Quando l'oriente si tinse di rosso - Capitolo I: le Fonti

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5 Quando l’oriente si tinse di rosso Stefano Cammelli Saggi sulla rivoluzione cinese Polonews Paper - 2013

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Quando l’oriente si tinse di rosso

Stefano Cammelli

Saggi sulla rivoluzione cinesePolonews Paper - 2013

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Sommario

Premessa 11

Capitolo ILe fonti 25Una civiltà misteriosa 25Le relazioni delle missioni 31Natura delle fonti missionarie 36L’eredità di una lunga esperienza storica 43

Cap. IIGiornalisti americani 55Giornalisti, missionari e studiosi: le fonti USA 55L’orizzonte ideologico del giornalismo USA: Henry Luce 58I giornalisti americani 68La guerra civile di Spagna e i Fronti popolari antifascisti 74Stampa e potere politico 80Persecuzione 82

Cap. IIIIl libro che inventò la leggenda 85Edgar Snow e Stella Rossa sulla Cina 85Il successo di Stella Rossa sulla Cina 88Il successo in Europa di Stella Rossa sulla Cina 97Sulla base rossa di Yan’an 107

Cap. IVLa base rossa e l’esterno 115La fonte Snow 115Appoggi esterni alla base rossa e attività di spionaggio 116

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Dalla base rossa all’esterno: i servizi di intelligence 120Mao e i Fronti Popolari 123Mao e le informazioni a Yan’an 127Verso la base rossa: la terra di nessuno 139L’ingresso nel Soviet 142

Cap. VLa base rossa 149Il controllo del territorio 149L’organizzazione della potere rosso 154Organizzazione della popolazione 167Il terrore rivoluzionario: a guisa di premessa 177Le assemblee popolari 180I veri nemici 208Gli strumenti del terrore rivoluzionario 213Tra i Jingganshan e Yan’an 225L’incidente del Futian 236L’incidente del Fujian (o Fukien) 245

Cap. VILa Campagna di rettifica di Yan’an 249Riferimenti cronologici 249Un mistero molto protetto 249Frammenti di notizie 251La perdita della base rossa di Yan’an e del Partito 257Preparazione 262Il lancio della Campagna di rettifica 266Attirare il serpente fuori della tana 273Una valutazione contemporanea 283

Cap. VIIL’economia nelle basi rosse 295Premessa 295Il problema della produzione di oppio 297Il contesto della riforma agraria nel soviet 307

Cap. VIIILa guerra al Giappone 323Riferimenti cronologici 323Un campo molto problematico 324L’avanzata del Giappone 324

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Peng Dehuai e l’offensiva dei 100 reggimenti 338Xiang Ying 340La fine della guerra col Giappone 345

Cap. IXDalle campagne alle città 357Jieguan: transizione 357Le ragioni del ritardo del partito 366I compiti della neonata repubblica 368Rivolta 377Le montagne sono molte e le foreste impenetrabili 385Repressione e aggiustamenti 390

AppendiceBibliografia 407

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Capitolo ILe fonti

Una civiltà misteriosaSi è a lungo ritenuto che la Cina e la sua storia siano di una difficoltà tutta particolare e che su di esse gravi una sostanziale impossibilità occidentale non tanto di capire, quanto di sapere.Il tema del carattere misterioso della Cina ha invero una lunga tra-dizione nella cultura dell’Occidente: di tutti i miti che l’Occidente ha condiviso sulle terre ‘altre’ quello del carattere impenetrabile della Cina è di gran lunga il più antico. Precede la stessa esperienza co-lonialistica e quel complesso processo – così mirabilmente descritto da Edward Said – attraverso cui l’Occidente pensò di cogliere una propria specificità costruendo una contrapposizione tra l’identità dei vincitori, le potenze coloniali, e quella dei popoli sconfitti o sottomes-si, gli altri popoli dell’Asia o del mondo.Così l’Inghilterra della rivoluzione industriale avrebbe riscoperto la moralità del mondo preindustriale e agricolo nell’India che andava occupando e sfruttando e fu da questo incontro che nacque il mito – nuovo in Occidente – di una presunta superiorità spirituale dell’India.Immagine molto fortunata, ma tutt’altro che antica: fino all’inizio del XIX secolo l’India, molto conosciuta e attraversata da una molteplici-tà di commercianti, avventurieri, architetti, militari occidentali, non aveva mai destato alcun interesse per la sua dimensione religiosa, mentre ne veniva sottolineata la ricchezza, l’assolutismo dittatoriale dei suoi maharaja e la violenza quasi gratuita con cui si disponeva della gente comune.La supposta superiore natura spirituale dell’India fu dunque scono-sciuta all’Occidente fino agli ultimi decenni del XIX secolo. Più che parto spontaneo, indiano, essa appare oggi essere il frutto di elabora-zioni colonialistiche ed occidentali, legate al pensiero di una moltepli-

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cità di scrittori e filosofi tra cui i più significativi furono probabilmen-te Friedrich Nietzsche, Hermann Hesse e Rudyard Kipling. Furono loro a inventare, e certo materiale non ne mancava, un’identità spi-rituale dell’India che, fino a quel momento, non era stata notata da nessun altro o che si perdeva in secoli lontanissimi, tra il III e il VII secolo della nostra era. Quando l’India non aveva ancora conosciuto l’impatto con il mondo islamico da cui venne modificata in profondità e in modo irreversibile.Come l’India – ovvero l’immagine dell’India negli ambienti orientali-sti europei – non coincide per nulla con quella che ne avevano ripor-tato commercianti italiani, portoghesi e arabi nei secoli precedenti, così molti altri paesi oggetto dall’aggressione coloniale occidentale si trovarono a subire l’attribuzione di un’identità in qualche modo fun-zionale all’Occidente e alla sua percezione di sé. Il senso di questo im-ponente processo era spiegare quella che appariva essere un’evidente realtà storica: ovvero per quali ragioni le potenze coloniali si fossero trovate ad essere più forti e più ricche degli altri paesi e quali fos-sero dunque le basi culturali di questa ‘oggettiva’ superiorità, tanto manifesta da non potere essere negata. In un processo complesso di slittamenti temporali e di contrapposizioni ideologiche l’epoca colo-niale colse nella diversità del mondo non tanto storie diverse e culture diverse, ma una diversa collocazione nel tempo. Poiché dunque non potevano esserci dubbi sul fatto che il presente fosse uno solo e fosse dominato dall’indiscussa superiorità di Inghilterra e Francia e di al-tri paesi l’Europa, non restava che spiegare come mai altre nazioni fossero rimaste ferme ‘nel passato’, ovvero quali fossero le ragioni che avevano impedito ad altri popoli della terra di giungere nella contem-poraneità e, dunque, essere come Francia, Inghilterra e come l’Occi-dente colonialistico.Il carattere misterioso della Cina e della sua storia fu una di queste immagini, forse la più popolare in epoca coloniale. Le cronache dei primi viaggi in Cina dell’epoca moderna – e certamente la missione di Lord Macartney del 1792 fu una di queste – non attribuì invero alla Cina in sé alcuna componente misteriosa, ma piuttosto l’addebitò alla regia abile di una grande quantità di funzionari e di amministratori, impegnati a nascondere il paese alla curiosità dell’occidentale. Sicché la parola ‘mandarino’ si convertì nella letteratura dell’epoca nell’im-magine stessa della cortesia formale, giunta a una sostanziale falsità e, soprattutto, a una totale inattendibilità. Rieccheggiata da allora in poi in una molteplicità di racconti, la tesi della falsità congenita dei mandarini e quindi dei misteri cinesi cele-

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brò il suo trionfo letterario ne Gli ultimi giorni di Pechino di Pierre Loti. Qui la baldanza generosa, proiettata verso il futuro delle truppe francesi, inglesi e prussiane che marciavano trionfanti negli spazi ab-bandonati della capitale cinese divenne metafora del confronto tra un mondo aperto e proiettato verso il futuro (l’Occidente) ed uno chiuso, oscuro: espressione di un passato feudale e misterioso, la Cina.Tuttavia nessuna opera letteraria o diario di viaggio fu così impor-tante nell’affermazione del carattere misterioso e impenetrabile della Cina e della sua capitale quanto Turandot di Giacomo Puccini che rese popolare nel mondo l’immagine di una città – Pechino – invisibi-le, misteriosa, protetta dalle alte mura di una città negata, proibita.Contrariamente alla scoperta della spiritualità dell’India, tuttavia, l’immagine di una Cina misteriosa e ignota agli occidentali presenta complessità più articolate che precedono di molto l’inizio dell’espe-rienza coloniale. In realtà essa emerge quasi immediatamente con le prime cronache di viaggio, con le prime esperienze dei grandi viaggia-tori del medioevo e le loro cronache. Carattere dominante di questo archetipo è la sua durata nei secoli e la sua ambigua duplicità: poiché ha coinvolto molte epoche e ha esteso la sua influenza su molteplici esperienze, giova soffermarsi brevemente su di esso e spiegarne alcu-ne componenti.Premessa di questo archetipo era, anzitutto, un dato obbiettivo, diffi-cilmente contestabile. La Cina si è sempre nascosta allo sguardo dello straniero: il paese, dall’epoca Ming in poi, era chiuso ai forestieri. La sua capitale, Pechino, per secoli visse nella letteratura occidentale solo come nome: a pochi era concesso raggiungerla ma a pochissimi di coloro che l’avevano raggiunta era permesso andarsene. Anche i commerci tra Cina e Occidente, che pure rendevano e non poco alle casse del paese, venivano autorizzati solo all’interno di aree limita-te, le uniche dove all’occidentale era consentito sbarcare e trattare. Inoltre ogni trattativa non coinvolgeva mai i diretti interessati cinesi, ma sempre intermediari statali la cui ‘ambiguità’ – espressione as-sai cara alle cronache del tempo – oggi verrebbe piuttosto presentata come abilità commerciale. Ovvero quel non dire mai sì, mai no, che snervava e irretiva gli occidentali e che si concludeva, sovente con affari lucrosi per la Cina e assai meno convincenti per i mercanti oc-cidentali.Il mistero cinese poggiava dunque su basi tutt’altro che fantasiose: in modo evidente il paese si nascondeva e creava intorno a sé un’aura di impenetrabile mistero. Se la Cina proteggeva sé stessa dallo sguardo dell’occidentale, non è che da parte occidentale si procedesse in modo

