Lo shlemiel dalla letteratura al cinema

27
Lo shlemiel dalla letteratura al cinema Un ebreo è sopravvissuto alle camere a gas, ma ha perso tutto i cari, non gli è rimasto nessuno. Il funzionario del- l’ufficio migrazione domanda dove ha intenzione di trasferirsi. «In Australia» risponde l’uomo. «Ma è lontanissima!» dice l’uomo «Da dove?» L’umorismo ebraico nella Germania nazista Lontano da dove è l’espressione per eccellenza ascrivibile alla cultura ebraica. Sebbene disperso a causa delle diaspore, il popolo ebraico ha comunque costruito un suo universo culturale. Fu perseguitato da babilonesi (VIII-VI sec. a. C), romani (70 d.C.) ed europei (II - XI sec. d.C) ed ha vagato per lungo tempo senza mai integrarsi completamente nei paesi ospitanti; eppure da tutti ha attinto ogni cosa. Ciò non causò l’abbandono delle Tradizioni della Torah ma anzi, ne rafforzò l’osservanza; si assistette al contempo ad un vivacissimo interscambio culturale che proseguirà nel corso dei secoli. La letteratura, in realtà, fu testimone di questo processo sin dai primordi. Nata dalla tradizione orale perlopiù epica, la letteratura ebraica, infatti, mutuò i propri

Transcript of Lo shlemiel dalla letteratura al cinema

Lo shlemiel dalla letteratura al cinema

Un ebreo è sopravvissuto alle camere

a gas, ma ha perso tutto i cari, non gli

è rimasto nessuno. Il funzionario del-

l’ufficio migrazione domanda dove ha

intenzione di trasferirsi. «In Australia»

risponde l’uomo. «Ma è lontanissima!»

dice l’uomo

«Da dove?»

L’umorismo ebraico nella Germania nazista

Lontano da dove è l’espressione per eccellenza ascrivibile

alla cultura ebraica. Sebbene disperso a causa delle

diaspore, il popolo ebraico ha comunque costruito un suo

universo culturale. Fu perseguitato da babilonesi (VIII-VI

sec. a. C), romani (70 d.C.) ed europei (II - XI sec.

d.C) ed ha vagato per lungo tempo senza mai integrarsi

completamente nei paesi ospitanti; eppure da tutti ha

attinto ogni cosa. Ciò non causò l’abbandono delle

Tradizioni della Torah ma anzi, ne rafforzò l’osservanza;

si assistette al contempo ad un vivacissimo interscambio

culturale che proseguirà nel corso dei secoli. La

letteratura, in realtà, fu testimone di questo processo

sin dai primordi. Nata dalla tradizione orale perlopiù

epica, la letteratura ebraica, infatti, mutuò i propri

modelli poetici dalle civiltà egiziane e babilonesi

sintetizzando motivi ad essa estranei che le conferirono

originalità e, per convesso, autenticità (la prosa, la

letteratura yahwista ed elohista ne furono la maggiore

dimostrazione). Ad eccezione dei libri profetici,

didattici e storici (presenti fino al X secolo a.C) legati

alla teologia e all’impegno politico e dottrinario nonché

agli studi talmudici, la letteratura successiva si

mantenne sul doppio binario della connivenza tra elementi

complementari e contradditori: l’ispirazione biblica

tuttavia esterna al canone biblico e la sintesi armonica

di umanesimo e trascendenza legata alla permanenza in

Spagna (XIII secolo) confermano pienamente questa

tendenza. Le successive influenze europee delinearono i

canoni di una letteratura non più solo ebraica ma

mitteleuropea e plurilinguistica; l'ebraico infatti

sopravvisse come lingua liturgica (lingua usata dai

rabbini per gli studi della Torah), e nei riti fino al

1800. L’idioma, invece, si trasformò a metà del secolo

(esattamente nel 1856) in lingua e letteratura Yiddish.

Quest’ultima nacque e si sviluppò precisamente nell’Europa

orientale grazie alla sua contaminazione col dialetto

meridionale (mama-loshen), utilizzato pure nella

narrazione di favole per bambini; divenne allora una vera

e propria cultura popolare che coniugò il laicismo

dell’Illuministro di Mendehelson1 al principio dell’hatraa2

discendente dalla Torah. Il connubio si inserì nell’ideale

di giustizia sociale che caratterizzerà popolo e cultura

del tempo e finirà per riversarsi nella letteratura

classica Yiddish. Ispirandosi alle tradizioni popolari,

alla novellistica orale, allo studio dei tipi umani, ai

miti della tradizione, ai tabù, alla superstizione, ai

riti magici e al confronto fra l’uomo e il mondo esterno,

gli scrittori Yiddish correlarono il mondo dello shtetl,

ossia il tipico villaggio ebraico, alla cultura europea, e

dunque la tradizione storica religiosa dell’ebraismo agli

slanci riformatori del radicalismo russo. Questa volontà

d’integrazione tesa all’eguaglianza coi popoli, si

tradusse però in un’evidente diversità culturale.

La letteratura riflette pienamente questa tensione, questa

identità perennemente precaria e la figura dello shlemiel

ne costituisce la maggiore incarnazione.

Ma chi è lo shlemiel?

Moni Ovadia, lo definisce lo sfigato; quello che cade sulla

schiena e si rompe il naso; colui che quando fa il bagno dimentica di lavarsi la

faccia; uno che quando tira la corda a un uomo che sta annegando gli butta

tutti e due i capi. Ruth Wisse, la più grande studiosa

dell’argomento, lo considera invece una figura complessa e1 L’illuministro di Mendehelson propone una visione laica dell’ebraismo che liberi lo shtetl dalla vigilanza del rabbinato e cheimprima alla vita associativa ebraica uno spirito di risolutezza ed azione. Si pone dunque come una risposta laica alla tradizione.2 L’Hatraa è il principio di consapevolezza della colpa, ossia un principio secondo il quale non si ritiene colpevole di un errore l’ebreo inconsapevole di commetterlo

contraddittoria rimproverata per la sua sciocca debolezza

ed esaltata per la sua forza interiore.

