LETTERA APERTA con riflessioni sul Corso di linguistica generale di F. de Saussure

12
1 LETTERA APERTA Roma, 25 Febbraio 2010 Gentile Professor L., la lettera che segue trae la sua prima ragion d’essere dalla necessità di dare un senso e un seguito a una esperienza vissuta questa mattina nel piccolo spazio del corridoio di facoltà, nel tempo di un appello d’esame universitario. Gli attori - protagonisti: un docente e uno studente. Lo studente non ha regolarmente effettuato l’iscrizione e perciò non risulta sull’elenco delle prenotazioni elettroniche. Il docente, per tale ragione, gli nega la possibilità di sostenere l’esame. Questo, in breve, l’evento. Ma noi non ci soffermeremo sui pochi istanti di dialogo tra i due interlocutori, né cercheremo di stabilire se ciò che è accaduto sia giusto o ingiusto, corretto o scorretto, legittimo o ingiustificato. Ci interessa piuttosto osservare lo studente nei minuti successivi alla conversazione, quando, pensoso, sembra meditare sull’evento e non potersene fare una ragione. Che ci sia una regola, e che questa venga applicata, non lo deve certo sorprendere. Che cosa allora non può accettare o spiegarsi? Effettivamente l’evento in sé non ha niente a che fare con il suo reale turbamento, che ora, guardando più da vicino, sembra piuttosto delusione e amarezza. Ancora ci sembra di non capire. Continuiamo ad osservarlo e seguiamone lo sguardo che a un tratto, distogliendosi dall’orizzonte dei pensieri, si rivolge ai libri: i testi d’esame. Assieme ai libri, molte pagine spillate a formare delle unità o piccole cartelle: le sintesi concettuali dei testi studiati. Una piccola unità di fogli è di natura diversa: le riflessioni nate durante lo studio del Corso di Linguistica Generale di F. de Saussure - che intendono guardare al valore e al senso di quel testo in relazione alla storia del pensiero moderno. Un rapporto vitale con il passato necessita di una relazione viva, e una relazione è viva se riconosce una vita all’oggetto con cui entra in contatto. Le opere umane in generale e le opere del pensiero in particolare mostrano una vita autonoma oltre la vita del singolo che le ha concepite 1 , una vita che attraversa il tempo e lo spazio con voci e forme che si tramandano e in tale processo non permangono uguali a se stesse. La forma come atto di conoscenza si riscrive continuamente, diceva Grotowski. 1 Leggiamo in Bühler lo stesso concetto quando considera il parlare come un’attività ( Handlug): «L’opera linguistica di per sé esige di essere considerata in linea di principio e in linea di fatto sciolta dalla matrice costituita dalla vita individuale e dall’esperienza vissuta del suo produttore. Il prodotto, in quanto opera dell’uomo, tende sempre a rendersi indipendente dalla sua genesi e a divenire autonomo» K. Bühler, Teoria del linguaggio, Armando, 1983 pp. 105- 106.

Transcript of LETTERA APERTA con riflessioni sul Corso di linguistica generale di F. de Saussure

1

LETTERA APERTA

Roma, 25 Febbraio 2010

Gentile Professor L.,

la lettera che segue trae la sua prima ragion d’essere dalla necessità di dare un senso e un

seguito a una esperienza vissuta questa mattina nel piccolo spazio del corridoio di facoltà, nel

tempo di un appello d’esame universitario. Gli attori- protagonisti: un docente e uno studente.

Lo studente non ha regolarmente effettuato l’iscrizione e perciò non risulta sull’elenco delle

prenotazioni elettroniche. Il docente, per tale ragione, gli nega la possibilità di sostenere

l’esame. Questo, in breve, l’evento. Ma noi non ci soffermeremo sui pochi istanti di dialogo

tra i due interlocutori, né cercheremo di stabilire se ciò che è accaduto sia giusto o ingiusto,

corretto o scorretto, legittimo o ingiustificato. Ci interessa piuttosto osservare lo studente nei

minuti successivi alla conversazione, quando, pensoso, sembra meditare sull’evento e non

potersene fare una ragione. Che ci sia una regola, e che questa venga applicata, non lo deve

certo sorprendere. Che cosa allora non può accettare o spiegarsi? Effettivamente l’evento in sé

non ha niente a che fare con il suo reale turbamento, che ora, guardando più da vicino, sembra

piuttosto delusione e amarezza. Ancora ci sembra di non capire. Continuiamo ad osservarlo e

seguiamone lo sguardo che a un tratto, distogliendosi dall’orizzonte dei pensieri, si rivolge ai

libri: i testi d’esame.

