Lo shlemiel dalla letteratura al cinema
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Lo shlemiel dalla letteratura al cinema
Un ebreo è sopravvissuto alle camere
a gas, ma ha perso tutto i cari, non gli
è rimasto nessuno. Il funzionario del-
l’ufficio migrazione domanda dove ha
intenzione di trasferirsi. «In Australia»
risponde l’uomo. «Ma è lontanissima!»
dice l’uomo
«Da dove?»
L’umorismo ebraico nella Germania nazista
Lontano da dove è l’espressione per eccellenza ascrivibile
alla cultura ebraica. Sebbene disperso a causa delle
diaspore, il popolo ebraico ha comunque costruito un suo
universo culturale. Fu perseguitato da babilonesi (VIII-VI
sec. a. C), romani (70 d.C.) ed europei (II - XI sec.
d.C) ed ha vagato per lungo tempo senza mai integrarsi
completamente nei paesi ospitanti; eppure da tutti ha
attinto ogni cosa. Ciò non causò l’abbandono delle
Tradizioni della Torah ma anzi, ne rafforzò l’osservanza;
si assistette al contempo ad un vivacissimo interscambio
culturale che proseguirà nel corso dei secoli. La
letteratura, in realtà, fu testimone di questo processo
sin dai primordi. Nata dalla tradizione orale perlopiù
epica, la letteratura ebraica, infatti, mutuò i propri
modelli poetici dalle civiltà egiziane e babilonesi
sintetizzando motivi ad essa estranei che le conferirono
originalità e, per convesso, autenticità (la prosa, la
letteratura yahwista ed elohista ne furono la maggiore
dimostrazione). Ad eccezione dei libri profetici,
didattici e storici (presenti fino al X secolo a.C) legati
alla teologia e all’impegno politico e dottrinario nonché
agli studi talmudici, la letteratura successiva si
mantenne sul doppio binario della connivenza tra elementi
complementari e contradditori: l’ispirazione biblica
tuttavia esterna al canone biblico e la sintesi armonica
di umanesimo e trascendenza legata alla permanenza in
Spagna (XIII secolo) confermano pienamente questa
tendenza. Le successive influenze europee delinearono i
canoni di una letteratura non più solo ebraica ma
mitteleuropea e plurilinguistica; l'ebraico infatti
sopravvisse come lingua liturgica (lingua usata dai
rabbini per gli studi della Torah), e nei riti fino al
1800. L’idioma, invece, si trasformò a metà del secolo
(esattamente nel 1856) in lingua e letteratura Yiddish.
Quest’ultima nacque e si sviluppò precisamente nell’Europa
orientale grazie alla sua contaminazione col dialetto
meridionale (mama-loshen), utilizzato pure nella
narrazione di favole per bambini; divenne allora una vera
e propria cultura popolare che coniugò il laicismo
dell’Illuministro di Mendehelson1 al principio dell’hatraa2
discendente dalla Torah. Il connubio si inserì nell’ideale
di giustizia sociale che caratterizzerà popolo e cultura
del tempo e finirà per riversarsi nella letteratura
classica Yiddish. Ispirandosi alle tradizioni popolari,
alla novellistica orale, allo studio dei tipi umani, ai
miti della tradizione, ai tabù, alla superstizione, ai
riti magici e al confronto fra l’uomo e il mondo esterno,
gli scrittori Yiddish correlarono il mondo dello shtetl,
ossia il tipico villaggio ebraico, alla cultura europea, e
dunque la tradizione storica religiosa dell’ebraismo agli
slanci riformatori del radicalismo russo. Questa volontà
d’integrazione tesa all’eguaglianza coi popoli, si
tradusse però in un’evidente diversità culturale.
La letteratura riflette pienamente questa tensione, questa
identità perennemente precaria e la figura dello shlemiel
ne costituisce la maggiore incarnazione.
Ma chi è lo shlemiel?
Moni Ovadia, lo definisce lo sfigato; quello che cade sulla
schiena e si rompe il naso; colui che quando fa il bagno dimentica di lavarsi la
faccia; uno che quando tira la corda a un uomo che sta annegando gli butta
tutti e due i capi. Ruth Wisse, la più grande studiosa
dell’argomento, lo considera invece una figura complessa e1 L’illuministro di Mendehelson propone una visione laica dell’ebraismo che liberi lo shtetl dalla vigilanza del rabbinato e cheimprima alla vita associativa ebraica uno spirito di risolutezza ed azione. Si pone dunque come una risposta laica alla tradizione.2 L’Hatraa è il principio di consapevolezza della colpa, ossia un principio secondo il quale non si ritiene colpevole di un errore l’ebreo inconsapevole di commetterlo
contraddittoria rimproverata per la sua sciocca debolezza
ed esaltata per la sua forza interiore.
In realtà lo shlemiel è entrambe le cose. Egli è infatti
«un eroe popolare che incarna personaggi “naif ” un po’
sciocchi»3. Inefficace e goffo, la sua mancanza di
autonomia è sorprendente. Non è lui a sposarsi, ma lo
sposano e generalmente cade vittima di una moglie che lo
inganna. Pertanto la caratteristica di questo eroe, prima
della sua ingenuità, è la sfortuna, che gli si attacca al
corpo come una seconda pelle. Egli non può intraprendere
nulla perché perde sempre; è quindi un disadattato che
cade vittima della vita. L’Enciclopedia Universale
Ebraica, lo definisce infatti come uno che “prende in mano
le situazione nel peggior modo possibile o che è
perseguitato da una sfiga che è più o meno dovuta alla sua
inettitudine”.
