Ri-mettere al mondo il mondo

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Dipartimento di Culture del Progetto

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Il futuro, il suo disegno, le strategie e le tecniche per ‘strutturarlo’ sono per definizione materiale del progetto. I I paradigmi che hanno guidato lo sviluppo e la crescita delle città contemporanee sono giunti alla fine del proprio ciclo di vita e, nello stesso tempo e per queste stesse ragioni, è possibile riconoscere il progressivo emergere e formalizzarsi di temi e strumenti del progetto che mettono al centro il concetto stesso di futuro. Il Il volume raccoglie riflessioni su termini e concetti quali archivio, atlante, riciclo e sostenibilità accomunati dal ruolo centrale della dimensione temporale. L’idea di progetto che emerge da questo armamentario traversa storie e scale, architetture e territori, i mondi e i modi del design, della moda e dell’arte contemporanea.

La collana Nella ricerca raccoglie le ricerche e i progetti sviluppati da giovani ricercatori e assegnisti del Dipartimento di Culture del Progetto dell’Università Iuav di di Venezia. L'intento è condividere e valorizzare gli studi che si compiono nel dipartimento con la comunità Iuav, più in generale con il mondo scientifico nazionale e internazionale, con gli enti di governo e di tutela del territorio, con i professionisti che operano nel campo dell’architettura, della pianificazione e del design.I quattro volumi che danno avvio alla collana, raccolgono gli esiti gli esiti parziali delle numerose ricerche condotte dagli assegnisti del dipartimento e relative alle discipline dell’architettura, delle arti visive, del design, della moda, dell’urbanistica e del paesaggio. Un unico titolo li accomuna, Nella ricerca, mentre i sottotitoli individuano le diverse tematiche da essi affrontati.

I I volumi rappresentano il primo tentativo di avviare una discussione e un confronto vivo fra le ricerche e le discipline che animano il dipartimento a partire da alcuni grandi temi del progetto che attraversano la società e i territori contemporanei (il paesaggio, il futuro, i linguaggi, la città). Attraverso le ricerche, ancora in fieri, dei giovani ricercatori, i i volumi si propongono di valorizzare le tante anime e culture del dipartimento e della sua speciale natura di luogo di integrazione fra saperi, didattica e ricerca.

I primi quattro volumi della collana sono:- Nella ricerca. Paesaggio e trasformazioni del territorio- Nella ricerca. Futurecycle- Nella ricerca. Città/Venezia- - Nella ricerca. Linguaggio e progetto

€ 24,00

ISBN 978-88-98176-05-2

Università Iuav di VeneziaDipartimento di Culture del Progetto

Nella ricercaFuturecycle

a cura di Lorenzo Fabian e Sara Marini

Università Iuav di Venezia Dipartimento di Culture del Progetto

CollanaNella Ricerca

DirettoreCarlo Magnani

Comitato scientificoLorenzo Fabian, Viviana Ferrario, Sara Marini, Mauro Marzo, Angela Mengoni, Valerio Paolo Mosco, Gundula Rakowitz, Micol Roversi Monaco, Alessandra Vaccari

Progetto grafico e copertinaLuciano Comacchio, MeLa Media Lab, Venezia

EditoriIUAV Dipartimento di Culture del Progetto & Giavedoni editore

Copyright© 2015 IUAV Dipartimento di Culture del Progetto© 2015 Giavedoni editore

Prima edizionefebbraio 2015ISBN 9788894056907ISBN 9788898176052 

Per le immagini contenute in questo volume gli autori rimangono a disposizione

degli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,

di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo,

sono riservati per tutti i Paesi

Materiale non riproducibile senza il permesso scritto degli Editori

Università Iuav di VeneziaDipartimento di Culture del Progetto

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Premessa

Futurecycle

Scarti, archivi, scenari. Il futuro come sceltaLorenzo Fabian

L’atlanteSara Marini

Archivi, atlanti

Ri-mettere al mondo il mondoCristina Baldacci

Archeologia del futuro. Immagini, luoghi, suoniEnrico Pitozzi

Futuro “chiavi in mano”. L’U�icio Tecnico DalmineVincenza Santangelo

Welfare urbano e dispersione. Bilanci e strategie per la cittàdi�usaCristina Renzoni

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Indice

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Riciclo, Sostenibilità

Di�usione di energia.Verso un futuro decentratoChiara Cavalieri

Reverse. Textile and Fashion HubMaria Cristina Cerulli

Re-includere. Riuso e luoghi inclusiviGiorgia De Michiel

Cicli futuri

Futuro e UniversitàBenno Albrecht

Autori204

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Abbecedario (introduzione). Tutto o quasi nasce da una selezione (biologica, culturale, sociale…), ovvero da una scelta fatta partendo da una totalità; anche questo dizionario, che, per quanto possa essere qui soltanto abbozzato e rivelarsi arbitrario – come d’altronde ogni tentativo di classificazione –, contiene alcune parole-chiave riconducibili all’“arte del riuso” e a quel potenziale archivio di reperti da cui, quando si segue una strategia creativa rivolta alla rivisitazione e ricomposizione della realtà, si attinge per dare nuova forma e nuovo significato alle cose.Se è sempre più vero che l’arte contemporanea “si fa con tutto”1, so�ermarsi su alcuni vocaboli relativi alla produzione estetica come cultura del ‘riciclo', nelle arti visive, così come nel cinema, nel design e in architettura2, è utile per aprire la discussione a un confronto tra discipline. Questo piccolo dizionario è pertanto un invito a individuare e ripensare una costellazione di lemmi e idee che riguardano il tema del Futurecycle e, parallelamente, anche la ricerca di chi scrive, intitolata Atlante/archivio. Tra due forme di conoscenza del visivo. A livello culturale, vi è infatti un’analogia tra l’archivio come luogo della raccolta e salvaguardia di ciò che non deve essere perso, né dimenticato, e la discarica, dove le tracce del passato vengono accumulate e abbandonate perché ormai logore e prive di interesse. Archivio e discarica sono le due facce di una stessa medaglia e, proprio per questo, “possono essere considerati emblema e sintomo del ricordo e dell’oblio”3. Diversamente dall’architettura e dal design, che recuperano materiali di scarto per motivi etici ed ecologici reinserendoli nel ciclo produttivo tramite processi di rigenerazione, l’arte, che non è vincolata a scopi funzionali, si avvale dei rifiuti principalmente come portatori di memoria. Per mettere in relazione discorso teorico e pratica artistica, a ciascun termine