Assieme ai libri, molte pagine spillate a formare delle unità o piccole cartelle: le sintesi

concettuali dei testi studiati. Una piccola unità di fogli è di natura diversa: le riflessioni – nate

durante lo studio del Corso di Linguistica Generale di F. de Saussure - che intendono

guardare al valore e al senso di quel testo in relazione alla storia del pensiero moderno. Un

rapporto vitale con il passato necessita di una relazione viva, e una relazione è viva se

riconosce una vita all’oggetto con cui entra in contatto. Le opere umane in generale e le opere

del pensiero in particolare mostrano una vita autonoma oltre la vita del singolo che le ha

concepite1, una vita che attraversa il tempo e lo spazio con voci e forme che si tramandano e

in tale processo non permangono uguali a se stesse. La forma come atto di conoscenza si

riscrive continuamente, diceva Grotowski.

1 Leggiamo in Bühler lo stesso concetto quando considera il parlare come un’attività (Handlug): «L’opera

linguistica di per sé esige di essere considerata in linea di principio e in linea di fatto sciolta dalla matrice

costituita dalla vita individuale e dall’esperienza vissuta del suo produttore. Il prodotto, in quanto opera

dell’uomo, tende sempre a rendersi indipendente dalla sua genesi e a divenire autonomo» K. Bühler,

Teoria del linguaggio, Armando, 1983 pp. 105- 106.

2

Poiché le premesse ci sembrano buone e lo studente non ha avuto la possibilità di sostenere

l’esame, vorremmo dargli l’opportunità di esporre e di argomentare i concetti e i pensieri che

ha tessuto nel corso della sua esperienza di conoscenza. Al nostro studente non è stato

riconosciuto un contesto spazio- temporale di confronto che può essere ricreato qui e ora. I

discorsi che faremo nel nostro campo non vivranno però dell’esperienza di

contatto/confronto/scambio interumano. Non potremo perciò restituire a questa coscienza

l’aspetto che considera più importante del “momento esame”, e per questo ce ne dispiace, ma

sono, dopo tutto, i limiti che il mezzo ci impone. Iniziamo dal Corso di Linguistica Generale

di F. de Saussure. Per riprendere le parole di Jakobson, ricordate da De Mauro in una nota al

Cours, Saussure è il grande rivelatore delle antinomie linguistiche, relazioni antinomiche

costitutive dell’oggetto lingua: la lingua come fatto individuale e sociale, di cui non si può

concepire l’uno senza l’altro; il suono come unità acustico- vocale (legame tra percezione e

produzione sonora) e fisiologico- mentale. L’antinomia più importante e preziosa dal mio

punto di vista è il rapporto, nella lingua, tra stabilità e mutamento, il riconoscimento di una

contraddizione immanente, non apposta o attribuita estrinsecamente dal linguista ma

emergente come relazione costitutiva dei fenomeni linguistici. La lingua è un sistema stabile e

al contempo si trasforma. Il riconoscimento di tale rapporto nella lingua è un passo

fondamentale verso il riconoscimento dell’organicità dei fenomeni linguistici, del loro “essere

in vita”. «Il fatto che il segno sfugga sempre in qualche misura alla volontà individuale e

sociale, questo è il suo carattere essenziale»2. È un’affermazione che contiene un’intuizione

potente: il riconoscimento che la lingua possiede una vita autonoma indipendente dai singoli

individui a cui tuttavia è legata in senso immanente. La lingua come forma “in vita” è

automovimento, autotrasformazione e autosviluppo.

De Mauro è bravo a fare chiarezza, a distinguere il pensiero di Saussure dalle aggiunte e

interpolazioni degli editori, ad affrontare la questione delle interpretazioni, gli equivoci e le

incomprensioni, le radici delle polemiche e delle accuse tradizionalmente rivoltegli. Vi è un

punto in cui tuttavia Saussure mi sembra avere una maggiore “responsabilità” epistemologica

e metodologica. Egli riconosce come carattere universale dei sistemi linguistici insieme la

mutabilità e immutabilità del segno, ed è emblematica in tal senso la nota che gli editori

sentono di dover apporre a questa affermazione per rassicurare il lettore che l’autore non è

impazzito dichiarando che la lingua è stabile e cambia continuamente. Saussure afferma

infatti che il principio di alterazione si fonda sul principio di continuità: riconosce cioè un tipo

di rapporto dialettico, immanente, intrinseco, tra stabilità e mutamento. Questo è un lascito e

2 F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, 1967, p. 27.

3

una consapevolezza enorme. Tuttavia, subito dopo, troviamo la distinzione netta e ben

definita tra linguistica sincronica e linguistica diacronica. De Mauro precisa che nella

prospettiva di Saussure le due linguistiche si nutrono reciprocamente, che la linguistica statica

trarrà grande giovamento dagli studi storici (in diacronia).

