Trincea al cuore dell’anima: lezioni da Anatomia della battaglia di Giacomo Sartori

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NUOVA PROSA, n. 62, ESTATE 2013 Gian Balsamo Trincea al cuore dell’anima: lezioni da Anatomia della battaglia di Giacomo Sartori La sconfitta della seconda guerra mondiale ha inflitto una ferita profonda alla fibra morale del nostro Paese. Abbiamo negato l’evidenza sostenendo di avere vinto. I veri vincitori non hanno protestato perché nel frattempo ci siamo sconfitti da soli con la guerra civile. Insomma, abbiamo trionfato soccombendo a noi stessi. Coloro che, come il protagonista del romanzo di Giacomo Sartori e come questo lettore, sono nati in Italia nei decenni immediatamente successivi alla guerra, hanno ereditato i postumi di quel successo degradante: una ferita aperta al cuore dell’anima; la trincea d’una lotta solitaria contro la nostra stessa ombra, talora in Orbace, talora brandendo lo Scudo Crociato o il drappo del Falce-e-Martello, talora travisando lo spargimento di sangue per una Missione. *** 1

Transcript of Trincea al cuore dell’anima: lezioni da Anatomia della battaglia di Giacomo Sartori

NUOVA PROSA, n. 62, ESTATE 2013

Gian Balsamo

Trincea al cuore dell’anima: lezioni da Anatomia della

battaglia di Giacomo Sartori

La sconfitta della seconda guerra mondiale ha

inflitto una ferita profonda alla fibra morale del

nostro Paese. Abbiamo negato l’evidenza sostenendo di

avere vinto. I veri vincitori non hanno protestato

perché nel frattempo ci siamo sconfitti da soli con la

guerra civile. Insomma, abbiamo trionfato soccombendo a

noi stessi. Coloro che, come il protagonista del

romanzo di Giacomo Sartori e come questo lettore, sono

nati in Italia nei decenni immediatamente successivi

alla guerra, hanno ereditato i postumi di quel successo

degradante: una ferita aperta al cuore dell’anima; la

trincea d’una lotta solitaria contro la nostra stessa

ombra, talora in Orbace, talora brandendo lo Scudo

Crociato o il drappo del Falce-e-Martello, talora

travisando lo spargimento di sangue per una Missione.

***

1

RESISTERE, ALLENARSI, SOTTO MUSSOLINI SI STAVA

MEGLIO, STRINGERE I DENTI, METTERCELA TUTTA, NON

SPRECARE IL CIBO, VERRÀ BENE LA GUERRA. Anatomia della

battaglia esordisce con un lessico familiare fatto di

espressioni concentrate, ostinate, laconiche e concise.

Sembrano cariche di un significato strettamente, quasi

direi cocciutamente letterale. Chi se l’è sentite

rivolgere nell’infanzia sa bene che ognuna di queste

brevi espressioni contiene invece un intero universo,

un intreccio di vicende individuali e familiari, un

ganglio di sofferenze; oltre ad essere frequentemente

rievocato, questo universo di patimento viene ogni

volta modificato, riveduto e corretto, a seconda della

contingenza presente, a seconda della maniera di

pronunciare le poche sillabe che lo esprimono. Si

tratta di un linguaggio inenarrabile. La pagina scritta

è impotente a catturare il tono volta a volta umorale,

astioso, canzonatorio, rabbioso, tollerante, risentito

o folle o rancoroso con cui le parole di questo lessico

si caricano di significati nuovi nel venire

pronunciate; decifrarne ogni sfumatura, ogni

inflessione in modo compiuto richiederebbe un libro

intero. 2

Da questo linguaggio inquinato deriva l’artificio

dei paroloni in lettere maiuscole adottato da Sartori.

Questi paroloni bruschi sostituiscono il dialogo tra i

familiari del protagonista della vicenda, che ne è

anche il Narratore. Non si tratta soltanto di un

idioletto domestico, padroneggiato dai suoi

consanguinei ma impenetrabile al linguaggio lineare con

cui si propone di comprenderne e spiegarcene l’universo

di patimento. Si tratta anche di una specie di

Intransigenza Eroica che comprende tutti gli imperativi

degli italiani dell’era fascista.

