Tradurre la letteratura: fra negoziazione e compromesso_LETTERATURA E LETTERATURE

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SOMMARIO

Editoriale 9

tradurre : fra poesia e poetica

Robert Pinski, da Dante 15Patrizia Valduga, da Shakespeare 19Fabio Pusterla, da Hölderlin 21Jonathan Galassi, da Montale 23Paola Loreto, da A. R. Ammons 29Anna Maria Carpi, da Michael Krueger 33Charles Simic, da Radmila Lazic 35

tradurre : fra storia e teoria

Emanuele Ronchetti, Mentire o smentire ? Su Montaigne e la traduzione 39Jean Michel Déprats, De Windsor à Babel : un grand festin de langues dans The Merry Wives of Windsor 55Tim Parks, Translating Style 69Franca Cavagnoli, Tradurre la letteratura : fra negoziazione e compromesso 85Laura Neri, Fedeltà e distanza della lingua poetica. Giudici traduttore di Eliot 95Mariaelena Boldoni, Tradurre To the Lighthouse 103

un inedito, due note

Vittorio Sereni, Autobiografia e personaggio, a cura di Sara Pesatori 115Dante Della Terza, L’attività artistico-creativa di Franco Ferrucci. Un profi- lo e un ricordo 125Edoardo Esposito, Ricorrenze 129

recensioni

Remo Ceserani, Convergenze. Gli strumenti letterari e le altre discipline (Ele- na Fratto) 135Franco Brevini, La letteratura degli italiani (Carlo Di Alesio) 136Elisa Donzelli, Come lenta cometa. Traduzione e amicizia poetica nel carteg- gio tra Sereni e Char ; René Char, Vittorio Sereni, Due rive ci vogliono. 47 traduzioni inedite (Emanuela Sala Peup) 138Antonio Prete, All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione (Roberta Franco) 140

TRADURRE LA LETTERATURA : FRA NEGOZIAZIONE E COMPROMESSO

Franca Cavagnoli

Nel 1813 Friedrich Schleiermacher indicava due cammini profondamente di-versi che si possono percorrere nel tradurre un’opera letteraria : « O il tra-

duttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore » (Schleier-macher 1992 : 42). Vediamo cosa significa questa affermazione davanti a un breve passaggio di Il grande Gatsby :

We went on, cutting back again over the Park toward the West Hundreds. At 158th Street the cab stopped at one slice in a long white cake of apartment-houses (Fitzgerald 1990 : 31).

Se si lascia in pace il lettore e gli si muove incontro lo scrittore si tradurrà così :

Proseguimmo tagliando di nuovo per il Parco verso le vie a ovest. Alla 158a Strada il taxi si fermò davanti a una fetta di una lunga torta di caseggiati bianchi.

Se invece si lascia in pace lo scrittore e gli si muove incontro il lettore si tradurrà probabilmente in questo modo :

Proseguimmo tagliando di nuovo per il Parco verso le West Hundreds. In 158 Street il taxi si fermò davanti a una fetta di una lunga torta di caseggiati bianchi.

Nella prima delle versioni proposte New York è stata « naturalizzata », per così di-re. Se chi traduce immagina un lettore un po’ pigro, finirà col servirgli su un vas-soio una realtà addomesticata, una realtà di fatto irreale, perché a New York non c’è una 158a Strada bensì una 158 Street. Nella seconda versione si chiede invece qualcosa di più radicale al lettore : che sia pronto a lasciare la comoda poltrona di casa sua e a intraprendere un viaggio che lo porterà a New York, e più precisa-mente a Manhattan, dove le vie a ovest di Central Park, dopo la numero cento, si chiamano West Hundreds. Una volta lì, gli si chiede di scendere dall’autobus ben oltre il parco, all’altezza di W 158 St, che poi è ciò che vedrà scritto all’angolo della via. Se si sceglie di tradurre in questo modo si permette al lettore di « inciampare » in qualcosa durante la lettura e di scoprire in questo modo qualcosa che non co-nosce, che non gli è proprio : leggendo il romanzo di Fitzgerald farà l’esperienza dell’estraneità. New York non gli apparirà come un luogo simile alla sua città, con delle « strade » e delle « vie », bensì un luogo diverso. Se si mette in atto una strategia straniante anziché una strategia addomesticante, la traduzione diventa un luogo in cui accogliere la differenza (Venuti 1999 : 44).