A me sembra che il problema non sia nella distinzione, che può certo avere un carattere

dialettico (anche se così non è stato in seguito), tra linguistica statica e linguistica evolutiva,

quanto piuttosto nella definizione che Saussure delinea di asse della sincronia e di asse della

diacronia: tale definizione, più volte formulata, mostra la difficoltà a tenere insieme i due

piani precedentemente riconosciuti, e la scelta di separarli assegnandoli a due linguistiche

distinte. L’asse della simultaneità si riferisce ai rapporti tra cose coesistenti senza alcun

intervento del tempo (ovvero senza alterazione, si parla di stato assoluto nelle pagine

sull’identità sincronica); l’asse delle successioni studia le stesse cose nei loro cambiamenti. È

sincronico tutto ciò che si riferisce all’aspetto statico, è diacronico tutto ciò che si riferisce

alle evoluzioni. Saussure, una volta riconosciuta la dialettica stabilità- mutamento come

costitutiva della lingua, attribuisce l’uno dei due lati alla linguistica sincronica, l’altro alla

linguistica diacronica: non mantiene cioè la contraddizione all’interno di ciascun punto di

vista che pure può essere distinto. Il problema allora non è nella distinzione tra linguistica

diacronica e linguistica sincronica, ma nel fatto che il punto di vista sincronico e quello

diacronico non tengono la relazione antinomica precedentemente riconosciuta all’oggetto

lingua, per la quale è stata affermata la relazione interna e coesistente tra stabilità e

mutamento, ma tale relazione è successivamente scomposta nei suoi termini, e i due lati, di

cui si è affermata la presupposizione reciproca, sono di fatto separati.

L’asse sincronico, il punto di vista che guarda ai rapporti tra cose facenti parte dello stesso

contesto, coesistenti, vuole descrivere uno stato di lingua, non le sue trasformazioni. Uno

stato di lingua è sempre una lingua come forma, cioè come sistema di valori; ma se abbiamo

riconosciuto che uno stato di lingua è sempre frutto di trasformazioni e di stati precedenti,

cioè che ha in sé, in quanto stato, la realtà del mutamento e, reciprocamente, che l’alterazione

si fonda sulla continuità, allora non è possibile non tener conto di questa natura antinomica

dell’oggetto lingua a livello metodologico. Entrambe le prospettive di fatto poi fanno i conti

con i due lati dell’oggetto: lo studio sincronico incontra le variazioni e i mutamenti anche

all’interno di contesti ben definiti nello spazio e nel tempo, e allo stesso modo lo studio

diacronico si imbatte in elementi di continuità e permanenza mentre indaga le differenze tra

4

gli stati di lingua e le trasformazioni. Dunque, alla base di quello che abbiamo chiamato

“limite” da trasformare c’è una definizione insufficiente e unilaterale del punto di vista

sincronico e diacronico, una rappresentazione che non riesce a tenere, differenziandosi, la

contraddizione precedentemente riconosciuta all’oggetto lingua. Si potrebbe riformulare così:

l’asse della sincronia definisce un contesto spazio- temporale e indaga le relazioni tra elementi,

livelli e dimensioni costitutive di uno stato di lingua. È la stessa indagine sincronica che fa

emergere le relazioni diacroniche, di analogie e differenze, che lo stato di lingua e il contesto

osservato intrattiene con altri stati e contesti della storia umana. In verità lo sguardo

diacronico, che osserva l’oggetto di una indagine scientifica attraverso il tempo, come il

termine ci suggerisce, è tanto più profondo ed esteso quanto più ha consapevolezza della

identità di uno stato di lingua e di un contesto particolare (e di più stati di lingua e contesti) e

dunque del livello sincronico. La ricerca diacronica riesce a seguire e a comprendere

l’evoluzione degli stati di lingua (e i rapporti tra stati diversi) nella misura in cui ha una

conoscenza sincronica, ovvero ha coscienza della stabilità, della particolare identità formale

del sistema e dei sistemi di valori che sta indagando.

«L’entità linguistica non esiste che per l’associazione del significante e del significato;

appena si considera uno solo di questi elementi, essa svanisce; invece di un oggetto concreto

ci si trova dinnanzi a una pura astrazione. […] Una sequenza di suoni è linguistica solo se è il

supporto di un’idea. […] Si è spesso confrontata questa unità a due facce con l’unità della

persona umana composta da corpo e anima. Il raccostamento è poco soddisfacente»3.

