Dalla Grecia a Palermo: riflessioni sull’immagine di una Vergine
ROSMINI "DOPO" MILBANK. Riflessioni sul tema della grazia nell'Antropologia soprannaturale
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Cenacolo Rosminiano Emiliano-Romagnolo Rosmini per la nostra epoca: elementi di ri-generazione
Centro Culturale “Giacomo Alberione” – Modena 13-14 novembre 2014
ROSMINI “DOPO” MILBANK:
RIFLESSIONI SUL TEMA DELLA GRAZIA
NELL’ANTROPOLOGIA SOPRANNATURALE
di
MARCO SALVIOLI*
Il mio intervento va a collocarsi sulla scia di una serie di studi dedicati al
confronto tra la concezione della grazia sviluppata da Antonio Rosmini e gli esiti di
alcune fra le più influenti interpretazioni offerte dalla teologia contemporanea.
Come hanno mostrato, per citarne solo alcuni, gli studi di Francesco Conigliaro, di
Gianni Colzani e di Markus Krienke, è possibile comprendere le armoniche e
valutare l’originalità del pensiero rosminiano anche alla luce dell’interrogazione –
tutt’altro che scevra di complicazioni ermeneutiche – sulla capacità o meno di
alcuni testi del Roveretano di precorrere le tesi dei più significativi teorici
contemporanei. Nel caso specifico del tema della grazia, a fronte di alcuni tentativi
concordisti tesi a far rientrare il Rosmini nel duplex ordo della neoscolastica, altri
si sono appunto chiesti se lo stesso non fosse da leggere come precursore di Henri
de Lubac o di Karl Rahner, collocandolo così sulla linea che – ritornando o meno
all’Aquinate – prende le distanze dell’impianto neoscolastico1.
Non potendo considerarmi né un rosminista, né un discepolo del Roveretano,
ma un semplice ricercatore che ha scoperto nelle pagine del beato Antonio Rosmini
un fecondo fronte d’interlocuzione al fine di sostenere alcune posizione condivise,
intendo col presente intervento esprimere una doppia esigenza. Inserendomi sulla
* Studio Filosofico Domenicano (Bologna); Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano); membro della Scuola di anagogia (Bologna) e del Centre of Theology and Philosophy (Nottingham). 1 Oltre al riferimento inaugurale in M. FLICK, La svolta antropologica in Teologia, in La Civiltà Cattolica CXXI (1970)/4, pp. 215-224, n. 1, p. 215: «Anche in questo (come in molti altri campi),
Rosmini è stato un precursore», cfr. F. CONIGLIARO, Immanenza e trascendenza del soprannaturale in Rosmini, Edizioni Dialogo, Palermo 1973; ID., Rosmini, precursore della «Nouvelle théologie»? La questione del soprannaturale in A. Rosmini e H. de Lubac, in ISTITUTO DI SCIENZE RELIGIOSE IN TRENTO,
Credere Pensando. Domande della teologia contemporanea nell’orizzonte del pensiero di Antonio Rosmini, Atti del convegno tenuto a Rovereto il 3 - 4 - 5 maggio 1995, a cura di Karl-Heinz Menke e
Antonio Staglianò, Morcelliana, Brescia 1997, 143-324; G. COLZANI, Il compimento «deiforme» della
creatura. L’antropologia soprannaturale come «ristorazione» della persona, in La Scuola Cattolica 124
(1996), pp. 111-130; M. KRIENKE, Natur und Gnade in anthropologischer Perspektive. Antonio Rosmini als Vorläufer Karl Rahner’s?, in Theologie und Philosphie 78 (2003), pp. 368-383; ID., Grazia e persona. Sull’attualità della teologia della grazia di Rosmini, in Lateranum 73 (2007), pp. 675-712.
2
scia di coloro che hanno cercato di leggere la concezione rosminiana del rapporto
tra grazia e natura dal punto di vista degli esiti della teologia contemporanea,
ritengo di poter offrire un contributo all’obiettivo del Convegno, cercando di
mostrare come il pensiero del Roveretano sia attuale e capace di partecipare alla
ri-generazione culturale dell’Occidente, resistendo così a chi intende abbandonarsi
alla deriva nichilistica che marchia la questione del “senso” nell’epoca del
capitalismo neoliberista e tecnocratico.
1. La provocazione “ortodosso radicale” e l’opera filosofico-teologica del
Beato Antonio Rosmini
Se vi è un movimento o, meglio, una sensibilità teologica che ha fatto della
ricerca di elementi di ri-generazione e della loro proposta un elemento fondamentale
del proprio procedere, questa realtà è pienamente rappresentata da Radical
Orthodoxy. Fondata a Cambridge nella seconda metà degli anni Novanta del
Novecento, tale sensibilità teologica ha trovato espressione nel volume di saggi dal
titolo Radical Orthodoxy. A new theology e nel capolavoro milbankiano Theology
and Social Theory2. Forte delle due parole d’ordine (postmodernità e partecipazione)
che secondo Catherine Pickstock costituiscono un patrimonio condiviso dagli
aderenti, il movimento ortodosso radicale intende offrire una lettura del decorso
del pensiero occidentale che rilanci il sapere teologico, unito in radice a quello
filosofico, come antidoto alla deriva nichilista contemporanea3. La meta-narrazione
offerta trova, da un lato, all’origine della secolarizzazione – ritenuta responsabile
dell’esito nichilista – una curiosa eterogenesi dei fini all’opera nel pensiero
sviluppato da Giovanni Duns Scoto e da Guglielmo di Ockham. Allontandandosi
dal dispositivo teo-ontologico della partecipazione, col fine di ideare un pensiero pù
affine al cristianesimo, questi pensatori francescani hanno in realtà posto le basi
per quella separazione tra filosofia e teologia che aprirà le porte alla legittimazione
del secolare. La ricostruzione genealogica del decorso del pensiero occidentale
operata da Milbank mostra i legami tra questa svolta, propriamente teologica, e le
forme della ragione secolare (liberale, positiva, dialettica e pensiero della
2 J. MILBANK - C. PICKSTOCK - G. WARD (edd.), Radical Orthodoxy. A new Theology, Routledge, London
and New York 1999 e J. MILBANK, Theology and Social Theory. Beyond Secular Reason, Second
edition, Blackwell Publishing, Oxford 2006. 3 C. PICKSTOCK, Is Orthodoxy Radical?, in J. MORRIS (ed.), Faith and Freedom - Exploring Radical Orthodoxy, «Third Millennium. The Journal of Affirming Catholicism», 6 (2003), pp. 5-16, qui, 10.
3
differenza). Dall’altro, a fronte dell’interpretazione secolare del postmoderno (come
rovesciamento anarchico della univocità nell’eterogeneità, attuazione del molteplice
in quanto molteplice, pensiero debole, ecc.), l’Ortodossia radicale vuole interpretare
la post-modernità come quell’epoca (la nostra!) in cui non si deve più sottostare ai
pregiudizi imposti dalla modernità come la neutralità secolare, l’insuperabilità del
binomio soggetto-Stato, il confinamento della religione nella sfera privata, la
separazione tra ragione e fede, ecc. Si tratta cioè di leggere nell’attuale stallo
nichilistico un kairos, un tempo opportuno e favorevole, per preparare la strada
verso una società autenticamente post-moderna, perché post-secolare e post-
individualista. L’autentico soggetto di questo cambiamento culturale, insieme e
oltre le minoranze creative che operano nel campo accademico o intellettuale come
la stessa Ortodossia radicale, è riconosciuto nella Chiesa Cattolica. Ad essa viene
affidato il compito di favorire un’autentica rigenerazione, al di là della «falsa
umiltà»4 di molta teologia moderna e contemporanea, che – tutelando le proprie
insufficienze sotto la pur valida etichetta della “svolta antropologica” – si vuole più
attenta ad ascoltare gli imperativi kantiani che non la parola di grazia che esprime
il “pensiero di Cristo” (1Cor 2,16).
Dopo aver esaminato, in altra sede, la compatibilità tra la concezione
rosminiana del rapporto esistente tra filosofia e teologia e quella ortodosso radicale
e milbankiana, qui intendiamo far riferimento ad altri due elementi che riteniamo
capaci di contribuire alla ri-generazione, sia da parte di Rosmini, sia da parte
dell’Ortodossia radicale. Il primo tema, che non posso sviluppare in questa sede,
riguarda il senso stesso di modernità, con tutto il peso che comporta il confronto
con un pensatore “moderno” come Rosmini. La post-modernità, autenticamente
tale perché post-secolare, verso cui converge l’impegno intellettuale di Milbank e di
4 J. MILBANK, Theology and Social Theory…, p. 1: «The pathos of modern theology is its false humility.
For theology, this must be a fatal disease, because once theology surrenders its claim to be a metadiscourse, it cannot any longer articulate the word of the creator God, but is bound to turn
into the oracular voice of some finite idol, such as historical scholarship, humanist psychology, or
transcendental philosophy. If theology no longer seeks to position, qualify or criticize other
discourses, then it is inevitable that these discourses will position theology: for the necessity of an
ultimate organizing logic […] cannot be wished away. A theology ‘positioned’ by secular reason
suffers two characteristic forms of confinement. Either it idolatrously connects knowledge of God with some particular immanent field of knowledge – ‘ultimate’ cosmological causes, or ‘ultimate’
psychological and subjective needs. Or else it is confined to intimations of a sublimity beyond
representation, so functioning to confirm negatively the questionable idea of an autonomous secular
realm, completely transparent to rational understanding».
4
coloro che condividono la sensibilità ortodosso radicale significa forse una sorta di
damnatio memoriae della modernità? Come ribadito più volte dai suoi stessi
esponenti l’Ortodossia radicale non pretende in alcun senso riproporre un
anacronistico ritorno al tempo dei Padri della Chiesa o dei Dottori medievali fino
all’Aquinate, ma sostiene che il loro impianto teo-ontologico può essere riproposto
alla contemporaneità post-secolare. Lungi dall’esprimersi in termini nostalgici, tale
riproposizione comporta una rilettura della modernità in modo da offrire
un’alternativa moderna alla modernità consueta. Se il mainstream della modernità
viene rappresentato da quella che Milbank chiama meta-narrativa protestante, che
si sviluppa sulla svolta epocale attuata dall’imporsi del volontarismo e ancor più
del nominalismo, la modernità alternativa proposta dall’Ortodossia radicale conta
tra i suoi protagonisti pensatori come Meister Eckhart, Pico della Mirandola,
Nicholas of Cusa, Giambattista Vico, Johann Georg Hamann, Friedrich Heinrich
Jacobi, Johann Gottfried Herder, Samuel Taylor Coleridge, Soren Kierkegaard,
Maine de Biran, Felix Ravaisson e Gilbert Keith Chesterton5. L’interrogativo che mi
sono posto per preparare il presente contributo e che vuole concretizzare l’esigenza
espressa nel titolo Rosmini “dopo” Milbank non coincide esattamente con i tentativi
compiuti per considerare, ad esempio, il Roveretano come precursore di Karl
Rahner o di Henri de Lubac, ma con quest’altra domanda: può Rosmini essere
considerato un’espressione della modernità alternativa così come viene reperita da
Milbank? Può venir inserito nella lunga, quanto esemplificativa, catena di pensatori
situabili a lato del mainstream che da Descartes, attraverso Kant ed Hegel, giunge
fino a Nietzsche ed anche oltre? Accogliendo anche il suggerimento di Augusto del
Noce, che sosteneva per altre vie l’esistenza di una modernità alternativa proprio
per riferimento a Rosmini, mi sento di sostenere che il pensiero rosminiano possa
essere accolto tra i punti di riferimento ortodosso radicali nella veste di un fecondo
e originale interlocutore.
Tra i criteri utilizzati per valutare tale collocazione, il pensiero elaborato da
Rosmini sul rapporto tra grazia e natura risulta uno dei più convincenti in ordine
alla sua comprensione nella meta-narrativa cattolica ricostruita dal maggior teorico
ortodosso radicale. Questo costituisce il nostro secondo tema, che invece mi
5 Tra le altre opere, cfr. J. MILBANK, The grandeur of reason and the perversity of rationalism: Radical Orthodoxy’s first decade, in ID. - S. OLIVER (eds.), The Radical Orthodoxy Reader, Routledge, London
and New York 2009, pp. 367-404.
5
accingo a sviluppare. Poiché si tratta qui di delineare qualche elemento di ri-
generazione per il nostro tempo, a partire dalla lettura delle opere di Rosmini in
particolare “dopo Milbank”, ritengo possa essere utile mostrare gli elementi di ri-
generazione autenticamente post-moderna sottolineati dal teologo inglese quanto
al rapporto tra natura e grazia, per poi presentare qualche pagina – tratta
dall’Antropologia soprannaturale – a riguardo della quale intendo suggerire una
possibile lettura simpatetica tra la speculazione del Roveretano, messa per iscritto
nella prima metà del diciannovesimo secolo, e quella proposta oggi da Milbank.