Il concetto di negoziazione che sta alla base del tradurre sfocia nella scelta di un certo traducente come conseguenza dell’interpretazione che di un passo si dà.

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Visto che la traduzione costringe a scegliere, delle molte connotazioni di una pa-rola alla fine bisogna sceglierne una e lasciare dormienti le altre, spesso con rim-pianto. Bisogna cioè saper rinunciare al sogno onnipotente di dire la stessa cosa in un’altra lingua e accontentarsi più realisticamente di « dire quasi la stessa cosa » : « Stabilire la flessibilità, l’estensione del quasi dipende da alcuni criteri che vanno negoziati preliminarmente. Dire quasi la stessa cosa è un procedimento che si po-ne all’insegna della negoziazione » (Eco 2003 : 10). Chi traduce, però, non è il solo ad avere voce in capitolo nella versione finale di una traduzione : le scelte a cui è approdato possono essergli contestate da chi rivede la traduzione. Dopo aver ne-goziato con se stesso e con il testo e aver compiuto questa prima mediazione, chi traduce deve quindi affrontare il secondo stadio del suo lavoro. La traduzione che va alle stampe è non solo il frutto delle singole negoziazioni del traduttore sulla base del lettore modello e della dominante del testo, e cioè della componente at-torno alla quale il testo si focalizza ( Jakobson 1987 :41), ma anche dei compromessi tra le scelte autonome di chi traduce e gli interventi correttivi di chi rivede il testo e rilegge il lavoro finito all’interno della casa editrice.

Buona parte dell’editoria italiana privilegia strategie traduttive addomestican-ti e il più delle volte sceglie di andare incontro al lettore sottoponendogli testi tradotti all’insegna di una facile leggibilità, in cui si privilegia una sintassi piana e una prosodia armoniosa, e in cui lo scarto, la deviazione dalla norma e da un tracciato prestabilito, viene sistematicamente ignorato. La cosa più importante è la fruizione immediata del testo da parte del lettore. Pertanto chi traduce è incoraggiato a evitare le ambiguità semantiche a favore di un uso corrente della lingua, a esplicitare e chiarire indipendentemente dalle caratteristiche del testo originario, per favorire una pronta reazione da parte del pubblico, poiché il fine ultimo è il predominio della « estetica popolare, che privilegia la funzione infor-mativa rispetto agli elementi formali più sottili » (Venuti 1999 : 144-147). Se questo criterio è condivisibile nel caso della traduzione di romanzi di evasione, dove vige l’imperativo della scorrevolezza a ogni costo, esso diventa meno comprensibile nel caso di romanzi e racconti d’autore in cui il rispetto dello stile e la salvaguardia delle specificità culturali del testo dovrebbero essere l’obiettivo primario. Toglie-re, per esempio, il pathos di una frase nominale solo per rendere più scorrevole la lettura – e, in genere, levigare un’asperità del testo o banalizzare scelte stilisti-che complesse – può arrecare un grave danno a un’opera narrativa. Rendere più razionali i periodi o i capoversi ellittici, o annullare il sapiente lavoro sui registri linguistici di autori che amano le incursioni nella lingua parlata e popolare, equi-vale a rammendare un tessuto fino con il rischio di rovinarlo per sempre, come vedremo più avanti. La tendenza a addolcire la scrittura ruvida, scabra, di certi au-tori ricorrendo all’esplicitazione, all’espansione o alla chiarificazione, può essere a volte molto marcata. Così facendo, però, si finisce con l’ingannare proprio il letto-re al quale si pensa di andare incontro. L’apparente estemporaneità di certi autori afroamericani, per esempio, presuppone una profonda conoscenza della tecnica e del linguaggio musicale, della stratificazione ritmica, della complessa relazione fra melodia, armonia e ritmo tipica del jazz, e implica perciò una straordinaria

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maestria. La naturalezza della loro prosa è il frutto di una grande attenzione per tutti i valori del testo, non solo per quelli semantici. Il lavoro sul corpo sonoro e le continue ripetizioni generano un ritmo incantatorio oltre a rendere magari evidente il continuo, doloroso arrovellarsi di un certo personaggio, la percussività dell’ossessione che si agita nella sua mente. Tutto ciò può rendere a tratti faticosa la prosa di Jamaica Kincaid o di Toni Morrison, ma una traccia di questa fatica – le frequenti asperità della loro scrittura – deve restare nella traduzione.

