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Schiavitù, servitù, clientela. Uno studio sui rapporti di dipendenza in Africa meridionale
1. I rapporti di dipendenza in Africa e in Sudafrica
Nel seminario di oggi condurrò un excursus nella storia dell’Africa meridionale
concentrandomi sul tema dei rapporti di dipendenza personale, ossia sulle condizioni di
esercizio del potere e della violenza di un individuo su altri individui che si è soliti
chiamare schiavitù o servitù. Il riferimento obbligato va alle riflessioni di Fabio Viti,
Calude Meillassoux, Suzanne Miers e Igor Kopytoff, in particolare per i concetti di
continuum, spettro e gamma continua con cui si da ragione della multiformità dei
rapporti di dipendenza in Africa.
Uno degli aspetti più macroscopici della colonizzazione del Sudafrica fu senza
dubbio la creazione di una società in cui la schiavitù aveva un posto centrale, ma
limitare ad essa il campo d’osservazione produrrebbe una serie di problemi e di
incomprensioni storiografiche.
Nel corso della seconda metà del Novecento, la ricerca storica e la divulgazione
della storia furono due ambiti in cui in Sudafrica si riprodusse, in piccolo, il campo di
battaglia tra il governo nazionalista afrikaans fautore dell’apartheid e i gruppi
d’opposizione che operavano in patria e all’estero. Un’intera generazione di giovani
storici si contraddistinse per l’impegno con cui, a partire dagli anni ’70, riuscì a
ricostruire la storia “africana” del Sudafrica e a combattere le grossolane
generalizzazioni dei libri di testo. Ridare dignità storica a popoli, lingue e società
assorbiti dall’espansione coloniale e raffigurati semplicemente come “primitivi”,
“barbarici” e “selvaggi” significò anche contestare la cronologia della storiografia
liberale britannica che assegnava al 1652 l’inizio della Storia in Sudafrica: ciò che
veniva prima era Preistoria, passato senza storia, e anche l’espansione della frontiera
della colonia venne considerata di fatto l’espansione della Storia stessa. Per questo
motivo ancora oggi si suole parlare di “popoli dell’età del ferro” per i regni bantu
dell’interno, che entrarono in contatto con i coloni solo nel 1830. Uno storico che si
occupi di Sudafrica ha ormai l’obbligo rifiutare tali cesure cronologiche, di includere
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nella sua analisi i mondi che vissero sui due lati della frontiera, di trovare un nuovo
modo di intenderla come categoria di analisi storica.
Come nel resto dell’Africa, inoltre, lo studio della schiavitù si collega
immediatamente ad una discussione più generale su altre forme di rapporti di
dipendenza simili ma non identiche a quella tra padrone e schiavo. Il Sudafrica sembra
presentarne tre, procedendo un po’ schematicamente: la schiavitù “atlantica” nella
Colonia; la clientela, ossia un rapporto di scambio tra benefici economici e fedeltà al
capo che viene indicata come elemento fondamentale dei regni africani; la servitù, un
sistema ibrido nato nella colonia dall’interazione con il mondo africano e che funzionò
da canale di contatto tra due realtà distanti. A tal riguardo, ancora oggi il punto fermo
della storiografia è proprio l’affermazione che in Sudafrica la schiavitù non fosse mai
esistita prima dell’arrivo degli europei. La contestazione e il rifiuto di tale punto è uno
degli elementi centrali della mia ricerca per il dottorato e vedremo nell’ultima parte del
seminario perchè è lecito sospettare che esistesse una diversa forma di schiavitù anche
nei regni bantu.
Prima di procedere all’analisi del caso sudafricano dobbiamo prendere in
considerazione alcuni aspetti generali della storia della schiavitù in Africa. Sappiamo
che la Tratta atlantica fu soltanto una delle componenti di questa storia, l’unica in mano
agli europei. Paul Lovejoy ha insistito nella sua opera fondamentale, “Transformations
in Slavery”, sull’importanza delle altre due “tratte”: il commercio transahariano e verso
l’Asia meridionale controllato da mercanti musulmani; il commercio interno tra regni
africani, strettamente legato con la “produzione” di schiavi, ossia la riduzione in
schiavitù di prigionieri di guerra, debitori e altre figure deboli.
Ognuna di queste tre componenti ebbe le sue caratteristiche tipiche:
prevalentemente maschile quella atlantica, quasi unicamente femminile quella
musulmana, a grande maggioranza femminile e minorile quella africana. Nulla è più
efficace per descrivere la situazione africana della frase con cui Martin Klein e Claire
Robertson iniziarono il loro importante saggio “Women and Slavery in Africa”: “Le
donne costituirono la maggioranza degli schiavi nell’Africa sub-sahariana”. La
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posizione sociale di donne e bambini è quindi l’indicatore da tenere sotto controllo
quando si studiano i rapporti di dipendenza in un contesto africano.
Miers e Kopytoff, dal canto loro, hanno elaborato la concettualizzazione della
schiavitù come “istituzione della marginalità” e dello schiavo come lo straniero, il
marginale, sradicato dal suo mondo, privato dei suoi legami famigliari. In quest’ottica,
la schiavitù africana si caratterizza per il processo di integrazione di tale “non-persona”
nella società e nella famiglia del suo proprietario, anche se tutti gli storici mettono in
guardia dal ritenere che ciò avvenisse in ogni contesto. A tal riguardo, Viti esprime un
parziale dissenso verso il concetto di continuum “dalla schiavitù alla parentela”,
affermando che esisteva una barriera invalicabile tra lo stato di schiavo e lo status di
libero, di cittadino.
Infine, dovremo tenere presente la divisione praticata da Lovejoy e Meillassoux
tra società schiavistiche, caratterizzate da un modo di produzione schiavistico, e società
di lignaggio, caratterizzate da un modo di produzione domestico o lignatico. Benchè
estremamente schematica, questa divisione aiuta a caratterizzare quelle realtà africane
dove l’esistenza della schiavitù non portava ad un suo massiccio sfruttamento
economico in termini commerciali e di forza lavoro, ma si esprimeva piuttosto come
incremento del capitale umano della singola famiglia in cui gli schiavi venivano inseriti.
Possiamo ora passare ad osservare come si sviluppò il sistema di schiavitù nella
colonia del Capo.
2. Schiavitù
Robert Shell, storico sudafricano ed autore di “Children of Bondage”, l’opera più
completa sulla schiavitù al Capo di Buona Speranza, data al 1652 il punto d’inizio dello
schiavismo sudafricano, facendolo coincidere con la fondazione del primo avamposto
della Compagnia Olandese delle Indie Orientali sotto la Table Mountain. A tutti gli
effetti, il primo schiavo venne importato nella colonia soltanto l’anno successivo, ma
Shell argomenta in modo convincente che gli Olandesi praticavano il commercio di
schiavi nelle Indie Orientali dal 1609 e che i funzionari della Compagnia sotto la guida
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di Jan Van Riebeeck, il fondatore, erano già proprietari di schiavi: l’introduzione della
schiavitù fu una “decisione sbadata” secondo Shell, non venne mai messa in dubbio e
rimase una componente della società coloniale fino alla sua definitiva abolizione nel
1838. Entro questi limiti cronologici, lo schiavismo si sviluppò con alcune
caratteristiche che lo distinsero da altri esempi africani e americani.