In realtà lo shlemiel è entrambe le cose. Egli è infatti

«un eroe popolare che incarna personaggi “naif ” un po’

sciocchi»3. Inefficace e goffo, la sua mancanza di

autonomia è sorprendente. Non è lui a sposarsi, ma lo

sposano e generalmente cade vittima di una moglie che lo

inganna. Pertanto la caratteristica di questo eroe, prima

della sua ingenuità, è la sfortuna, che gli si attacca al

corpo come una seconda pelle. Egli non può intraprendere

nulla perché perde sempre; è quindi un disadattato che

cade vittima della vita. L’Enciclopedia Universale

Ebraica, lo definisce infatti come uno che “prende in mano

le situazione nel peggior modo possibile o che è

perseguitato da una sfiga che è più o meno dovuta alla sua

inettitudine”.

Ma quando appare per la prima volta lo shlemiel? E come si

evolve? Molti studiosi della Bibbia ebraica rilevano una certa

evidenza linguistica che lega lo shlemiel al personaggio

citato nel Numero 19:9 della Bibbia ebraica: Shelumiel ben

Zurishaddai. I critici talmudici lo identificano con lo

sfortunato Zimri4, uno dei nomi con cui Shelumiel viene3 Nicole Karoubi. Freedonia. Cinema comico ebraico - americano4Sacra/Antico Testamento/Pentateuco/Numeri 19:9/capitolo 25 Or Israele era stanziato a Sittim, e il popolo cominciò a darsi allaimpurità con le figliuole di Moab. Esse invitarono il popolo aisacrifizi offerti ai loro dèi, e il popolo mangiò e si prostrò dinanziagli dèi di quelle. Israele si unì a Baal-Peor, e l'ira dell'Eterno siaccese contro Israele. E l'Eterno disse a Mosè: "Prendi tutti i capi

chiamato nella Bibbia. Alcuni dubitano che Zimri possa

essere stato il primo shlemiel della storia; Nathan

Ausubel afferma addirittura che non ci siano legami fra i

due personaggi. Tuttavia l’Enciclopedia cita la storia

biblica come la più grande possibilità delle origini del

personaggio. R. Rubinstein vede la storia di Zimri come un

racconto sull’ansietà di castrazione che riguarda «la

sessualità sfrenata e la ribellione contro le figure

autoritarie»; afferma poi che le storie del mito biblico

costituiscono il riflesso della paura dei rabbini di

essere traditi. Esempio tipico è l’aneddoto sul tradimento

da parte della donna ai danni del proprio uomo durante la

del popolo e falli appiccare davanti all'Eterno, in faccia al sole,affinché l'ardente ira dell'Eterno sia rimossa da Israele." E Mosèdisse ai giudici d'Israele: "Ciascuno di voi uccida quelli de' suoiuomini che si sono uniti a Baal-Peor." Ed ecco che uno dei figliuolid'Israele venne e condusse ai suoi fratelli una donna Madianita, sottogli occhi di Mosè e di tutta la raunanza dei figliuoli d'Israele,mentr'essi stavano piangendo all'ingresso della tenda di convegno. Laqual cosa avendo veduta Fineas, figliuolo di Eleazar, figliuolo delsacerdote Aaronne, si alzò di mezzo alla raunanza e die' di piglio aduna lancia; andò dietro a quell'uomo d'Israele nella sua tenda, e litrafisse ambedue, l'uomo d'Israele e la donna, nel basso ventre. E ilflagello cessò tra i figliuoli d'Israele. Di quel flagello morironoventiquattromila persone. L'Eterno parlò a Mosè, dicendo:"Fineas,figliuolo di Eleazar, figliuolo del sacerdote Aaronne, ha rimossal'ira mia dai figliuoli d'Israele, perch'egli è stato animato del miozelo in mezzo ad essi; ed io, nella mia indignazione, non hosterminato i figliuoli d'Israele. Perciò digli ch'io fermo con lui unpatto di pace, che sarà per lui e per la sua progenie dopo di luil'alleanza d'un sacerdozio perpetuo, perch'egli ha avuto zelo per ilsuo Dio, e ha fatta l'espiazione per i figliuoli d'Israele." Or l'uomod'Israele che fu ucciso con la donna Madianita, si chiamava Zimri,figliuolo di Salu, capo di una casa patriarcale dei Simeoniti. E ladonna che fu uccisa, la Madianita, si chiamava Cozbi, figliuola diTsur, capo della gente di una casa patriarcale in Madian. Poi l'Eternoparlò a Mosè, dicendo: Trattate i Madianiti come nemici euccideteli, poiché essi vi hanno trattati da nemici con gl'ingannimediante i quali v'hanno sedotti nell'affare di Peor e nell'affare diCozbi, figliuola d'un principe di Madian, loro sorella, che fu uccisail giorno della piaga causata dall'affare di Peor."

sua assenza, tema ripreso dalle tesi di Theodor Reik.

Studiando lo shlemiel come fenomeno psicologico e

identificando lo stesso con il protagonista di una storia

medievale5, lo psicanalista austriaco descrive

l’interazione fra l’uomo tradito e il rabbino e, ancora di

più, fra l’uomo tradito e la gente del villaggio: la

comunità guarda al tradimento per quello che è, lo deride

ma allo stesso tempo se ne guarda. La derisione diventa

auto-derisione nelle poesie di Ibn Ezra. Egli distingue lo

shlizmal dallo shlemiel6. Lo shlizmal (termine da cui

secondo alcuni deriva la parola shlemiel) è colui che

nasce sotto una cattiva stella (dal tedesco schlim =

cattiva, e mazl = stella). La stella dello shlemiel,

invece, si trova sempre nell’ allineamento astrologico

sbagliato. Se lo shlizmal si getta la minestra addosso, lo

shlemiel, ovviamente, la getta addosso agli altri. I due

tipi sono affini: nati nella cruda realtà del ghetto ed

entrambi in/capaci di raggiungere il medesimo risultato,

sono caratterizzati da un’ironia autodistruttiva che è,

però, meno importante del paradosso su cui essa si

sostiene: la saggezza della ristata derivante dal

fallimento.