2. Elementi del rapporto tra grazia e natura secondo Milbank
I grandi punti di riferimento della speculazione milbankiana sul rapporto
esistente tra grazia e natura sono la dottrina di san Tommaso d’Aquino,
liberamente interpretata a partire dai testi, piuttosto che rimasticata secondo le
schematizzazioni della Seconda Scolastica o della Neoscolastica, e la riflessioni
storica e teorica di Henri de Lubac. Prendiamo come riferimento l’intenso
contributo che Milbank ha dedicato al teologo gesuita, che in italiano è stato
pubblicato col titolo Il Fulcro sospeso6. Quest’opera, da un lato, viene alla luce come
un dovuto omaggio di Milbank ad teologo cui è particolarmente debitore
nell’impostazione fondamentale del proprio pensiero e, dall’altro, s’inserisce
all’interno di una sorta di ripresa e di rivalutazioni delle tesi di de Lubac,
soprattutto rispetto al pensiero d’ispirazione tommasiana7. Non si tratterà,
pertanto, di leggere Milbank come esegeta del teologo gesuita, quanto di cogliere la
6 J. MILBANK, The Suspended Middle. Henri de Lubac and the Debate concerning the Supernatural,
William B. Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids, Michigan / Cambridge, U.K. 2005; edizione italiana rivista e amplita dall’Autore, Il fulcro sospeso. Henri de Lubac e il dibattito intorno al soprannaturale, a cura di M. Salvioli, ESD, Bologna 2013. 7 A dieci anni dalla scomparsa del teologo gesuita sono infatti usciti due notevoli contributi dedicati
al suo pensiero relativo all’Aquinate: l’equilibrata posizione espressa in S.-T. BONINO (ed.), Surnaturel. Une controverse au coeur du thomisme au XXe siècle, «Revue Thomiste» CII, 1-2 (2001) e
la ripresa critica delle tesi contestate da de Lubac condotta da L. FEINGOLD, The Natural Desire to See God According to St. Thomas Aquinas and His Interpreters, Apollinare Studi, Roma 2001.
Soprattutto negli Stati Uniti, anche a seguito della pubblicazione del contributo di Milbank, si è aperto un vivace dibattito che dura tutt’ora. Tra gli interventi critici di de Lubac e di Milbank segnalo R. HÜTTER, Desiderium Naturale Visionis Dei – Est autem duplex hominis beatitudo sive felicitas: Some Observations about Lawrence Feingold’s and John Milbank’s Recent Interventions in the Debate
over the Natural Desire to See God, «Nova et Vetera» 5 (2007) 81-131. Per una presentazione, da
parte lubachiana, del dibattito (cui rimando per ulteriori indicazioni bibliografiche), cfr. N. J. HEALY, Henri de Lubac on Nature and Grace: A Note on Some Recent Contributions to the Debate, «Communio»
35 (2008) 535-564.
6
direzione nella quale l’Autore di Il fulcro sospeso intende muoversi rispetto al tema
della partecipazione dell’uomo alla natura divina.
Secondo Milbank, insieme al Pic de la Mirandole, capace di svelare al
tramonto dell’avventura lubachiana il potente afflato umanistico cristiano del
teologo gesuita che si riconosce nell’alba incompiuta del Rinascimento, il Surnaturel
(1946) è l’opera più radicale nel superare la moderna tentazione dualistica quanto
al rapporto tra grazia e natura. Questo perché, all’epoca, de Lubac non sarebbe
stato traumatizzato dalla pubblicazione dell’Humani generis da parte di Pio XII,
come risulterà in seguito dal tentativo di attenuare in senso «aspirazionale» più che
«partecipatorio», la propria teoria del desiderio naturale del soprannaturale8. Al di
là della fragilità di questa interpretazione psicologistica, cui stranamente Milbank
si affida, quest’impostazione rimane nondimeno rivelatrice dell’interno del teologo
britannico di portare alla luce i lati più radicali del pensiero del teologo francese,
quelli meno accomodanti rispetto ad una concezione che – senza esprimersi in
modo teoricamente stringente – pur continuava a considerare il riferimento ad una
natura ut sic l’unica possibilità per pensare effettivamente la gratuità del
soprannaturale.
L’importanza di Surnaturel non è limitata, per Milbank, alla sola questione
impugnata dai neotomisti e segnalata dall’Enciclica, ma si estende soprattutto a
tre fattori ritenuti decisivi per il ripensamento della teologia in chiave post-moderna
(teoretico, culturale e sociale). In questo modo il teologo anglicano rende ragione
sulla sua interpretazione di de Lubac come il teologo pià rivoluzionario del XX
secolo, in quanto avrebbe con le sue tesi inaugurato (seppur anacronisticamente)
uno stile teologico effettivamente post-moderno9.
In primo luogo, occorre sottolineare la delocalizzazione del discorso
lubachiano rispetto ai luoghi moderni del pensare in vista di una ricollocazione che
sia capace di descrivere una nuova «grammatica» della vita cristiana, le cui
categorie fondamentali siano descritte da una nuova ontologia, o meglio, se si tiene
8 Cfr. J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, p. 34: «Effettivamente, dopo la Humani generis, fatta eccezione
delle ricerche storiche, de Lubac si presenta fino a un certo punto come un teologo balbuziente,
forse traumatizzato, deciso ad esprimere se stesso attraverso frammenti piuttosto indiretti» e pp.
70-71. 9 Cfr. J. MILBANK, The programme of Radical Orthodoxy, in L. P. HEMMING (ed.), Radical Orthodoxy? A Catholic Enquiry, Ashgate, Burlington USA 2000, pp. 33-45, qui, p. 35.
7
presente che ontologia è il nome di una disciplina che pretende di descrivere
l’essere indipendentemente da ogni successiva connotazione teologica, una «non-
ontologia». Coerentemente con l’operazione del ressourcement, quest’ambito del
sapere non è una proiezione etimologicamente u-topica della fantasia di qualche
teologo, ma coincide tradizionalmente con il luogo dischiuso dalla Sacra doctrina o
da quella che, in modo non del tutto felice, si dovette chiamare filosofia cristiana10.
Questa prima annotazione rende ragione del titolo stesso del volume, tratto da
un’espressione di von Balthasar11, che vuole collocare il discorso di de Lubac oltre
la dicotomia costituita da teologica filosofica e teologia rivelata, a partire da
un’esplorazione di ciò che sta sospeso tra i due discorsi e che, in un certo qual
modo, li comprende in quanto – come abbiamo visto – si dà come partecipazione
della stessa scientia Dei. Via aperta, in modo non poco sorprendente, dalla
«paradossale definizione della natura umana come intrinsecamente elevata sopra
a se stessa fino alla “sopra-natura” della divinità»12. È in forza di questo paradosso
che l’opera di delocalizzazione e ricollocazione lubachiana assume, per Milbank i
tratti di un gesto che intende decostruire dall’interno la dicotomia moderna13.
Decostruzione che si produce positivamente in una descrizione paradossale, non
razionalisticamente dominabile, di un rapporto di partecipazione, ontologicamente
donato e incompiuto, a motivo del ruolo giocato inevitabilmente dalla libertà
10 Cfr. ivi, 5 e 11-12. Per la concezione lubachiana del dibattito e della nozione relativi alla
controversa denominazione, cfr. H. DE LUBAC, La filosofia cristiana. Riflessioni in seguito a un dibattito, in ID., Spirito e libertà, (Opera Omnia di Henri de Lubac, Sezione quarta, Soprannaturale,
vol. 13), Jaca Book, Milano 1980, 317-342. 11 Cfr. H. U. VON BALTHASAR, The Theology of Henri de Lubac: An Overview, Ignatius Press, San
Francisco 1991, 15: «De Lubac soon realized that this position moved into a suspended middle in
which he could not practice any philosophy without its transcendence into theology, but also any
theology without its essential inner structure of philosophy». Al di là di questo debito “espressivo”,
il volume di Milbank viene ad essere piuttosto ostile alla posizione di von Balthasar, forse anche a
motivo dell’esigenza di riportare al centro della ricerca l’opera lubachiana. Milbank muove un elenco
critiche al pensiero del teologo svizzero che vanno da un’eccessiva dipendenza da Barth, ad una iniziale e controproducente accettazione della formulazione rahneriana del rapporto tra natura e
grazia, fino alle critiche relative ad un influsso eccessivo dell’idealismo tedesco (Kant e Schelling)
che condurrebbero ad una restituzione gnosticheggiante del mistero della Croce, fino a turbare la
relazione tra Creatore e creatura implicita nell’ammissione di un reale guadagno prodotto nella
Trinità a motivo dell’umanità sofferente di Cristo. Non potendomi qui soffermare sulla proprietà di tali critiche, rimando allo stesso J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, pp. 98-111 e al commento critico di E. T. OAKES, S. J., The paradox of Nature and Grace: On John Milbank’s The Suspended Middle…,
681-692. 12 Cfr. J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, p. 5: «la paradossale definizione della natura umana come
intrinsecamente elevata, al di sopra di se stessa, alla “sopra-natura” della divinità». 13 Cfr. ivi, p. 38: «la tesi di Surnaturel decostruisce la possibilità della teologia dogmatica, come la si
comprendeva nei tempi moderni, così come decostruisce la possibilità di una teologia filosofica e persino di una filosofia tout court decisamente autonoma».
8
dell’uomo pensata come dono di Dio fatto all’uomo, che ne impedisce una
descrizione in termini meccanisticicamente lineari:
Quest’enigma, per de Lubac, si sviluppava sempre ugualmente secondo due opposte
direzioni. Da una parte, lo straordinario, il soprannaturale, che si manifesta sempre
all’interno della creazione, è inscritto nel cuore dell’ordinario: esso è «precisamente il reale»,
come scrisse Bresson. Dall’altra parte, l’ordinario (e dato sempre al suo cuore) rinvia oltre
se stesso e, nella natura spirituale, aspira verso l’alto, a ciò che vi è di più alto. La grazia è
sempre chenotica; la natura è sempre elevata, ma non distrutta. Tuttavia, in forza di un
paradosso simmetrico, il ‘di più’ che è richiesto dalla natura può essere solamente ricevuto
da Dio come un dono14.
In altri termini, si tratta di concepire la relazione di grazia come l’accoglienza
di quell’Amore di Dio che desideriamo intimamente e sopra ad ogni cosa – benché
non ne abbiamo la piena consapevolezza, se non accogliendolo sempre più
integralmente – e che in un qualche modo attendiamo, ma non al modo di un diritto
che dev’essere soddisfatto, ma nella forma di un dono che ci conduca a pienezza
con l’altro. Chi desidererebbe essere amato al modo di un debito da riscuotere? Non
attendiamo, forse, che l’amore e anche la beatitudine ci vengano incontro come un
dono che abbiamo desiderato concretamente vivendo secondo un certo stile?
L’amore che dovessimo ricevere “su ordinazione” (on demand), ricorda
opportunamente Fergus Kerr, non sarebbe tale15.
In secondo luogo, ossia dal punto di vista culturale, Surnaturel si mostra
decisivo nel ripensare i termini del rapporto tra umanesimo e religione, ancorché
in modo incoativo. Solo il Pic de la Mirandole espliciterà l’intera posta in gioco nel
ritenere che il cristianesimo sia un umanesimo, il quale, però, trova il suo
contradditorio nell’umanesimo secolaristico, quasi al modo della contraddizione
insita nell’affermare insieme che la neve è bianca e non è bianca. In termini storico-
culturali, la ripresa della connotazione umanistica del cristianesimo, da parte di de
Lubac, viene a dirci che l’umanesimo o è cristiano o si auto-distrugge, in quanto
14 Cfr. ivi, pp. 31-32. 15 Cfr. F. KERR, After Aquinas. Versions of Thomism, Blackwell Publishing, Oxford 2002, p. 148. La
sorgente di queste considerazioni si può ritrovare in H. DE LUBAC, Surnaturel. Études historiques
(1946), Éd. prép. et préf. par M. Sales, S.J., Lethielleux, Groupe DDB, Paris 2010, p. 483: «L’esprit,
en effet, ne désire pas Dieu comme l’animal désire sa proie. Il le désire comme un don. Il ne cherche
point à posséder un objet infini: il veut la communication libre et gratuite d’un Etre personnel».
9
l’uomo è uomo secondo il disegno divino solo partecipando gratuitamente del
Trinitas-Deus o, in termini cristologici, solo Cristo rivela l’uomo all’uomo. Nei
termini di Milbank: «la cristianità è un umanesimo, altrimenti viene frainteso.
D’altra parte, l’umanesimo secolare è l’assoluta antitesi del Vangelo»16.
È nel momento stesso in cui rilegge Surnaturel, che Milbank sviluppa la
dialettica paradossale – in questo molto lontana da quella di matrice hegeliana –
che permette di cogliere l’intreccio e la posta in gioco propri dell’umanesimo
autenticamente cristiano. Secondo de Lubac, il Caetano – così come emerge dalla
sua lettura del desiderio naturale di vedere Dio – introdurrebbe un nuovo modo di
concepire il rapporto tra l’umanità e il cristianesimo. Riducendo quella paradossale
intuizione dell’Aquinate ad un mero desiderio elicito, ossia puramente volontario,
ancorché occasionato dall’intelletto, il Caetano inaugurò la dottrina della natura
pura, secondo la quale – seguendo più Aristotele, che i Padri della Chiesa e lo stesso
san Tommaso – sarebbe possibile affermare che l’essenza dell’uomo, nella sua
concretezza, è pienamente definibile in termini naturali. Il carattere di dono,
proprio della divinizzazione, risulta essere così destinazione totalmente estrinseca,
sopraggiunta ed eventuale dell’umano17. Tradotta in termini culturali, questa
mentalità ha consentito l’imporsi di una frattura devastante per l’unità
dell’orizzonte umanistico-cristiano: da un lato, infatti, insieme alla duplicazione dei
fini dell’umanità (uno naturale e uno soprannaturale) si sarebbe prodotta anche
una progressiva erosione del primato della causa finale, con l’aggravante che il
modo d’essere della creatura non era più pensato a partire dal massimo disponibile
(foss’anche con l’ausilio della grazia santificante), ma a partire da «un’auto-
sostenibilità minima» che ha aperto la strada per concepire la finalità personale e
sociale nella logica della semplice sopravvivenza e di una libertà e di un benessere
puramente quantitativi. Più che alla natura pura, quindi, un tale esito è da
attribuire ad una progressiva decadenza del primato della teleologia – quindi
dell’escatologia o, se si vuole, del punto di vista anagogico sulla realtà – che ha
consentito il surrettizio primato di «una logica dell’auto-regolazione e dell’auto-
sufficienza». Da un punto di vista genealogico, questa trasformazione culturale, che
trova per Milbank le sue radici nell’opzione scotista per l’univocità dell’ente insieme
16 J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, p. 37: «il cristianesimo è un umanesimo, altrimenti viene frainteso.
