Il movimento Ramjanmabhumi, ovvero quando Ram si riscoprì un irato nazionalista indù”
Transcript of Il movimento Ramjanmabhumi, ovvero quando Ram si riscoprì un irato nazionalista indù”
Il movimento Ramjanmabhumi, ovvero quando Ram si riscoprì
un irato nazionalista indù
Questo studio si propone di analizzare il modo in cui
un’organizzazione di stampo religioso, il Vishwa Hindu Parishad
(VHP, Società Indù Universale) riprese il mito di Ram, figura
epico-religiosa dalla lunga tradizione, avatara di Vishnu, ,
rivisitandolo affinché potesse sostenere la mobilitazione di massa
per il movimento Ramjanmabhumi (terra di nascita di Ram). Lo scopo
di quest’ultimo, infatti, era riappropriarsi del luogo di nascita
di Ram, diventato per la destra indù una sorta di eroe nazionale.
Secondo la storiografia inglese e quella nazionalista indù, il
sito, collocato ad Ayodhya, città dell’Uttar Pradesh, era stato
occupato dalla Babri Masjid, una moschea che Babur, imperatore
Moghul avrebbe costruito nel XVI secolo dopo aver distrutto un
magnifico tempio, memoria del sacro evento.
Con lo sviluppo del movimento nel XX secolo, si vennero a
creare in India due fazioni atte a definire il valore del sito: da
una parte i sostenitori del VHP, dall’altra gli storici della
Jawaharlal Nehru University. La destra indù voleva vedere
riconosciuta l’azione di distruzione perpetrata dai musulmani nel
corso dei secoli e di cui la Babri Masjid, data la sua
collocazione, era un esempio eclatante. Per dare validità a questa
visione, si cercò di presentare la storia indiana incentrandola su
una struttura dicotomica in cui un passato glorioso indù veniva
distrutto dall’arrivo dell’islam, religione iconoclasta e
dispotica. Il VHP riuscì a diffondere una tradizione storica che
descriveva i molteplici tentativi di riconquista del Janmasthan
1
(luogo di nascita) dopo la sua distruzione. Naturalmente esso non
organizzò questa mobilitazione da solo, poteva infatti contare
sulla vera matrice del nazionalismo indù: il Rashtriya Swayamsevak
Sangh (RSS, Comunità di Volontari Nazionali), un’organizzazione
nata nei primi anni del ‘900 che raccoglieva gli aspetti marziali
ed estremi della nuova ideologia plasmata da V. Savarkar: lo
Hindutva.1 Lo RSS fornì la struttura organizzativa e ideologica al
VHP, che si proponeva invece come organizzazione a carattere
prettamente religioso. Quando si vide la capacità che aveva il tema
da esse sollevato di mobilitare le masse, entrò in scena anche il
BJP (Bharatya Janata Party), partito di destra che fino ad allora
non era riuscito a conquistare la ribalta della politica indiana.
Sfruttando un’apposita simbologia e personaggi carismatici
adeguati, il movimento riuscì nel suo intento: la moschea fu
distrutta e la destra indù ottenne voce in politica.
Per cercare di rendere più chiari i processi che determinarono
la nascita del movimento Ramjanmabhumi si analizzerà brevemente la
politica della regione durante il periodo coloniale, quando cioè
sorsero i primi conflitti legati alla Babri Masjid. Successivamente
si analizzeranno le varie fasi che la vicenda attraversò nel corso
del XX secolo con le sue conseguenze sociali e politiche.
1 Con tale termine si indica il concetto di “induità” cheaccumunava tutti gli indù. Infatti uno degli obiettiviprincipali di Savarkar fu quello di definire chi fosse indùe chi no. La sua definizione si basava sul concetto diappartenenza alla patria intesa come terra dei padri, masoprattutto sulla condivisione della cultura “sanscrita” cheuniva gli indù e che li avrebbe resi fedeli e pronti asacrificarsi per l’India.