5

Un uomo torna a casa dopo un anno di assenza e scopre che la moglie hadato alla luce un bambino. Il rabbino devide che il bambino èleggitimo, ma la comunità ne dubita. L’uomo deve accettare ladecisione del rabbino e diventa il prototipo dello shlemiel checoinvolge se stesso in una situazione da cui è difficile districarsi6 Anche Rachel Ertel distingue shlimazl e shlemiel affermando che il primo è sfortunato per ragioni estrinseche, il secondo per ragioni intrinseche. La sfortuna dello shlimazl è accidentale, quella dello shlemiel essenziale.

Il paradosso in realtà, caratterizza lo shlemiel sin dalla

nascita. Il termine shemiel, invero, fu introdotto dallo

scrittore tedesco Adelbert von Chamisso. Nonostante la

familiarità con le tradizioni yiddish del personaggio,

bisogna ammettere che Chamisso dallo shlemiel prese in

prestito solo il nome; la storia infatti è una versione

romanzata del Faust che vende l’anima al diavolo in cambio

dell’oro. Con ogni probabilità l’autore voleva legare lo

shlemiel Yiddish all’eroe cupo e romantico delle storie

del vagabondaggio ebraico. Tuttavia lo shlemiel è ben

lontano dalla figura oscura che erra per il mondo; è un

personaggio sociale e la sua comica sfortuna è tradotta

nei termini del grottesco e dell’esagerazione.

Nella poesia di H. Heine lo shlemiel è metafora della

ricerca artistica. Nelle sue Melodie ebraiche Zimri diviene

l’innocente shlemiel e la sua morte costituisce la

dichiarazione della condizione ebraica. Lo shlemiel

appare allora patetico e lontano dal contesto umoristico

in cui è nato e che esiste da quando l’ebreo, consapevole

della sua condizione di strumento divino dai tempi della

Diaspora, si chiede se Dio per una volta potesse scegliere

qualcun altro per diffondere il codice morale nel mondo.

Ma magari non si tratta di un umorismo ordinario; può

darsi che ridere costituisca per lui il solo modo di

sopravvivere nell’insensato mondo che lo perseguita.

Rifugiandosi nell’humor lo shlemiel procura un certo

piacere ai suoi fratelli che ridono di lui ma anche di

loro stessi. L’umorismo diventa dunque un’arma di difesa.

Da qui nascono gli aneddoti ambientati a Chelm7 focalizzati

sulla follia collettiva. Chelm è infatti una comunità di

pazzi le cui storie riguardanti i suoi cittadini finiscono

sempre per concentrarsi sul folle Motke Habad, personaggio

chiaramente riconducibile alla figura dello shlemiel. Il

Motke Habad è infatti un bonaccione ansioso di girare il

mondo ma continuamente perseguitato dal destino che quasi

si fa beffa di lui (finisce sempre per mettersi nei

pasticci o per essere tradito). Ironico e scettico,

diviene inetto ed inerme di fronte alle ingiustizie

subite; per questo lo si ritiene metafora dello shtetel e

del popolo ebraico considerato eletto ma da sempre

perseguitato dalla storia. Il velo di amarezza e

disperazione dello shlemiel aneddotico, diverrà pienamente

percettibile nella letteratura Yiddish dove finirà per

trasmigrare intorno alla metà dell’Ottocento. Leggerezza e

battute, auto-derisione e follia, comicità e tragedia

confluiranno in un solo personaggio che acquisterà

spessore, comunicando col pubblico ad un livello di

profonda sensibilità collettiva. Mendele Mocher Soferism,

Sholom Aleichem. e Y. L. Peretz, padri della letteratura

Yiddish, cristallizzeranno il personaggio nel mito della

fiction che conquisterà i lettori del tempo.

Più che Mendele e Peretz, in realtà, sarà Aleichem a

tratteggiare pienamente la figura dello shlemiel in campo

letterario. Se infatti Mendele descrive la vita dello

shtetel e dei suoi personaggi usando uno stile ironico e7Chelm è una città mitica che ospitava solo sciocchi e sempliciotti. Ai suoi abitanti sono poste diverse situazioni e proposte delle soluzioni, quasi tutte assurde.

pietoso, mentre Peretz si chiude nel suo individualismo

che scruta il travaglio della cultura ebraica, Aleichem

incentrerà le sue vicende picaresche sul personaggio

principale, o meglio, sull’antieroe. Diremo anzi che

dall’immedesimazione del personaggio deriva l’invenzione

stilistica dell’autore che fa dell’umorismo la sua chiave

di volta. L’ironia gli permetterà infatti di avvicinarsi

al popolo servendosi del linguaggio dello stesso

conferendo a racconti e personaggi, e soprattutto allo

shlemiel, un’autenticità che li rende irripetibili. La

componente comica, tuttavia, mantiene intatta la

religiosità degli ebrei che inizierà però a pesare nella

letteratura Ameryiddish.