L’umanesimo secolare, d’altronde, è l’antitesi assoluta del Vangelo». 17 Cfr., ibid., 44-45.
10
al rifiuto della centralità della partecipazione, passando per l’attestazione del
paradigma della natura pura (da Caetano, tramite Suárez, fino a Kant), si produce
in una concezione dell’autonomia tutt’altro che desiderabile:
dove la morale è tagliata fuori dalla pratica religiosa e dalla perdita-di-sé mistica, è probabile
che si abbiano come risultato programmi disicplinari senza gioia per massimizzare
l’efficienza corporea e, a lungo termine, culti nichilistici del potere individuale e collettivo18.
Alla vicenda dell’autonomia umanista, consentita in radice da una teologia
non pienamente corrispondente a se stessa, si accompagna la non meno
problematica parabola che sfocia ne «l’illusoria pietà di una religione senz’umanità
prodotta dalla comprensione neo-scolastica della grazia»19, incapace di informare
ogni aspetto dell’umana convivenza, dalla politica all’arte, dall’educazione
all’ambiente fino alla comprensione della corporeità o di altre sfere della vita
personale. È in questo senso che la comprensione della grazia nel contesto della
partecipazione – ossia, nei termini di Milbank, come «immissione partecipatoria
nella natura divina» - diviene, contrariamente agli sviluppi più deleteri della
modernità, la condizione di possibilità perché la politica non si eserciti in ordine ad
un puro culto del potere, così come la stessa comprensione della grazia sia resa
immune nei confronti di un’auto-referenzialità che comporta uno speculare
dominio clericale20. L’ultimo tratto della ricaduta del tema della relazione tra natura
e grazia sulla cultura, come approfondisce bene Venard cui rimando21, consiste
nella relazione colta da de Lubac, nel contesto dello studio su Pico della
18 Ibid., p. 49. 19 Ibid., p. 50. 20 Ivi, 22. Questo tema, nella forma di una scissione tra “amore” e “potere” nella modernità, era stato efficacemente messo in luce da C. PICKSTOCK, After Writing…, 157: «it has been seen how power
and love were gradually sundered to produce a loveless power and an impotent love, which no longer
had any primacy in the sacral economy. The transfer of focus from charity as the bond between us and God, whereby God was this very bond, to the idea of a primary submission to an inscrutable
divine will, meant that an extreme, although distorted, piety which stressed God’s ability to change
things and work miracles itself encouraged a new cult of power in every domain of human life.
Power became something increasingly “virtual” and abstractable from affectionate social bonds, from kinship and ritual action, while the public love that remained came to be ragarded as a formal,
abstract duty towards strangers, enshrined in the humanist protocols of civility. […] By contrast,
the complex rituals and institutions of charity in the early and high Middle Ages made possible a
fusion of love and power upon a liturgical basis». 21 Cfr. O.-T. VENARD, O.P., Préface. Vers une renaissance théologique, a J. MILBANK, Le milieu suspendu…, 9-16.
11
Mirandola22, tra quelle che possiamo chiamare le dimensioni orizzontale e verticale
dell’apertura umana a ciò che oltrepassa intrinsecamente la sua natura, intesa in
senso essenzialistico, sulla base di una più generale analogia tra lo stato di grazia
e l’arte fondata su di una più generale analogia cristologica. Per Pico, così come e
forse ancor più per Nicolò Cusano, l’uomo si colloca culturalmente al di là della
propria conformazione naturale attraverso lo sviluppo culturale in quanto,
costituiti in grazia, gli uomini sono fin da principio creature che “sporgono” oltre i
limiti imposti dalla stessa natura23. Secondo Milbank, quindi,
da qui de Lubac inizia a suggerire un legame tra il supplemento di grazia verticale,
paradossalmente necessario (per la natura umana), e il supplemento orizzontale di cultura
(evento e segno) paradossalmente necessario (per la natura umana)24.
In terzo luogo, ritengo quindi utile menzionare un tratto più discreto della
lettura milbankiana, ancorché strategico per comprendere il legame tra il pensiero
di de Lubac e il progetto complessivo del teologo britannico, in vista della rilettura
del progetto teologico e filosofico di Antonio Rosmini. L’antropologia cristiana
implicita tra le pieghe della disputa sul soprannaturale comporta la consapevolezza
che non siamo fatti per pervenire al nostro fine in modo solitario, ma per
raggiungerlo insieme a Dio e al prossimo, come, d’altra parte, è inscritto nel senso
stesso nei due precetti della carità. Che ne è, pertanto, della ricaduta di questo
dibattito sul piano più prettamente sociale, a partire dall’analisi del quale Milbank
ha iniziato a proporre decisamente la via lubachiana? Benché non trattato in modo
esteso, il nucleo del discorso può essere evinto dalla prima delle cinque citazioni
che Milbank pone in apertura de Il fulcro sospeso, tratta da una citazione dell’Etica
Nicomachea (III.3) fatta da san Tommaso d’Aquino: «quello che possiamo fare
mediante gli amici, in qualche modo, lo posssiamo da noi stessi»25. Nel commentare
22 Cfr. H. DE LUBAC, Pico della Mirandola. L’alba incompiuta del Rinascimento, (Opera omnia di Henri
de Lubac, vol. 29), Jaca Book, Milano 1977. 23 Cfr. J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, 25. 24 Ibid., p. 89: «Da qui de Lubac inizia ad ipotizzare l’esistenza di un collegamento tra il
paradossalmente necessario (per la natura umana) supplemento verticale della grazia e il paradossalmente necessario (per la natura umana) supplemento orizzontale della cultura (evento e
segno)». L’intero progetto linguistico-culturale di Milbank, presentato soprattutto nella prima raccolta di saggi The Word Made Strange, sembra trovare in una considerazione simile – tratta dallo
studio del Cusano – l’elemento ispirativo originante. 25 ST I-II, q. 5, a. 5, ad 1m: «sicut natura non deficit homini in necessariis, quamvis non dederit sibi
arma et tegumenta sicut aliis animalibus quia dedit ei rationem et manus, quibus possit haec sibi
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quest’espressione, il teologo di formazione cantabrigense sottolinea come essa –
interpretata alla luce della questione sulla visio beatifica – costituisca un ottimo
esempio della paradossalità dell’antropologia teologica, in quanto «ciò che è
interamente fatto per noi da Dio, ovvero la divinizzazione per grazia, è al tempo
stesso il nostro atto più alto e, come tale, propriamente nostro, anzi, l’atto che è
più propriamente nostro»26. A mio avviso, sulla linea di quanto detto sopra sulla
questione della cultura, anche nel caso della grazia, come auxilium, tenendo conto
della declinazione tommasiana della caritas come amor amicitiae, è possibile
declinare il nostro tema principale secondo una linea verticale (qui descritta) e
secondo una linea orizzontale (nel medesimo Disegno), da pensarsi nella direzione
del legame sociale reso possibile dalla partecipazione effettiva alla carità teologale.
In questo senso, benché non esplicitamente ripreso da Milbank, si può leggere sulla
scorta del lubachiano Catholicisme la tesi esposta in Theology and Social Theory
rispetto all’ecclesiologia come sociologia compiuta27.
Detto questo occorre ancora, tuttavia, mettere a fuoco il nucleo
incandescente della dottrina lubachiana. Si tratta evidentemente di quella che
potrebbe essere definita come “teologia metafisica dello spirito creato”, in quanto
dimensione partecipativa intrinsecamente richiesta dalla prospettiva paradossale
del desiderio naturale del soprannaturale, laddove si avverta che il discorso
sull’uomo è essenzialmente teocentrico28. Nell’affermare che de Lubac ha avuto il
conquirere; ita nec deficit homini in necessariis, quamvis non daret sibi aliquod principium quo
posset beatitudinem consequi; hoc enim erat impossibile. Sed dedit ei liberum arbitrium, quo possit converti ad Deum, qui eum faceret beatum. Quae enim per amicos possumus, per nos aliqualiter
possumus, ut dicitur in III Ethic.». Si veda anche, nel contesto delle questioni dedicate alla grazia,
ivi, I-II, q. 109, a. 4, ad 2m: «illud quod possumus cum auxilio divino, non est nobis omnino
impossibile; secundum illud philosophi, in III Ethic., quae per amicos possumus, aliqualiter per nos possumus. Unde et Hieronymus ibidem confitetur sic nostrum liberum esse arbitrium, ut dicamus nos semper indigere Dei auxilio». 26 J. MILBANK, Il fulcro sospeso..., p. 26. Milbank riprende il passo in esame in relazione all’analogia
tra grazia e cultura, cfr. ivi, pp. 135-137. 27 Cfr. anche, elaborato rispetto alla decisiva categoria del dono, J. MILBANK, Politics. Socialism by Grace, in ID., Being Reconciled. Ontology and pardon, Routledge, London and New York 2003, pp.
162-186, in part., p. 178. 28 Cfr. H. DE LUBAC, Surnaturel..., p. 493: «Ce qui est maintenant en question, ce n’est pas les droits
que nous aurions sur Dieu, c’est les droits que Dieu a sur nous. Il s’agit d’en mesurer toute
l’étendue. Si l’on reconnaît ensuite que l’aspect anthropocentrique est lié à l’aspect théocentrique au point d’en être objectivement inséparable, on ne conclura qu’il ne peut y avoir pour l’homme
qu’une fin: la fin surnaturelle, telle que l’Evangile la propose et que la théologie la définit par la
“vision béatifique”». A partire dagli sviluppi della teologia contemporanea penso che non sia difficile
comprendere come questo teocentrismo sia compatibile, e tutt’altro che avverso, al cristocentrismo.
Ad ogni modo, questo ricentramento su Dio è riconosciuto come un merito della ripresa del tema
13
merito di inaugurare un discorso innovativo, sorto dal fiume stesso della tradizione,
in cui lo spirito viene ad essere pensato secondo la categoria del “dono”. Se, per
quanto attiene alla creazione, lo spirito creato è dono di Dio a se stesso, così la
divinizzazione divine un dono fatto ad un dono, nel quadro dell’unico dono di Dio,
secondo il quale, scrive de Lubac, «è il soprannaturale, se così si può dire, che
suscita la natura prima di metterla in condizione di accoglierlo»29. Parafrasando
l’Assioma tomista, si può forse affermare che in de Lubac è in gioco una visione
secondo la quale gratia ponit naturam, et supponit et perficit eam, nel senso che la
natura dell’uomo dev’essere spiegata e compresa a partire da Trinitas-Deus che l’ha
creata a sua immagine e somiglianza in Cristo (Gv 1,3; Col 1,15-20), per poi,
nonostante la caduta, confermarle il dono inesigibile della divinizzazione in forza
della fedeltà misericordiosa al suo Disegno d’Amore.
Come restituisce Milbank l’ampio orizzonte teologico sotteso a questa
concezione? A mio parere, tentando di pensare insieme l’essere, la libertà e il dono
come intrecciantisi nella concezione dello spirito creato, in quanto intrinsecamente
chiamato a partecipare per grazia della natura divina. Si tratta, come tiene a
sottolineare il teologo britannico, di un tentativo teologico che si pone in sintonia
con la ripresa degli studi tommasiani in direzione neoplatonica ed agostiniana, il
quale porta de Lubac, per converso, a recepire un sant’Agostino più umanistico e
prossimo all’Aquinate30. Seguendo la linea del soprannaturale nel Doctor
communis, tenendo conto delle integrazioni coerenti con le analisi del Surnaturel
presenti nel lavoro del Bouillard31, Milbank procede all’illustrazione della
concezione lubachiana in cinque punti che consentono di mettere a fuoco il plesso
teologico metafisico relativo alla situazione dello spirito creato.
a. Per de Lubac, seguendo le indicazioni dell’Aquinate, la grazia non inerisce
alla realtà dello spirito creato come estrinseca, in quanto non è in forza di un
miracolo che tale natura viene a partecipare della stessa vita divina: la grazia
della grazia da parte di Milbank, cfr. O.-T. VENARD, O.P., Préface. Vers une renaissance théologique,
a J. MILBANK, Le milieu suspendu. Henri de Lubac et le débat sur le surnaturel, traduit par l’anglais
et préfacé par Oliveir-Thomas Venard, O.P., Ad Solem - Éditions du Cerf, Paris 2006, p. 7. 29 H. DE LUBAC, Il mistero del soprannaturale (1949), in I. MORALI, Henri de Lubac, Morcelliana,
Brescia 2002, p. 121. 30 Cfr. J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, p. 47. In nota, l’Autore ricorda che de Lubac, ad es. ne Il
mistero del soprannaturale come in Agostinismo e teologia moderna, cita positivamente le opere di
Geiger, de Finance e Fabro, oltre al Gilson. 31 Cfr. H. BOUILLARD, Conversion et grâce chez saint Thomas d’Aquin. Étude historique (Théologie, 1),
Aubier, Paris 1944.
