o una causalità efficiente) più «autentico» e «reale» di quello ordinario, ma al contempo in qualche misura «analogo» a esso, mi sembra tutt’altro che risolutiva. Deck inoltre trascura la dimensione storica del problema59.

Ho insistito sull’ambiguità del rifiuto plotiniano del modello tecnomorfo. Tra le ragioni che lo motivano, il disprezzo per le attività manuali mi pare svolga un ruo-lo non marginale. Quel rifiuto mi appare ambiguo perché non impedisce a Plotino di oscillare continuamente tra immagini assai diverse, se non opposte. Da un lato, infatti, il modo di creare della natura è paragonato al modo nel quale «un corpo ri-scaldato trasmette la forma del calore a un oggetto che è in contatto con esso e lo rende caldo, anche se in grado minore» (IV, 4, 13; cfr. II, 3, 17). Dall’altro, la natura appare come un geometra o un ceroplasta che disegna o modella senza mani e so-lo grazie a una contemplazione interiore. Frederic M. Schroeder (1992: 36-39) ha insistito finemente sull’esistenza di una complementarità tra le immagini tratte dal

56 Ammesso poi che, per Plotino, il paradigma della generazione e quello artigianale siano davvero completa-mente separabili: Aristotele (De gen. anim., 730b) aveva paragonato il liquido seminale a un artigiano (demiourgòs) che dà forma alla materia. Porfirio chiamerà invece «demiurgo» l’anima della madre che dà forma al corpo del figlio. Wilberding (2008a) ritiene che su questo Plotino la pensasse come Porfirio. L’idea che le ragioni seminali «plas-mino» e «foggino» gli animali (Enn., IV, 3, 10) sembra confermare questa ipotesi. Gli stoici (O’Brien, 2012) avevano pensato la cosmologia in termini sia procreativi (Dio, la ragione seminale del mondo, è come lo sperma avvolto nel liquido seminale) sia artigianali (la natura come fuoco artigiano). Tutta la questione meriterebbe un maggior appro-fondimento.

57 Sul bello e l’arte in Plotino si vedano De Keyser (1955); Rich (1960); Armstrong (1975); O’Meara (1993); Guidelli (1999: 93-200); Halliwell (2002: 313-323).

58 Così come l’Uno naturalmente non è davvero come il fuoco (che può spegnersi) o come la fonte (che può sec-carsi). Si dice spesso (cfr. ad esempio Rist, 1967; trad. it. 1995: 110) che Plotino si serve di queste metafore imperfette nello sforzo di descrivere qualcosa che trascende ogni descrizione, ma si può altrettanto legittimamente sostenere che Plotino pensi l’origine di tutto sulla base di una proiezione e idealizzazione di processi naturali o attività umane.

59 Deck era convinto che l’indagine storica coincidesse semplicemente con il riassunto di ciò che un filosofo ha detto e con la giustapposizione ragionata di passi scelti di quel filosofo. Il suo obbiettivo invece era ben altro: comprendere filosoficamente quello che Plotino affermava in modo che la comprensione del nostro mondo ne venisse «illuminata» (81). Il fatto che il nostro mondo e quello di Plotino siano due mondi completamente diversi non sem-bra averlo preoccupato eccessivamente. Si tratta purtroppo di un atteggiamento piuttosto diffuso tra gli interpreti della tradizione platonica e neoplatonica.

38 Martino Rossi Monti

mondo naturale e quelle tratte dal mondo dell’arte e dell’artigianato: le prime (come l’immagine riflessa – ma possiamo pensare anche alla trasmissione del calore) dan-no l’idea della continuità dinamica tra il regno dell’intelligibile e quello sensibile, le seconde pongono l’accento sulla loro distanza e separazione, impedendone la confu-sione. Questo è certamente vero, ma tende a trasformare una coesistenza conflittuale in una convivenza pacifica. Inoltre non credo che sia questa l’unica ragione alla base della scelta di usare entrambe quelle immagini.