Ma quando appare per la prima volta lo shlemiel? E come si
evolve? Molti studiosi della Bibbia ebraica rilevano una certa
evidenza linguistica che lega lo shlemiel al personaggio
citato nel Numero 19:9 della Bibbia ebraica: Shelumiel ben
Zurishaddai. I critici talmudici lo identificano con lo
sfortunato Zimri4, uno dei nomi con cui Shelumiel viene3 Nicole Karoubi. Freedonia. Cinema comico ebraico - americano4Sacra/Antico Testamento/Pentateuco/Numeri 19:9/capitolo 25 Or Israele era stanziato a Sittim, e il popolo cominciò a darsi allaimpurità con le figliuole di Moab. Esse invitarono il popolo aisacrifizi offerti ai loro dèi, e il popolo mangiò e si prostrò dinanziagli dèi di quelle. Israele si unì a Baal-Peor, e l'ira dell'Eterno siaccese contro Israele. E l'Eterno disse a Mosè: "Prendi tutti i capi
chiamato nella Bibbia. Alcuni dubitano che Zimri possa
essere stato il primo shlemiel della storia; Nathan
Ausubel afferma addirittura che non ci siano legami fra i
due personaggi. Tuttavia l’Enciclopedia cita la storia
biblica come la più grande possibilità delle origini del
personaggio. R. Rubinstein vede la storia di Zimri come un
racconto sull’ansietà di castrazione che riguarda «la
sessualità sfrenata e la ribellione contro le figure
autoritarie»; afferma poi che le storie del mito biblico
costituiscono il riflesso della paura dei rabbini di
essere traditi. Esempio tipico è l’aneddoto sul tradimento
da parte della donna ai danni del proprio uomo durante la
del popolo e falli appiccare davanti all'Eterno, in faccia al sole,affinché l'ardente ira dell'Eterno sia rimossa da Israele." E Mosèdisse ai giudici d'Israele: "Ciascuno di voi uccida quelli de' suoiuomini che si sono uniti a Baal-Peor." Ed ecco che uno dei figliuolid'Israele venne e condusse ai suoi fratelli una donna Madianita, sottogli occhi di Mosè e di tutta la raunanza dei figliuoli d'Israele,mentr'essi stavano piangendo all'ingresso della tenda di convegno. Laqual cosa avendo veduta Fineas, figliuolo di Eleazar, figliuolo delsacerdote Aaronne, si alzò di mezzo alla raunanza e die' di piglio aduna lancia; andò dietro a quell'uomo d'Israele nella sua tenda, e litrafisse ambedue, l'uomo d'Israele e la donna, nel basso ventre. E ilflagello cessò tra i figliuoli d'Israele. Di quel flagello morironoventiquattromila persone. L'Eterno parlò a Mosè, dicendo:"Fineas,figliuolo di Eleazar, figliuolo del sacerdote Aaronne, ha rimossal'ira mia dai figliuoli d'Israele, perch'egli è stato animato del miozelo in mezzo ad essi; ed io, nella mia indignazione, non hosterminato i figliuoli d'Israele. Perciò digli ch'io fermo con lui unpatto di pace, che sarà per lui e per la sua progenie dopo di luil'alleanza d'un sacerdozio perpetuo, perch'egli ha avuto zelo per ilsuo Dio, e ha fatta l'espiazione per i figliuoli d'Israele." Or l'uomod'Israele che fu ucciso con la donna Madianita, si chiamava Zimri,figliuolo di Salu, capo di una casa patriarcale dei Simeoniti. E ladonna che fu uccisa, la Madianita, si chiamava Cozbi, figliuola diTsur, capo della gente di una casa patriarcale in Madian. Poi l'Eternoparlò a Mosè, dicendo: Trattate i Madianiti come nemici euccideteli, poiché essi vi hanno trattati da nemici con gl'ingannimediante i quali v'hanno sedotti nell'affare di Peor e nell'affare diCozbi, figliuola d'un principe di Madian, loro sorella, che fu uccisail giorno della piaga causata dall'affare di Peor."
sua assenza, tema ripreso dalle tesi di Theodor Reik.
Studiando lo shlemiel come fenomeno psicologico e
identificando lo stesso con il protagonista di una storia
medievale5, lo psicanalista austriaco descrive
l’interazione fra l’uomo tradito e il rabbino e, ancora di
più, fra l’uomo tradito e la gente del villaggio: la
comunità guarda al tradimento per quello che è, lo deride
ma allo stesso tempo se ne guarda. La derisione diventa
auto-derisione nelle poesie di Ibn Ezra. Egli distingue lo
shlizmal dallo shlemiel6. Lo shlizmal (termine da cui
secondo alcuni deriva la parola shlemiel) è colui che
nasce sotto una cattiva stella (dal tedesco schlim =
cattiva, e mazl = stella). La stella dello shlemiel,
invece, si trova sempre nell’ allineamento astrologico
sbagliato. Se lo shlizmal si getta la minestra addosso, lo
shlemiel, ovviamente, la getta addosso agli altri. I due
tipi sono affini: nati nella cruda realtà del ghetto ed
entrambi in/capaci di raggiungere il medesimo risultato,
sono caratterizzati da un’ironia autodistruttiva che è,
però, meno importante del paradosso su cui essa si
sostiene: la saggezza della ristata derivante dal
fallimento.
5
Un uomo torna a casa dopo un anno di assenza e scopre che la moglie hadato alla luce un bambino. Il rabbino devide che il bambino èleggitimo, ma la comunità ne dubita. L’uomo deve accettare ladecisione del rabbino e diventa il prototipo dello shlemiel checoinvolge se stesso in una situazione da cui è difficile districarsi6 Anche Rachel Ertel distingue shlimazl e shlemiel affermando che il primo è sfortunato per ragioni estrinseche, il secondo per ragioni intrinseche. La sfortuna dello shlimazl è accidentale, quella dello shlemiel essenziale.