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perfeziona, per così dire, dall’interno la natura dello spirito creato, senza
interrompere paradossalmente l’ordine naturale32.
b. Ad ogni creatura spirituale, angelo o uomo, compete una condizione di
libertà, in quanto relazione alla legge divina e al fine ultimo soprannaturale. Non si
dà pertanto alcuno stato di “impermeabilità al peccato”, così come la natura che
fosse coinvolta nel peccato non verrebbe per questo totalmente distrutta33.
c. Il desiderio naturale di vedere Dio è intrinsecamente connesso con il fatto
che ogni creatura spirituale è una creatura “intellettuale” e, pertanto, viene attratta
al proprio fine ultimo secondo il modo intellettuale per unirsi secondo la visio
beatifica34. Poiché l’anima intellettiva è l’unica forma del corpo umano, occorre
32 Il riferimento è a ST I-II, q. 113, a. 10, co: «iustificatio impii non est miraculosa, quia naturaliter anima est gratiae capax; eo enim ipso quod facta est ad imaginem Dei, capax est Dei per gratiam, ut
Augustinus dicit». Ritengo poi sia utile tenere presente la prospettiva generale dell’Aquinate espressa in modo eccellente in ST I-II, q. 112, a. 1, co: «Donum autem gratiae excedit omnem
facultatem naturae creatae, cum nihil aliud sit quam quaedam participatio divinae naturae, quae
excedit omnem aliam naturam». 33 Cfr. ST I, q. 83, a. 2, ad 3m: «homo peccando liberum arbitrium dicitur perdidisse, non quantum
ad libertatem naturalem, quae est a coactione; sed quantum ad libertatem quae est a culpa et a miseria» e ST I-II, q.63, a. 1, co. 34 Cfr. soprattutto SCG, l. III, c. 25: «Cum autem omnes creaturae, etiam intellectu carentes,
ordinentur in Deum sicut in finem ultimum; ad hunc autem finem pertingunt omnia inquantum de
similitudine eius aliquid participant: intellectuales creaturae aliquo specialiori modo ad ipsum
pertingunt, scilicet per propriam operationem intelligendo ipsum. Unde oportet quod hoc sit finis
intellectualis creaturae, scilicet intelligere Deum. Ultimus enim finis cuiuslibet rei est Deus, ut ostensum est. Intendit igitur unumquodque sicut ultimo fini Deo coniungi quanto magis sibi
possibile est. Vicinius autem coniungitur aliquid Deo per hoc quod ad ipsam substantiam eius
aliquo modo pertingit, quod fit dum aliquid quis cognoscit de divina substantia, quam dum
consequitur eius aliquam similitudinem. Substantia igitur intellectualis tendit in divinam
cognitionem sicut in ultimum finem. Item. Propria operatio cuiuslibet rei est finis eius: est enim secunda perfectio ipsius; unde quod ad propriam operationem bene se habet, dicitur virtuosum et
bonum. Intelligere autem est propria operatio substantiae intellectualis. Ipsa igitur est finis eius.
Quod igitur est perfectissimum in hac operatione, hoc est ultimus finis: et praecipue in
operationibus quae non ordinantur ad aliqua operata, sicut est intelligere et sentire. Cum autem
huiusmodi operationes ex obiectis speciem recipiant, per quae etiam cognoscuntur, oportet quod
tanto sit perfectior aliqua istarum operationum, quanto eius obiectum est perfectius. Et sic intelligere perfectissimum intelligibile, quod Deus est, est perfectissimum in genere huius
operationis quae est intelligere. Cognoscere igitur Deum intelligendo est ultimus finis cuiuslibet
intellectualis substantiae. Potest autem aliquis dicere intellectualis quidem substantiae ultimum
finem consistere in intelligendo optimum intelligibile: non tamen illud quod est optimum intelligibile
huius vel illius intellectualis substantiae, est optimum intelligibile simpliciter, sed quanto aliqua intellectualis substantia est altior, tanto suum intelligibile optimum est altius. Et ideo forte suprema
intellectualis substantia creata habet pro intelligibili optimo illud quod est optimum simpliciter,
unde eius felicitas erit in intelligendo Deum: cuiuslibet vero inferioris substantiae intellectualis
felicitas erit intelligere aliquod inferius intelligibile, quod est tamen altissimum eorum quae ab ipsa
intelliguntur. Et praecipue intellectus humani videtur quod non sit intelligere optimum intelligibile
simpliciter, propter eius debilitatem: habet enim se ad cognoscendum illud quod est maximum intelligibile sicut oculus noctuae ad solem. Sed manifeste apparet quod finis cuiuslibet substantiae
intellectualis, etiam infimae, est intelligere Deum. Ostensum est enim supra quod omnium entium
ultimus finis in quem tendunt, est Deus. Intellectus autem humanus, etsi sit infimus in ordine
intellectualium substantiarum, est tamen superior omnibus intellectu carentibus. Cum ergo
nobilioris substantiae non sit ignobilior finis, erit etiam intellectus humani finis ipse Deus.
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considerare che nel termine intellectus non si deve leggere una delle facoltà (e
tantomeno qualcosa di vagamente intellettualistico), quanto l’espressione sintetica
della natura propria dello spirito creato. Si tratta quindi di collocarsi sul piano
“ontologico”, e non su quello epistemologico, laddove – secondo il modello
neoplatonico radicalmente ripensato in senso cristiano, che conserva il primato
della causa finale – gli enti esistono solamente nel tendere, iuxta modum, a Dio. In
questo senso occorre specificare, a differenza dei Commentatori che si collocano
nel contesto della natura pura, come gli angeli e gli uomini […] come spiriti sono
chiamati in modo innato alla visione beatifica. La curiosità indotta dagli effetti
creati è in se stessa una curiosità erotica; mentre inversamente il desiderio “elicito”
di conoscere Dio è esso stesso un desiderio cognitivo. Non c’è (si può aggiungere a
de Lubac) nessuna dualità di volontà e intelletto, dovuta all’influenza scotista,
presente nell’Aquinate come vi è successivamente nel Caetano e in Suárez. De
Lubac stesso ha sempre insistito che la “volontà” nell’umanità non era una mera
facoltà, ma un’espressione integrale della personalità stessa: volontà, intelletto e
sentimento.
Secondo Milbank, la prospettiva dell’Aquinate, pertanto, sottraendosi
all’accusa di frammentare l’umano nel prisma delle facoltà, presenta
un’antropologia pienamente armonica, capace quindi di lasciarsi esprimere
dall’affermazione lubachiana secondo la quale «lo spirito [creato] è desiderio di
Dio»35. Inoltre, benché de Lubac esprima tale unitarietà con il termine “volontà”,
per Milbank il teologo francese si colloca all’opposto del volontarismo di ascendenza
francescana. Si tratta piuttosto di riconoscere un certo influsso di Rousselot per
cui la metafisica dello spirito è da pensarsi insieme – come «co-originaria» scrive
Milbank – alla metafisica dell’essere, come sant’Agostino e in modo prossimo a
Meister Eckhart:
Unumquodque autem intelligens consequitur suum finem ultimum per hoc quod ipsum intelligit,
ut ostensum est. Intelligendo igitur pertingit intellectus humanus ad Deum sicut ad finem. […]
Amplius. Unumquodque maxime desiderat suum finem ultimum. Intellectus autem humanus
magis desiderat, et amat, et delectatur in cognitione divinorum, quamvis modicum quidem de illis
percipere possit, quam in perfecta cognitione quam habet de rebus infimis. Est igitur ultimus finis hominis intelligere quoquo modo Deum». 35 H. DE LUBAC, Surnaturel…, p. 483: «L’esprit est donc désire de Dieu». Puntuale l’osservazione di
M.-D. CHENU, San Tommaso d’Aquino e la teologia, Piero Gribaudi Editore, Torino 1989, p. 99: «La
spiritualità di san Tommaso […] è inclusa, di fatto e di diritto, nella sua teologia. La fiducia
nell’intelligenza è l’effetto e la garanzia del senso del mistero. Nel tomismo, secondo la famosa frase
del Padre Gardeil, l’intellettualità include la spiritualità».
16
se l’esse è intellettuale fino in fondo, l’esse come tale dev’essere intelligere […]. Conosciamo
dalla nostra esperienza che l’intelletto è un tipo di ente che in un certo modo può “essere”
tutte le cose (come diceva Aristotele). Da qui se noi dovremmo dire che Dio in quanto esse
dev’essere in tutto intelletto, abbiamo in noi stessi qualche indizio sul motivo per cui l’esse
come tale è intellettuale36.
d. Nel quarto punto, Milbank qui riprende quanto già osservato, da un punto
di vista più strutturale, riguardo alla presenza d’immensità37. Si tratta infatti di
considerare la presenza di Dio, che si estende ad ogni ente, secondo la seguente
distinzione: in un modo Dio è presente al modo della causa efficiente, ossia come
l’oggetto di un’operazione (intellettiva o appettitiva) si trova in colui che conosce o
che desidera; in un altro, Dio è presente nella creatura ragionevole che lo conosce
e lo ama con una disposizione stabile, in forza della grazia. La presenza, secondo
modalità differenti, dello stesso Dio nelle profondità dell’anima costituisce quindi
quella che Milbank chiama «la nostra latente condizione mistica»38, indicata dal
paradossale orientamento della nostra natura al soprannaturale. Al limite,
specifica il teologo britannico nella lunga nota dove polemizza con il die-hard neo-
Thomist Feinberg, l’approfondimento di questo passaggio dell’Aquinate sembra
aprire uno spiraglio capace di sostenere un superamento della stessa posizione
lubachiana, in direzione della personale concezione di Milbank che propende per
36 J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, p. 84: «se l’esse è tutto e per tutto intelligere, l’esse come tale
dev’essere intelligere, in quanto – se un aspetto è nella condizione di permeare il tutto – l’esse
dovrebbe essere definito dal suo aspetto più alto. Conosciamo dalla nostra stessa esperienza che
l’intelletto è un tipo di ente che, in un certo qual modo, può “essere” tutte (come ha detto Aristotele). Se pertanto dobbiamo che Dio, in quanto esse, dev’essere interamente intelletto, allora in noi stessi
possediamo qualche indizio sul motivo per cui l’esse come tale è intellettivo». Cfr. P. ROUSSELOT,
L’intellettualismo di san Tommaso, a cura di C. Vigna, (Metafisica e storia della metafisica, 19), Vita
e Pensiero, Milano 2000, p. 6: «l’intelligenza, per san Tommaso, è essenzialmente il senso del reale, ma è il senso del reale soltanto perché è il senso del divino. Ecco, in poche parole, la concezione della
dottrina tomista che tenterò di esporre qui». 37 Cfr. ST I, q. 8, a. 3, co: «Deus dicitur esse in re aliqua dupliciter. Uno modo, per modum causae agentis, et sic est in omnibus rebus creatis ab ipso. Alio modo, sicut obiectum operationis est in
operante, quod proprium est in operationibus animae, secundum quod cognitum est in
cognoscente, et desideratum in desiderante. Hoc igitur secundo modo, Deus specialiter est in
rationali creatura, quae cognoscit et diligit illum actu vel habitu. Et quia hoc habet rationalis
creatura per gratiam, ut infra patebit, dicitur esse hoc modo in sanctis per gratiam». 38 J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, p. 63.
17
una lettura della presenza di grazia come più decisa intensificazione della presenza
per essenza, ossia al modo della causa efficiente nell’ordine dell’essere39.
e. Il quinto ed ultimo tratto riguarda appunto il rapporto tra l’essere e il dono,
come costitutivo dello spirito creato. Per Milbank, in un modo più esplicito rispetto
allo stesso de Lubac, il dono così come l’essere vanno inquadrati nel framework
della partecipazione. Come l’ente ha l’essere per partecipazione, il donum gratiae
consiste nell’attuare la partecipazione dell’uomo alla natura divina. Come
diveniamo per grazia ciò che Dio è per natura, così si deve affermare che noi siamo
per partecipazione, quello che Dio è per essenza. Il parallelo tra metafisica e sapere
della grazia tende poi ad intrecciarsi in un processo di revisione della stessa
ontologia, così come appare nella doverosa trasgressione del principio aristotelico
secondo il quale ogni autentico movimento verso il fine dev’essere compiuto con le
proprie risorse. Alla luce della sacra doctrina tale principio non può che manifestare
un immanentismo dissonante, che prelude ad una auto-referenzialità
individualistica incompatibile con il Disegno rivelato. Tale incompatibilità richiede
il superamento di quel principio in direzione di quella struttura paradossale per
cui, se «il desiderio naturale non può essere frustrato e, tuttavia, esso non può
venire soddisfatto da sé». Questo tenendo fermo il fatto che, per de Lubac come per
Milbank, «per la natura umana, il giusto requisito per il dono è esso stesso un dono
creato»40. In un altro luogo il teologo anglicano, rifacendosi ad un de Lubac ancora
libero dalle conseguenze traumatiche dell’Humani generis, giunge a sostenere che
in forza di qualche remota anticipazione della presenza divina che ne acuirebbe la
mancanza, il desiderio naturale del soprannaturale sarebbe da pensarsi come «il
dono dell’anticipazione del dono»41, avvicinandosi qui al tema classico della “grazia
preveniente”. O, come si esprime Olivier Boulnois riferendosi alla riscoperta di de
Lubac: «se tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza, la grazia divina agisce in
ciascuno di essi»42, essendo tutto il cosmo stato creato per essere ricapitolato in
Cristo (Ireneo di Lione).