1. A. Vettese, Si fa con tutto. Il linguaggio dell’arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2010.

2. Cfr. M. Bertozzi, Recycled cinema. Immagini perdute, visioni ritro-vate, Marsilio, Venezia 2012; P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città, il pianeta (catalogo mostra, MAXXI, Roma), Electa, Milano 2012; S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Ricicli. Teorie da concetti nomadi e di ritorno, Aracne, Roma 2014.

3. A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria cultu-rale [1999], Il Mulino, Bologna 2002, 422.

Ri-mettere al mondo il mondoCristina Baldacci

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e documenti: oggetti, parole, immagini statiche oppure in movimento… (nel caso dei materiali visivi, capita spesso che le raccolte siano organizzate secondo una struttura a griglia).Allo stesso modo dello storico materialista benjaminiano, l’artista contemporaneo seleziona e assembla i vari tasselli del reale per “mettere al mondo il mondo” (questo il titolo di una serie di lavori di Alighiero Boetti del 1972-73) una seconda volta, tra ordine e disordine, memoria e oblio, vecchio e nuovo, finito e infinito. La citazione boettiana non è casuale: l’atto creativo è sempre un processo linguistico e politico (altro lemma non presente, ma basilare); un tentativo di fare ordine nel caos, di ricomporre l’unità perduta attraverso di�erenti tecniche di montaggio o di “ri-montaggio”6.

Accumulo (accumulare). Karl Marx considerava l’accumulare una caratteristica del capitalismo e dello stesso avviso sarebbe stato, qualche anno più tardi, Jean Baudrillard, che attribuiva l’alienazione del nostro tempo alla riduzione dell’essere umano a consumatore di merci. È significativo che anche un teorico dell’architettura come Rem Koolhaas, nel suo celebre saggio dedicato allo “junkspace”, abbia a�ermato che è proprio lo “spazio spazzatura” del paesaggio urbano contemporaneo a sostituire “la gerarchia con l’accumulo, la composizione con l’addizione”, calandoci sempre più nella dimensione estetica e ambientale del “more is more”7.Oggi sappiamo che la mania di contornarsi di oggetti-spazzatura può degenerare in patologia, come è stato recentemente confermato da due studiosi americani, che hanno dato a questo malessere, già conosciuto come “sindrome dei fratelli Collyer”, anche un nome clinico: disposofobia8. Non è dunque una coincidenza se in ambito artistico l’appropriazione e la

6. A. Mengoni, Ri-montaggi, in M. M. Borgherini, (a cura di), Immagi-ni, rappresentazioni. Metamorfosi, migrazioni, ombre, Aracne, Roma 2014, 16-21.

7. R. Koolhaas, Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spa-zio urbano, a cura di G. Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2006, 66.

8. R. O. Frost, G. Steketee, Tengo tutto. Perché non si riesce a buttare via niente [2010], Erickson, Trento 2012.

si è scelto di associare, e di presentare molto brevemente, un’opera esemplare di un autore contemporaneo che lavora con le pratiche di archiviazione e riuso. Si è inoltre deciso di non includere in questo iniziale elenco tre vocaboli fondamentali, futuro, riciclo e selezione, poiché agiscono come presenze continue all’interno del discorso.È passato ormai quasi un secolo da quando Walter Benjamin scriveva della metropoli moderna come del luogo privilegiato dei frammenti, cioè di quei residui del quotidiano che, pur essendo prodotti della società dei consumi, erano per lui anche indubbie promesse di futuro. Questo suo atteggiamento propositivo nei confronti degli oggetti-spazzatura trova conferma nella celebre metafora dello storico materialista come straccivendolo (chi�onnier) e, in particolare, in una significativa citazione inserita nel Passagenwerk (1927-1940) che il filosofo tedesco riprende da Charles Baudelaire: “Ecco un uomo incaricato di raccattare i rifiuti di una giornata della capitale. Tutto ciò che la grande città ha rigettato, tutto ciò che ha perduto, tutto ciò che ha disdegnato, tutto ciò che ha fatto a pezzi, lui lo cataloga, lui lo colleziona. Compulsa gli archivi del vizio, il cafarnao degli scarti. Fa una cernita, una scelta intelligente; raccatta, come un avaro un tesoro, le immondizie che, rimasticate dalla divinità dell’Industria, diventeranno oggetti utili o piacevoli”4. La metafora dello chi�onnier accomuna il filosofo (Benjamin), il poeta (Baudelaire) e, come vedremo, anche l’artista contemporaneo, che, dopo lo sgretolamento della totalità – già annunciato dal pensiero romantico e da Friedrich Nietzsche – e della temporalità univoca, intuisce che è ancora possibile rappresentare la realtà soltanto attraverso l’appropriazione e il montaggio dei suoi frammenti. Nel corso del XX secolo l’artista si è definito sempre più come un bricoleur5 e gran parte della prassi artistica è tuttora una sorta di ars combinatoria, dove la giustapposizione di elementi eterogenei – per lo più readymade trovati per caso o anche cercati – diventa uno strumento conoscitivo, simbolico e critico; soprattutto quando l’opera assume la forma di una collezione, dove si alternano, e a volte coesistono materiali

4. A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Walter Benjamin. Aura e Choc, Einaudi, Torino 2012, 400.

5. J.-M. Floch, Identità visive [1995], Franco Angeli, Milano 1997; J.-M. Floch, Lettere ai semiologi della terra ferma, trad. it. E. Gigante, a cura di M. Agnello, G. Marrone, Meltemi, Roma 2006.