In primo luogo, la natura dell’insediamento di Città del Capo, che era una colonia
di popolamento europeo, avvicina lo schiavismo sudafricano alle colonie portoghesi di
Luanda, in Angola, e della valle dello Zambesi, in Mozambico. A differenza di queste,
tuttavia, la colonia del Capo non fu mai un centro di raccolta e di esportazione di schiavi
africani, ma, al contrario, attirò un costante flusso di schiavi da altri porti africani ed
asiatici. Questo fattore – si può dire che Città del Capo non “producesse schiavi” – la
differenzia quindi profondamente dai forti e dalle stazioni commerciali europee che
punteggiavano la costa occidentale e la costa orientale del continente. L’assenza di
un’esportazione di schiavi da Città del Capo significa, al contempo, che fu del tutto
assente un mercato degli schiavi tra la colonia e i regni africani dell’interno, come
avveniva generalmente nel resto dell’Africa. L’Islam, uno dei più importanti fattori
della storia della schiavitù in Africa secondo Lovejoy, non raggiunse mai l’estremità
meridionale del contintente, almeno finchè gli Olandesi non iniziarono a importarvi
schiavi dall’India e dall’Indonesia.
Il caso sudafricano può quindi essere accostato alle colonie europee americane,
anch’esse società di popolamento europeo che si ressero sulla costante importazione di
schiavi. Il commercio verso Città del Capo, un ramo estremamente ridotto della Tratta
che portò in Sudafrica in totale circa 63’000 schiavi tra il 1652 e il 1808, presenta una
significativa similitudine con il commercio verso le Americhe: la composizione per
sesso degli schiavi. Il fondamentale volume curato da Robertson e Klein, già citato,
“Women and Slavery in Africa”, ci fornisce alcune percentuali da cui partire: le donne
costituirono il 38% degli schiavi imbarcati dagli Olandesi verso le Americhe tra il 1675
e il 1795, il 36% di quelli imbarcati dai Danesi tra il 1777 e il 1789, il 38% di quelli
imbarcati dagli inglesi tra il 1791 e il 1798, il 29% di quelli che raggiunsero l’Avana tra
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il 1790 e il 1820. Nello stesso periodo, nel 1775, le donne costituivano il 25% degli
schiavi adulti e poco meno del 50% dei bambini nella Colonia del Capo.
Tale somiglianza dipese molto probabilmente dalla struttura macroeconomica
della Tratta, a fortissima prevalenza maschile. Klein e Meillassoux hanno fornito una
spiegazione convincente: poichè le donne vennero impiegate nelle piantagioni
americane in misura quasi eguale agli uomini, formando il 45% degli schiavi
nell’esempio delle piantagioni di caffé brasiliane, il motivo della sproporzione va
ricercato all’origine, ossia nel mercato africano. Come abbiamo detto, nel continente le
donne costituivano la grande maggioranza degli schiavi venduti ed integrati nelle
economie africane, diventando generalmente forzate dell’agricoltura, proprio perchè il
lavoro agricolo era un “lavoro da donne”, come ha scritto Lovejoy. Gli uomini, di
minore valore economico perchè era più difficile integrarli e metterli al lavoro,
venivano trasportati fino alla costa per essere venduti agli europei, oppure uccisi alla
cattura.
La somiglianza tra lo schiavismo sudafricano e quello americano, tuttavia, è
imperfetta. In primo luogo, va notato che soltanto il 26% degli schiavi importati a Città
del Capo proveniva dall’Africa, cui si aggiunge un altro 25% dal Madagascar e dalle
isole Mascarene, mentre i restanti due quarti provenivano dall’Indonesia e dall’India,
come possiamo osservare nel diagramma prodotto da Rober Shell sull’origine degli
schiavi del Capo. La componente africana, peraltro, rimase insignificante fino al 1752 e
crebbe considerevolmente soltanto intorno al 1777. Ciò fece sì che la principale
divisione nella popolazione non fosse quella tra “bianchi” e “neri”, o tra “europei” ed
“africani”, ma quella tra “cristiani” e “pagani”.
La divisione del lavoro, in secondo luogo, differenziava profondamente la colonia
del Capo dalle Americhe. Soltanto una proporzione minuscola delle schiave venne
destinata al lavoro dei campi, mentre quasi tutte entrarono nelle case e nelle famiglie
coloniali come domestiche, cuoche e lavandaie. Poichè il diritto romano-olandese della
colonia sanciva la trasmissione matrilineare dello stato di libero o schiavo – in altre
parole, i figli di un padre libero e di una madre schiava erano schiavi anch’essi – ciò
permise l’avvio di un processo di riproduzione della manodopera servile che raggiunse
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il “punto di creolizzazione” nel decennio 1760-1769: per la prima volta più di metà
degli schiavi era nata nella colonia.
Infine, la schiavitù era senza dubbio un pilastro dell’economia coloniale, ma
questa non era un’economia di piantagione come nelle Americhe. Una parte consistente
degli schiavi, alcune migliaia, era di proprietà della Compagnia delle Indie Orientali,
che rimase sempre il maggiore singolo proprietario di schiavi; essi venivano raccolti nel
“Lodge” di Città del Capo ed erano impiegati per costruire edifici pubblici, tra cui il
forte e il porto, e per il funzionamento delle attività portuali. Delle donne impiegate
nelle case coloniali abbiamo già detto. La maggioranza degli schiavi uomini lavorava
nelle fattorie di grano e nelle vigne del circondario, mentre una proporzione minore era
destinata agli allevamenti di bovini e di ovini delle regioni più esterne. Se osserviamo le
due stampe che ho riportato, entrambe raffiguranti situazioni di schiavitù nella colonia,
possiamo notare che tutti gli schiavi al lavoro sono uomini.
In generale, la società coloniale era composta da una numerosa schiera di piccoli
proprietari di schiavi: il 74% dei proprietari possedeva meno di 10 schiavi e solo il 3%
ne possedeva più di 30, mentre si conosce soltanto un colono che abbia posseduto più di
100 schiavi. Anche questo ci fa capire che la schiavitù ebbe nella colonia una
dimensione eminentemente “familiare”: era nella famiglia del colono, letteralmente
nella sua casa o nella sua fattoria, che lo schiavo veniva sfruttato per il suo lavoro
produttivo, cui si aggiungeva la funzione riproduttiva delle donne. Come si è detto, un
secolo dopo l’introduzione della schiavitù, gli schiavi creoli, nati nella colonia,
costituivano più della metà del totale. Poichè in genere una popolazione di schiavi si
caratterizza per un tasso di decrescita naturale della popolazione, tale dato può essere
spiegato almeno in parte con la prossimità tra schiave e padroni nella casa. Un altro dato
che si allinea sulla stessa spiegazione è la crescita della popolazione degli schiavi da
30’000 a 35’000 tra il 1808, quando ne venne bloccata l’importazione, e il 1834, quando
vennero liberati, come possiamo vedere sulla tabella.