Quando si traduce un’opera letteraria, o la si rivede, non si dovrebbe mai essere paghi di scavare nella lettera, il che non significa tradurre letteralmente, come ricorda Berman. Significa cercare dentro la parola ciò che permette di dare con-cretezza alla congettura che si sta profilando nella mente di chi lavora alla tradu-zione. La lettera – nella sua fermezza, nella sua consistenza, nella sua concretez-za, nella sua materialità – ha una sua vita. La lettera è la carne della parola, ed è questa vita, questa carne, che ispira chi traduce. Con la sua iconicità, con la sua musicalità, con la sua capacità di evocare immagini, sensazioni, suoni, di dare un ritmo particolare a una narrazione – di farsi, in breve, stile (Berman 1999 : 53). Per Schopenhauer « lo stile è la fisionomia dello spirito » (Schopenhauer 1993 : 42). La scelta della parola « fisionomia », con il suo rimandare ai tratti del volto, rimanda anche alla materialità della carne, alla concretezza della lettera. È un attento e scrupoloso lavoro sulla lettera, dunque, che restaura il processo di significazione di un’opera e, così facendo, trasforma la lingua della traduzione. Perché scavare nella lettera consente di andare al di là del proprio lessico limitato, di scoprire la ricchezza della propria lingua, quel grande serbatoio di parole che troppo spesso si lascia inoperoso per pigrizia. Un grande romanzo lancia una grande sfida a chi lo traduce o lo rivede : lo costringe a non ricondurre ogni cosa all’ovvio e alle sue anguste conoscenze.

La scorrevolezza a tutti i costi e la leggibilità immediata, congiunte a mere ra-gioni di tipo commerciale, sono evidenti in molti dei titoli scelti per l’edizione italiana di innumerevoli opere letterarie. Si tratta di scelte che sovente ignorano i significati profondi veicolati dal titolo originario, intelligibili solo grazie a una lettura profonda dell’intero testo. Chi decide è l’editore : chi traduce può fare una proposta, che non sempre viene accolta. Quale ragione, se non il desiderio di ven-dere più copie del libro, può aver portato l’editore italiano dell’ultimo romanzo di David Malouf, Ransom, a scegliere come titolo Io sono Achille, quando quello di Malouf è in realtà in primo luogo il libro di Priamo ? Il riscatto evocato nel titolo originario, infatti, non è solo quello che il re è pronto a pagare per riavere il corpo del figlio in modo da dargli degna sepoltura. Esso è già inscritto nel nome stesso del sovrano, in quello « scambio » che aveva luogo per riscattare i prigionieri di guerra e che aveva permesso a Esione di compiere il suo gesto d’amore strap-pando il fratellino Podarce a una morte certa o a una vita in catene, sicché da quel momento il nuovo nome di Podarce era stato per l’appunto Priamo (Malouf 2009 : 73-74 ; Apollodoro 2010 : 159 ; 526).

La facile leggibilità e la pronta comprensione del titolo devono invece essere state alla base della scelta di Einaudi di proporre, alla sua uscita nel nostro Paese,

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The Catcher in the Rye con il titolo Il giovane Holden. In realtà oggi si potrebbe ten-tare un titolo più ardito e veritiero per il romanzo di Salinger : il baseball ormai non è più uno sport sconosciuto da noi e la parola catcher compare addirittura nei dizionari della lingua italiana, che spiegano come si tratti del ricevitore nel gioco del baseball. Non è vero che il titolo sia intraducibile : Il catcher tra la segale sarebbe insolito, questo sì, ma proprio perché non è scontato un titolo simile potrebbe incuriosire il lettore contemporaneo. Il significato gli si svelerà poco per volta e gli sarà del tutto chiaro quando Holden Caulfield spiega che cosa c’entra il campo di segale e perché lì c’è qualcuno che acchiappa al volo i bambini per impedire loro di cadere nell’abisso. Potrebbe succedere a questo classico della modernità quello che è successo a La montagna incantata di Thomas Mann, che nella nuova traduzione di Renata Colorni è diventata La montagna magica, perché lo Zauberberg del titolo originario non evoca tanto una percezione di passività quanto un potere magico di altri tempi esercitato dalla montagna.