2
Il periodo coloniale
Durante il XVIII secolo la regione in cui si trova Ayodhya,
l’Avadh, era gestita da Nawab, i quali pur essendo formalmente
subordinati all’imperatore Moghul, erano diventati i principali
detentori del potere politico nell’India del Nord. Il primo nawab,
Saadat Khan (1722-1739), fece di Ayodhya la sua capitale,
rendendola il centro vitale della sua signoria. Il suo successore,
Safdar Jang (1739-1754), decise invece di spostarla da Ayodhya a
Faizabad, che restò la capitale fino al tardo XVIII secolo quando
lo divenne Lacknau. Nella storiografia moderna su Ayodhya gli
autori inglesi del XIX secolo erano soliti affermare che quando la
sede del potere dei Nawab si spostò, la città fu finalmente
liberata dall’oppressione musulmana. Quello che questi autori non
considerarono fu che proprio durante il XVIII secolo, ossia sotto i
Nawab, la maggior parte dei templi di Ayodhya fu costruita o
restaurata. Infatti il successo del governo di questi dipendeva
fortemente dalla grande collaborazione tra indù e musulmani: il
rispetto della religione della maggioranza dei propri sudditi era
considerato un dovere morale e politico.2
In quei secoli il numero dei vaishnava (seguaci di Vishnu) era
inferiore rispetto agli shaiva (seguaci di Shiva) e ai buddhisti;
nel XVIII secolo tuttavia, la setta bhakta3 dei Ramanandi (vaishnava)
si era inserita nel panorama religioso di Ayodhya cercando di
2 Ashis Nandy et al., Creating a Nationality. The Ramjanmabhumi Movement andthe Fear of the Self, Oxford University Press, New Delhi, 1998, p. 3. 3 Con il termine bhakti si indica un ampio e differenziatomovimento religioso sviluppatosi in India dal XIII secoloche si incentra sulla devozione e sul rapporto diretto conil Dio, nella sua accezione saguna (con attributi) e nirguna(senza attributi).
3
costruirsi una posizione a scapito degli shaiva. Safdar Jang aveva
concesso loro il terreno dell’Hanumangarhi su cui costruirono il
loro monastero, diventando i co-protagonisti nella metà del 1850,
dei primi scontri intercomunitari nella regione, riportati in
alcuni rapporti inglesi dell’epoca.4 Gli autori di questi resoconti
non si preoccuparono di mantenere una posizione imparziale: essi
insistevano nel descrivere gli indù come vittime che vivevano in un
clima di incertezza e insicurezza, minacciati dai musulmani
nell’indifferenza del Nawab; perseveravano nell’usare termini
anacronistici in riferimento alla vicenda (ad esempio chiamavano la
Babri Masjid Janmasthan, nome non ufficiale) e non riportavano con
chiarezza il luogo degli scontri (infatti alcune fonti lo
identificano con l’Hanumangarhi altre con la Babri Masjid). Poiché
gli indù erano soliti recarsi per fare offerte nel cortile della
moschea, gli inglesi dedussero che la loro devozione era legata
alla tradizione del precedente tempio di Ram, e ritennero storica
l’affermazione che quel sito fosse il Janmastan.5
Nel 1859 il governo, timoroso che la questione della Babri
Masjid potesse diventare causa di ulteriori conflitti tra indù e
musulmani, decise di intervenire preventivamente erigendo un muro
che separasse fisicamente le zone della moschea usate dalle due
comunità. In realtà, tale intervento fu il frutto non di
un’effettiva possibilità di incidenti, ma del mutato atteggiamento
degli inglesi verso la popolazione indiana dopo la rivolta del4 Sushil Srivastava, “Rama in History, How Avadh’s Secular PolityChanged”, in Asghar Ali Engineer (a cura di), Politics of Confrontation,Ajanta Publications, Delhi, 1992, p. 7.5 Sushil Srivastava, “How the British Saw the Issue”, inSarvepalli Gopal (a cura di), Politics of Confrontation: the babri MasjidRamjanmabhumi Movement, Penguin, Delhi, 1991, p. 42.