Va notato, infine, che l’integrazione nella famiglia del proprietario non portava
quasi mai alla libertà, visto che la colonia ebbe un tasso di manumissione estremamente
basso, molto più basso ad esempio che in Brasile e nei Caraibi. Lo stato di schiavo era
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una gabbia da cui era sostanzialmente impossibile uscire, a meno di non fuggire dalla
colonia. Questa possibilità venne percorsa da un certo numero di schiavi, che verso la
fine del Settecento attraversarono la frontiera e, unendosi a delle comunità di khoi lungo
il fiume Orange, si diedero il nome di Griqua e fondarono una specie di chiefdom
cristiana e di lingua olandese.
3. Servitù
La storia dei rapporti di dipendenza in Sudafrica non riguarda soltanto lo
sfruttamento della manodopera africana, ma interessa anche una componente della
popolazione europea della colonia, benchè minoritaria. Nonostante l’immediata
adozione di un sistema schiavistico, fino al 1717 gli amministratori di Città del Capo
rimasero fortemente legati anche al lavoro salariato. Nella primissima fase, quando
ancora l’insediamento si limitava ad un porto di sosta per le flotte delle Indie, la
popolazione europea era composta interamente da dipendenti della Compagnia delle
Indie Orientali. Verso la fine del Seicento fu chiaro che era necessario dispensare alcuni
di essi dal servizio per la Compagnia e rilasciare concessioni di terra per risolvere il
problema dell’approvvigionamento di viveri. Nacque così la classe dei free burghers,
ossia i “coloni liberi”, i primi proprietari terrieri; il commercio invece, restava
monopolio della Compagnia. Si creò quindi una domanda di manodopera agricola cui
l’impiego di schiavi diede solo una parziale risposta. Come in altri contesti di
colonizzazione europea secentesca e settecentesca, la prima soluzione fu l’indenture,
ossia un contratto di dipendenza altamente vincolante, generalmente pluriennale, che
veniva stipulato tra un proprietario terriero e il singolo bracciante europeo. A Città del
Capo gli indentured labourers presero il nome di knecht, che in olandese significa
“servitore” o “servo”, ma la breve durata dei contratti, in genere un anno, li rendeva la
figura più prossima al lavoratore salariato che la colonia offrisse. Gli knetchts
costituirono il 50% della popolazione europea fino a fine Seicento, ma entro il 1739
erano crollati a meno del 5% e durante il resto del secolo scomparvero sotto l’1%.
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Possiamo vedere in questa eclissi la conseguenza della decisione, presa dalla
Compagnia nel 1717, di abbandonare un progetto di colonizzazione basato sul
popolamento europeo e di risolvere interamente la domanda di manodopera con
l’importazione di schiavi. Non a caso, il declino degli knechts li vide trasformarsi da
lavoratori agricoli a caporali degli schiavi impiegati nelle fattorie. Una delle due stampe
relative alla schiavitù, quella di sinistra, è una caricatura dello knecht come caporale che
risale al 1833 ed è chiaramente di stampo abolizionista.
Se il 1717 fu l’anno decisivo per la progressiva marginalizzazione del lavoro
salariato tra la popolazione europea della colonia, il 1721 può essere visto come la sua
degna controparte per quanto riguarda la popolazione africana indigena. Khoikhoi e
khoisan, gli abitanti originari della regione del Capo, erano stati impiegati fino ad allora
nei lavori agricoli stagionali dietro compenso, anche se era mancata qualsiasi
sistemazione giuridica dei rapporti di lavoro, un fatto, peraltro, che impedisce di
valutare la consistenza numerica del fenomeno. Si sa, tuttavia, che furono in
maggioranza donne khoikohi a cercare un salario nell’agricoltura coloniale, una chiara
consequenza della divisione del lavoro delle società africane del sudafrica, che, come si
è detto, destinava alle donne la coltivazione e agli uomini la cura del bestiame.
Nel 1721 la strada del lavoro salariato venne ostruita dall’istituzione di una norma
che permise l’asservimento di khoikhoi e khoisan all’interno del mondo della fattoria
coloniale. Otto dei più ricchi proprietari terrieri della regione agricola intorno a Città del
Capo chiesero e ottennero di poter “legare” alla propria famiglia – il verbo impiegato è
verbinden, in inglese to bond, un richiamo semantico alla schiavitù – i figli delle unioni
tra le lavoratrici “ottentotte” e gli schiavi importati, i due gruppi che si trovavano a
convivere nelle loro fattorie. Il testo della petizione chiese che il legame durasse “un
certo numero di anni”, in modo da ricompensare i proprietari delle spese sostenute per
tali bambini in età improduttiva.
Si configurò così un peculiare rapporto di produzione parallelo a quello
schiavistico e da esso distinto. Gli “ottentotti” nati nelle fattorie erano costretti a vivere
e a lavorare per il colono fino al compimento dei 25 anni di età, ma accadeva spesso che
il legame continuasse per il resto della vita. In virtù delle regole matrilineari di
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discendenza in vigore nella Colonia, essi non erano schiavi, ma liberi. È chiaro, del
resto, che tale termine non è adatto a descrivere un individuo obbligato a lavorare senza
compenso nei campi del suo patrono, senza la possibilità legale di abbandonare la
fattoria. La definizione più corretta è quindi quella di servi, nell’accezione tipica del
servo della gleba. Il paragone con l’istituzione dell’Europa medievale può sembrare una
forzatura, ma la sua giustificazione risiede nel fatto che tali servi venivano trasferiti
assieme alla proprietà terriera quando il colono la vendeva ad un nuovo proprietario: in
ultima analisi, erano i servi della fattoria, non del colono. Anche sotto questo rispetto,
quindi, possiamo notare la differenza con gli schiavi, che erano proprietà individuale di
cui il fattore poteva disporre a piacimento, vendendoli singolarmente o in blocco
insieme alla fattoria.