39 Sempre in riferimento al passaggio citato della Summa, nella risposta a Feingold, cfr. ibid., p. 60:
«questo modo della presenza trova nella grazia il suo grado più intense, ad esclusione della
beatitudine». 40 Ibid., p. 64. 41 Ibid., 72. 42 O. BOULNOIS, Surnaturel, in J.-Y. LACOSTE (dir.), Dictionnaire critique de théologie, Troisième édition
revue et augmentée par O. Riaudel et J.-Y. Lacoste, Puf, Paris 2007, p. 1362: «si tous les homes
18
Se, in altri termini, pensiamo insieme la logica dell’esistenza e la logica del dono,
risulta che – mentre la Creazione conferisce il dono dell’esistenza e con la grazia si
ha il «dono irrestibile» della stessa esistenza in quanto libera e divinizzata – «il
desiderio naturale del soprannaturale è il dono del legame tra i due doni [essere e
grazia, MS], concordato dalla libertà dello spirito»43. Costituito dalla «connessione
dinamica» (dynamic link) tra l’opera divina della Creazione, per cui lo spirito creato
non è il recettore previo del dono, ma è esso stesso il dono44, e l’opera divina della
Divinizzazione, in modo tuttavia che l’uomo sia unito secondo un rapporto di
partecipazione ancora più intenso al Trinitas-Deus creatore e redentore. Tale
partecipazione, per cui l’umanità è unita a Dio, non sfiora minimamente il pericolo
di una dissoluzione dell’umano, ma ne rappresenta la sua perfezione: «la
connessione tra il dono della Creazione e il dono della divinizzazione – che è
l’esistenza angelica o umana nel proprio acme caratterizzante – dev’essere anche
un dono di qualcosa che sia insieme pienamente divino e pienamente umano»45.
Anche nel caso del suspended middle, la struttura ultima della realtà partecipata
– rispetto all’essere come alla grazia – risulta essere quindi profondamente radicata
nella struttura del dogma cristologico calcedonese, elemento imprescindibile della
lettura ortodosso radicale.
Secondo Milbank, in ultima analisi, da un punto di vista più storico-
teologico, lo smarrimento dell’autentico senso del desiderio naturale del
soprannaturale, che ha permesso l’imporsi della dottrina della natura pura,
costituisce un elemento di quella trasformazione della metafisica – che, fin da Duns
Scoto, è venuto ad imporsi nella propria auto-referenzialità – connessa con lo
smarrimento del primato della teleologia, l’adozione di un’ontologia univocista e di
una correlativa concezione semantica dell’analogia, «separata da una metafisica
sont appelés au salut la grace divine agit en chacun d’eux». Ho citato questa voce in quanto, per
Milbank, costituisce un costante punto di riferimento quanto alla sintesi sul tema. 43 J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, p. 73. 44 Ibid., p. 77: «Nell’ambito della differenza ontologica, dell’emergere creativo degli entia dall’esse, la gratuità
sorge prima della necessità o dell’obbligazione e non richiede nemmeno questo contrasto al fine di risultare
comprensibile. La creatura in quanto creatura non è il recipiente di un dono; è questo dono. La stessa cosa si
applica alla creatura spirituale: in quanto spirito la creatura non riceve un dono; essa stessa è questo dono
dello spirito». Milbank si richiama qui molto giustamente ad un’opera in cui si sostiene che essendo
lo spirito un dono ad un dono, senza alcun recettore previo, il modo proprio dell’essere spirito è quello di vivere essendo un dono e pertanto donandosi l’uno all’altro, cfr. C. BRUAIRE, L’être et l’esprit, (Épiméthée), Press Universitaire de France, Paris 1983. 45 J. MILBANK, Il fulcro sospeso..., p. 73.
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della partecipazione esistenziale» e da una teoria dell’analogia capace di collocarla
nell’«ambito del giudizio di un’anima che partecipa allo spirito divino»46. In linea
con il programma dell’Ortodossia radicale, pensato anche alla luce
dell’insegnamento lubachiano, l’elemento della partecipazione fatto giocare sui due
registri, nell’ambito difficilmente circoscrivibile dell’unicum, a fasi intensificanti, del
naturale e del soprannaturale47. Inoltre, per riferimento all’Aquinate, la realtà della
visio beatifica, come condizione dell’uomo in patria, è riconosciuta come
teologicamente e metafisicamente decisivo in ordine alla riattualizzazione del
primato del fine ultimo, che per il teologo anglicano costituirebbe forse «the subtle
heart» del pensiero di de Lubac48.
Con de Lubac, oltre de Lubac: sembra questa la direzione che il lavoro di
Milbank sembra suggerire e, tuttavia, non è questo comprensibile tentativo ad
interrogare il lettore, quanto la via che Milbank sembra suggerire per compiere
questo oltrepassamento. Sembra infatti che questo sia possibile a partire da una
ripresa radicalizzante dell’opera dell’Aquinate. Dopo essersi prodotto in una
recensione delle difficoltà poste alla prospettiva lubachiana, non solo da parte del
neo-tomista paleolitico come Feinberg che accusa il teologo francese di aver troppo
concesso a Scoto, Milbank si sofferma ad analizzare le difficoltà poste dalla scuola
di Fribourg-Toulouse – in particolare di Serge-Thomas Bonino, di Jean-Pierre
Torrell e del suo allievo Gilbert Narcisse – i quali, sulla linea di un sostanziale
accordo con de Lubac ne sottolineano le resistenze poste dall’interno dell’opera
tommasiana: il tema del limbo, dell’amore naturale di Dio e dei pura naturalia.
Prendendo come spunto soprattutto il contributo di Narcisse, che preferisce
evidentemente sviluppare san Tommaso con von Balthasar rispetto ad un’adesione
46 Ibid., pp. 64-65: «come de Lubac ha connesso lo smarrimento dell’autentica restituzione del
soprannaturale alla perdita della teleologia, così egli lo ha anche connesso all’emergere di
un’ontologia univocista e di una descrizione meramente semantica dell’analogia, separate da una metafisica della partecipazione esistenziale ed unita ad una via negativa eccessivamente formale
che giunge a rifiutare la dottrina dell’eminenza». 47 Con gusto, forse un po’ archeologico, ritengo sia utile segnalare un tentativo che, pur cogliendo
sulla scia di Fabro l’importanza della partecipazione e della nozione intensiva di essere, tuttavia, non mantenendosi nel duplex ordo, non riesce a collocarsi sul piano teoretico di profonda unitarietà
così com’è coerentemente richiesto dal tentativo milbankiano, cfr. A. CIAPPA, Partecipazione e desiderio naturale di vedere Dio in S. Tommaso d’Aquino, Verona 1965. Si veda anche l’appropriata
recensione di G. COLOMBO, Il soprannaturale, (Quaestio, 5), Glossa, Milano 1996, pp. 314-319. 48 Ibid., pp. 46-47: «Nell’esperienza definitiva del soprannaturale che lo orienta, ossia la visione
beatifica, il nostro intero essere viene trasfigurato dalla luce divina. Qui noi diventiamo la recezione
di questa luce e non vi è più alcun recipiente “naturale” di questa recezione. Questo è forse il cuore
della teologia di de Lubac».
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piena al progetto lubachiano, il teologo britannico bolla la recezione della nouvelle
théologie propria di questa Scuola – per quanto stimabile – un «compromesso
estetico» tra l’ascendenza caetanista e, quindi, neo-tomista dell’impianto
domenicano “moderno” di quest’ultima e le istanze più innocue della prima49.
In che direzione intende, quindi, muoversi Milbank? Coerentemente con il
suo procedere, se così si può dire, ex parte Dei, si tratta di ripensare ancora una
volta la relazione tra natura e grazia nel contesto più decisivo della distinzione tra
la condizione di chi è in via e chi è in patria. Nello specifico del dialogo con la Scuola
domenicana di Friboug-Toulouse, questo accade se – pur sempre in termini di
convenientia e, quindi, di estetica – si declina la relazione dal punto di vista della
visio beatifica unico fine ultimo dello spirito creato. Si tratta, in definitiva, di
un’estetica divina in cui il pulchrum risplende nel suo tratto proto-escato-logico:
dove la convenientia della natura umana per l’elevazione soprannaturale partecipa
intrinsecamente alla sapienza divina, allora (poiché la teoria e la pratica, in una prospettiva
teologica, sono inseparabili per l’Aquinate) la natura umana dev’essere anche
teleologicamente attratta verso l’eschaton della beatitudine ch’essa, ciononostante, non può
volere50.
Come tratteggiare quindi il progetto di radicalizzazione della posizione
tommasiana promosso da Milbank? Secondo lo stile ortodosso radicale ricorrendo
alla storia delle idee e, nello specifico, re-interpretando originalmente in ordine alle
categorie attuali quel pensiero patristico e medievale, di cui san Tommaso d’Aquino
offrì la sintesi più organica, ma che andò progressivamente smarrito a causa della
svolta che si produsse intorno al 1300 e che possiamo rappresentare
simbolicamente nell’opera del beato Giovanni Duns Scoto. Oltre alla scuola
domenicana franco-svizzera, Milbank si appoggia qui alle ricerche portate avanti
nell’ambiente universitario parigino da studiosi come Courtine, Boulnois, Marion,
Lacoste e, qui soprattutto, da Jacob Schmutz. Secondo Milbank questi
approfondimenti nel campo della storia delle idee sono in grado di consentire una
radicalizzazione del pensiero di de Lubac, in ordine ad una purificazione dalla
49 Cfr. Ibid., pp. 112-120. Per quanto i contributi di Bonino, Torrell e Narcisse, cfr. S.-T. BONINO
(ed.), Surnaturel. Une controverse au coeur du thomisme au XXesiècle, «Revue Thomiste» CII, 1-2
(2001). 50 J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, p. 119.
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contaminazione scotista, al fine di riscoprire il pensiero dell’Aquinate come
l’esempio più radicale di libertà dalle anticipazioni medievali della teoria della
natura pura e della più fedele aderenza all’insegnamento dei Padri. Il discorso di
Milbank si sviluppa precisando i due motivi fondamentali di quest’ultima
affermazione ed espandendo l’argomentazione con altre tre osservazioni.
Innazitutto l’Aquinate si mostra libero dall’ipotesi della natura pura nel
momento in cui sostiene, a differenza dei Maestri francescani da Bonaventura a
Duns Scoto, la tesi per cui: «Adamo è stato creato fin dall’inizio con la recezione
della grazia. Egli non ha vissuto un secondo sotto il regime della pura natura»51.
In secondo luogo, vi è la questione decisiva dell’interpretazione della
causalità che Milbank, in riferimento al tema della grazia, declina nei termini del
teoria del dono giungendo a reinterpretare la dottrina, di ascendenza neo-platonica
(Proclo) perfezionata poi dall’Aquinate, secondo la categoria paradossale dello
«scambio unilaterale» (unilateal exchange)52. Il teologo britannico procede
dall’accurata ed illuminante sintesi di Schmutz, il quale ha studiato la dottrina
medievale della causalità fin nei suoi esiti barocchi, mostrando chiaramente come
vi sia una frattura ermeneutica, e pertanto teologico-metafisica, da situarsi tra il
Doctor communis e il Doctor subtilis che marca anche l’imporsi di una nuova
comprensione rispetto al pensiero patristico53. In particolare, l’erudito medievista
ritiene di aver mostrato come il mutamento nella comprensione della causalità tra
il XIII e il XVII secolo, radicata nella scuola francescana e compiutasi con Duns Scoto,
abbia comportato nel lungo periodo l’emergere della teoria della natura pura e di
quella del concorso divino-umano elaborata dal Molina. Una rivoluzione causata
51 Ibid., p. 122. Per il riferimento ai testi, cfr. J.-P. TORRELL, Nature et grâce chez Thomas d’Aquin, in S.-T. BONINO (ed.), Surnaturel…, pp. 167-202, in part., pp. 168-179. 52 La nozione di Milbank presenta, da un punto di vista teoretico, notevoli affinità con l’interpretazione della struttura logica del quarto modo dicendi per se in ordine alla relazione di
reciprocità tra Dio e mondo la quale viene salvaguardata senza che il mondo “aggiunga” nulla a Dio, in quanto è Dio a far dipendere completamente il mondo dalla relazione con sé, cfr. G. BARZAGHI, La geografia dell’anima, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2008², pp. 167-171. 53 Cfr. J. SCHMUTZ, La doctrine médiévale des causes et la théologie de la nature pure, in S.-T. BONINO
(ed.), Surnaturel…, pp. 217-264. Questo studio sarà ripreso in più luoghi dal teologo anglicano che
presenterà il problema della concorrenza causale – insieme all’univocità, alla rappresentazione e al
primato della possibilità – come i quattro elementi principali in forza dei quali la svolta scotista ha aperto le strade alla modernità e, per una strana eterogenesi dei fini, all’imporsi del saeculum, cfr,
ad es., J. MILBANK, Faith, Reason and Imagination. The Study of Theology and Philosophy in the
Twenty-First Century, in ID., The Future of Love. Essays in Political Theology, SMC Press, London
2009, pp. 316-334, in part., pp. 325-328. Solo la ripresa di un pensiero della partecipazione, quanto
all’essere tanto quanto alla grazia, può consentire al pensiero Occidentale di uscire dalla deriva
abbracciata inavvertitamente e sicuramente con le migliori intenzioni intorno all’alba del XIV secolo.