Il paradosso in realtà, caratterizza lo shlemiel sin dalla
nascita. Il termine shemiel, invero, fu introdotto dallo
scrittore tedesco Adelbert von Chamisso. Nonostante la
familiarità con le tradizioni yiddish del personaggio,
bisogna ammettere che Chamisso dallo shlemiel prese in
prestito solo il nome; la storia infatti è una versione
romanzata del Faust che vende l’anima al diavolo in cambio
dell’oro. Con ogni probabilità l’autore voleva legare lo
shlemiel Yiddish all’eroe cupo e romantico delle storie
del vagabondaggio ebraico. Tuttavia lo shlemiel è ben
lontano dalla figura oscura che erra per il mondo; è un
personaggio sociale e la sua comica sfortuna è tradotta
nei termini del grottesco e dell’esagerazione.
Nella poesia di H. Heine lo shlemiel è metafora della
ricerca artistica. Nelle sue Melodie ebraiche Zimri diviene
l’innocente shlemiel e la sua morte costituisce la
dichiarazione della condizione ebraica. Lo shlemiel
appare allora patetico e lontano dal contesto umoristico
in cui è nato e che esiste da quando l’ebreo, consapevole
della sua condizione di strumento divino dai tempi della
Diaspora, si chiede se Dio per una volta potesse scegliere
qualcun altro per diffondere il codice morale nel mondo.
Ma magari non si tratta di un umorismo ordinario; può
darsi che ridere costituisca per lui il solo modo di
sopravvivere nell’insensato mondo che lo perseguita.
Rifugiandosi nell’humor lo shlemiel procura un certo
piacere ai suoi fratelli che ridono di lui ma anche di
loro stessi. L’umorismo diventa dunque un’arma di difesa.
Da qui nascono gli aneddoti ambientati a Chelm7 focalizzati
sulla follia collettiva. Chelm è infatti una comunità di
pazzi le cui storie riguardanti i suoi cittadini finiscono
sempre per concentrarsi sul folle Motke Habad, personaggio
chiaramente riconducibile alla figura dello shlemiel. Il
Motke Habad è infatti un bonaccione ansioso di girare il
mondo ma continuamente perseguitato dal destino che quasi
si fa beffa di lui (finisce sempre per mettersi nei
pasticci o per essere tradito). Ironico e scettico,
diviene inetto ed inerme di fronte alle ingiustizie
subite; per questo lo si ritiene metafora dello shtetel e
del popolo ebraico considerato eletto ma da sempre
perseguitato dalla storia. Il velo di amarezza e
disperazione dello shlemiel aneddotico, diverrà pienamente
percettibile nella letteratura Yiddish dove finirà per
trasmigrare intorno alla metà dell’Ottocento. Leggerezza e
battute, auto-derisione e follia, comicità e tragedia
confluiranno in un solo personaggio che acquisterà
spessore, comunicando col pubblico ad un livello di
profonda sensibilità collettiva. Mendele Mocher Soferism,
Sholom Aleichem. e Y. L. Peretz, padri della letteratura
Yiddish, cristallizzeranno il personaggio nel mito della
fiction che conquisterà i lettori del tempo.
Più che Mendele e Peretz, in realtà, sarà Aleichem a
tratteggiare pienamente la figura dello shlemiel in campo
letterario. Se infatti Mendele descrive la vita dello
shtetel e dei suoi personaggi usando uno stile ironico e7Chelm è una città mitica che ospitava solo sciocchi e sempliciotti. Ai suoi abitanti sono poste diverse situazioni e proposte delle soluzioni, quasi tutte assurde.
pietoso, mentre Peretz si chiude nel suo individualismo
che scruta il travaglio della cultura ebraica, Aleichem
incentrerà le sue vicende picaresche sul personaggio
principale, o meglio, sull’antieroe. Diremo anzi che
dall’immedesimazione del personaggio deriva l’invenzione
stilistica dell’autore che fa dell’umorismo la sua chiave
di volta. L’ironia gli permetterà infatti di avvicinarsi
al popolo servendosi del linguaggio dello stesso
conferendo a racconti e personaggi, e soprattutto allo
shlemiel, un’autenticità che li rende irripetibili. La
componente comica, tuttavia, mantiene intatta la
religiosità degli ebrei che inizierà però a pesare nella
letteratura Ameryiddish.
Nata a New York nei primi anni del secolo scorso, la
letteratura della Lower East Side acquisisce l’Yiddish
ebraico, che in America non è più una lingua opposta i ai
principi talmudici ma una koinè vera e propria. Non è più
la tradizione, e dunque il Talmud, a difendere gli ebrei,
ma l’Yiddish. L’ebreo vuole adesso emanciparsi e
qualificarsi intellettualmente: nascono nuovi modelli
psico – linguistici, e i racconti si chiudono presentando
un personaggio principale che conduce ed avvita la
narrazione. L’allegoria e l’umorismo che la
contraddistinguono sono rese dal particolare angolo di
visuale che non vede la realtà con impeto, ma che nemmeno
l’abbraccia. Mito e favola, folklore e storia, religioso e
magico, fantasia e surreale, sentimento e tradizione
confluiranno nella letteratura di questo periodo che
renderanno il timido e giocoso shemiel perennemente
afflitto dal peso del proprio ebraismo e, dunque, diviso
fra il dovere verso la Tradizione e il richiamo del mondo
esterno. La persecuzione da parte dei pogrom zaristi
appesantirà ulteriormente l’eroe che avrà adesso alle
spalle un’esperienza clandestina di ispirazione
socialista. In tale contesto la memoria costituirà la
forza e l’intensità del dramma. Solo così lo scrittore
ebreo-americano sembrerà riuscire ad esprimere liberamente
il suo tormentato e contradditorio rapporto con il
passato. L’attività mnemonica si fa lotta per la
sopravvivenza, netto rifiuto e trasgressione,
valorizzazione di una matrice comune, ricerca ed
autoanalisi, indifferenza e sarcasmo, impossibilità e
tragica afasia, sotterraneo recupero e desiderio represso,
esperienza distruttiva o dinamica eroica e liberatoria. Da
ciò scaturisce l’atteggiamento di sfida dello scrittore
ebraico -americano che, contrariamente alla condizione più
passiva e pessimista dello scrittore ebreo europeo,
dimostra di potenziare ciò che della sua storia, della sua
cultura, può ancora trasformarsi in energia innovatrice e
creatrice. Usa il linguaggio, il racconto, come una leva
per sollevare il pesante retaggio della tradizione,
convertendo la dimensione temporale in spazio concreto,
realtà sperimentale da reinterpretare. La mancanza di una
memoria monumentale, che testimoni la propria civiltà, è
sostituita dall’ebreo da una attitudine al movimento, allo
spazio mobile.