L’impiego di servi khoikhoi e khoisan si diffuse rapidamente e diventò una delle
basi dell’agricoltura della Colonia. Un osservatore registrò nel 1785 che, (cito):
Nella maggior parte delle fattorie della provincia risiedono tra 10 e 20 Ottentotti. Gli Olandesi li hanno resi schiavi, e loro comprendono un poco di olandese. Vengono detti
“liberi” perchè il padrone non può venderli individualmente, come fanno per i negri, ma gli Ottentotti non possono passare da un padrone all’altro e sono costretti a lavorare senza
pagamento. I coloni olandesi danno ad alcuni dei più fedeli ed intelligenti un cappotto di tela ogni due anni, che per loro è il dono più magnifico. [...] Se la British Army sbarcherà in
questo paese, bisogna che distribuisca loro vestiti secondo i loro servigi, e che li nutra con carne in modo da attrarli, poichè essi ricevono raramente qualcosa dai loro padroni che non
sia pane, latte, radici e verdura.
Il brano è tratto da una comunicazione confidenziale di un Colonnello inglese in
incognito che nel 1785 investigò le possibilità di un’invasione della colonia del Capo, e
riassume pienamente la condizione dei khoi dopo la loro inclusione nelle fattorie.
Abbiamo detto che in origine il sistema di servitù khoi nacque da una
trasformazione del lavoro salariato irregolare fornito volontariamente dalle donne khoi
nelle fattorie coloniali. Tale situazione fu sicuramente la prevalente nei primi ottant’anni
della colonia, quando l’espansione della frontiera fu lenta e i rapporti con le varie
chiefdoms khoi furono collaborativi. A partire dagli anni ’30 del Settecento, tuttavia,
iniziò una fase di violenti scontri con i khoi che si concluse a fine secolo con la
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sostanziale distruzione delle chiefdoms a sud del fiume Orange. I due elementi
fondamentali di questa storia furono in primo luogo il commando, la banda
autorganizzata dai coloni della frontiera che, con una vaga legittimazione da parte
dell’amministrazione olandese di Città del Capo, assaliva più o meno gratuitamente i
villaggi khoi, e, in secondo luogo, i prigionieri che venivano presi durante tali razzie.
Un esempio può essere il “commando generale” del 1774, composto da 250
uomini di cui la maggioranza, 150, erano khoikhoi e “bastardi”, ossia figli di un colono
e di una donna khoi, a testimonianza che la commistione tra europei e africani fu un
tratto caratteristico della storia sudafricana fino almeno a metà Ottocento. Sotto la guida
dei 100 coloni che ne facevano parte, il commando attraversò la frontiera e massacrò in
totale 499 tra uomini, donne e bambini khoi, prendendone 231 come prigionieri e
distribuendoli alle fattorie coloniali. I khoi catturati dai commando durante tutto il
Settecento non furono mai resi schiavi ed entrarono invariabilmente nel gruppo dei
servi, che a sua volta si caratterizzò per la sua localizzazione geografica, prevalente
nelle zone di frontiera e meno comune man mano che ci si avvicinava a Città del Capo,
e per il suo impiego nel lavoro agricolo e, soprattutto, pastorale.
Il 1791 viene solitamente indicato come la conclusione di questa fase di
“estirpazione” dei khoi, per impiegare il termine che si trova nei documenti coloniali: a
tale data, la servitù era un sistema consolidato e si avviava a sostenere il peso
dell’espansione demografica della colonia e dell’abolizione della Tratta degli schiavi,
entrata in vigore nel 1808 quando ormai Città del Capo era un possedimento britannico.
Se le radici del sistema di servitù affondano nel periodo olandese della storia
sudafricana, esso fu senza dubbio l’elemento caratteristico del periodo britannico e servì
da modello sia per l’inclusione dei popoli bantu nel corso dell’Ottocento, sia per la
transizione verso un’economia capitalistica a fine secolo.
I commando coloniali continuarono le loro razzie di esseri umani, questa volta a
danno degli amaxhosa della costa orientale, mentre alcuni gruppi khoi, tra cui i Griqua
in cui si erano integrati gli schiavi fuggitivi, si procurarono fucili e cavalli e si
dedicarono alla razzia nel nord, catturando donne e bambini batswana e basotho che poi
rivendevano ai coloni olandesi al di qua della frontiera. Il sistema iniziò ad essere
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conosciuto con il nome olandese di inboekstelsel, ossia “sistema di registro”, e di
“apprendistato”, perchè i prigionieri venivano inseriti sul registro del magistrato locale
alle dipendenze di ciascun colono, in qualità di “apprendisti”, appunto.
Nel 1809, un anno dopo l’abolizione del commercio degli schiavi, il cui prezzo
salì vertiginosamente, il governatore britannico Caledon introdusse una legge che prese
il nome di “Codice Ottentotto” o “Codice Caledon”, vista a lungo dagli storici come una
cesura che segnò l’inizio di una “seconda schiavitù”. Il punto saliente del Codice
Ottentotto fu senza dubbio l’obbligo, per tutti i khoi residenti entro i confini della
colonia, di essere registrati come apprendisti presso un colono. Se guardiamo la tabella,
possiamo vedere che il provvedimento interessò circa 17.000 tra uomini e donne, ma
sarebbe sbagliato credere che il Codice Caledon significò l’asservimento immediato di
tale popolazione. Come abbiamo visto, i khoi erano entrati nella classe dei servi
coloniali durante tutto il secolo precedente ed è plausibile che nel 1809 solo una
minoranza degli abitanti khoi della colonia vivessero effettivamente liberi da legami con
i coloni.
Certo, il Codice deve essere considerato comunque un passaggio importante
perchè sancì legalmente un rapporto di produzione che si era sviluppato in autonomia
nelle zone di frontiera e gli diede un aspetto sistematico. Tra le novità destinate ad avere
una lunga storia vanno citate la possibilità per i servi o i loro familiari di citare in
giudizio il proprio patrono per violenza e omicidio e l’obbligo per gli “apprendisti” che
viaggiavano nella colonia, di essere muniti di un documento di riconoscimento, il
“pass”, che attestasse a quale famiglia di coloni si era legati e perchè non ci si trovava in
quel momento presso la loro fattoria. Per comprendere le conseguenze che il Codice
produsse, basti ricordare che l’abolizione della schiavitù nel 1834 venne effettuata
attraverso la conversione di tutti gli oltre 30.000 schiavi in “apprendisti” per quattro
anni, e che il “sistema dei pass” rimase in vigore dopo il 1838, fu al centro
dell’organizzazione capitalistica della manodopera nelle miniere di diamanti e d’oro al
volgere del secolo, venne confermato nella fase della segregazione britannica
(1902-1949) e, come è noto, ebbe una triste fortuna anche durante l’apartheid dal 1949
al 1994. Per questo motivo, possiamo dire che il sistema di servitù coloniale, chiamato
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eufemisticamente apprendistato, fu senza dubbio il lascito più importante del periodo
britannico dal punto di vista dei rapporti di produzione.