Nata a New York nei primi anni del secolo scorso, la

letteratura della Lower East Side acquisisce l’Yiddish

ebraico, che in America non è più una lingua opposta i ai

principi talmudici ma una koinè vera e propria. Non è più

la tradizione, e dunque il Talmud, a difendere gli ebrei,

ma l’Yiddish. L’ebreo vuole adesso emanciparsi e

qualificarsi intellettualmente: nascono nuovi modelli

psico – linguistici, e i racconti si chiudono presentando

un personaggio principale che conduce ed avvita la

narrazione. L’allegoria e l’umorismo che la

contraddistinguono sono rese dal particolare angolo di

visuale che non vede la realtà con impeto, ma che nemmeno

l’abbraccia. Mito e favola, folklore e storia, religioso e

magico, fantasia e surreale, sentimento e tradizione

confluiranno nella letteratura di questo periodo che

renderanno il timido e giocoso shemiel perennemente

afflitto dal peso del proprio ebraismo e, dunque, diviso

fra il dovere verso la Tradizione e il richiamo del mondo

esterno. La persecuzione da parte dei pogrom zaristi

appesantirà ulteriormente l’eroe che avrà adesso alle

spalle un’esperienza clandestina di ispirazione

socialista. In tale contesto la memoria costituirà la

forza e l’intensità del dramma. Solo così lo scrittore

ebreo-americano sembrerà riuscire ad esprimere liberamente

il suo tormentato e contradditorio rapporto con il

passato. L’attività mnemonica si fa lotta per la

sopravvivenza, netto rifiuto e trasgressione,

valorizzazione di una matrice comune, ricerca ed

autoanalisi, indifferenza e sarcasmo, impossibilità e

tragica afasia, sotterraneo recupero e desiderio represso,

esperienza distruttiva o dinamica eroica e liberatoria. Da

ciò scaturisce l’atteggiamento di sfida dello scrittore

ebraico -americano che, contrariamente alla condizione più

passiva e pessimista dello scrittore ebreo europeo,

dimostra di potenziare ciò che della sua storia, della sua

cultura, può ancora trasformarsi in energia innovatrice e

creatrice. Usa il linguaggio, il racconto, come una leva

per sollevare il pesante retaggio della tradizione,

convertendo la dimensione temporale in spazio concreto,

realtà sperimentale da reinterpretare. La mancanza di una

memoria monumentale, che testimoni la propria civiltà, è

sostituita dall’ebreo da una attitudine al movimento, allo

spazio mobile.

In Abraham Cahan, famoso per aver tenuto nel 1882 la prima

riunione socialista in Yiddish negli Stati Uniti, i temi

del ricordo e della memoria sono indissolubilmente legati

all’eterna insoddisfazione dei vari protagonisti di

novelle e romanzi. Se in Henry Roth la scoperta della

vanità del viaggio è data per scontata dall’inizio,in

Cahan ci si arriva gradualmente, vivendolo forse in modo

più traumatico. È parte della coscienza e della memoria

diasporica storica sapere che il viaggio non cambierà

nulla, ma sperare sempre che forse cambierà qualcosa. Il

discorso sulla memoria e sulla ricerca di una identità

ebraica sono indissolubilmente legati. L’unica via di

scampo consiste nell’abilità di vedere la tradizione

dell’esilio con occhi ironici. Non esistono certezze per

l’Ebreo Errante a meno che non si tratti di proiezioni

mentali, o miraggi destinati sempre a delusioni. Proprio

questo è il segreto della su sopravvivenza: essere altrove

accanto al disperato desiderio di essere a casa.

Diversa è la tendenza dei decenni successivi. Gli anni

Trenta, infatti, vedono la nascita della letteratura della

Protesta caratterizzata da uno spirito interventistico

che descrive la vita dei cittadini ed instaura un

sodalizio fra scrittori e popolo. Nello specifico la

letteratura ebraica della Protesta si concentra sul tema

che da sempre aleggia nella cultura ebraica: restare

fedeli alla propria identità, all’indissolubile presenza

della propria ebraicità, come segno di un destino che

poteva compiersi ed esaurirsi in un disegno terreno, sia

pure sublime. Gli scrittori ebrei cercano un nuovo modo di

esprimere la loro condizione per rendere perfettibile e

degna la vicenda di cui, per destino, sono i portatori. Lo

shtetel incontra l’America insomma e, seppure in maniera

lontana dalla Tradizione, ritornano alla loro fonte di

ispirazione più sicura: la ricerca del giusto secondo i

principi della Torah. Le idee erano il primo obiettivo da

esaminare alla luce di una dignità dell’uomo che gli ebrei

avevano ricevuto da Mosè.

I maggiori scrittori di questo periodo (H. Roth, D. Fuchs,

N. West e E. Dahlberg) raccontano storie di violenza e di

furore che costituiscono l’altra faccia di un mondo timido

ed introverso, segreto e magico che tuttavia viene

continuamente frustrato dal suo inaccessibile soliloquio.

E’ difficile trovare in questi romanzi un eroe; la

violenza infatti è la personificazione di una forza cui

deve, per misteriosa destinazione, sottostare lo shlemiel:

decenni dopo Mendele, ritroviamo la vittima dello shtetel

trasferita nella realtà americana, senza aver perso i suoi

tratti distintivi e dunque la sua identità. Il caso più

singolare del tempo è “Call it sleep” di Henry Roth, il

romanzo che narra le vicissitudini di David Schearl e le

sue difficoltà ad integrarsi nello shtetel di Manhattan.

Roth non solo racconta in modo realistico le storie di una

minoranza attraverso un filtro psicologico, ma si serve di

un linguaggio del tutto nuovo. Egli infatti correla

letterature di diversa provenienza ed estrazione

linguistica rompendo gli schemi fissi di qualunque lingua,

e il nuovo linguaggio creato dallo scrittore costituirà

tutto quello della lettteratura a venire. Gli scrittori

della sua generazione trasferiranno le caratterizzazioni,

i personaggi, i temi e la psicologia della letteratura

nella più vera realtà che li circonda. Nonostante le

novità, i libri del periodo risentono di un provincialismo

portato avanti da altre etnie nella stessa narrazione.

L’ebreo, qui, è sì un antieroe, ma più perché è un

archetipo che non per la relazione che instaura con la

nuova realtà in cui viene immesso. Rendere autonoma ed

autoritaria la vittima non è impresa facile: il conflitto

tra vecchio e nuovo, tra la fedeltà alla Tradizione intesa

senza compromessi e la nuova problematica ebraica sorta a

contatto con l’assimilazione non scompare; tuttavia, se la

tradizione era tutelata dai Talmud, adesso c’è una forma

meno rigida che ha assorbito le caratteristiche del primo

Mendele.

Gli intellettuali ebraico – americani, col tempo, si

accorgono di quanto la cultura ebraica aveva prodotto.