Antoine Berman ritiene che le strategie traduttive attuali riflettano la struttura etnocentrica della lingua e della cultura in cui si traduce e tendano a interpretare l’Altro secondo le proprie categorie (Berman 2004 : 280). Se in un romanzo inglese un personaggio dicesse : « Touch wood ! » stringendo i braccioli della sedia sulla quale siede, e si traducesse questa espressione con « tocca ferro », si farebbe una traduzione etnocentrica perché è in Italia che si tocca ferro quando si spera nella buona sorte. In molti altri paesi – Inghilterra, Francia, Germania, Spagna, per citarne alcuni – si tocca legno. Chi traduce spesso lo fa d’istinto perché riconosce la frase idiomatica e nemmeno si rende conto di applicare una strategia etnocen-trica. Si tratta senza dubbio della soluzione preferita anche dalla gran parte delle case editrici perché di immediata leggibilità. Ma se ci si ferma a riflettere, perché mai non si potrebbe tradurre con « tocca legno » e, così facendo, lasciare una trac-cia di estraneità nella traduzione ? In questo caso si darebbe al lettore la possibilità di indugiare un istante e di dirsi : « Non sapevo che in Inghilterra si toccasse legno ». Se invece l’espressione touch wood si trovasse in un romanzo di evasione, come semplice frase idiomatica e senza alcuna possibilità per il lettore di confondersi, si potrebbe tranquillamente scegliere la traduzione idiomatica « tocca ferro ». In questo caso, un eventuale « tocca legno » potrebbe rallentare il flusso di lettura di chi sta divorando le pagine del giallo o del fantasy che ha tra le mani.

Se si sceglie la strategia di traduzione etnocentrica per versare nella nostra lin-gua un’opera letteraria anziché un libro di intrattenimento, si finisce inevitabil-mente per cancellare le peculiarità della lingua e della cultura in cui quel testo è nato e si toglie al lettore la possibilità di allargare le proprie esperienze di vita. La traduzione ha in sé un grande potenziale creativo, e da mezzo di distorsione dell’Altro può diventare il luogo in cui invece accogliere il diverso da sé, realiz-zando così il fine etico dell’atto traduttivo, che nelle parole di Berman si riassume nell’accogliere l’estraneo – lo Straniero – in quanto tale, senza naturalizzarlo né negarne la diversità (Berman 2002 : 277). Già Schleiermacher diceva che il testo letterario non è mero senso bensì, prima di tutto, la lingua in cui è scritto. Se si

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naturalizza un libro scritto in una lingua straniera lo si porta a perdere quanto es-so ha di più prezioso, e cioè lo spirito della lingua da cui è stato generato. Il lettore che legge il libro tradotto non dovrebbe essere privato della conoscenza diretta dell’alterità, possibile solo se di quell’estraneità rimane traccia nella traduzione. Una lezione che Walter Benjamin farà sua quando scriverà : « Ogni traduzione è solo un modo pur sempre provvisorio di fare i conti con l’estraneità » (Benjamin 1982 : 49).

La riproduzione dell’oralità è uno degli aspetti più complessi del tradurre. La lin-gua viva dei dialoghi di un romanzo spesso appare spenta in traduzione e il pro-blema è accentuato nei libri in cui la storia è raccontata da un narratore in prima persona, poiché in questo caso si tratta di dar voce a una voce. In particolare, se si è di fronte a una voce genuinamente ribelle, ricca di deviazioni dallo standard lette-rario, bisogna dar vita a qualcosa che rievochi in italiano il flusso narrativo sponta-neo del testo fonte. L’impresa si fa più ardua quando la voce ribelle del narratore si combina con il dialetto, come nel caso di Le avventure di Huckleberry Finn. Se il racconto del narratore in prima persona viola la prosa letteraria anche la voce italiana dovrà farlo, ma senza generare una somma incongrua di deviazioni dallo standard. Vediamo ora il celebre incipit di The Adventures of Huckleberry Finn :

You don’t know about me, without you have read a book by the name of The Adventures of Tom Sawyer, but that ain’t no matter. That book was made by Mr. Mark Twain, and he told the truth, mainly. There was things which he stretched, but mainly he told the truth. That is nothing. I never seen anybody but lied one time or another, without it was Aunt Polly, or the widow, or maybe Mary. Aunt Polly – Tom’s Aunt Polly, she is – and Mary, and the Widow Douglas, is all told about in that book – which is mostly a true book ; with some stretchers, as I said before (Twain 1988 : 49).