4
1857. Infatti il Mutiny, non aveva palesato alcun cambiamento
negativo nella controversia sulla moschea e nessuno scontro tra
comunità si era verificato. Dopo che la rivolta fu sedata gli
inglesi intervennero sulla Babri Masjid, non per motivi di ordine
pubblico, ma per ricompensare coloro che li avevano aiutati. I
bairagi, ad esempio, gli asceti dimoranti presso l’Hanumangarhi,
ricevettero dunque terreni ad Ayodhya e in zone limitrofe, mentre
terre appartenenti ad istituzioni islamiche furono confiscate.6
Fu l’annessione dell’Avadh nel 1856 alla Corona e la rivolta
del 1857 infatti, che modificarono il modo in cui gli inglesi
vedevano e partecipavano alle controversie religiose. Nel periodo
prima dell’annessione al Raj essi avevano sempre mantenuto una
posizione neutrale in ambito religioso, puntando a sottolineare
l’inefficienza politica dei principi indù rispetto ai Moghul. Dopo
l’annessione invece, gli studiosi inglesi avevano adottato un
atteggiamento di biasimo nei confronti dei musulmani e, sulla
vicenda della Babri Masjid, cercarono di trovare fondamenti storici
alle tradizioni locali; dove non li trovarono semplicemente
mitizzarono la storia, come ad esempio ne History of India as Told by its Own
Historians del 1866 di H.M. Elliot.7 I fautori di tali storiografie
perciò vollero proiettare l’idea che l’impero Moghul fosse
oppressivo e intollerante verso le religioni non islamiche e il
fatto che la moschea di Babur fosse stata costruita sulle rovine di
un importante tempio indù confermava le loro supposizioni.
Periodo post coloniale
Dopo la Partition la situazione intercomunitaria nella6 Idem, p. 45. 7 Idem, p. 50.
5
provincia di Faizabad iniziò a deteriorarsi, dando la possibilità
alla Hindu Mahasabha, partito di destra, di provare a sfruttare
politicamente la controversia sul Janmasthan. Nel 1949-50, momento
cruciale per la decisione della strategia politica da seguire, si
optò, per ottenere sostegno politico, di usare la strategia della
mobilitazione religiosa.8 Il tema della Ramjanmabhumi si presentava
come un simbolo facilmente sfruttabile a fini politici perché, se
manipolato nel modo corretto, poteva suscitare una massiccia
mobilitazione della popolazione indù. Questa era infatti a
conoscenza della presunta tradizione storica che supponeva che nel
1528 Babur avesse ordinato di costruire una moschea distruggendo un
tempio situato nel luogo di nascita di Ram. In realtà poiché in
quel periodo non c’erano prove archeologiche che confermassero tale
supposizione, il credere nella sacralità del luogo e del fatto che
fosse esistito lì un tempio era prevalentemente un fatto di fede e,
come si è visto, a parte le diatribe della metà del XIX secolo, ciò
non aveva comportato gravi problemi fino al 1949. Il 22/23 dicembre
di quell’anno infatti, alcune persone penetrarono nella moschea
installandovi le effigi di Ram e divinità a lui legate. Gli indù
accolsero l’evento come un miracolo, i musulmani come un atto
sacrilego. In realtà tutto era stato ampiamente pianificato: giorni
di comizi avevano spinto la gente a radunarsi davanti alla moschea
non solo per ricevere il darshan (visione) delle divinità, ma anche
per reclamare la restituzione del luogo di nascita di Ram. Si
richiedeva la riconversione della Babri Masjid in un tempio a Shri
Ram. Il magistrato distrettuale K.K. Nayar aveva mandato un
messaggio radio al ministro generale dell’Uttar Pradesh, Govind8 Christophe Jaffrelot, The Hindu Nationalist Movement and Indian Politics,1925 to the 1990s, Penguin Books, New Delhi, 1996, p. 91.