22
nell’intendere, in particolare, il senso del termine influentia (d’origine neo-platonica
e utilizzato per esprimere il fluire della causa prima nelle cause seconde), a motivo
dell’abbandono delle dottrine metafisiche dell’analogia e della partecipazione, che
ha condotto a pensare la con-correnza della causa prima e delle cause seconde,
smarrendo così il primato – custodibile solo attraverso quei capisaldi del pensiero
tommasiano – della Causa prima stessa a favore di un modello secondo il quale le
cause seconde, prima di divenire autonome o di essere pensate in senso
occasionalistico, avrebbero contribuito alla produzione dell’effetto aggiungendo
qualcosa di ulteriore a quello che la Causa prima avrebbe potuto porre54. In
definitiva, conclude Schmutz, l’affermarsi del naturalismo in teologia precede le
vicende dei Commentatori dell’Aquinate e le sue condizioni di possibilità vanno
retrodatate almeno al tardo-medioevo: «il duplex ordo, tra natura e soprannatura,
che de Lubac ci ha aiutato a comprendere, si fonda su un duplex ordo causale»55,
in cui la causalità seconda – presentata armonicamente nell’Aquinate, per il quale
Dio muove liberamente gli enti dotati di libertà, così come muove secondo un ordine
causale gli enti che ne sono privi – conquista una connotazione di sempre maggior
autosufficienza.
Secondo Milbank il modello dell’in-fluenza si oppone a quello della con-
currenza, come il pensiero dell’analogia si oppone al pensiero dell’univocità. Ciò che
li differenzia è pertanto l’accettazione o meno della teologia metafisica della
partecipazione, nonché della struttura gerarchica in essa implicata. Nel modello,
adottato e perfezionato dall’Aquinate, da una lato, l’attività divina è unificata
nell’unico piano della Provvidenza e, dall’altro, la creazione non viene “influenzata”
da Dio, ma posta per così dire dall’in-flusso divino, in quanto Dio è causa essendi
ed il suo agire non con-corre con le cause seconde nel produrre gli effetti, ma
54 J. SCHMUTZ, La doctrine médiévale des causes et la théologie de la nature pure, in S.-T. BONINO
(ed.), Surnaturel…, p. 227: secondo Duns Scoto «Dieu agit de manière permanente en conservant l’action des causes secondes, mais l’être de l’effet ne dépend plus de sa propre donation. […] ll n’y
a donc ici aucune forme de priorité ontologique de la cause première seul la cause seconde qu’une
jouissent d’un être qui peut être décrit univoquement» e p. 228: «Ni antécédence, ni suffisance d’un ordre par rapport à l’autre, ni donation d’efficacité par une cause première comme source de l’être.
C’est dans un tel cadre que Jean Duns Scot devait alors lui-même reformuler la théorie avicennienne de la causalité essentielle: cela signifie que la cause la moins parfaite peur ajouter
quelque chose […] le monde créé peut ainsi ajouter de la perfection et de la noblesse à ce qui vient
de la cause incréé». 55 Ibid., p. 263.
23
appunto “fluisce” nelle cause seconde consentendone l’esistenza56. Nessuna
competizione quindi tra la causalità divina e quella creaturale, così come nessuna
spartizione nella produzione dell’effetto: a fronte del 50 % divino e 50 % umano di
ascendenza scotistico-molinista (secondo il modello del barcone nel canale trainato
dai due buoi sulle rive), il modello tommasiano persevera nel proporre la sua
paradossale equazione per cui in ogni azione vi è il 100 % divino nel 100 %
creaturale:
1. Dio causa la divinizzazione e la nostra libera risposta, e tuttavia la grazia risulta
interamente creata (altrimenti occuperebbe un’impossibile limbo ontologico) e la nostra
trasformazione divinizzata risulta, in un certo senso, interamente l’opera della nostra
volontà; 2. la nostra innata tendenza alla beatitudine è ancora il dono supplementare di Dio
in noi; 3. l’elezione divina si manifesta intrinsecamente come la praemotio physica verso la
grazia che invade persino la nostra animalità 57.
Nei termini della logica del dono, si tratta della manifestazione di
un’unilateralità radicale, in cui – nella forma del «dono di un dono a un dono» – Dio
pone ad un tempo «il recipiente e la possibilità della sua gratitudine», al di fuori
della cui dimensione – intesa come il ritorno di ogni creatura alla propria fonte –
non si dà, per Milbank, alcun esse finito. Alla dimensione dell’unilateralità radicale
della donazione, ex parte Dei, si accompagna (in maniera non escludente e,
pertanto, superando ogni contrapposizone) la dimensione dello scambio, ex parte
creaturae, benché sia uno scambio asimmetrico, ossia senza reciprocità tra il
Creatore e la creazione:
Poiché Dio è la singola influenza, la singola unilaterale e totale causa di ogni cosa. Tuttavia,
poiché Egli causa condividendo la sua natura, dando l’essere ai suoi doni, i livelli inferiori
esercitano all’interno della propria sfera la loro causalità secondaria e parimenti totale.
Questo è un tipo di “scambio senza reciprocità”. C’è reciprocità nella Trinità e reciprocità
56 Cfr. ST I, q. 105, a. 5, co: «Et quia forma rei est intra rem, et tanto magis quanto consideratur ut
prior et universalior; et ipse Deus est proprie causa ipsius esse universalis in rebus omnibus, quod
inter omnia est magis intimum rebus; sequitur quod Deus in omnibus intime operetur». 57 J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, pp. 124-125. Oltre a Schmutz, sulla questione della premozione
fisica cfr. G. BARZAGHI, Analisi teoretica del concetto di premozione fisica secondo i princìpi di s. Tommaso d’Aquino, in ID., L’essere, la ragione, la persuasione, (Lumen, 11), Edizioni Studio
Domenicano, Bologna 1998², pp. 155-164.
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all’interno della creazione, ma non tra la creazione e Dio, sebbene ci sia “scambio” nel senso
che le creature ricevono attraverso il ritornare (sebbene Dio non riceva propriamente nulla)58.
Al di là del fatto che, forse in chiave cristologica, un certo scambio tra la
creazione e il Verbo incarnato sia pensabile, senza nulla togliere o aggiungere al
primato e all’unilateralità radicale della divina Causa prima, occorre rilevare come
Milbank sviluppi queste riflessioni a partire dal riconoscimento di un parallelismo
tra le obiezioni poste a de Lubac (quanto alla gratuità del soprannaturale) e quelle
avanzate contro la teoria del dono elaborata da Marcel Mauss: infatti, come una
grazia “dovuta” non sarebbe più un dono, così un dono che s’attenda un altro dono
in cambio verrebbe meno a se stesso. A parere del teologo britannico adottando il
modello dell’influentia ogni contrapposizione tra il libero dono unilaterale e il dono
esercitato nello scambio sarebbe superata in radice. Invece, con il diffondersi del
modello della concorrenza – con Scoto, inizialmente, la Causa prima non agiva
prius, ma simul rispetto alla causa seconda – si diffuse una mentalità che optava
per sostituire all’unilateralità il patto mutuo, al dono-scambio il contratto e una
«dubbia reciprocità» sulla base dell’univocità dell’ente tra un Dio ridotto e le
58 J. MILBANK, Il fulcro sospeso…, pp. 123-124. Come nota molto giustamente, escludendo per altro
ogni sospetto di panteismo, S. OLIVER, Introducing Radical Orthodoxy: form participation to late modernity, in J. MILBANK - ID., The Radical Orthodoxy Reader, Routledge, London and New York
2009, p.17: «Following Aquinas, Milbank and Pickstock claim that there are still substantial entities in creation, but only insofar as they participate in the gratuity of God’s gift of being. God bestows
upon creation a finite participation in his own substantiality. In other words, creation does not have
an existence by virtue of itself, but only and always because of the gratuity of God. The radical
implication of this view of participation is that creation ha no autonomous existence. Creation does
not stand alongside God as another focus of being or existence, neither does it lie ‘outside’ God. When God creates the universe, there is not one ‘thing’ and then, suddenly, two ‘things’ (God +
creation)». Più radicale e teoreticamente stringente l’argomentazione relativa all’originario ambiente divino di G. BARZAGHI, Le condizioni metafisiche della divinizzazione. La presenza di immensità e la presenza di grazia, «Divus Thomas» 108 (2005), pp. 40-65, in part., pp. 42-43: «è impossibile
postulare un’assenza di Dio nella creatura, perché ciò implicherebbe la nullità assoluta della
creatura stessa. La quantità d’essere resta sempre inalterata: Dio più mondo è ancora Dio, il mondo
senza Dio è nulla. La creatura è nulla come aggiunta al Creatore; ma senza il Creatore essa non c’è assolutamente. Per esempio, 5+5 è 10, non di più né di meno, è nulla come aggiunta a 10; ma se
10 non c’è perché impossibile è impossibile e cioè assolutamente nulla (e non solo relativamente) anche 5+5» e ivi, 49: «Il rapporto che c’è tra Dio e mondo è paragonabile a quello esistente, sul piano
matematico, tra il numero 10 e le possibili combinazioni numeriche che lo significano. [...] Il 10 è la
complicazione delle combinazioni; le combinazioni diverse che significano 10 sono esplicazione del
10. Così Dio è complicazione del mondo e il mondo è esplicazione di Dio. La creatura si risolve totalmente in Dio (essa è nulla come aggiunta a Dio [Dio + mondo = Dio], mentre Dio si dice tutto
nella creatura, ma non totalmente, come 5+5 è simpliciter 10, ma 10 non è simpliciter 5+5 (altrimenti
8+2; 11-1; 20:2; 5x2 non sarebbero10 – dove 10 sta per Dio e 5+5 sta per una creatura. [...] la
creatura è nulla al di fuori dell’atto creatore, che è lo stesso Dio creatore (l’agire di Dio è Dio). Essa
non porta in sé nulla che sia presupposto all’atto creatore: è tutta e totalmente nell’essere posta dal
Creatore. Questo è l’Ambiente divino originario».
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creature, ormai posti sulla stesso piano. È su questo terreno che viene a
germogliare la teoria della natura pura.
In coda all’esplorazione compiuta al fine di mostrare le vie per una
radicalizzazione delle tesi lubachiane, sempre sulle tracce dell’Aquinate, Milbank
propone tre espansioni. Si tratta di mostrare come, a partire dal legame intrinseco
tra spirito creato e grazia, dalla considerazione dell’intero cosmo, in quanto
ordinato – attraverso la relazione con le creature intelligenti – al fine ultimo e dalla
riconsiderazione dell’analogia tra ars e gratia, si possa mostrare che «l’intera
struttura dell’esse finito è una preparazione per la grazia»59. In questo senso, per
Milbank, Dio si manifesta come l’artista che plasma la sua creatura con la grazia
compresa per analogia all’arte di governare lo spirito. La libertà, che coincide così
con il desiderio stesso del soprannaturale, si manifesta nell’obbedienza alla grazia.
Dio che conforma a sé la propria creatura, la creatura che liberamente aderisce
alla chiamata alla divinizzazione realizzandola volontariamente nel contesto della
comunità di grazia: ciò che facciamo attraverso l’influenza di un amico, lo facciamo
ancora da noi stessi. Questa è l’opera trinitaria della creazione, della redenzione e
della santificazione la quale, parafrasando il Doctor communis, si compie
gratuitamente: «gratia divina pulchrificat sicut lux» (cfr. In Psalmos 25, n. 5). Dal
punto di vista della divinizzazione, termine dell’azione della grazia, quanto appena
illustrato suona in Milbank più o meno così:
non vi è la divinizzazione a causa della creazione; è piuttosto la creazione ad esserci a motivo
della divinizzazione in qunato apice e microcosmica ricapitolazione della gloria creata. Il che
corrisponde al prevalere dell’intelligere sull’esse, dello spirito sull’ente60.
Congedato il duplex ordo, Milbank può ripensare la destinazione umana in
ordine alla divinizzazione, che dice di per sé partecipazione alla natura divina che
è, ad un tempo, Ipsum Esse subsistens e Comunione trinitaria. Per il teologo
britannico quindi, l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, partecipa
dell’essere per partecipare della vita del Figlio61. È possibile qui ritrovare quella
59 Ibid., p. 134. 60 Ibid., p. 88. 61 Per un resoconto contestualizzato del ruolo della divinizzazione nel pensiero di Milbank, facendo
attenzione sia alle ascendenze nella teologia orientale (Gregorio di Nissa e Massimo il Confessore), sia al pensiero di sant’Agostino e dell’Aquinate, cfr. D. HAYNES, The Metaphysics of Christian Ethics: Radical Orthodoxy and Theosis, «Heythrop Journal» LII (2011), pp. 659-671, in part., 663: «In Being
26
dinamica d’intensificazione che è stata adottata da Milbank soprattutto per il
problema della relazione tra fede e ragione, ma che, a ben vedere, può essere meglio
illustrata dal rapporto che colloca la natura in vista della divinizzazione così come
l’essere in via trova la propria motivazione radicale nell’essere in patria. Come
sostiene un’acuta interprete dell’Aquinate, libera dagli schemi del razionalismo
secolare, la Summa è stata concepita e dev’essere letta come una guida – teologica
e mistica insieme – per pensare e riceve il dono della partecipazione alla beatitudine
trinitaria e, pertanto, la divinizzazione può essere considerata come uno dei suoi
tratti strutturanti62. Nella ricostruzione del pensiero di de Lubac fatta da Milbank,
con l’occhio costantemente volto all’Aquinate, emerge molto bene la connessione
tra i temi della grazia e del dono e quelli della divinizzazione e della visione beatifica,
i quali vengono ricondotti, attraverso al considerazione metafisica, alla nozione
cardine di partecipazione. Se si considerano i testi in cui, nell’Aquinate, compare il
tema della divinizzazione la nozione di partecipazione si accompagna quasi in ogni
caso63. In particolare, un testo di san Tommaso mostra una certa affinità con la
nozione milbankiana di scambio unilaterale ed è quello della partecipazione
assimilante presente nella riflessione sulla grazia64. Oppure, sempre prossimo al
punto di vista del teologo britannico, pur nell’accentuazione del punto di vista
cristologico, risulta essere la connessione istituita chiaramente dall’Aquinate tra la
divinizzazione, sempre resa pensabile dalla nozione di partecipazione, e il fine
ultimo dell’umanità65.