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quando, nel 1953, chiese a Willem de Kooning un disegno allo scopo di cancellarlo e tramutarlo in un suo lavoro. Più che l’oggetto modificato in sé, la vera opera d’arte era consistita nel processo di appropriazione. In altri casi, la presa di possesso avviene in maniera meno radicale: l’oggetto viene unito a nuovi elementi per mezzo del collage, montaggio, assemblaggio. I primi sperimentatori in questa direzione furono, com’è noto, Georges Braque e Pablo Picasso con i papiers collés.A volte, la sottrazione non riguarda un oggetto, ma qualcosa di più personale: Cindy Sherman, maga dei travestimenti, si appropria dell’immagine altrui creando una stratificazione di identità, composta dalla sua immagine, da quella della persona che ha scelto di emulare, e da tutte le immagini che di quella persona già esistono e sono entrate a fare parte della memoria collettiva. Quando viene ‘aiutato', cioè rimaneggiato, l’oggetto trovato prende una nuova forma – tranne quando la citazione è letterale come per molti readymade di Marcel Duchamp (l’orinatoio, la ruota di bicicletta, lo scolabottiglie, l’appendiabiti, la pala da neve…) – e ottiene anche un nuovo valore; è quindi sottoposto a una risignificazione, oltre che a una ricontestualizzazione. A seconda dei casi, appropriarsi di una cosa che già c’è equivale a citarla, copiarla, replicarla, manipolarla, remixarla: tutte quelle azioni che, in campo estetico e non solo, Nicolas Bourriaud ha fatto rientrare nel concetto di “postproduction”. “Inserendo nella propria opera quella di altri”, a�erma il teorico e curatore francese, “gli artisti contribuiscono allo sradicamento della tradizionale distinzione tra produzione e consumo, creazione e copia, readymade e opera originale. Il materiale manipolato non è più primario. Non si tratta più di elaborare una forma sulla base di materiale grezzo, ma di lavorare con oggetti che sono già in circolazione sul mercato culturale”11. L’appropriazione modifica di conseguenza sia le nozioni di originalità e autenticità, sia l’idea di autorialità, che diventa in un certo senso “multipla”. Alcuni artisti si sono serviti dell’appropriazione come strategia di denuncia. Con il suo Musée d’Art Moderne, Département des Aigles, un museo fittizio che nel corso di quattro anni, tra 1968 e 1972, ha cambiato più volte forma, Marcel Broodthaers (1924-1976) è riuscito a contestare il sistema dell’arte (critica

11. N. Bourriuad, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mon-do [2002], trad. it. G. Romano, Postmedia Books, Milano 2004, 7.

raccolta di materiali di recupero e scarto sia diventata una prassi comune9, a partire dal boom economico del dopoguerra e dall’aumento dei consumi degli anni Cinquanta-Sessanta, con i nouveaux réalistes europei, i neo-dadaisti e i pop americani. Nel 1961, in occasione di una ormai storica mostra al Museum of Modern Art di New York, il curatore William Seitz definì quella che allora era la nuova pratica basata sull’accumulo e montaggio di oggetti “arte dell’assemblaggio”10; mentre, alla fine dello stesso decennio, nel 1969, Harald Szeemann avrebbe segnato con When Attitudes Become Form, alla Kunsthalle di Berna, l’a�ermarsi delle tendenze concettuali e processuali, anch’esse legate all’uso di materiali poveri e spesso riciclati.L’accumulo estetico di oggetti prende forme diverse: gli artisti accatastano, appendono, dispongono, uniscono, in maniera più o meno ordinata, oppure decisamente caotica, allo scopo di mostrare aspetti del vivere contemporaneo, così come consuetudini del nostro passato. Christian Boltanski (1944), per esempio, raccoglie oggetti-simbolo della memoria. La sua ricerca è incentrata sul tema della morte e sul senso di perdita di significato dell’esistenza, con particolare riferimento alla Shoah e all’infanzia. Da più di quarant’anni, l’artista colleziona tracce del quotidiano, come abiti-stracci, scarpe e altri e�etti personali. Strappati dal contesto originario, isolati, messi in scena con drammaticità, gli oggetti scelti da Boltanski appaiono come relitti di una civiltà già scomparsa. Il monumentale Personnes, allestito nel 2010 al Grand Palais di Parigi, e poi anche all’Armory di New York con il titolo No Man’s Land, è composto da montagne di brandelli di sto�a colorata. Ogni frammento è metafora di una vita anonima che entra a far parte di una massa indistinta e, come tale, disegna un terribile memento mori dell’umanità.

Appropriazione. Quando un artista si appropria di qualcosa di già esistente, prende in prestito, o meglio, ‘ruba’ un oggetto che appartiene a un dato contesto o a un’altra persona con l’idea di riutilizzarlo, spesso modificandolo a proprio piacimento. È stato così, per esempio, per Robert Rauschenberg,

9. D. Evans (a cura di), Appropriation, Whitechapel Gallery-MIT Press, London-Cambridge (MA) 2009.

10. W. Seitz (a cura di), The Art of Assemblage (catalogo mostra, Museum of Modern Art, New York), Museum of Modern Art, New York 1961.