Grazie ad autori come I. B. Singer, B. Malamud, N.

Mailer, Philip Roth, S. Bellow si va verso una liberazione

dal provincialismo. Questa generazione non circoscrive la

sua adesione culturale secondo uno schema tipicamente

ebraico; ad ogni modo non mortifica né mette in secondo

piano la sua tradizione storico – culturale. Questi

scrittori mirano ad essere accettati per quello che sono,

non per quello che avevano assimilato. Essi credevano

nell’Illuminismo poiché la più grande innovazione

proveniva dal fatto di poter essere illuminati da tutta la

cultura intesa come spirito dei tempi nuovi. Il tema

principale della letteratura ebraica tuttavia non cambia,

anzi rimane lo stesso: che succede ad un ebreo in una

determinata circostanza? Gli scrittori rispondono alla

questione attraverso romanzi che superano il tragico,

l’avventuroso, il sublime e l’eroico in favore di un

umorismo singolare. Questo infatti diventa nei personaggi

dei romanzi il momento più segreto e misterioso del loro

carattere, quella parte più inafferrabile e indecifrabile

della loro natura, una specie di luogo mentale accessibile

soltanto al personaggio stesso e che gli consente la più

ampia libertà d’azione, le soluzioni più impensate, le

decisioni più illogiche: è una scappatoia psicologica

connaturata al suo temperamento.

Siamo dunque di fronte ad un nuovo shlemiel che ben

riflette il realismo magico, mitico, superstizioso,

emblematico dell’Europa orientale rivissuto da I. B.

Singer, B. Malamud, e s. Bellow per esempio. La carica

fantastica mista alla saggezza antica espressa ora con il

dramma, ora con il comico, ora con un misterioso gioco di

immagini, ora mistico, dove la fantasia è libertà e il

mito è magia, è un chiaro motivo Ottocentesco. L’eroe di

questi romanzi, comunque, presenta caratteristiche

differenti rispetto al picaro del passato. Sopraggiunto in

un momento storico in cui il destino del romanzo ebraico

sembra volgere al termine, il nuovo shlemiel ostenta

un’ironia che ne sottolinea l’ambivalenza: se da una parte

si sente parte di una cultura etnica, dall’altra ne è

irrimediabilmente fuori. È di nuovo vittima, talvolta di

ingiustizie sociali talaltra di chiusure familiari, ma la

sua condizione è ora differente. Se lo shlemiel

nell’Ottocento veniva recriminato, il suo vittimismo

costituisce adesso un distintivo di superiorità poiché gli

permette di intellettualizzare la sofferenza. É il caso di

Malamud che manifesta attraverso i suoi personaggi

l’esigenza e soprattutto la forza di affrontare i problemi

pur sapendo che sono irrisolvibili8; e possiamo senz’altro

riferire quanto detto anche Saul Bellow e Philip Roth.

Herzog e Portnoy infatti, rispettivamente eroi di Bellow e

Roth, vittime entrambi, l’uno della moglie e l’altro della

madre, non subiscono una persecuzione che parte da

motivazioni convincenti sicché la disperata condizione

ebraica viene descritta attraverso personaggi

macchettistici. Gli eroi, invece, si distinguono per la

loro capacità di mantenere l’equilibrio e il distacco

dalla realtà che li circonda. Non integrati nella realtà

protestante, tuttavia, si sentono esuli dal mondo. Non

compiono la scalata sociale per diventare un ebreo

all’antica come tutti si aspettano, e si trasformano

allora in ibrido sociale che proclama la sua sofferenza

nei modi più svariati (lettere destinate ai personaggi nel

caso di Herzog o seduta psicanalitica nel caso di

Portnoy).

A segnare la svolta è soprattutto e sopra tutti Philip

Roth; il dissenso che esprime per le sue tradizioni ben si

dispiega nei suoi personaggi intrisi di risentimento verso

la propria comunità e la propria famiglia. Lo scrittore fu

criticato per il tono ironico con cui ha affrontato8 B. Malamud affronta l’eterno conflitto tra innovazione e Tradizione ricorrendo alla parodia, all’autoironia e all’introspezione che fanno capo ad una fede che si identifica attraverso una nuova forma di umanesimo universale che riscatta l’uomo dalla sua posizione di peccatore e dannato. Tale visione pone l’accento sulla liberazione dello spirito, sul bisogno d’amore e di fede e sul rispetto delle relazioni umane e della libertà .

l’ebraismo, caratterizzando con pregi e difetti ogni

personaggio, contrariamente a quanto avveniva in quegli

anni. In Philip Roth si rappresenta e si sbeffeggia la

famiglia ebraica per la sua ipocrisia, poiché vive

l’avventura americana del successo con la stessa volgarità

e banalità di qualsiasi neo-borgesia. La sua scrittura

valorizza al massimo il linguaggio del parlato,

imprevedibile nel suo humor e nelle sue associazioni

dissacranti. Nei suoi scritti non si riscontra

quell’umanesimo ebraico che aveva reso grandi le pagine di

Cahan, Fuchs, Bellow, Singer e Malamud. Si tratta del

primo scrittore ebreo a non essere influenzato dalla

propria tradizione e questo è forse indice del fatto che

il viaggio della letteratura ebraico-americana stava

volgendo al termine. Philip Roth, al di là delle accuse e

delle censure a suo carico, con un vero e proprio atto di

trasgressione, continua a rimuovere il topos che nelle

opere degli altri autori faceva dell’ebreo un “cultural

Hero”, uomo giusto, rispettoso dell’America e leale verso

le sue origini.