Plotino ha un atteggiamento ambivalente verso le attività tecniche (Morel 2009: 396). Da un lato le disprezza, ma dall’altro le valorizza in quanto vi scorge un legame forte con la dimensione intelligibile. In un passo del terzo trattato della quarta Enne-ade, ad esempio, Plotino contrappone esplicitamente l’arte (tèchne) ai poteri creativi della natura e dell’Anima: «l’anima agisce non per riflessione estrinseca (gnòme), né attende deliberazione (boulè) o esame (skèpsis): in questo caso non agirebbe secondo natura, ma secondo un’arte venuta dal di fuori. Ma l’arte è posteriore alla natura: essa la imita producendo soltanto immagini (mimèmata) squallide ed inerti, dei tra-stulli (pàignia) di poco valore, adoperando vari strumenti per produrre un simulacro (èidolon) della natura» (IV, 3, 10; cfr. II, 9, 12). È chiaramente una visione fedele al-la tradizione platonica. Ma non è l’unica: non bisogna giudicare male l’arte, afferma Plotino – riferendosi in questo case all’arte vera e propria – in un testo celebre (V, 8, 1), quando si dice che essa è imitazione della natura, dal momento che anche la natura è imitazione, poiché crea a imitazione dell’intelligibile. L’arte e la natura cre-ano entrambe guardando all’intelligibile. Ma c’è di più, l’arte è capace di aggiungere qualcosa che alla natura manchi: quando Fidia scolpì il suo Zeus, non si rifece ad un modello sensibile, esistente in natura, ma lo colse «quale sarebbe apparso», ammesso che avesse acconsentito a mostrarsi ai nostri occhi.

Non è tutto: l’attività demiurgica stessa è paragonata da Plotino all’operare delle arti: in III, 2, 13 Plotino parla dell’ordine e della bellezza del mondo come dell’ef-fetto di un’«arte meravigliosa» che crea continuamente (difficile dire se si tratti o no di una delle arti mimetiche). Tale ordine è conforme all’Intelligenza, ma allo stesso tempo non deriva dalla riflessione (logismòs), eppure è tale e quale l’avrebbe crea-to la migliore riflessione (III, 2, 14). Poco dopo, l’attività creatrice del lògos, inteso come vita del tutto, è detta «artistica» e paragonata alla danza: «il danzatore infatti assomiglia a questa vita che procede artisticamente (technikè zoè); l’arte lo muove e lo guida così come procede la vita negli esseri» (III, 2, 16). Anche la scultura, come si è visto, è chiamata in causa: l’universo è «come una grande e bella statua animata e prodotta dall’arte (tèchne) di Efesto» (III, 2, 14). In V, 8, 5, Plotino afferma che c’è una medesima sapienza (sophìa) alla base dei prodotti della natura e dell’arte e che questa sapienza non procede attraverso teoremi, ma è un tutto unitario che si traduce in una molteplicità. Lungi dal contrapporsi, la creatività della natura e quella dell’arte (o delle arti) sembrano in questo caso affini60: a differenza che in altri passi, Plotino non accenna infatti all’aspetto riflessivo e deliberativo dell’arte umana. In un altro luogo, in effetti, è scritto:

60 Cfr. De Keyser (1955: 44-45, 51).

«Un filosofo mancato» 39

Soltanto quaggiù ha luogo la riflessione (logismòs), quando cioè essa [l’anima] è nell’incertezza ed è piena di ansie e in condizioni di maggior debolezza: aver bisogno della riflessione è per l’in-telligenza una diminuzione della sua autosufficienza (autarkèia). Così è anche nelle arti: la rifles-sione soccorre gli artisti quando sono incerti, ma quando non c’è alcun ostacolo l’arte domina e crea61.

Anche Aristotele aveva scritto che l’arte non delibera, e Plotino cita questa espres-sione in un passo delle Enneadi (IV, 8, 8) in cui descrive l’ordinamento del tutto da parte dell’Anima del Mondo. C’era evidentemente un lato o un momento dell’agi-re tecnico o artistico che Plotino non considerava spregevole: il momento nel quale l’agire dell’artista e dell’artigano diventa automatico, fluido e sicuro, senza per que-sto essere irrazionale o inconscio62. Vi era una forma di pensiero superiore a quel-lo riflessivo e deliberativo: una sorta di saggezza immediata propria dell’Anima del Mondo, della natura e dei corpi celesti, ma alla quale anche l’uomo, in gradi diversi secondo le attività, poteva innalzarsi. Era come una contemplazione interiore che ri-mane paga di sé, oppure si estrinseca nell’azione. Questa estrinsecazione, però, non è giudicata negativamente da Plotino. Infatti, in questo caso, l’azione non è l’effetto di una incapacità nel contemplare, ma la conseguenza della contemplazione stessa, dalla quale tale azione fluisce spontaneamente. Plotino probabilmente pensava che a questo stato corrispondesse anche una forma superiore di autocoscienza, diversa da quella che, interponendosi tra il soggetto e l’azione, offusca e ostacola l’azione stessa:

Molte attività (enèrgeiai), contemplazioni (theorìai) e azioni (pràxeis) si potrebbero trovare, e assai belle, anche nella veglia, pur non accompagnate da coscienza (tò parakolouthèin) e proprio quando contempliamo (theoroùmen) o agiamo. Infatti non è necessario che colui che legge abbia coscienza di leggere, specialmente se legge attentamente; né colui che agisce coraggiosamente ha coscienza di agire con coraggio, finché agisce: e così in mille altri casi simili. Cosicché la coscienza pare offuschi gli atti che essa rende consci, i quali, da soli, hanno più purezza, più forza, più vita; e in questo stato consiste la vita più intensa degli uomini diventati saggi, poiché essa non si disperde nella sensazione (aìsthesis), ma si raccoglie in se stessa in un unico punto63.

Smettere di riflettere, dunque, significa contemplare e, posto che la contempla-zione trapassi nell’azione virtuosa o nella creazione artigianale o artistica, lasciare da parte ogni incertezza ed esitazione in favore di un agire sicuro e disinvolto.

Resta il fatto che l’azione così come l’opera sono compromesse con il mondo della materia e con i limiti che esso impone, e perciò sono inferiori al loro modello intel-ligibile contemplato nell’interiorità – così come il cosmo è inferiore, per bellezza e dignità, al suo modello sovrasensibile. Inoltre, anche laddove l’azione o la creazio-

61 Enn., IV, 3, 18.62 Cfr. Enn., IV, 4, 12: «Chi riflette è simile a uno che suoni la cetra per acquistare l’arte del citaredo, o a uno

che si eserciti per conquistare qualche abilità, o, in generale, a uno che impari per conseguire una certa conoscenza. Chi riflette, cerca di imparare ciò che il sapiente possiede già: perciò il pensiero razionale è in colui che ha cessato di riflettere. Ne è testimone quello stesso che riflette; quando egli ha trovato ciò che occorre, cessa di riflettere perché è in possesso del vero pensiero». È significativo che questo esempio venga introdotto per illustrare l’operare creativo dell’Anima del Mondo.

63 I, 4, 10. Cfr. Schwyzer (1960: 370); Warren (1964); Smith (1978); McGroarty (2006: 149-161); Wilberding (2008).

40 Martino Rossi Monti

ne fluiscano dalla contemplazione, esse non possono esimersi dall’uso di strumenti e mediazioni. L’opera dell’artista o dell’artigiano, poi, non è viva, al contrario di quel-la dell’Anima del Mondo: per questo, «un uomo brutto ma vivo è più bello di una statua bella» (VI, 7, 22). L’Uno, d’altra parte, resta superiore e indifferente alle sue manifestazioni: «non ha bisogno delle cose da lui generate» (V, 5, 12). Come ha giu-stamente sottolineato Stephen Halliwell (2002: 322), l’atteggiamento ambivalente di Plotino verso le arti e le tecniche è anche il sintomo di una irrisolvibile tensione che caratterizza in generale il suo pensiero (e, aggiungerei, quello dell’intera tradizione platonica): una tensione tra l’ideale della «fuga» dal mondo sensibile e la tendenza a trovare in quel mondo e nella sua bellezza un’eco della realtà intelligibile. L’anima e il corpo di Plotino, conclude Halliwell, non condividevano sempre lo stesso luogo64.

VIII. Conclusione

È noto che l’immagine del mondo e dell’uomo che ci consegna la scienza moder-na sembra a molti non essere delle più esaltanti: il nostro pianeta è perso in un uni-verso in espansione nel quale le stelle, i pianeti e le innumerevoli galassie hanno una vita lunghissima, ma limitata. L’uomo è il prodotto effimero e casuale di una natura cieca e priva di scopi. La sua esistenza e la sua storia non sono al centro di un dise-gno provvidenziale e le sue idee, speranze e creazioni sono destinate a finire con lui. Darwin ha distrutto l’illusione della nobiltà delle nostre origini e modificato profon-damente l’immagine della natura. La natura non ci appare più come una benevola e saggia totalità armonica, ma come una realtà ambigua e contraddittoria, nella quale «l’equilibrio è sempre precario, l’ordine si fonda su spreco e distruzione immensi e su interazioni estremamente complesse in cui eventi casuali svolgono un ruolo deci-sivo». La bellezza e l’ordine della natura emergono da uno sfondo oscuro: in Dar-win, «l’aspetto sereno, maestoso, lussureggiante della natura coesisteva con l’aspetto tragico. La natura era insieme crudele e benefica, avara e prodiga»65. «Che gran li-bro – scrisse in una lettera del 1856 – potrebbe scrivere un cappellano del diavolo sulle opere maldestre, gli sprechi, la grossolana bassezza e l’orrenda crudeltà della natura!»66.