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enunciato e potere17; Gayatri Chakravorty Spivak, per la necessità di una rilettura postcolonialista delle font18; Giorgio Agamben per la figura del testimone19; Aleida Assmann, per le implicazioni che riguardano la memoria culturale20; Jacques Derrida, per il rapporto antitetico tra memoria e oblio21; Boris Groys, per l’importanza del supporto nella trasmissione dei dati22. Quando è messo in scena o in azione come opera d’arte, da deposito di frammenti del mondo sensibile, da magazzino di informazioni e ricordi, l’archivio diventa metafora della memoria e della “documentalità”23. Viene allora usato, da un lato, come dispositivo processuale e partecipativo per rileggere e sovvertire i tradizionali sistemi di ordinamento, catalogazione e trasmissione delle conoscenze e, dall’altro, come strategia di resistenza. Ecco perché, nel caso della pratica artistica, sarebbe più giusto parlare di anti-archivi, contro-archivi o anarchivi, dove si attiva l’impegno socio-politico e la denuncia di modalità di salvaguardia del sapere spesso obsolete o autoritarie; dove l’artista è interprete del passato, testimone del proprio presente e anticipatore del futuro. Un caso esemplare di questa attitudine è il progetto, sviluppato perlopiù come database online, The Atlas Group (1989-2004) di Walid Raad (1967), che è stato anche un’identità collettiva fittizia dietro alla quale l’artista ha nascosto

17. M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura [1969], trad. it. di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano 2006.

18. G. Chakravorty Spivak, The Rani of Sirmur: An Essay in Reading the Archives, «History and Theory» 24, 3 (1985), 247-272.

19. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimo-ne, Bollati-Boringhieri, Torino 2005.

20. A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria cul-turale, cit.

21. J. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana [1995], File-ma, Napoli 2005.

22. B. Groys, Il sospetto. Per una fenomenologia dei media [2000], Bompiani, Milano 2010.

23. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009.

istituzionale), e a produrre un détournement dei suoi codici, museificando oggetti quotidiani come fossero opere d’arte. Il suo è stato un abile gesto di appropriazione, montaggio e ricontestualizzazione di oggetti e immagini, che, attraverso una “procedura allegorica”12, ha messo sotto scacco le dinamiche curatoriali, espositive, classificatorie, promozionali e ricettive del museo.

Archivio. Sottintende ordine apollineo, ragione illuminista, verticalità, raccolta sistematica (cronologica o tematico-alfabetica), rigore ossessivo, e nasce dal bisogno di documentare tutto (enciclopedismo). Nel corso del Novecento si è di�uso un “impulso archivistico”13, che oggi, con la svolta digitale e i social network da un lato, e con il postcolonialismo e il postcomunismo dall’altro, si è tramutato in una vera “archiviomania”14. L’ossessione per l’archivio ha riacceso vecchie e nuove questioni, come il pericolo dell’accentramento di troppe informazioni in un unico luogo, supporto o codice; il legame con vari tipi di identità (di genere, etnia, religione, cultura); l’importanza della selezione, dell’esegesi e della corretta classificazione di dati e documenti; l’opportunità di rendere universalmente accessibili le informazioni nella tutela della privacy; la di�erenza tra ricordo individuale e memoria collettiva; la scoperta di nuove temporalità e narrazioni. In ambito teorico questo impulso è stato al centro di numerosi dibattiti e riflessioni storico-filosofiche15. Nell’ultimo secolo, l’archivio ha interessato pensatori come Sigmund Freud, per l’idea di stratificazione mnemonica come registrazioni16; Michel Foucault, per la relazione tra

12. Cfr. B. Buchloh, Allegorical Procedures: Appropriation and Mon-tage in Contemporary Art, «Artforum» 21, 1 (1982), 44-56.

13. H. Foster, An Archival Impulse, «October» 110 (2004), 3-22.

14. S. Rolnik, Archive Mania, Cantz-dOCUMENTA(13), Ostfildern-Kassel 2011.

15. C. Mereweather. The Archive, Whitechapel Gallery-MIT Press, London-Cambridge (MA) 2006.

16. S. Freud, Nota sul ‘notes magico’, in Id., Inibizione, sintomo e an-goscia e altri scritti, 1924-1929: Opere di Sigmund Freud, a cura di C. L. Musatti, vol. 10, Bollati-Boringhieri, Torino 1978, 63-68.

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anacronistiche, la struttura aperta, l’intertestualità, il desiderio di esaustività. L’atlante si rivela un importante strumento estetico ed epistemico, perché permette, così come ha ben evidenziato Georges Didi-Huberman, una rilettura continua della storia e del mondo attraverso le immagini26. Sembrerebbe quindi essere la forma visiva più e�icace per dare un nuovo ordine ai materiali d’archivio e tessere narrazioni, che, per quanto frammentarie – sia per la quantità e varietà degli elementi che include, sia per le infinite connessioni che l’occhio di chi legge è in grado di creare – permettono un particolare sguardo d’insieme sul mondo.Nella pratica artistica, un esempio paradigmatico di questa forma di conoscenza visiva è l’Atlas di Gerhard Richter (1932), che conta quasi ottocento tavole su cui sono disposte circa ottomila immagini di varia natura e provenienza: foto di vecchi album di famiglia, ritagli di giornale, istantanee, riproduzioni fotografiche, disegni, collage… Dal 1962 al 2013 – anno in cui Richter ha deciso di porre fine al processo di archiviazione – Atlas ha accompagnato il percorso ideativo dell’artista, presentandosi come catalogo dei modelli iconografici che ha usato per i suoi dipinti, sculture e installazioni; come raccolta di progetti mai realizzati; e anche come dizionario della visione e della memoria, personale e collettiva.