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meno ambiguo. Quello stesso Occidente che apparentemente sembra-va desiderare svelare il carattere misterioso della Cina si rivelò inca-pace di liberarsi dei suoi stessi pregiudizi ideologici. In realtà giunge-vano in Occidente dalla Cina, fin da epoche molto antiche, un’infinità di relazioni ricche di informazioni anche concrete, tutt’altro che im-maginarie. Ma poiché descrivevano un mondo la cui ricchezza pareva impossibile o un garbo nel gestire questioni complesse che pareva im-probabile, o forse perché quanto giungeva dalla Cina smentiva ogni certezza di superiorità occidentale, ecco così che anche quel poco che si veniva a sapere venne catalogato tra le cose impossibili, fantasiose. Infine, quando la serie di affermazioni che venivano giudicate inac-cettabili cominciò a superare la soglia del tollerabile, ci si rifugiò nella denuncia della fonte stessa, definendola medievale, inaffidabile.Possiamo convenire che a una società come quella europea che non co-nosceva l’uso del carbone, il racconto di Marco Polo che i cinesi usas-sero bruciare pietre nere per cucinare e per produrre calore potesse sembrare così inverosimile da spiegare la totale condanna della fonte. Tuttavia non si va molto lontano dal vero affermando che se la Cina volle proteggersi dallo sguardo dell’Occidente, questi a sua volta pre-ferì conservare la certezza di una propria superiorità negando ogni credibilità a ciò che della Cina si diceva o diluendo ogni possibile co-noscenza in un contesto più ampio. Misterioso, appunto, quindi non conoscibile.Nacque in questo ambito, e si trascina anche in epoca contempora-nea, la noiosa querelle di Marco Polo e del suo viaggio, continuamente respinto come falso da molta letteratura anglosassone che per molte ragioni e non poche debolezze – non solo linguistiche – si ostina a vedere in Marco non un commentatore preciso e tutto sommato poco letterario, ma all’opposto un narratore fantasioso, in buona misura inaffidabile. Sicché la sua Cina – descritta spesso in modo perfetto e quasi fotografico – viene letta con sufficienza, o forse con la stessa meravigliosa curiosità con cui si legge di viaggi dell’immaginario me-dievale, racconti di liocorni e di ippogrifi, incontri con geni alati, fate morgane e altre misteriose magie. Il tema della misteriosità della Cina, è dunque duplice e anche in questa sua ambigua natura è assai più antico delle cannoniere in-glesi e francesi e del turpe commercio d’oppio che grazie ad esse si fece strada nelle vie fluviali e nei mercati cinesi. Tuttavia non è solo il più antico, ma anche il più vivo. Nemmeno oggi è completamente scomparso.

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Nel secondo dopoguerra ha anzi acquisito anzi nuovo vigore, quando la Cina divenne oggetto di critiche negative ma più spesso ammirate. E di fronte all’incomprensibilità di quanto vi accadeva, cominciò nuo-vamente a serpeggiare tra gli esperti del tempo la convinzione che la Cina fosse una sorta di nazione particolare, dove quello che pareva impossibile in Occidente poteva invece realizzarsi. Sicché quello che vi accadeva di inverosimile e di contraddittorio – di cui pure si veniva a conoscenza – veniva in qualche modo nascosto, depotenziato nella sua esplosività politica e culturale, dalla generalizzata convinzione che di Cina fosse sempre difficile parlare e che le cose, in buona parte, fossero sconosciute: che ‘non fosse possibile sapere’.D’altra parte era innegabile che di questa impossibilità di conoscere, di questa totale mancanza di dati, il primo responsabile fosse proprio il governo della nuova Cina che aveva innalzato tra sé e il mondo esterno uno sbarramento totale. Poche notizie giungevano all’esterno della cortina di bambù e quelle che giungevano erano così frammen-tarie e spesso incredibili da sembrare illeggibili.

Solo avendo piena consapevolezza della natura duplice del problema legato alla misteriosità della Cina, e di come questa convinzione sia stata accuratamente tenuta in piedi da entrambe le parti in causa – Occidente e Cina – si può iniziare un qualunque discorso sulla storia della Cina contemporanea e non. Non solo gli uomini non videro per-ché era difficile vedere, ma più spesso non vollero vedere. Questa ceci-tà venne difesa in mille modi e sopravvive anche nel presente, anche nell’attuale fase di forte interessamento dell’Occidente per l’economia della Cina, i suoi numeri, la sua vera dimensione. Senza una piena coscienza dell’esistenza di questo duplice desiderio – di non mostrare e di non vedere – sarà fatale non comprendere come mai così tanto è stato ignorato di questo paese con la scusa che non sia conoscibile.

In realtà, come si vedrà nel corso della presente indagine, pochi paesi al mondo offrono allo storico così tanto materiale e così tante fonti quanto la Cina. Se di quelle in lingua cinese (o mancese o tibetano, le lingue degli archivi di stato) molto si sa e se ne conosce la difficile accessibilità e talora un certo letterario ermetismo, ben diverso è il quadro di quelle che invece sono in altra lingua.Nella seconda metà del XIX secolo, e nella prima del XX, la situazione cinese era una delle più conosciute e studiate del mondo. Le fonti a disposizione sono così numerose che forse non basterebbe nemmeno una grande pubblicazione interamente dedicata ad esse per recensir-

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ne le più importanti. Può darsi che la Cina fosse ‘misteriosa’, pure si converrà che questo mistero aveva davvero molti occhi impegnati a studiarlo e alcuni di essi erano tutt’altro che superficiali, o avventati.

In primo luogo il paese fu a lungo occupato dopo le guerre dell’oppio da un numero davvero alto di militari che, giunti con le cannoniere o con scopi di conquista, spesso si fermarono in Cina per molti anni. Molti di essi, rientrati in patria o decisi a restare nella Cina eletta come seconda patria, raccontarono in memorie ben note alle biblio-teche del mondo le loro ribalde imprese, i saccheggi compiuti, le cose rubate e quelle spedite in patria, e infine i costumi, le tradizioni, le curiosità di un popolo che sembrava affascinare al tempo stesso per la sporcizia e l’eleganza, la miseria e la ricchezza, il potenziale che esprimeva e la paralisi in cui era sprofondato.Alcuni di questi testi, che non potevano ambire ad essere libro e che si limitavano ad essere semplici cronache di una spedizione militare o di una trattativa diplomatica, lungi dallo scomparire nelle biblio-teche personali dei loro autori acquisirono celebrità internazionale attraverso l’azione congiunta della società geografiche del tempo – quella di Londra e quella di San Pietroburgo in primo luogo – e quindi destarono la curiosità di un ardimentoso editore parigino – Hachette – che grazie proprio a quei racconti diede vita (1860) a una rivista che fu pubblicata per quasi sessanta anni – Le tour du Monde – succes-sivamente in qualche modo stimolatrice della Nouvelle Geographie Universelle dello stesso editore.Le tour du Monde fu una pubblicazione fortunata e splendida e conob-be numerose traduzioni nel mondo: in essa - con la semplicità della cronaca di un viaggio - vi si raccontavano cose vedute, altre di cui si era venuti a conoscenza, e soprattutto prendeva corpo quell’impatto con il diverso che destava a sua volta nuove curiosità, nuove partenze.

Dobbiamo a queste memorie, o a quelle scritte dalle sensibili signore che accompagnarono diplomatici e avventurieri alla fine del XIX seco-lo testi così importanti e analisi così approfondite della società cinese che ben poco, sembrerebbe di poter dire, pare essere stato trascurato. Certo: sono testi in russo, in inglese, in tedesco, in francese. Trovarli non sempre è facile e leggerli richiede comunque allo studioso occi-dentale o una buona conoscenza delle lingue del mondo: ma, è bene chiarirlo, per quanto possano essere complesse o sia difficile farne un uso scientifico, queste fonti di natura diplomatica e militare sono sterminate e rendono chiaro allo studioso che nessun paese al mondo

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fu così osservato, raccontato e pubblicato come la Cina del XVIII, XIX e XX secolo.