Insomma, ce n’è abbastanza per far inorridire di nuovo il giovane Goethe. È evi-dente, infatti, che non è facile per nessuno accettare un’immagine del mondo come quella appena descritta. «Noi – ha scritto il biologo Jacques Monod (1970; trad. it 1970: 46) – vogliamo essere necessari, inevitabili, ordinati da sempre. Tutte le reli-gioni, quasi tutte le filosofie, perfino una parte della scienza, sono testimoni dell’in-stancabile, eroico sforzo dell’umanità che nega disperatamente la propria contingen-za». Non meraviglia quindi che, di fronte alle angosce del presente, diversi interpreti

64 Sulla corrente di pessimismo interna alla filosofia di Plotino e sull’ambivalenza di Plotino stesso verso tutto ciò che non è l’Uno (aspetti, questi, troppo spesso minimizzati o trascurati dagli interpreti) si vedano le equilibrate considerazioni di Torchia (1993: 1-5; 127-131).

65 Bondì, La Vergata (2014: 165).66 Cit. in ivi: 170. Su questi temi, si vedano anche La Vergata (1990: 515-614); Bartalesi (2012: 15-55).

«Un filosofo mancato» 41

della tradizione neoplatonica abbiano trovato nella filosofia della natura di Plotino una sorta di rassicurante alternativa. Da più parti, sono state esaltate sia l’«attualità» della polemica plotiniana contro il caso e il paradigma artigianale sia l’idea che l’or-dine naturale sia la traduzione immediata e automatica di un ordine intelligibile, eterno e autofondantesi67. Plotino, trasformato per l’occasione in un precursore di Bergson, è stato non di rado arruolato nella battaglia contro il darwinismo, la «gno-si» dei tempi moderni. La sua filosofia della natura è stata presentata come un vali-do antidoto al predominio della tecnica, al «disastro ecologico»68 e al nostro «cinico nichilismo»69. Il discorso che Plotino fa pronunciare alla natura (III, 8, 4) ha susci-tato adesioni entusiastiche: «Questo testo magnifico», ha scritto ad esempio Pierre Hadot,

è probabilmente il più profondo che sia mai stato scritto sul mistero della natura [...] Questa natura, il cui silenzioso sguardo fa nascere le forme attraverso un disegno che si dise-gna da solo, è la natura artista, che ci parla in silenzio, nella bellezza delle forme viventi, è la saggezza immediata che, senza ragionamento, senza piano prestabilito, inventa gli organismi, è infine la visione unica, la percezione universale che rende visibili tutte le cose70.

Sposando questa immagine della natura, che Hadot rintraccia in una tradizione che va da Plotino a Bergson passando per Goethe, l’uomo moderno, «tagliato fuori dal mondo sensibile» a causa dell’economia e della tecnica, sarebbe capace di recu-perare «il segreto dell’arte di vivere»71. Le citazioni potrebbero continuare a lungo.

Ho molti dubbi sul fatto che quella della “natura artista” sia per Hadot una sem-plice metafora. Piuttosto, mi sembra che quell’accostamento abbia ragioni emotive, legate al bisogno di riconoscere nella natura qualcosa di familiare e benevolo, di col-mare quell’insondabile vuoto di senso che ci separa da essa. La concezione ploti-niana della natura, però, va sempre vista sullo sfondo della sua filosofia e della sua visione del mondo. Di quella visione del mondo – che è completamente diversa dalla nostra – fanno parte presupposti e credenze che spesso gli interpreti tendono a tra-scurare o a considerare irrilevanti rispetto all’atemporale “messaggio” della filoso-fia plotiniana. Come molti suoi contemporanei, Plotino condivideva in gran parte il modello aristotelico-tolemaico dell’universo, credeva nell’animazione universale, nell’immortalità dell’anima, nella reincarnazione, nell’esistenza dei demoni, pensava che gli astri fossero esseri vivi e divini, capaci di offrire segni e di influenzare in parte il nostro carattere, credeva in un’efficacia parziale delle pratiche magiche e pensava che i mali che subiamo siano il castigo di misfatti che abbiamo compiuto in una vita precedente. Io non credo che la concezione plotiniana della natura sia indipenden-te dalle credenze e dagli assunti che ho sommariamente elencato. Certo, è sempre