Huck, un ragazzino di quattordici anni semianalfabeta e figlio dell’ubriacone del paese sulle rive del Mississippi in cui vive, impone la propria voce al lettore. Ma non è solo l’oralità che con Huck Finn irrompe nella letteratura americana ; è tutta una visione della vita e un modo di raccontarla che da allora usa strumenti espressivi americani e non più strumenti espressivi inglesi tradotti al di là dell’At-lantico. Non si può dire che Huck trasgredisca le norme quanto che usi norme diverse e infatti ci racconta la sua storia in uno dei dialetti del Midwest. Twain lo mette ben in chiaro già dalla prima frase, facendo dire a Huck : « you don’t know about me without you have read a book by the name of The Adventures of Tom Sawyer ». Huck dice without invece di unless : è la prima di innumerevoli deviazioni dalla lin-gua scritta e letteraria. Il lettore americano capisce subito dalla prima frase che si trova di fronte a un libro decisamente insolito. Huck è un ribelle, insofferente del-le convenzioni e della norma. Come la sua natura lo porta a ribellarsi ai tentativi di incivilirlo da parte della vedova Douglas, così il suo racconto si ribella alle con-venzioni di grammatica e sintassi. La naturalezza – e la poeticità – del linguaggio di Huck Finn nasce non da immagini che trovano espressione nel dialetto anziché nella lingua standard, bensì dalla sovrapposizione di due norme linguistiche diffe-renti e dallo scarto che ne deriva. Proviamo ora a tradurre il celebre incipit :

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Voi non sapete chi sono, a meno che non avete letto un libro che si chiama Le avventure di Tom Sawyer, ma fa lo stesso. Quel libro l’ha scritto il signor Mark Twain, che ha detto la verità, in genere. Un po’ di cose le ha pompate, ma in genere ha detto la verità. Fa niente. Non ho mai visto nessuno che non caccia palle, prima o poi, a parte zia Polly, o la vedova, o forse Mary. Zia Polly – sì, la zia Polly di Tom – e Mary e la vedova Douglas sono tutte in quel libro, che di solito è un libro vero, solo un po’ pompato, come dicevo prima.

E proviamo ora a dare una versione molto diversa dello stesso brano :

Voi non mi conoscete a meno che non abbiate letto un libro intitolato Le avventure di Tom Sawyer, ma la cosa ha poca importanza. Quel libro fu scritto dal signor Mark Twain, che in genere disse la verità. Un po’ di cose le esagerò, ma in genere disse la verità. Non fa niente. Non ho mai visto nessuno che non dica bugie prima o poi, a parte zia Polly, o la vedova, o forse Mary. Zia Polly – la zia di Tom –, Mary e la vedova Douglas sono tutte in quel libro, che di solito è un libro vero, solo un po’ esagerato, come dicevo prima.

Nella seconda versione non è rimasta traccia della singolarità espressiva di Huck e il linguaggio è stato normalizzato : la presenza dei due congiuntivi (« a meno che non abbiate letto » e « che non dica bugie »), il lessico della lingua standard (« inti-tolato », « la cosa ha poca importanza », « esagerate », « bugie »), la sintassi priva di deviazioni dalla lingua standard (« Quel libro fu scritto ») snaturano il linguaggio ribelle di Huckleberry Finn. Anche la virgola prima di mainly è importante : segna-la una pausa, una riflessione, seguita da un giudizio meno tranchant. E sottolinea l’alterità etica del piccolo protagonista, come ha scritto Alessandro Portelli (1992 : 170-173). Infatti Huck parte spesso in quarta ma poi di colpo frena, come vediamo già nella prima riga : « you don’t know about me, without you.. », in cui all’afferma-zione perentoria « Voi non sapete chi sono » segue una virgola, una piccola pausa che segnala il ripensamento « a meno che... ». Un’affermazione categorica è subito smussata da un mainly, sfuma in un mostly, un maybe, un almost. Il suo discorso è fatto di incertezze e perplessità, di continui tentativi di aggiustare il tiro, pieni di « in genere », « di solito », « forse », « quasi ». Lui che vive « cacciando palle » per aver salva la vita, prende invece molto sul serio il suo racconto e quel che gli preme di più è che si dica la verità – quanto meno, « in genere » – come rimarca anche nel brano sopra citato. Nelle cose importanti Huck è di una rigorosa onestà.