Negli anni 50-60 la rappresentazione dell’ebreo è

fortemente condizionata da due eventi storici: il

genocidio europeo e il diffuso antisemitismo prosperato

sino agli anni 30 tra gli autori americani. Lo scrittore

impiegò anni a difendersi. Egli rivendica la libertà di

rappresentare e deformare qualsiasi aspetto della sua vita

privata e di gruppo. Non c’è legame con il ricordo tanto

caro all’umanesimo e alla religiosità ebraici. La memoria,

infatti, rimanda a Dio, ma per P. Roth tutto ciò che

restava dell’ ebraismo era un “psicologia, non una cultura

e non una storia nella sua totalità”9. Egli nega a se

stesso e all’ebraismo americano un passato omogeneo e

attacca l’ipocrisia della middle class ebraica che

pretende di far coesistere il benessere conquistato nella

nuova terra promessa con la tragica realtà delle camere a

gas naziste. Politicamente la posizione degli ebrei

americani durante le varie fasi delle persecuzioni naziste

in Europa non era stata quella del coinvolgimento. Era

dunque l’ebraismo americano, o meglio la maggioranza della

sua borghesia, ad aver dimenticato le radici e la

solidarietà di gruppo. Non certo Philip Roth che con la

sua narrativa provocatoria aveva portato in superficie

l’innominabile e il non dicibile. A causa del genocidio e

dell’edulcorata versione teatrale di Il Diario di Anna

Frank rappresentato nel periodo della storia, tutti gli

ebrei sono diventati intoccabili e qualsiasi discorso che

non faccia risaltare le loro virtù si trasforma in un arma

mortale in mano agli antisemiti. Nel corso di una carriera

sin troppo prolifica Roth sembra essere stato preda

“dell’affanno del maratoneta” (citazione di F. W.

Grunfeld, Profeti senza Onore. L’intelligenza ebraica

nella cultura tedesca del 900, Il Mulino, Bologna, 1986).

Considerando le sue opere “ebraiche” egli dimostra una

straordinaria attenzione alla poetica della memoria che fa

di lui un autore completamente imprevedibile e diverso da

Malamud per esempio. Roth, in sostanza, rovescia la

9 in The Mainstream. The Jewish Presence in 20 century American Litterature 1950/1980, Louis Harap, Greenwood Press Westport 1987

tendenza all’indistinguibilità e all’assimilazione che,

sin dalle origini, era stato l’elemento propulsore della

letteratura ebraico americana. Con The Counterlife, l’anabasi

del personaggio rothiano raggiunge un punto cruciale:

malgrado l’irriducibile agnosticismo verso la religione

dei patriarchi e verso la moderna Israele il personaggio

si rende conto che il suo destino personale non può

prescindere da quello collettivo della diaspora di Sion.

Impotente a definire il grado e la natura della sua

ebraicità, alla fine vi si arrende senza porre condizioni.

D’altra parte la rivolta verso l’ebraismo che caratterizza

la prima produzione rothiana va vista nel suo contesto

etnico e culturale: l’intellighenzia ebraica non era nuova

alla rottura con il proprio retaggio: prima a causa

dell’americanizzazione, poi in nome dell’internazionalismo

proletario, in quello del modernismo e dell’alienazione,

lo scrittore ebreo era sempre stato al centro di un

conflitto tormentato tra il richiamo autoritario della

cultura e il violento desideri di andarsene [A. Cahan, H.

Roth, S. Bellow, B. Malamud, D. Fuchs, N. West]. La

rivolta rothiana nei confonti dell’establishment ebraico,

benché meno ideologizzata e selettiva, non è quindi

nuova: la contestazione dei valori borghesi è un’eredità

della “red decade” e della letteratura modernista ( Joyce,

Kafka ecc.). Ciò che muta è il modello di

rappresentabilità nel quale questa ideologia si iscrive.

Il mondo di Roth è talmente antagonistico rispetto ai

testi canonici della letteratura ebraico-americana da

suscitare non solo lo sdegno degli ebrei comuni, ma anche

quello di parecchi critici. Tuttavia l’operazione di Roth

è una scelta estetica. Egli ha di fatto riscritto di

conflitti familiare e generazionali molto simli a quelli

raccontati in “Call it sleep” (1934). Ma poiché i dati

oppressivi della realtà (inserimento, acculturazione,

povertà, utopie e disillusioni ideologiche) sono caduti o

hanno subito profonde trasformazioni, ciò che conta

nell’era di Portnoy-Kepesh-Zuckerman è il principio

antropocentrico, o meglio, la rivolta contro l’autorità

dell’ebraismo attraverso la trasgressione sessuale. Ciò

che cercano i giovani personaggi di Roth è “The Kingdom of

Freedom”10. Ma non essendo pressati da forze esterne,

economiche o di classe, essi si limitano a denunciare le

ipocrisie delle virtuose famiglie ebraiche che, malgrado

il genocidio, continuano a comportarsi con la stessa

volgarità, banalità e superficialità di qualsiasi neo-

borghesia. Dal romanzo di Portnoy in poi, con la maturità

dei personaggi e la conseguente riscoperta della nostalgia

delle origini, i personaggi rothiani aspirano ad

un’esistenza comune: diventare uomini, padri di famiglia,

occupare la loro intelligenza e cultura “in un semplice e

soddisfacente futuro”.11

La compiuta espressione dello shlemiel al cinema non si

avrà prima della scomparsa del controllo da parte di una

minoranza che controllava come il cinema ebraico doveva

essere rappresentato. L’evolversi della questione ebraica

darà luogo a un ricco corpus di opere realizzate da varie10 (I. Schneider, From the Kingdom of necessity, Putnam, New York, 1935)11 (P. Roth, Portnoy’s Complaint).