Le relazioni dalle missioni in CinaIl filone diplomatico e militare,integrato nel XX secolo da un esercito di giornalisti che visitarono il paese, ne raccontarono le vicende, è co-munque ben poca cosa se confrontato con le relazione dei missionari protestanti e cattolici che andarono in Cina da ogni paese della terra e, in particolare, dagli Stati Uniti, dal nord dell’Inghilterra, e infine dall’arco alpino con una forte predilezione per le valli della Svizzera e dell’Italia, la Baviera e la valle Padana.Intorno all’inizio del 1920, se dobbiamo prestare fede a dati forni-ti dai missionari e raccolti in grandi tabelle dalla Congregazione De Propaganda Fide, erano al lavoro in Cina più di ottomila missionari e intorno a loro si muoveva un esercito sterminato, di difficile quanti-ficazione, di maestri, tecnici, professori che erano partiti per la Cina vedendo in quella nazione una terra da riscattare, portando al tempo stesso assistenza medica, tecnica, istruzione e Vangelo.Questo esercito di uomini si concentrò, inoltre, in poche e delimitate province: la predicazione missionaria fu quasi assente nelle regioni di cultura non cinese come il Tibet, lo Xinjiang e la Mongolia: la presen-za missionaria si concentrava nella Cina vera e propria e, in alcuni casi, nella Manciuria.La Cina martoriata dell’inizio del secolo attrae la predicazione mis-sionaria in modo irreversibile, assorbendo quasi completamente ogni risorsa economica, ogni disponibilità umana, ogni pubblicazione. Le statistiche sono, da questo punto di vista, di una eloquenza impres-sionante: il 67% dei nuovi missionari che lasciano l’America e l’Euro-pa scelgono come propria destinazione (o vengono mandati) in Cina; “in campo finanziario più del quaranta per cento dei sussidi economici inviati tramite l’Opera della Propagazione della fede sono assorbiti dalle sole missioni cinesi”1. Missionari, cattolici e protestanti, legati a Roma o indipendenti, ave-vano una caratteristica molto particolare, di estrema utilità per lo storico. Per raccogliere fondi e per risollevare le sorti di quella ‘fertile vigna di Cristo’ che attendeva parole di redenzione e salvezza – così ci si esprimeva in molti di questi rapporti a proposito di Cina e della

1 Butturini 1998 (Butturini Giuseppe, Le missioni cattoliche in Cina tra le due guerre mondiali, Roma, Editrice Missionaria Italiana (EMI), 1998), p. 35.

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terra di missione – i missionari inviavano alle loro parrocchie delle semplici relazioni sulla vita della missione. Con continuità, per de-cenni. E poiché così usava presso gli ordini presenti in Cina, le let-tere dovevano prima giungere alla casa madre e questa costruiva, con quel ricco materiale, dei bollettini mensili con cui si ragguagliava sulla vita della missione e sulle difficoltà del paese. Di tutto il mate-riale stampato in Italia proveniente dalle missioni cattoliche sparse nel mondo, i titoli riguardanti la sola Cina sono in quegli anni una percentuale superiore al sessanta per cento dell’intera produzione letteraria2. Questi bollettini venivano distribuiti in migliaia di par-rocchie, letti da decine di migliaia di persone, spesso citati nel corso delle prediche: crearono un vasto movimento nel mondo che vedeva nella Cina non solo una terra da aiutare, ma anche dove ricostruire un’immagine di Cristo e della fede cristiana infangata dalle cannonie-re inglesi e francesi. Il ricordo di questa esperienza missionaria in Cina continua tuttora a vivere in Occidente, è stato anzi per anni un filone dell’industria cinematografica. Ne ricorderemo solo i più famosi: la fiera determina-zione a partire che animò molti missionari pur nella consapevolezza del pericolo (Momenti di gloria3), l’eroismo di maestre d’acciaio nel cuore della Cina in guerra (La locanda della sesta felicità4); il rifiuto sdegnato con cui molti missionari non accettarono la protezione mi-litare occidentale per non confondere la loro azione con quella delle potenze coloniali (Quelli della San Pablo5). Attori prestigiosi come Ingrid Bergman, Steve McQueen, Candice Bergen prestarono il loro volto per raccontare un’epopea ben nota a chi leggeva le lettere dalle missioni della Cina.Naturalmente all’interno di questo grande movimento cristiano non mancarono divisioni, rivalità confessate a fatica e tuttavia importan-ti. La divisione più importante non fu, come si potrebbe credere, quel-la esistente tra missioni protestanti o anglosassoni e quelle cattoli-che, ma piuttosto tra missioni che avevano un rapporto molto stretto

2 AAVV, Guida delle Missioni cattoliche, Roma, 1934, pp. 74 e successive. Anche: Annuaire des Missions catholiques de Chine, Shanghai, 1933-[...]. Si veda pure: Missions catholiques en Chine [carta], Bureau Sinologique de Zi-Ka-Wei, Shanghai, marzo 1930. 3 Momenti di gloria (Chariots of Fire), 1981, di Hugh Hudson e in particolare la storia dell’aspirante missionario Eric Liddell che dopo avere vinto l’oro olimpico partì per la Cina e qui scomparve dopo una lunga prigionia e oltre venti anni di lavoro di missione.4 La locanda della sesta felicità (The Inn of the Sixth Happiness), 1958, di Mark Robson, con Ingrid Bergman.5 Quelli della San Pablo (The Sand Pebbles), 1966, di Robert Wise, con Steve McQueen, Candice Bergen e Richard Attenborough.

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con il paese di provenienza e il governo che esprimeva ed altre che invece preferivano considerarsene indipendenti. Le missioni protestanti, caratterizzate da una sostanziale autonomia, suscitavano l’invidia di molti missionari cattolici per una empirica capacità di coordinare la loro azione. Questa capacità di dialogo – rac-contano i testi missionari cattolici del tempo – sarebbe invece man-cata alle missioni cattoliche, irrigidite in contrapposizioni apparente-mente insuperabili tra ordini diversi, ognuno dei quali sembrava più preoccupato di sostenere l’efficacia del proprio intervento che non di coordinarsi con quello degli altri. Queste rivalità, frutto di secolari tensioni europee, venivano meno durante le grandi crisi militari e di sicurezza, ma si riproponevano quando il pericolo era cessato.

Di maggiore gravità e importanza per lo storico fu il contrasto che oppose le missioni cattoliche francesi a quelle italiane o di lingua tedesca. C’era, in primo luogo, una profonda differenza di estrazio-ne sociale: i missionari italiani e tedeschi che giungevano in Cina provenivano da mondi rurali, spesso valli montane, portavano con sé l’impronta della praticità contadina nell’affrontare e risolvere le difficoltà. I missionari francesi erano più colti, più preparati, inoltre sovente erano espressione di un mondo benestante. Italiani e tedeschi giungevano alla missione dopo percorsi avventurosi e spesso quasi eroici: sono felici di farsi fotografare insieme alla motocicletta con cui hanno raggiunto la sede della missione dopo oltre mille chilometri di strada sterrata nella campagna cinese. Hanno con sé una illimitata fiducia in Dio e nella loro chiamata, una straordinaria e contadina capacità di arrangiarsi: sono al tempo stesso meccanici, infermieri, falegnami, maestri e catechisti.I missionari francesi, all’opposto, sbarcano accolti dalle autorità con-solari, raggiungono spesso e volentieri la missione con l’appoggio dei militari; quando giungono si inseriscono in una società religiosa or-ganizzata, con le sue gerarchie e un certo, precostituito, ordine. Il loro arrivo nella missione viene più spesso rappresentato dalla foto celebrativa dell’incontro con i missionari già presenti sul luogo e dai felici commenti dei residenti per i nuovi libri che hanno portato dalla Francia.Nulla rende più scettici i missionari italiani e tedeschi verso i mis-sionari francesi quanto l’efficace gioco di squadra esistente tra sta-to, esercito, corpo diplomatico e clero francese attivo in Cina. Questo profondo dissenso si manifesta in questioni che non sono marginali: così che nelle missioni francesi sventolasse la bandiera francese par-

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ve al mondo missionario italiano e tedesco una grave contraddizione che metteva a repentaglio l’esperienza di tutte le missioni nel loro insieme. C’era molta rivalità e forse anche invidia nei confronti della capacità di costruire e di organizzarsi del clero francese. Progetti importan-ti che tutti avrebbero volentieri affrontato ricevevano accelerazioni improvvise grazie all’intervento della Francia a sostegno dell’azione dei propri missionari. Università pechinesi che sarebbe stato bene sorgessero unendo tutti i cattolici, venivano invece avviate dall’azio-ne congiunta dei domenicani francesi e del loro governo: i primi per niente preoccupati che la loro azione fosse collegata a una potenza militare occupante, il secondo ben determinato a estendere la propria influenza in Cina anche grazie all’appoggio disinvolto dato all’azione missionaria francese. Come noto c’erano sullo sfondo vecchie questio-ni europee, mai risolte, legate anche al Risorgimento italiano, alla difesa offerta da Napoleone III alla Chiesa sulla questione romana. In Cina la pretesa della Francia di essere l’unica rappresentante della Chiesa impedì per anni che il Vaticano aprisse una sua rappresen-tanza diplomatica. Sul piano istituzionale questo contrasto spinse il Vaticano a smarcarsi dall’indesiderata protezione di Parigi:

Se invece risiedesse in Cina un inviato Pontificio che rappresentasse e tutelasse esclusivamente gli interessi religiosi, senza immischiarsi ne’politici e commerciali, il popolo Cinese si abituerebbe a distinguere tra cristiani e francesi e l’odio contro i cristiani verrebbe gradatamente a cessare.6

Non sorprende perciò che nella corrispondenza dei missionari italiani e tedeschi emerga un deciso anticolonialismo, probabilmente primo germe di quello che nel tempo diventerà un vero e proprio filone re-ligioso terzomondista, vicino ai movimenti rivoluzionari del mondo. Essi non vogliono essere confusi con l’azione delle potenze coloniali, non vogliono avere nulla a che fare con le prepotenze di cui gli occi-dentali sono protagonisti in Cina. Come i missionari anglosassoni, e diversamente da molti francesi, giudicano che la loro nazione di pro-venienza sia un ostacolo, non un vantaggio in terra di missione.Così, meno protetti perché non sostenuti da alcun governo, in qualche misura meno colti o meno preparati all’impatto con la diversità cine-

6 Relazione sull’invio di un rappresentante pontificio in Cina…, in Giovagnoli Agostino e Giunipero Elisa (a cura di) Chiesa cattolica e mondo cinese, Città del Vaticano, Urbania University Press, 2005, pag. 38.