Nella prima versione del brano, invece, si è scelto di violare da subito la norma letteraria e mettere un indicativo là dove il lettore si aspetterebbe un congiuntivo (« a meno che non avete letto »). L’altra scelta di fondo riguarda il tempo del rac-conto : il passato prossimo è più usato nella lingua orale, e dunque più consono a una voce narrante tanto viva. Inoltre il passato remoto è il tempo letterario per eccellenza e Le avventure di Huckleberry Finn, uscito nel 1884, sono quanto di tradizionalmente meno letterario la letteratura americana avesse prodotto fino a quel momento. Per restare sul piano della sintassi – è soprattutto su questo piano che si regge l’impalcatura del discorso orale di Huck – il ricorso alla dislocazione del pronome nella frase « Quel libro l’ha scritto il signor Mark Twain » è un’altra delle risorse a disposizione di chi voglia dare un tono parlato alla frase. Quanto al lessico, Huck fa un uso molto personale della lingua ; basta leggere poche pagine

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per rendersene conto. È la ragione di scelte quali « pompare » anziché « gonfiare » e « cacciar palle » anziché « dire bugie ». « Non ho mai visto nessuno non dire bugie prima o poi » sarebbe più adatto a una delle ragazze di Piccole donne che non a Huc-kleberry Finn, e infatti non a caso Louisa May Alcott rimproverò severamente Mark Twain all’uscita del romanzo per il suo linguaggio crudo. Ma Huck, grande affabulatore, è un fine conoscitore della lingua parlata, come dimostrato dall’uso del chiasmo he told the truth, mainly/ mainly he told the truth, che va conservato anche in traduzione italiana : « ha detto la verità, in genere »/« in genere ha detto la verità ». Ciò che rende credibile il flusso narrativo di Huck in questa versione è il riconoscimento dello scarto, della deviazione da un percorso tracciato, e gra-zie agli strumenti offerti dalla lingua parlata e colloquiale, la riproposizione dello scarto improvviso anche nella nostra lingua, la ribellione alle convenzioni e al decoro morfosintattico e lessicale.

Che cosa succede nell’editoria italiana quando in un romanzo si trovano battute in dialetto, o l’intera storia è raccontata in dialetto come nel caso del romanzo di Twain ? Chi traduce ha a disposizione varie possibilità. La prima, purtroppo, prevede che la diversità del testo venga cancellata e la narrazione ridotta alla mera funzione informativa a scapito della funzione estetica, ed è il caso della seconda delle versioni sopra proposte. A volte è proprio l’editore a richiederlo espressa-mente perché, così facendo, è convinto di raggiungere un numero maggiore di lettori : per sottrarsi a questa richiesta di una parte del mercato editoriale è neces-sario un atto di coraggio. Chi traduce dovrebbe sottrarsi alle richieste che vanno nella direzione di un livellamento degli esperimenti più radicali e innovativi in campo letterario. Ma chi traduce dovrebbe anche sottrarsi alla tentazione di ac-centuare le deviazioni dalla lingua letteraria per non correre il rischio di coprire di ridicolo lo Straniero (Berman 2002 : 285-286). Quindi il più delle volte chi traduce tende a ignorare la presenza dei dialetti in un testo narrativo e si limita a riportare la battuta di dialogo alla lingua letteraria. Altre volte succede che il traduttore – o il revisore – evidenzi la presenza del dialetto nel testo fonte mettendo l’intera battuta di dialogo in corsivo nel testo italiano : la battuta viene prima tradotta nella lingua letteraria e poi messa in corsivo, un espediente esotista che confonde il lettore attento, portato a chiedersi la ragione di quei corsivi disseminati nel ro-manzo. Un’altra tendenza esotista, forse la più deprecabile, è quella di costruire a tavolino un dialetto ad hoc : si tratta del colmo dell’artificio, di una soluzione che opera quasi in senso contrario al testo originario, là dove l’apporto creativo del dialetto dona naturalezza alla narrazione. Chi fa questa scelta tende sovente a calcare la mano, a rendere il dialetto straniero seguendo degli stereotipi. L’ultima strada percorsa, infine, può essere quella dell’esotismo unito alla popolarizzazio-ne ; in questo caso si traspone il dialetto straniero in uno nostrano, un tentativo estremo di traduzione etnocentrica. Proviamo a immaginare cosa succederebbe se Huck Finn parlasse in romanesco, in napoletano o in milanese. Una scelta del genere potrebbe sortire involontari esiti farseschi. I dialetti, come ogni varietà locale, sono profondamente radicati nella loro terra d’origine : oppongono una strenua resistenza e si rifiutano di essere tradotti in un altro dialetto. La traduzio-