generazioni di cineasti, legate a diversi momenti della

storia e della società. Tali opere rispecchiano e

ridefiniscono il ruolo degli ebrei in America, traducendo

un momento storico in immagini evocative di cui il cinema

si fa testimone. Il sistema industriale della finzione

fagocita la figura dello shlemiel che ben introduce

Charlie Chaplin attraverso Charlot. Il comportamento del

noto personaggio riassume tutti i tipi della galleria dei

caratteri appartenenti alla commedia umana dell’ebraismo

della diaspora. Fra questi l’errante, colpevole solo di

essere ebreo, è senza dubbio il più rappresentato. La sua

sola salvezza è l’occultamento della sua immagine vera di

ebreo, maschera tragicomica che esprime angoscia per se

stesso e ironia per non poter apparire quello che è. La

sua vera natura va solo intuita ed interpretata attraverso

gesti, sguardi ed atteggiamenti. La dimensione del sogno

gli permette quella speranza che la terra ferma gli nega,

è il “vecchio saggio” che supera gli ostacoli con la

consapevolezza della propria disarmante astuzia: egli fa

proprie regole e comportamenti altrui per ribaltarli

dall’interno attraverso la propria visione della vita. Non

smette mai di lottare contro un mondo che sospetta

continuamente e ingiustamente di lui; sciocco e maldestro

rivela la propria incapacità quando è chiamato a fare

qualcosa che non sa fare, non riesce a conformarsi, a

regole definite e istituzionalizzate all’infuori di lui e

che non gli appartengono. Antieroe per eccellenza riesce

in alcune occasioni a rivelarsi eroe e, dunque, a vincere

contro un mondo ostile e nell’appropriazione di

un’autonomia decisionale ed esistenziale; la vittoria

risulta così duplice, perché duplice è la figura che

rappresenta. Facendo ridere gli altri, infatti, annulla se

stesso. “Strano ragazzo, Charlot è contemporaneamente

sentimentale e indifferente, ladro e onesto, pauroso e

coraggioso, malizioso e ingenuo, lieto e triste, sobrio e

ubriaco …. Charlot è un uomo.”12. Charlot è shlemiel. Come

lui è un’idealista che, rinchiuso nella solitudine e nella

disperazione per un mondo ingiusto, cova la rivoluzione.

Egli vendica se stesso e tutti con degli scherzi o delle

sciocchezze che obbligano gli altri a portare una parte

delle sue umiliazioni. Non si ribella ma sbuffa; la sua

nobiltà morale non mancnea mai di manifestarsi. Infatti è

pronto a sacrificarsi per i suoi simili ed è attraverso

questo messianesimo ebraico che arriva a simboleggiare la

figura di Cristo, sebbene sia un miscredente perfetto e

serenamente a-religioso. Charlot, però, è anche Hitler.

Questi incarna le velleità diaboliche latenti in ciascuno

di noi, e nel caso di Charlot la coincidenza è

sottolineata dal senso di colpa ebraico e dalla vertigine

di annientamento e sacrificio che ne segue. Charlot è

vittima in quanto messia e boia in quanto ebreo. Si

registra un analogia tra messianesimo ebraico e

messianesimo hitleriano: anche Hitler si sentiva investito

da una missione (l’Olocausto). Il doppio Charlot/Hinkel è

simbolo della coabitazione in ogni uomo del bene e del

male; attraverso di lui Charlot si rivolge al nazismo

sopito in noi. Chaplin riesce in quello che secondo la

12 P. Soupault

Wisse è il problema dello shlemiel: “riuscire a rovesciare

i dati di partenza e a trasformare la vittima rassegnata

in eroe, l’infinitamente piccolo in qualcosa di

imponente”. Il piccolo barbiere riesce a sconfiggere il

male impersonandolo, assumendone la maschera, anche

attraverso l’uso di tecniche cinematografiche come il

dettaglio, il primo piano e la pantomima che riescono a

stravolgere i confini, trasformando Davide in Golia e

viceversa. Lo shlemiel, quindi, uomo del non capire,

finalmente capisce. Eppure il non capire continua a

caratterizzare gli eroi cinematografici americani.

Partendo infatti da Il laureato (1967) di Nichols e passando

per Ore 10: lezione di sesso (1970) di John G. Avildsen, Il Piccolo

Grande Uomo di Penn, Mattatoio 5 (1971) di George Roy Hill

Anche gli uccelli uccidono (1971) di Robert Altman, Gli amici di Eddie

Coyle (1972) di Yates Duel (1972) di Steven Spielberg fino ad

arrivare a Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese le

caratteristiche dello shlemiel rimangono onnipresenti.

L’incapacità di comprendere ciò che gli sta accadendo e lo

stato di solitudine che da ciò deriva accomunano i

personaggi di tutti questi film. La necessità di

un’affermazione prepotente che rompa gli schemi imposti da

un costume inteso ad auto conservarsi, tenderà sempre ad

istituire un rapporto significativo tra personaggi e

ambiente in modo da evidenziarne sia il conflitto

interiore che quello esteriore. Siamo ben lontani da film

che relazionano lo shlemiel alla Shoa, eppure la classica

figura ebraica ricorre imperterrita ed incessante. Si

riproporrà legata alla tematica dell’Olocausto nel

successo del premio Oscar Roberto Benigni del film “La

vita è bella”(1997). Il regista ha configurato il

protagonista conferendogli una speciale abilità: stabilire

un equilibrio fra il tragico e il comico che divengono le

vie per associarlo al noto personaggio ebraico.