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se, missionari italiani e tedeschi desiderano mostrare nelle loro cor-rispondenze povertà e concretezza, condivisione umana e solidarietà. Si descrivono, non erroneamente, come i testimoni poveri e isolati di un mondo di infinita miseria e vittima di ogni angheria. Non discutono di massimi sistemi: molti di loro non ne sarebbero in grado. Nelle loro corrispondenze si avverte anzi lo scetticismo, il dub-bio per chi nasconde dietro raffinate analisi culturali un rapporto con la campagna cinese inesistente e un’arroganza culturale che giudica-no inaccettabile.Carattere peculiare di queste relazioni fu di raccontare la campagna cinese. Non erano dunque punti di osservazione urbana su realtà lontane. Le cronache di missione provenivano da realtà periferiche, isolate, poste a diretto contatto con la popolazione contadina e con le sue drammatiche condizioni di vita. Non spiegavano, non interessava né sarebbe stato apprezzato, il dibattito politico in corso, o l’evolversi della situazione politica o militare del paese. Ma avevano un pregio: erano lì, sul posto. Vedevano quello che stava accadendo.

Tutto venne raccontato in queste gazzette missionarie: le condizioni di vita della popolazione, il comportamento dell’amministrazione lo-cale, dei mandarini, dei proprietari terrieri, dei rivoluzionari comuni-sti e nazionalisti. Ogni evento che avesse coinvolto la parrocchia o la sede missionaria aveva in queste cronache un commentatore ordina-to: con tanto di nome, cognome, localizzazione. Vi si descrive il comportamento degli eserciti occidentali o degli av-venturieri che si sono impadroniti del paese, l’irrompere dell’eserci-to giapponese, il manifestarsi di un’azione di guerriglia. L’organiz-zarsi delle prime aree rosse o delle grandi repressioni giapponesi, della guerriglia comunista e nazionalista, la reazione degli agrari e del Guomindang: tutto era davanti a quegli occhi che ne riferivano, spesso con dovizia di particolari e con una sostanziale, come si vedrà, ingenuità. Al missionario non interessava nascondere la sua avversione al co-munismo o la sua paura per l’arrivo dei giapponesi: ne parla anzi in modo molto esplicito. Così, ad esempio, i missionari italiani nelle aree controllate dai giapponesi temono di essere confusi con l’Italia fascista e che un indiretto appoggio giapponese comprometta anni di lavoro in terra di missione.Emergono da queste relazioni dati di una tale complessità e di una così vasta estensione (le lettere sono decine di migliaia in tutto il

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mondo) che anche la sola idea che si possa fare la storia della Cina contemporanea senza sfruttare le fonti di queste relazioni lascia mol-to perplessi. Molte di queste relazioni, legate a missioni italiane, te-desche e – certo – anche francesi, sono in lingue alla portata dello storico occidentale e costituiscono un archivio infinito di notizie che raccordate e interpretate permette di ricostruire vicende molte com-plesse, oggi spesso definite misteriose.Edward Carr, grande studioso della rivoluzione bolscevica, mette in guardia lo storico dall’entusiasmo che può destare in lui la scoperta di una nuova fonte, o di un filone inesplorato. Dall’eccessiva fiducia che in modo naturale lo storico finisce col nutrire per documenti a lui prima sconosciuti. Sarà bene seguirne i suggerimenti e conservare quindi molto senso della misura.Ma, certo, poiché si sta trattando di una nazione di cui è stata pro-clamata l’impossibilità di conoscere, conviene ribadire che pur nelle loro molteplici contraddizioni gli archivi missionari sono di una vasti-tà inimmaginabile, solo sfiorata dalla presente indagine. Quello che ne è emerso è di una tale ricchezza che non pare nemmeno possibile immaginare che possano essere scritte storie della rivoluzione cine-se senza il confronto con queste testimonianze: oculari e costanti nel tempo.Perché vennero bandite e come sia potuto accadere che in Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Italia e Germania – i paesi che diedero il più importante contributo di missionari - nessuno abbia giudicato utile confrontarsi con questo immenso archivio non appartiene al campo della misteriosità della Cina, ma piuttosto a ciò che l’Occidente decise di non conoscere e di non vedere. Non era impossibile sapere, si decise di non sapere: la differenza non è marginale.

Natura delle fonti missionarieSappiamo molto, più di quanto sia possibile immaginare, sulla cultu-ra e l’atteggiamento mentale di questi uomini che lasciarono l’Europa o gli Stati Uniti diretti in Cina, convinti di essere latori di un messag-gio spirituale e religioso che non doveva in alcun modo confondersi con l’occidentale pretesa di civilizzazione, comunque mascherata. Il popolo cinese, vi si ripete un po’ ovunque, è portatore di una grande storia, di una civiltà per certi versi straordinaria, di cui è consapevole e orgoglioso protagonista. L’azione del missionario non deve mai en-trare in conflitto con essa, ma anzi ispirarsi a un rispetto che indiriz-zerà verso di lui riconoscenza e stima.

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Dovremo constatare che i Cinesi7 sono dotati di intelligenza e di capacità sbalorditive. Fate che i Cinesi ritrovino se stessi! Che riacquistino pace e libertà! Che si riorganizzino, che si arricchiscano, che economicamente e militarmente diventino potenti! Faranno nuovamente meravigliare il mondo. … Come trattare questo popolo. La tattica che deve essere usa-ta dai Missionari nel trattare con un popolo simile, come del resto da qualunque persona ed anche collettività, deve essere quella dell’assoluta parità. Il Cinese, conscio delle sue doti, del suo passato glorioso, dell’im-portanza del suo presente e delle possibilità del suo avvenire, vuole esse-re stimato, considerato, lodato, venerato e squisitamente e delicatamen-te trattato. … I Missionari perciò mostrino di apprezzare più di quel che altri non hanno fatto o non fanno: storia, civiltà, mentalità, arte e scienza loro. Senza essere adulatori, parlando con essi mettano in bella vista, i meriti, le doti ed il bene della loro razza e della loro nazione. Mai attacchino a fondo i loro mali presenti e passati. Siano prudenti nel criticare, indulgenti nel giudicare, caritatevoli nel condannare, amabili nel trattare e longamini nel tirar via su tante miserie del loro ambiente.8

Il missionario deve scindere la propria azione da quella dei tanti che in Cina sono convinti di essere stati incaricati dalla storia – in virtù di una superiorità economica e militare – di portare il verbo di una nuova civiltà. Non è di civiltà che i cinesi hanno bisogno:

Ciascun Missionario si tolga dalla mente di essere chiamato a civiliz-zare il popolo cinese o a portargli i costumi della propria patria. No: il cinese ha bisogno di evangelizzazione, non della civiltà e dei costumi nostri. Questa pretenzione lo urta, lo umilia e lo indispone.9

Ma, soprattutto, occorre in sede di missione compiere un’opera corag-giosa di interruzione di ogni forma di collaborazione con l’occidente, comunque inteso: l’arroganza degli imprenditori occidentali, dei mi-litari, delle potenze colonialistiche in genere sta danneggiando nel modo più completo l’azione della chiesa in Cina.

Ogni missionario deve ammettere che la civiltà materiale, il mercantilismo senza scrupoli, la vita tutt’altro che cristiana degli europei in Oriente ed in altri paesi del mondo, sono grandissimi ostacoli alla propagazione della

7 ‘Cinesi’ e ‘Missionari’: in maiuscolo nel testo. 8 Ceccarelli 1964 (P. Sebastiano Ceccarelli, Venticinque anni sulle rive del fiume Han – Come ho visto la Cina e i cinesi, Pistoia, ed. Missioni francescane, 1964), p. 115

9 Ceccarelli 1964, p. 116

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fede. Quanto più fruttuoso sarebbe stato il nostro apostolato se avessimo potuto presentarci ad essi da soli, appoggiati unicamente al Vangelo e alla grazia di Dio! Il missionario non è in buona compagnia con il soldato, col colonizzatore, che sono spesso sfruttatori e scandalosi.10

Nelle pagine delle loro memorie, emerge diretto e ingenuo, un vero e proprio innamoramento verso la Cina che è forse tipico di ogni espe-rienza di missione ma che qui manifesta una condivisione totale, fie-ra. Come se il missionario si senta anch’esso cinese.

La Cina è un colosso; è un mondo: ed il Cinese, se per il numero è il primo popolo della terra, per le sue doti, capacità, attività e possibilità può stare a confronto con qualsiasi altro popolo esistito ed esistente.11

Dietro a così tanto slancio, l’occhio del missionario resta vigile sulle sorti del paese e talora si interroga in modo non banale anche su questioni di metodo e di carattere più generale. Superato con enormi difficoltà lo scoglio linguistico i padri comprendono rapidamente che non c’è alcun futuro alla loro azione se non riescono a trasformare in atteggiamenti concreti il loro rapporto col paese.