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ne può avvenire solo fra lingue colte e non è possibile trasformare lo Straniero che viene da fuori nello Straniero di casa propria (Berman 1999 : 64). Così facendo si rischia di coprirlo di ridicolo e di banalizzare il testo che si sta traducendo. Non solo : sarebbe un tentativo davvero estremo di appropriazione dello Straniero. È come se non solo si riducesse l’Altro al Sé, ma lo si assimilasse al punto da ren-derlo simile a una piccolissima porzione di lettori : non solo Huck diventerebbe italiano ; sarebbe così italiano da essere riconoscibile come romano, napoletano o milanese. Un po’ come se la sua zattera, anziché scendere lungo il Mississippi, di colpo scendesse lungo il Po, il Tevere o il Basento.

Nel saggio Letteratura e polisistema letterario (1978) Itamar Even-Zohar invita a riflet-tere sul ruolo svolto dalle opere tradotte in un certo Paese, sulla loro importanza o meno all’interno di quel Paese e sui rapporti fra la letteratura in traduzione e le scelte traduttive di fondo. Se il sottosistema della letteratura tradotta occupa una posizione primaria all’interno del polisistema, l’attività traduttiva partecipa alla creazione di nuovi modelli. In una situazione di questo tipo chi traduce non deve preoccuparsi di « cercare modelli già confezionati nel suo sistema di riferimento », e dunque di seguire norme imposte da altri, bensì può permettersi un atteggia-mento meno scontato e decidere di « violare le convenzioni del proprio sistema » (2002 : 236). Even-Zohar invita chi traduce a non essere pavido e lo sprona a osare : « In queste condizioni, le possibilità che una traduzione sia vicina all’originale in termini di adeguatezza (ossia in termini di riproduzione delle relazioni testua-li dominanti dell’originale) sono più elevate » (2002 : 236). Se chi traduce compie questa scelta rispetta le relazioni testuali dominanti, non cancella le peculiarità della lingua e della cultura emittente e non normalizza lo stile dell’autore.

Tra le righe del saggio di Even-Zohar è possibile cogliere un altro aspetto : il suo invito può essere esteso a tutti gli attori della fabbrica del libro, revisori e redat-tori in primo luogo, ma anche editor, direttori di collana e direttori editoriali. A che serve un traduttore coraggioso, infatti, se poi le sue scelte di violazione delle convenzioni vengono cancellate dai passaggi successivi di lavorazione del libro ? La ricerca di modelli non confezionati, di aperta sfida alla tradizione nel campo della traduzione letteraria, dev’essere un obiettivo condiviso da tutti coloro che lavorano al libro. Infatti Even-Zohar aggiunge : « Naturalmente, dal punto di vista della letteratura di arrivo le norme di traduzione adottate potrebbero risultare troppo inusuali e rivoluzionarie, e se la nuova tendenza è sconfitta nella battaglia letteraria, le traduzioni fatte secondo le sue concezioni non guadagneranno più terreno. Ma se la nuova tendenza è vittoriosa, il codice della letteratura tradotta può essere arricchito e diventare più flessibile » (2002 : 236). In queste circostanze, dunque, chi traduce può andare oltre le scelte imposte dal codice stabilito e trat-tare le relazioni testuali del testo originario in modo differente. E il rispetto della differenza non può che essere un fondamento di qualsiasi scelta traduttiva etica.

