L'aspetto clinico della melanconia

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1 L’aspetto clinico della melanconia: un kòsmos tinto di nero Pietro Barbetta e Beatrice Catini Le basi della teoria umorale Il linguaggio abbonda di parole che sono vestigia. Così la parola cosmo. La parola greca da cui deriva, kòsmos (κόσμος), è, in primo luogo, sinonimo di ordine, dunque parlare di ordine del cosmo sarebbe per i Greci un pleonasmo, come dire cosmo del cosmo. L’universo ha in sé l'ordine: kòsmos è la forma armoniosa e ordinata, a cui si contrappone il chaos (χάος). Parole in apparenza distanti dal significato attuale di cosmo, come il termine “cosmetico”, affondano le loro radici nel senso profondo di kòsmos: cosmetico (il suffisso ticos indica le discipline di applicazione) significa in realtà “che ha il potere di ordinare” e, in senso traslato, di abbellire, in quanto ordinare significa in primo luogo armonizzare. L’ordine armonico era per i greci configurato in un modo particolare, distante da quello che potremmo intendere oggi con questa espressione. Per più di duemila anni il cosmo è stato considerato un ordine composto da quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco, a loro volta corrispondenti ai pianeti, alle suddivisioni del tempo e alle diverse sostanze presenti nell’organismo umano. Come si vede dal disegno qui riprodotto (fig. 1) che sintetizza la teoria umorale, c’è un ordine tra vari livelli dell’esistenza naturale. Il livello più esterno è rappresentato dalla circonferenza degli umori all’interno della quale è inscritto il quadrato degli elementi, a sua volta contenente un quadrato più piccolo con le qualità. Quest’intelaiatura concettuale permette di estendere i rimandi armonici a diversi aspetti vitali. Le stagioni, per esempio, sono inserite all'interno di questo meccanismo perché ognuna di loro ha a che fare con l'accoppiamento tipico di queste qualità. Di conseguenza sappiamo che il caldo e il secco corrispondono all'estate, il secco e il freddo all'autunno, il freddo e l'umido all'inverno e l'umido e il caldo alla primavera. In questo modo abbiamo il ciclo delle stagioni, che è anche il ciclo della vita. Anche il corpo umano era, per gli antichi, composto da quattro elementi (gli umori), concepiti come parti concrete, tangibili e visibili: la bile gialla (o rossa), la bile nera (o atrabile), il flegma e il sangue. Si pensava che gli umori controllassero tutta l’esistenza, i comportamenti e i caratteri dell’umanità, a seconda del modo in cui si combinavano, tanto da dar luogo a differenti temperamenti. I quattro umori all’interno del corpo umano, sulla scorta delle qualità dei quattro elementi del cosmo,

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L’aspetto clinico della melanconia: un kòsmos tinto di nero Pietro Barbetta e Beatrice Catini

Le basi della teoria umorale Il linguaggio abbonda di parole che sono vestigia. Così la parola cosmo. La parola greca da cui deriva, kòsmos (κόσµος), è, in primo luogo, sinonimo di ordine, dunque parlare di ordine del cosmo sarebbe per i Greci un pleonasmo, come dire cosmo del cosmo. L’universo ha in sé l'ordine: kòsmos è la forma armoniosa e ordinata, a cui si contrappone il chaos (χάος). Parole in apparenza distanti dal significato attuale di cosmo, come il termine “cosmetico”, affondano le loro radici nel senso profondo di kòsmos: cosmetico (il suffisso ticos indica le discipline di applicazione) significa in realtà “che ha il potere di ordinare” e, in senso traslato, di abbellire, in quanto ordinare significa in primo luogo armonizzare. L’ordine armonico era per i greci configurato in un modo particolare, distante da quello che potremmo intendere oggi con questa espressione. Per più di duemila anni il cosmo è stato considerato un ordine composto da quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco, a loro volta corrispondenti ai pianeti, alle suddivisioni del tempo e alle diverse sostanze presenti nell’organismo umano.

Come si vede dal disegno qui riprodotto (fig. 1) che sintetizza la teoria umorale, c’è un ordine tra vari livelli dell’esistenza naturale. Il livello più esterno è rappresentato dalla circonferenza degli umori all’interno della quale è inscritto il quadrato degli elementi, a sua volta contenente un quadrato più piccolo con le qualità. Quest’intelaiatura concettuale permette di estendere i rimandi armonici a diversi aspetti vitali. Le stagioni, per esempio, sono inserite all'interno di questo meccanismo perché ognuna di loro ha a che fare con l'accoppiamento tipico di queste qualità. Di conseguenza sappiamo che il caldo e il secco corrispondono all'estate, il secco e il freddo all'autunno, il freddo e l'umido all'inverno e l'umido e il caldo alla primavera. In questo modo abbiamo il ciclo delle stagioni, che è anche il ciclo della vita. Anche il corpo umano era, per gli antichi, composto da quattro elementi (gli umori), concepiti come parti concrete, tangibili e visibili: la bile gialla (o rossa), la bile nera (o atrabile), il flegma e il sangue. Si pensava che gli umori controllassero tutta l’esistenza, i comportamenti e i caratteri dell’umanità, a seconda del modo in cui si combinavano, tanto da dar luogo a differenti temperamenti. I quattro umori all’interno del corpo umano, sulla scorta delle qualità dei quattro elementi del cosmo,

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hanno caratteristiche precipue che li distinguono l’uno dall’altro in un gioco di rimandi che collega le forme del vivente e quelle della natura in generale. Il sangue (cuore) imita l’aria, aumenta in primavera, domina nell’infanzia. La bile gialla (fegato) imita il fuoco, aumenta in estate, domina nell’adolescenza. La bile nera (milza) imita la terra, aumenta in autunno, domina nella maturità. Il flegma (cervello) imita l’acqua, aumenta in inverno e domina nella vecchiaia. Si tratta della dottrina dei quattro umori o delle quattro complessioni, attribuita a Ippocrate di Kos, ma in realtà frutto di una tradizione antichissima, che affonda le sue radici nella medicina pre-ippocratica e nelle scuole filosofiche, all’interno delle quali questo pensiero medico era stato elaborato. La tetrade come forma armoniosa e dinamica del cosmo si ritrova nelle elaborazioni della scuola di Mileto, con pensatori come Talete, Anassimandro, Anassimene, di Diogene, della scuola Pitagorica1, che venerava il quattro come numero perfetto, e della scuola di Crotone con Alcmeone, Filolao ed Empedocle. Ad Alcmeone di Crotone si deve ricondurre il concetto di salute come isonomìa (ἰσονοµία); fu lui infatti a definire la salute come l’equilibrio di diverse qualità: l’isonomia (la parità di diritti) tra le qualità mantiene la salute, mentre il prevalere di una di esse produce la malattia2. Fu in seguito Filolao a specificare che le qualità della salute erano quattro. Importantissimo fu il ruolo di Empedolce di Agrigento, che cerca di combinare le speculazioni degli antichi filosofi naturali con la dottrina tetradica pitagorica, sviluppando la teoria dei quattro elementi, i rizòmata (Democrito li chiamerà in seguito stoicheìa)3. Senza entrare nel merito del pensiero del filosofo di Agrigento, basti qui sottolineare come la dottrina dei rizòmata abbia messo le basi per il collegamento tra fattori fisici e fattori mentali, che sarà centrale nella medicina ippocratica. I rizòmata sono di uguale valore e potenza, ma ognuno ha una sua particolare natura ed è il loro combinarsi (crasis), diverso in ogni singolo caso, a produrre l’individualità e il carattere degli uomini. Per Empedocle, la crasi perfetta era quella in cui tutti i rizòmata entravano in parti uguali, non erano in quantità eccessiva né insufficiente e di qualità né troppo grezza né troppo raffinata. Nell’uomo la crasi perfetta produce l’intelligenza più raffinata e ampia e lo spirito più sottile, mentre quando la sproporzione tra rizòmata (acrasia) è alta l’uomo presenta delle anomalie: se il numero degli atomi che entrano nella combinazione è troppo grande o troppo piccolo, l’uomo è triste e letargico o di sangue caldo ed entusiasta, ma incapace di reggere lo sforzo. Se invece vi è crasi perfetta solo in una parte del corpo si producono nell’uomo delle attitudini specifiche. Si può ritenere quella di Empedolce una delle prime formulazioni di una teoria psicosomatica del carattere. Il passo successivo è stato quello di cercare nell’uomo le sostanze corrispondenti agli elementi primari che compongono il mondo nel suo insieme: innanzitutto i quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) cominciarono a essere associati a specifiche qualità (fuoco-caldo, aria-freddo, acqua-umido, terra-secco), che a loro volta potevano combinarsi tra loro in modo binario ed essere associate a qualsiasi altra sostanza, ad esempio agli umori del corpo umano. Nell’ambito della medicina empirica erano da tempo stati individuati umori che, accumulandosi in modo abnorme nel sangue, causavano uno stato di malattia: i due principali erano il flegma e la bile (χολή, χόλος). Fu a questa tradizione medica che vennero integrate le qualità degli elementi primari, dando così origine alla teoria umorale vera e propria, formulata nell’importantissimo trattato Della natura dell’uomo (400 a.C.), attribuito a Ippocrate, ma probabilmente scritto da suo genero Polibio, nel quale ai due umori classici (flegma e bile) venne aggiunto il sangue, sebbene non si tratti di un umore 1I Pitagorici non elaborarono una teoria dei quattro umori, ma consideravano il quattro un numero altamente significativo e postularono una serie di categorie tatradiche che furono poi riprese all’interno della dottrina dei quattro umori: terra, aria, fuoco, acqua; primavera, estate, autunno e inverno. 2Platone, Repubblica, a cura di F. Sartori, introuzione di M. Vegetti, Laterza, Roma, 2008, 444 d. 3Cfr. P. Kingsley, Misteri e magie nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, Milano, 2007.

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in sovrappiù, e la bile venne distinta in bile gialla e bile nera. Così fu istituita la tetrade degli umori a noi nota: flegma, sangue, bile gialla e bile nera. Questo trattato, insieme ad altre settanta opere, fa parte di quello che viene chiamato Corpus Hippocraticum, assemblato dai bibliotecari di Alessandria d’Egitto nel III sec. a.C. sulla base dell’unità tematica: argomenti di medicina spazianti dall’anatomia alla chirurgia, dall’eziologia alla deontologia, dalla ginecologia alle questioni metodologiche4. Sebbene si sia soliti attribuire a Ippocrate di Kos la paternità della maggior parte dei trattati, in realtà non si sa quali siano stati scritti da lui, per questo si preferisce parlare di scuola ippocratica. I due maggiori centri di irradiazione della nuova professione medica erano Kos e Cnido, con differenti approcci. La medicina di Kos era la scuola ippocratica per antonomasia, erede della tradizione dei filosofi dì naturalisti di Mileto; mentre la scuola di Cnido era lontana da ogni istanza filosofica ed era tutta orientata in senso empirico e pratico. Lo testimoniano le Sentenze cnidie, un testo anteriore agli scritti ippocratici. Per secoli il Corpus Hippocraticum è rimasto un punto di riferimento indiscusso per la medicina: la dottrina umorale ha infatti dominato tutto il corso della fisiologia e della psicologia fin quasi a oggi, in quanto ciò che le scuole eterodosse dell’antichità avevano opposto alla patologia umorale fu il più delle volte incorporato nella dottrina ortodossa dagli eclettici del II secolo d.C., tra cui spicca il lavoro di Galeno. Chi si oppose in modo netto alla teoria umorale rimase spesso inascoltato e presto dimenticato, come nel caso di Paracelso. Il successo della teoria umorale si deve al fatto che essa combina al suo interno dei principi antichissimi: la ricerca di una struttura elementare, ma nel contempo armonica, cui ricondurre la complessità dell’esistente e la possibilità di esprimere questa struttura in forma numerica o simbolica5. Ippocrate è il primo autore che tenta di applicare in maniera naturalistica la dottrina degli elementi al corpo umano: si riallaccia alle concezioni cosmologiche più generali menzionate, le applica al corpo umano e fonda la medicina razionale. Con Ippocrate la medicina diviene una tèchne, un sapere cioè che comprende una teoria e una pratica, che prevede l’applicazione di procedure razionali. Una medicina tecnica che si contrappone e nel contempo convive con la medicina dei templi, la medicina sapienziale degli asclepiadi basata sulla preghiera propiziatoria, la profezia e la guarigione miracolosa6. È in particolare nell’opera intitolata La malattia sacra (databile tra il 430 e il 420 a.C.), che si esplicita il passaggio da una visione divina della malattia a una visione medica naturalistica e razionale. In questo trattato l’autore entra in forte polemica con la magia, e con coloro che consideravano l'epilessia una sorta di possessione divina.

Per nulla, mi sembra, [il male sacro] è più divino delle altre malattie o più sacro, ma ha struttura naturale e cause razionali; gli uomini tuttavia lo ritengono in qualche modo opera divina per inesperienza e stupore, giacché per nessun verso somiglia alle altre. E tale carattere divino viene confermato per la difficoltà che essi hanno a comprenderlo […]. Ma se per quanto ha di meraviglioso questo male è ritenuto divino, molte altre saranno le malattie sacre e non una soltanto7.

Pur convenendo sul carattere “meraviglioso” dell’epilessia, che per la sua sintomatologia ha un indubbio carattere teatrale (epilepsia deriva dal verbo greco epilamàno, che fa riferimento all’ “essere sorpresi, sopraffatti”), Ippocrate è il primo che rompe con l'idea che il “male sacro” abbia a che fare con un fenomeno sovrannaturale, magico, o misterico. L’operazione di Ippocrate consiste

4Cfr. M. Vegetti, La “questione ippocratica”, in Ippocrate, Opere, a cura di M. Vegetti, Utet, Torino, 1976, p. 73. 5Cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la malinconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, Einaudi, Torino, 1983, p. 8. 6Cfr. G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità ad oggi, Laterza, Roma-Bari, 2003. 7Ippocrate, Opere, op. cit., pp. 297-298.

