Trincea al cuore dell’anima: lezioni da Anatomia della battaglia di Giacomo Sartori
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NUOVA PROSA, n. 62, ESTATE 2013
Gian Balsamo
Trincea al cuore dell’anima: lezioni da Anatomia della
battaglia di Giacomo Sartori
La sconfitta della seconda guerra mondiale ha
inflitto una ferita profonda alla fibra morale del
nostro Paese. Abbiamo negato l’evidenza sostenendo di
avere vinto. I veri vincitori non hanno protestato
perché nel frattempo ci siamo sconfitti da soli con la
guerra civile. Insomma, abbiamo trionfato soccombendo a
noi stessi. Coloro che, come il protagonista del
romanzo di Giacomo Sartori e come questo lettore, sono
nati in Italia nei decenni immediatamente successivi
alla guerra, hanno ereditato i postumi di quel successo
degradante: una ferita aperta al cuore dell’anima; la
trincea d’una lotta solitaria contro la nostra stessa
ombra, talora in Orbace, talora brandendo lo Scudo
Crociato o il drappo del Falce-e-Martello, talora
travisando lo spargimento di sangue per una Missione.
***
1
RESISTERE, ALLENARSI, SOTTO MUSSOLINI SI STAVA
MEGLIO, STRINGERE I DENTI, METTERCELA TUTTA, NON
SPRECARE IL CIBO, VERRÀ BENE LA GUERRA. Anatomia della
battaglia esordisce con un lessico familiare fatto di
espressioni concentrate, ostinate, laconiche e concise.
Sembrano cariche di un significato strettamente, quasi
direi cocciutamente letterale. Chi se l’è sentite
rivolgere nell’infanzia sa bene che ognuna di queste
brevi espressioni contiene invece un intero universo,
un intreccio di vicende individuali e familiari, un
ganglio di sofferenze; oltre ad essere frequentemente
rievocato, questo universo di patimento viene ogni
volta modificato, riveduto e corretto, a seconda della
contingenza presente, a seconda della maniera di
pronunciare le poche sillabe che lo esprimono. Si
tratta di un linguaggio inenarrabile. La pagina scritta
è impotente a catturare il tono volta a volta umorale,
astioso, canzonatorio, rabbioso, tollerante, risentito
o folle o rancoroso con cui le parole di questo lessico
si caricano di significati nuovi nel venire
pronunciate; decifrarne ogni sfumatura, ogni
inflessione in modo compiuto richiederebbe un libro
intero. 2
Da questo linguaggio inquinato deriva l’artificio
dei paroloni in lettere maiuscole adottato da Sartori.
Questi paroloni bruschi sostituiscono il dialogo tra i
familiari del protagonista della vicenda, che ne è
anche il Narratore. Non si tratta soltanto di un
idioletto domestico, padroneggiato dai suoi
consanguinei ma impenetrabile al linguaggio lineare con
cui si propone di comprenderne e spiegarcene l’universo
di patimento. Si tratta anche di una specie di
Intransigenza Eroica che comprende tutti gli imperativi
degli italiani dell’era fascista.
È a questa maniera insolita che ci si annuncia il
romanzo di Sartori, con una specie di manifesto del
linguaggio intransigente. Fin dal suo primo apparire,
questo linguaggio viene opposto a quello nudo, privo di
echi e sottintesi, trasparente fino alla vulnerabilità
messianica, con cui il Narratore si appresta a
raccontare l’intransigenza di cui Guido, suo padre, ha
contagiato la propria intera famiglia. Il linguaggio
del Narratore di Anatomia della battaglia è puntualmente
antitetico a quello con cui dialogano il padre e la
madre, o per meglio dire, si tormentano a vicenda e
tormentano i figli senza requie.3
Padre e figlio, invece, non si parlano affatto,
nemmeno nell’idioma scarno di Guido. Persino nei
momenti di maggiore intimità, e ne vivono parecchi nel
corso della vicenda, mano a mano che il cancro divora
le interiora di Guido, scelgono di esprimere i
sentimenti reciproci attraverso il silenzio. Malgrado
l’apparenza contraria, questo loro dialogo muto è un
passo più vicino del lessico familiare
all’Intransigenza Eroica dell’era fascista. È la
matrice dell’idioma domestico in cui si traduce
l’impossibilità di ogni forma di solidarietà umana: lo
sentiamo strettamente imparentato con quel silenzio
tenace, retaggio della vergogna – anche quella di
averla fatta franca – che non potevamo spiegarci da
bambini, quando intuivamo che nonni e genitori ci
parlavano continuamente della guerra ma rifiutavano di
dircene la verità.