6
Ballabh Pant, in cui riportava la notizia che un gruppo di indù era
entrato nella moschea durante la notte e aveva installato delle
statue. A seguito di ciò, una folla di 5-6mila persone aveva
raggiunto il sito cantando slogan ed intonando bhajan (canti
devozionali) e quando cercarono di entrare nella moschea furono
bloccati dalla polizia.9 Il 26 dicembre il ministro Pant, ordinò a
K.K. Nayar di rimuovere gli idoli dalla moschea per riportare la
situazione allo status quo ante,10 ma quello rifiutò con la scusa che
ciò avrebbe creato scontri tra le due comunità. Probabilmente fu
per il fatto di essere sostenitore dello RSS che Nayar disobbedì
agli ordini.
Nonostante la presenza di norme, sia del Codice Penale che del
Codice della Procedura Penale, che avrebbero risolto la situazione
riportandola allo status precedente, la dissacrazione della Babri
Masjid non fu mai punita e venne a costituire una macchia
indelebile nel sistema politico e legale indiano. Anzi, il 19
gennaio fu accettata la richiesta di legalizzare il culto alle
statue presenti nella struttura, confermata dal giudice civile nel
1951 in base al “fatto indiscutibile” che, nel giorno in cui era
stata presentata la richiesta, gli idoli esistevano nel sito ed
erano oggetto di venerazione e preghiera.11 La Hindu Mahasabha cercò
di sfruttare la vicenda per proprio tornaconto politico: il
segretario generale della organizzazione, V.G. Deshpande, aveva
visitato Ayodhya due volte per cercare raccogliere voti dai
sostenitori della vicenda. Tuttavia i suoi tentativi di fomentare
9 A. G. Noorani, “Legal Aspects to the Issue”, in SarvepalliGopal (a cura di), Anatomy of a Confrontation, op. cit., p. 70.10 Christophe Jaffrelot, op. cit, p. 93.11 Idem, p. 95.
7
l’evento furono fermati dalla determinazione di Nehru e Patel a
mantenere ferma la laicità dello stato indiano, anche per mezzo di
arresti preventivi.
Ayodhya 1986: la riapertura dei cancelli
Dopo la “miracolosa” apparizione dell’idolo di Ram all’interno
della Babri Masjid, la popolazione di Ayodhya iniziò a festeggiare
il Ram Prakat Utsav (manifestazione del giorno di Ram) un
anniversario che commemorava il giorno in cui il dio era apparso
nella moschea. L’anniversario del 1984 cadde il 4 gennaio e fu
accolto con un particolare entusiasmo perché qualcuno era riuscito
a porre la bandiera di Hanuman (Hanuman pataka) sulla cupola
centrale della moschea. Questo evento attrasse una folla massiccia
che poté beneficiare per la prima volta anche di un havan
(sacrificio del fuoco) eseguito da numerosi mahant nel sanctum
sanctorum.12
Fu in quest’occasione che la leadership dello RSS realizzò
pienamente il potenziale politico del tema. Per tale motivo il 7-8
aprile 1984 fu tenuto a New Delhi un meeting del Dharma Sansad del
VHP13 in cui fu deciso di dar vita ad un movimento per la
liberazione del tempio di Ayodhya, a cui sarebbe seguita la
liberazione di quello di Shri Krishna a Mathura e di Vishwa Nath a
Varanasi. Il 25 settembre fu condotta dal Ram Janmabhumi Mukti
Yajna una processione che partiva da Sitarmahi, ritenuto il luogo
di nascita di Sita, moglie di Ram, in Bihar, con lo scopo di
12 P. V. Narasimha Rao, Ayodhya 6 December 1992, Penguin Viking,Delhi, 2006, p. 23.13 Si ricorda che in quegli stessi mesi vide la nascita anche ilBajrang Dal, la componente violenta e armata della destra indù,che in breve tempo raccolse 100.000 membri in Uttar Pradesh.