Ha ragione Saussure a dire che l’accostamento tra il segno linguistico e l’essere umano è

un paragone poco soddisfacente. È la lingua come forma, non le singole entità linguistiche,

che può essere accostata all’essere umano, un organismo vivente ma ben più complesso

dell’organismo vegetale (la complessità a che fare col maggior grado di libertà). Il

riconoscimento dell’arbitrarietà del segno, cioè della storicità e della socialità delle lingue (per

cui tra le facce dei segni linguistici non vi è un legame predeterminato), è un passo

fondamentale che supera irreversibilmente una concezione della lingua come nomenclatura, la

quale presuppone le cose della realtà già date nella loro determinatezza e differenza, un

mondo già ripartito - e dunque conosciuto - a cui assegnare delle etichette. Saussure critica

una linguistica che guarda alla lingua come un naturalista guarderebbe allo sviluppo di un

vegetale. Il livello delle leggi di tipo deterministico- causale, pur presente nella lingua, non la

3 F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., p. 125-126.

5

esaurisce perché non tiene conto dell’esser soggetto dell’oggetto considerato, ossia del suo

essere in vita; una vita dialettica è una vita complessa, che si muove tra il dato e il non dato, il

limite e la libertà, la finitezza e l’infinità, la stabilità e il mutamento; non una somma o

giustapposizione di parti, piuttosto una tessitura organica che si autogenera e si autotrasforma.

Pensando a un appello d’esame si potrebbero fare le seguenti associazioni: la relazione con

gli studenti, la tensione etica, la trasmissione dell’esperienza di conoscenza, il confronto

interumano, l’osservazione e la ricerca dal vivo. Invece: i cavilli amministrativo- burocratici,

la tensione nervosa, la fretta e l’approssimazione, i docenti alle prese con l’ennesima riforma

burocratica, gli studenti che discutono dei problemi con la documentazione, delle tasse, delle

scadenze, dei verbali, delle segreterie. Un ingenuo potrebbe pensare che tra i corridoi si

commenti e si faccia un’analisi critica della lezione seguita, del testo studiato, o ci si scambi

informazioni bibliografiche, materiale didattico; o che si parli di ciò che accade nel mondo.

Nella realtà dei corridoi, degli spazi e dei tempi universitari, l’oggetto del discorrere sono

troppo spesso i problemi burocratici, le file agli sportelli, il numero dei crediti mancanti.

Energie materiali e psicofisiche spese a discutere, sperimentare e crucciarsi di un vano vuoto e

atrofizzante nulla. La macchina universitaria fagocita le sue unità concrete. I processi che

generano i danni più gravi oggi sono discreti, trasversali, subdoli, perché la loro forza è di

agire silenziosamente nella lunga durata. L’impotenza di quanti assistono senza riuscire a

immaginare una via d’uscita si comprende pensando che le strutture di organizzazione del

reale, nelle quali e per le quali hanno vissuto, si sono inesorabilmente “consumate” e ciò è

accaduto in un tempo brevissimo se confrontato con altre epoche della storia umana, quando

mutamenti e trasformazioni radicali avvenivano in tempi lunghi o lunghissimi. Le strutture e i

sistemi istituzionali hanno consumato la propria esistenza storico- reale: non sorgono

dall’esperienza vivente di un popolo storico, sono diventate entità positive, istituzionalizzate,

prive del legame immanente con la matrice - l’agire di tutti e di ciascuno - che le genera in un

processualità circolare; una struttura morta può continuare ad essere ed esistere, come un

cadavere tenuto in vita. Il negativo, la lacerazione, la scissione, la morte di ciò che deve

morire, la distruzione e il cessare è indispensabile alla vita stessa. La decadenza, la nostra

decadenza, è indifferenza, stasi, ristagno, immobilità, rigidità, ripetitività, sterilità,

cronicizzazione degli atteggiamenti esistenziali, ipostatizzazione dei paradigmi epistemologici

e metodologici, persistenza di anacronismi, intellettualismi e ideologismi, così estranea a ciò

che per l’umano in se per sé ha senso, eppure così determinante e orientante nella nostra

quotidianità esperienziale.