Il Narratore di Sartori parla a noi, invece, nel
linguaggio dell’arrendevolezza, della capacità –
eroica, questa sì – di sapersi accettare, di adeguarsi
alla fragilità del carattere e volubilità del
temperamento che la Storia d’Italia ci ha imposto per
il tramite della famiglia di origine. 4
Se l’intransigenza del padre Guido si manifesta a
tutta prima nella guisa degli imperativi categorici
che, stando a Kant, affermano il regno della libertà, è
solo al fine di rovesciare questa risolutezza nel
proprio opposto. Sartori ce lo fa capire chiaramente e
senza ambiguità: avremo a che fare, nel suo romanzo,
con una “etica implacabile” che travalica gli interessi
contingenti del singolo e “detta legge,” ma nel farlo
sovverte ogni cosa che è, di diritto, “pura e buona.”
Viene la prima metafora, così carica di verismo che
rischia di passare inosservata: invece di lavare e
disinfettare l’aria, la pioggerella primaverile che
cade sul Trentino permea di radiazioni mortali – sono
quelle regalate al Nord Italia da Chernobyl – “i
cappelli della gente, i cappottini dei bambini” e
l’insalatina nuova nell’orto di Guido; il quale si
divora, a dispetto delle INVENZIONI DEI POLITICI e
della arrendevolezza dei PECORONI, “i ravanelli, i
primi tenerissimi zucchini, i piselli, le carotine
sottili e croccanti” (9-10, 168).
Quando il Narratore raggiunge a sua volta l’età
della intransigenza, incatenandosi volontariamente a
quel colossale abbaglio politico che è stata la lotta 5
clandestina armata degli Anni Settanta-Ottanta, lo fa
nel tentativo di emanciparsi dal mondo di Guido. Non
potendo cambiare il padre o la famiglia, vorrebbe
cambiare il Paese e la Storia che li hanno prodotti.
Sebbene coinvolta nella stessa impresa, la fedele
girlfriend M. non si fa remore nell’andare (troppo
speditamente) al nocciolo delle questioni intorno a cui
il Narratore ronza indeciso e abulico. Secondo lei,
loro due sono diventati terroristi per evitare di
affrontare i propri problemi psicologici (171). M. non
ha ragione, non esattamente perlomeno, o questo romanzo
non avrebbe motivo di essere. Nel regno
dell’intransigenza del Narratore, come confermerà più
tardi il caso della moglie, la pied-noir algerina Nora
(anche lei troppo spedita nel risolvere
l’irrisolubile), le compagne godono dei vantaggi
dell’accomodamento e della tolleranza; pallidi
surrogati della passione e del trasporto erotico, sono
i requisiti principali dell’amore non ricambiato in una
vicenda al cui Narratore, oppresso dalla diffidenza
verso i sentimenti, spetta invece il compito ingrato
della conquista della libertà.
6
La libertà che ottiene dalla lotta armata è una
libertà condizionata da ex-galeotto, emblematizzata a
tutta prima in un pugno di scorpioni pronti a finirlo,
nel deserto africano dove è andato a rifugiarsi (9-10,
168). È qui che inizia il romanzo vero e proprio.
Incontriamo il Narratore a questo punto della sua
vicenda personale, quando l’opzione del terrorismo lo
ha deluso, rivelandosi non troppo dissimile dal
fanatismo del padre Guido – imperniata sullo stesso
odio, anche di sé, sullo stesso culto del coraggio e
disprezzo della viltà (26, 118, 182).