La sua importazione nelle regioni interne del Sudafrica, peraltro, non fu un
prodotto diretto dell’amministrazione coloniale britannica, ma piuttosto delle comunità
di coloni olandesi che nel 1835 iniziarono un esodo dalla colonia in reazione
all’abolizione della schiavitù. Il Great Trek, la “grande marcia”, li portò a fondare una
serie di repubbliche e a scontrarsi con i popoli bantu dell’interno e della costa. Come la
colonia olandese nel 1717, anche i boeri dello Sato Libero d’Orange, della Repubblica
del Natal e della Repubblica Sudafricana si trovarono di fronte alla scelta tra lavoro
salariato e lavoro forzato, e seguirono la strada dei loro avi. Tutte le repubbliche boere
condannarono formalmente la schiavitù e resero illegale il possesso di schiavi, ma i
commando boeri continuarono a razziare donne e bambini che venivano registrati come
apprendisti nelle immense fattorie della Transorangia e del Transvaal. Alcuni regni
bantu, come ad esempio lo Swaziland, strinsero un legame commerciale con le nuove
repubbliche basandolo sulla vendita dei prigionieri che catturavano in battaglia o
saccheggiando i villaggi delle chiefdoms vicine. Il re dello Swaziland poteva perfino
rendere schiavo arbitrariamente un suo suddito e venderlo ai boeri.
La servitù khoi si era dimostrata quindi un sistema più flessibile e in conclusione
preferibile alla schiavitù in un contesto di precarietà economica tipico delle zone di
frontiera. Si potrebbe dire, usando i concetti di Klein e Meillassoux, che la servitù
permetteva non soltanto di sottomettere forza lavoro produttiva, ma anche di creare
nuclei familiari in grado di riprodursi, eliminando il peso dell’investimento in capitale
monetario che era richiesto per poter disporre di una manodopera di schiavi. Piuttosto
che acquistare schiavi all’interno della colonia, il colono boero della frontiera preferiva
razziare personalmente o scambiare bestiame per prigionieri, e disporre così di intere
famiglie di servi legate alla sua terra, alla sua casa, alla sua famiglia.
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3. I rapporti di dipendenza tra i popoli bantu dell’interno: clientela, servitù, o schiavitù?
Possiamo ora affrontare l’ultima parte di questo nostro seminario e rivolgere lo
sguardo ad un contesto non coloniale, anzi, pre-coloniale, il mondo dei popoli africani
dell’interno. È il caso di osservare brevemente una mappa del Sudafrica. Come abbiamo
detto, la metà sud-occidentale del Sudafrica odierno, quella in cui si sviluppò la Colonia
del Capo, era originariamente abitata da khoikhoi e khoisan; la metà nord-orientale, al
contrario, era abitata da popoli della famiglia bantu. Per semplicità citiamo la divisione
abbastanza tradizionale in un gruppo della costa, gli nguni, di cui facevano parte gli
xhosa e gli zulu, e in un gruppo dell’Altopiano dell’entroterra, i sotho-tswana, di cui
facevano parte i batswana a nord e i basuto a sud. Nella nostra analisi ci limitiamo a due
casi soltanto, entrambi provenienti dall’Altopiano: il primo relativo a Kuruman, capitale
del regno bathlaping degli tswana, il secondo relativo al Lesotho, il regno fondato da
Moshoeshoe come casa per tutti i sotho meridionali.
Come si è detto, è un punto consolidato nella storiografia recente e meno recente
che all’interno di queste società non esistesse schiavitù e che i rapporti sociali e politici
si riassumessero in un pervasivo sistema di clientela, che talvolta scadeva in una non
meglio definita servitù. Lo “standard” è bene rappresentato dal giudizio di Monica
Wilson, una dei curatori della Oxford History of South Africa pubblicata nel 1969, che
scrisse con decisione: “Ciò che gli tswana non vendevano erano gli uomini. Livingstone
lo affermò categoricamente [cita il missionario] “mai e in nessuno caso, a memoria
d’uomo, un capo batswana ha venduto qualche membro del suo popolo, o un uomo
batswana ha venduto uno dei suoi figli!”. Monica Wilson continua: “Robert Moffat, [un
altro missionario inglese abolizionista che lavorò tra gli tswana], fornendone le prove
nel 1824, disse riguardo agli tswana “hanno una classe di servi, ma nessuno schiavo”.
La stessa Monica Wilson fornì una descrizione del sistema di clientela, cito
sempre dalla Oxford History of South Africa: “esisteva anche un sistema di clientela,
secondo il quale un uomo povero chiedeva ad un capo o ad un vicino ricco del bestiame
in prestito. Il cliente si prendeva cura del bestiame, ne beveva il latte ed era
ricompensato dopo un anno o più con una parte dell’incremento della mandria. In
cambio doveva svolgere alcuni compiti per conto del benefattore, prendendo parte ai
Ettore Morelli. Schiavitù, servitù, clientela. Uno studio sui rapporti di dipendenza in Africa meridionale. Pavia, 14 aprile 2015.
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lavori pesanti, come la costruzione di un recinto di pietra o la recinzione dei campi di
cereali, e doveva assisterlo in viaggio, in tribunale e in guerra.”
Possiamo prendere l’ultima stampa come punto di riferimento per tutta
quest’ultima parte del seminario. Si tratta di uno schizzo per mano di un artista inglese,
Thomas Baines, che visse in Sudafrica a metà Ottocento. La didascalia recita:
“Ottentotto namaqua su un bue da sella con il suo boscimane”, dove gli storici hanno
sempre visto un rapporto patrono-cliente. Si noti l’abbigliamento europeo del khoikhoi,
e il fisico emaciato, consumato del khoisan, che svolge senza dubbio il compito di
cacciatore per il suo patrono. Rapporti di questo tipo esistevano anche tra batswana e
khoisan e tra basuto e khoisan, motivo per cui la stampa funziona bene come simbolo di
quello di cui ci avviamo a discutere.
Uno dei primi momenti di contatto tra viaggiatori europei e il mondo tswana, il
secondo in ordine di tempo ad essere precisi, fu una spedizione commerciale e di
esplorazione guidata dal medico e naturalista tedesco Licthenstein, che nel 1805
raggiunse Kuruman, la capitale dei bathlaping del gruppo tswana. L’importanza di
questa fonte non è stata finora riconosciuta dagli storici, nonostante a capirlo basti già
solo il fatto che essa preceda le guerre di shaka e degli zulu degli anni ’20, che secondo
la vulgata avrebbero portato la violenza fino nelle più remote regioni del Sudafrica. Vi
propongo di seguire un brano, tratto dal diario di Licthenstein, che racconta di come i
viaggiatori furono scortati da un messaggero del re fino alla dimora reale al centro di
Kuruman.