Reconciled: Ontology and Pardon, Milbank argues for a new vision of Christian ethics based upon
ontological participation (μέθεχις) in God […]. Milbank attests that participatory metaphysics founds the deification of the Christian» e ivi, p. 669: «in terms of ethics, theosis (through participation) offers
a grounding that goes beyond modern philosophical immanentism». 62 Cfr. A. N. WILLIAMS, Deification in the Summa Theologiae a Structural Interpretation of the Prima Pars, «The Thomist» LXI (1997), pp. 219-255. Per un inquadramento contestuale, cfr. F. KERR, After Aquinas..., pp. 149-161. 63 Cfr. l’ampio elenco riportato, in aggiunta alle fondamentali considerazioni teoretiche sul tema, in G. BARZAGHI, Le condizioni metafisiche della divinizzazione…, pp. 40-43, n. 5. 64 Cfr. ST I-II, q. 112, a. 1, co: «enim necesse est quod solus Deus deificet, communicando
consortium divinae naturae per quandam similitudinis participationem, sicut impossibile est quod
aliquid igniat nisi solus ignis». 65 ST III, q. 1, a. 2, co: in cui il quinto motivo di convenienza dell’Incarnazione dice «quantum ad
plenam participationem divinitatis, quae vere est hominis beatitudo, et finis humanae vitae. Et hoc
collatum est nobis per Christi humanitatem, dicit enim Augustinus, in quodam sermone de Nativ. Domini, factus est Deus homo, ut homo fieret Deus». In un testo molto importante per comprendere
la cristologia di Milbank alla luce della Tertia pars della Summa, viene rilevato come l’Aquinate abbia
colto un intimo legame tra la divinizzazione e la stessa ominizzazione, cfr. J. MILBANK, Incarnation: the Sovereign Victim, in ID., Being Reconciled..., pp. 66-67.
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3. Al di là della pregiudiziale neo-scolastica: per una rilettura radicalizzante
dell’Antropologia soprannatuale
Giunti a questo punto, avendo cioè mostrato l’importanza di de Lubac per lo
sviluppo del pensiero milbankiano, non resta che compulsare le pagine
dell’Antropologia soprannaturale per verificare quale effetto di lettura è capace di
produrre la lettura di Rosmini una volta che sia stato avvicinato nello spazio di
pensiero allestito dalla riflessione ortodosso radicale. Si tratta cioè di leggere il
contributo del Roveretano in ordine all’approfondimento del rapporto tra grazia e
natura, prescindendo dalle coordinate – troppo spesso impostate sul mero duplex
ordo e pertanto “moderne” in senso deteriore – dettate dalla Scolastica barocca e
dalla Neoscolastica. Che questa prospettiva sia stata ampiamente praticata, lo
attesta la stessa introduzione all’Edizione critica dell’opera rosminiana redatta da
Umberto Muratore, in cui muovendo da una citazione dell’Antropologia in servizio
della scienza morale, procede dalla menzione dei due ordini – naturale e
soprannaturale – al quale l’uomo appartiene, per recuperare solo in un secondo
momento la tensione verso una comprensione più unitaria, richiesta dalla relazione
istituita dal Rosmini, per cui «il primo ordine chiede a gran voce di completarsi nel
secondo»66. Ma in fondo si tratta di due piani separati o semplicemente distinti? Se
è vero, come sottolinea il Muratore stesso, che Rosmini pensa il naturale e il
soprannaturale in senso analogico, nel trattarne si può sottolineare la differenza
(marcando la dualità, al limite del dualismo vero e proprio che inclina verso una
concezione separatista) o la continuità (procedendo così verso l’esclusione
dell’ipotesi stessa della natura pura e accentuando il paradosso umano della
distinzione nell’unità). È all’interno di questa sfumatura, di questa marcatura di
accenti, che va cercata, da un lato, l’originalità di Rosmini quanto al tema del
rapporto tra grazia e natura e, dall’altro, la direzione fondamentale del suo
pensiero. Cosa che viene puntualmente sottolineata da Markus Krienke il qulae, a
differenza del Muratore, mette chiaramente in luce elementi del pensiero
rosminiano che lo distanziano notevolemente dall’impianto dualista, aiutato in
questo dal parallelo ch’egli scorge tra la posizione del Roveretano e quella di Karl
Rahner67. Ad esempio, Krienke nota come Rosmini – a differenza dei teologi del suo
66 U. MURATORE, Introduzione, a A. ROSMINI, Antropologia soprannaturale, t. 1, a cura di U. Muratore,
(ENC, 39), Città Nuova Editrice, Roma 1983, pp. 17-19. 67 Cfr., ad es., M. KRIENKE, Natur und Gnade in anthropologischer Perspektive…, p. 371 e p. 381.
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tempo – proceda direttamete alla ricerca dell’essenza della grazia e si rivolga
polemicamente contro le istanze proprie del razionalismo teologico – inteso come
neo-pelagianesimo, il cui carattere fondamentale risulta essere l’estrinsecismo della
grazia che porta a pensare l’umanità dell’uomo come giustificabile secondo la
propria natura, senza ricorrere alla grazia (è il caso, secondo Rosmini, del gesuita
Giovanni Perrone)68.
A questo punto risulta poi chiaro come il confronto tra Rosmini e de Lubac
sia qui fondamentale. Molte pagine a riguardo sono state scritte da Francesco
Conigliaro, rispetto alla cui produzione – a parte le inevitabili differenze d’impianto
– non penso che si possa aggiungere molti dati. Ci sembra, tuttavia, che la rilettura
offerta da Milbank di de Lubac renda in un certo senso i lavori di Conigliaro ancora
troppo dipendenti, quanto all’atmosfera generale, dal confronto con la
Neoscolastica, cosa che ricade inevitabilmente sulla percezione della radicalità
della posizione del Roveretano. In altri termini, avendo redicalizzato con Milbank la
posizione del teologo gesuita, per restare ai testi selezionati e commentati da
Conigliaro, si ha come la sensazione di trovarci di fronte ad un Rosmini
“addomesticato” e, per converso, s’inizia a pensare che vi sia la possibilità di
pensare con il Roveretano stesso in modo molto più trasgressivo delle
categorizzazioni neo-scolastiche, proprio in forza della peculiare formazione
patristica del Rosmini e della sua capacità di leggere san Tommaso in modo
originale.
Procediamo quindi da uno degli esiti della ricerca di Conigliaro: benché il
Roveretano non possa essere considerato un precursore del teologo gesuita69, «sia
il Rosmini che il de Lubac […] sono profondamente convinti dello straordinario
prodigio dell’autotrascendimento che l’autodonazione di Dio in se stesso opera
nell’uomo»70. Tale convinzione è radicata nella concezione, biblicamente fondata,
dell’uomo creato ad imaginem et similitudinem Dei. Per Rosmini, a dispetto delle
68 Cfr. M. KRIENKE, Grazia e persona…, pp. 682-683, n. 24. 69 F. CONIGLIARO, Rosmini, precursore della «Nouvelle Théologie»? …, pp. 146-147: «Di conseguenza,
a nostro modesto avviso, il Rosmini non può essere considerato un precursore del de Lubac.
Ciononpertanto, non possiamo dire che metterlo a confronto con il teologo di Lyon, sia una fatica condannata a priori alla sterilità. Anzi, ci sembra che si possa sostenere che il confronto sia
giustificato non solo da una consonanza tematica, problematica e metodologica, ma anche da una
affinità intellettuale e spirituale tra i due grandi pensatori». 70 Ibid., p. 157.
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perplessità suscitate in de Lubac71, tale realtà rivelata viene ripensata nei termini
della propria onto-gnoseologia, ossia per riferimento all’essere ideale, letto da
Conigliaro come «fulcro della struttura antropologica»72. Strutturalmente connesso
con l’essere ideale è poi la concezione dell’uomo come abitato da un desiderio
d’infinito73, che solo Dio può soddisfare, così come di «un solo fine ultimo
pienamente saziativo»74. Tale “sazietà” – cui l’uomo tende per natura, ma riceve solo
per grazia – fa tutt’uno con la divinizzazione implicita nell’interpretazione
rosminiana della grazia come operazione deiforme, ossia quell’operazione «che non
solo ha per principio Iddio, ma che essa stessa e il suo termine è Iddio» e che ha
per fine negli esseri intelligenti «la comunicazione della divina sostanza»75.
L’uomo non può essere pienamente accontentato se non da un pieno bene, da un infinito
bene, da Dio. […] L’uomo dunque, per insegnamento della stessa filosofia non si può
acquetare se non percepisce l’ESSERE stesso, dov’è tutta l’essenza, e quindi tutta la pienezza
dell’essere. Ma ciò appunto è che si trova per esperienza nella vita spirituale: nella quale si
sente di percepire una pienezza di essere, ove nulla manca, e tutto si comprende: e
medesimamente una cosa che perfettamente appaga e sazia. Ora la pienezza dell’essere non
è che in Dio, perchè appunto l’essere stesso l’essere per essenza76.
Ma l’uomo con tutte le sue potenze non aveva in sé la propria felicità appunto percé le
potenze on sono che mezzi di ottenere questa felicità, non sono che un vaso che dimanda
d’essere riempito. L’uomo non trovava dunque in se stesso se non un vuoto; ma poteva
meglio trovare il bene che lo satollasse nella natura? No, la natura, l’intero universo
71 Cfr. H. DE LUBAC, Il mistero del soprannaturale, Jaca Book, Milano 1978, p. 251: «verso la metà
del sec. XIX, […] Rosmini tentava una migliore interpretazione dei rapporti tra l’ordine naturale e
l’ordine soprannaturale – interpretazione troppo legata alla sua teoria generale della conoscenza». Si veda la puntale critica di F. CONIGLIARO, Rosmini, precursore della «Nouvelle Théologie»? …, p. 182. 72 Ibid., p 162 e ss. 73 Per la menzione del termine “desiderio”, cfr. A. ROSMINI, Degli studi dell’Autore, in ID., Introduzione alla filosofia, a cura di P. P. Ottonello, (ENC, 2), Città Nuova Editrice, Roma 1979, pp. 156-157 [85]: «L’uomo è un soggetto reale: quindi non può fermarsi all’idea, egli aspira a congiungersi col reale. Il
reale dato all’uomo nella natura è finito, e l’idea conduce l’uomo a conoscere e ad amare, questo
reale finito, ma nello stesso tempo glielo mostra finito, ed essendo infinita l’idea gli mostra la
possibilità, la necessità d’un altro reale infinito, che non è fato all’uomo. L’uomo a ciò che conosce,
estende anche il suo desiderio: questo dunque va all’infinito, a quell’infinito che l’idea gl’indica dover
essere, senza il quale né la potenza dell’idea sarebbe esaurita, né il conoscimento possibile all’uomo compito, né il suo desiderio di conoscere, di congiungersi e di godere questo appagato. Ora questo
infinito reale è dato inizialmente all’uomo nel lume soprannaturale, che Iddio gratuitamente gli
aggiunge: la percezione di questo lume sostanziale e sussistente è la percezione del divino Verbo;
quivi il desiderio riposa, quivi l’uomo, in un cotal modo, anche nella vita presente, si sazia». 74 F. CONIGLIARO, Immanenza e trascendenza…, p. 211. 75 A. ROSMINI, Antropologia soprannaturale…, p. 113 [1/142 e s.]. 76 Ibid., pp. 114-115 [1/145 e s.].
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materiale era minore di lui dotato d’intelligenza; ed egli stesso tanto eccellent era pur solo
una capacità come dicevamo, una capacità infinita: questa creatura adunque aveva un
essenziale bisogno di Dio perché fossero pienamente appagate le sue brame77.
Da testi come questi, specialmente se letti in parallelo con quelli dove
Rosmini affronta l’ipotesi della natura pura78, si può concordare con Conigliaro
quanto alla presa di distanza del Roveretano dall’interpretazione – fulcro del duplex
ordo – che vede nel desiderio naturale di Dio una mera non ripugnanza, per
accoglierne invece quella che vi legge un’«attitudine positiva»79. Tale positività può
essere attinta, in ultima analisi, dalla visione analogica che regge l’architettura del
pensiero rosminiano che, senza togliere nulla alla gratuità del soprannatuale, non
può che pensarlo in relazione all’ordine naturale secondo uno schema di unità-
nella-distinzione, che fa tutt’uno col gesto teoretico di distinguere nell’unito80. Già
un testo composto negli anni Venti dell’Ottocento, come la Politica prima, attesta
l’originalità del Roveretano quanto al suo tempo:
Dico adunque che il desiderio della universal beatitudine primieramente è nell’uomo
essenziale e cerca un punto in tutte le cose e di natura e di sopra natura. Questa brama non
è già come tutte le altre, parziali, di cui fino a qui fu discorso, le quali sono fattizie e s’aprono
nell’uomo secondo l’uso delle cose. Può l’uomo esser privo dell’amore delle ricchezze,
dell’amore della vanità, dell’amore delle vanità, dell’amore della potenza, dell’amore della
gloria, dell’amore della patria, ma non può essere privo dell’amore della beatitudine; questo
77 Ibid., pp. 311-312 [2/45 e s.]. 78 Cfr. ibid., pp. 323-324 [2/59 e ss.]. Cfr. anche F. CONIGLIARO, Immanenza e trascendenza…, pp.