L’amico terrorista detto Lenin, un fanatico che
confonde la politica con l’artiglieria, viene lasciato
morire in carcere dalle autorità che lo hanno
catturato. L’amico terrorista Berto, un imbelle negato
all’insurrezione armata, di quelli che confondevano la
comprensione del mondo con la teoria del plusvalore, è
pure morto, in clandestinità. Non sono difficili da
immaginare, Lenin e Berto, indegni di figurare in una
noterella a piè di pagina della Storia Nazionale.
Senonché il Narratore li immortala nell’episodio del
colpo in banca, una pantomima del furto proletario i
cui personaggi si muovono con movenze rallentate, come 7
immersi in una soluzione di molassa cerebrale: Lenin
inserisce il caricatore nella Beretta con un fruscio
liquido, Berto regge la pistola come se fosse un
idrante, i passanti si accalcano curiosi all’ingresso
della banca come un branco di pesci indolenti, e il
sudore ruscella sul volto del Narratore, scollando la
barba posticcia dalla pelle, mentre egli guida
l’automobile in fuga come se si trattasse di un pedalò
(131-136).
All’inizio del romanzo, Lenin e Berto sono morti. È
rimasto solo, il nostro Narratore senza nome, apolide
in tutti i sensi, quello dei vincoli familiari e
amicali e politici e nazionali e amorosi. È espatriato,
pure, ma solo nel senso fittizio della chiocciola che
si porta dietro la casa.
Cerca rifugio in quel regno della memoria che, da
Proust in avanti, identifichiamo con la letteratura.
Come Marcel, il protagonista della Recherche, il
Narratore di Sartori vorrebbe diventare scrittore. Come
Marcel, teme di non avere i numeri per farlo (119).
Come Marcel quando sogna la nonna morta, si rifiuta di
schermare la propria sensibilità dietro la “forma” e il
“senso” inerenti all’opera letteraria (141). Vuole 8
imparare a vivere e soffrire e patire senza mai
smettere di osservarsi, di vivisezionarsi fin giù al
cuore dell’anima, relegando la scrittura dei ricordi a
un secondo momento. Quale? Il preciso momento in cui,
proprio come Marcel alla fine della Recherche, prenderà
congedo da noi lettori per cominciare a “vivere” (241).
Il cancro causato dalle insalatine radioattive lo
ha reso orfano del padre Guido, sconfitto da un nemico
più implacabile della guerra. Il sipario è
definitivamente sceso sull’universo di tutti quegli
imperativi mendaci e quelle responsabilità disumane.
(La splendida storia della famiglia schierata intorno
al capezzale del padre morente compone un vero e
proprio romanzo all’interno della trama più ampia di
Anatomia della battaglia, e meriterebbe una lezione a parte).
Il figlio di Guido può finalmente cominciare a scrivere
in un linguaggio privo di echi e sottintesi, di empatia
e antipatia; adotta, per questo romanzo confinante nel
memoir, il contrario del proprio lessico familiare.
Scrive, a partire dal momento in cui prende congedo dai
lettori, il libro che essi hanno appena terminato di
leggere.
9
La narrazione di Anatomia della battaglia si sviluppa in
paragrafi separati l’uno dall’altro da una spaziatura
bianca, rettangoli di parole che fanno blocco a sé,
intervallati come dal respiro profondo che precede
l’immersione in apnea; nel rifiutarsi ad ogni
contaminazione idiolettica, come pure al tira-e-molla
del discorso diretto, questi blocchi di parole
enunciano i propri significati in un tono che a tutta
prima potrebbe apparire saggistico. Ognuno di questi
paragrafi è chiaramente degno di figurare in una
antologia delle lettere nazionali. A volte si prova
addirittura il sospetto che Sartori scriva troppo bene –
da saggista, appunto. Ma poi si comincia a vedere
attraverso la scrittura. Spunta sovente il discorso
indiretto libero, l’invenzione stilistica che Joyce
attribuiva a Flaubert. Il Narratore di Sartori ne fa un
uso avaro e tecnicamente ammirevole. Ne incontriamo il
primo esempio a una cinquantina di pagine dall’inizio,
quando un puro sgomento si manifesta per la prima volta
nel romanzo, senza ricalibrarne peraltro gli ingranaggi
dello stile. Guido porta il figlio ormai adulto a fare
una scalata su roccia. Sceglie una giornata in cui le
previsioni del tempo sono pessime. Durante 10
l’arrampicata si scatena puntualmente la bufera sui due
alpinisti esposti alla furia degli elementi dalla
parete a straspiombo. E al culmine del pericolo il
Narratore smette di parlarci per cominciare a parlare a
se stesso. Si fa documentarista della propria reazione
alla situazione disperata in cui lo ha cacciato il
padre. “È un fanatico, un pericoloso fanatico. [...]