In Abraham Cahan, famoso per aver tenuto nel 1882 la prima
riunione socialista in Yiddish negli Stati Uniti, i temi
del ricordo e della memoria sono indissolubilmente legati
all’eterna insoddisfazione dei vari protagonisti di
novelle e romanzi. Se in Henry Roth la scoperta della
vanità del viaggio è data per scontata dall’inizio,in
Cahan ci si arriva gradualmente, vivendolo forse in modo
più traumatico. È parte della coscienza e della memoria
diasporica storica sapere che il viaggio non cambierà
nulla, ma sperare sempre che forse cambierà qualcosa. Il
discorso sulla memoria e sulla ricerca di una identità
ebraica sono indissolubilmente legati. L’unica via di
scampo consiste nell’abilità di vedere la tradizione
dell’esilio con occhi ironici. Non esistono certezze per
l’Ebreo Errante a meno che non si tratti di proiezioni
mentali, o miraggi destinati sempre a delusioni. Proprio
questo è il segreto della su sopravvivenza: essere altrove
accanto al disperato desiderio di essere a casa.
Diversa è la tendenza dei decenni successivi. Gli anni
Trenta, infatti, vedono la nascita della letteratura della
Protesta caratterizzata da uno spirito interventistico
che descrive la vita dei cittadini ed instaura un
sodalizio fra scrittori e popolo. Nello specifico la
letteratura ebraica della Protesta si concentra sul tema
che da sempre aleggia nella cultura ebraica: restare
fedeli alla propria identità, all’indissolubile presenza
della propria ebraicità, come segno di un destino che
poteva compiersi ed esaurirsi in un disegno terreno, sia
pure sublime. Gli scrittori ebrei cercano un nuovo modo di
esprimere la loro condizione per rendere perfettibile e
degna la vicenda di cui, per destino, sono i portatori. Lo
shtetel incontra l’America insomma e, seppure in maniera
lontana dalla Tradizione, ritornano alla loro fonte di
ispirazione più sicura: la ricerca del giusto secondo i
principi della Torah. Le idee erano il primo obiettivo da
esaminare alla luce di una dignità dell’uomo che gli ebrei
avevano ricevuto da Mosè.
I maggiori scrittori di questo periodo (H. Roth, D. Fuchs,
N. West e E. Dahlberg) raccontano storie di violenza e di
furore che costituiscono l’altra faccia di un mondo timido
ed introverso, segreto e magico che tuttavia viene
continuamente frustrato dal suo inaccessibile soliloquio.
E’ difficile trovare in questi romanzi un eroe; la
violenza infatti è la personificazione di una forza cui
deve, per misteriosa destinazione, sottostare lo shlemiel:
decenni dopo Mendele, ritroviamo la vittima dello shtetel
trasferita nella realtà americana, senza aver perso i suoi
tratti distintivi e dunque la sua identità. Il caso più
singolare del tempo è “Call it sleep” di Henry Roth, il
romanzo che narra le vicissitudini di David Schearl e le
sue difficoltà ad integrarsi nello shtetel di Manhattan.
Roth non solo racconta in modo realistico le storie di una
minoranza attraverso un filtro psicologico, ma si serve di
un linguaggio del tutto nuovo. Egli infatti correla
letterature di diversa provenienza ed estrazione
linguistica rompendo gli schemi fissi di qualunque lingua,
e il nuovo linguaggio creato dallo scrittore costituirà
tutto quello della lettteratura a venire. Gli scrittori
della sua generazione trasferiranno le caratterizzazioni,
i personaggi, i temi e la psicologia della letteratura
nella più vera realtà che li circonda. Nonostante le
novità, i libri del periodo risentono di un provincialismo
portato avanti da altre etnie nella stessa narrazione.
L’ebreo, qui, è sì un antieroe, ma più perché è un
archetipo che non per la relazione che instaura con la
nuova realtà in cui viene immesso. Rendere autonoma ed
autoritaria la vittima non è impresa facile: il conflitto
tra vecchio e nuovo, tra la fedeltà alla Tradizione intesa
senza compromessi e la nuova problematica ebraica sorta a
contatto con l’assimilazione non scompare; tuttavia, se la
tradizione era tutelata dai Talmud, adesso c’è una forma
meno rigida che ha assorbito le caratteristiche del primo
Mendele.
Gli intellettuali ebraico – americani, col tempo, si
accorgono di quanto la cultura ebraica aveva prodotto.
Grazie ad autori come I. B. Singer, B. Malamud, N.