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nell’individuare uno dei quattro elementi, il flegma in questo caso, e nell’attribuirgli l’eziopatogenesi dell’epilessia: l’afflusso eccessivo del flegma al cervello produce le manifestazioni epilettiche. È in questo quadro che la medicina, a partire da Ippocrate, incomincia a pensare che cosa significhi star bene o star male. Stare bene è una questione di equilibrio tra elementi, di giusta composizione tra le parti, che in greco, come abbiamo visto, veniva indicata come crasi. Nel corpo umano i quattro umori stanno in relazione fra di loro: se equilibrati producono benessere psico-fisico, se invece eccedono producono un disequilibrio (acrasia), che può essere temporaneo o definitivo. A-crasia è privativo di crasi, ed è quindi definibile come una composizione con eccessi. Gli esseri umani sono caratterizzati da un equilibrio che però presenta sempre degli eccessi, per il semplice fatto che quando agiscono escono dal quadro della crasi. L'equilibrio è, in qualche modo, un’idea-limite: nessuno di noi riesce ad avere la giusta composizione tra bile gialla, bile nera, flegma e sangue. La concezione della salute come crasi è gravida di importanti conseguenze nella considerazione di ciò che è patologico. Ne Il normale e il patologico Georges Canguilhem ammonisce a non considerare il patologico, in quanto tale, come un disequilibrio del normale, ma come un equilibrio sui generis8. Quindi il patologico ha una sua forma di equilibrazione. Gli psicoterapeuti, gli psichiatri e gli psicologi sanno che dentro ogni patologia c'è un tentativo di equilibrazione; se una persona ha, ad esempio, un disturbo depressivo, un disturbo ossessivo compulsivo, oppure delira, questo tipo di sintomatologia, prima ancora di corrispondere alla diagnosi specifica, ha la funzione importantissima di mantenere in equilibrio la psiche, tramite il ripresentarsi ciclico di una determinata modalità di esistenza: ogni individuo ha delle forme che sono idiosincratiche e che tendono a ripetersi. Durante un corso di formazione, nel 1999, in quel fecondo laboratorio che è la psichiatria triestina si ragionava su guarigione e malattia mentale. Alla domanda: “si può guarire?”, senza la minima esitazione un giovane rispose:

Guarire? Certo che sì, se il problema fosse quello. È che l’idea di star bene, l’idea di guarire – come dite voi – spaventa, perché la malattia è una dipendenza. E quando la togli, si spalanca una voragine che bisogna riempire, ma se non sai come, se nessuno ti aiuta a metterci qualcosa d’altro dentro a quel buco, allora tu preferisci restare com’eri. Almeno sai le regole del gioco; bello o brutto, quel gioco tu lo conosci, lì tu giochi in casa tua. E la malattia, per quanto assurdo potrà sembrare, ti copre le spalle.

Il patologico ha una forma di equilibrazione, pur nello squilibrio della sua acrasia. La composizione non armoniosa degli elementi non necessariamente porta squilibrio, anzi, a volte è l’unico modo che l’individuo trova per stare nella vita. Questa visione era ben radicata nella medicina greca per la quale «la malattia non è soltanto squilibrio o disarmonia: è anche soprattutto sforzo della natura nell’uomo per ottenere un nuovo equilibrio»9. Nella cornice della medicina ippocratica la malattia è concepita in modo dinamico e totalizzante: «La malattia è una reazione generalizzata il cui scopo è la guarigione. L’organismo genera una malattia per guarirsi»10 e l’intervento del medico deve imitare la vis medicatrix naturae. La tecnica medica così concepita segna una cesura con il passato e inaugurava un nuovo modo di pensare alla medicina. L’umore melanconico Tra le varie disarmonie causate dall’eccesso degli umori, vi è quella caratteristica della sovrabbondanza 8Cfr. G. Canguilhem, Il normale e il patologico, introduzione di M. Porro, postfazione di M. Foucault, Einaudi, Torino,1998. 9Ivi,, p. 16. 10Ibidem

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di bile nera: la melanconia (µέλαινα χόλη). All’interno della teoria umorale la melanconia è quindi definita - quasi per sovrapposizione del termine con il sintomo - un eccesso di bile nera. «I melanconici contraggono questa loro malattia quando il sangue è corrotto attraverso la bile e la linfa; il loro stato mentale viene turbato, alcuni diventano però anche pazzi»11. All’interno dei rimandi tra microcosmo e macrocosmo di cui la dottrina umorale è intessuta, la bile nera è associata alle qualità del freddo e del secco, corrisponde all’elemento della terra e alla stagione autunnale. L’eccesso di bile nera è caratteristico, anche, di un'età della vita che è quella del declino, della senescenza. In accordo con ciò l'autunno è la stagione del tramonto, la stagione della decadenza e della senilità. Fin dai tempi dei pitagorici le quattro stagioni erano collegate con le quattro età dell’uomo. Il collegamento con il prevalere ciclico di un umore per ogni stagione della vita venne subito spontaneo: la giovinezza (fino ai vent’anni) è sanguigna, la maturità (fino ai quarant’anni) collerica, il declino (fino ai sessant’anni) malinconico e la vecchiaia flemmatica12. Non solo, alcuni autori post-classici ritrovarono la stessa ciclicità nel corso della giornata: il sangue dominava dalle 3 di notte alle 9 di mattino, la bile rossa dalle 9 alle 15, la bile nera dalle 15 alle 21 e il flegma dalle 21 alle 3 di notte. La bile nera quindi domina in autunno, nell’ora del tramonto e nell’età della decadenza. A partire dai testi antichi di fisiologia, infatti, la vecchiaia viene descritta come un graduale processo di raffreddamento e inaridimento del corpo e accostata alla melanconia: in senectute, quae figida et sicca est ad modum melancholiae. Ippocrate spiegava l’invecchiamento con il graduale diventar secco dell’organismo e con l’estinguersi del calore innato: «I corpi in crescenza posseggono il massimo del calore interno […] Nel vecchi il calore è debole […] per questo motivo le febbri non sono molto forti nei vecchi, perché il loro corpo è freddo»13. Questa spiegazione verrà ripresa anche da Aristotele e Galeno, che la riproporranno invariata. L'inverno, invece, corrisponde al flegma e, dunque, alla stagione della morte (rigor mortis), alla stagione finale del ciclo vitale. Seguendo questo tipo di concezione, quello che produce tragedia non è la morte, ma è la decadenza. Heidegger direbbe che il raccoglimento melanconico culmina con il disvelamento del nostro “essere per la morte”. Dunque, ciò che genera tragedia è la stagione della vita in cui il corpo tende a deteriorarsi. Il corpo cambia anche prima, ma con la senilità il corpo si modifica nel senso del deterioramento e dell'invecchiamento. Nel mondo occidentale contemporaneo questo processo è percepito come un evento catastrofico, che mette a repentaglio i meccanismi di costruzione identitaria e minaccia la persona; non per nulla vengono messe in atto tutta una serie di strategie per procrastinare il più possibile o rallentare il processo di deterioramento. Si coltiva il sogno che ciò che da sempre viene considerato ineludibile, la senescenza, possa essere eluso, come un sintomo sociale del terrore per l'invecchiamento. A essere in gioco, quindi non è più il terrore della morte, bensì il terrore della vita, al punto che si preferisce morire prima, piuttosto che invecchiare. Nelle prime pagine della Nascita della tragedia (1872) Nietzsche narra l’incontro e il dialogo tra il re Mida e Sileno14 :

L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile il demone tace; finché, costretto da re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e

11Ippocrate, Opere, op. cit. 12Altrove, in alcuni autori postclassici, era l’infanzia a essere collegata al temperamento flemmatico, la gioventù al temperamento sanguigno, la maturità a quello collerico e la vecchiaia a quello melanconico (Cfr. Pseudo-Sorano e Vindiciano). 13Cfr. G. Minois, Storia della vecchiaia. Dall’antichità al Rinascimento, Laterza, Bari, 1987. 14Cfr. U. Curi, Meglio non esser nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

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della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nati, non essere, esser niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto15.

Il deterioramento è associato alla malinconia ed è quest’ultima complessione che mal sopportiamo nell’epoca contemporanea. Quello che noi stiamo perdendo della melanconia è proprio la capacità di vivere e apprezzare il deteriorarsi del proprio corpo. Non si tratta solo di accettare, ma apprezzare il deterioramento del corpo, in quanto finalmente si accede a quella dimensione che viene chiamata da Bataille la dépense16. Il concetto di dépense – traducibile in italiano con “dispendio” - viene trattato da Bataille in un saggio del gennaio 1933 apparso su La Critique sociale, nel quale egli, appoggiandosi su studi antropologici ed economici17, mette in evidenza come in un gruppo sociale esista a livello endemico un bisogno di perdita smisurata. La dépense, intesa come funzione sociale, è il contrario della produzione e dell’acquisizione, che sono legate all’utile, mentre la dépense è improduttiva. Il gesto del dispendio, della dilapidazione ha l’importantissima funzione di aprire a ciò che va oltre l’utile, a uno spazio sottratto alle leggi dello scambio, lo spazio della melanconia. Lo stato d’animo meditativo, l’atteggiamento solitario e pensieroso, l’affaccendamento mentale del melanconico rimandano a un’attività afinalistica, a una mobilitazione di energie senza che siano chiare né la destinazione né l’origine. È un’energia che va a perdersi e che non rientra nell’economia, ma che si manifesta come dépense. Entrando nella senilità si ha accesso, tramite il deterioramento del corpo, alla funzione insubordinata della libera dépense. In quest’ottica la dépense può esser vista come un lusso: la possibilità di concedersi un’attività di puro dispendio al di là dell’economia. Proprio per questa sua caratteristica in epoca medioevale la melanconia era trattata al pari di un vizio, anzi di uno dei sette vizi capitali: l’accidia. La dépense melanconica viene letta come inoperosità, e quindi come astinenza dal compiere il bene. Il collegamento tra l’accidia e il tipo melanconico è il primo segno di un lento scadere della nozione di melanconia verso una connotazione negativa: l’immagine del melanconico verrà a coincidere nel corso del Medioevo con quella di un essere antipatico, tetro, sporco, misantropo, avido, sospettoso e talvolta cleptomane18. La prima descrizione della melanconia patologica compare nel Corpus Hippocraticum in merito allo stato di una paziente: «Uno stordimento la accompagna di continuo: inappetenza, disperazione, insonnia, attacchi di rabbia, disagio, […] ». Negli Aforismi la sua manifestazione viene riassunta così: «Quando paura e depressione permangono a lungo, ciò significa che vi è melancolia»19. Sebbene le citazioni si riferiscano a una forma patologica della melanconia, Ippocrate tratta della melanconia anche come temperamento, che considera non una malattia, bensì una predisposizione a contrarla. La bile nera è, infatti, un umore presente in ognuno senza che per forza di cose questo si manifesti in una patologia o peculiarità di carattere. Questa predisposizione caratteriale è caratteristica di alcune fasi della vita, ma può anche essere una modalità tipica di esistenza al di là dell’età anagrafica.

15F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, III, I, Adelphi, Milano, 1972, p. 31. 16Cfr. G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, introduzione di F. Rella, trad. it. di F. Serna, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. 17Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 155-292. 18Cfr. A. Magno, De animalibus libri XXVI, Ed. H. Stadler, Münster in Westfalen, 1916-21, vol. I, p. 329. Citato in R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale, medicina, religione, arte, trad. it. cit., pp. 66 sgg. 19V. Di Benedetto, Il medico e la malattia, la scienza di Ippocrate, Einaudi, Torino, 1986.

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Il melanconico rappresenta quindi due cose: colui che, per sua indole, va verso questa dimensione dell'eccesso e del deterioramento anche prima di invecchiare; oppure colui che entra nella fase dell’invecchiamento, nella senilità. La melanconia è, nello stesso tempo, una fase della vita, la fase della senilità, e una patologia che affligge persone che, pur non essendo nella fase senile, rappresentano già la melanconia. Sia l’invecchiamento che la malinconia sono però accomunate da una caratteristica, derivante dall’eccesso atrabiliare, che riguarda la saggezza o sapienza. Tra le caratteristiche associate alla vecchiaia, infatti, non vi è solo il deterioramento fisico, ma anche la saggezza. Dunque, il periodo della saggezza è anche il periodo del cambiamento profondo del nostro corpo, della senilità. Il dio che rappresenta i caratteri della vecchiaia e della melanconia è Krono-Saturno. L’astro che gli corrisponde è infatti freddo, perché lontano dal sole, e lento, in quanto gli occorrono più di trent’anni per effettuare una rivoluzione20. La corrispondente figura è tra le più misteriose e contraddittorie della mitologia greca. In generale tutte le divinità greche hanno un aspetto duplice, ma in Krono questa doppiezza è marcata, tanto da essere considerato il dio degli opposti: da un lato padre degli dei (genitore dei tre sovrani del mondo: Zeus, Poseidone e Ade), divinità dell’età dell’oro, inventore dell’agricoltura; dall’altro dio cupo e terribile divoratore dei suoi figli21, detronizzato, signore degli dei inferiori e della morte, confinato nelle profondità della terra e del mare22. In seguito il Krono greco fu identificato nel Saturno italico, dio dell’agricoltura e delle messi, accentuando così il suo aspetto positivo, ma anche la sua natura contraddittoria. Nel De civitate Dei, Sant'Agostino dedica a Saturno analisi dettagliate nell’ambito della sua critica radicale alla teologia e all’astrologia pagane. In particolare Agostino mette in luce la contraddizione tra l’interpretazione neoplatonica di Saturno, positiva perché legata all’intelletto più elevato, e quella astrologica, negativa, che vedeva Saturno legato al greco Kronos, il Titano divoratore dei suoi figli:

Che affermano di Saturno? Quale essere venerano come Saturno? Non è lui che per primo è sceso dall’Olimpo, “l’armi di Giove fuggendo, dal tolto regno scacciato. | Egli quel popolo barbaro, per gli alti monti disperso, | riunì, diede leggi e chiamar volle Lazio | la terra ove latebre aveva trovato, sicure”. Non lo definisce la sua raffigurazione, che lo mostra con la testa coperta come uno che si nasconde? Non è stato lui a insegnare agli Italici l’agricoltura, come attesta il suo falcetto? No, dicono … Infatti noi interpretiamo Saturno come “la pienezza del tempo”, come suggerisce il suo nome greco: infatti è chiamato Crono, nome che, con l’iniziale aspirata, è anche quello del Tempo. Per questa ragione è anche chiamato Saturno in latino, per così dire pieno di anni [quasi saturetur annis]. Veramente non so che fare con gente che, nel tentativo di interpretare i nomi e le raffigurazioni dei suoi dèi in un senso migliore, ammette che il suo maggior dio, il padre di tutti gli altri è il Tempo. Infatti che altro ammettere se non che tutti i suoi dèi sono temporali?23

Il legame tra Saturno e il Tempo è quindi, per Sant’Agostino, una forzatura e l’origine di tale confusione va ricercata nella somiglianza tra Kronos (kρονος) e Chronos (χρονος): l’uno essendo il

20Come il dio Crono abbia finito con l’essere collegato con la stella Saturno è stato illustrato da Franz Cumont (F. Cumont, Les noms de planate et l’astrolatrie chez les Grecs, in “L’Antiquité classique”, vol. IV, 1935), il quale spiega come all’inizio gli unici pianeti identificati dai greci furono Fosforo ed Espero (il pianeta Venere la mattina e la sera), in quanto Venere era l’unico astro abbastanza luminoso da creare un’ombra. L’astrologia greca, così come viene presentata per la prima volta nell’Epinomide platonico, fu in gran parte mutuata dai Babilonesi, che veneravano i pianeti come divinità del destino: Nebu, il dio della scrittura e della sapienza, venne ad essere Ermete, Ishtar, la dea dell’amore e della fertilità, venne ad essere Afrodite, Marduk, il sovrano regale, venne ad essere Zeus e Ninib, strano e misterioso, considerato il sostituto notturno del sole, venne ad essere Crono. Successivamente la crescente influenza di elementi orientali dell’epoca ellenistica, mise a soqquadro questo complesso di identificazioni, sancendo infine la nomenclatura mitologica come quella di maggior successo (Cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Sarurno e la malinconia, op. cit., pp. 127 sgg.). 21Cfr. Esiodo, Teogonia, vv. 729 ssg. 22Cfr. Iliade, VIII, v. 479. 23Agostino, De consensu evangelistarum, I, 34 sgg., (CSEL, vol. XLIII, ed. F. Weihrich, Wien 1904, pp. 32 sgg.), in Opere di Sat’Agostino, Città Nuova, Roma 1996, vol X, 1.

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Titano, la divinità ctonia, il padre che ingoia i propri figli e l’altro essendo il tempo cronologico. La differenza tra le iniziali dei due termini – κ e χ - ha tratto in inganno i latini. La differenza tra l'uno e l'altro termine è fondamentale: il melanconico non è legato a Kronos, il dio che ingoia i suoi figli, ma a Saturno, che è un nome composto da una prima parte latina e una seconda greca. Satur-νους è una mente piena, quindi la melanconia è caratterizzata dalla pienezza della mente. L'eccesso di bile nera produce una pienezza mentale: c'è troppa mente, c'è troppa intelligenza, c'è troppa saggezza. Nelle raffigurazioni antiche Krono-Saturno ha caratteri e fattezze ben definite: è un vecchio triste e meditabondo, munito di un mantello che copre la testa e di una falce. La stessa duplicità di Krono-Saturno si ritrova anche nell’immagine della vecchiaia: la contemplazione, la bonarietà, la saggezza, tipiche del Saturno romano, ma anche la cupezza, la malvagità, il rancore, la tristezza tipiche del Krono greco. L’idea della vecchiaia come tempo di saggezza convive con quella della vecchiaia come tempo di degrado fisico e morale. Anche oggi, pur essendo in un tempo di esaltazione della gioventù e di perdita del valore e del senso dell’invecchiare, permane l’ideale del Vecchio Saggio, come spirito guida capace di indicare la giusta direzione e di dispensare consigli preziosi, in quanto portatore di uno sguardo in grado di vedere in profondità e oltre. Jung parlava dell’importanza individuativa della figura del Senex, all’interno della coppia archetipica Senex/Puer: il Puer è l’eterno fanciullo, l’avvenire in potenza, l’impulso verso l’autorealizzazione; il Senex è la fermezza, l’integrità, la maturità, il pensiero autocritico e introspettivo, la saggezza. Così, infatti, lo si ritrova spesso nelle fiabe e nel folklore:

Il vecchio appare sempre quando l’eroe si trova in una condizione critica o disperata, dalla quale può liberarlo soltanto una profonda riflessione o un’intuizione fulminea e felice, dunque una funzione spirituale o un automatismo endopsichico, ma poiché l’eroe, per ragioni esterne o interne, non ne è capace. A compensare la deficienza interviene la cognizione necessaria sotto forma di pensiero personificato, appunto, nella figura del vecchio portatore di aiuto e consiglio […] Il vecchio è proprio quest’adeguata riflessione e concentrazione delle forze morali e fisiche che si compie spontanea in una regione psichica fuori dalla coscienza, là dove un pensiero cosciente non è ancora o non è più possibile24.

Come ogni archetipo anche quello del Senex, oltre a un aspetto positivo, favorevole e chiaro ne ha uno negativo, ctonio, rivolto verso il basso:

Il vecchio infatti ha anche un aspetto “malvagio”, così come lo stregone primitivo è tanto il soccorrevole guaritore quanto l’avvelenatore temuto; allo stesso modo la parola pharmakon significa insieme rimedio e veleno, e il veleno può essere in realtà l’uno e l’altro25.

In generale, la possibilità di sviluppare il Senex nei suoi aspetti positivi è la grande opportunità offerta dall’invecchiamento. Negli scritti di Jung, ma anche in altri psicoanalisti come Erikson26, Lou Andreas Salomé, Woodward27, la saggezza è l’occasione offerta dall’invecchiamento, quasi fosse un aspetto compensativo dell’inesorabile scivolamento verso l’inorganico che la vecchiaia porta con sé. Anche Aristotele, nell’Etica Nicomachea, lega la saggezza all’esperienza e quindi all’età matura e anziana. Gli antichi greci avevano due termini per definire la saggezza: phrònesis (φρόνησις), oppure, sophrosyne (σοφροσύνη). Entrambe le parole contengono phrên, che significa diaframma, ma anche cervello e cuore. Potremmo tradurre quindi phrenes con precordi, secondo Onians con phrenes si 24Jung, 1946-48. 25Jung, 1946/48. 26Cfr. Erikson, E. H., Erikson, J.M., Kivinick, H. Q., Vital Involvement in the Old Age, Norton, New York, 1986. 27Cfr. K. Woodward, Aging and Its Discontents, Indiana University Press, Bloomington, 1991.

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faceva invece riferimento ai polmoni28, ma la maggior parte degli studiosi concorda che in origine phrên indicava il sussulto, il fremito e quindi anche il luogo in cui questo si produce. Phrên è sia il cervello, che il cuore, che il diaframma (o i polmoni) proprio perché indica il luogo in cui pensiero, emozione e istinto sono convogliati ed espressi in un unico moto dell’animo. Nella Grecia omerica e nella lirica arcaica il plurale phrenes fa riferimento alla parte alta del torace in cui si trova il cuore, che per gli antichi era la sede del pensiero, dell’intelligenza e della volontà, il luogo in cui l’uomo pensava e sentiva le sue emozioni e i suoi impulsi. Ippocrate stesso si è chiesto in un'opera intitolata Arie, acque e luoghi, come mai phrenes definisce sia il cervello, sia il diaframma: la spiegazione che si dà è che sia la respirazione sia le idee vengono dall'aria. In quanto strumento del respiro, ossia dell’atto che assicura all’uomo la consapevolezza dell’esistere, i polmoni (o il diaframma) sono la sede del pensiero, che di tale consapevolezza è la forma essenziale. Inoltre sappiamo che anche la parola psyché (ψυχη) è intesa come anima-respiro e che il verbo da cui proviene, ψυχω, significa soffiare. La psyché, inoltre, era associata alla testa e veniva utilizzata per lo più per indicare l’anima una volta che aveva lasciato il corpo, che si era esalato l’ultimo respiro. Mentre l’anima all’interno di un corpo vivo e attivo aveva sede nelle phrenes e veniva denominata thymòs (θυµος)29. Ritroveremo lo stesso termine in Platone, nel mito della biga alata del Fedro: in questo dialogo la tripartizione dell’anima è rappresentata come una biga alata composta da due cavalli, uno bianco e uno nero, e un auriga. Il cavallo bianco, il più nobile tra i due, simboleggia l’anima irascibile (thymikòn), mentre il cavallo nero simboleggia quella concupiscibile (epithymetikòn). L’auriga, che dirige il cocchio rappresenta l’anima razionale (loghistikòn). La concupiscenza, quindi la brama, il desiderio e l’ira hanno sede nell’anima mortale, nel thymòs30. Le vicende dell’anima paiono così dislocarsi tra due sedi corporee: tra il petto e i suoi organi, le phrenes, e la testa. Da thymòs a psyché. Tra i due termini è la psyché ad aver preso il sopravvento all’interno del lessico psicologico e psichiatrico; il thymòs si ritrova oggi nelle descrizioni del tono dell’umore, che può essere contraddistinto da eutimia o da distimia, serenità (o buon umore) e depressione (o cattivo umore). Secondo il DSM-IV-R il disturbo distimico rientra tra i principali disturbi dell’umore, assieme al disturbo depressivo maggiore e a quello bipolare (in asse I) e viene così descritto:

la caratteristica essenziale […] è un umore cronicamente depresso, presente per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno per almeno 2 anni (criterio A). Gli individui con il Disturbo Distimico descrivono il loro umore come triste o “giù di corda” […]. Durante i periodi di umore depresso sono presenti almeno due dei seguenti sintomi addizionali: iporessia o iperfagia, insonnia o ipersonnia, ridotta energia o affaticabilità, bassa autostima, scarsa capacità di concentrazione o difficoltà nel prendere decisioni e sentimenti di disperazione (criterio B) […] Durante il periodo di 2 anni […] gli intervalli liberi da sintomi non durano più di due mesi (criterio C). La Diagnosi di Diturbo Distimico può esser fatta solo se il periodo iniziale di 2 anni con sintomi distimici è libero da Episodi Depressivi Maggiori (criterio D).31.

La melanconia è quindi una dis-timia, una presenza di umori nefasti che tingono di nero le phrenes. A seconda che il prefisso sia inteso come il greco δυς o come il latino dis avremo un thymòs eccezionale, che si allontana dalla norma, oppure un thymòs connotato negativamente come nefasto e corrotto. Anche qui possiamo ritrovare la duplicità della melanconia, tra eccezionalità e patologia. In ogni caso per comprendere il tipo di genialità che contraddistingue i melanconici bisogna seguire il filo 28R. B. Onians, Le origini del pensiero europeo. Intorno al corpo, la mente, l’anima, il mondo, il tempo e il destino, a cura di L. Perilli, Adelphi, Milano, 1998. 29Ivi, p. 122. 30Platone, Fedro, a cura di M. Bonazzi, Einaudi, Torino, 2011. 31APA, DSM IV-R, Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ed. it a cura di V. Andreoli, G.B. Cassano, R. Rossi, Masson, Milano 2005.

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etimologico che tramite il thymòs ci riporta al luogo del diaframma, dei precordi e dei polmoni: alle phrenes. Come abbiamo già detto, per Omero l’uomo pensa e parla tramite la phrên e per questo un pensiero dotato di saggezza è detto phronèsis. Non sono, dunque, le idee a essere in gioco nella phronèsis, ma qualcosa di diverso. Infatti, non abbiamo parlato di sophia (σοφία), ma di phrònesis. Sophia e phrònesis sono due termini che indicano, per certi aspetti, la stessa parola, sapienza, ma hanno connotazioni di significato differenti in quanto mettono in gioco due saperi diversi: la sophia attiene il campo della filosofia e delle idee, e la phrònesis quello della saggezza. Aristotele nei libri I, VI e X dell’Etica Nicomachea le indica come virtù dianoetiche, ovvero le virtù intellettuali, della dianoia (διάνοια), proprie dell’anima razionale, anche se ciò può sembrare sorprendente per noi moderni che associamo l’idea delle virtù alla moralità. Parlare di virtù morale per noi è una sorta di pleonasmo, ma è bene ricordare che il termine greco che noi traduciamo con virtù, aretè (ἀρετή), significa, in un senso ontologico, qualcosa come la perfezione e l’eccellenza. Di conseguenza è normale che vi sia una perfezione intellettuale, così come una perfezione morale. L’anima razionale, nell’Etica Nicomachea, presenta due facoltà: quella scientifica (epistemonikòn), deputata a conoscere quello che non dipende da noi e che non può non essere così com’è, e quella calcolativa (loghistikòn), che riguarda ciò che è in nostro potere e che potrebbe essere diverso da com’è. Le virtù proprie della prima facoltà sono l’episteme (la scienza), il nous (l’intuizione) e la sophia (la sapienza); mentre le virtù proprie della seconda sono la techné (l’arte) e la phronèsis (la saggezza o prudenza). Quest’ultima è considerata da Aristotele la più importante tra le virtù dianoetiche e si concretizza su un duplice livello: da un lato è la disposizione a calcolare il giusto mezzo, commisurandolo al soggetto dell’azione morale e alla situazione concreta in cui ci si trova ad agire; dall’altro nella disposizione a ben deliberare attorno ai mezzi più idonei per conseguire un fine buono. La deliberazione messa in opera dalle virtù, è stata tradotta dai latini con prudentia ma il termine prudenza ha assunto per noi un significato diverso; phronèsis è invece una parola forte in quanto indica la saggezza pratica in circostanza particolari, determinanti. Si tratta, in ultima istanza, di una disposizione a ben deliberare. La sapienza della phronèsis differisce quindi dalla sapienza della sophia, in quanto la prima si occupa dell’uomo e delle realtà umane, mentre la seconda concerne realtà che trascendono l’uomo. Nell’Etica Nicomachea Aristotele propone come esempio di phrònimos un politico come Pericle, e come esempi di sophoi Talete, Anassagora e Socrate32. È importante notare come dal termine phrên derivi anche phrenítis, considerata da Ippocrate una malattia acuta del gruppo di malattie della cavità addominale, come la pleurite, l’infiammazione polmonare e la febbre ardente. Il primo sintomo della phrenítis sembra essere proprio il dolore al diaframma, seguito dalla perita di senno e dallo sguardo fisso. I malati vengono descritti come privi di senno. Così, nei secoli la frenite o frenesia venne a indicare un tipo di delirio accompagnato da febbre, per distinguerla dalla mania. Mania, frenite e melanconia saranno le tre forme di insania sistematizzate in seguito da Galeno, nel II secolo d.C. Già a livello etimologico ritroviamo i due poli della melanconia: phroneisis e phrenítis, che mutatis mutandis vengono espressi oggi con la coppia genio e follia.