220-224. Sono dell’idea di un superamento della nozione di natura pura – pur procedendo da una
posizione affine a quella rahneriana – anche G. COLZANI, Il compimento «deiforme» della creatura…,
pp. 126-128 e M. KRIENKE, Grazia e persona…, pp. 692 e ss. 79 Cfr. F. CONIGLIARO, Rosmini, precursore della «Nouvelle Théologie»? …, p. 205 e F. CONIGLIARO,
Immanenza e trascendenza…, pp. 207-211. 80 Cfr. A. ROSMINI, Degli studi dell’Autore…, pp. 155-156 [85]: «l’ordine in cui procede la cognizione
delle cose soprannaturali è analogo, e, per così dire, dello stesso stile, all’ordine in cui procede la cognizione delle cose naturali. […] Il primo lume che rende l’anima intelligente è l’essere ideale e
indeterminato: l’altro primo lume è ancora l’essere, ma non puramente ideale, ma ben anco
sussistente e vivente. L’essere sussistente è Iddio: egli steso disse “Io sono l’ESSERE”. Avendo usato
il pronome personale IO, egli si manifestò come persona, di cui pure è scritto: “In principio era il
Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo. È quello stesso che altrove chiamò se stesso principio: principio d’ogni intelligenza, e d’ogni cognizione: perché il principio della cognizione è
l’oggetto primo, e il primo ed essenziale oggetto che contiene tutti gli oggetti è l’essere: gli altri oggetti
del pensiero sono oggetti per l’essere, l’essere è oggetto per se stesso. L’idea dunque è l’essere intuito
dall’uomo; ma non è il VERBO; chè non quella, ma questo è sussistenza; quella è l’essere che occulta la sua personalità, e lascia solo trasparire la sua oggettività indeterminata e impersonale: nella
mente, che intuisce l’idea non cade la personalità dell’essere, né la sussistenza, e perciò ella non
vede Iddio: ma chi vede il Verbo, ancorché per ispecchio e in enimma, vede Iddio».
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amore nasce con lui, questo amore non è una potenza ma in atto fino dal primo esistere
dell’anima umana; questo amore è il bisogno supremo, è la tendenza radicale, è insomma
una parte, ed una essenziale parte della natura dell’uomo ragionevole e immortale81.
A partire da queste assunzioni di fondo discendono alcuni tratti che possono,
non solo manifestare la prossimità di Rosmini e de Lubac, ma anche permettere
una lettura che – in forza della funzione di “reagente” esercitata dalla lettura
milbankiana – manifesti l’originalità del Rosmini. Questa originalità la riscontriamo
soprattutto nei testi che seguono e che, per quanto mi consta, sono stati piuttosto
trascurati dalla critica, mentre sostengono quella concezione graduale, come per
via d’intensificazione crescente, che Milbank – commentando il rapporto esistente
tra fede e ragione in san Tommaso d’Aquino, in polemica con le lettura dualiste –
ha posto al centro della sua interpretazione82. Un modo di vedere il rapporto tra
natura e soprannatura che ritorna anche nel confronto con de Lubac attestato da
Il fulcro sospeso e che costituisce una versione, rispettosa della gratutità del
soprannaturale, di pensare senza separazione la distinzione in esame.
Particolarmente significativo, dal punto di vista del contesto più generale del
presente contributo, risulta la coincidenza tra la singolare concezione di san
Tommaso d’Aquino e quella del beato Antonio Rosmini quanto alla creazione
dell’uomo in grazia. Questo elemento per quanto, gratuito e inesigibile, eppur
donato nel disegno creativo, non può non segnare la struttura antropologica, in
quanto per il Rosmini la grazia viene conferita nello stesso tempo dell’intelligenza:
Conveniente cosa era sì che al bisogno dell’umana natura, e sì alla divina bontà che l’uom
ofosse da Dio costituito in un ordine soprannaturale e che in tal modo fosse costituito da
Dio Adamo è dottrina tradizionale della Chiesa. Né vi era ragione perché s’interponesse
tempo in mezzo fra lo stato naturale e il soprannaturale dell’uomo, né nulla v’ha di
ripuganante che Iddio nel medesimo istante dessse all’uomo la natura e la grazia. Anzi non
di dubiterà di ciò ove si facciano le seguenti considerazioni. In primo luogo il lume della
81 A. ROSMINI, Politica prima, in Appendice: Frammenti della Filosofia della politica (1826-1827), a
cura di M. D’Addio, (ENC, 35), Città Nuova, Roma 2003, p. 146 [95v-96r]. 82 Cfr. J. MILBANK - C. PICKSTOCK, Truth in Aquinas, Routledge, London 2001, in part., pp. 18-51. Mi
permetto di rimandare al commento che ho redatto in M. SALVIOLI, O.P., Verso un tomismo post-secolare. Milbank interprete di san Tommaso d’Aquino, Angelicum University Press, Roma 2014, in
part., p. 58: «L’operazione compiuta da Milbank, distinguendo nell’unito ciò che Fabro descrive
separando i piani sovrapposti di natura e soprannatura, può essere descritta coinvolgendo, senza lasciarli collassare l’uno nell’altro, in tale gradualità lo steso lumen naturale in forza del dono della
destinazione dell’intelligenza creata alla visio beatifica».
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grazia conigunto a quello della natura non forma già due lumi, o due vite, ma un lume solo
ed una vita sola: conciossiacché il lume soprannaturale è l’essere medesimo più
manifestamente veduto, veduto di più fote luce a segno di percepirne in qualche modo la
sostanza. […] In secondo luogo a ciò consuona la narrazione, chi ben la considera che si fa
nella divina Scrittura della istituzione dell’uomo. Perocché dottrina fermissima della Chiesa
e, come si disse, che Adamo evve da Dio non meno la grazia che l’intelligenza. […] ora o
conviene ammettere che in quello spiracolo di vita che Dio soffiò in faccia di Adamo si
contenesse unitamente l’intelligenza e la grazia, o pure convien dire che il racconto del sacro
storico sia manchevole […]. Sicché quello «spiracolo di vita» si dee intendere non meno del
lume naturale che del soprannaturale, che ove sono inseiem non formano che uno e
medesimo lume, perché sono uno e medesimo essere […] quasi altrettanti gradi di
participazione d’una medesima vita […]. Di qui è che s. Tommaso conchiude che l’Angelo
dovea esser stato creato in grazia, e che egualmente si può conchiuder dell’uomo e dire che
l’uomo ad un tempo coll’intelligenza deve aver ricevuto la grazia qual seme e principio di
tutto ciò in che si dovea poscia sviluppare la natura umana nell’ordine soprannaturale83.
Se Milbank, commentando l’Aquinate con de Lubac, evince questa
concezione partecipativa per gradi della relazione tra naturale e soprannaturale ex
parte Dei, fedele alla sua dichiarazione di stile teologico – più volte accostato alla
contemporanea “svolta antropologica” – Rosmini riconosce la medesima concezione
a partire dal testo biblico fondante la dottrina della creazione dell’uomo84. Tale
gradualità si trova ad essere fondata nella struttura ontologica che regge, se così si
può dire, tutta l’Antropologia soprannaturale e che si può trovare riassunta
schematicamente – quanto alla peculiare impostazione onto-gnoseologica del
Roveretano – nel seguente passo: «il lume della ragione è l’essere ideale, il lume
della fede l’essere reale: il lume della ragione l’essere iniziale, il lume della fede
l’essere compito, assoluto, Dio»85. Nel dettaglio, tra le ragioni addotte per pensare
il dono della grazia in ordine alla cognizione, Rosmini sostiene che
l’essere reale che si percepisce per la grazia non è che il compimento dell’essere ideale: e
quindi non distrugge, ma compisce nella nostra mente l’essere ideale, senza il quale l’essere
83 A. ROSMINI, Antropologia soprannaturale …, pp. 305-307 [2/36-39]. Cfr. anche ibid., p. 391 [3/34]. 84 Cfr. L. F. LADARIA, Natura e soprannaturale, in B. SESBOÜÉ (ed.), Storia dei dogmi. Vol. II: L’uomo e la sua salvezza: V-XVII secolo: antropologia cristiana: creazione, giustificazione e grazia, etica,
escatologia, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 359. In questo senso mi sento di confermare,
anche dal punto di vista qui adottato, la maggior prossimità di Rosmini rispetto all’impianto di Karl
Rahner che a quello lubachiano, come attestato da Colzani e Krienke. 85 Ibid., p. 107 [1/38].
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reale non si potrebbe all’intelletto nostro comunicare. Quindi sebbene nelle cose create la
percezioen sensitiva differisca essenzialmente e non di solo grando dalla cognizione, tuttavia
ciò non si avvera trattandosi di Dio che è l’Essere stesso; del quale la cognizione e la
percezione, non differiscono se non di grado. Nelle cose create colla cnizione concepiamo
l’essere stesso; qunado colla percezione sensistiva non percepiamo punto l’essere, ma una
sua appartenenza, una sua accidentalità, una certa sua azione: il contrario avviene rispetto
a Dio perché è sempre l’essere che conosciamo, o percepiamo: e quindi la percezione non
differisce dalla congizione essenzilamnete, ma per gradi: sicché, come noi abbiamo detto più
sopra, la congizione non è che un principio di percezione; e la percezione è un grado di più,
un finimento e perfezionamento della cognizione. […] Il qual grado nuovo di congnizioneche
s’aggiunge per la grazia viene espresso anco da Cristo in quelle parole: «Nessuno CONOSCE
il Padre, se non il Figliolo, e a cui l’ha voluto il Figliolo rivelare». Una interiore rivelazione
adunque è l’operazione della grazia, per la quale nelle idee che hanno tutti gli uomini, l’uomo
illumianto da Dio vede ciò che gli altri punto non veggono86.
Il concetto di partecipazione viene accolto da Rosmini per poter interpretare
il darsi di Dio alla creatura, secondo gradi d’intesità crescente, in ordine a “modi
differenti”.
Iddio può essere partecipato dall’uomo in diversi gradi: non mai pienamente perché egli è
incomprensibile. Né pure i Santi che più prendono della diina sostanza giungono a tutta in
sé ricerverla e concepirla, travalicando essa la capacit di ogni creatura. Sebbene l’uomo in
cielo per la gloria, in terra per la grazia faccia partecipe della divina sostenza in diversi gradi;
tuttavia non è per questo Iddio divisibile: tutta la diversità della misura in che l’uomo prende
di Dio e ne fruisce, ha origine dalla parte dell’uomo, dall’essere questo più o meno capace di
partecipare della divinità. Tuttavia l’uomo che partecipa di Dio dee partecipare di tutto Iddio,
perché altrimenti non si potrebbe dire che fosse Dio quello di che partecipa: ma di tutto Dio
può partecipare in un modo più o meno pieno87.
Nel Roveretano tale struttura viene utilizzata, nello specifico, per
comprendere come sia possibile una Rivelazione storica che conduca – ad esempio
– dalla cognizione dell’unità di Dio alla cognizione del Mistero trinitario88. Senza
tuttavia pregiudicare in alcun modo la gratutità della Rivelazione, il Roveretano –
più in armonia con i Padri della Chiesa, che non con l’impostazione teologica del
suo tempo – valorizza la l’unità-nella-differenza attraverso la nozione di
86 Ibid., p. 110 [1/138b-c]. 87 Ibid., p. 163 [1/232]. 88 Ibid., p. 167 [1/239].
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partecipazione modulata secondo gradi d’intensità crescente. La partecipazione alla
natura divina, letta da Rosmini in relazione alla continuità tra la grazia e la viso
beatifica come «causa oggettiva formale»89, viene così interpretata al fine di rendere
ragione della divinizzazione:
E veramente se Iddio non fosse formalmente congiunto coll’uomo in virtù della grazia non
potrebbero avere un senso vero queste espressioni della Scrittura: l’uomo esser fatto consorte
della divina natura, esser deificato come indicano quelle efficacissime parole approvate da
Cristo stesso: voi siete Dei. Là dove, se la congiunzione fra l’uomo e Dio è formale queste
maniere di dire ricevono un senso tutto proprio e verissimo. La quale è comune osservazion
de’ Padri massime greci de’ quali ho recate già non poche acconce testimonianze90.
E tale consapevolezza riporta il Rosmini, che qui chiude un circolo virtuoso,
alla propria struttura fondamentale elaborata per riferimento a sant’Agostino. Tale
struttura, che abbiamo chiamato onto-gnoseologica, si distende tra inizio e
compimento e, per questo, porta in sé (intuitivamente) il principio della
partecipazione per gradi d’intensifiazione crescente:
Nello stato naturale la forma dell’uomo è la verità, l’essere ideale, l’idea dell’essere, nello stato
soprannaturale la forma dell’uomo è Dio stesso, l’essere reale, terminato, sussistente. La
forma dunque che si sopraggiunge all’uomo che entra a partecipare della grazia divina non
è che quella che formava la sua natura, ma completata, elebata, mutata nella sostanza
divina91.
Divinizzazione, grazia come partecipazione che oltrepassa il dualismo e
ripresa del primato della visio beatifica come unica causa finale: elementi che si
distaccano chiaramente dal mainstream della modernità filosofica d’impronta
secolare, che vengono approfonditi e sintetizzati teoricamente – insieme a diversi
altri elementi fondamentali – nella Teosofia. In attesa di ripensare questi spunti
alla luce dell’opus maius rosminiano, ritengo che i testi dell’Antropologia
soprannaturale qui considerati siano sufficienti a giustificare la presenza di
Rosmini nel quadro degli autori che hanno pensato in modo alternativo la
modernità, fornendo altre vie rispetto a quella seguita all’invenzione del secolare.
89 Ibid., p. 128 [1/169]. 90 Ibid., pp. 133-144 [1/172]. 91 Ibid., p. 135 [1/182].