67 Mathieu (1967; 2004: 80); Samek Lodovici (1982). Cfr. Hadot (1968: 118-128).68 Mathieu (2004: 118). Beierwaltes (1993: 25-27) accoglie con entusiasmo le opinioni di Mathieu e auspica non

solo una «attualizzazione» del pensiero plotiniano, ma anche una «adesione intensa e non solo storicamente distac-cata», addirittura una «assimilazione (homòiosis)» a esso.

69 Majumdar (2007: 2).70 Hadot (1968: 124).71 Ivi, 128.

42 Martino Rossi Monti

possibile estrarre da essa gli ingredienti che più ci aggradano e preparare – per usare una espressione di Giuseppe Cambiano (1988: IX) – «ottime tisane», adatte a calma-re le inquietudini che ci affliggono. Così facendo, però, faremmo un torto a Plotino, e forse anche a noi stessi.

Riferimenti bibliografici

AccAttino, P. (2003), Processi naturali e comparsa dell’eidos in Alessandro di Afrodisia, in G. Movia (a cura di), Alessandro di Afrodisia e la Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano, pp. 167-186.

Aristotele (1995), Fisica, trad. it. di L. Ruggiu, Rusconi, Milano.

Armstrong, A.H. (1975), Beauty and the Discovery of Divinity in the Thought of Plotinus, in J. Mansfeld e M. de Rijk (a cura di), Kephalaion. Studies in Greek Philosophy and its Conti-nuation offered to Professor C. J. de Vogel, Van Gorcum, Assen, pp. 155-163.

Armstrong, A.H. (2013), The Architecture of the Intelligible Universe in the Philosophy of Plotinus. An Analytical and Historical Study, Cambridge University Press, Cambridge.

BAltes, M. (1976-1978), Die Weltenstehung des platonischen Timaios nach den antiken Inter-preten, Brill, Leiden, 2 voll.

BArtAlesi, l. (2012), Estetica evoluzionistica. Darwin e l’origine del senso estetico, Carocci, Roma.

BeierwAltes w. (1993), Plotino. Un cammino di liberazione verso l’interiorità, lo Spirito e l’Uno, tr. it. di E. Peroli, Vita e Pensiero, Milano.

BerrymAn, s. (2002), Galen and the Mechanical Philosophy, in «Apeiron», XXXV, pp. 235-253.

BerrymAn, s. (2009), The Mechanical Hypothesis in Ancient Greek Natural Philosophy, Cam-bridge University Press, Cambridge.

BiAncHi, l. (1984), L’errore di Aristotele. La polemica contro l’eternità del mondo nel XIII secolo, La Nuova Italia, Firenze.

Bondì, r. e lA VergAtA, A. (2014), Natura, Il Mulino, Bologna.

Brisson, l. (1998), Le même et l’autre dans la structure ontologique du Timée de Platon. Un commentaire systématique du Timée de Platon, Academia, Sankt Augustin.

BurnyeAt, m.F. (2012), Platonism and Mathematics. A Prelude to Discussion, in Explorations in Ancient and Modern Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge, vol. II, pp. 145-172.

cAmBiAno, g. (1971), Platone e le tecniche, Einaudi, Torino.

cAmBiAno, g. (1988), Il ritorno degli antichi, Laterza, Roma-Bari.

cAmBiAno, g. (2006), Automaton, in Figure, macchine, sogni. Saggi sulla scienza antica, Edi-zioni di Storia e Letteratura, Roma, pp. 175-196.

«Un filosofo mancato» 43

cAmBiAno g. (2006a), Proclo e il libro di Euclide, in Figure, macchine, sogni. Saggi sulla scien-za antica, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, pp. 131-144.

cAmBiAno g. (2006b), La scrittura della dimostrazione in geometria, in Figure, macchine, so-gni. Saggi sulla scienza antica, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, pp. 55-80.

cHArles-sAget, A. (1982), L’architecture du divin. Mathématique et philosophie chez Plotin et Proclus, Les Belles Lettres, Paris.

cHArrue J. m. (1987), Plotin lecteur de Platon, Les Belles Lettres, Paris.

cHiArAdonnA, r. (2002), Sostanza movimento analogia. Plotino critico di Aristotele, Biblio-polis, Napoli.