È a questa maniera insolita che ci si annuncia il

romanzo di Sartori, con una specie di manifesto del

linguaggio intransigente. Fin dal suo primo apparire,

questo linguaggio viene opposto a quello nudo, privo di

echi e sottintesi, trasparente fino alla vulnerabilità

messianica, con cui il Narratore si appresta a

raccontare l’intransigenza di cui Guido, suo padre, ha

contagiato la propria intera famiglia. Il linguaggio

del Narratore di Anatomia della battaglia è puntualmente

antitetico a quello con cui dialogano il padre e la

madre, o per meglio dire, si tormentano a vicenda e

tormentano i figli senza requie.3

Padre e figlio, invece, non si parlano affatto,

nemmeno nell’idioma scarno di Guido. Persino nei

momenti di maggiore intimità, e ne vivono parecchi nel

corso della vicenda, mano a mano che il cancro divora

le interiora di Guido, scelgono di esprimere i

sentimenti reciproci attraverso il silenzio. Malgrado

l’apparenza contraria, questo loro dialogo muto è un

passo più vicino del lessico familiare

all’Intransigenza Eroica dell’era fascista. È la

matrice dell’idioma domestico in cui si traduce

l’impossibilità di ogni forma di solidarietà umana: lo

sentiamo strettamente imparentato con quel silenzio

tenace, retaggio della vergogna – anche quella di

averla fatta franca – che non potevamo spiegarci da

bambini, quando intuivamo che nonni e genitori ci

parlavano continuamente della guerra ma rifiutavano di

dircene la verità.

Il Narratore di Sartori parla a noi, invece, nel

linguaggio dell’arrendevolezza, della capacità –

eroica, questa sì – di sapersi accettare, di adeguarsi

alla fragilità del carattere e volubilità del

temperamento che la Storia d’Italia ci ha imposto per

il tramite della famiglia di origine. 4

Se l’intransigenza del padre Guido si manifesta a

tutta prima nella guisa degli imperativi categorici

che, stando a Kant, affermano il regno della libertà, è

solo al fine di rovesciare questa risolutezza nel

proprio opposto. Sartori ce lo fa capire chiaramente e

senza ambiguità: avremo a che fare, nel suo romanzo,

con una “etica implacabile” che travalica gli interessi

contingenti del singolo e “detta legge,” ma nel farlo

sovverte ogni cosa che è, di diritto, “pura e buona.”

Viene la prima metafora, così carica di verismo che

rischia di passare inosservata: invece di lavare e

disinfettare l’aria, la pioggerella primaverile che

cade sul Trentino permea di radiazioni mortali – sono

quelle regalate al Nord Italia da Chernobyl – “i

cappelli della gente, i cappottini dei bambini” e

l’insalatina nuova nell’orto di Guido; il quale si

divora, a dispetto delle INVENZIONI DEI POLITICI e

della arrendevolezza dei PECORONI, “i ravanelli, i

primi tenerissimi zucchini, i piselli, le carotine

sottili e croccanti” (9-10, 168).

Quando il Narratore raggiunge a sua volta l’età

della intransigenza, incatenandosi volontariamente a

quel colossale abbaglio politico che è stata la lotta 5

clandestina armata degli Anni Settanta-Ottanta, lo fa

nel tentativo di emanciparsi dal mondo di Guido. Non

potendo cambiare il padre o la famiglia, vorrebbe

cambiare il Paese e la Storia che li hanno prodotti.

Sebbene coinvolta nella stessa impresa, la fedele

girlfriend M. non si fa remore nell’andare (troppo

speditamente) al nocciolo delle questioni intorno a cui

il Narratore ronza indeciso e abulico. Secondo lei,

loro due sono diventati terroristi per evitare di

affrontare i propri problemi psicologici (171). M. non

ha ragione, non esattamente perlomeno, o questo romanzo

non avrebbe motivo di essere. Nel regno

dell’intransigenza del Narratore, come confermerà più

tardi il caso della moglie, la pied-noir algerina Nora

(anche lei troppo spedita nel risolvere

l’irrisolubile), le compagne godono dei vantaggi

dell’accomodamento e della tolleranza; pallidi

surrogati della passione e del trasporto erotico, sono

i requisiti principali dell’amore non ricambiato in una

vicenda al cui Narratore, oppresso dalla diffidenza

verso i sentimenti, spetta invece il compito ingrato

della conquista della libertà.