La frenite è così. Nell’uomo il sangue contribuisce tantissimo all’intelligenza, alcuni dicono del tutto; se dunque la bile si mette in movimento ed entra nelle vene e nel sangue, altera il movimento e la consistenza del sangue (che diventa sieroso) rispetto alla sua solita velocità e consistenza, e lo riscalda; riscalda anche tutto il resto del corpo e il paziente delira e non è in sé per la molta febbre, per la trasformazione del sangue e per il movimento che non è il solito.

32Cfr. Aristotele, Etica Nichomachea, trad. it. di M. Zanzotto, Rizzoli, Milano, 1986, VI, 5, 1140a24 -1141b22

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Per quanto riguarda il delirio, coloro che sono presi da frenite assomigliano moltissimo a quelli che hanno la bile nera (melancholosi): infatti coloro che hanno la bile nera, quando il sangue viene corrotto dalla bile e dal flegma, hanno la malattia e delirano, alcuni sono folli; lo stesso nella frenite: di tanto la follia e il deliro sono minori di quanto la bile è più debole della bile33.

È bene precisare che prima della fine del V secolo a.C. esisteva sì il fenomeno melanconico, ma non si usava questa parola per definirlo. Vi era però un colore associato alle phrenes degli uomini colti da follia: melos, il nero. La distinzione della bile in bile gialla e bile nera è da far risalire al trattato ippocratico sulla Natura dell’uomo; prima di questo scritto esisteva un’unica bile, che aveva caratteristiche contrapposte al flegma. La bile poteva diventare nera per diversi processi fisici (il surriscaldamento o il mescolamento con il sangue), ma non veniva individuata una bile nera come umore a se stante; di conseguenza fino al V secolo a.C. non veniva distinto nemmeno un tipo atrabiliare o melanconico34. Prima del V secolo a.C. il nero era associato al furore, come si evince ad esempio da Omero. Nel I libro dell’Iliade il furore di Agamennone viene descritto facendo riferimento «ai suoi neri precordi […] gonfi di rabbia»35. Neri precordi è la traduzione del greco phrenes melainai. Anche le phrenes di Ettore diventano nere per il dolore della morte di Eufobo36. Dopo Omero a essere nero è il cuore, in Teognide, o le viscere (splanchna) delle donne del coro nelle Coefore di Eschilo.Viscere, cuore, phrenes sono tutte situate in una zona limitrofa, considerata sede delle emozioni, che diviene nera in una situazione di terrore, dolore, furore. L’esser nere non è quindi una proprietà costitutiva delle phrenes, o del cuore o dei precordi, bensì è qualcosa che sopraggiunge, tramite il sangue, quando si prova una certa emozione. Per i greci sono le proprietà del sangue, corrotte dalla bile, che determinano il pensiero e le emozioni. Cholos, cholé, la bile, è una parola che viene utilizzata da Omero e dagli autori successivi (ad esempio Aristofane) per indicare la rabbia, il furore, soprattutto quando vi è hypercholao, eccesso di bile nel sangue. Così, ritornando alla terminologia sopravvissuta oggigiorno, la bile è rimasta connessa all’area semantica della rabbia, infatti bilioso indica una persona collerica e irascibile, mentre il mèlos, l’umor nero, è collegato all’area della depressione e della tristezza, del lutto. In entrambi i casi però si è perso il collegamento con la fisiologia delle emozioni per renderle realtà psichiche. L’iter di costituzione del concetto di melanconia testimonia di una concezione che vedeva pensiero ed emozione connessi e che leggeva la salute e la malattia attraverso l’assoluta contiguità di sintomi fisici e psichici. In questa concezione il ruolo del sangue era fondamentale. Per gli antichi, il sangue e gli umori in esso presenti determinano non solo le emozioni ma anche l’intelligenza; da questo brano tratto dal De partibus animali di Aristotele si vede come le proprietà del sangue siano in relazione con le capacità intellettuali:

Un sangue più denso e più caldo dà più forza, un sangue più sottile e più freddo dà più sensibilità e intelligenza. La stessa differenza si trova anche negli analoghi del sangue: per questo le api e altri animali di questo genere sono più intelligenti di molti animali dotati di sangue, e tra gli animali sanguigni quelli che hanno sangue freddo e sottile sono più intelligenti di quelli che lo hanno al contrario. La cosa migliore è avere sangue caldo, sottile e puro37.

Al contrario un eccessivo calore del sangue porta alla phrenítis, vera e propria infiammazione ed ebollizione dell’organismo (è infatti associata alla febbre), che porta al delirio e alla sragione38.

33Ippocrate, Malattie, I 30, cit. in A. Roselli, “Le phrenes vestite di nero”, in B. Frabotta (a cura di), Arcipelago malinconia. Scenari e parole dell’interiorità, Donzelli, Roma, 2001. 34Cfr. A. Roselli, Le phrenes vestite di nero, in B. Farabotta ( a cura di), Arcipelago malinconia. Scenari e parole dell’interiorità, Donzelli, Roma, 2001, pp. 31 sgg. 35Iliade, vv. 102-104 (trad. it. di Cerri). 36Iliade, vv. 17, 83. 37Aristotele, De partibus animalium II 2 674b 29 sgg. 38Si veda M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it., BUR, Milano, 2011, pp.

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Quindi, le phrenes sono il luogo sia della phronesis che della phrenitís, ma soprattutto si tingono di nero, generando le melancholiai, manifestazioni patologiche che tengono insieme i due poli della saggezza e della follia. Riprendendo l’iniziale collegamento tra bile nera, età della decadenza e saggezza, possiamo quindi dire che la peculiarità degli individui affetti da melanconia è quella di avere una saggezza ante litteram; vale a dire una saggezza, fuori dal campo, dal ciclo della vita in cui sarebbe caratteristica, e cioè dalla vecchiaia. Nella concezione antica la melanconia in età senile non è una patologia, è fisiologica. È una patologia se si manifesta in età antecedente, una patologia nel senso di un’acrasia, cioè di un eccesso di umori. Se gli anziani sono saggi per definizione allora, sempre per definizione, coltivano la malinconia in una sorta di equilibrio tipico dell’età senile. La crasi dell'età senile è, infatti, la crasi melanconica; come se ci fosse un aumento dell’umore melanconico, che prepara l'anziano al momento della fine. D'altra parte, però, la melanconia, come eccesso di umore nero, coglie gli uomini anche in altre fasi della vita conferendogli caratteristiche di saggezza e profondità di sguardo, se non di genialità. Nello Zibaldone di pensieri Leopardi tematizza la noia e la melanconia come categorie conoscitive e non come mere emozioni che colgono l’animo sensibile e sofferente del poeta:

La malinconia fa veder le cose e le verità (così dette) in aspetto diversissimo e contrarissimo a quelle in cui le fa vedere l’allegria. V’è anche uno stato di mezzo che le fa pur vedere a suo modo, e cioè la noia. […] Vero è astrattamente parlando che , l’amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia; e soprattutto la noia; ed il vero filosofo nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia bello e buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e consolarsene, o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle cose, che veramente non l’hanno39.

Anche Heidegger sostiene che alcuni stati d’animo si avvicinano a situazioni fondanti dell’esistenza, permettono di percepire «l’ente nella sua totalità»40 e anche lui individua nella noia uno di questi. La noia, d’altronde è collegata alla melanconia. La malinconia come stato d’animo che predispone alla presa di coscienza e alla conoscenza profonde è quindi un tema che ha attraversato i secoli. Su questo argomento rimane centrale il riferimento ai Problemata (XXX,1) attribuiti ad Aristotele, che esordiscono con il seguente quesito:

Come mai tutti coloro che hanno raggiunto l’eccellenza nella filosofia e nella politica o nella poesia o nelle arti sono chiaramente melanconici e qualcuno di essi ad un grado tale da soffrire di disturbi provocati dalla bile nera?41

La riflessione aristotelica (o pseudo-aristotelica)42 verte sulla personalità eccezionale, l’ethos peritton, che è contraddistinta dalla melanconia. In questo modo Aristotele riscatta la melanconia da un contesto patologico per renderla un ethos, una costituzione particolare di uomini eccezionali. Molti illustri melanconici sono descritti e citati nel testo:

Empedocle, Platone e Socrate […] e anche la maggior parte dei poeti. Molti infatti di questi hanno 39G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, vol. II 40M. Heidegger, Che cos’è la metafisica? In Segnavia, a cura di F.W von Herrmann, ed. ii. A cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 2002. 41Aristotele, La melanconia dell’uomo di genio, a cura di C. Angelino, Ed. E. Salvansechi, Il melangolo, Genova, 1981, pp. 42-43 42 Il Problemata XXX, 1 rientra nelle opere minori di Aristotele, che per quasi concorde ammissione dei critici moderni non

si puossono far risalire nella loro interzza ad Aristotele. La formazione di questo testo è avvenuta probabilmente per stratificazioni e glosse successive che rendono ragione dell’andamento slegato del testo. Tutto questo però non costituisce un indizio di non autenticità, di conseguenza la questione della paternità dell’opera rimane aperta. (Cfr. Nota dei curatori, in Aristotele, La melanconia dell’uomo di genio, op. cit., p. 35).

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mali fisici in conseguenza di questo tipo di temperamento; alcuni di essi hanno solo una chiara tendenza costituzionale a tali affezioni, ma per dirla in breve, tutti sono […] melanconici di costituzione43.

Tra questi uomini eccellenti spicca Democrito, il filosofo melanconico, la cui descrizione ha assunto fin dall’epoca ellenistica toni leggendari. Ippocrate, nelle sue Lettere sulla follia di Democrito, racconta di essere andato ad Abdera, chiamato dagli abitanti della città preoccupati per la salute del loro più illustre concittadino. Democrito si era ritirato dal mondo e cercava, negli animali, la bile nera. Li squartava per cercare di capire che cosa avesse a che fare la bile nera con un modo di vivere - che era quello degli animali - diverso da quello dell'uomo.

Il cinghiale beve per quanto ha sete e il lupo strappa alla sua vittima quel che gli è necessario per nutrirsi, poi l’abbandona; l’uomo per giorni e notti di seguito non si sazia di banchetti; gli animali irrazionali vanno in calore in periodi definiti nel corso dell’anno, l’uomo continuamente è punto dall’estro della lussuria44.

Ippocrate narra a Damageto come gli Abderiti lo abbiano accolto e portato su una collina vicino alle mura della città, dove c'era la dimora di Democrito, descrive poi una scena in cui si intravvedono gli animali, e si vede il filosofo intento a squartarli e cercare qualcosa dentro.

Democrito sedeva sotto un platano basso e dalla grande chioma; vestiva una tunica spessa, da solo, scalzo, era seduto su un sedile di pietra, pallido ed emaciato, con la barba lunga. Vicino a lui, alla sua destra, cantava tranquillo un piccolo rivo d’acqua che scendeva lungo il pendio della collina. Sulla collina c’era un santuario, a quel che si poteva arguire dedicato alle Ninfe, ricoperto di vite selvatica. Egli, in atteggiamento di grande compostezza, teneva un libro sulle ginocchia mentre altri erano sparsi a terra attorno a lui; c’erano anche ammucchiati molti animali che erano stati completamente sezionati. Egli ora si piegava concentrato nella scrittura, ora restava a lungo immobile pensando e riflettendo tra sé; poi dopo un po’ si alzava, si aggirava osservando le viscere degli animali, le riponeva e tornava a sedersi45.