Collezione (collezionare, collezionismo). Alla base del collezionismo Walter Benjamin aveva individuato “una lotta contro la dispersione”. Secondo lui, infatti, “il grande collezionista è originariamente toccato dalla confusione, dalla frammentarietà in cui versano le cose di questo mondo”; a tal punto che i collezionisti diventano “fisiognomici del mondo delle cose” e in ognuno degli oggetti che raccolgono “è presente il mondo in forma sistematica e ordinata […] fino a formare un’intera enciclopedia magica, un ordine universale”27. Oltre che un bisogno antropologico, collezionare è anche una prassi culturale

26. G. Didi-Huberman, Atlas ou le gai savoir inquiet, L’oeil et l’histoi-re 3, Minuit, Paris 2011.

27. W. Benjamin, Il collezionista, in Id., I “passages” di Parigi [1982], ed. it. a cura di Ganni E., vol. I, Torino 2007, Einaudi, 212-223 (H 4a, I); W. Benjamin, Tolgo la mia biblioteca dalle casse [1931], in Id., Opere complete: Scritti 1930-1931, vol. IV, Einaudi, Torino 2002, 456-463 (in particolare 456); W. Benjamin, Eduard Fuchs, Il collezionista e lo storico  [1937], in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua ripro-ducibilità tecnica, trad. it. E. Filippini, Einaudi, Torino 2000, 81-123.

la sua attività. Vista la reticenza istituzionale nel di�ondere e narrare la recente storia del Libano – in particolare le guerre civili tra 1975 e 1991 – Raad decide di studiare e documentare il passato del suo paese raccogliendo film, video, foto, appunti, che sistema in tre categorie di file: i materiali di cui si conosce la provenienza, i dossier anonimi e le testimonianze prodotte da The Atlas Group. Oltre al tema conduttore, questi documenti hanno un’altra caratteristica che li accomuna: sono tutti falsi, non nel senso di arbitrariamente inventati, ma di coscientemente manipolati. Per Raad i fatti non hanno alcun significato come evidenze statiche; vanno invece considerati come processi, cioè come entità variabili; come esperienze intellettuali ed emotive; come sintomi culturali basati sulla memoria collettiva. È soltanto così, cioè tramite la critica filologica e la ricostruzione “archeologica” delle fonti – nella consapevolezza che non esiste archivio che sia neutrale e neppure esaustivo – che si può spiegare la complessità delle cose e fare storia evitando di cadere in errori interpretativi e ricostruzioni arbitrarie del passato.

Atlante. Comporta disordine dionisiaco, immaginazione rivelatrice, orizzontalità, montaggio schizofrenico, proliferazione maniacale ed è mosso dal desiderio di creare nessi e rimandi. Nella storia dell’arte è stato Aby Warburg con il suo Bilderatlas dedicato a Mnemosyne ad avere anticipato una serie di questioni che sarebbero germogliate soltanto con la seconda metà del XX secolo: l’avere dato il primato alla comunicazione visiva; l’avere scelto un approccio antropologico che desse valore a tutte le immagini; l’essersi avvalso, ben prima dell’avvento di internet, di un metodo con cui o�rire uno sguardo d’insieme e anche diacronico sulle cose. Warburg ha dunque posto le basi per questo particolare metodo del “pensare per immagini”24, che, nel corso del Novecento, si è definito come forma d’arte25 caratterizzata da costanti come: il montaggio di frammenti visivi, la disposizione a griglia, la visione simultanea del singolare e del plurale, il rapporto non gerarchico tra gli elementi, l’eterogeneità, le correlazioni

24. M. Centanni (a cura di), Pensare per immagini, «Engramma» 100 (2012), 1-312.

25. Cfr. S. Flach, I. Münz-Koenen, M. Streisand (a cura di), Der Bil-deratlas im Wechsel der Künste und Medien, Fink, München-Pader-born 2005.

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meraviglie. L’artista è solito organizzare spedizioni archeologiche lungo i fiumi, come quella che fece nel 2002 sulle rive del Tamigi, a pochi passi dalla Tate Modern (New England Digs). Con una squadra di aiutanti raccolse per giorni le tracce dimesse della nostra civiltà (bottoni, monete, pettini, bastoncini da cocktail…), trasformandole da rifiuti in reperti. Sistemati in teche e cassetti secondo un attento ordine tassonomico, quegli oggetti sono tornati ad essere tramiti della memoria. Per un “detective del passato” come Dion concentrarsi sul banale significa, come ha ricordato Aleida Assmann in un discorso più ampio sul percorso che conduce dalla traccia al rifiuto (e viceversa), convertire gli scarti in “fonte di informazione”.30

Documento. I documenti sono i nostri “connettori” con il passato; sono, come ricorda Paul Ricoeur, gli elementi di sutura della linea di frattura storica.31 Lo studioso li usa come appoggi per interrogare la storia: ma possono essere considerati davvero a�idabili? Michel Foucault non aveva nessun dubbio in proposito: per lui non erano fonti attendibili, ma testimonianze distorte, costruite ad hoc dall’autorità vigente per diventare “monumenti”.32 Ricoeur ha in seguito stabilito una fondamentale di�erenza tra documento e traccia: il primo è la prova, l’evidenza tangibile; la seconda è invece un “e�etto-segno” vivo, che aiuta a riscrivere correttamente la storia33. Anche Maurizio Ferraris ha indagato il bisogno di “lasciar tracce” nella nostra epoca34, che, più di ogni altra, sembra essere caduta in una vertigine archivistico-classificatoria e dipendere da documenti e registrazioni. Quanto il documento, al di là delle perplessità che si possono avere sulla sua e�ettiva

30. A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria cul-turale, cit., 237.

31. P. Ricoeur, Archivi, documenti, traccia, in Id., Tempo e racconto [1985], vol. 3, Jaca Book, Milano 1994, 178-191 (in particolare 178, 188); P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, a cura di D. Iannotta, Cortina, Milano 2003.