6

La libertà che ottiene dalla lotta armata è una

libertà condizionata da ex-galeotto, emblematizzata a

tutta prima in un pugno di scorpioni pronti a finirlo,

nel deserto africano dove è andato a rifugiarsi (9-10,

168). È qui che inizia il romanzo vero e proprio.

Incontriamo il Narratore a questo punto della sua

vicenda personale, quando l’opzione del terrorismo lo

ha deluso, rivelandosi non troppo dissimile dal

fanatismo del padre Guido – imperniata sullo stesso

odio, anche di sé, sullo stesso culto del coraggio e

disprezzo della viltà (26, 118, 182).

L’amico terrorista detto Lenin, un fanatico che

confonde la politica con l’artiglieria, viene lasciato

morire in carcere dalle autorità che lo hanno

catturato. L’amico terrorista Berto, un imbelle negato

all’insurrezione armata, di quelli che confondevano la

comprensione del mondo con la teoria del plusvalore, è

pure morto, in clandestinità. Non sono difficili da

immaginare, Lenin e Berto, indegni di figurare in una

noterella a piè di pagina della Storia Nazionale.

Senonché il Narratore li immortala nell’episodio del

colpo in banca, una pantomima del furto proletario i

cui personaggi si muovono con movenze rallentate, come 7

immersi in una soluzione di molassa cerebrale: Lenin

inserisce il caricatore nella Beretta con un fruscio

liquido, Berto regge la pistola come se fosse un

idrante, i passanti si accalcano curiosi all’ingresso

della banca come un branco di pesci indolenti, e il

sudore ruscella sul volto del Narratore, scollando la

barba posticcia dalla pelle, mentre egli guida

l’automobile in fuga come se si trattasse di un pedalò

(131-136).

All’inizio del romanzo, Lenin e Berto sono morti. È

rimasto solo, il nostro Narratore senza nome, apolide

in tutti i sensi, quello dei vincoli familiari e

amicali e politici e nazionali e amorosi. È espatriato,

pure, ma solo nel senso fittizio della chiocciola che

si porta dietro la casa.

Cerca rifugio in quel regno della memoria che, da

Proust in avanti, identifichiamo con la letteratura.

Come Marcel, il protagonista della Recherche, il

Narratore di Sartori vorrebbe diventare scrittore. Come

Marcel, teme di non avere i numeri per farlo (119).

Come Marcel quando sogna la nonna morta, si rifiuta di

schermare la propria sensibilità dietro la “forma” e il

“senso” inerenti all’opera letteraria (141). Vuole 8

imparare a vivere e soffrire e patire senza mai

smettere di osservarsi, di vivisezionarsi fin giù al

cuore dell’anima, relegando la scrittura dei ricordi a

un secondo momento. Quale? Il preciso momento in cui,

proprio come Marcel alla fine della Recherche, prenderà

congedo da noi lettori per cominciare a “vivere” (241).

Il cancro causato dalle insalatine radioattive lo

ha reso orfano del padre Guido, sconfitto da un nemico

più implacabile della guerra. Il sipario è

definitivamente sceso sull’universo di tutti quegli

imperativi mendaci e quelle responsabilità disumane.

(La splendida storia della famiglia schierata intorno

al capezzale del padre morente compone un vero e

proprio romanzo all’interno della trama più ampia di

Anatomia della battaglia, e meriterebbe una lezione a parte).

Il figlio di Guido può finalmente cominciare a scrivere

in un linguaggio privo di echi e sottintesi, di empatia

e antipatia; adotta, per questo romanzo confinante nel

memoir, il contrario del proprio lessico familiare.

Scrive, a partire dal momento in cui prende congedo dai

lettori, il libro che essi hanno appena terminato di

leggere.