6

Ma adesso stiamo andando lontano e il nostro studente vuole tornare ai testi. Il libro del

Prof. lo aveva sorpreso assai e non poté che accogliere con un certo stupore il grido di rivolta

nei confronti delle arretratezze teoriche e operative di una scienza - la linguistica - dominata

dai paradigmi strutturalista, generativo e cognitivo. I supporti informatici hanno modificato la

capacità di osservare i fenomeni linguistici e hanno messo a disposizione nuovi dati che,

assieme alle riflessioni scientifiche svoltesi in vari ambiti disciplinari, mostrano “i piedi di

argilla” di teorie, metodologie e paradigmi su cui si basa la ricerca e la trasmissione del

sapere. Ma tali paradigmi permangono, tra cui quello segmentale in linguistica. Quando

l’autore fa riferimento alla consapevolezza del ruolo del contesto nel funzionamento della

lingua, lo studente torna con la mente al saggio sul metodo che ha scritto un anno fa e che

inizia così:

«La consapevolezza dell'importanza di contestualizzare l'oggetto di una indagine scientifica,

facendo riferimento alla realtà in cui è immerso, è uno dei pilastri concettuali del pensiero

critico moderno. In altre parole, il riconoscimento della storicità e della spazialità dei

fenomeni umani diventa un principio epistemologico fondamentale. La contestualizzazione

sostanzialmente individua e pone relazioni: è una tessitura di elementi, livelli e dimensioni

costitutive».

Due cose qui: il riconoscimento dell’importanza del contesto e la concezione del contesto

come una tessitura. Il senso della “tessitura” - riferito non solo al significante fonico - ritorna

nel libro del prof. con l’immagine del “volto fonico”. Al tempo in cui scrisse il saggio, il

nostro studente non aveva ancora letto i testi d’esame ma aveva già usato i termini sincronico

e diacronico in un modo, come poi si era accorto, sensibilmente diverso dal senso che

emergeva dalle pagine del Corso di Linguistica Generale; proprio questa differenza - tra il

suo impiego del termine e quello del maestro francese - lo aveva aiutato a capire come il nodo

cruciale della questione saussuriana non fosse nella distinzione o nell’opposizione tra

linguistica sincronica e linguistica diacronica, ma nel modo di intendere, nella

concezione/idea/rappresentazione/ dello stato sincronico e di quello diacronico: tale

rappresentazione non teneva entro se stessa la contraddizione precedentemente riconosciuta.

Non si può dire che la dialettica sia tra i concetti meglio compresi dagli studiosi moderni.

Ne è prova emblematica la trasmissione e l’apprendimento della dialettica hegeliana come

tesi, antitesi e sintesi. Potremmo chiederci da dove provenga la rappresentazione

(Darstellung) della dialettica presentata nello schemino tesi, antitesi e sintesi, diffuso nella

vulgata accademica e scolastica a tutti i livelli, ma questo non è il luogo per farlo.

7

Generalmente si pensa alla contraddizione dialettica come all’opposizione tra due termini,

mentre il punto cruciale è riuscire a pensare alla dialettica come a una opposizione immanente

a ciascun termine, e riuscire a tenerla, a “sopportarla”. Se la pensiamo in tal modo, allora

capiamo perché il riconoscimento è tra termini che sono in se stessi una differenza interna.

L’intelletto, incapace di tenere la contraddizione, separa i due lati e li concepisce come

opposizioni esterne, estrinseche, poste. Per lo stesso concetto diciamo che, se ci fosse, il

numero della relazione dialettica non sarebbe il tre (la triade sintetica) ma il quattro, perché i

due termini in relazione sono ciascuno ineguale a se stesso. Ciò non avviene nell’etere puro

del pensiero ma si dà in un contesto di realtà. Il riconoscimento è un atto e, come

apprendiamo anche da Bühler: «[…] l’attività, qualunque ne sia la definizione scientifica, è un

concetto storico e non può essere altro neppure in psicologia. Ogni attività è tale in un dato

campo: già anni fa lo definii campo d’azione. […] Ogni attività umana possiede ciò che in un

senso specifico della parola si può definire la sua storia dell’atto (Aktgeschichte)»4. Il campo

di azione è ineliminabile per comprendere e tenere la relazione dialettica. Tornando al saggio

sul metodo scritto dal nostro studente leggiamo:

«Lo sguardo della modernità, che ambisce alla profondità e all'estensione, ritiene altrettanto

necessario confrontarsi con il livello diacronico dei fenomeni umani che ne rivela il carattere

processuale: osservare e comparare l'oggetto di indagine in rapporto ad altre realtà che

attraversano la storia umana. Il contesto spazio-temporale di riferimento, l'operare della

memoria e dell'oblio sono alla base di una identità, di una particolare verità storico-

esistenziale e del suo manifestarsi a livello fenomenologico».