32. M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, cit.

33. P. Ricoeur, Archivi, documenti, traccia, cit., 191.

34. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, cit.

e un metodo per produrre conoscenza. I luoghi di raccolta del sapere per antonomasia sono la biblioteca e il museo, che si distinguono per le diverse testimonianze che custodiscono. Il museo moderno nasce con intenti didattici, sociali e politici durante la Rivoluzione francese e si consolida con Napoleone. Le sue origini vanno tuttavia ricercate in quelle culle del sapere scientifico, naturale e artistico, colme di oggetti rari e preziosi, che sono state le Wunderkammern cinque-seicentesche; mentre suoi antenati più prossimi sono le grandi quadrerie messe insieme da principi e mecenati a partire dal XVII secolo. Esse seguono il sogno rinascimentale del “teatro della memoria” di Giulio Camillo e precorrono un’altra grande utopia, quella del “museo immaginario”28; un luogo tra il virtuale e il reale, che, nel decontestualizzare e dematerializzare gli oggetti, li riduce a immagini e ne permette così una larga di�usione. Il desiderio di creare una collezione portatile ha a�ascinato sia gli artisti, sia gli storici e curatori contemporanei, che hanno progettato musei in miniatura o mostre fatte di sole riproduzioni. In ambito curatoriale, si pensi, per esempio, al Nano Museum di Hans-Ulrich Obrist o alle mostre A¬er Atlas di Georges Didi-Huberman, che evolvono il formato della fortunata collettiva Atlas, tenutasi al Reina Sofia di Madrid nel 2010, in un’esposizione più volte riproducibile, sostituendo all’allestimento delle opere il montaggio di copie fotografiche. Sono stati tuttavia gli artisti a costruire per primi collezioni tra il lillipuziano e l’enciclopedico29 come specchio delle proprie “mitologie individuali”, espressione che Szeemann associò ai musei di Marcel Broodthaers, Herbert Distel, Marcel Duchamp, Claes Oldenburg e Daniel Spoerri, presentati alla Documenta 5 nel 1972. Uno degli eredi di questa tradizione, e che rientra, tra l’altro, nell’ambito della cosiddetta critica istituzionale, è Mark Dion (1961). Come un archeologo, un antropologo-etnografo, un esperto di scienze naturali o sociali, Dion lavora selezionando, classificando e archiviando materiali di recupero di varia natura, che poi ordina scrupolosamente in messe in scena a metà tra il laboratorio scientifico e la camera delle

28. A. Malraux, Le musée imaginaire [1947], Gallimard, Paris 1965; G. Didi-Huberman, L’album de l’art à l’époque du “musée imaginaire”, Hazan, Paris 2013.

29. Cfr. I. Scha�ner, M. Winzen (a cura di), Deep Storage. Collecting, Storing, and Archiving in Art (catalogo mostra, P.S.1 – Contempora-ry Art Center, New York), Prestel, Munich-New York 1998.

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hanno introdotto la discontinuità di tempo e di spazio nell’opera d’arte38. Da allora, come ricorda Theodor Adorno, c’è stata “un’invasione di frammenti prodotti dalla realtà empirica” che ha abolito la distanza tra arte e vita, tra oggetto estetico e oggetto storico-culturale39. A seconda dei casi, il frammento può assumere denominazioni diverse: è uno scarto, avanzo, residuo, rifiuto, quando lo separiamo dalle cose a cui diamo valore40; una rovina o reliquia, quando gli diamo una connotazione romantica; un readymade, objet trouvé, found footage, quando riguarda la pratica artistica. Il frammento, che rispecchia la condizione delle cose nella modernità, è spesso associato allo choc percettivo e all’idea di bricolage, di cui Claude Lévi-Strauss ha giustamente sottolineato il carattere mitopoietico41. Creatore di miti e utopie è il russo Ilya Kabakov (1933), che in The Man Who Never Threw Anything Away (1988), un’installazione simile a una raccolta museale, ha meticolosamente collezionato e inventariato i resti del quotidiano, annullando il limite tra ciò che riteniamo importante e ciò che, al contrario, pensiamo sia insignificante. Nel lavoro di Kabakov i rifiuti si caricano di un valore estetico e memoriale e tornano ad essere quel “viluppo di simboli”, che, secondo le parole di Lea Vergine, esprimono “rischio e fascinazione, catastrofe annunciata e seduzione, bellezza del brutto e memoria dell’uomo […]. Noi gettiamo via le nostre tracce; l’arte ne sbuccia l’anima e ne suggerisce il destino”42.

Griglia. Se la realtà può essere rappresentata soltanto attraverso la ricomposizione dei suoi frammenti, gli artisti scelgono la struttura a griglia come sistema per riuscire a tenere insieme tutto e avere una visione d’insieme

38. C. Amey, J.-P. Olive (a cura di), Fragment, montage-démontage, collage-décollage, la défection de l’oeuvre, L’Harmattan, Paris 2004.

39. T. Adorno, L’art et les arts [1966], Desclée de Brouwer, Paris 2002, 71.

40. J. Scanlan, Spazzatura [2005], trad. it. di M. Monterisi, Donzelli, Roma 2006.

41. C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio [1962], trad. it. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 2004.