Lo seguimmo [la guida, un uomo del re] su un sentiero attraverso il boschetto di mimose e
giungemmo presto ad un punto molto ben ombreggiato. Circa a metà cammino incontrammo delle donne impegnate nel raccogliere legname: subito accorsero verso di noi,
ripetendo continuamente la parola Montjuko, tabacco. Mentre stavamo per dargliene un poco, il nostro protettore ci trattenne e rimproverò le donne oltre misura, intimando loro di
tornare al loro lavoro, e minacciandole di colpirle con il suo sjambok [una frusta fatta di pelle di ippopotamo] se non avessero obbedito all’istante. Loro, nonostante ciò, ben lungi
dal preoccuparsi per lui, si lamentarono moltissimo, e, senza curarsi delle sue minacce, ripeterono le loro richieste impertinenti. Noi alla fine demmo loro un poco del tabacco, ma
ciò fu preso come assolutamente scorretto dal nostro protettore; lui si lamentò con Kok, [l’interprete, un missionario meticcio] e disse che non era corretto che il tabacco fosse dato
a queste donne da poco [o comuni, l’originale inglese è “ordinary women”], quando il
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giorno precedente ci eravamo rifiutati di darlo ad uomini di alto rango, e chiese al missionario di consigliarci di non arrecare mai più un’offesa di tale gravità.
Poco più tardi, mentre il gruppo di visitatori attraversava la città dei bathlaping,
l’uomo del re mise in pratica la minaccia e si aprì strada a colpi di sjambok tra la folla di
donne, uomini e bambini che si accalcava intorno al viaggiatore tedesco chiedendo
tabacco.
Il brano citato ci dice troppo poco per poter affermare che le donne al lavoro nel
bosco di mimose fossero schiave, anche se il loro rango all’interno della società doveva
essere sicuramente molto basso, se un uomo diverso da un loro famigliare poteva
permettersi di minacciarle di violenza fisica. Un’altra domanda destinata a restare senza
risposta è se queste donne fossero o meno sposate, appartenessero o meno a qualche
gruppo famigliare. Curiosamente, in questa descrizione del 1805 compaiono gli stessi
elementi che abbiamo visto nella seconda stampa sulla schiavitù, del 1802: la punizione
fisica, qui solo minacciata, lì praticata; la frusta, qui uno strumento africano ricavato
dalla pelle di ippopotamo, lì una sorta di gatto a nove code; il tabacco, qui chiesto da
delle lavoratrici, lì fumato dal padrone in quantità commisurata alla gravità della pena.
Di certo c’è che Lichtenstein riconobbe durante la sua permanenza a Kuruman
una classe di individui che definì inizialmente “servitori”: ogni casa dei più ricchi della
città ne aveva alcuni, che vivevano in una stanza separata dell’abitazione. In un secondo
momento, tuttavia, egli comprese che si trattava di veri e propri schiavi, il cui padrone
deteneva la loro proprietà e poteva disporne in qualsiasi momento. Ciò divenne evidente
quando un uomo giunse all’accampamento della spedizione europea per vedere due
bambini di circa dieci anni, affermando che la loro vita gli apparteneva da quando li
aveva catturati in battaglia, alcuni anni prima: essi erano, per usare il termine di lingua
sotho-tswana, dei bahlanka.
Lichtenstein rifiutò l’offerta e nessun membro della spedizione acquistò schiavi a
Kuruman, un fatto importante perchè testimonia abbastanza inequivocabilmente che
presso i popoli sotho-tswana i rapporti di schiavitù e il commercio degli schiavi
esistevano prima ed indipendentemente dal contatto con gli europei della Colonia, o dal
commercio musulmano. Come si è detto, la spedizione di Lichtenstein era la seconda a
Ettore Morelli. Schiavitù, servitù, clientela. Uno studio sui rapporti di dipendenza in Africa meridionale. Pavia, 14 aprile 2015.
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raggiungere la regione e arrivava soltanto tre anni dopo la precedente, per cui non c’è
alcun motivo di credere che la possibilità di vendere uomini sia stata insegnata per la
prima volta ai sotho-tswana dagli europei, come pretese di affermare Robert Moffatt.
Alla luce di quanto sto trovando in fonti simili al diario di viaggio di Licthenstein,
i missionari Moffatt e Livingstone, molto semplicemente, mentirono consapevolmente
per propagandare l’immagine “pura” di un mondo africano che si stava aprendo alla
luce del cristianesimo, ma che al contempo era minacciato dalle nubi nere
dell’espansione dei coloni olandesi. Le loro parole ebbero conseguenze importanti e di
fatto influenzarono tutti gli studiosi che si occuparono dei popoli sotho-tswana, tra cui
l’antropologo sudafricano Isaac Schapera che definì i bahlanka dei “clienti”,
rinforzando l’idea che in quel contesto la schiavitù non fosse mai esistita e che i rapporti
di dipendenza all’interno della società si limitassero ad una forma forte di clientela.
Questo detto, è altamente probabile che esistessero anche tali rapporti di clientela,
ma la categoria non può essere usata in modo incauto per racchiudere tutti i “poveri” di
queste società. Per comprendere l’estensione del potere che il proprietario poteva
esercitare su un suo prigioniero di guerra possiamo leggere un altro brano estratto dal
diario di Lichtenstein, in cui viene descritto il rituale di celebrazione di una vittoria
militare, durante il quale parti del corpo dei nemici uccisi venivano bruciate e mangiate
dai loro uccisori, in modo da guadagnarsi una cicatrice sulla coscia praticata dal
sacerdote a testimonianza del proprio coraggio.
Kok, raccontandomi di questa tradizione, menzionò una circostanza che io poi mi feci
confermare da Koster e Janssen [altri due missionari], entrambi egualmente testimoni oculari. Poche settimane prima del nostro arrivo, un’orda di boscimani era stata attaccata
dai batswana, con una tale superiorità numerica di questi ultimi, che molti dei combattenti dovettero per forza tornare senza la testimonianza del loro valore [ossia, come si è detto,
una parte del corpo del nemico]. Uno di loro, comunque, che era ben noto per essere lungi dal codardo, fu così mortificato all’idea di essere escluso dal rituale che, fuori di sè, corse a
casa, uccise uno dei suoi schiavi e portò il trofeo come passaporto per la sua ammissione. Kok aggiunse che questa fu l’unica volta in cui vide piangere un batswana: aveva le lacrime
agli occhi per la rabbia, prima di pensare all’orribile espediente. Il fatto, peraltro, non venne assolutamente condannato; anzi fu abbastanza lodato come un trucco ingegnoso: una prova
che la vita dei prigionieri presi in guerra è alla totale disposizione dei conquistatori, ed è considerata un regalo se viene risparmiata. Questi schiavi, di fatto, sono visti come una
Ettore Morelli. Schiavitù, servitù, clientela. Uno studio sui rapporti di dipendenza in Africa meridionale. Pavia, 14 aprile 2015.
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classe separata di persone, e sono chiamati Mutjanka [la grafia corretta oggi sarebbe mohlanka, singolare di bahlanka]; nessun altro servitore è incluso sotto questo nome, solo i
prigionieri di guerra.