Mailer, Philip Roth, S. Bellow si va verso una liberazione
dal provincialismo. Questa generazione non circoscrive la
sua adesione culturale secondo uno schema tipicamente
ebraico; ad ogni modo non mortifica né mette in secondo
piano la sua tradizione storico – culturale. Questi
scrittori mirano ad essere accettati per quello che sono,
non per quello che avevano assimilato. Essi credevano
nell’Illuminismo poiché la più grande innovazione
proveniva dal fatto di poter essere illuminati da tutta la
cultura intesa come spirito dei tempi nuovi. Il tema
principale della letteratura ebraica tuttavia non cambia,
anzi rimane lo stesso: che succede ad un ebreo in una
determinata circostanza? Gli scrittori rispondono alla
questione attraverso romanzi che superano il tragico,
l’avventuroso, il sublime e l’eroico in favore di un
umorismo singolare. Questo infatti diventa nei personaggi
dei romanzi il momento più segreto e misterioso del loro
carattere, quella parte più inafferrabile e indecifrabile
della loro natura, una specie di luogo mentale accessibile
soltanto al personaggio stesso e che gli consente la più
ampia libertà d’azione, le soluzioni più impensate, le
decisioni più illogiche: è una scappatoia psicologica
connaturata al suo temperamento.
Siamo dunque di fronte ad un nuovo shlemiel che ben
riflette il realismo magico, mitico, superstizioso,
emblematico dell’Europa orientale rivissuto da I. B.
Singer, B. Malamud, e s. Bellow per esempio. La carica
fantastica mista alla saggezza antica espressa ora con il
dramma, ora con il comico, ora con un misterioso gioco di
immagini, ora mistico, dove la fantasia è libertà e il
mito è magia, è un chiaro motivo Ottocentesco. L’eroe di
questi romanzi, comunque, presenta caratteristiche
differenti rispetto al picaro del passato. Sopraggiunto in
un momento storico in cui il destino del romanzo ebraico
sembra volgere al termine, il nuovo shlemiel ostenta
un’ironia che ne sottolinea l’ambivalenza: se da una parte
si sente parte di una cultura etnica, dall’altra ne è
irrimediabilmente fuori. È di nuovo vittima, talvolta di
ingiustizie sociali talaltra di chiusure familiari, ma la
sua condizione è ora differente. Se lo shlemiel
nell’Ottocento veniva recriminato, il suo vittimismo
costituisce adesso un distintivo di superiorità poiché gli
permette di intellettualizzare la sofferenza. É il caso di
Malamud che manifesta attraverso i suoi personaggi
l’esigenza e soprattutto la forza di affrontare i problemi
pur sapendo che sono irrisolvibili8; e possiamo senz’altro
riferire quanto detto anche Saul Bellow e Philip Roth.
Herzog e Portnoy infatti, rispettivamente eroi di Bellow e
Roth, vittime entrambi, l’uno della moglie e l’altro della
madre, non subiscono una persecuzione che parte da
motivazioni convincenti sicché la disperata condizione
ebraica viene descritta attraverso personaggi
macchettistici. Gli eroi, invece, si distinguono per la
loro capacità di mantenere l’equilibrio e il distacco
dalla realtà che li circonda. Non integrati nella realtà
protestante, tuttavia, si sentono esuli dal mondo. Non
compiono la scalata sociale per diventare un ebreo
all’antica come tutti si aspettano, e si trasformano
allora in ibrido sociale che proclama la sua sofferenza
nei modi più svariati (lettere destinate ai personaggi nel
caso di Herzog o seduta psicanalitica nel caso di
Portnoy).
A segnare la svolta è soprattutto e sopra tutti Philip
Roth; il dissenso che esprime per le sue tradizioni ben si
dispiega nei suoi personaggi intrisi di risentimento verso
la propria comunità e la propria famiglia. Lo scrittore fu
criticato per il tono ironico con cui ha affrontato8 B. Malamud affronta l’eterno conflitto tra innovazione e Tradizione ricorrendo alla parodia, all’autoironia e all’introspezione che fanno capo ad una fede che si identifica attraverso una nuova forma di umanesimo universale che riscatta l’uomo dalla sua posizione di peccatore e dannato. Tale visione pone l’accento sulla liberazione dello spirito, sul bisogno d’amore e di fede e sul rispetto delle relazioni umane e della libertà .
l’ebraismo, caratterizzando con pregi e difetti ogni
personaggio, contrariamente a quanto avveniva in quegli
anni. In Philip Roth si rappresenta e si sbeffeggia la
famiglia ebraica per la sua ipocrisia, poiché vive
l’avventura americana del successo con la stessa volgarità
e banalità di qualsiasi neo-borgesia. La sua scrittura
valorizza al massimo il linguaggio del parlato,
imprevedibile nel suo humor e nelle sue associazioni
dissacranti. Nei suoi scritti non si riscontra
quell’umanesimo ebraico che aveva reso grandi le pagine di
Cahan, Fuchs, Bellow, Singer e Malamud. Si tratta del
primo scrittore ebreo a non essere influenzato dalla
propria tradizione e questo è forse indice del fatto che
il viaggio della letteratura ebraico-americana stava
volgendo al termine. Philip Roth, al di là delle accuse e
delle censure a suo carico, con un vero e proprio atto di
trasgressione, continua a rimuovere il topos che nelle
opere degli altri autori faceva dell’ebreo un “cultural
Hero”, uomo giusto, rispettoso dell’America e leale verso
le sue origini.
Negli anni 50-60 la rappresentazione dell’ebreo è
fortemente condizionata da due eventi storici: il
genocidio europeo e il diffuso antisemitismo prosperato
sino agli anni 30 tra gli autori americani. Lo scrittore
impiegò anni a difendersi. Egli rivendica la libertà di
rappresentare e deformare qualsiasi aspetto della sua vita
privata e di gruppo. Non c’è legame con il ricordo tanto
caro all’umanesimo e alla religiosità ebraici. La memoria,
infatti, rimanda a Dio, ma per P. Roth tutto ciò che
restava dell’ ebraismo era un “psicologia, non una cultura
e non una storia nella sua totalità”9. Egli nega a se
stesso e all’ebraismo americano un passato omogeneo e
attacca l’ipocrisia della middle class ebraica che
pretende di far coesistere il benessere conquistato nella
nuova terra promessa con la tragica realtà delle camere a
gas naziste. Politicamente la posizione degli ebrei
americani durante le varie fasi delle persecuzioni naziste
in Europa non era stata quella del coinvolgimento. Era
dunque l’ebraismo americano, o meglio la maggioranza della
sua borghesia, ad aver dimenticato le radici e la
solidarietà di gruppo. Non certo Philip Roth che con la
sua narrativa provocatoria aveva portato in superficie
l’innominabile e il non dicibile. A causa del genocidio e
dell’edulcorata versione teatrale di Il Diario di Anna
Frank rappresentato nel periodo della storia, tutti gli
ebrei sono diventati intoccabili e qualsiasi discorso che
non faccia risaltare le loro virtù si trasforma in un arma
mortale in mano agli antisemiti. Nel corso di una carriera
sin troppo prolifica Roth sembra essere stato preda
“dell’affanno del maratoneta” (citazione di F. W.