Chissà se tramite le sue sezioni aveva confermato l’associazione tra la bile nera e la milza. Certo è che questo collegamento ha influenzato la produzione culturale e artistica successiva: lo spleen deriva infatti dal greco splên, che significa milza. I collegamenti tra Democrito, la bile nera e le successive elaborazioni della melanconia non finiscono qui. Democritus junior è anche lo pseudonimo con cui Robert Burton si presenta nella sua opera monumentale sulla malinconia, The Anatomy of Melancholy, sorta di inventario tardo Rinascimentale di tutte le forme e gli aspetti in cui la melanconia si può presentare. Interessante soffermarsi sul frontespizio dell’opera che fin dalla terza edizione (1628) presenta dieci incisioni di Le Blon che circondano il titolo. Tra queste vi sono, poste in modo simmetrico in senso verticale rispetto al titolo, il ritratto dell’autore, indicato per l’appunto con lo pseudonimo di Democritus junior, e quello del suo antenato eponimo, Democritus Abderites. La rappresentazione del filosofo è in linea con la descrizione di Ippocrate: Democrito è seduto su una pietra, sotto un albero, all’esterno di un giardino; il viso è inclinato e appoggiato sulla mano sinistra, in un gesto che veniva attribuito ai malinconici46; nella mano destra tiene una penna e sulle ginocchia ha un libro aperto. Intorno a lui, sospesi, si vedono i corpi di vari animali (cani, gatti, ecc.) di cui il filosofo, come sappiamo, faceva la dissezione anatomica, alla ricerca della sede della bile nera. Sopra la sua testa si

43Ivi, pp. 43-44. 44Ippocrate, Lettere sulla follia di Democrito, a cura di A. Roselli, Liguori, Napoli, 1998, p. 73. 45Ivi, p. 57. 46Il motivo della “figura chinata” è ben noto agli storici d’arte. Cfr. J. Starobinski, La malinconia allo specchio. Tre letture di Beaudelaire, SE, Milano, 2006.

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scorge Saturno, signore della malinconia. Sappiamo come quest’ultimo poteva favorire sia le grandi imprese dello spirito, che i suoi peggiori guasti.

Dunque due sono le forme della melanconia, nel pensiero antico: la forma temperamentale e la forma patologica. I Problemata (XXX, 1) spiegano come la bile nera può andare incontro a un’alterazione qualitativa e temporanea oppure può prevalere sugli altri umori per costituzione. Nel primo caso si hanno le malattie melanconiche, a loro volta suddivise in due tipologie, a seconda che la bile nera sia fredda (l’epilessia, la paralisi, la depressione, le fobie) o calda (la focosità, le ulcere, il furore); nel secondo caso si hanno i melanconici per natura o costituzione. La melanconia è una patologia, ma è anche una Stimmung specifica degli uomini di genio. Di conseguenza abbiamo una forma che è al contempo patologica e produttiva, un disagio dell’anima sospeso tra malattia e Stimmung specifica. Questa ambivalenza positiva sarà sempre presente. Nel mondo antico, sino al Seicento, le patologie umorali non presentano solo aspetti negativi, ma anche positivi. Ritroviamo la duplicità della melanconia sia nel Rinascimento, come si può evincere dall’opera di Dürer, sia un secolo dopo, nella Iconologia di Cesare Ripa47.

Il melanconico va raffigurato come uomo di color fosco, che posandosi col piede destro sopra di una figura quadrata, o cuba, tenga colla sinistra mano un libro aperto, mostrando di studiare. Avrà cinta la bocca da una benda, e colla mano destra terrà una borsa legata, ed in capo un passero, uccello solitario. La benda che gli copre la bocca, significa silenzio, che nel Malinconico suole

47C. Ripa, Iconologia, Roma, 1593, s. v. “Complessioni”. Ed. pratica a cura di P. Buscaroli, prefazioni di M. Praz, Beri Pozza, Vicenza, 2000.

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regnare, essendo egli di natura fredda e secca … il libro aperto, e l’attenzione dello studiare dimostra il Melanconico esser dedito a’ studj …48

Cesare Ripa ci riporta al tipo melanconico così come lo si ritrova nella storia dell’arte, dove la figura del melanconico presenta motivi tradizionali o elementi ricorrenti: le chiavi (simbolo di possesso e di avidità), la borsa o il forziere (simbolo di ricchezza e avarizia), la guancia appoggiata a una mano (che può significare la fatica, ma anche il pensiero creativo e la meditazione), e la faccia scura, in ombra49. Alla figura del melanconico erano spesso associati animali e oggetti, come lo specchio, il teschio, il libro aperto, una figura geometrica (posta sotto il melanconico) e soprattutto il pianeta Saturno o la sua stessa personificazione.

Il melanconico è l'uomo di genio, dotato spesso di doti artistiche, ma anche lunatico, licenzioso, stravagante, egocentrico, il più delle volte alienato, tanto che quest’opinione è divenuta presto un luogo comune. All’artista geniale è attribuito, fin dal Rinascimento, un temperamento saturnino: i soggetti geniali sono contemplativi, assorti, cogitabondi, solitari e creatori. Saturno è il pianeta dei melanconici, tanto che la complessione melanconica e il temperamento saturnino vengono a sovrapporsi poco alla volta nel loro significato50. Abbiamo avuto modo di vedere come Saturno sia Satur-νους, una mente piena; l'eccesso di bile nera produce una pienezza mentale che ha i caratteri dell’eccesso: la mente straborda, eccede da sé e per non implodere o dileguarsi deve creare. La melanconia è infatti collegata alla produttività artistica. In effetti, una delle caratteristiche fondamentali dell'artista sono i cicli di produttività: abbiamo il periodo della esplosione creativa e poi abbiamo il periodo della crisi melanconica. 48Bonuzzi, Per l’Iconologia della Malinconia, 49R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, trad. it. cit., p. 271 ssg 50Negli ultimi anni sono state dedicate alla melanconia nell’arte due bellissime mostre a Parigi e Verona di cui si segnalano i cataloghi: G. Cortenova (a cura di), Il Settimo Splendore. La modernità della malinconia, Marsilio, Venezia, 2007 e J. Clair (a cura di), Mélancolie génie et folie en Occident, Gallimard, Paris, 2005.

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Quindi la melanconia non può essere appiattita sulla diagnosi di depressione, in quanto la melanconia non è mai soltanto depressione, ma anche esplosione che si manifesta in modo creativo. La tradizione che collega melanconia a creatività è molto antica. Abbiamo citato Aristotele, ma anche Platone distingueva tra pazzia clinica e pazzia creativa, l’ispirato furore da cui sono posseduti veggenti e poeti e che spinge a desiderare la bellezza divina. La teoria platonica dei furores, nella sua interpretazione ellenistica, sarà poi ripresa nel Rinascimento da Marsilio Ficino, che sancirà definitivamente il collegamento tra talento artistico ed equilibrio psichico precario51. Petrarca nel De contemptu mundi confessa a Sant’Agostino la sua tendenza all’accidia, ma nel contempo tramite il Canzoniere trasforma l’accidia in melanconia e prefigura così la modernità umanistica, dove la melanconia ritroverà collocazione, dopo il discredito ricevuto in epoca medioevale. Tra i sonetti del Canzoniere ve ne è uno che inizia con questo verso: «pace non trovo e non ho da far guerra»52. Possiamo considerare questi versi espressione della fase di depressione della melanconia. Il verso dice: non ho da far guerra, cioè non divento aggressivo, non combatto, però, nel contempo, non trovo pace. Ciò che esprime questo verso è distante dall’aggressività rivolta verso se stessi, che si suole associare alla depressione. L’autolesionismo ha poco a che fare con il fenomeno melanconico, legato al non trovar pace, all’inquietudine di un’attività che è dépense e che quindi non ha fine né scopo né oppositore: e non ho da far guerra, non ho un antagonista, non ho qualcosa o qualcuno contro cui combattere. Vi è un'inquietudine, che non è data da un elemento esterno, non è un sentimento reattivo, ma un’inquietudine esistenziale, uno stato d’animo, una Stimmung53. L’inquietudine del melanconico è data da una consapevolezza acuta, forse troppo acuta, della vanità del tutto, perché nel mondo nulla permane. Nel contempo, questa consapevolezza convive con un altrettanto forte desiderio di assoluto, spesso sottoforma di amore e di bellezza. Le melanconia si configura come tensione tra questi due poli, in una dinamica tra desiderio e morte54. Riprendendo l’analisi etimologica precedente potremmo dire che nella melanconia il thymòs, l’anima passionale e desiderante, sente forte il suo destino di psyché, di anima immateriale e quindi il collegamento con la morte. La biga alata nel Fedro platonico è infatti trainata da due cavalli chiamati eros e thymòs. L’analisi della dinamica melanconica è sotto questo profilo un'anticipazione di uno dei temi centrali della psicoanalisi: il tema del desiderio. Nella psicoanalisi il desiderio non è equiparabile al bisogno, perché non è desiderio di qualcosa, ma è il tendere a qualcosa che sta sempre alle mie spalle e che non riesco mai a cogliere. Lacan lo chiamava l’objet petit a (il piccolo oggetto a), l’oggetto del desiderio, che sta sempre dalla parte in cui tu non lo cerchi e non sta mai dalla parte in cui tu lo cerchi. L’“oggetto piccolo a” è l’oggetto metonimico del desiderio, l’oggetto del manque55. Carlo Michelstaedter scrive:

(Nella vita non si sente la volontà di vivere ma questo e quel desiderio). Sentir la volontà di vivere perché la necessità inerente alla propria illusione è accomplie: voilà la joie de vivre, l’illusione della vita. Sentir la volontà di vivere perché l’illusione è rotta (anche solo interrotta): ecco la tristezza (o melanconia). L’uomo vive felice finché crede di avere una volontà e d’esser qualcuno. Qualunque ragione lo porti fuori da questa fede ed egli diventa melanconico. Melanconia è una pioggia uguale lenta perché dice all’uomo l’infinita monotonia, l’immutabilità, la mancanza di scopo delle cose56.

51Cfr. R. e M. Wittkower, Nati sotto Saturno. La figura dell’artista dall’antichità alla Rivoluzione francese, Einaudi, Torino, 1996, pp. 112 sgg. 52F., Petrarca, Canzoniere, introduzione di R. Antonelli, esto critico e saggio di G. Contini, note al testo di D. Ponchiroli, Einaudi, Torino, 2005. 53Cfr. E. Borgna, Malinconia, Feltrinelli, Milano, 1992. 54Cfr. R. Guardini, Ritratto della malinconia, Morcelliana, Brescia, 1993. 55J. Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio, in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, p. 821. 56C. Michelstaedter, La melodia del giovane divino, Adelphi, Milano, 2010, p. 75.

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La melanconia, in quanto percezione dell’assenza dell’essere nella molteplicità dell’apparire, distanza incolmabile tra il desiderio e il suo oggetto, è un sentimento tragico. Ed ecco che torniamo al tema della tragedia e con esso alla senilità: la senilità, con la sua crasi melanconica, è un'inquietudine esistenziale che rende saggio l'uomo anziano. La saggezza, intesa come phrònesis, è a sua volta connessa al desiderio. Il phrònimos è colui che è in grado di ricercare, tra i mezzi a sua disposizione, i più adatti a realizzare il fine desiderato, e quindi di far coincidere il mezzo più idoneo con l’oggetto di desiderio (essendo il desiderio che muove all’azione). Negli anni Cinquanta del secolo scorso, il critico letterario e pastore canadese Northrop Frye, nel cercare di dare una classificazione dei generi letterari, ha scritto un libro che si intitola Anathomy of criticism (1957), dove tenta di restituire una visione sinottica della teoria, dei principi e della tecnica della critica letteraria. Frye individua quattro elementi narrativi che sono anteriori ai generi letterari e che chiama mythoi o trame generiche57, quattro forme narrative fondamentali, che corrispondono alle quattro stagioni, ai quattro elementi, ai quattro umori, ecc.: il romance, la tragedia, la commedia e la satira, che tra loro formano due coppie in opposizione (la tragedia in contrasto con la commedia e il romance con la satira). La novella (o commedia) rappresenta la primavera, l'infanzia, l'età della gioia e, volendo, anche l'elemento del comico e quindi il riso, l'elemento della felicità. La commedia deve avere sempre una happy end, un finale felice in quanto tale. Il romance, o anche l'epos, è la forma narrativa che si riferisce al fuoco, alla bile gialla e alla prima fase dell'età adulta. Il giovane adulto è l'eroe. Nell’Iliade, ad esempio, l’eroe per definizione è Achille ed è caratterizzato da un’ira incontenibile, da un fuoco che brucia: Cantami o Diva, del pelìde Achille l'ira funesta.... Il quarto mythos, la satira o ironia, rappresenta la stagione invernale. Potremmo pensare, ad esempio, all’opera di Aristofane, un'opera satirica, perché descrive ogni situazione umana con sguardo amaro, rendendola ridicola; è lo sguardo post mortem, attraverso il quale il mondo viene visto come una serie di facezie. Quello che interessa ai fini del nostro discorso è il terzo mythos, la tragedia, che è la forma narrativa che ha a che fare con la melanconia. Sebbene in questa forma narrativa si abbia sempre un finale tragico, si produce, nello spettatore che vi assiste, una condizione di catarsi. La parola katharsis (κἁθαρσις), ossia purificazione, è un termine che Aristotele usa nella Poetica in un’unica occasione. Per il resto impiegherà questo termine nelle opere di medicina. In generale, il termine catarsi, è un termine medico; Aristotele, usandolo a proposito della tragedia lo traspone dal campo medico a quello estetico.

Tragedia dunque è imitazione [mimesis] di un’azione seria e compiuta, avente una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e terrore porta a compimento la depurazione [kàtharsis] di siffatte passioni58.

La distanza dello spettatore dal protagonista è l’ingrediente essenziale della catarsi tragica. Che vi sia distanza è già implicito nel fatto di parlare di spettatori della tragedia, di persone che non hanno legami diretti e personali con i personaggi del dramma. Nel contempo, però, è altrettanto fondamentale che si crei un legame di tipo affettivo tra spettatore e personaggio, basato sulla possibilità di comprendere cosa sta succedendo a quest’ultimo. Questa comprensione è subito intonata secondo pietà o paura, le due passioni su cui fa leva la tragedia, che permettono lo stabilirsi di una relazione tra conspecifici. Lo

57Cfr. N. Frye, Anatomia della critica. Quattro saggi, trad. it. di P. Rosa-Clot e S. Stratta, Einaudi, Torino, 1969, pp. 209 sgg 58Aristotele, Poetica, 6, 1449b, trad. it. di M. Valgimigli, Laterza, Bari, 1964, pp. 24-28.