La schiavitù sotho-tswana esisteva ed aveva dei punti di somiglianza con altre
schiavitù che siamo più abituati a vedere in altre parti dell’Africa. È significativo, in
particolare, che presso i bathlaping rientrassero nella classe degli schiavi solo i
prigionieri catturati in battaglia, e che, da quello che sappiamo, si trattasse sicuramente
di bambini e, forse, di donne.
A qualche centinaio di chilometri di distanza verso sud e separato dalla colonia
soltanto dalle comunità dei Griqua e dei Kora che ne razziavano gli abitanti per venderli
come servi alle fattorie dei boeri, il Lesotho di Mohsoeshoe sembra essere stato
egualmente il centro di raccolta di prigionieri catturati in guerra.
Il caso del Lesotho è, forse, persino più problematico dal punto di vista
storiografico di quello degli altri regni sotho-tswana, per una serie di motivi che, ancora
una volta, si intrecciano con la storia della lotta all’apartheid. L’università del Lesotho,
fondata dal Vaticano nel 1946, fu a lungo l’unica università completamente aperta agli
africani a sud dello Zambesi ed ospitò una parte degli esuli dell’ANC e delle altre
formazioni anti-apartheid, oltre ad alcuni degli storici sudafricani responsabili della
riscoperta del passato africano. In più, la storia del Lesotho non dovette mai essere
“riscoperta” perchè il suo primo re e fondatore, Moshoehsoe, attirò nel 1833 alla sua
corte un gruppo di missionari francesi protestanti che divennero i suoi consiglieri
diplomatici e raccolsero la storia del suo popolo per tramandarla al pubblico coloniale. I
due lavori maggiori sul Lesotho, comparsi entrambi nel 1979, ripeterono in sostanza la
versione di Moshoeshoe di un secolo precedente, in cui la sua gente sopportò tra il 1820
e il 1830 le aggressioni del regno zulu di Shaka e delle “orde zulu” che le sue guerre
spinsero sull’Altopiano, quindi tra il 1830 e il 1848 subì le incursioni e le razzie dei
Griqua e dei Kora che rapivano donne e bambini per venderli nella colonia, infine, tra il
1848 e il 1868 venne quasi annientato dai coloni boeri del Great Trek e dal neonato Sato
Libero d’Orange. Nè le opere dei missionari, nè i libri degli storici moderni riportano
mai di casi di cattura di prigionieri e di riduzione in schiavitù.
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Mosheoshoe attraversa questa storia come il protettore del suo popolo e del suo
regno, incline alla pace e alla diplomazia più che alla guerra, in una sorta di mito
positivo del “patriarca buono” che fa esattamente da contraltare al mito negativo di
Shaka come tiranno violento e sanguinario, che lanciava i suoi reggimenti in campagne
distruttive contro le popolazioni confinanti.
Una delle prime scoperte della mia ricerca è stata che il Lesotho di Moshoeshoe fu
il diretto responsabile di una parte delle violenze attribuite ai suoi carnefici, adottando
metodi militari, come l’attacco notturno e la distruzione dei villaggi, che la Cambridge
History of South Africa, pubblicata nel 2010, definisce ancora “tipici degli zulu” in
quanto non avrebbero mai avuto corso sull’Altopiano abitato dai sotho-tswana. La
corrispondenza dei missionari francesi con la loro casa madre a Parigi dimostra che tra
gli anni ’30 e i primi ’50 Moshoeshoe ordinò e condusse personalmente una serie di
attacchi contro villaggi, comunità sparse e regni confinanti, accumulando una quantità
sempre maggiore di bestiame e, in alcuni casi, tornando alla capitale con qualche
centinaia di prigionieri, esclusivamente donne e bambini, a volte dopo aver fatto
uccidere gli uomini.
Per citare solo l’esempio più interessante, quando nel 1853 sconfisse dopo sei
anni di guerra il principale regno sotho rivale, Moshoeshoe rese prigionieri tutte le
donne e i bambini, alcune migliaia di individui, e li fece portare alla capitale, dove le
loro famiglie dovettero recarsi per giurare fedeltà e chiederne la restituzione. I
missionari protestanti commentarono complimentandosi con il re per non aver chiesto
nessun riscatto, ma l’intera vicenda sembra essere stata piuttosto un elaborato rituale di
sottomissione e inclusione di un intero gruppo straniero all’interno del regno. Quando i
missionari cattolici arrivarono in Lesotho, negli anni ’60, trovarono, nella regione
immediatamente circostante al villaggio-capitale del regno, una serie di villaggi abitati
da “matabele”, il nome che veniva dato agli stranieri che arrivavano dalla costa e che
quindi potevano essere sia zulu sia xhosa. A capo di questi villaggi c’era uno dei figli di
Moshoehsoe, e sembra abbastanza sicuro che questi “stranieri” fossero, almeno in parte,
i prigionieri catturati dai basotho nei decenni precedenti, e stanziati alle dipendenze dei
membri della famiglia reale nella zona più centrale del regno.
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Se a questo aggiungiamo che la casa di Moshoehsoe venne numerose volte
descritta come popolata da servitori, tra cui bambini e ragazzi “boscimani”, ossia
khoisan, che cucinavano e lo aiutavano a vestirsi, e che i “clienti” da cui il re estraeva
manodopera agricola erano i bahlanka, il termine che presso gli tswana visitati da
Lichtenstein indicava gli schiavi, è facile supporre che anche in Lesotho esistesse
almeno un ulteriore rapporto di dipendenza, oltre a quello di clientela, e che fosse
alimentato dalla cattura di prigionieri in guerra. Un ulteriore problema da risolvere è
quello della posizione delle mogli di Moshoeshoe: sappiamo che il re aveva alcune
decine di mogli, in alcuni momenti arrivò ad averne anche più di cento. Di esse,
tuttavia, soltanto alcune erano considerate mogli di rango ed erano dotate ognuna della
propria capanna e della propria porzione di campi coltivati: le altre venivano associate a
ciascuna delle “case” principali, per svolgere il ruolo di domestiche e per lavorare i
campi di pertinenza di ciascuna di esse, oltre che per “intrattenere gli ospiti”, come
scrivono i missionari.
Proprio il termine bahlanka, tuttavia, è al centro del sistema di clientela per come
è finora stato spiegato dagli storici: in particolare, i bahlanka sarebbero stati i clienti che
domandavano e ottenevano dal re il prestito dei capi di bestiame, il mafisa, e
ricambiavano fornendogli la propria manodopera. Come ricordano Fabio Viti e
Balandier, uno degli aspetti fondamentali di un rapporto di clientela è proprio la
volontarietà del gesto con cui l’individuo debole si lega al potente; il rapporto esiste
esclusivamente tra le persone del patrono e del cliente e può essere interrotto da una
decisione o dalla morte di uno dei due. In termini generali, questo è anche il sistema
descritto dagli storici e che si può trovare nelle fonti riguardo al Lesotho. In alcuni casi,
tuttavia, i bahlanka di Moshoeshoe legavano se stessi, il proprio coniuge e la propria
prole al servizio del re: questo accadeva quando il bestiame prestato al povero serviva a
sposare una donna e a creare una famiglia, secondo l’uso del bohali o lobola, lo
scambio di bestiame dalla famiglia dello sposo alla famiglia della sposa.