Grunfeld, Profeti senza Onore. L’intelligenza ebraica
nella cultura tedesca del 900, Il Mulino, Bologna, 1986).
Considerando le sue opere “ebraiche” egli dimostra una
straordinaria attenzione alla poetica della memoria che fa
di lui un autore completamente imprevedibile e diverso da
Malamud per esempio. Roth, in sostanza, rovescia la
9 in The Mainstream. The Jewish Presence in 20 century American Litterature 1950/1980, Louis Harap, Greenwood Press Westport 1987
tendenza all’indistinguibilità e all’assimilazione che,
sin dalle origini, era stato l’elemento propulsore della
letteratura ebraico americana. Con The Counterlife, l’anabasi
del personaggio rothiano raggiunge un punto cruciale:
malgrado l’irriducibile agnosticismo verso la religione
dei patriarchi e verso la moderna Israele il personaggio
si rende conto che il suo destino personale non può
prescindere da quello collettivo della diaspora di Sion.
Impotente a definire il grado e la natura della sua
ebraicità, alla fine vi si arrende senza porre condizioni.
D’altra parte la rivolta verso l’ebraismo che caratterizza
la prima produzione rothiana va vista nel suo contesto
etnico e culturale: l’intellighenzia ebraica non era nuova
alla rottura con il proprio retaggio: prima a causa
dell’americanizzazione, poi in nome dell’internazionalismo
proletario, in quello del modernismo e dell’alienazione,
lo scrittore ebreo era sempre stato al centro di un
conflitto tormentato tra il richiamo autoritario della
cultura e il violento desideri di andarsene [A. Cahan, H.
Roth, S. Bellow, B. Malamud, D. Fuchs, N. West]. La
rivolta rothiana nei confonti dell’establishment ebraico,
benché meno ideologizzata e selettiva, non è quindi
nuova: la contestazione dei valori borghesi è un’eredità
della “red decade” e della letteratura modernista ( Joyce,
Kafka ecc.). Ciò che muta è il modello di
rappresentabilità nel quale questa ideologia si iscrive.
Il mondo di Roth è talmente antagonistico rispetto ai
testi canonici della letteratura ebraico-americana da
suscitare non solo lo sdegno degli ebrei comuni, ma anche
quello di parecchi critici. Tuttavia l’operazione di Roth
è una scelta estetica. Egli ha di fatto riscritto di
conflitti familiare e generazionali molto simli a quelli
raccontati in “Call it sleep” (1934). Ma poiché i dati
oppressivi della realtà (inserimento, acculturazione,
povertà, utopie e disillusioni ideologiche) sono caduti o
hanno subito profonde trasformazioni, ciò che conta
nell’era di Portnoy-Kepesh-Zuckerman è il principio
antropocentrico, o meglio, la rivolta contro l’autorità
dell’ebraismo attraverso la trasgressione sessuale. Ciò
che cercano i giovani personaggi di Roth è “The Kingdom of
Freedom”10. Ma non essendo pressati da forze esterne,
economiche o di classe, essi si limitano a denunciare le
ipocrisie delle virtuose famiglie ebraiche che, malgrado
il genocidio, continuano a comportarsi con la stessa
volgarità, banalità e superficialità di qualsiasi neo-
borghesia. Dal romanzo di Portnoy in poi, con la maturità
dei personaggi e la conseguente riscoperta della nostalgia
delle origini, i personaggi rothiani aspirano ad
un’esistenza comune: diventare uomini, padri di famiglia,
occupare la loro intelligenza e cultura “in un semplice e
soddisfacente futuro”.11
La compiuta espressione dello shlemiel al cinema non si
avrà prima della scomparsa del controllo da parte di una
minoranza che controllava come il cinema ebraico doveva
essere rappresentato. L’evolversi della questione ebraica
darà luogo a un ricco corpus di opere realizzate da varie10 (I. Schneider, From the Kingdom of necessity, Putnam, New York, 1935)11 (P. Roth, Portnoy’s Complaint).