L’unica cosa che davvero gli interessa è mettere in
pericolo se stesso e gli altri. Ha fatto apposta, è
chiaro che ha fatto apposta”(56).
È questo il primo scorcio introspettivo, l’opposto
della saggistica, offertoci da un romanzo che non sa
che farsene degli psicologismi. Si inserisce
all’interno di un episodio tragicamente bello,
punteggiato di saette a pochi metri dai protagonisti e
fulmini che si scaricano lungo gli stessi cordini
d’acciaio che dovrebbero portarli alla salvezza. Ci
regala in presa diretta la misura dell’eroismo idiotico
del padre del Narratore, e della succube impotenza di
quest’ultimo ad emanciparsene. Questa prima comparsa
del discorso indiretto libero è seguita da parecchie
altre che si conformano alla regola stabilita qui. È il
caso della “grande retata,” durante la quale il 11
Narratore è consapevole che varie persone che conosce,
consapevoli a loro volta del suo coinvolgimento nel
terrorismo, si trovano in quel momento “sotto
interrogatorio, in una cella d’isolamento, o anche con
due elettrodi attaccati ai testicoli.” Ma si
incaponisce nella preparazione di un esame
universitario. E smette di analizzare ed analizzarsi,
ci si mostra nel vivo dei propri scrupoli: “Ha ragione
Lenin [...] che ormai o si sta da una parte o
dall’altra. Non posso in nome dei miei esamini
all’università credermi al di sopra delle parti” (106-
107).
Meno frequenti del discorso indiretto libero, meno
facilmente percettibili sono le intrusioni del discorso
diretto convenzionale, tanto rare da far pensare ad una
scelta estetica. La più rilevante di queste intrusioni
è quasi invisible, come clandestina, tipograficamente
indifferenziata dal resto del paragrafo che la
contiene. Eppure cruciale allo sviluppo del romanzo.
Occorre quando la nuova compagna del Narratore, Nora,
già messa alle corde dalla irresolutezza di lui, come
lo era stata M. a suo tempo, va al nocciolo della
questione e riassume sommariamente (troppo 12
sommariamente) il dramma esistenziale contro cui lui si
batte: “Tu non hai figli e non ti sei mai occupato di
mia figlia perché sei una vittima della guerra che non
hai avuto il coraggio né di combattere né di ripudiare,
non hai figli e pensi sempre al suicidio perché non hai
saputo separarti dalla guerra di tuo padre, perché hai
ereditato la sua fanatica perseveranza [...]. A causa
della guerra non potrai mai imparare ad amare” (183).
Proprio come nel caso, anni prima, della sua
precorritrice M., Nora ha ragione solo in parte.
Proprio come M., gode di due vantaggi rispetto al
Narratore, quelli dell’accomodamento e della
tolleranza, e di un singolo grande difetto: non è come
lui in fuga verso il regno della libertà. Proprio
com’era stato nel caso di M., Nora finisce con il
rappresentare agli occhi del Narratore la minaccia di
un riassorbimento graduale nel conformismo della coppia
borghese.
Insieme all’affermazione della libertà, il compito
definito da Nora, di imparare ad amare, è effettivamente
un obiettivo cruciale nella vita del Narratore, direi.