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spettatore è tuttavia svincolato perché non fa parte dell’intreccio: vede il dramma ma è decentrato, anche se non escluso da esso, ossia non è radicato nell’esperienza viva di chi si trova nella morsa dei fatti che la tragedia mette in scena. Proprio lo sradicamento dello spettatore dal dramma rende possibile la catarsi. Questa è la caratteristica specifica della tragedia: in essa il fruitore assume la posizione di spettatore di emozioni e di affetti che, se fossero vissuti direttamente, sarebbero insostenibili, mentre la distanza tra lo spettatore e lo spazio scenico genera un'emozione vicariante e solo in questo modo la visione tragica diviene tollerabile. La funzione catartica della tragedia si approssima a un concetto espresso molti secoli dopo, in epoca romantica, e ripreso poi dal filosofo Edmund Husserl: l’Einfühlung. Nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica egli introduce il tema dell’Einfühlung per chiarire la struttura dell’esperienza trascendentale di un io estraneo.

In quanto noi, rendendoli [i soggetti estranei] oggetti di enteropatia, li cogliamo come analoghi del nostro sé, il loro luogo ci è dato come un qui, rispetto al quale tutto il resto è un là. Ma, insieme con questa analogicizzazione, che non produce un che di nuovo rispetto all’io, abbiamo il corpo vivo estraneo come un là, identificato col fenomeno del corpo vivo-qui. […] Ma in nessun modo l’altro può avere (quanto allo statuto originario del vissuto che gli viene attribuito entropaticamente) la stessa manifestazione che ho io59.

Husserl utilizza un termine con una lunga tradizione e lo inserisce all’interno della filosofia fenomenologico-trascendentale, discostandosi dal suo significato originario. Potremmo tradurlo in italiano con entropatia, sebbene il più delle volte sia stato reso con empatia, in ogni caso esprime un concetto che non va confuso con quelli di simpatia e di compassione. Entrambi presuppongono la condivisione di un sentimento simile, mentre nell’empatia si ha un sentire ciò che prova l’altro, un’assimilazione dei sentimenti dell’altro, senza per forza simpatizzare con lui60. L'Einfühlung è la circostanza in cui in qualche modo io sento in maniera vicariante le affezioni che osservo sulla scena teatrale; e questa è la caratteristica specifica della tragedia. La distanza scenica permette di cogliere l’Alterità senza annullarsi simbioticamente in essa. L'Einfühlung è quindi una forma di conoscenza e di sapere, relazionale nella sua essenza, in quanto permette di trasferirsi nella modalità d’essere dell’altro, di sperimentare l’Alterità. È quindi un sapere relazionale, equiparabile alla phronesis, che si colloca nella declinazione della kàtharsis aristotelica. Il sapere melanconico è phronesis ed è Einfühlung, non è quindi un sapere teorico, libresco, concettuale. È un sapere emozionale, che si sente nel petto e attanaglia il diaframma. L’Einfühlung imprime ai significanti linguistici scambiati nella relazione una dimensione pulsionale, li carica di un preverbale, di un irrappresentabile, che necessita, per essere raggiunto, di andare oltre il linguaggio, verso l’indicibile, verso ciò che manca dal linguaggio, che in esso viene cancellato61. La tragedia, tramite questo movimento interiore di avvicinamento distanziante, permette di affacciarsi su una dimensione indicibile. Grazie a una torsione finale la posizione tragica acconsente di fermarsi a un passo dall’abisso, dal vuoto indifferenziato, e quindi di produrre conoscenza di questo vuoto. Questa torsione finale è possibile grazie all’elemento ironico della tragedia. L’accostamento tra ironia e tragedia può parere improbabile, se non ossimorico, in quanto l’ironia è associata al riso, mentre la tragedia al dolore e al pianto. In realtà ambedue le forme narrative possono far ridere. È noto che Kafka, ad esempio, la cui produzione letteraria ha toni amari, leggeva le sue opere tra amici e, assieme, ridevano molto:

Quando Kafka leggeva i suoi scritti agli amici, quell´umorismo diventava particolarmente manifesto. Ridemmo, per esempio, senza freno quando ci fece sentire il primo capitolo del

59E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. II, Torino, Einaudi, 2002, p. 170. 60Cfr. P. Barbetta, Lo schizofrenico della famiglia, Meltemi, Roma, 2008, pp. 151-152. 61Kristeva, Histoire d’amour

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Processo. Egli stesso rideva talmente che per qualche momento non era capace di continuare la lettura. Fatto abbastanza strano quando si pensi alla tremenda serietà di questo capitolo. Ma era proprio così. Vero è che non si trattava d´un riso buono e tranquillo. C´era però anche una parte di riso buono accanto alle cento parti paurose che non intendo minimizzare62.

Nella tragedia c'è sempre una dimensione ironica e in un certo senso non può non esservi, perché è salvifica rispetto al vuoto indifferenziato. La tragedia non coincide, infatti, con il vuoto indifferenziato, bensì è l'affacciarvisi, l'osservarlo stando a un passo dall’abisso, in una posizione antecedente. Dal punto di vista clinico, questa è la posa malinconica: lo stare a un passo prima del vuoto indifferenziato. La posizione tragica coincide con quella malinconica. Questo significa che si diventa melanconici quando, stando davanti al vuoto indifferenziato, si riesce a sorridere. Sappiamo che Democrito, il filosofo melanconico, è anche il filosofo ridens, che appartatosi dal clamore della città ride degli uomini e dei mille modi con cui essi si sottraggono deliberatamente alla verità:

[…] io rido solo dell’uomo, pieno di stoltezza, vuoto di azioni rette, infantile in tutte le sue aspirazioni, che dura le peggiori fatiche per non ricavarne alcun vantaggio, che con i suoi desideri smisurati percorre la terra fino ai suoi confini e penetra nelle sue immense cavità, fonde l’argento e l’oro e non smette di accumularne, si affanna ad avere sempre di più per esser sempre più piccolo. […] Si danno da fare per sposare una donna che poco dopo allontanano, amano e poi odiano, generano figli con desiderio e li cacciano una volta che sono cresciuti. Che cos’è quest’ansia vuota e irragionevole per niente diversa dalla follia? Combattono con quelli della loro stessa stirpe; invece di scegliere la pace, si tendono tranelli, uccidono i loro re. […]63.

Democrito passa in rassegna una vasta casistica di affanni umani, mettendone in luce l’assurdità e la vanità, al fondo delle quali vi è la pervicacia dell’illusione della dinamica del desiderio. Dopodiché Ippocrate giunge alla conclusione che Democrito non è impazzito, ma è più saggio di tutti gli altri.

Illustre Democrito, riporterò a Cos i grandi doni della tua ospitalità; mi hai infatti riempito di grande ammirazione per la tua sapienza. Torno indietro come tuo araldo per annunciare che tu hai seguito le tracce della verità sulla natura umana e la hai compresa64.

Quello di Democrito è il riso del saggio, che guarda gli uomini sottrarsi alla verità, sfuggirla in ogni modo pur di continuare a illudersi circa la sostanza del mondo. Il riso del melanconico Democrito è la posa del sapiente, che guarda il mondo e lo comprende tramite l’Einfühlung: la melanconia sopraggiunge «al contatto d’una cosa il cui punto vitale ci è vicino […] ma che è volto in parodia, che ci rivela un’illusione maniaca […]. Qui il riconoscimento d’un illusione non ci farebbe tristezza ma compassione, come la vista d’un manicomio o d’un ospedale. Ma il riconoscimento ci fa male quando l’identità di noi col pazzo […] si stabilisce tutt’a un tratto per la somiglianza della sua illusione che riconosciamo maniaca e della nostra illusione nella quale viviamo credendola la vera vita, la nostra vita»65. Assumere una posizione ironica nella tragedia è, in ultima istanza, diventare saggi. Non solo, il malinconico, dinnanzi al vuoto indifferenziato, riesce comunque a essere produttivo. Il genio melanconico, l’artista saturnino fronteggia il nulla, la vanitas, perché riesce a sublimarli. La tragedia è la sublimazione del vuoto indifferenziato e, quindi, la tragedia è la parte produttiva della melanconia. Fuori da questa caratteristica tragica non c'è più melanconia, ma c'è vuoto indifferenziato. Quest’ultimo è qualcosa di diverso dalla morte, è la mancanza di responsabilità del soggetto che anticipa la propria morte prima che essa sia sopraggiunta: è un soggetto irresponsabile, che non è capace di attraversare la fase del deterioramento del proprio corpo, e perde così l’occasione di diventare saggio. Dunque, uno

62M. Brod, Franz Kafka. A biografy, New York, Schocken Books, 1960. 63Ippocrate, Lettere sulla follia di Democrito, op. cit., pp. 65-66. 64Ivi, p. 77. 65C. Michelstaedter, La melodia del giovane divino, trad. it. cit., p. 78.

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sguardo sul proprio corpo che si deteriora è uno sguardo ironico. Solo dotandosi di sguardo ironico si può attraversare la senescenza e la tragedia che è connaturata al deterioramento. La capacità di attraversare la posizione depressiva senza cadere nel vuoto indifferenziato, è la caratteristica ascritta agli uomini eccezionali, ma è anche un’importantissima risorsa evolutiva. Quella della distanza ironica che osserva il vuoto indifferenziato non è l’unica caratteristica che connette tragedia e melanconia. Ambedue, infatti, presentano una ciclicità. È Nietzsche a metterne in luce la presenza all’origine della tragedia, proprio nella convivenza e nel rapporto tra l’elemento orgiastico-dionisiaco e l'elemento onirico-apollineo. Antonio Banfi nella sua opera su Nietzsche66, spiega in modo chiaro e preciso come avviene l'evoluzione dal sacro al rappresentativo della tragedia greca, ripercorrendo i passaggi della Nascita della tragedia di Nietzsche e spiegando come e dove la tragedia ha avuto origine. La tragedia nasce dai culti apollineo-dionisiaci in un’epoca storica in cui Dioniso e Apollo erano considerate divinità analoghe, portate in Grecia da diversi tipi di popolazioni, diventate una divinità una e bina. Il fatto che Dioniso fosse una divinità una e bina, cioè che Dioniso fosse anche Apollo, è fondamentale perché ci riporta all’idea della ciclicità. La ciclicità è insita anche nella melanconia e nei suoi cicli di produttività. L’alternanza mania/melanconia, il trapassare da uno stato all’altro, è nota fin dall’antichità. Sebbene si faccia risalire a Falret (folie circulaire) e Baillarger (folie à double forme) la genesi del moderno concetto di bipolarità, le sue caratteristiche erano già state osservate da Ippocrate e in seguito da Willis, nel XVIII secolo: «[s]i tratta […] di una sindrome costantemente e ripetutamente registrata, dall’antichità fino ai nostri giorni, ma anche all’interno di culture non occidentali, come ad esempio quella giapponese»67. Sul piano clinico, in quelle che il DSM definisce depressioni maggiori, le fasi maniacali sono delle fasi di benessere in cui, in qualche modo, il soggetto partecipa a quello che Freud chiamava il principio di realtà, in maniera da potersi curare. Il momento della elazione, o della “euforia”, che comunque è moderato rispetto a uno sfondo melanconico più forte, è il momento di una maggiore produttività e sviluppo della capacità. Si ha quindi un momento ipomaniacale, cioè al di sotto di una situazione quasi maniacale, che fornisce le condizioni in cui si può fare appello alle risorse dell’individuo. In altri casi, prossimi alla diagnosi di disturbo bipolare del DSM e alla psicosi maniaco-depressiva di Kraepelin, l'elemento maniacale è molto potente, e spesso non si adegua al principio di realtà; al contrario, l'elemento maniacale è quell'elemento in cui non c'è più nessuna forma di melanconia e quindi non c'è più saggezza. La fase maniacale diviene un momento distruttivo molto forte. Mania e melanconia. Dioniso e Apollo. Ecco la tragica visione cui il melanconico non può sfuggire, pena la perdita della saggezza o la caduta nell’abisso. Per reggere il peso di questa visione il melanconico deve sviluppare uno sguardo dell’oltre, in grado di giocarsi tra trascendenza e immanenza. La melanconia è sempre in bilico tra le tenebre della malattia e il chiarore della verità. La visionarietà del melanconico avvicina la sua esperienza a quella dell’estasi. Santa Teresa d’Avila, in un’epoca in cui la melanconia era associata alla seduzione demoniaca, temeva che le sue estasi potessero essere confuse con il morbus melancholicus. In effetti se ritorniamo alla nascita della tragedia, vediamo come essa, così come i culti apollineo-dionisiaci da cui essa deriva, produceva una condizione di dispersione dell’io, cioè una condizione estatica, che è in primo luogo la perdita del principio di individuazione. Nello stesso modo la melanconia è prima perdita e poi ritorno del principio di individuazione, ma attraverso la dimensione onirica, che è una dimensione narrativa, del racconto. Nietzsche scriveva sempre incipit tragoedia ricordandoci così che la tragedia sta sempre nel suo inizio, nell’ambiguità e nel taglio obliquo che la produce68. La tragedia inizia quando è già successo tutto, quando si è verificato un evento che ha l’azione di un taglio netto e incolmabile, in quanto l’evento

66A. Banfi, Introduzione a Nietzsche. 67M. Galzigna, La malattia morale, p. 107. 68S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura contemporanea, Feltrinelli, Milano 1999.

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tragico è irrisolvibile. La tecnica della tragedia è l'a-letheia, il dis-velamento di qualche cosa che è già accaduto. La melanconia è la stessa cosa, è il disvelamento di qualche cosa che è già accaduto o che ogni volta accade. Melanconia e depressione Oggigiorno il termine melanconia non si usa più in ambito clinico, né psicologico né psichiatrico. In realtà già Esquirol all’inizio del XIX secolo gli preferiva il termine lypemania, per distinguere melanconia clinica da quella cantata dei poeti e descritta dai filosofi, mentre un autore come Freud conserva il termine e gli dedica, nel 1905, un breve saggio intitolato Lutto e melanconia:

La melanconia è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in auto rimproveri e auto ingiurie e culmina nell’attesa delirante di una punizione69.