8
liberare il tempio di Ayodhya. Si trattava di una processione
religiosa con risvolti politici14 ma priva di qualsiasi carattere
violento. Essa seguiva un camion su cui le statue di Ram e Sita
erano state poste sotto una bandiera con lo slogan Bharat Mata ki Jai
(vittoria alla madre India). La processione giunse a destinazione
il 7 ottobre, raccogliendo un gran seguito tra membri di diverse
sette, provenienti da varie parti dell’India che, per la prima
volta, si trovarono fianco a fianco. Tuttavia nonostante la
preparazione attenta dell’evento, la partecipazione della
popolazione fu scarsa: solo 7000 persone circa si presentarono,
numero esiguo se confrontato con altre manifestazioni religiose
tenutesi ad Ayodhya, capaci di richiamare centinaia di migliaia di
devoti. I primi a parlare furono i rappresentanti del VHP che
affermarono la necessità di liberare il dio Ram dalla sua prigionia
nella moschea e ribadirono l’ingiustizia compiuta dallo Stato
indiano che trattava i suoi cittadini indù come cittadini di
seconda classe, non aventi neanche il diritto di accedere a uno dei
loro siti più sacri. Il discorso più sentito fu quello di
Paramahams Ramchandradas dell’ordine dei Ramanandi, il quale chiese
ripetutamente il motivo dell’assenza all’incontro di alcuni
esponenti religiosi della città.15
14 Infatti uno dei messaggi più ripetuti fu quello di votare soloquei partiti politici che avessero promesso di restituire agliindù i loro siti sacri. 15 Importanti, infatti, furono anche i “grandi assenti”, come li definì PeterVan der Veer: i Ramanandi di Ayodhya, Ram Dayal Saran e Ramcharitradas,importanti perché la loro assenza era in teoria ingiustificata dato il ruoloche fino ad allora avevano avuto nella vicenda della liberazione delJanmasthan. Lo studioso ha ipotizzato le possibili motivazioni che li portaronoa non presentarsi. Secondo Van der Veer, i Ramanandi non avevano alcuninteresse effettivo nella liberazione del sito: infatti il loro tempio,l’Hanumangarhi, era il più importante ad Ayodhya, perciò la costruzione di unaltro tempio, con tutta la pubblicità che se ne stava facendo, avrebbe causato
9
Tutta questa mobilitazione prima delle elezione di gennaio, fu
rovinata dall’assassinio di Indira Gandhi che vanificò la
strategia. Infatti, dopo la morte del primo ministro, la
popolazione indiana, veicolata dalla tragicità dell’evento e legata
a quella che si considerava la dinastia politica indiana per
antonomasia, la Nehru-Gandhi, votò in massa per il figlio
primogenito Rajiv Gandhi, divenuto l’esponente del Congress.
Con l’entrata in politica di Rajiv Gandhi, il Congress sembrò
riguadagnare quella posizione dominante tra i partiti politici
indiani che aveva permesso a Nehru di attuare politiche laiche
negli anni ‘50. La vittoria che ottenne nelle elezioni del 1984 e
1985 diede una battuta d’arresto al VHP che non riprese la campagna
Ramjanmabhumi se non alla fine del 1985, quando si ripresentò la
possibilità di sfruttare i sentimenti indù sorti contro la
mobilitazione dei musulmani tradizionalisti per il caso Shah Bano.16
Le richieste insistenti dei nazionalisti trovarono sostegno in un
avvocato, Umesh Chandra Pandey che presentò il 25 gennaio 1986 al
munsif (magistrato locale) la richiesta di aprire i cancelli della
Babri Masjid per permettere la partecipazione collettiva alla puja e
al darshan. Il munsif rinviò la richiesta all’alta corte che si era
sicuramente una perdita di prestigio per loro e, di conseguenza, anche laperdita degli introiti frutto dei pellegrinaggi. Ram Dayal Saran era il leaderdei canti devozionali che si tenevano costantemente davanti alla moschea.Tutte le donazioni raccolte in tale circostanza erano affluiti nelle suetasche; la costruzione del tempio avrebbe reso superfluo l’akhand kirtan e diconseguenza anche le entrate sarebbero venute a mancare (P. van der Veer, “GodMust be Liberated! A Hindu Liberation Movement in Ayodhya”, Modern Asian Studies,21:1, 1989, p. 291.)16 Shah Bano era una anziana donna musulmana che, ripudiata dal marito, avevafatto appello al corte suprema per ottenere gli alimenti. Quando nel 1985 lacorte le diede ragione, la maggioranza musulmana tradizionalista si mobilitòper difendere la propria separata legislazione. Dopo varie manifestazioni, ilprimo ministro, per paura di perdere il sostegno dei musulmani tradizionalipresentò nel 1986 la Muslim Women Bill.