Le missioni, pel loro carattere spiccatamente occidentale, si presentano agli infedeli come organizzazioni di stranieri, e la loro natura religiosa non ri-sulta sempre di prima e diretta evidenza. I pagani, quelli che capiscono, quelli che contano qualche cosa, non vedono Gesù Cristo in prima linea nella propaganda delle missioni. Vedono la scuola, l’ospedale, vedono altre e belle opere, vedono soprattutto degli stranieri ricchi e potenti, e nei conver-titi degli uomini soggetti a questi stranieri per i benefici che ne hanno avuto o che sperano averne. È crudo dire questo, ma è così.12

Nelle lettere che i missionari inviano in Occidente si manifesta in modo omogeneo e continuo, un atteggiamento di quotidiano empiri-smo, scevro dalle discussioni ideologiche e dalle avventure spirituali più astratte. Essere in missione per questi uomini significa azione concreta, visibile e apprezzabile dalla popolazione. Nelle loro relazioni si afferma un punto d’osservazione che non ha pretese scientifiche né letterarie ma limita il racconto alla concretez-

10 Manna P. Paolo, Osservazioni sul metodo moderno di evangelizzazione, in Butturini 1998, p. 118.11 Ceccarelli 1964, p. 90.12 Manna P. Paolo, in Butturini 1998, p. 119.

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za della testimonianza diretta, tesa a raccontare eventi legati alla vita della missione che confermino agli occhi del lettore non solo la nobiltà dell’opera, ma la sua equità sociale e utilità.Né il missionario può dimenticare che coloro che leggono le sue lettere è certamente fedele convinto ma spesso e volentieri è anche persona di cultura modesta, con poche e imprecise nozioni del paese. Sicché la lettera missionaria è più vicina a un racconto sotto forma di diario che ad astratte analisi storico-sociali. Queste in realtà vengono talora in-viate alla casa madre, ma spesso e volentieri non vengono pubblicate perché giudicate troppo complesse e lontane dalla sensibilità di coloro che sostengono la missione.Curiosamente, e con grande fortuna per lo storico, queste analisi più complessive verranno utilizzate dai redattori europei delle riviste missionarie quando il flusso della corrispondenza dalla missione si interrompe. Così durante le fasi del più acceso scontro militare, o nei primi anni dell’occupazione comunista del paese, quando il servizio postale non funziona o è sostanzialmente interrotto, si tiene in vita il rapporto con i fedeli ripubblicando brani di lettere che, in un primo momento, non erano state utilizzate.Dunque proprio per questo carattere concreto, quasi giornalistico, il valore documentario delle testimonianze provenienti dalle missioni è di tale spessore che costringe lo storico a considerarle di primaria importanza. Sono una miriade di frammenti legati alla realtà locale della missione. Ma, coordinate e raccolte, queste lettere sono un dia-rio straordinario della campagna cinese tra la fine dell’Ottocento e il 1949.Il missionario non discute della conquista giapponese, ma descrive con precisione quale è stato il comportamento tenuto nella sua mis-sione dai soldati giapponesi. Non commenta la vita della Cina repub-blicana, ma racconta quali sono i rapporti tra il funzionario della Cina repubblicana e il missionario. Non parla delle ragioni della guerra ma descrive l’affollarsi dei profughi, dei soldati in fuga. O, all’opposto, del dilagare dei banditi, del caos che intimorisce la popolazione e mette a rischio l’esperienza missionaria.Tale ‘concretezza in Cristo’ – l’espressione è ricorrente nei diari e nel-la lettere dei missionari – si coniuga tuttavia con un secondo atteggia-mento di fondo, a sua volta utile per lo storico.Il missionario sa che l’immenso sforzo della missione deve essere spiegato a una popolazione di fedeli che spesso non comprende la ra-gione di un flusso di denaro e di uomini così importante verso un paese lontano. Conosce la miseria dei quartieri operai o delle valli

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montane da cui è partito, sa perfettamente che anche in Svizzera, Germania, Francia e Italia, in tanti avrebbero bisogno della chiesa e della sua assistenza. Sicché costante preoccupazione dei missionari è lo spiegare al lettore che ‘la fertile vigna che Cristo ha preparato’ per la missione ha una sua dignità culturale, una sua importanza; che dunque lo sforzo è rivolto a un popolo maturo che il missionario ha il compito di difendere dalle accuse più infamanti e dallo sprezzan-te pessimismo delle autorità coloniali. Così una miriade di centrini ricamati, di modeste pitture su carta di riso, di oggettini popolari e tuttavia dignitosi si affiancano alle sue lettere e hanno il compito di confermare al fedele lontano la natura geniale e ‘buona’ del cinese che, se messo in condizione di ben operare, può uscire da solo da uno stato di povertà disperata e incamminarsi – appunto con l’aiuto del missionario – lungo la via del progresso.

E poiché le cronache non missionarie di quegli anni sono sature di pregiudizi coloniali – oggi molto dimenticati in Occidente, ma non in Cina – e si concentrano in un’espressione carica di disprezzo (china-man) che sta a significare al tempo stesso un popolo falso, corrotto, sporco, prepotente, vizioso, privo di attaccamento alla famiglia, dedi-to alla produzione e al consumo di oppio, incapace di rapportarsi con la tecnologia, vigliacco in battaglia, eccetera13 ecco che il missionario si fa una ragione di spiegare che non esiste in ‘natura’ alcun china-man; che se i cinesi in quegli anni possono talora sembrare così è per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la ‘natura’ del popolo cinese. Talora – si scrive – certe notizie non sono vere, o sono il frutto di una visione distorta e occidentale della Cina da parte delle stesse forze che la stanno umiliando e occupando. Quando il missionario difende la Cina e il cinese non soltanto assolve a un compito di elementare informazione sul reale andamento delle cose in terra di missione, ma difende il suo stesso operato, le ragioni della missione e dunque del suo essere in Cina. Molte lettere spiegano che è vero che in Cina domina il banditismo, ma che questo fenomeno è legato a una povertà profonda e a carestie terribili di cui nessuno si occupa in Occidente. Quando deve spiegare la ragione del successo dei comunisti il missionario racconta che molti di essi sono uomini

13 Si rimanda su questo tema allo splendido Fitzgerald 1996 (Fitzgerald John, Awakening China – Politics, Culture and Class in the Nationalist Revolution, Stanford, Stanford University Press, 1996). In particolare il capitolo One China, one nation – The Unequal Treatise of Ethnography, pp. 103 e successive.

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buoni, ma disperati, costretti a questa scelta estrema dalla violenza degli agrari; che dunque non sono i comunisti il vero problema della Cina, ma piuttosto le arroganze di una società che nella sua violenza costringe le persone a scelte radicali.In breve, sposando un punto di vista ‘cinese’ il missionario si sente incaricato del compito di ristabilire verità che pochi conoscono e di ridurre quella complessità di pregiudizi sulla Cina che considera pe-ricolosi per la sua stessa opera. Il giorno che il fedele della parrocchia ticinese, bavarese o emiliana dovesse davvero convincersi che non ci sia più nulla da fare e che la Cina sia uno sforzo senza senso, il mis-sionario sa che si ridurrebbero le offerte.Così le relazioni dei missionari, impegnate nel raccontare la vita quo-tidiana della missione e nell’elogiare un popolo, costrette a non essere ideologiche ma al tempo stesso consce che su questo piano sopravvivo-no in Europa pregiudizi profondi, alternando descrizioni della nuova cappella a racconti sulla situazione della campagna cinese, semplici episodi di cronaca locale e riflessioni più generali offerte con estrema semplicità, compongono un quadro complesso e affascinante sia di come la Cina vide sé stessa in anni drammatici, sia di quello che una parte di Occidente credette che la Cina fosse.Uomo di frontiera, cinese in Occidente, occidentale in Cina, il missio-nario spiega più di quanto vorrebbe, racconta con precisione quello che gli pare sia stato travisato dalla stampa, ritorna su eventi di cui è certo non è stato compreso il senso: non per compiere un’opera di informazione, ma per difendere lo sforzo che sta compiendo e tutelare la sopravvivenza della missione.Inserito nel territorio, capace di leggere il cinese e di parlare corret-tamente la lingua, spesso medico, comunque osservatore attento, impegnato a tenersi alla più vasta distanza possibile dagli eserciti occidentali e di entrare in sintonia con la popolazione cinese, il mis-sionario presenta tutti i caratteri dell’osservatore esterno, punto di osservazione di mondi che conosce meglio di altri e che comunque l’hanno in qualche modo emarginato proprio perché si è spinto troppo in là e non è più occidentale né può essere cinese.Come Jeremiah Johnson14 il missionario ama e difende un mondo che tuttavia lo considera un estraneo e vive con pena sincera e talora con sgomento l’appartenza a un altro mondo, quello della colonia, da cui compie tutti gli sforzi possibile per distinguersi. Gli eventi lo vedono