Molto spesso la scusa addotta da traduttori, revisori e redattori per sottrarsi a una traduzione innovativa e rispettosa delle differenze culturali e stilistiche è che un certo aspetto del testo non si può tradurre o che in italiano non si dice. Questa pretesa impossibilità porta a negare ogni sconfinamento da parte dell’autore nei

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territori della creazione artistica, in cui per definizione ogni cosa è invece possi-bile. La razionalizzazione di chi traduce o rivede – il non voler osare – annulla la creatività dell’autore. Così facendo, si annulla anche un altro aspetto della prosa letteraria – come ci ricorda ancora Berman – e cioè la concretezza del testo : « Chi dice razionalizzazione dice astrazione, generalizzazione » (1999 : 54). La prosa si costruisce sul concreto : la prosa ben scritta, servendosi delle immagini e di un lessico preciso, specifico, riesce a rendere concreti anche i concetti più astratti. La tendenza deformante della razionalizzazione fa percorrere al testo il cammino opposto, riportandolo sul piano astratto : lo stempera in formulazioni generiche, non solo riorganizzando in modo lineare la sintassi, ma anche privilegiando, lun-go l’asse generalizzazione-specificazione, i sostantivi più generici. Da questa pre-dilezione per gli aspetti astratti a scapito di quelli concreti il testo originario esce inevitabilmente deformato.

Chi traduce – ma anche chi rivede – non può mai essere certo di quale fosse l’intenzione dell’autore nello scrivere un certo testo, a meno che non esistano te-stimonianze scritte o orali. A disposizione ha solo il testo. Ma chi traduce dev’es-sere senz’altro disposto a scommettere sull’intenzione di un certo testo, a fare congetture su « quello che il testo dice o suggerisce in rapporto alla lingua in cui è espresso e al contesto culturale in cui è nato » (Eco 2002 : 123). Se si ritiene che la traduzione sia una delle forme dell’interpretazione, essa dovrebbe sempre tende-re, a partire dalla sensibilità e dalla cultura di tutti coloro che lavorano al testo da tradurre, a trovare l’intenzione estetica del testo. Negoziazione e compromesso potrebbero condurre a un efficace lavoro d’équipe e trasformare il circolo erme-neutico in un proficuo circolo virtuoso.

Abstract

Translating is a process built on negotiation. However, the translation that goes into print is not just the fruit of the negotiations carried out by the translator on the basis of the text’s model reader and dominant ; it is also the fruit of the compromises between the translator’s own choices and the emendations made by the publishing house’s reviser. The greater part of Italy’s publishing industry favours translation strategies geared towards making the text easily and readily accessible for the reader. What will be shown on the ba-sis of the examples provided is that a profitable collaboration between the translator and the reviser of a literary work can lead to translations that are closer to the source text in terms of reproducing the source text’s dominant textual connections. If the translator, as well as the reviser, decide not to remove the author’s stylistic peculiarities and the source culture’s singularities, then the translation will become the locus in which to achieve the ethical aim of the translating act, i.e. to welcome the foreign as such without assimilating it.

La traduzione è un processo che si fonda sulla negoziazione, tuttavia la traduzione che va in stampa non è solo il risultato delle negoziazioni operate dal traduttore sulla base del lettore modello e della dominante del testo, bensì anche il risultato dei compromessi tra le scelte del traduttore e gli emendamenti operati dal revisore della casa editrice. La maggior parte degli editori italiani predilige strategie traduttive orientate a rendere il testo facilmente e immediatamente accessibile al lettore. Sulla base degli esempi proposti, si

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cercherà di dimostrare che una proficua collaborazione fra il traduttore e il revisore di un’opera letteraria può portare a traduzioni che sono più vicine al testo di partenza, ripro-ducendone le relazioni testuali dominanti. Se sia il traduttore sia il revisore decidono di non rimuovere le peculiarità stilistiche dell’autore e le caratteristiche culturospecifiche del testo, la traduzione potrà diventare il luogo in cui si può raggiungere il fine etico dell’atto traduttivo, accogliere cioè l’estraneo in quanto tale, senza pretendere di assimilarlo.

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