Articolando i vari piani si raggiunge un livello di

commozione non indifferente: quello della poesia che

avvolge il protagonista Guido e il suo modo di amare,

quello del tragico contrapposto al comico nella relazione

padre ebreo e figlioletto nel campo di sterminio, quella

del disarmo per combattere le armi, infine quello della

verità storica nella nuova interpretazione del mito

dell'Olocausto. Sebbene il regista abbia dichiarato di non

avere attinto alla figura dello shlemiel, la semplicità

del suo personaggio, unita all’umorismo e all’esplicita

volontà di guardare all’Olocausto attraverso gli occhi

dell’innocenza, riconduce chiaramente alla poeticità

dell’eroe letterario. Conscio della sua condizione di

shlemiel, Guido diviene eccezionalmente abile nello

sfruttare tutte le occasioni che gli si presentano per

sfuggire alle contingenze. Ricorrendo alla slapstick

Benigni ricollega il suo personaggio direttamente al

barbiere di Chaplin: se questi si sostituisce ad Hinkel,

Guido prende il posto prima di Vittorio Emanuele II, poi

dell’ispettore mandato da Roma in una scuola per sostenere

la superiorità della razza ariana, ed infine del fidanzato

fascista e razzista della donna che ama. Tutto sommato si

differenzia da Charlot per la sua coscienza della

situazione drammatica che affronta. Le piccole magie che

compie sono tentativi effimeri volti a non lasciarsi

travolgere insieme al figlio “dalla grandezza del male che

lo circonda, e della cui effettiva essenza solo per gradi

diventa consapevole.”13

Pienamente conscio della realtà che vive risulta invece

Shlomo, protagonista del capolavoro di Radu Mihaileanu

“Train de vie” del 1998. Successivo alla “Vita è bella” ed

accusato di plagio nei suoi confronti, Train de vie si

pone sullo stesso binario del suo antesignano ma

ricorrendo alla tematica del viaggio per metaforizzare la

Shoà. Tuttavia non si può negare la somiglianza fra i due

protagonisti del film. Shlomo infatti si avvicina molto

alla figura di Guido Orefice: come lui è buono d’animo ed

abile nell’arte della narrazione e della finzione. Dal

rapporto con un Dio invisibile viene fuori l’arguzia

sorprendente di cui i due sono dotati e che gli permette

di sopravvivere, seppure per un tempo effimero, nel

difficile contesto della persecuzione. Ciò che differenzia

Guido da Shlomo è solo la paternità. Come Guido, infatti

Shlomo non è che uno shlemiel, o meglio uno shnorrer14

(erede dello shlemiel). “Ne rappresenta l’archetipo nelle

sue stralunate ma pertinenti considerazioni metafisiche

(quando il comunista-ebreo e il nazista-ebreo litigano

sull’esistenza di Dio lui osserva: «Che importa? Vi siete

mai chiesti invece se l’uomo esiste?... Dio forse ha

13 Claudio Gaetani. Il cinema e la Shoà14 Girovago, astuto, vagabondo, scroccone, accattone, ha per scopo il profitto. . Il suo linguaggio è arguto e ritiene che non esistano differenze sociali, che quello che è concesso ai ricchi è altrettanto accessibile ai poveri

creato l’uomo, ma l’uomo ha creato Dio, solo per inventare

se stesso... È l’uomo che bisogna cercare»), nella sua

“alterità” esistenziale, nella sua dimensione simbolica,

nel suo vestire come il violinista di Chagall. Shlomo è il

depositario ultimo di una letteratura yiddish sognante,

assurda, paradossale ed autoironica, una letteratura che

però affonda le sue radici nella cultura e nella

spiritualità ebraica”15. D’altronde era intenzione del

regista proseguire il cammino di letterati Yiddish quali

Singer ed Aleichem dando voce al witz (umorismo) ebraico

che sta ormai scomparendo in Europa. Lo sguardo super

partes dello shnorrer si rivela l’espediente ideale per

realizzare l’ardua impresa. Sognante eppure arguto, fool

eppure saggio, aggredito ed al contempo appoggiato dalla

comunità, Shlomo diventa punto di riferimento per

protagonisti e spettatori. Per tutto il film siamo

all’altezza del suo sguardo, viaggiamo sul filo

dell’immaginazione, nella dimensione gioiosa e spiritosa

del ricordo e della fantasia. Poi all’improvviso lo

sguardo si allarga e la realtà torna ad essere tetra e

angosciante: quei cento minuti di felicità ridiventano

pura invenzione, il film torna ad essere un film, il s’iz an

emese mayse una formula valida solo nello spazio della

finzione (fino a quando il bambino-spettatore ci crede).

«E quando la lunga notte del nazismo torna a stendere la

sua ombra penosa sulla nostra percezione storica, ecco che

la favola degli ebrei in fuga verso la libertà, persa la15 http://www.lombardiaspettacolo.com/cinema/ArrivanoIFilm1995-2002/SCHEDE%201999_2000/TRAIN%20DE%20VIE.pdf

sua apparenza di realtà, acquista una forza diversa,

diventa il tramite di un’ipotesi di salvezza che passa

attraverso la gioia di vivere, il gusto della differenza e

la forza della fantasia».16 Il finale svelato dalle ultime

parole di Shlomo “quasi vera” rivelano la favola per

quello che è, disarmando e spiazzando lo spettatore che lo

scopre prigioniero del campo. Allo stesso modo Guido

Orefice muore per porre fine al gioco conducendolo ad un

“lieto fine”. La finzione crolla di fronte alla realtà,

una realtà che né l’umorismo, né il disarmo ebraico

possono rappresentare. D’altronde la commedia della shoà

si regge proprio sul principio di non rappresentabilità

attraverso il racconto. Inglobando tragico e comico, come

lo shlemiel, la commedia non rivela mai se stessa. Così

come l’eroe ebraico cela se stesso dietro l’ironia che

nasconde il suo dramma interiore, allo stesso modo

Chaplin, Benigni e Mihaileanu raccontano una favola senza

rappresentare la tragedia che in virtù di ciò questo

finisce per emergere in tutta la sua drammaticità. La

favola è l’arma del disarmo, la saggezza della follia, la

tenerezza dell’amarezza, l’innocenza della non

colpevolezza di essere ebrei.

Dopo la fine della guerra un ebreo siede ad un tavolo del suo vecchio caffè a Vienna e

chiede il Volkliche Beobachter” (il più famoso giornale nazista). Il cameriere risponde

che quel giornale non esiste più da tempo. La setssa scena si ripete il giorno dopo e

poi, puntualmente, nei giorni successivi. A un certo punto il cameriere si decide a

16 (Fabrizio Tassi, in «Cineforum» n. 381)

chiedere al chliente perché ripeta sempre la stessa domanda. «Proprio per sentirmi

dire» risponde l’ebreo «che quel giorno non si stampa più!»

Alcuni nazisti circondano un vecchio ebreo e gli chiedono chi sia il responsabile della

guerra. «Gli ebrei» risponde lui «e i cliclisti». «Perché i ciclisti?» domandano i nazisti

sbalorditi. «Perché gli ebrei?»

Giuseppina Stancanelli

Marta Gasparroni