9

La narrazione di Anatomia della battaglia si sviluppa in

paragrafi separati l’uno dall’altro da una spaziatura

bianca, rettangoli di parole che fanno blocco a sé,

intervallati come dal respiro profondo che precede

l’immersione in apnea; nel rifiutarsi ad ogni

contaminazione idiolettica, come pure al tira-e-molla

del discorso diretto, questi blocchi di parole

enunciano i propri significati in un tono che a tutta

prima potrebbe apparire saggistico. Ognuno di questi

paragrafi è chiaramente degno di figurare in una

antologia delle lettere nazionali. A volte si prova

addirittura il sospetto che Sartori scriva troppo bene –

da saggista, appunto. Ma poi si comincia a vedere

attraverso la scrittura. Spunta sovente il discorso

indiretto libero, l’invenzione stilistica che Joyce

attribuiva a Flaubert. Il Narratore di Sartori ne fa un

uso avaro e tecnicamente ammirevole. Ne incontriamo il

primo esempio a una cinquantina di pagine dall’inizio,

quando un puro sgomento si manifesta per la prima volta

nel romanzo, senza ricalibrarne peraltro gli ingranaggi

dello stile. Guido porta il figlio ormai adulto a fare

una scalata su roccia. Sceglie una giornata in cui le

previsioni del tempo sono pessime. Durante 10

l’arrampicata si scatena puntualmente la bufera sui due

alpinisti esposti alla furia degli elementi dalla

parete a straspiombo. E al culmine del pericolo il

Narratore smette di parlarci per cominciare a parlare a

se stesso. Si fa documentarista della propria reazione

alla situazione disperata in cui lo ha cacciato il

padre. “È un fanatico, un pericoloso fanatico. [...]

L’unica cosa che davvero gli interessa è mettere in

pericolo se stesso e gli altri. Ha fatto apposta, è

chiaro che ha fatto apposta”(56).

È questo il primo scorcio introspettivo, l’opposto

della saggistica, offertoci da un romanzo che non sa

che farsene degli psicologismi. Si inserisce

all’interno di un episodio tragicamente bello,

punteggiato di saette a pochi metri dai protagonisti e

fulmini che si scaricano lungo gli stessi cordini

d’acciaio che dovrebbero portarli alla salvezza. Ci

regala in presa diretta la misura dell’eroismo idiotico

del padre del Narratore, e della succube impotenza di

quest’ultimo ad emanciparsene. Questa prima comparsa

del discorso indiretto libero è seguita da parecchie

altre che si conformano alla regola stabilita qui. È il

caso della “grande retata,” durante la quale il 11

Narratore è consapevole che varie persone che conosce,

consapevoli a loro volta del suo coinvolgimento nel

terrorismo, si trovano in quel momento “sotto

interrogatorio, in una cella d’isolamento, o anche con

due elettrodi attaccati ai testicoli.” Ma si

incaponisce nella preparazione di un esame

universitario. E smette di analizzare ed analizzarsi,

ci si mostra nel vivo dei propri scrupoli: “Ha ragione

Lenin [...] che ormai o si sta da una parte o

dall’altra. Non posso in nome dei miei esamini

all’università credermi al di sopra delle parti” (106-

107).

Meno frequenti del discorso indiretto libero, meno

facilmente percettibili sono le intrusioni del discorso

diretto convenzionale, tanto rare da far pensare ad una

scelta estetica. La più rilevante di queste intrusioni

è quasi invisible, come clandestina, tipograficamente

indifferenziata dal resto del paragrafo che la

contiene. Eppure cruciale allo sviluppo del romanzo.

Occorre quando la nuova compagna del Narratore, Nora,

già messa alle corde dalla irresolutezza di lui, come

lo era stata M. a suo tempo, va al nocciolo della

questione e riassume sommariamente (troppo 12

sommariamente) il dramma esistenziale contro cui lui si

batte: “Tu non hai figli e non ti sei mai occupato di

mia figlia perché sei una vittima della guerra che non

hai avuto il coraggio né di combattere né di ripudiare,

non hai figli e pensi sempre al suicidio perché non hai

saputo separarti dalla guerra di tuo padre, perché hai

ereditato la sua fanatica perseveranza [...]. A causa

della guerra non potrai mai imparare ad amare” (183).

Proprio come nel caso, anni prima, della sua

precorritrice M., Nora ha ragione solo in parte.

Proprio come M., gode di due vantaggi rispetto al

Narratore, quelli dell’accomodamento e della

tolleranza, e di un singolo grande difetto: non è come

lui in fuga verso il regno della libertà. Proprio

com’era stato nel caso di M., Nora finisce con il

rappresentare agli occhi del Narratore la minaccia di

un riassorbimento graduale nel conformismo della coppia

borghese.

Insieme all’affermazione della libertà, il compito

definito da Nora, di imparare ad amare, è effettivamente

un obiettivo cruciale nella vita del Narratore, direi.