10
occupata del caso nel 1961. Il 1° febbraio il giudice distrettuale
di Faizabad, K.M. Pandey, dopo aver riesaminato le testimonianze
del magistrato distrettuale e del commissario di polizia, decise di
aprire i cancelli. 17 Quaranta minuti dopo la sentenza, i lucchetti
che chiudevano la moschea furono rimossi. L’equipe televisiva di
Doordashan, la rete nazionale, era già sul posto, così come era
presente una folla di sostenitori del VHP, a conferma dell’ipotesi
generale che le autorità avessero pianificato l’evento. Il fatto
stesso che l’appello del 31 gennaio fosse stato accolto evidenziava
la reale natura politica della decisione del giudice. C’erano state
infatti delle negoziazioni durante il dicembre 1985 tra il VHP, il
magistrato distrettuale e il primo ministro dell’Uttar Pradesh, Vir
Bahadur Singh, per la sollecitazione dell’azione dato che, in
quello stesso periodo, era stata approvata la Muslim Women’s Bill
per placare gli animi dei musulmani relativamente al caso Shah
Bano. Dunque l’apertura dei cancelli poteva essere interpretata
come un modo per accontentare anche agli indù.18
Dopo tale episodio, le autorità affidarono nuovamente il caso
al tribunale. Ma una volta innescato, il meccanismo fu difficile da
fermare. Infatti gli indù nazionalisti, ottenuto il diritto di
pregare nella moschea, presentarono una nuova richiesta: costruire
un tempio al suo posto. Lo RSS, avendo visto che il governo
centrale aveva ceduto alle sue richieste, decise di preparare nuove
mobilitazioni con l’aiuto del VHP. Il 3 febbraio 1986 si tenne un
Sant Sammelan, un incontro tra sadhu, in cui si creò un Ramjanmabhumi
Trust per trasferire i diritti di proprietà del sito su di questo,
17 A. G. Noorani, op. cit., p. 77. 18 Christophe Jaffrelot, op. cit, p. 371.
11
affinché si potesse costruire il più grande tempio del mondo.
Il 5 febbraio fu fondato invece il Babri Masjid Action Committee
(BMAC) con l’intenzione di realizzare delle manifestazioni in Uttar
Pradesh e a Delhi agosto, che potessero riportare lo status quo ante ad
Ayodhya. Ma la crescente tensione intercomunitaria, degenerata in
scontri nelle città di Aligarh, Muzaffarnagar e Faizabad, spinse il
ministro degli interni Buta Singh a richiedere la sospensione delle
marce che i musulmani avevano organizzato.19
Ram Shila puja: l’esacerbazione della strategia di mobilitazione religiosa
L’ottenimento dell’apertura dei cancelli della Babri Masjid da una
parte aveva rappresentato un trionfo per il VHP, dall’altra però lo
aveva privato della causa più importante. Dopo l’apertura c’erano
stati vari meeting, che però non avevano riscosso particolare
successo; anche il Ram Prakat Utsav non richiamava più la stessa
folla. Per evitare di perdere il sostegno guadagnato, nel febbraio
1989 durante il Dharma Sansad di Allahabad, il VHP propose
l’induizzazione della politica, ossia appoggiare quei politici
favorevoli alle richieste indù, per portare a compimento la
costruzione del tempio al posto della moschea, che sarebbe stata o
spostata o tramutata in tempio, mantenendo però le cupole.20 I fondi
per la costruzione del tempio sarebbero provenuti dalla popolazione
mediante donazioni. L’evento che più riuscì a coinvolgere gli indù
fu la mobilitazione atta alla raccolta di speciali mattoni recanti
il nome di Ram (Ram shila), mattoni che venivano santificati durante
la puja e che sarebbero stati usati per la costruzione del tempio.