Nel suo libro il prof. si chiede se l’opinione su cui poggia il paradigma segmentale sia

frutto di una proprietà della lingua in sé o di una rappresentazione esterna che a un certo punto

è stata data alla lingua: sta sollevando una questione cruciale per tutte le discipline del sapere,

a cui fa riferimento anche Bühler quando afferma la necessità di una disamina critica dei

concetti con cui opera il linguista e di una comparazione tra questi concetti e quelli degli altri

ambiti disciplinari. L’invito di Bühler viene accolto: il paradigma segmentale è sottoposto ad

una ferrea disamina critica e se ne discutono i fondamenti – per prima cosa la nozione di

fonema - alla luce dell’osservazione fenomenologica della realtà linguistica. Parlando dello

strutturalismo si ricorda che la scissione e la separazione tra langue e parole proviene da una

interpretazione riduttiva del pensiero di F. de Saussure che conduce a una «ipostatizzazione

dell’idea di struttura» e fa passare lo strutturalismo da «metodologico a ontologico». Il nostro

4 K. Bühler, Teoria del linguaggio,cit., 1/I principi della ricerca linguistica, p.108.

8

studente all’inizio ha già messo in luce indirettamente come l’inadeguatezza nel modo di

intendere il rapporto tra langue e parole sia legata a una debolezza anche teorica. Non basta

infatti dire che la gerarchia va intesa in senso metodologico, che è una gerarchia di punti di

vista e non di cose, perché in verità il rapporto tra le cose (gli oggetti) e i punti di vista (i

soggetti) è un rapporto dialettico e la posizione epistemologica è immanente alla posizione

metodologica. Saussure, nell’esplicitare le antinomie linguistiche e nell’affermare che il

principio di alterazione (mutamento) si fonda sul principio di continuità (stabilità), riconosce

una relazione dialettica tra stabilità e mutamento immanente alla lingua ma non riesce a

“tenere” la contraddizione, perché a uno stato di lingua (a un sistema) attribuisce solo

l’aspetto statico (l’identità), all’altro (alla parole, l’atto fonico e significazionale) solo

l’evoluzione (differenza). Dopo aver riconosciuto continuità e discontinuità alla lingua egli

separa questi lati assegnandoli a due linguistiche distinte, mentre in una relazione dialettica i

due poli dovrebbero assumere, ciascuno in se stesso, entrambi i lati della relazione.

Ritorniamo al nostro studente che lasciando il corridoio di facoltà ripensa all’esame che

non ha sostenuto questa mattina. Se avesse effettuato la prenotazione per tempo avrebbe avuto

la possibilità, come gli altri, di confrontarsi con il docente sui concetti che aveva elaborato.

Quando torna a casa inizia a scrivere. La scrittura è in realtà una riscrittura esperienziale, un

atto di rielaborazione di ciò che ha vissuto; è per ricreare uno spazio e un luogo di

contatto/scambio esperienziale, negato alla realtà del contesto interumano, ricreato dalla realtà

del testo scritto. E in ciò trasforma il limite, il negativo, lo riscrive in un altro contesto, può

distanziarsene e osservarlo da fuori, oggettivizzare, rappresentare, scomporre, individuare, e

tornare all’intero. «Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante

il suo sviluppo. […] proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto o

divenir- se- stesso»5.

In verità Professore, mi piacerebbe discorrere con Lei ancora su altri temi e questioni

aperte, ma per questa volta credo sia abbastanza. Prima di congedarmi devo aggiungere

qualcosa. Dopo il Suo rifiuto di farmi sostenere l’esame mi recai nuovamente al s.o.r.t dove la

mia interlocutrice, assicurando che non sussistevano problemi o impedimenti “tecnici”, mi

esortò a protestare per la decisione che Lei aveva preso. Il Suo volto quella mattina, quando

arrivò in Facoltà, era teso, quasi adirato o nervoso, cupo, accigliato, stanco forse, crucciato.

Se avessi protestato nella maniera tradizionale probabilmente non sarebbe servito a nulla.

Nella nostra realtà esperienziale opera continuamente, anche se per lo più inconsapevolmente,

5 G. W. F. Hegel, Fenomenologia, cit., Prefazione, p.15.

9

il fenomeno della proiezione all’esterno di contenuti immaginativi interni (rappresentazioni);

si può ipotizzare che la decisione di non farmi sostenere l’esame sia, almeno in parte, frutto

dell’aver proiettato a priori l’indolenza, la superficialità e la noncuranza del sistema-

università e dei suoi soggetti su una delle sue unità particolari, il cui atteggiamento (non aver

effettuato la prenotazione) diventa oggetto di disapprovazione anche se il vero bersaglio

polemico è più in generale l’attuale modo di essere del sistema- università e dei suoi soggetti-

attori. Ciascuna delle parti che costituisce un intero è tuttavia essa stessa un’interezza, e in tal