Ma è destinato a rimanere irrealizzato; andrà

perseguito oltre la fine del romanzo. Nora viene 13

sconfitta dalla stessa insouciance con cui ha imparato

a difendersi dai postumi della guerra combattuta dal

padre in Algeria, e che ha voluto insegnare al

Narratore per aiutarlo a sopravvivere. Si tratta

dell’arrendevolezza cui ho accennato sopra, la capacità

di accettarsi, adeguandosi al carattere e al

temperamento che la perfidia della Storia ci ha imposto

per il tramite della famiglia di origine. Queste sono

le qualità, apprese da Nora, che faranno del Narratore

uno scrittore. Noi l’abbiamo già capito, infatti: il

Narratore potrà emergere sano e salvo, se non

propriamente libero, dalla battaglia ingaggiata contro la

propria ombra solo grazie al libro che ci sta scrivendo

sotto gli occhi. Questo, la scrittura salvifica, è il

fine della fine del romanzo. Quanto all’amore, quanto

alla felicità, verranno dopo magari, chissà.

Come stavo dicendo, incuriosisce ed insospettisce,

a tutta prima, l’assenza del discorso diretto. Come si

parlano l’un l’altro i personaggi? Cosa si dicono M. e

il Narratore, oppure Nora e il Narratore, prima,

durante, o dopo il sesso? Non ci è dato saperlo. Magari

si scambiano le frasi acerbe smozzicate di Monica Vitti

e Alain Delon nell’Eclisse di Michelangelo Antonioni; 14

magari si parlano proprio in quel linguaggio

dell’incomunicabilità. Dopotutto le profezie di

Antonioni non hanno preceduto la generazione del

Narratore che di pochi anni. L’assenza deliberata della

voce viva e vibrante dei personaggi che si amano, o

cercano di farlo, ci priva del diversivo – come pure

del piacere – di ascoltare le loro inflessioni diverse

colte in mutua conversazione; ci sottrae ai momenti in

cui toccherebbe preferibilmente al loro dialogo il

compito di smussare gli angoli acuti della trama e

spingerla in avanti, come un sentiero che si snodi

verso una destinazione prestabilita. Gli unici a

parlarsi, e lo fanno con i paroloni in lettere

maiuscole che ho descritto sopra, sono asserragliati

nella trincea opposta all’Amore.

È come se tra i personaggi di Sartori e le parole

con cui li racconta si stendesse uno schermo sottile di

ghiaccio che trasforma i sentimenti in sillogismi. Il

Narratore aderisce al soliloquio come modalità

analitica risolutoria, servendosi di un linguaggio

narrativo scevro di sottintesi d’alcun genere, di

figuratività episodiche complementari, di intimismi e

15

complicità, della più esigua concessione ad un lessico

meno che universale.

Solo l’amore sfugge al dominio della sua logica

impietosa, ch’è d’una precisione matematica nel

vagliare le verità dei sentimenti più intollerabili.

L’amore sfugge a questa logica perché all’amore, ci

dice il Narratore, corrisponde “la sospensione del

giudizio” (111). Lo ha detto ancor meglio John Updike

mezzo secolo fa, in una brillante polemica con un

teologo studioso dell’amore, Denis de Rougemont: la

donna amata ci solleva dal dolore del passato

riscattando la nostra nostalgia di innocenza; sotto la

spinta del desiderio, i dettagli di quella nostalgia si

modellano sul profilo erotico di lei. Il vantaggio di

Updike è che scriveva nella lingua del popolo che aveva

vinto tutte le guerre, dove dunque l’anelito

umanissimo, onnipresente in questo libro, al riscatto,

all’innocenza, alla dignità personale, al rispetto

proprio e altrui, alla solidarietà, e specialmente allo

sbocco salvifico dell’amore, non era stato inquinato,

come nell’Italia del dopoguerra, dalla perfidia della

Storia; non era stato stroncato sul nascere da coloro

che hanno voluto elevare la brutalità puritana di 16

quella che Beppe Fenoglio chiamava la malora, con le sue

costrizioni e mortificazioni, a stile di vita

autoctono. C’è una strana crudele ma innegabile ironia

nel fatto che l’umanità più capace di amore, più

dignitosa e generosa con se stessa e gli altri, non sia

quella dei vinti.