Ma è destinato a rimanere irrealizzato; andrà
perseguito oltre la fine del romanzo. Nora viene 13
sconfitta dalla stessa insouciance con cui ha imparato
a difendersi dai postumi della guerra combattuta dal
padre in Algeria, e che ha voluto insegnare al
Narratore per aiutarlo a sopravvivere. Si tratta
dell’arrendevolezza cui ho accennato sopra, la capacità
di accettarsi, adeguandosi al carattere e al
temperamento che la perfidia della Storia ci ha imposto
per il tramite della famiglia di origine. Queste sono
le qualità, apprese da Nora, che faranno del Narratore
uno scrittore. Noi l’abbiamo già capito, infatti: il
Narratore potrà emergere sano e salvo, se non
propriamente libero, dalla battaglia ingaggiata contro la
propria ombra solo grazie al libro che ci sta scrivendo
sotto gli occhi. Questo, la scrittura salvifica, è il
fine della fine del romanzo. Quanto all’amore, quanto
alla felicità, verranno dopo magari, chissà.
Come stavo dicendo, incuriosisce ed insospettisce,
a tutta prima, l’assenza del discorso diretto. Come si
parlano l’un l’altro i personaggi? Cosa si dicono M. e
il Narratore, oppure Nora e il Narratore, prima,
durante, o dopo il sesso? Non ci è dato saperlo. Magari
si scambiano le frasi acerbe smozzicate di Monica Vitti
e Alain Delon nell’Eclisse di Michelangelo Antonioni; 14
magari si parlano proprio in quel linguaggio
dell’incomunicabilità. Dopotutto le profezie di
Antonioni non hanno preceduto la generazione del
Narratore che di pochi anni. L’assenza deliberata della
voce viva e vibrante dei personaggi che si amano, o
cercano di farlo, ci priva del diversivo – come pure
del piacere – di ascoltare le loro inflessioni diverse
colte in mutua conversazione; ci sottrae ai momenti in
cui toccherebbe preferibilmente al loro dialogo il
compito di smussare gli angoli acuti della trama e
spingerla in avanti, come un sentiero che si snodi
verso una destinazione prestabilita. Gli unici a
parlarsi, e lo fanno con i paroloni in lettere
maiuscole che ho descritto sopra, sono asserragliati
nella trincea opposta all’Amore.
È come se tra i personaggi di Sartori e le parole
con cui li racconta si stendesse uno schermo sottile di
ghiaccio che trasforma i sentimenti in sillogismi. Il
Narratore aderisce al soliloquio come modalità
analitica risolutoria, servendosi di un linguaggio
narrativo scevro di sottintesi d’alcun genere, di
figuratività episodiche complementari, di intimismi e
15
complicità, della più esigua concessione ad un lessico
meno che universale.
Solo l’amore sfugge al dominio della sua logica
impietosa, ch’è d’una precisione matematica nel
vagliare le verità dei sentimenti più intollerabili.
L’amore sfugge a questa logica perché all’amore, ci
dice il Narratore, corrisponde “la sospensione del
giudizio” (111). Lo ha detto ancor meglio John Updike
mezzo secolo fa, in una brillante polemica con un
teologo studioso dell’amore, Denis de Rougemont: la
donna amata ci solleva dal dolore del passato
riscattando la nostra nostalgia di innocenza; sotto la
spinta del desiderio, i dettagli di quella nostalgia si
modellano sul profilo erotico di lei. Il vantaggio di
Updike è che scriveva nella lingua del popolo che aveva
vinto tutte le guerre, dove dunque l’anelito
umanissimo, onnipresente in questo libro, al riscatto,
all’innocenza, alla dignità personale, al rispetto
proprio e altrui, alla solidarietà, e specialmente allo
sbocco salvifico dell’amore, non era stato inquinato,
come nell’Italia del dopoguerra, dalla perfidia della
Storia; non era stato stroncato sul nascere da coloro
che hanno voluto elevare la brutalità puritana di 16
quella che Beppe Fenoglio chiamava la malora, con le sue
costrizioni e mortificazioni, a stile di vita
autoctono. C’è una strana crudele ma innegabile ironia
nel fatto che l’umanità più capace di amore, più
dignitosa e generosa con se stessa e gli altri, non sia
quella dei vinti.