Nel DSM il termine melanconia non ha trovato collocazione, forse perché troppo vago, polisemico e collegato con una tradizione poetica e moralista. Curiosamente però, se da un lato la melanconia è stata espunta dal lessico nosologico, dall’altro permane in esso il rifermento agli umori. I disturbi e l’alterazione di quello che possiamo chiamare tono affettivo sono catalogati nell’ampia sezione dei Disturbi dell’umore. Questi comprendono tre sezioni: la prima descrive gli episodi di alterazione dell’umore (Episodio Depressivo Maggiore, Episodio Maniacale, Episodio Ipomaniacale, Episodio Misto); la seconda i disturbi dell’umore veri e propri (Disturbo Depressivo Maggiore, Disturbo Distimico, Disturbo Bipolare I. ecc.); la terza le specificazioni che descrivono l’episodio di più recente alterazione dell’umore e il decorso degli episodi ricorrenti70. Più che disquisire sull’esistenza della depressione o della melanconia, impossibili da rintracciare in natura come se fossero specie botaniche, si possono indagare i discorsi intorno alla depressione e alla melanconia. I termini clinici non designano mai qualche cosa che si ritrova in natura, come le rose e i garofani, distinguibili le une dagli altri per questa o quella caratteristica; la melanconia o la depressione sono dei termini immersi in formazioni discorsive e dunque la loro definizione dipende dall’ordine del discorso entro il quale si collocano. Oggi la parola “depressione” viene utilizzata come termine funzionale alla costruzione di un certo tipo di discorso sulla psiche umana. Nello specifico, questo discorso si basa sull’equivalenza tra mente e cervello e attribuisce validità a quell’insieme di teorie e argomentazioni che fanno capo alla base biologica della mente e del disturbo psichico. Sicuramente il privilegio accordato al discorso biologico e alle causalità psico-fisiche ha ricevuto un forte slancio dalle straordinarie scoperte nel campo della neurotrasmissione chimica. Nel 1952, grazie ai fondi forniti dalla Abbott Pharmaceuticals, Betty Twarog scoprì la serotonina nel cervello dei mammiferi. Di lì a poco ne fu accertata la presenza anche nel cervello umano71. Il fatto che il cervello umano, alla stregua di quello degli altri animali, funzionasse su base chimica, come il resto del corpo, e non tramite segnali elettrici fu una scoperta rivoluzionaria72. Nel giro di brevissimo tempo gli scienziati iniziarono a elaborare la teoria secondo la quale la malattia mentale fosse dovuta allo squilibrio dei neurotrasmettitori. Cominciò a circolare la teoria secondo la quale, detto in maniera semplicistica, la depressione era causata da un mal

69S. Freud, Lutto e melanconia, in Opere. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino, p. 103. 70APA, DSM IV-R. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, op. cit. 71Cfr. G. Greenberg, Manufacturing Depression. The Secret History of a Modern Disease, trad. it. di S. Sullam, Storia segreta del male oscuro, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 9-35. 72Cfr. Ivi, p.

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funzionamento o da una carenza della serotonina. Se lo squilibrio era dei neurotrasmettitori, allora era tramite la chimica che bisognava cercare di ripristinare una stabilità nel cervello umano. Così, negli Stati Uniti, già nel 1958 furono immessi sul mercato farmaci studiati per curare la depressione. Inizialmente venivano usate le anfetamine, in seguito il meprobamato; ma a sortire maggior successo negli anni sessanta furono le benzodiazepine (Valium, Librium), tranquillanti minori che venivano usati per la cura delle forme depressive. Al contrario gli antidepressivi triciclici, pensati per la depressione, faticavano a trovare acquirenti. Le benzodiazepine potevano essere prescritte dal medico di famiglia, senza ricorrere al consulto dello psichiatra. Questo particolare non è irrilevante se si tiene conto della resistenza con cui si ammette di avere una sofferenza psichica e di tutto il contesto di pregiudizi che ruota attorno alla malattia mentale. A cambiare la situazione intervenne un nuovo tipo di farmaci, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, cui ci si riferisce con la sigla SSRI (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors). Oggi gli SSRI sono tra i farmaci più venduti per la cura delle forme depressive. Questi farmaci fecero la loro comparsa negli anni Ottanta del secolo scorso: il primo SSRI, lo zimeldine, è stato immesso sul mercato dalla casa farmaceutica Astra Zeneca, ma subito ritirato73; solo cinque anni dopo, nel 1987, fu introdotto il Prozac (fluoxetina), che fece aumentare in modo vertiginoso l’utilizzo degli SSRI tra la popolazione americana (più di 30milioni di americani nel 2009)74. La depressione, dunque, è oggi definita come uno squilibrio chimico, dovuto alla produzione difettosa dei neurotrasmettitori serotonina e norepinefrina o a un’anomalia nel loro ciclo di ricaptazione; all’interno di questo tipo di formazione discorsiva l’infelicità cronica diviene uno stato di patologia (la depressione cronica), descrivibile in termini di squilibrio chimico o, nella vulgata, di mancanza o scarsità di serotonina. Solo ripristinando i giusti livelli dei neurotrasmettitori si riesce a portare l'essere umano a uno stato di benessere, di salute e, in ultima istanza, di felicità. Questa, a grandi linee, la tesi sostenuta nel libro Listening to Prozac, scritto nella metà degli anni Novanta del secolo scorso dallo psichiatra statunitense Peter Kramer75. «Col tempo» afferma Kramer «credo che arriveremo a scoprire che la psicofarmacologia moderna è diventata, proprio come la psicoanalisi ai tempi di Freud, lo scenario culturale teatro della nostra vita»76. Il pronostico di Kramer pare aver ricevuto conferma: lo scenario discorsivo entro cui si giocano oggi le vicende della depressione è prevalentemente quello psicofarmacologico. Evidenziarlo non vuole essere un giudizio di valore negativo sulla visione psicofarmacologica, che ha una sua indubbia validità. Gli SSRI hanno un effetto sulla ricaptazione della serotonina e minori effetti collaterali rispetto agli antidepressivi triciclici, che provocavano, tra le altre cose, aumento ponderale e calo della libido. Sebbene svariate disfunzioni sessuali e una generica sonnolenza siano ancora lamentate dai chi assume questi farmaci, in generale gli SSRI fanno aumentare il lasso di tempo in cui la serotonina rimane in circolo nell’organismo. Nonostante questa evidenza una buona percentuale di persone risulta essere farmaco-resistente e non trae alcun beneficio dall’assunzione degli SSRI; in questi soggetti, al contrario, l’assunzione di SSRI risulta essere tossica e provocare una sequela di effetti collaterali. La cura farmacologica della depressione è stata, per una quindicina d’anni (dai primi anni Novanta alla prima decade de Duemila), al centro di importanti campagne di marketing, che hanno contribuito a orientare in modo ancor più netto l’universo del discorso sulla depressione. Il messaggio diceva: “La depressione è una malattia grave ed è bene contattare quanto prima il proprio medico ai primi sintomi 73Tra chi faceva uso del farmaco, in Europa, ci furono casi da sindrome di zimeldine (uno stato simile all’influenza) e un’esplosione di sindrome di Guillain-Barré. (Cfr. E. Shorter, Before Prozac. The Troubled History of Mood Disorders in Psychiatry, Oxford University Press, New York, 2008). 74Cfr. ivi, p. 15. 75P. Kramer, La pillola della felicità, trad. it. di I. Blum, Sansoni, Milano, 1994. 76Ivi, p. 322.

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di tristezza cronica. Il medico sarà in grado curare la depressione attraverso sostanze farmacologiche adeguate”77. Pressappoco questo è il messaggio di pubblicità-progresso che è stato fatto circolare per una quindicina d'anni; è stato fatto sparire, quando ricerche non finanziate dalle grandi case farmaceutiche hanno dimostrato che gli antidepressivi in alcune fasce depressive gravi (quelle che appunto vengono chiamate “melanconie” o depressioni maggiori) inducevano le persone al suicidio. Anche se le case farmaceutiche negano che gli SSRI acuiscano le tendenze suicide, dalle statistiche emerge un quadro diverso78. Tutto ciò svela come il collegamento tra SSRI e depressione, che ha come collante principale il DSM e le sue diagnosi, sia tutt’altro che naturale. La verità è che la depressione è una malattia senza cause biochimiche note e l’efficacia degli antidepressivi, in realtà, è di gran lunga inferiore a ciò che viene millantato. La depressione oggi inerisce a un’area discorsiva al cui centro vi è l’idea che l’umore sia un sintomo di una malattia del cervello, frutto della chimica e quindi curabile tramite i farmaci idonei. La melanconia si trova immersa in tutt’altra area discorsiva. Gli antichi Greci pensavano che Fosforo ed Espero fossero due stelle diverse, in quanto una precedeva il Sole nel suo sorgere e l’altra nel suo tramontare. Ora sappiamo che Fosforo-Espero è in realtà una sola e unica stella: Venere. La stella del mattino e la stella della sera, dal punto di vista del significato, hanno lo stesso referente; mentre dal punto di vista del senso, la descrizione della stella del mattino e la descrizione della stella della sera sono due tipi di descrizione differenti di un solo referente. Nell'ambito discorsivo della psicoterapia non c'è una stella lassù; il linguaggio della clinica psicologica è un ordine discorsivo, in cui, spesso, il referente è a sua volta un referente di senso e quindi non è un referente naturalistico. Il problema è che in psicologia, le varie forme della sofferenza umana vengono convogliate in diagnosi, per le quali vengono spacciati dei referenti naturalistici: le malattie mentali. Questa supposta dimensione referenziale, sulla quale vengono spostate le nostre pratiche discorsive, ha almeno due ragioni: la prima è l'idea che le nostre competenze debbano essere colonizzate dal discorso medico, la seconda è che dietro a queste pratiche di colonizzazione c'è un'idea di società che funziona attraverso una sorta di normazione degli esseri umani79. La depressione è funzionale al discorso egemone in una società dove la tristezza è stata destituita da ogni valore positivo e degradata a malattia invalidante. Recuperare la polisemia della melanconia, parola usata da poeti, moralisti e filosofi, prima ancora che dai medici, significa ricollocare la sofferenza saturnina nel solco di una ricerca di senso dell’esistenza umana. La melanconia non soddisfa che in minima parte i criteri per la depressione del DSM; è troppo ambivalente e troppo radicata nell’esistenza umana per lasciarla ai soli psichiatri. La proteiformità e l’ambivalenza della melanconia non le hanno permesso di ricevere una catalogazione nosografica certa, ma di contro le hanno consentito di sfuggire alle angustie del discorso medico e di esprimersi nelle più diverse forme culturali. Il lavoro di cura della depressione necessita del recupero del discorso melanconico nel momento in cui si fa ricerca comune di senso, restituzione di trame narrative perdute o sfilacciate. Il melanconico si presenta spesso in terapia come colui che sostiene di soffrire come nessun altro ha mai sofferto e mai soffrirà. Così come viene dichiarato, questo tipo di sofferenza è avulso dalla relazione sociale perché il depresso erge il proprio sentire a condizione assoluta e ineguagliabile. Sembra dire: “non c'è nessuno che può soffrire più di me”. È la posizione narcisista, in cui la 77Cfr. G. Greenberg, Storia segreta del male oscuro, trad. it. cit., pp. 326-327. 78Cfr. ivi, p. 414. 79Cfr. A.V. Horowitz, J.C. Wakefield, The Loss of Sadness, Oxford University Press, Oxford, 2007.

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sofferenza, paradossalmente, per essere dichiarata con questa potenza, perde dignità perché si colloca fuori dal legame sociale. In questi casi, occorre ridare importanza alla sofferenza, perché essa è il centro attorno a cui ruota l’attività terapeutica: non è la guarigione l’obiettivo, ma il lavoro sulla sofferenza. Solo nel momento in cui essa assume dignità, acquisisce la pienezza del suo statuto. Per ottenere ciò bisogna collegare la sofferenza all’esperienza vitale del paziente, alla sua vita, agli episodi che gli sono capitati, alle relazioni in cui è entrato, alla quotidianità che vive, alle possibilità che non si è concesso e che potrebbe concedersi. In altre parole significa reinserire la sofferenza nella relazione sociale. Solo in questo modo si esce dalla posizione narcisistica e ci si ricolloca in un universo relazionale ed evolutivo. Melanconia e isteria Da un punto di vista clinico melanconia e isteria appartengono a due campi differenti; la contrapposizione classica, infatti, è quella tra mania e melanconia e non tra isteria e melanconia. Ampliando il nostro sguardo al di là della clinica classica, potremmo dire che malinconia e isteria sono un risvolto maschile e uno femminile dello stesso tipo di condizione umana. Contrariamente alla mania e alla malinconia, l’isteria ha faticato a trovare collocazione all’interno delle nosografie e delle classificazioni. La storia della cinica è un susseguirsi di tentativi di trovare coerenza all’interno della sintomatologia e delle manifestazioni isteriche, ma nessun medico è mai riuscito a percepire quella coesione qualitativa che ha fornito alla mania e alla malinconia il loro profilo singolare80. L'isteria, in quanto tale, è sempre stata una manifestazione patologica che esorbitava dal discorso medico-clinico e nel contempo lo sfidava: con la sua sintomatologia proteiforme e cangiante, che mimava quella di altre patologie senza però avere gli stessi correlati d’organo, metteva in scacco l’apparato concettuale psicodiagnostico. Il termine isteria (hysteros) è utilizzato dalla medicina ippocratica, ma al di fuori della dottrina degli umori. Nel trattato Sulla natura della donna, Ippocrate non fa riferimento alla teoria degli umori, ma alla teoria del “secondo psichismo” o dell'utero, considerato alla stregua di un animale che vive dentro il corpo femminile. La presenza dell’utero nel corpo femminile fa sì che la donna abbia sempre una seconda intenzionalità. Per Ippocrate, infatti, l’utero era mobile e, a seconda dei suoi spostamenti, produceva i diversi sintomi (ad esempio, il bolo isterico). In quest'opera di Ippocrate tuttavia c'è un grande rispetto per il corpo femminile, tale per cui il medico non interviene sul corpo femminile, ma dà indicazioni alla donna su come manipolare il proprio corpo. Si tratta un'opera interessante da più punti di vista. L’attribuzione a Ippocrate è dubbia, in quanto il trattato ha un carattere pratico ed è riferibile alla scuola di Cnido, più orientata in questo senso. Il trattato prosegue con le indicazioni medicamentose. A seconda di dove si pone l'utero, vengono prescritti dei fumenti, disgustosi se l’utero va allontanato o profumati se va avvicinato a una determinata sede corporea. Per individuare la posizione corretta dell'utero si danno una serie di indicazione alla donna, perché attraverso le sue mani possa collocarlo più o meno correttamente. Sin dall'inizio, il termine hysteros ha anche un altro significato: ”qualcosa che accade dopo”, non è soltanto l'utero. Per Platone l'utero è l'hypodoché, che in italiano viene tradotto con il termine “ricettacolo”. Platone utilizza questo termine in merito alla generazione: l'hypodoché è qualche cosa che non ha forma, ma che dà la forma. L’hypodoché è la sede dove l’embrione nasce e si sviluppa. Ha quindi a che fare con il materno. Da qui potremmo pensare al principio paterno come a quello che dà la forma e al principio materno

80M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it. cit., p.