cHiArAdonnA, r. (2008), Hylémorphisme et causalité des intelligibles. Plotin et Alexandre d’Aphrodise, «Les Études philosophiques», 86, 2008, pp. 379-397.

cHiArAdonnA, r. e trABAttoni, F. (2009, a cura di), Physics and Philosophy of Nature in Greek Neoplatonism, Brill, Leiden.

cicerone (1994), La natura divina, trad. it. di C.M. Calcante, Rizzoli, Milano.

cilento, V. (1971, a cura di), Paideia antignostica. Ricostruzione d’un unico scritto da Ennea-di III 8, V 8, V 5, II, 9, Le Monnier, Firenze.

cornFord, F.m. (1935), Plato’s Cosmology. The Timaeus of Plato, Routledge, London.

cuomo, s. (2001), Ancient Mathematics, Routledge, London and New York.

cuomo, s. (2007), Technology and Culture in Greek and Roman Antiquity, Cambridge Uni-versity Press, Cambridge.

d’AnconA, c. (2009), Modèles de causalité chez Plotin, in «Les Études philosophiques», XC, pp. 361-385.

deck, J.n. (1967), Nature, Contemplation, and the One. A Study in the Philosophy of Ploti-nus, University of Toronto Press, Toronto.

de keyser, e. (1955), La Signification de l’art dans les Ennéades de Plotin, Bibliothèque de l’Université de Louvain, Louvain.

desideri, F. (1998), L’ascolto della coscienza. Una ricerca filosofica, Feltrinelli, Milano.

diHle, A. (1982), The Theory of Will in Classical Antiquity, University of California Press, Berkeley.

dillon, J. (1980), The Descent of the Soul in Middle Platonic and Gnostic Thought, in B. Layton (1992, a cura di), The Rediscovery of Gnosticism, Brill, Leiden, vol. I, pp. 357-364.

dillon, J. (2003), The Heirs of Plato. A Study of the Old Academy (347-274 BC), Clarendon Press, Oxford.

dodds, e.r. (1965), Pagan and Christian in an Age of Anxiety, Cambridge University Press, Cambridge, trad. it. (1970), Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, La Nuova Italia, Fi-renze.

dodds, e.r. (1973), Tradition and Achievement in the Philosophy of Plotinus, in The Ancient

44 Martino Rossi Monti

Concept of Progress and Other Essays on Greek Literature and Belief, Clarendon Press, Ox-ford, pp. 126-139.

elsAs, cH. (1975), Neuplatonische and gnostische Weltablehnung in der Schule Plotins, Wal-ter de Gruyter, Berlin and New York.

FAggin, g. (1993), Plotino, Asram Vidya, Roma.

Furley, d. (1987), The Greek Cosmologists, Cambridge University Press, Cambridge, 2 voll.

gAleno (1978), L’utilità delle parti, trad. it. a cura di I. Garofalo e M. Vegetti, in Opere scel-te di Galeno, Utet, Torino, pp. 291-832.

gAtti, m.l. (1982), Plotino e la metafisica della contemplazione, Cusl, Milano.

gemelli mArciAno, m.l. (2007), Democrito e l’Accademia. Studi sulla trasmissione dell’ato-mismo antico da Aristotele a Simplicio, Walter de Gruyter, Berlin and New York.

genequAnd, cH. (1984), Quelques aspects de l’idée de nature, d’Aristote à al-Ghazali, in «Re-vue de théologie et de philosophie», CXVI, 1984, pp. 105-129.

goetHe, J.w. (1811-1814), Aus meinem Leben. Dichtung und Wahrheit, Cotta, Stuttgart und Tübingen, 3 voll., trad. it. di A. Cori (1957), Dalla mia vita. Poesia e verità, Utet, Torino, 2 voll.

guidelli, c. (1993), Dall’ordine alla vita. Mutamenti del bello nel platonismo antico, Clueb, Bologna.

HAdot, P. (1968), L’apport du néoplatonisme à la philosophie de la nature en Occident, in «Eranos Jahrbuch», pp. 90-132.

HAdot, P. (1997), Plotin ou la simplicité du regard, Gallimard, Paris, trad. it. di M. Guerra (1999), Plotino o la semplicità dello sguardo, Einaudi, Torino.

HAlliwell, s. (2002), The Aesthetics of Mimesis. Ancient Texts and Modern Problems, Prin-ceton University Press, Princeton.