14 Corvo rosso non avrai il mio scalpo, 1972, di Sydney Pollack, con Robert Redford. Da Mountain man di Vardis Fisher.

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esposto alla rappresaglie di banditi che tuttavia deve cercare di di-fendere, all’aggressività comunista che deve in qualche modo legitti-mare, aggredito dalle forze del Guomindang di cui però condivide lo sforzo per la rinascita nazionale e il giusto orgoglio per sentirsi parte di una grande nazione. Nella sua contraddittoria e pericolosa posi-zione culturale e nel suo essere in balia di eventi che non controlla, il missionario potrà ora essere anticomunista, ora anti giapponese, ora anticapitalista: ma comunque è sempre ispirato nelle sue scelte dal desiderio di perdersi in un popolo che ha scelto essere il suo e che, tut-tavia, ora lo perseguita, ora ne chiede aiuto, ma mai – comunque – è in grado di comprenderlo.È questa straordinaria complessità della figura del missionario, que-sta sua funzione di ‘cerniera’ tra due mondi la ragione per cui su que-sto immenso archivio occidentale è sceso un silenzio profondo. Nes-suno dei due mondi – Occidente e Cina – si è riconosciuto in quelle relazioni. Il missionario era già ‘altro’ mentre scriveva. Sicché è stato naturale consideralo parte dell’esperienza coloniale o all’opposto di quella occidentale. Coloro che si sono occupati per decenni di Cina e della sua rivoluzione non hanno nemmeno immaginato che potessero esistere occhi occidentali di questa qualità impegnati a osservare la realtà delle campagne cinesi. Dall’altra parte chi è stato protagonista di una rivoluzione di questa ampiezza non era in grado di capire, né di apprezzare, un punto di osservazione occidentale sulle sue stesse imprese. Non sfugge inoltre, in un evidente ribaltamento delle parti non privo di divertenti contraccolpi, che il tramite linguistico taglia ora fuori il partito comunista cinese e gli storici cinesi della rivoluzione da que-sta imponente fonte archivistica. Quella grande muraglia linguistica che ha protetto l’azione del partito e della Cina per anni, si rivela ora un handicap difficilmente superabile. In anni in cui lo stesso partito è disposto a guardare con maggiore serenità alla propria storia e po-trebbe essere disposto a utilizzare, in questo cammino, anche fonti non cinesi il problema linguistico si rivela paralizzante.In ogni caso queste testimonianze oggi sono di un valore storico e documentario inestimabile: il più grande e inesplorato archivio esi-stente al mondo sulla rivoluzione cinese è in lingua italiana e tedesca e, in minor misura, in inglese e francese. È quasi una nuova frontiera che si spalanca agli studi storici. In de-finitiva, si può dire non senza sorpresa, non è possibile fare la sto-ria della rivoluzione cinese ignorando le fonti italiane e occidentali. Avendo dunque il coraggio di ripartire da quell’assunto – vero e falso

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al tempo stesso – per cui in tanti hanno creduto così a lungo e così erroneamente che della Cina non fosse possibile sapere nulla.Nei capitoli seguiranno, e in particolare in quelli che fanno riferimen-to alla situazione della Cina occupata dai giapponesi, si avrà modo di utilizzare queste fonti di origine missionaria, principalmente italiane e tedesche. Nel concreto dell’indagine storica si potrà così valutare quanto siano importanti e – al tempo stesso – con quale attenzio-ne debbano essere trattate. Ma questo, evidentemente, è il problema quotidiano dello storico e il fascino stesso di ciò che si intende per ‘scrivere la storia’.

L’eredità di una lunga esperienza storicaLe relazioni provenienti dalle missioni cattoliche europee non venne-ro dunque accolte e finirono col restare confinate al mondo cattolico europeo e col trovare nelle sole parrocchie e nelle chiese d’Europa il naturale interlocutore. In questo contesto non sorprende che assai prima delle canonizzazioni decise da Roma nel mondo cattolico e cri-stiano si moltiplicassero i martirologi, gli elenchi degli uomini caduti nell’adempimento del loro dovere spirituale: che si costruissero i pri-mi elenchi di un’anagrafe della sofferenza e di coloro che avevano tro-vato la morte in Cina. O di quei cinesi che convertiti o diventati a loro volta preti avevano partecipato alla grande avventura missionaria e spesso e volentieri ne avevano condiviso le sorti: la morte violenta du-rante le grandi rivolte popolari, le difficoltà durante la guerra contro il Giappone e infine l’espulsione, o l’arresto o la morte nei primi anni della repubblica popolare cinese.Nacque così quell’impegno a non dimenticare15 che è diventato nei decenni un filone isolato e quasi disperato della presenza cristiana in Cina. Una rivendicazione puntigliosa e non priva di coraggio di ciò che altrove si è preferito dimenticare o ignorare. Per non intralciare il dialogo con la Cina contemporanea, per non ostacolare le migliaia di persone che sono ancora missionari in Cina sebbene in incognito, o, più semplicemente, perché se ne ignora l’esistenza e del loro ricordo si è perso tutto, anche la più piccola traccia.

Non si può tuttavia chiudere questa sezione dedicata alle fonti missio-narie sulla storia cinese senza accennare al fatto che la loro fortuna popolare e capillare nell’Europa del XX secolo venne controbilanciata

15 Politi 1998 (Giancarlo Politi, Martiri in Cina. Noi non possiamo dimenticare, Bologna, EMI, 1998).

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dal silenzio totale da parte di coloro che invece di Cina cominciarono ad occuparsi dal punto di vista politico. Tale silenzio contraddistin-gue tutta l’editoria sulla Cina a partire dagli anni Cinquanta e si estende al presente con ininterrotta continuità. Non un solo testo, di quelli che verranno pubblicati dalla fine degli anni Cinquanta in poi, dedica un’adeguata menzione a questa esperienza. La presenza di mi-gliaia di missionari, di osservatori cristiani dello scenario cinese fu cancellata completamente, come se non fosse mai esistita, o come se il solo parlarne tocchi corde che è preferibile non andare a sollecitare. O estenda nel presente intollerabili ricordi di colonialistica arroganza e di storica inutilità.Tale silenzio non riguardò solamente la modesta – per dimensioni, beninteso – editoria italiana sulla Cina, ma anche in buona misura quella ben più estesa e approfondita in lingua francese e quella – dav-vero imponente – in lingua inglese.Esula dagli interessi di questa indagine approfondire le ragioni di questo silenzio e tuttavia non si potrà evitare, seppure rapidamen-te, di accennarne. Il clima politico del secondo dopoguerra si è for-se venuto dimenticando negli ultimi anni, ma è ben lungi dall’essere memoria lontana. Venne allora a definirsi una sorta di non detta ma popolare equazione per cui tutto ciò che avveniva in Cina, in partico-lare dopo l’arrivo al potere del partito comunista, era di carattere così nuovo e così rivoluzionario che anche gli strumenti dello storico dove-vano adattarsi a questa nuova realtà. E così come i cinesi proclama-vano – come continuano a proclamare oggigiorno – che nel 1949 fosse nata una Nuova Cina e che tutto della vecchia società cinese dovesse essere dimenticato, così tra gli storici del tempo si affermò la diffusa convinzione che per comprendere la Cina e le sue scelte in materia di politica economica ed internazionale fosse assai più produttivo usare gli strumenti interepetativi forgiati nell’analisi del dibattito in seno al movimento comunista internazionale e alla III Internazionale.

Si dirà che la storia di Cina di quegli anni mirava alla ricostruzione non tanto della società cinese nel suo insieme, ma del dibattito politi-co all’interno del partito; che dunque per comprendere il valore delle scelte politiche della dirigenza del PCC, la conoscenza della Cina e della sua storia fosse secondaria, forse inutile. Non sono affermazio-ni errate: contengono, anzi, al proprio interno nuclei di verità diffi-cilmente contestabile. Ciò che muoveva l’interesse del tempo per la

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Cina, in Giancarlo Pajetta16, in Franco Fortini17, in Enrica Collotti Pischel18 come in Rossana Rossanda, era l’originalità politica del mes-saggio cinese e dunque il suo essere parte del dibattito politico inter-no alla sinistra internazionale più che lo sgorgare da un’esperienza cinese. Sicché parve naturale che per parlare di Cina e scrivere di Cina fosse più importante conoscere il russo e il dibattito all’interno della sinistra internazionale che non il cinese; che le discussioni che avevano caratterizzato l’esperienza sovietica, e quindi politici del ca-libro di Lenin, Zinoviev, Bucharin, Stalin e molti altri ancora, avesse-ro più rilevanza di quanto stava accadendo in Cina.Questo filone politico e filosofico, che non si curò né molto né poco di ciò che era stato perché guardava al nuovo e si interrogava su come fosse possibile uscire dalle paludi di un movimento comunista che sembrava incapace di sfuggire alla deriva dittatoriale di molte rivolu-zioni popolari, non poteva avere alcun interesse per le relazioni mis-sionarie, per la storia della chiesa cattolica e delle scuole protestanti in Cina: in realtà non aveva nessun interesse per la Cina stessa. Così l’idea che della Cina fosse impossibile sapere e che tutto quello che avveniva oltre il confine cinese fosse al tempo stesso misterioso e vago, spiegava e legittimava una scelta che traeva le sue origini da ben altre premesse. Si affermò così la convinzione che sulla Cina in sé non si sapesse nulla e che fosse necessario sospendere il giudizio e lasciarlo a più fortunate epoche.Tale atteggiamento culturale poté tuttavia affermarsi non solo igno-rando con un’ostinazione che sfiorò il disprezzo intellettuale tutto quello che della Cina era stato scritto dai missionari, ma estendendo un silenzio totale, sfacciato e totalitario, su tutti coloro che non condi-videvano il clima politico del tempo e si ostinavano a cercare, oltre le parole del potere cinese, un’ombra di realtà. O qualcosa che al reale quotidiano della popolazione cinese facesse riferimento.Ne fecero le spese non soltanto le testimonianze dei missionari che in Cina c’erano stati. Il silenzio avvolse tutti coloro che non si uniforma-rono a questo standard culturale o che vantando diverse competenze, storie personali non in linea con le tendenze del momento, credettero che ci fosse ancora bisogno di conoscere, di capire meglio. E che per farlo fosse necessario meno impegno ideologico e maggiore concretez-

16 Pajetta 1959 (Pajetta, Gian Carlo, La via cinese verso il socialismo: relazione sul viaggio della delegazione del PCI nella Cina popolare, Roma, Tip. Seti, 1959).17 Fortini 1956 (Fortini, Franco, Asia maggiore: viaggio nella Cina, Torino, Einaudi, 1956).18 Collotti Pischel 1972 (Collotti Pischel Enrica, Storia della rivoluzione cinese, Roma, Editori Riuniti, 1972).