Possiamo osservare da vicino questa particolarità del sistema dei bahlanka
attraverso la vicenda di Maklobo, vedova di uno dei mohlanka di Moshoeshoe che entrò
in conflitto con il re perchè si rifiutò di consegnargli il figlio alla morte del marito. Il
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missionario-consigliere di Moshoeshoe, che documentò il giudizio pubblico in cui il
caso venne dibattuto, nel 1835, scoprì quindi che i figli di un matrimonio il cui bohali
era stato pagato da Moshoeshoe venivano ritenuti a tutti gli effetti figli del re ed erano
da lui reclamati per farne pastori e, in età adulta, guerrieri, messaggeri, suoi dipendenti,
nuovi bahlanka. Un esploratore inviato dal governo della colonia l’anno precedente, nel
1834, Andrew Smith, scrisse nel suo diario che “Moshoeshoe parla dei propri figli e poi
dei “figli dei buoi”, ossia delle persone per le quali egli ha acquistato delle mogli. Anche
i “figli dei buoi” lo chiamano padre”. Il missionario affrontò la questione di Maklobo
con Moshoeshoe e ne scaturì una discussione che finora è la descrizione più dettagliata
di come funzionasse tale rapporto di dipendenza. Ne riporto il brano più significativo:
“I vostri bathlanka sono esseri umani, gli dissi, e voi li fate lavorare come bestie” “Questa è
la nostra consuetudine. Alcuni nacquero qui, sotto il mio potere, e qui crebbero; gli altri sono poveri, che entrano volontariamente al mio servizio per avere del cibo: li nutro, è
giusto che mi servano” “Anche noi, i Bianchi, abbiamo dei servitori domestici, ma sono lavoratori salariati...” “Certo”, risponde il capo pagano, con un sorriso sardonico, “Voi li
pagate, e per questo si mostrano difficili con voi e non vi vogliono obbedire sempre” “Ma quello viene dal loro cuore, che è malvagio per natura; ma poichè lavorano, meritano il loro
salario”“Quando i miei bahlanka hanno bisogno di una pelle di pecora o di bue per coprirsi, io
gliela do” “È vero, e d’altro canto, se ricevono da me un cappello, voi glielo prendete (Citai un fatto accaduto a sostegno di questa mia affermazione)” “Non è forse vero che io li sposo
alle loro mogli, perchè loro sono poveri e non sono in grado di procurarsene?” “Si, a delle donne, le vostre concubine, che vi trovano disgustante... e poi i loro bambini, voi li
reclamate; e loro vi accusano, e a ragione, di rendere i loro figli dei buoi da lavoro”“I Bianchi, dall’altro lato del fiume Orange, non hanno forse degli schiavi?” “Non più!
questo costume è caduto in disuso, uno dei nostri re ha appena emanato un decreto che ha abolito questa pratica malvagia: gli schiavi sono ora liberi!” “Ma, mi domandò
Moshoeshoe, se liberassi i miei bahlanka, chi lavorerebbe nei miei campi?” “I vosti sudditi, i vostri stessi bahlanka, perchè offrirete loro un salario.” “I Bianchi!... Voi pagate tutto:
questo non è il nostro costume. Vedete bene quanta gente devo nutrire tutti i giorni. Per la maggior parte sono dei pigri, che non amano per nulla lavorare; vengono a sedersi alla mia
capanna e mangiano il mio grano” “Voi dovreste inviare i pigri ai campi, a lavorare per il loro pasto, con una zappa in mano. È così che fanno i capi dei bianchi; non sopportano di
vedere a casa loro tutti questi uomini forti, muscolosi, fannulloni perchè possono contare sul lavoro altrui, e che sarebbero sicuramente spinti a diventare laboriosi, se fossero
costretti a vivere da per se stessi” Il re dei Basuto rise in approvazione e rispose “Tu dici il
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vero, voi, i Bianchi, voi siete saggi... ma i vostri re, aggiunse, sono ricchi della ricchezza dei loro sudditi, e noi dei nostri bahlanka: la mia gente non mi paga alcun tributo, ma voi,
voi lo pagate ai vostri re”
Partendo da questo lungo brano, possiamo abbozzare una conclusione sullo stato
dei rapporti di dipendenza nei popoli sotho-tswana dell’Altopiano sudafricano. Quanto
abbiamo letto circa i batswana di Kuruman ci permette di sostenere senza temere
smentite che un rapporto di dipendenza personale in tutto assimilabile alla schiavitù
esistesse già prima del contatto con gli europei e che la sua esistenza venne
sostanzialmente ignorata – o nascosta – dopo tale contatto. A Kuruman, i bahlanka
erano stati catturati in guerra e messi a lavorare nelle case dei guerrieri; la loro vita era
nelle mani del loro padrone, che poteva batterli, venderli o ucciderli senza timore di
essere per questo condannato dai suoi concittadini. Per quanto abbiamo visto, e da altri
casi che non ho citato, riguardanti un altra sezione degli tswana, venivano proposti per
la vendita soltanto bambini di età inferiore ai 12 anni, forse un segno del fatto che
l’iniziazione all’età adulta, che di solito avveniva tra i 14 e i 18 anni, potrebbe aver
comportato un cambiamento nel loro stato di schiavi. Su questo aspetto specifico,
tuttavia, non c’è per ora alcun elemento per trarre conclusioni.
In Lesotho, invece, i bahlanka sembrano essere stati qualcosa di leggermente
diverso, se non altro perchè Moshoeshoe e i suoi figli non cercarono mai di venderne
uno ai viaggiatori europei. Sappiamo, comunque, che uno dei fratelli di Moshoeshoe, a
capo di una divisione territoriale del regno, vendette ai boeri qualche centinaia di
“matabele”, gli stranieri xhosa, dopo averne distrutto i villaggi. È ragionevole pensare
che i bahlanka di Moshoeshoe fossero in ultima analisi un gruppo composito di poveri,
fuggitivi, prigionieri di guerra e ostaggi dati in pegno dai regni sottomessi. La
volontarietà con cui entravano nel rapporto con il re poteva essere soltanto la maschera
di una scelta obbligata, dal momento che, in alcuni casi, Moshoeshoe aveva razziato
tutto il loro bestiame e li aveva ridotti in miseria. Cosa più importante, il loro stato era
ereditario e restavano avvinghiati in una situazione di dipendenza apparentemente senza
un’uscita che non fosse la fuga. Poichè, infine, come le mogli di basso rango del re, i
bahlanka venivano assegnati ad una delle “case reali” perchè ne lavorassero i campi, il
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