Diverse processioni percorsero l’India allo scopo di raccogliere
19 Idem, p. 373.20 P. V. Narasimha Rao, op. cit., p. 38.
12
più mattoni consacrati possibili, affinché potessero poi convergere
tutte ad Ayodhya per la costruzione del tempio prevista per il 9
novembre 1989, prima cioè che si svolgessero le elezioni, da indire
prima della fine dell’anno. Nella campagna elettorale del 1989 i
temi religiosi e di giustizia sociale furono al centro dei discorsi
di tutti i candidati. Lo stesso Rajiv Gandhi, che rappresentava il
Congress, partito da sempre laico e propenso alla salvaguardia
delle minoranze, dovette giocare la carta religiosa riprendendo le
stesse tematiche del BJP, ossia focalizzando una parte della sua
attenzione su Ayodhya e dichiarando di voler governare in nome del
Ram Rajya.21 La campagna elettorale vide fondamentalmente tre
sfidanti, Rajiv Gandhi, l’ex Ministro della Difesa V. P. Singh e
Lal Krishna Advani ormai a capo del BJP. Fu grazie ad Advani che il
partito riprese le sue caratteristiche più militanti. In questo
modo il BJP poteva sfruttare il sostegno locale fornito dalla
struttura dello RSS e quest’ultimo poteva controllare e giudicare
il lavoro del BJP. Il manifesto politico elettorale del BJP non
conteneva alcun accenno ad Ayodhya, in quanto la “strategia
Ayodhya” era da strumentalizzare a livello locale per riscuotere il
giusto successo. Advani aveva dunque sempre più consolidato il
legame tra BJP e RSS cercando di sfruttare l’ampliamento del
network degli swayamsevak per aumentare i suoi sostenitori,
proponendosi come loro rappresentante nella vita politica. L’unità
tra il VHP, lo RSS e il BJP si realizzò effettivamente in quegli
anni. 22
21 Con questo termine si intende l’ideale governo di Ram,esempio di giustizia e benessere, ideale politico atavicodel panorama indiano.22 Christophe Jaffrelot, op. cit, p. 383.
13
Come si è accennato, il BJP stava già giocando la sua carta
indù con il progetto dello shilanyas. Il 27 settembre a Lakhnau, un
incontro organizzato dal ministro dell’Uttar Pradesh si concluse
con l’autorizzazione dello shilanyas in cambio della promessa che si
sarebbero rispettati i diritti di proprietà come definiti dal
verdetto del tribunale. Nonostante la promessa fatta, i piani del
VHP e del BJP erano altri: il 2 novembre alcuni pandit di Varanasi e
volontari del Bajrang Dal segnarono il sito per lo shilanyas proprio
nell’area contesa della moschea. Lo scopo era quello di opporsi
all’autorità governativa sfidandone il laicismo; essi avevano dalla
loro le schiere di sadhu che sarebbero intervenute all’evento. Il 9
novembre 1989 furono scavate le fondamenta per il tempio. Lo
shilanyas era stato concepito per essere un vero e proprio rituale,
pensato nei minimi particolari in cui il mattone era il principale
simbolo: ne erano stati raccolti in tutta l’India 167.063.23
Il successo dell’evento dipese in parte dalla contemporaneità di
questo con il pellegrinaggio annuale parikrama (pellegrinaggio che
tocca i templi di Ayodhya e Faizabad) per cui alla folla già
raccolta si unirono anche 25.000 pellegrini. Il VHP cercò di
coinvolgere tutta la popolazione indù, proponendo un modus operandi
per partecipare all’evento anche a distanza: il fedele avrebbe
dovuto offrire fiori in direzione di Ayodhya alle 13:35 di venerdì
10 novembre, nel momento in cui si sarebbe posta la prima pietra. I
nazionalisti indù cercavano di trasmettere un’idea di India unita
sotto la bandiera dell’induismo, facendo di Ayodhya il centro
fisico di questa unità. I rituali dovevano servire anche da stimolo
per una solidarietà tra gli indù, cercando di indurre in tal modo
23 Idem, p. 400.14
le scheduled castes a votare per il BJP.24
Nella campagna elettorale del 1989 la combinazione RSS-VHP-BJP
si rivelò vincente perché riuscì ad incentrare l’attenzione su
Ayodhya, a fomentare gli scontri intercomunitari per consolidare il
voto indù nazionalista e a sfruttare la debolezza del Congress
appropriandosi di temi socio-economici. Tutto questo portò alla
vittoria del BJP nel Madhya Pradesh, grazie anche all’alleanza tra
questo e il partito dell’opposizione formato da V. P. Singh, il
quale aveva radunato le forze avverse a Rajiv Gandhi riuscendo ad
ottenere la vittoria elettorale.