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come al principio dell'informe. Quindi, il calco è paterno, ma il ricettacolo è materno e rappresenta una componente di trasformazione fondamentale tra l'informe e la forma. In forza di questi collegamenti, possiamo considerare l'isteria come una dimensione più femminile, anche se l'isteria è una caratteristica attribuibile a entrambi i sessi. In ogni caso ciò che va sottolineato è che, nella concezione classica, la donna non viene mai considerata all’interno la teoria degli umori, in senso stretto, ma viene letta nella dimensione della generazione. C'è un secondo discorso, quindi, che è il discorso del femminile: l'utero è l'hypodoché, cioè il ricettacolo, il luogo dove qualcosa accade dopo. L'utero, a un certo punto, fa succedere un'altra cosa: la generazione, il parto. Il mondo femminile, in quanto riproduttivo, non è compreso nel discorso degli umori. La dimensione della melanconia per il maschile corrisponde alla dimensione dell'isteria per il femminile. Molte persone che dicono di essere depresse, mostrano anche dei tratti che sono tratti isterici. In fin dei conti anche la depressione, così come l’isteria non ha sostrato d’organo. Quando uno dice: “io ho la depressione”; ebbene, dove la trovi la depressione? . Melanconia e schizofrenia La psichiatria ottocentesca di stampo kraepeliniano amava procedere per coppie dicotomiche nel catalogare le malattie mentali, quasi creando un albero di Porfirio. In questa concezione kraepeliniana i disturbi del pensiero e i disturbi dell'umore erano affatto differenti, ai primi faceva capo la dementia praecox e ai secondi la psicosi maniaco-depressiva. Quest’ultima era considerata da Kreapelin una psicosi di minore entità, che si avvicinava al campo delle nevrosi, mentre la dementia preacox è stato il disturbo precursore delle patologie dello spettro psicotico (gli schizoidi e poi la forma schizofrenica). I disturbi dell'umore sono i disturbi del metabolismo interno, delle emozioni e dell'affettività; i disturbi del pensiero sono invece più “primitivi”, tanto che non permettono nemmeno l’accesso alla dimensione della depressione. Melanie Klein sosteneva che la posizione depressiva è la posizione più evolutiva; mentre la dimensione schizoparanoide, che le è antecedente, è la dimensione più ancestrale, di regressione più antica e profonda. La schizofrenia era considerata la malattia mentale di maggior gravità, la malattia delle malattie mentali, perché appunto non riguardava l’eccesso degli umori, ma era un disturbo del pensiero. Al centro della sintomatologia dei disturbi del pensiero campeggia il delirio, che può essere manifesto o silente, ma che fino all’introduzione dei neurolettici atipici, ha rappresentato il sintomo principale della follia. La presenza di un discorso delirante diviene il nucleo della definizione di follia, in senso classico: «Questa parola [delirio] è derivata da lira, solco; cosicché delirare significa letteralmente allontanarsi dal solco, dalla dritta via della ragione»81. I l caso del delirio psicotico è quello che si chiama delirio paranoide e che si potrebbe anche pensare come “delirio del codice”82, come costruzione di un discorso strettamente logico su un’idea che non trova attinenza con il principio di realtà. Il delirio del codice ha una coerenza estrema tanto che ogni episodio o segno che accade alla persona può essere interpretato e spiegato alla luce del codice paranoide, come prova del teorema che compone il delirio83. Il pensiero delirante si caratterizza per un eccesso di logica e di coerenza che lo rendono del tutto privo di qualsiasi connessione plausibile84. Il delirio, però, nel pensiero classico, non era esclusivo della demenza, poteva anche essere di tipo

81James, Dictionnaire universel de médecine, trad. fr. Paris 1746-48, cit. in M Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it. cit., p. 330. 82Cfr. P. Barbetta, Forme del delirio e metodi etnografici in psicoterapia, in M. Ceruti, G. Lo Verso (a cura di), Epistemologia e psicoterapia. Complessità e frontiere contemporanee, Raffaello Cortina, Milano, 1998. 83P. Barbetta, Lo schizofrenico della famiglia, op. cit., p. 45. 84Ivi, p. 53.

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melanconico: La melanconia è un delirio continuo che differisce in due cose dalla mania: la prima sta nel fatto che il delirio melanconico è limitato a un solo oggetto che si chiama “punto melanconico”; la seconda è che questo delirio è lieto o triste, ma sempre pacifico; così la melanconia non differisce dalla mania se non come ciò ch’è maggiore da ciò ch’è minore, e questo è così vero che molti melanconici diventano maniaci, e che molti maniaci sulla via della guarigione o nell’intervallo dei loro accessi sono melanconici85.

Si tratta di delirio sommesso ma continuo, dai toni cupi e tristi: La malinconia è «una follia senza febbre né furore, accompagnata da timore e da tristezza». Nella misura in cui c’è delirio – cioè rottura essenziale con la verità -, la sua origine risiede in un movimento disordinato degli spiriti e in uno stato difettoso del cervello […]. Nella malinconia gli spiriti sono trascinati da un’agitazione debole, senza potere né violenza: una specie di scuotimento impotente che non segue i sentieri tracciati né le vie aperte (aperta opercula), ma attraversa la materia cerebrale creando sempre nuovi pori; tuttavia gli spiriti non si smarriscono molto lontano sui sentieri ch’essi tracciano; ben presto la loro agitazione s’illanguidisce, la loro forza si esaurisce e il movimento si arresta: «non longe perveniunt». Così un simile turbamento, comune a tutti i deliri, non può produrre alla superficie del corpo né quei movimenti violenti né quelle grida che si osservano nella mania e nella frenesia; la malinconia non giunge mai al furore; è una follia ai limiti della sua impotenza. Questo paradosso è dovuto alle alterazioni segrete degli spiriti. Di solito essi hanno la rapidità quasi immediata e la trasparenza assoluta dei raggi luminosi; ma nella malinconia si caricano di notte; diventano «oscuri, opachi, tenebrosi»; e le immagini delle cose che essi portano al cervello e allo spirito sono velate «d’ombra e di tenebre»86.

Il melanconico ha quindi il suo delirio, anche se differisce da quello maniaco per i toni cupi e tenebrosi che assume. Si tratta di deliri olotimici, in cui tutta l’ideazione, e non solo quella che è sotto la luce di un complesso, viene colorita nell’inibizione dello stato dell’umore (o nell’esaltazione dello stato dell’umore nel caso dl delirio maniacale). A differenza poi dei deliri schizofrenici e persecutori, la tematica del delirio melanconico non è persecutoria, bensì di autoaccusa87. Anche Borgna trova tra la Stimmung melanconica a quella delirante dei punti di contatto:

Lo stato d’animo depressivo ha qualche significativa analogia con quello delirante, non nei suoi contenuti radicalmente diversi ma nei suoi aspetti formali. Non si ha la metamorfosi dei significati che alludono all’autoriferimento, e non si ha l’esperienza della fine del mondo intesa come nientificazione di ciò che sta fuori dall’io, ma nonostante questo anche nello stato d’animo depressivo si ha la crisi profonda della comunicazione con il mondo delle cose e delle persone, che si allontanano e si fanno evanescenti: enigmatiche e oscurate nel loro significato88.

In particolare è l’autismo depressivo, la distanza melanconica dal mondo e dagli uomini a preparare il terreno ad un possibile esordio schizofrenico:

La situazione predepressiva […] corrisponde alla situazione di partenza del deliro, il tipo melanconico come struttura dell’Endon assicura e fissa le condizioni della possibilità di persistenza e insistenza del tema, il distacco atmosferico del tema si ritrova nell’assolutizzazione melanconica della perdita […] e l’indifferenza ulteriore al destino dell’avvenimento scatenante89.

85Le quattro classi delle malattie dello spirito secondo Doublet, Arsenal, ms. 2566, ff. 54-70, cit. in M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it. cit. 86M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it. cit., pp. 366-367. 87Cfr. G. Gozzetti, La tristezza vitale. Psicopatologia e fenomenologia della melanconia, Marsilio, Venezia, 1996, p. 149. 88E. Borgna, Malinconia, Feltrinelli, Milano, 1992, pp. 97-98. 89A. Tatossian, Phénoménologie des psychoses, p. 221.

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Lo psicologo clinico statunitense Louis Sass90, riprendendo la psichiatria fenomenologica inaugurata da Jaspers e in particolare il pensiero di Klaus Conrad, utilizza il termine “trema” per definire l'esordio schizofrenico. Il libro di Conrad – Die Beginnende Schizophrenie91 - è considerato un classico per chiunque voglia affrontare la questione della schizophrenia incipiens da un punto di vista fenomenologico. Per Conrad, che si inserisce nel solco del pensiero di Minkoswski ed Ey, e ha come riferimenti fondamentali Husserl e Bergson, soltanto riconoscendo, nel delirio, il liberarsi di parti fondamentali dell’essere è possibile comprendere l’esperienza vissuta (Erlebnis) del paziente. Assumendo questa prospettiva, Conrad l’ha applicata su un materiale clinico particolare: le giovani reclute della Wermacht ricoverate in seguito a esperienze deliranti primari negli ospedali militari tedeschi. Dall’osservazione di questi giovani Conrad distingue, all’interno della schizophrenia incipiens, due fasi: la fase del trema e quella apofanica, che non necessariamente sono susseguenti, ma corrispondono a diversi livelli di profondità colpiti. Nella fase del trema, l'esordio schizofrenico è preceduto da una situazione ad alta intensità emotiva. Il termine trema deriva dal lessico teatrale, in cui indica l’inquietudine ansiosa che coglie l’attore nel momento immediatamente precedente all’entrata in scena. La fase apofanica, invece, descrive lo stato del paziente delirante che si comporta come un essere umano posto innanzi a una rivelazione. In greco, il verbo apophanein significa infatti rivelare. Sass, riprendendo Conrad, si smarca dalla posizione kraepeliniana secondo cui lo schizofrenico soffre unicamente di un disturbo del pensiero, senza implicazioni somatiche ed emotive (da cui il sintomo autistico, oggigiorno divenuto una diagnosi a sé stante). Nell’ottica kraepelinaina, essendo il delirio un disturbo del pensiero, non ha niente a che fare con gli umori. Quindi la mancanza di umori comporta una degenerazione nel senso dell'impoverimento delle capacità mentali dell'individuo. Tutt’oggi si parla in merito alla schizofrenia di deterioramento cognitivo, di perdita cognitiva, senza contare il peso della terapia farmacologica nel contribuire alla perdita di quelle che si chiamano competenze cognitive. Tuttavia la dizione “deprivazione cognitiva” sta via via sparendo dalle cartelle cliniche e anche il DSM l’ha sostituita con quella di deterioramento sociale. In ogni caso si continua ad associare la schizofrenia alla perdita e al deterioramento. In realtà, facendo rientrare il fenomeno dell’esordio schizofrenico all’interno della questione nella dimensione umorale-esistenziale, ci accorgiamo che la questione è esattamente al contrario; cioè, che l’esordio schizofrenico non è un fenomeno di perdita, bensì di sovrabbondanza. Sass la designa con il termine hyperiflexivity, una sorta di sovrapproduzione culturale:

Si è detto che l’arte moderna manifesta certe caratteristiche salienti della schizofrenia: una qualità che è stata difficile da comprendere in modo univoco. Ciò che un critico ha definito come Ungefühlbahrkeit. Gli aspetti rilevanti di quest’arte sono tuttavia antitetici alle nozioni di primitivismo e di deficit o difetto, infatti queste forme d’arte non sono caratterizzate da irriflessività e spontaneità, bensì da un’acuta consapevolezza e autoreferenza, e, contemporaneamente, da un’alienazione dall’azione e dall’esperienza – qualità alle quali possiamo riferirci con il termine di iper-riflessività92.

90L. Sass, Madness and Modernism, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1992. 91K. Conrad, Die beginnende Schizophrenie. Versuch eniner Gestaltsanalyse des Wahns, Theorg Thieme Verlag, Stuttgart, 1958. 92L. Sass, Madness and Modernism, op. cit., p. 8

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