generazioni di cineasti, legate a diversi momenti della
storia e della società. Tali opere rispecchiano e
ridefiniscono il ruolo degli ebrei in America, traducendo
un momento storico in immagini evocative di cui il cinema
si fa testimone. Il sistema industriale della finzione
fagocita la figura dello shlemiel che ben introduce
Charlie Chaplin attraverso Charlot. Il comportamento del
noto personaggio riassume tutti i tipi della galleria dei
caratteri appartenenti alla commedia umana dell’ebraismo
della diaspora. Fra questi l’errante, colpevole solo di
essere ebreo, è senza dubbio il più rappresentato. La sua
sola salvezza è l’occultamento della sua immagine vera di
ebreo, maschera tragicomica che esprime angoscia per se
stesso e ironia per non poter apparire quello che è. La
sua vera natura va solo intuita ed interpretata attraverso
gesti, sguardi ed atteggiamenti. La dimensione del sogno
gli permette quella speranza che la terra ferma gli nega,
è il “vecchio saggio” che supera gli ostacoli con la
consapevolezza della propria disarmante astuzia: egli fa
proprie regole e comportamenti altrui per ribaltarli
dall’interno attraverso la propria visione della vita. Non
smette mai di lottare contro un mondo che sospetta
continuamente e ingiustamente di lui; sciocco e maldestro
rivela la propria incapacità quando è chiamato a fare
qualcosa che non sa fare, non riesce a conformarsi, a
regole definite e istituzionalizzate all’infuori di lui e
che non gli appartengono. Antieroe per eccellenza riesce
in alcune occasioni a rivelarsi eroe e, dunque, a vincere
contro un mondo ostile e nell’appropriazione di
un’autonomia decisionale ed esistenziale; la vittoria
risulta così duplice, perché duplice è la figura che
rappresenta. Facendo ridere gli altri, infatti, annulla se
stesso. “Strano ragazzo, Charlot è contemporaneamente
sentimentale e indifferente, ladro e onesto, pauroso e
coraggioso, malizioso e ingenuo, lieto e triste, sobrio e
ubriaco …. Charlot è un uomo.”12. Charlot è shlemiel. Come
lui è un’idealista che, rinchiuso nella solitudine e nella
disperazione per un mondo ingiusto, cova la rivoluzione.
Egli vendica se stesso e tutti con degli scherzi o delle
sciocchezze che obbligano gli altri a portare una parte
delle sue umiliazioni. Non si ribella ma sbuffa; la sua
nobiltà morale non mancnea mai di manifestarsi. Infatti è
pronto a sacrificarsi per i suoi simili ed è attraverso
questo messianesimo ebraico che arriva a simboleggiare la
figura di Cristo, sebbene sia un miscredente perfetto e
serenamente a-religioso. Charlot, però, è anche Hitler.
Questi incarna le velleità diaboliche latenti in ciascuno
di noi, e nel caso di Charlot la coincidenza è
sottolineata dal senso di colpa ebraico e dalla vertigine
di annientamento e sacrificio che ne segue. Charlot è
vittima in quanto messia e boia in quanto ebreo. Si
registra un analogia tra messianesimo ebraico e
messianesimo hitleriano: anche Hitler si sentiva investito
da una missione (l’Olocausto). Il doppio Charlot/Hinkel è
simbolo della coabitazione in ogni uomo del bene e del
male; attraverso di lui Charlot si rivolge al nazismo
sopito in noi. Chaplin riesce in quello che secondo la
12 P. Soupault
Wisse è il problema dello shlemiel: “riuscire a rovesciare
i dati di partenza e a trasformare la vittima rassegnata
in eroe, l’infinitamente piccolo in qualcosa di
imponente”. Il piccolo barbiere riesce a sconfiggere il
male impersonandolo, assumendone la maschera, anche
attraverso l’uso di tecniche cinematografiche come il
dettaglio, il primo piano e la pantomima che riescono a
stravolgere i confini, trasformando Davide in Golia e
viceversa. Lo shlemiel, quindi, uomo del non capire,
finalmente capisce. Eppure il non capire continua a
caratterizzare gli eroi cinematografici americani.
Partendo infatti da Il laureato (1967) di Nichols e passando
per Ore 10: lezione di sesso (1970) di John G. Avildsen, Il Piccolo
Grande Uomo di Penn, Mattatoio 5 (1971) di George Roy Hill
Anche gli uccelli uccidono (1971) di Robert Altman, Gli amici di Eddie
Coyle (1972) di Yates Duel (1972) di Steven Spielberg fino ad
arrivare a Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese le
caratteristiche dello shlemiel rimangono onnipresenti.
L’incapacità di comprendere ciò che gli sta accadendo e lo
stato di solitudine che da ciò deriva accomunano i
personaggi di tutti questi film. La necessità di
un’affermazione prepotente che rompa gli schemi imposti da
un costume inteso ad auto conservarsi, tenderà sempre ad
istituire un rapporto significativo tra personaggi e
ambiente in modo da evidenziarne sia il conflitto
interiore che quello esteriore. Siamo ben lontani da film
che relazionano lo shlemiel alla Shoa, eppure la classica
figura ebraica ricorre imperterrita ed incessante. Si
riproporrà legata alla tematica dell’Olocausto nel
successo del premio Oscar Roberto Benigni del film “La
vita è bella”(1997). Il regista ha configurato il
protagonista conferendogli una speciale abilità: stabilire
un equilibrio fra il tragico e il comico che divengono le
vie per associarlo al noto personaggio ebraico.