Se a questo punto della lezione mi venisse

richiesto di delineare una sorta d’amore di coppia che,

nel trascendere il giudizio degli altri, ha le carte in

regola per reggere il logorio della durata nel tempo,

non mi limiterei ad affermare, come fa Updike, la

passionalità erotica. Il rimprovero mosso a Rougemont

da Updike coglie solo in parte nel segno. La coppia

ideale di Rougemont era quella di Tristano e Isotta,

caratterizzata, oltre che dalla sensualità

inestinguibile, cui il teologo francese sembra

insensibile, anche dalla caparbietà: una caparbia

devozione reciproca, figuratamente spinta oltre i

limiti dell’incesto, che travalica i vincoli di sangue,

di patria, di clan, d’onore, e la frontiera d’ogni

ordinaria decenza. Questa sarebbe la mia modesta

proposta in risposta al fallimento dell’amore in

Anatomia della battaglia: un amore di coppia caparbio nello 17

schermare da ogni giudizio estraneo il patto

inviolabile della propria sensualità. Una coppia che si

sottragga al divario tra vincitori e vinti.

L’amore del Narratore strappa tutt’al più una

temporanea sospensione del giudizio al tribunale della

sua esistenza, presidiato dalla Intransigenza Eroica.

Incontra Nora, come sappiamo, e si innamora. La

girlfriend M. è definitivamente uscita dalla sua vita.

Da amante-ragazza, col passare degli anni, quelli bui

del terrorismo, M. si era fatta donna. Il suo corpo

reclamava un figlio ed una famiglia; proprio la

prospettiva di appesantire di quella zavorra la fuga

verso la libertà ha costretto il Narratore a rompere

con lei. Una rottura dolorosa, si direbbe immedicabile,

che trova consolazione nell’incontro con Nora, non

prima di averlo spinto alle soglie del suicidio. Lui e

Nora sono molto simili; è vittima pure lei del trauma

di rimando di una guerra non vissuta in prima persona;

pure lei smaltisce tuttora i postumi dell’ubriacatura

che ha inebriato il padre durante la guerra di Algeria,

spingendolo – come il padre del Narratore – nella

trincea sbagliata. Potranno crearsi una famiglia

posticcia, insieme, una finzione di famiglia, per così 18

dire, da reduci. Poco dopo averla incontrata, il

Narratore si getta tutto alle spalle, si scarica di

ogni dovere, ogni imperativo, ogni impegno preso, e la

raggiunge a Parigi. Non sono ancora amanti, ma

vedendoselo comparire improvvisamente sulla porta di

casa, Nora lo accoglie come se lo stesse aspettando da

sempre. E lui, che ha potuto voltare le spalle al mondo

intero proprio grazie a Nora, che nel corso di lunghe

telefonate gli ha insegnato a soccombere, ad

accettarsi, a lasciarsi scorrere addosso le contrarietà

come se fossero acqua, gode almeno brevemente della

sospensione d’ogni responsabilità. Sente, qui a Parigi,

nella casa di lei, di aver cominciato a “liberarsi dal

fascismo.” Nel mondo di Nora esiste ancora acqua

piovana, fresca e pulita, che ti scorre addosso senza

inquinarti, né contaminarti, né ucciderti. (121-123).

A questo punto, noi lettori saremmo predisposti ad

aspettarci che Nora resti al fianco del Narratore fino

al termine della fuga verso la libertà. Che la

concludano insieme. Se ne occupa lui di dissuaderci da

questo sentimentalismo prematuro; se ne è anzi occupato

da un po’, in anticipo sugli eventi, con inquietante

tempismo. Nel rivelarci che non durerà troppo a lungo 19

la sua unione con Nora, la quale è tra l’altro

zavorrata dalla figlia di un precedente matrimonio, ci

dice molto di più, facendoci presagire che persino la

fuga verso la libertà resterà incompiuta alla fine del

romanzo. “Di fronte al desiderio non riesco a impormi,

sono come un cagnetto che si sfrega su una qualsiasi

gamba, come un porco” (103). Contrariamente all’amore

condiviso dalla caparbia coppia sensuale di cui ho

parlato sopra, è evidente che l’amore è una modalità

severamente distinta dal desiderio nell’esperienza del

Narratore. Per il soddisfacimento del desiderio gli

bastano, gli sono anzi preferibili certi amori di

ripiego, senza impegno e senza sovraccarico di zavorra

esistenziale. Come la “ragazzetta botticelliana” che

tutti abbiamo incontrato in treno almeno una volta, ad

esempio, che “va matta per i serial televisivi”:

l’effimera irresistibile che ci sbatte contro come se

brillassimo di luce propria, e i cui romantici

turbamenti, se non ci giudicano, nemmeno ammettono di

essere giudicati (215-217).