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za, studio, applicazione quotidiana.Il silenzio che avvolse le vicende della chiesa e delle missioni in Cina si estese così, con naturalezza che nessuno parve nemmeno lontana-mente contestare, a due intellettuali raffinatissimi – Laszlo Ladany e Pierre Ryckmans – e a una rivista Far East Economic Review nei cui confronti la comunità degli esperti di Cina innalzò un muro di così alte dimensioni che ancora oggi pesa in molti ambienti universitari, italiani inclusi. Parlare di loro in un testo di storia di Cina, o citarne il nome, chiude tuttora porte importanti e spinge a imbarazzati silenzi. Come se tutto quello che riguarda l’azione di queste persone e ciò che fecero o stanno ancora facendo si collochi in una dimensione di impos-sibile provocazione anticinese; e tacerne o fare finta di niente sia la cosa più saggia da opporre se non si vuole perdere ogni contatto con la Cina e con il suo potere. Laszlo Ladany (1914 – 1990) fu l’autore dello straordinario China News Analysis19 e deve essere indicato come il diretto continuatore della grande tradizione delle relazioni missionarie inviate dalle Cina. Gesuita ungherese giunse in Cina come missionario alla vigilia della vittoria della rivoluzione. Con la proclamazione della repubblica po-polare e l’espulsione dei missionari dalla Cina padre Ladany non ac-cettò di trasferirsi in Taiwan, dove avrebbe inevitabilmente confuso la sua azione con quella dell’anticomunismo totalitario degli esuli del Guomindang, né di convertirsi, come fecero in tanti, in missionario in Africa o in altre terre. Giudicò che la Cina fosse la sua chiamata, il suo mandato e che il non abbandonare la Cina non fosse una scelta, ma un dovere, quasi un voto. Chiuso in uno stanzino povero e piccolo della Hong Kong del tem-po Ladany iniziò una sistematica lettura della stampa cinese che in modo ufficiale o meno giungeva regolarmente a Hong Kong. Padrone della lingua cinese come pochi, attento come poteva sembrare impos-sibile in quegli anni alla realtà del paese, iniziò a pubblicare il suo China News Analysis nel 1953 contribuendo in modo prepotente, ri-cordano molti storici americani, a spostare verso la lingua inglese il linguaggio degli studi di Cina del tempo, usi fino a quel momento a considerare il francese la propria lingua ufficiale. Ladany annotò per anni nomi, necrologici di dirigenti, presenze a manifestazioni e assenze, discorsi ufficiali, commemorazioni. Non un

19 Ladany 1953 (Ladany Lazlo, China News Analysis (a cura di) ora nella raccolta (4cd) China News Analysis, 1953-1998, Socio-cultural Research Centre, Fujen University & Taipei Ricci Insti-tute).

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solo documento da lui analizzato era frutto di spionaggio: il suo fu un lavoro di intelligence in chiaro, come usa dire, ma di spessore non comune e spesso di straordinaria qualità. Questa analisi minuziosa e esasperante di ciò che il potere cinese di quegli anni scriveva, parve a molti un esercizio di enorme inutilità e di incredibile, esagerata, pignoleria.Tuttavia, sebbene Ladany non abbia mai parlato di sé né abbia in qualche modo spiegato quali principi di metodo ispiravano la sua ana-lisi dei testi cinesi, chi ha avuto modo di consultare la raccolta dei bollettini di China News Analysis si rende conto che nel lavoro quoti-diano Ladany fosse mosso dalla convinzione profonda che un potere come quello comunista, per quanto potesse sembrargli dittatoriale, portava in sé la necassità storica di educare l’uomo nuovo e di costru-zione di una nuova società. Dunque non poteva rinunciare a scrivere, a parlare di sé, a spiegare ciò che stava facendo e ad annunciare in che direzione si sarebbe mosso.In breve Ladany si accorse – come storico d’esperienza – che a volte la storia la si può costruire indagando sui silenzi, i non detti. Approfon-dendo le contraddizioni che sembrano emergere tra una dichiarazio-ne e un’altra. O prestando attenzione a ciò che – si scrive – ‘deve es-sere migliorato, corretto’. Come a un giurista il ripetersi di un divieto dimostra più che la determinazione di chi lo emette il suo non essere stato rispettato, così Ladany cucendo insieme i richiami del partito, le contraddizioni che potevano comparire tra di essi, gli accenti posti ora su una cosa ora su un’altra, lentamente comprese dinamiche assai più complesse ed entrò nelle stanze più riservate del dibattito politico cinese evitando le sterili secche delle immagini letterarie che – in lingua inglese e in francese – il potere cinese di quegli anni andava diffondendo intorno a sé.

Ladany fu così tra i primi a scoprire e denunciare l’avvio di massicce campagne di epurazione all’inizio degli anni Cinquanta; fu il primo a cogliere il delinearsi del progetto politico detto Grande balzo in avan-ti; fu il primo a comprendere quale immensa tragedia umana avesse provocato, certo combinandosi con inevitabili e fatali catastrofe na-turali. Fortemente anticomunista, ma per nulla propenso alle grandi discussioni ideologiche, Ladany semplicemente seguendo la stampa cinese giorno per giorno, evitando di limitare la sua indagine alle ri-viste di lingua inglese e francese che il governo di Pechino diffondeva nel mondo, colse le dimensioni e la vastità della tragedia della Rivo-luzione culturale che fu tra i primi a presentare come movimento di

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pura epurazione politica della vecchia guardia non più fedele a Mao o in qualche modo ostile alla sua politica.

Il giornalista de Le Figaro – Pierre Ryckmans – nell’articolo scritto in occasione della sua morte ricordò come nell’Hong Kong del tempo non ci fosse giornalista che non fosse abbonato e lettore attento del China News Analysis e come, contestualmente, nessuno ne parlasse. Per prudenza, per timore, per sfuggire a una sorta di bando che la sinistra del mondo aveva innalzato nei suoi confronti e che ebbe in Jean-Paul Sartre e sua moglie Simone de Beauvoir i principali protagonisti. Ladany trascorse la sua intera vita dedicandola alla Cina, in solitudi-ne forzata. Critico e osservatore attento di una rivoluzione che tutto il mondo in quegli anni celebrava e di cui lui non parlò mai, né molto né poco, in termini astratti, ma sempre utilizzando decine e decine di cita-zioni, incrociate e verificate. Lettura delle fonti cinesi, confrontate un numero infinito di volte, fino allo scoprire che spesso e volentieri in Cina quella realtà che viene negata nelle relazioni ufficiali e nei documenti di partito emerge invece chiarissima nei necrologi, o nelle commemo-razioni di qualche anno successive, quando l’attenzione si stempera e il potere pare meno attento al sorgere di contraddizioni o incongruenze tra quanto venne affermato e quanto fu invece detto pochi anni dopo. O, come ebbe modo di scrivere, semplicemente perché davanti alla morte, in Cina, muta l’atteggiamento della società e possono essere ricordate polemiche, eventi, contrasti: per una forma di rispetto antico, per coloro che sono ancora vivi, per mille altre ragioni che afferiscono direttamente al culto dei morti in Cina e all’impegno dei vivi di celebrarli.Nella sua capacità di non arrendersi mai, nell’ostinazione con cui con-tinuò a leggere e a capire quello che vedeva scritto, Ladany per primo comprese molte difficili realtà del potere in Cina e per questo venne visto come provocatore, reazionario, nemico della Cina e della sua rivoluzione. I grandi intellettuali che di Cina parlavano e scrivevano negli anni Ses-santa si rifiutavano di incontrarlo motivando la loro scelta con definizio-ni, in quegli anni, tombali, vere e proprie sentenze di condanna a morte intellettuale: anticomunista, reazionario, clericale. I grandi processi dell’era di Deng Xiaoping e la critica alla Rivoluzio-ne culturale che da allora venne portata avanti e prosegue tuttora in Cina in sede storica furono la parziale ricompensa per una vita di solitudine e di isolamento. Laszlo Ladany merita di essere ricordato come uno dei più umili e più grandi degli interpreti della Cina della seconda metà del XX secolo. Della sua esistenza e del suo lavoro tutti coloro che parlavano inglese erano perfettamente a conoscenza: non

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‘era’ impossibile sapere, ‘venne deciso’ di non sapere. La differenza non pare marginale.