Se a questo punto della lezione mi venisse
richiesto di delineare una sorta d’amore di coppia che,
nel trascendere il giudizio degli altri, ha le carte in
regola per reggere il logorio della durata nel tempo,
non mi limiterei ad affermare, come fa Updike, la
passionalità erotica. Il rimprovero mosso a Rougemont
da Updike coglie solo in parte nel segno. La coppia
ideale di Rougemont era quella di Tristano e Isotta,
caratterizzata, oltre che dalla sensualità
inestinguibile, cui il teologo francese sembra
insensibile, anche dalla caparbietà: una caparbia
devozione reciproca, figuratamente spinta oltre i
limiti dell’incesto, che travalica i vincoli di sangue,
di patria, di clan, d’onore, e la frontiera d’ogni
ordinaria decenza. Questa sarebbe la mia modesta
proposta in risposta al fallimento dell’amore in
Anatomia della battaglia: un amore di coppia caparbio nello 17
schermare da ogni giudizio estraneo il patto
inviolabile della propria sensualità. Una coppia che si
sottragga al divario tra vincitori e vinti.
L’amore del Narratore strappa tutt’al più una
temporanea sospensione del giudizio al tribunale della
sua esistenza, presidiato dalla Intransigenza Eroica.
Incontra Nora, come sappiamo, e si innamora. La
girlfriend M. è definitivamente uscita dalla sua vita.
Da amante-ragazza, col passare degli anni, quelli bui
del terrorismo, M. si era fatta donna. Il suo corpo
reclamava un figlio ed una famiglia; proprio la
prospettiva di appesantire di quella zavorra la fuga
verso la libertà ha costretto il Narratore a rompere
con lei. Una rottura dolorosa, si direbbe immedicabile,
che trova consolazione nell’incontro con Nora, non
prima di averlo spinto alle soglie del suicidio. Lui e
Nora sono molto simili; è vittima pure lei del trauma
di rimando di una guerra non vissuta in prima persona;
pure lei smaltisce tuttora i postumi dell’ubriacatura
che ha inebriato il padre durante la guerra di Algeria,
spingendolo – come il padre del Narratore – nella
trincea sbagliata. Potranno crearsi una famiglia
posticcia, insieme, una finzione di famiglia, per così 18
dire, da reduci. Poco dopo averla incontrata, il
Narratore si getta tutto alle spalle, si scarica di
ogni dovere, ogni imperativo, ogni impegno preso, e la
raggiunge a Parigi. Non sono ancora amanti, ma
vedendoselo comparire improvvisamente sulla porta di
casa, Nora lo accoglie come se lo stesse aspettando da
sempre. E lui, che ha potuto voltare le spalle al mondo
intero proprio grazie a Nora, che nel corso di lunghe
telefonate gli ha insegnato a soccombere, ad
accettarsi, a lasciarsi scorrere addosso le contrarietà
come se fossero acqua, gode almeno brevemente della
sospensione d’ogni responsabilità. Sente, qui a Parigi,
nella casa di lei, di aver cominciato a “liberarsi dal
fascismo.” Nel mondo di Nora esiste ancora acqua
piovana, fresca e pulita, che ti scorre addosso senza
inquinarti, né contaminarti, né ucciderti. (121-123).
A questo punto, noi lettori saremmo predisposti ad
aspettarci che Nora resti al fianco del Narratore fino
al termine della fuga verso la libertà. Che la
concludano insieme. Se ne occupa lui di dissuaderci da
questo sentimentalismo prematuro; se ne è anzi occupato
da un po’, in anticipo sugli eventi, con inquietante
tempismo. Nel rivelarci che non durerà troppo a lungo 19
la sua unione con Nora, la quale è tra l’altro
zavorrata dalla figlia di un precedente matrimonio, ci
dice molto di più, facendoci presagire che persino la
fuga verso la libertà resterà incompiuta alla fine del
romanzo. “Di fronte al desiderio non riesco a impormi,
sono come un cagnetto che si sfrega su una qualsiasi
gamba, come un porco” (103). Contrariamente all’amore
condiviso dalla caparbia coppia sensuale di cui ho
parlato sopra, è evidente che l’amore è una modalità
severamente distinta dal desiderio nell’esperienza del
Narratore. Per il soddisfacimento del desiderio gli
bastano, gli sono anzi preferibili certi amori di
ripiego, senza impegno e senza sovraccarico di zavorra
esistenziale. Come la “ragazzetta botticelliana” che
tutti abbiamo incontrato in treno almeno una volta, ad
esempio, che “va matta per i serial televisivi”:
l’effimera irresistibile che ci sbatte contro come se
brillassimo di luce propria, e i cui romantici
turbamenti, se non ci giudicano, nemmeno ammettono di
essere giudicati (215-217).