modo deve essere considerata. I limiti dello strutturalismo (in parte già impliciti in alcuni

assunti saussuriani) hanno radici più profonde che si intrecciano al problema delle

interpretazioni fossilizzate della dialettica hegeliana che ne tramandano una rappresentazione

distorta, semplificata, riduttiva, parziale e perversa (capovolta). Un punto su cui mi

piacerebbe un confronto è il tema dei dialoghi interdisciplinari. Credo che le ragioni per cui

una relazione interdisciplinare autentica ed efficace non riesca ad essere agita vadano

ricercate nell’assenza di una campo fisico e concettuale (un campo di attività: Feld, ogni

attività è tale in un dato campo di azione o contesto) in grado di accoglierla, sostenerla,

orientarla. Il campo concettuale/ contesto, capace di tenere una relazione interna al sapere

tanto complessa e articolata, tale da creare una tessitura esperienziale che restituisca alla

scienza la sua interezza - e ciò condurrebbe anche alla riscrittura del legame tra il sapere e la

realtà - è la contraddizione dialettica. Ma non possiamo dare per scontato di intenderci sulla

dialettica perché, nonostante il concetto sia stato già dato e possa essere considerato presente

alla coscienza, persiste, accanto a un modo di essere del pensiero che possiamo chiamare

intellettualistico (di cui il paradigma segmentale è espressione), una rappresentazione triadica,

semplificata, banalizzata, distorta e stravolta della dialettica stessa, che attende una seria

chiarificazione dei concetti e un ritorno ai testi nella loro interezza e complessità. La

Fenomenologia dello spirito è il testo per eccellenza sul quale non si potrebbero applicare i

“metodi di lettura veloce”, perché anche i dettagli, le scansioni, le pause, le particelle come i

“ma” sono di vitale importanza. E, soprattutto, una lettura veloce non è sostenibile dal

pensiero, almeno all’inizio. Comprendere i passaggi e lo svolgersi del discorso significa

tenere insieme diversi piani e livelli che non possono essere lasciati quando si passa ai

successivi, e ciò richiede un certo esercizio perché è una forma mentis a cui non siamo

abituati: la scansione e lo sviluppo lineare, causale e consequenziale informa il nostro modo

di organizzare il pensiero e le nostre rappresentazioni, perciò all’inizio non bisognerebbe

avere fretta e gustare pian piano ciò che si schiude alla coscienza. Mi sono resa conto che il

ritmo, le scansioni e le pause interne, fondamentali per comprendere concettualmente il testo,

10

sono favorite da una lettura “a voce”, una lettura non interiore o soltanto “mentale”, ma che

dia voce prosodico- corporea alle parole e ai concetti. Un racconto che “mette in scena”

l’esperienza della coscienza. Nell’attesa di un inizio di dialogo - di un gesto -

cordiali saluti

M. A.

Roma, 17 Giugno 2010

Gentile Professor L.,

alla fine il momento dell’esame è giunto per il nostro studente; il Professore lo ha valutato

positivamente, con il massimo dei voti, e si è persino rammaricato di non aver ricevuto (o

letto) lo scritto inviatogli dopo l’esame mancato (v. sopra). L’iter burocratico della

prenotazione questa volta non ha subito intoppi, e tuttavia un imprevisto, indipendente dalla

sua volontà, lo ha fatto arrivare in ritardo all’appello. Dopo la prima esitazione il Professore,

sentendo i titoli dei testi d’esame, accetta. - Le devo confessare, dirà alla fine - che ero partito

con un pregiudizio: mi sembrava, dal suo modo di porsi *, che non ci sarebbe stato nulla di

buono in questo esame. E invece è stato il migliore di questa sessione -.

Dopo il confronto dal vivo dell’esame è giunto il momento per lo studente di valutare il

docente nel suo stile di contatto che modula la relazione col mondo. Anche questa volta,

tornando a casa, si trova a riscrivere l’esperienza e le rappresentazioni che sorgono dentro di

sé. Volendo essere schiettamente sincera, professore, io non sono rimasta affatto soddisfatta

del Suo esame: sono rimasta molto delusa. In un certo senso la “colpa” è del mio limite di

sopravvalutare l’oggetto, di idealizzarlo proiettandovi contenuti immaginativi interni. Per

fortuna però la rappresentazione idealizzata non si cronicizza, non si incapsula in uno schema

percettivo: è capace di riscriversi perché lascia sussistere l’oggetto, lascia che esso manifesti

la propria realtà/verità. È quello che farò adesso: riscrivere le rappresentazioni esperienziali.