Laszlo Ladany non fu però l’unico. Se ne è trattato in questa sede per-ché Ladany fu di fatto il continuatore di una tradizione missionaria di testimonianza e osservazione della Cina. Il suo essere gesuita ne fa-cilitarono la condanna e l’isolamento, ma non fu di per sé sufficiente.Non era lo sguardo cattolico a infastidire gli esperti del tempo, ma l’approccio non ideologico, il disinteresse per il dibattito politico, il ‘cinismo’ con cui talora si andava a sindacare ‘sugli inevitabili costi’ – stiamo sempre usando la terminologia del tempo – che fatalmente la Cina doveva pagare sulla strada del riscatto nazionale.Pierre Ryckmans20, giornalista belga, attentissimo conoscitore della real tà cinese, interprete e traduttore di testi importanti di Confucio e di Shitao, conobbe analoga sorte. Ovvero quando le sue corrispon-denze su Le Figaro cominciarono a sembrare troppo anticomuniste dovette accettare l’umiliante consiglio del suo editore di scrivere sotto falso nome, dando vita alla leggenda di quel Simon Leys - reazionario ma colto, ostile alla Cina comunista ma infinitamente informato e innamorato della cultura cinese – che dopo un poco nessuno seppe più chi fosse veramente.Visse ai margini della comunità occidentale degli esperti di Cina del tempo: ignorato, anche con disprezzo, dagli esegeti della rivoluzione cinese che trionfavano sui giornali e la stampa del tempo, che mono-polizzavano le case editrici. Tuttavia non abbandonò, per così dire, il campo. Restò in Cina, ostinata testimonianza giornalistica che non fosse per niente impossibile vedere e capire e che coloro che a questo si appellavano mentivano sapendo di mentire. Fu uno sforzo persona-le e intellettuale semplicemente eroico: per quasi vent’anni intorno a lui si creò un’aura di insulti non pronunciati e di condanne invece scritte. I grandi intellettuali francesi e italiani che parlavano in quel tempo di Cina non lo citavano nemmeno: era ‘il reazionario’, ‘contro-rivoluzionario’, ‘spia della CIA’.Pierre Ryckmans alias Simon Leys dovette attendere il 1983, quan-do venne invitato da Bernard Pivot alla televisione francese, a una dibattito sulla Cina insieme a Maria Antonietta Macciocchi. Fu uno scontro impietoso: nel nuovo contesto internazionale, segnato dall’or-mai avvenuta vittoria di Deng sugli epigoni del maoismo della Rivo-luzione culturale, Maria Antonietta Macciocchi – passata con felice

20 Ryckmans 1978 (Ryckmans Pierre (alias Simon Leys), Ombres chinoises, Parigi, R. Laffont, 1978).

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leggerezza di vittoria in vittoria letteraria dopo la pubblicazione del suo libro sulla Cina – iniziò a tessere il noto elogio, certo non privo di osservazioni che sembravano plausibili e dunque acute, sulla nascita dell’uomo nuovo che si stava in qualche modo cercando di realizzare in Cina grazie a Mao e alle folle mobilitate nella Rivoluzione cultura-le. Pierre Ryckmans rispose elencando i dati della cosiddetta Rivolu-zione culturale, il numero dei morti e degli scomparsi, le epurazioni, il lancio dei professori universitari dalle finestre, la distruzione delle biblioteche, le battaglie tra formazioni di Guardie rosse combattute con l’uso di cannoni e carri armati. Alla fine di quel dibattito – come osservò la stampa del tempo – il prestigio della Macciocchi ne uscì completamente distrutto; la sua ignoranza di Cina venne esposta in modo così impietoso e lucido che il suo nome, semplicemente, da quel momento scomparve e nessuno pensò più nemmeno per sbaglio di in-cluderlo tra quelli di coloro che potevano vantare una seppur minima conoscenza del paese. Tuttavia Pierre Ryckmans era rimasto isolato e completamente tagliato fuori da tutto quello che coinvolgeva o riguar-dava la Cina per quasi venti anni.

Da ultimo merita di ricordare la splendida rivista pubblicata a Hong Kong Far East Economic Review (1946-2009) che per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, schiacciata tra l’atteggiamento anticinese de-gli Stati Uniti e l’ideologismo della sinistra, cercò con raro rigore una lettura di quanto stava avvenendo in Cina utilizzando anch’essa – come Ladany – i documenti cinesi, ma specializzandosi nella lettura dei dati economici e nella loro sovrapposizione con le informazioni che giungevano dagli ambienti economici legati a Wall Street e alla borsa di Hong Kong. Ovviamente anche i giornalisti del FEER, come Ladany, Ryckmans e come quasi tutti i missionari dei decenni prece-denti, leggevano perfettamente il cinese.La descrizione che FEER tracciò della Cina degli anni Cinquanta e Sessanta fu probabilmente una delle più alte forme di giornalismo mai sperimentato. Attento alla Cina ma non anticinese, concreta-mente interessato alle svolte economiche più che alla campagne ideo-logiche, il gruppo di collaboratori che si riunì intorno al FEER fu una voce di equilibrio, laica ed economica, tecnica.La misura del suo successo è forse riassumibile negli articoli che com-parvero tra il 1958 e il 196021 quando incrociando i dati sulla crescita

21 Far East Economic Review, Hong Kong 1946 - 2009. L’archivio del FEER è rimasto on-line per gli abbonati fino alla chiusura della rivista (2009). Assorbita dal Wall Street Journal che ne ha incame-

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della popolazione, sul moltiplicarsi dei forni di campagna in cui pro-durre ghisa o acciaio, la percentuale di terre abbandonate e non più a coltura, e infine i dati dei raccolti degli anni precedenti confrontati con quelli futuri, FEER fu in grado di anticipare che se i dati erano quelli e se non c’e ne erano altri a loro ignoti, allora era gioco forza concludere che il Grande balzo in avanti si sarebbe trasformato in immensa tragedia per il popolo cinese.

Le stime del FEER si reggevano sull’assunto che solo da poco e con grande fatica la Cina aveva raggiunto una minimale autosufficienza alimentare. L’abbandono della coltivazione di terre per una superfici pari al 10% di quella complessivamente messa a coltura negli anni precedenti poteva non coincidere con il crollo della produzione agrico-la alla sola condizione di:a) un forte miglioramento tecnologico, b) una massiccia produzione o importazione di concimi in grado di migliorare la resa per ettaro, c) un incremento della produzione di beni da vendere all’estero in grado di fornire la liquidità necessaria per l’importazione di derrate alimentari.Poiché nessuna di queste condizioni era in essere, scrissero in quell’an-no sul FEER, era probabile che in breve si sarebbe verificata una diminuzione della produzione agricola del 7 - 8% . Poiché la produ-zione degli anni precedenti era stata appena sufficiente per coprire il fabbisogno nazionale era necessario concludere che al paese sarebbe mancato una parte consistente di quanto necessario. Poiché non esi-stevano riserve alimentari disponibili e la dose giornaliera di ce reali era già al limite della sopravvivenza, la popolazione cinese avrebbe dovuto in breve fronteggiare una carestia di imponenti proporzioni con il rischio di perdere per fame una equivalente percentuale di po-polazione, dunque tra i quaranta e i cinquanta milioni di individui.Fu quello che avvenne.

Basti quanto detto su questa triste pagina degli studi di Cina nel mondo e in particolare in Europa. Oggi nessuno si attenta più a scri-vere che non fosse possibile sapere. Restano tuttavia imbarazzati silenzi sul passato che si sono sovrapposti a evidenti reticenze del presente. Come se preso atto che la Cina è davvero in grado di fare ‘sistema’ e di coordinare e proporre un’univoca interpretazione della

rato anche l’archivio la consultazione era, fino a data recente, ancora disponibile.

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propria storia pensata e scritta per gli stranieri, l’unica sia fare finta di nulla, come se non sia importante, o riguardi solo i cinesi o, in defi-nitiva, non interessi né molto né poco l’Occidente. Il silenzio è sceso sulla polemica che nel mondo ha accolto l’istitu-zione degli Istituti Confucio, benemerita iniziativa cinese - è stato sottolineato da tutte le più grandi università americane e inglesi - ma a condizione che rimanga fuori dal sistema didattico delle università occidentali, non che ne entri a far parte in qualche modo partecipando alla vita dell’ateneo. Il silenzio che è sceso sullo stretto scambio esistente tra emigrazione cinese di alto profilo e le principali istituzioni internazionali, come se avere nel board di imprese o banche di interesse mondiale cittadini cinesi sia tutto sommato marginale, purché il loro curriculum sia pas-sato da determinate università inglesi o USA. Il silenzio della Chiesa che non intende turbare il lavoro di migliaia di missionari in Cina, ufficialmente accreditati presso le autorità cinesi come cooperatori internazionali in un numero altissimo di ONG. Il silenzio delle università che temono che l’andare a risollevare vecchie questioni di così dolorosa consistenza possa interrompere scambi, col-laborazioni, con le università cinesi. I silenzi di un mondo economico timoroso che il riaprirsi di un di-battito storico sulla Cina e sulla sua rivoluzione possa rendere più difficili i rapporti con quel paese. Infine il silenzio degli economisti, spesso orgogliosi della loro sostanziale ignoranza della storia del pa-ese e convinti che la pagina aperta dalle business school non abbia nulla da apprendere, ma solo molto da insegnare alla Cina e alla sua organizzazione interna.Chi seguirà le analisi che in questa indagine porteremo avanti si renderà conto che a tanto silenzio internazionale, per fortuna non omogeneo e con alcune splendide eccezioni concentrate in alcune uni-versità, si oppone una fase di lucidità e di coraggio storico cinese, a tutti i livelli, da quello ufficiale e governativo a quello universitario e di ricerca. Oggi un numero impressionante di storici cinesi pubblica quotidia-namente, e se ne citeranno alcune decine, analisi molto puntuali sull’esperienza storica della rivoluzione cinese e sui suoi inevitabili errori.La situazione attuale pare così essersi completamente ribaltata: quel-lo che l’Occidente non scrive o ha paura di affrontare per non urtare la suscettibilità cinese viene giorno per giorno discusso nelle riviste del partito in Cina, nei documenti del governo, in pubblicazioni ufficiali o

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in libri di larghissima diffusione. Quella libertà di critica e di analisi che l’Occidente fatica a esprimere sta vivendo in Cina, negli anni di Wen Jiabao, una fase quasi eroica. Comunque molto determinata.Le fonti per fare storia di Cina esistevano ed esistono tuttora, anche non in cinese. Ognuno ha ampia facoltà di decidere di non servirsene o di ignorarle. Ma non di negarne l’esistenza fingendo che tutto sia confuso e nasco-sto in una terra lontana e ‘misteriosa’.