42. L. Vergine (a cura di), Trash. Quando i rifiuti diventano arte (cata-logo mostra, Palazzo delle Albere-Archivio del ‘900, Trento-Rovere-to), Electa, Milano 1997, 23.

veridicità e validità, sia stato considerato, ancora di recente, il punto di partenza per una rilettura e ricostruzione critica, anche nella teoria estetica e nella pratica artistica35, è dimostrato da due esperienze novecentesche nodali, che, già dal titolo, mostrano apertamente il loro legame con la documentazione. Da un lato la rivista «Documents», che, tra 1929 e 1930, uscì con un pugno di numeri in cui il direttore Georges Bataille, a�iancato da un agguerrito gruppo di collaboratori, si proponeva di rivoluzionare le categorie del pensiero tradizionali attraverso uno “smontaggio teorico”. Dall’altro la mostra Documenta, nata a Kassel nel 1955 per ricostruire la memoria delle avanguardie tedesche, e poi anche internazionali, che erano state bollate come “arte degenerata” dal nazionalsocialismo.Come oggetto dell’arte il documento ha ormai più di un secolo è mezzo di storia: è stata infatti la nascita della fotografia a decretarne, a metà Ottocento, la fortuna in ambito estetico. Nel Novecento, la fotografia e poi anche il film e il video si sono sempre più imposti come mezzi documentali per parlare soprattutto di ingiustizie, violenze, traumi36. Con l’arte concettuale il documento e la documentazione di pratiche spesso transitorie si sono imposti a tal punto da far parlare addirittura di un’“arte burocratica”37. Nel 1969, la decisione di Hans Haacke (1936) – che ha fatto della ricerca in archivio e dello smascheramento delle implicazioni economico-politiche dell’arte i suoi vessilli – di partecipare alla mostra When Attitudes Become Form con l’invio del certificato di nascita di suo figlio come opera d’arte (Carl Samuel Sélavy Haacke, Birth Certificate, 1969) era dunque perfettamente in sintonia con i tempi.

Frammento. In ambito estetico, il frammento si è imposto con il Romanticismo e si è poi consolidato con le avanguardie del Novecento, che

35. J. Stallabrass (a cura di), Documentary, Whitechapel Gallery-MIT Press, London-Cambridge (MA) 2013.

36. O. Enwezor (a cura di), Archive Fever. Uses of the Document in Contemporary Art (catalogo mostra, ICP-International Center of Photography, New York), ICP-Steidl, New York-Göttingen 2008.

37. S. Spieker, The Big Archive. Art From Bureaucracy, Cambridge-London 2008, MIT Press.

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Memoria. È la capacità di conservare e recuperare ricordi o tracce di un’identità individuale, collettiva, culturale44. Se manca, il pericolo è perdere il senso stesso della storia e della vita; se invece è in eccesso, allora si rischia di diventare come l’uomo nietzchiano, che non riesce a dimenticare, o come il giovane Ireneo Funes borgesiano, che ricorda ogni dettaglio, e di rasentare la follia. Come ha messo in evidenza Aleida Assmann, “alla memoria conducono strade diverse: teologiche, filosofiche, mediche, psicologiche, storiche, sociologiche, letterarie, artistiche e mediatiche”45. Insieme alla studiosa tedesca, che si è so�ermata su diverse metafore spaziali, temporali e letterarie del ricordo, anche il linguista Harald Weinrich – suo conterraneo – si è interessato alle forme di rappresentazione della memoria, individuandone due in particolare: la “metafora del magazzino”, una sorta di archivio situato nella nostra mente, dove i ricordi si dispongono per immagini, e la “metafora della tavoletta di cera”, una materia sensibile su cui i singoli ricordi, sempre in qualità di immagini, si imprimono indelebilmente46. Ci sono artisti che si so�ermano sulla memoria autobiografica, altri che invece indagano maggiormente i suoi aspetti culturali o socio-politici e il rapporto antitetico con l’oblio: in entrambi i casi, gioca un ruolo fondamentale la messa in scena come “paradigma culturale”, cioè come “insieme di tecniche culturali che “fanno manifestare qualcosa”47. Il lavoro di Thomas Hirschhorn (1957), che innalza monumenti dedicati a filosofi, scrittori e artisti contemporanei, è in questo senso sintomatico. Sarebbe in realtà più giusto parlare di “contro-monumenti”48, perché le strutture di Hirschhorn sono luoghi del ricordo fragili e precari, che imitano quegli altari grotteschi, stracolmi di memorabilia

44. F. Yates, L’arte della memoria [1966], trad. it. di A. Biondi, A. Se-rafini, Einaudi, Torino 2007.

45. A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria cul-turale, cit., 27.

46. H. Weinrich, Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, Il Muli-no, Bologna 1976, 49-53.

47. N. Pethes, J. Ruchatz, Dizionario della memoria e del ricordo [2001], ed. it. a cura di A. Borsari, Mondadori, Milano 2002, 334.

48. J. E. Young, The Counter-Monument: Memory against Itself in Germany Today, «Critical Inquiry» 18, 2 (1992), 267-296.

sulle cose. Così come nel Rinascimento la prospettiva era stata usata come forma simbolica per ra�igurare il mondo, nel Novecento la griglia diventa un metodo per presentare la realtà con oggettività, dal momento che annulla o appiattisce le di�erenze, e anti-illusionismo.Nel celebre saggio che ha dedicato all’uso della griglia, soprattutto in ambito concettuale, Rosalind Krauss scrive: “La griglia si presentava come matrice della conoscenza. Con la sua totale astrazione, la griglia tramandava una delle regole basilari della conoscenza: la divisione dello schermo percettivo da quello del mondo ‘reale'”. La griglia è una struttura che divide e organizza lo spazio su un foglio, su una tela, o in un ambiente; ed è un collante che tiene uniti i diversi materiali di un’installazione. Krauss sottolinea un altro importante aspetto della griglia: come conformazione visiva che rifiuta apertamente ogni tipo di narrazione o lettura sequenziale, finisce per avere un andamento “schizofrenico”, che si esprime nella contrapposizione tra “centrifugo” e “centripeto”. Centrifugo perché, presentandosi come una piccola parte che è stata arbitrariamente prelevata da un tutto più grande, l’opera proietta lo sguardo dello spettatore verso l’esterno, verso la realtà che esiste al di là di quel particolare insieme di frammenti. Il movimento centripeto crea l’e�etto contrario: la griglia separa tutto ciò che contiene da ciò che le sta attorno e misura lo spazio soltanto in relazione a se stessa. Diventa, perciò, un modello ripetitivo, il cui contenuto spesso non è altro che una tautologia43. La griglia è paragonabile alla cartografia, che riduce il mondo, nella sua vastità e diversità, a una rappresentazione simbolica. La Sichtbare Welt (Mondo visibile, 1987-2001) del duo svizzero Peter Fischli e David Weiss (1952/1946-2012) è un esempio di come essa riesca a dare un ordine e a tenere unite una quantità eterogenea di immagini, perlopiù amatoriali. Dispiegato come un mosaico di tessere fotografiche su lunghi tavoli retroilluminati, questo mappamondo multicolore presenta paesaggi, animali, vedute cittadine, architetture e monumenti, e invita a un viaggio visivo che ciascun osservatore compie a seguendo il suo personale immaginario: a volte riconoscendo luoghi e situazioni famigliari, alle altre scoprendo scenari sconosciuti e anonimi.