Per quanto suoni paradossale, l’unico breve
intervallo di pieno coronamento dell’amore si manifesta
dopo il successo del colpo in banca, quando il 20
Narratore e i suoi complici provano il rapimento, ad un
tempo estatico e voluttuoso, di essere reciprocamente
fusi in “un tutt’uno” (136).
La breve confessione di desiderio bestiale appena
citata occorre verso la metà del romanzo, e fa un po’
da perno al resto del racconto. Basta il discreto
presente storico di quella copula, “sono come un
cagnetto,” per farci presagire lo strascico
esistenziale che si protrarrà oltre la fine del libro e
va quindi a modificare la nostra tensione verso il
finale: dalla metà in avanti, leggiamo senza più
aspettarci una chiusa romanzesca di tipo convenzionale.
Il romanzo è sconfinato nel memoir, come dopotutto
facevano presagire i paralleli, più strutturali che non
intenzionali, con la Recherche di Proust. Il libro che
teniamo tra le mani non corre verso la scena definitiva
che compirà e completerà la vicenda. Il racconto di
Sartori termina infatti prima che il Narratore abbia
concluso la fuga verso la libertà.
Quel che siamo autorizzati ad aspettarci, invece, e
che ci verrà puntualmente presentato all’ultima pagina
del libro, è il congedo di stampo proustiano, ossia
l’abbassarsi del sipario al momento della conclusione 21
del libro che il Narratore è andato scrivendo sotto i
nostri occhi. Se non è ancora il conseguimento della
libertà, è quantomeno la sopravvivenza alla lotta
contro la propria ombra, all’odio di sé: il viaggio
intrapreso dal Narratore nel regno della memoria si
conclude con la constatazione che è venuto il tempo di
“provare a vivere” (241). Ovverossia di cominciare a
scrivere.
***
Noi che siamo nati nei decenni a ridosso della
seconda guerra mondiale siamo l’ultima Generazione del
Libro, le ultime vittime designate a beneficiare della
venerazione della pagina scritta, che culminò il secolo
scorso per svanire bruscamente in questo. Ho detto
sopra che la letteratura è il regno della memoria.
Avrei dovuto precisare che in letteratura il ricordo
del passato interseca il desiderio di quel che avrebbe
potuto e l’anelito a quel che avrebbe dovuto avvenire. In
questo senso, abbiamo un vantaggio minuscolo ma
essenziale sulla posterità che ci fa torto, accusandoci
di connivenza passiva con la grande e grandemente
22
anacronistica parata delle parole stampate, con la
forma e il senso. Siamo cioè in grado di assumere un
atteggiamento di ordine etico per il tramite dei libri
che scriviamo e di quelli che amiamo, contrapponendo il
nitore della pagina al silenzio imposto dalla Storia ai
nostri consanguinei e predecessori. Come ha scritto
Proust, e come confermano in Anatomia della battaglia i
lessici contrapposti del Narratore e dei suoi
familiari, la lingua in cui ci esprimiamo ha il potere
di plasmare la nostra visione delle cose e delle
persone che ci circondano tanto quanto le categorie di
Kant. È la prosa del mondo. Noi parliamo alla posterità
d’Amore e di Libertà, essa ci parla di indipendenza-
economica e di relazioni-conformi-alle-aspettative.
Potrebbe sembrare una magra consolazione, ma il meglio
che possiamo fare nei riguardi dei nostri successori e
discendenti è lasciarci dietro l’oasi minuscola della
scrittura che trasmette quella nostra testimonianza
etica. Non è escluso che ci si debbano dissetare un
giorno, e che debbano darci infine ragione, nel caso il
loro futuro si riveli meno radioso di quanto speriamo.
Ma di fronte a questa prospettiva, preferiamo augurarci
di rimanere per sempre nel torto ai loro occhi.23