Per quanto suoni paradossale, l’unico breve

intervallo di pieno coronamento dell’amore si manifesta

dopo il successo del colpo in banca, quando il 20

Narratore e i suoi complici provano il rapimento, ad un

tempo estatico e voluttuoso, di essere reciprocamente

fusi in “un tutt’uno” (136).

La breve confessione di desiderio bestiale appena

citata occorre verso la metà del romanzo, e fa un po’

da perno al resto del racconto. Basta il discreto

presente storico di quella copula, “sono come un

cagnetto,” per farci presagire lo strascico

esistenziale che si protrarrà oltre la fine del libro e

va quindi a modificare la nostra tensione verso il

finale: dalla metà in avanti, leggiamo senza più

aspettarci una chiusa romanzesca di tipo convenzionale.

Il romanzo è sconfinato nel memoir, come dopotutto

facevano presagire i paralleli, più strutturali che non

intenzionali, con la Recherche di Proust. Il libro che

teniamo tra le mani non corre verso la scena definitiva

che compirà e completerà la vicenda. Il racconto di

Sartori termina infatti prima che il Narratore abbia

concluso la fuga verso la libertà.

Quel che siamo autorizzati ad aspettarci, invece, e

che ci verrà puntualmente presentato all’ultima pagina

del libro, è il congedo di stampo proustiano, ossia

l’abbassarsi del sipario al momento della conclusione 21

del libro che il Narratore è andato scrivendo sotto i

nostri occhi. Se non è ancora il conseguimento della

libertà, è quantomeno la sopravvivenza alla lotta

contro la propria ombra, all’odio di sé: il viaggio

intrapreso dal Narratore nel regno della memoria si

conclude con la constatazione che è venuto il tempo di

“provare a vivere” (241). Ovverossia di cominciare a

scrivere.

***

Noi che siamo nati nei decenni a ridosso della

seconda guerra mondiale siamo l’ultima Generazione del

Libro, le ultime vittime designate a beneficiare della

venerazione della pagina scritta, che culminò il secolo

scorso per svanire bruscamente in questo. Ho detto

sopra che la letteratura è il regno della memoria.

Avrei dovuto precisare che in letteratura il ricordo

del passato interseca il desiderio di quel che avrebbe

potuto e l’anelito a quel che avrebbe dovuto avvenire. In

questo senso, abbiamo un vantaggio minuscolo ma

essenziale sulla posterità che ci fa torto, accusandoci

di connivenza passiva con la grande e grandemente

22

anacronistica parata delle parole stampate, con la

forma e il senso. Siamo cioè in grado di assumere un

atteggiamento di ordine etico per il tramite dei libri

che scriviamo e di quelli che amiamo, contrapponendo il

nitore della pagina al silenzio imposto dalla Storia ai

nostri consanguinei e predecessori. Come ha scritto

Proust, e come confermano in Anatomia della battaglia i

lessici contrapposti del Narratore e dei suoi

familiari, la lingua in cui ci esprimiamo ha il potere

di plasmare la nostra visione delle cose e delle

persone che ci circondano tanto quanto le categorie di

Kant. È la prosa del mondo. Noi parliamo alla posterità

d’Amore e di Libertà, essa ci parla di indipendenza-

economica e di relazioni-conformi-alle-aspettative.

Potrebbe sembrare una magra consolazione, ma il meglio

che possiamo fare nei riguardi dei nostri successori e

discendenti è lasciarci dietro l’oasi minuscola della

scrittura che trasmette quella nostra testimonianza

etica. Non è escluso che ci si debbano dissetare un

giorno, e che debbano darci infine ragione, nel caso il

loro futuro si riveli meno radioso di quanto speriamo.

Ma di fronte a questa prospettiva, preferiamo augurarci

di rimanere per sempre nel torto ai loro occhi.23