43. R. Krauss, Grids, «October» 9 (1979), 50-64. (in particolare 57, 55).

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del Dipartimento di Culture del Progetto dell’Università Iuav di Venezia e, in particolare, del Laboratorio di Teoria delle Immagini (LABIM). In concomitanza con l’assegno di ricerca “Atlante/archivio. Tra due forme di conoscenza del visivo”, si è quindi pensato di organizzare un convegno internazionale sul tema, che si terrà nel Teatrino di Palazzo Grassi l’1 e 2 dicembre 2014. Curato da Marco Bertozzi e da chi scrive, con l’apporto di un comitato scientifico, di cui fanno parte Martin Bethenod, Angela Mengoni, Philippe-Alain Michaud, Antonio Somaini e Angela Vettese, il convegno, intitolato “Montaggi”, si interroga sui diversi metodi dell’assemblare come forma e come sintomo nelle arti visive e nel cinema contemporanei. Rispetto agli anni eroici delle prime avanguardie, l’attuale recupero di oggetti e immagini messi in scena attraverso il montaggio è ancora un mezzo e�icace per comprendere e riprogrammare il mondo? Le possibilità tecniche o�erte dai nuovi media e, soprattutto, le pratiche di postproduzione e remix, sembrerebbero non lasciare dubbi sulla validità di questo procedimento.A metà del secolo scorso, l’artista e filmmaker americano Stan VanDerBeek (1927-1984), che aveva studiato in quella fucina di talenti che era il Black Mountain College e aveva collaborato con il Massachusetts Institute of Technology (MIT), si era accorto delle potenzialità del montaggio associato ai nuovi mezzi di comunicazione. Nel 1965 progettò il Movie-Drome, un edificio a cupola simile a un planetario, dove proiettare una costellazione di immagini e found footage che avrebbero dovuto essere trasmessi grazie a un collegamento tra satelliti, televisioni e telefoni. Il progetto rimase incompiuto per ovvie di�icoltà tecnologiche, ma può essere considerato una sorta di internet ante litteram, oltre che un “successore” del Bilderatlas warburghiano. VanDerBeek ne riuscì a costruire soltanto un prototipo con materiali di recupero a Stony Point (New York) e una versione in miniatura, che chiamò significativamente Electric Assemblages.

kitsch ed ex voto laici, nati spontaneamente per strada in ricordo di persone care o di celebrità. L’artista usa materiali poveri e procedure semplici, ma crea rappresentazioni intensamente allegoriche che scimmiottano e allo stesso tempo criticano la nostra società dei consumi e dei media. Come il suo Mondrian Altar (1997), un accumulo di bric-à-brac – tra cui carta stagnola, candele, cartone, fiori veri e finti, fotocopie, nastro adesivo e di sicurezza, pellicola trasparente, pezzi di sto�a e di corda, peluche – che, oltre a un luogo di commemorazione, è un inno dimesso e sottotono, ma molto e�icace, alla perdita, all’amore, alla compassione, all’ideologia.

Montaggio. È un termine che proviene dal contesto tecnico della fabbrica e che viene spesso associato al solo ambito cinematografico, nonostante riguardi anche molti altri linguaggi e discipline, tra cui la letteratura, la musica, il teatro e le arti visive. Proprio in queste ultime, il montaggio è soggetto a varie declinazioni: collage, fotomontaggio, readymade, assemblaggio. Sergej Ejzenštejn, che tra anni Venti e Trenta del secolo scorso ne è stato uno dei primi teorici, lo ha definito “metodo dello smembramento e della ricomposizione”49. Per lui, così come per molti altri sperimentatori d’avanguardia, tra cui Siegfried Kracauer e Aby Warburg, il montaggio era prima di tutto un modo per pensare50. Attraverso il montaggio è infatti possibile riconfigurare i frammenti della realtà creando accostamenti e connessioni inediti. È così che il montaggio si carica di una valenza politico-sociale, oltre che artistico-allegorica, e si precisa come arma critica e strumento interpretativo-conoscitivo. Il montaggio è oggi un procedimento di�usissimo non solo nella produzione artistica, ma anche nel nostro vivere quotidiano: tutti infatti ricorriamo a quell’immenso archivio visivo che i media ci mettono costantemente a disposizione. Ecco perché la riflessione sul ruolo e sulle possibilità del montaggio si è di recente consolidata a livello internazionale come un importante filone di ricerca, che vede impegnato anche un gruppo di studiosi

49. A. Somaini, Ejzenštejn. Il cinema, le arti, il montaggio, Einaudi, Torino 2011, XIII.

50. Si veda il concetto di Denkraum warburghiano in S. Flach, P. Schneider, M. Treml (a cura di), Warburgs Denkraum: Formen, Mo-tive, Materialien, Fink, München-Paderborn 2013.