Articolando i vari piani si raggiunge un livello di
commozione non indifferente: quello della poesia che
avvolge il protagonista Guido e il suo modo di amare,
quello del tragico contrapposto al comico nella relazione
padre ebreo e figlioletto nel campo di sterminio, quella
del disarmo per combattere le armi, infine quello della
verità storica nella nuova interpretazione del mito
dell'Olocausto. Sebbene il regista abbia dichiarato di non
avere attinto alla figura dello shlemiel, la semplicità
del suo personaggio, unita all’umorismo e all’esplicita
volontà di guardare all’Olocausto attraverso gli occhi
dell’innocenza, riconduce chiaramente alla poeticità
dell’eroe letterario. Conscio della sua condizione di
shlemiel, Guido diviene eccezionalmente abile nello
sfruttare tutte le occasioni che gli si presentano per
sfuggire alle contingenze. Ricorrendo alla slapstick
Benigni ricollega il suo personaggio direttamente al
barbiere di Chaplin: se questi si sostituisce ad Hinkel,
Guido prende il posto prima di Vittorio Emanuele II, poi
dell’ispettore mandato da Roma in una scuola per sostenere
la superiorità della razza ariana, ed infine del fidanzato
fascista e razzista della donna che ama. Tutto sommato si
differenzia da Charlot per la sua coscienza della
situazione drammatica che affronta. Le piccole magie che
compie sono tentativi effimeri volti a non lasciarsi
travolgere insieme al figlio “dalla grandezza del male che
lo circonda, e della cui effettiva essenza solo per gradi
diventa consapevole.”13
Pienamente conscio della realtà che vive risulta invece
Shlomo, protagonista del capolavoro di Radu Mihaileanu
“Train de vie” del 1998. Successivo alla “Vita è bella” ed
accusato di plagio nei suoi confronti, Train de vie si
pone sullo stesso binario del suo antesignano ma
ricorrendo alla tematica del viaggio per metaforizzare la
Shoà. Tuttavia non si può negare la somiglianza fra i due
protagonisti del film. Shlomo infatti si avvicina molto
alla figura di Guido Orefice: come lui è buono d’animo ed
abile nell’arte della narrazione e della finzione. Dal
rapporto con un Dio invisibile viene fuori l’arguzia
sorprendente di cui i due sono dotati e che gli permette
di sopravvivere, seppure per un tempo effimero, nel
difficile contesto della persecuzione. Ciò che differenzia
Guido da Shlomo è solo la paternità. Come Guido, infatti
Shlomo non è che uno shlemiel, o meglio uno shnorrer14
(erede dello shlemiel). “Ne rappresenta l’archetipo nelle
sue stralunate ma pertinenti considerazioni metafisiche
(quando il comunista-ebreo e il nazista-ebreo litigano
sull’esistenza di Dio lui osserva: «Che importa? Vi siete
mai chiesti invece se l’uomo esiste?... Dio forse ha
13 Claudio Gaetani. Il cinema e la Shoà14 Girovago, astuto, vagabondo, scroccone, accattone, ha per scopo il profitto. . Il suo linguaggio è arguto e ritiene che non esistano differenze sociali, che quello che è concesso ai ricchi è altrettanto accessibile ai poveri
creato l’uomo, ma l’uomo ha creato Dio, solo per inventare
se stesso... È l’uomo che bisogna cercare»), nella sua
“alterità” esistenziale, nella sua dimensione simbolica,
nel suo vestire come il violinista di Chagall. Shlomo è il
depositario ultimo di una letteratura yiddish sognante,
assurda, paradossale ed autoironica, una letteratura che
però affonda le sue radici nella cultura e nella
spiritualità ebraica”15. D’altronde era intenzione del
regista proseguire il cammino di letterati Yiddish quali
Singer ed Aleichem dando voce al witz (umorismo) ebraico
che sta ormai scomparendo in Europa. Lo sguardo super
partes dello shnorrer si rivela l’espediente ideale per
realizzare l’ardua impresa. Sognante eppure arguto, fool
eppure saggio, aggredito ed al contempo appoggiato dalla
comunità, Shlomo diventa punto di riferimento per
protagonisti e spettatori. Per tutto il film siamo
all’altezza del suo sguardo, viaggiamo sul filo
dell’immaginazione, nella dimensione gioiosa e spiritosa
del ricordo e della fantasia. Poi all’improvviso lo
sguardo si allarga e la realtà torna ad essere tetra e
angosciante: quei cento minuti di felicità ridiventano
pura invenzione, il film torna ad essere un film, il s’iz an
emese mayse una formula valida solo nello spazio della
finzione (fino a quando il bambino-spettatore ci crede).
«E quando la lunga notte del nazismo torna a stendere la
sua ombra penosa sulla nostra percezione storica, ecco che
la favola degli ebrei in fuga verso la libertà, persa la15 http://www.lombardiaspettacolo.com/cinema/ArrivanoIFilm1995-2002/SCHEDE%201999_2000/TRAIN%20DE%20VIE.pdf
sua apparenza di realtà, acquista una forza diversa,
diventa il tramite di un’ipotesi di salvezza che passa
attraverso la gioia di vivere, il gusto della differenza e
la forza della fantasia».16 Il finale svelato dalle ultime
parole di Shlomo “quasi vera” rivelano la favola per
quello che è, disarmando e spiazzando lo spettatore che lo
scopre prigioniero del campo. Allo stesso modo Guido
Orefice muore per porre fine al gioco conducendolo ad un
“lieto fine”. La finzione crolla di fronte alla realtà,
una realtà che né l’umorismo, né il disarmo ebraico
possono rappresentare. D’altronde la commedia della shoà
si regge proprio sul principio di non rappresentabilità
attraverso il racconto. Inglobando tragico e comico, come
lo shlemiel, la commedia non rivela mai se stessa. Così
come l’eroe ebraico cela se stesso dietro l’ironia che
nasconde il suo dramma interiore, allo stesso modo
Chaplin, Benigni e Mihaileanu raccontano una favola senza
rappresentare la tragedia che in virtù di ciò questo
finisce per emergere in tutta la sua drammaticità. La
favola è l’arma del disarmo, la saggezza della follia, la
tenerezza dell’amarezza, l’innocenza della non
colpevolezza di essere ebrei.
Dopo la fine della guerra un ebreo siede ad un tavolo del suo vecchio caffè a Vienna e
chiede il Volkliche Beobachter” (il più famoso giornale nazista). Il cameriere risponde
che quel giornale non esiste più da tempo. La setssa scena si ripete il giorno dopo e
poi, puntualmente, nei giorni successivi. A un certo punto il cameriere si decide a
16 (Fabrizio Tassi, in «Cineforum» n. 381)
chiedere al chliente perché ripeta sempre la stessa domanda. «Proprio per sentirmi
dire» risponde l’ebreo «che quel giorno non si stampa più!»
Alcuni nazisti circondano un vecchio ebreo e gli chiedono chi sia il responsabile della
guerra. «Gli ebrei» risponde lui «e i cliclisti». «Perché i ciclisti?» domandano i nazisti
sbalorditi. «Perché gli ebrei?»
Giuseppina Stancanelli
Marta Gasparroni