Henry, d. (2005), Embryological Models in Ancient Philosophy, in «Phronesis», L, pp. 1-42.

isnArdi PArente, m. (1998), Introduzione a Plotino, Laterza, Roma-Bari.

knorr, w.r. (1975), The Evolution of the Euclidean Elements. A Study of the Theory of In-commensurable Magnitudes and its Significance for Early Greek Geometry, Reidel, Dor-drecht and Boston.

kosslyn, s.m. (1994), Image and Brain. The Resolution of the Imagery Debate, The MIT Press, Cambridge, Mass.

kuHn, t.s. (1957), The Copernican Revolution. Planetary Astronomy in the Development of Western Thought, Harvard University Press, Cambridge, Mass., trad. it. di T. Gaino (1972), La rivoluzione copernicana. L’astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occi-dentale, Einaudi, Torino.

lA VergAtA, A. (1990), L’equilibrio e la guerra della natura. Dalla teologia naturale al darwi-nismo, Morano, Napoli.

lewis, n.d. (2013), Cosmology and Fate in Gnosticism and Graeco-Roman Antiquity. Under Pitiless Skies, Brill, Leiden.

«Un filosofo mancato» 45

loVeJoy, A.o. (1936), The Great Chain of Being. A Study of the History of an Idea, Har-vard University Press, Cambridge, Mass., trad. it. di L. Formigari (1966), La grande catena dell’essere, Feltrinelli, Milano.

lucrezio (1992), La natura delle cose, trad. it. di G. Milanese, Mondadori, Milano.

mAJumdAr, d. (2007), Plotinus on the Appearance of Time and the World of Sense. A Panto-mime, Ashgate, Aldershot.

mAtHieu, V. (1967), L’unità del vivente, in «Filosofia», pp. 93-130.

mAtHieu, V. (2004), Come leggere Plotino, Tascabili Bompiani, Milano.

mcgroArty, k. (2006), Plotinus on Eudaimonia. A commentary on Ennead I.4, Oxford Uni-versity Press, Oxford.

monod, J. (1970), Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne, Editions du Seuil, Paris, trad. it. di A. Busi (1970), Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Mondadori, Milano.

morel, P.-m. (2002), Le Timée, Démocrite et la nécessité, in M. Dixsaut e A. Brancacci (2002, a cura di), Platon source de présocratiques. Exploration, Vrin, Paris.

morel, P.-m. (2009), Comment parler de la nature? Sur le traité 30 de Plotin, in «Les Études philosophiques», XC, 2009, pp. 387-406.

nArBonne, J.-m. (2011), Plotinus in Dialogue with the Gnostics, Brill, Leiden.

netz, r. (1999), The Shaping of Deduction in Greek Mathematics. A Study in Cognitive Histo-ry, Cambridge University Press, Cambridge.

o’Brien, c. s. (2009), The Descent of the Demiurge from Platonism to Gnosticism, in G. af Hällström, (a cura di), Människan i Universum: Platons Timaios och dess tolkningshistoria, Åbo Akademi, Åbo, pp. 113-132.

o’Brien, c.s. (2012), The Middle Platonist Demiurge and Stoic Cosmobiology, in «Horizons: Seoul Journal of the Humanities», III, pp. 19-39.

o’Brien, d. (1999), La matière chez Plotin. Son origine, sa nature, in «Phronesis», XLIV, pp. 45-71.

o’meArA, d. (1993), Plotinus. An Introduction to the Enneads, Oxford University Press, Ox-ford.

oPsomer, J. (2005), A Craftsman and His Handmaiden: Demiurgy According to Plotinus, in T. Leinkauf e C. Steel (2005, a cura di), Platons Timaios als Grundtext der Kosmologie in Spätantike, Mittelalter und Renaissance, Leuven University Press, Leuven, pp. 67-102.

oPsomer, J. (2005a), Demiurges in Early Imperial Platonism, in R. Hirsch-Luipold (2005, a cura di), Gott und die Götter bei Plutarch. Götterbilder, Gottesbilder, Weltbilder, Walter de Gruyter, Berlin and New York, pp. 51-99.

PlAtone (1994), Timeo, trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano.

PlAtone (1997), Leggi, trad. it. di E. Pegone, in E.V. Maltese (a cura di), Tutte le opere, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, vol. 5, pp. 49-621.

46 Martino Rossi Monti

PlAtone (1997), Fedone, trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano.

Plotino (1996), Enneadi, trad. it. di G. Faggin, Rusconi, Milano.