La prima è l’idea che avevo di Lei come docente; dopo la delusione devo fare i conti con

elementi che non mi aspettavo di trovare e che contrastano incredibilmente con certe posizioni

assunte “teoricamente”. Ma prima chiedo a me stessa se è possibile essere completamente

11

sinceri senza ferire l’altro, senza offendere il suo amor proprio, continuando sempre e

comunque a rispettarlo come essere umano. Rispondo che sì certo è possibile, ma non è detto

che io sia già in grado di farlo adeguatamente. E per questo me ne dispiace.

Possiamo iniziare con un certo schematismo6 da contatto, un modulo/pattern assunto

nell’esperienza di confronto interumano a cui è legata una certa rigidità del pensiero e la

difficoltà di seguire un discorso esteso e complesso - che è stato ogni volta sistematicamente

interrotto -. Una sua affermazione iniziale è significativa al riguardo: - Dando per assodato

che siamo d’accordo sull’idea del parlato come “volto fonico”, altrimenti non sarebbe qui a

fare l’esame, mi piacerebbe sapere … -. Mi chiedo: davvero è stato così sfortunato nella sua

carriera universitaria da incontrare solo studenti in accordo con le sue posizioni teoriche? Ma

Lei non dovrebbe già sapere che ciascuno di noi può imparare e conoscere tanto (della propria

scienza e del mondo) confrontandosi con una critica ragionata, argomentata, esposta, che

parte da una conoscenza non superficiale della materia su cui riflette? E non sa forse anche

già che il vero, grave e decadente problema, tanto nel sapere quanto nella realtà, non è

l’opporsi, il criticare, il mettere in discussione, il negare, quanto la piatta adesione, la

ripetitività delle formule e delle rappresentazioni trasmesse, la chiusura dei sistemi, la

cronicizzazione e l’ipostatizzazione dei paradigmi conoscitivi? Ma come Professore, non

aveva affermato anche questo nel suo libro? E quanto sia importante invece mettere in moto il

pensiero, rendere fluide le categorie, smuovere dal torpore, dall’abitudine che è come una

seconda natura? Questo aspetto mi riporta purtroppo e per fortuna (la fortuna sta nel fatto che

si aggiungono altri esempi concreti tratti dell’esperienza a cui far riferimento) a una delle

scissioni più care alla coscienza moderna, presentatasi più volte alla mia riflessione: quella tra

consapevolezza ed effettualità, tra il sapere una cosa “in teoria” e il metterla in pratica,

renderla effettuale come modulo esperienziale concreto che agisce nella relazione col mondo;

la scissione tra immaginazione/pensiero e azione. Il suo grido di rivolta nei confronti delle

arretratezza teoriche e metodologiche della linguistica mi aveva fatto immaginare un

atteggiamento altrettanto aperto nel confronto interumano dell’esame. E invece non solo era

pieno di schematismi e pregiudizi, ma non è stato capace di ascoltare ciò che volevo

comunicare e, nonostante abbia valutato con il massimo dei voti la mia esposizione, essa

veniva significativamente interrotta prima che potesse arrivare al cuore del discorso. Ciò è

evidentemente segno di una certa difficoltà a stare in contatto con l’alterità e a lasciarla

6

Per schematismo intendo un modulo esperienziale meccanico, rigido, ipercodificato che orienta

l’esperienza subordinandola al proprio modo di essere, non la riconosce nella sua autonomia e

indipendenza. Lo schematismo è un pregiudizio che diventa un modo di porsi compatto, una posizione

esistenziale che si autodifende saldamente e ignora la mobilità del punto di vista.

12

sussistere. Anche questo è profondamente incoerente con la posizione teorica, in linguistica,

che afferma la necessità di lasciar sussistere l’oggetto evitando le due derive metafisiche: che

la realtà si dia senza alcun intervento del soggetto e che sia il soggetto a creare a proprio

piacimento il mondo.

Penso che Lei sia stato anche ingannato da un pregiudizio, per così dire, estetico ... ma

questo non è grave e davvero comprensibile per tempi, i nostri, che non brillano certo per

l’ideale della kalokagathia.

In conclusione Professore, ho inteso focalizzare l’attenzione su un modo di porsi del

soggetto, un esserci (da- sein) o posizione storico- esistenziale nei confronti dell’alterità

esterna e interna. La trasmissione della conoscenza necessità di una virtù altrettanto

importante della preparazione professionale e della competenza nella materia, la cui assenza è

forse più grave di qualsiasi deficit epistemico: la capacità di spostare il punto di vista e

mettersi al posto dell’altro rimanendo se stessi. Una contraddizione che dobbiamo imparare a

sopportare.

Cordiali saluti

Marianna Adilardi

[email protected]