Poggi, s. (2000), Il genio e l’unità della natura. La scienza della Germania romantica, 1790-1830, Il Mulino, Bologna.

PuecH H.-c. (1960), Plotin et les Gnostiques, in Les sources de Plotin, Fondation Hardt, Genève, pp. 161-190.

ricH, A.n.m (1960), Plotinus and the Theory of Artistic Imitation, in «Mnemosyne», XIII, pp. 233-239.

rist, J.m. (1967), Plotinus. The Road to Reality, Cambridge University Press, Cambridge, trad. it. di P. Graffigna (1995), Plotino. La via verso la realtà, Il Melangolo, Genova.

runiA, d.t. (1986), Philo of Alexandria and the Timaeus of Plato, Brill, Leiden.

sAmek lodoVici, e. (1982), Filosofia della natura e caso. Attualità di una polemica plotiniana, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», LXXIV, pp. 27-46.

scHroeder, F.m. (1992), Form and Transformation. A Study in the Philosophy of Plotinus, McGill-Queen’s University Press, Montreal.

scHwyzer, H.-r. (1960), «Bewusst» und «Unbewusst» bei Plotin, in Les sources de Plotin, Fondation Hardt, Genève, pp. 343-390.

sinnige, tH.g. (1999), Six Lectures on Plotinus and Gnosticism, Kluwer Academic Publi-shers, Dordrecht.

slAVeVA-griFFin, S. (2009), Plotinus on Number, Oxford University Press, Oxford.

smitH, A. (1978), Consciousness and Quasiconsciousness in Plotinus, in «Phronesis», XXIII, pp. 292-301.

solmsen, F. (1963), Nature as Craftsman in Greek Thought, in «Journal of the History of Ideas», XXIV, pp. 473-496.

sorABJi, r. (1983), Time, Creation and the Continuum. Theories in Antiquity and the Early Middle Ages, Duckworth, London.

torcHiA, n.J. (1993), Plotinus, Tolma, and the Descent of Being. An Exposition and Analysis, Peter Lang, New York.

Vegetti, m. (2007), Il mondo come artefatto. Cosmo e caos nel Timeo di Platone, in Dialoghi con gli antichi, Academia, Sankt Augustin, pp. 111-122.

Vegetti, m. (2007a), I nervi dell’anima, in Dialoghi con gli antichi, Academia, Sankt Augu-stin, pp. 279-296.

Vegetti, m. (2014), Galeno, il «divinissimo» Platone e i platonici, in «Rivista di Storia della Filosofia», IV, in stampa.

«Un filosofo mancato» 47

VernAnt, J.-P. (1962), Les origines de la pensée greque, Presses universitaires de France, Pa-ris, trad. it. di F. Codino (1997), Le origini del pensiero greco, Editori Riuniti, Roma.

VidAl-nAquet, P. (1983), Le chasseur noir. Formes de pensées et formes de société dans le mon-de grec, Maspero, Paris, trad. ing. (1986), The Black Hunter. Forms of Thought and Forms of Society in the Greek World, The Johns Hopkins University Press, Baltimore and London.

wAgner, m.F. (2002, a cura di), Neoplatonism and Nature. Studies in Plotinus’ Enneads, Sta-te University of New York Press, Albany.

wArren e.w. (1964), Consciousness in Plotinus, in «Phronesis», IX, pp. 83-97.

wAllis, r.t., BregmAn, J. (1992, a cura di), Neoplatonism and Gnosticism, State University of New York Press, Albany.

wielAnd, W. (1962), Die aristotelische Physik, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, trad. it. (1993), La Fisica di Aristotele, Il Mulino, Bologna.

wilBerding, J. (2006), Plotinus’ Cosmology. A Study of Ennead 2.1 (40). Text, Translation, and Commentary, Oxford University Press, Oxford.

wilBerding, J. (2008), Automatic Action in Plotinus, in «Oxford Studies in Ancient Philoso-phy», XXXIV, pp. 443-77.

wilBerding, J. (2008a), Porphyry and Plotinus on the Seed, in «Phronesis», LIII, pp. 406-432.

wilBerding, J. e Horn, c. (2012, a cura di), Neoplatonism and the Philosophy of Nature, Oxford University Press, Oxford.

wildBerg, cH. (2009), A World of Thoughts. Plotinus on Nature and Contemplation (Enn. III.8 [30] 1-6), in cHiArAdonnA, trABAttoni (2009, a cura di), pp. 121-143.