Il Rath Yatra di Advani
Dopo la formazione del governo della National Front Coalition
di V. P. Singh, il VHP rilanciò il movimento Ramjanmabhumi. Questo
accadde perché il nuovo primo ministro aveva deciso di attuare le
raccomandazioni della commissione Mandal.25 Lo RSS aveva preso la
notizia come un piano per acuire le divisioni all’interno della
“nazione indù”; il BJP d’altra parte non poteva condannare il
progetto di V.P. Singh per non alienarsi il sostegno delle caste
svantaggiate che rappresentavano il 52% della popolazione indiana.
Il partito perciò rispose cercando di spingere il primo ministro ad
approvare le quote riservate basandosi su criteri economici e non
castali, dedicandosi contemporaneamente alla nuova campagna
lanciata dal VHP, il Kar seva, ossia la realizzazione del tempio.26
24 Idem, p. 403. 25 La commissione, costituitasi la prima volta nel 1953 aveva loscopo di definire chi doveva far parte delle cosiddette “classisvantaggiate” a cui, secondo la Costituzione, erano riservatiparticolari privilegi, fra cui una percentuale nell’impiegopubblico. (Idem, pp. 194-95). 26 Idem, p. 415.
15
Per mobilitare l’opinione pubblica e sollecitarne il supporto,
Advani annunciò di voler intraprendere un Rath Yatra dal 25 settembre
al 30 ottobre. Tale mossa palesava come il BJP stesse cercando di
lavorare autonomamente, distanziandosi dalla politica di Singh, per
potersi presentare come partito singolo alle prossime elezioni,
manifestando apertamente il suo sostegno al VHP. Con lo yatra di
Advani si passò direttamente alla strumentalizzazione della
mobilitazione religiosa: il presidente del BJP percorse 10.000
kilometri in un veicolo disegnato per somigliare ad un carro epico,
decorato con il simbolo del partito, il loto e la sillaba Om.
Advani lasciò Somnath il 25 settembre, pianificando di percorrere
otto stati prima di raggiungere Ayodhya il 30 ottobre, data in cui
si sarebbe inaugurato il Kar seva, ossia l’inizio della costruzione
del tempio da parte di volontari (karsevak) che avrebbero espresso
la loro devozione attraverso il lavoro. L’organizzazione del Rath
Yatra seguiva le modalità degli altri yatra realizzati dal VHP:
evocare una comparazione con le classiche processioni indù,
cercando di trasmettere un senso di unità e collettività basato su
canoni religiosi.
Advani raggiunse New Delhi acclamato dalla folla. Fu allora che
V.P. Singh si trovò in difficoltà: egli aveva cercato di negoziare
con le “forze indù” per non perdere il sostegno del BJP ma, dato
l’andamento della processione di Advani, si trovò costretto a
gestire una situazione che avrebbe potuto allontanare altri suoi
sostenitori. Il primo ministro cercò di organizzare un meeting di
tutti i partiti politici per pronunciarsi in favore del
mantenimento dello status quo ad Ayodhya, ma fu boicottato dal BJP.
Il 17 ottobre Advani annunciò che avrebbe ritirato il suo appoggio
16
al governo Singh se il primo ministro gli avesse impedito la
costruzione del tempio. Singh cercò di trovare una soluzione di
compromesso ma senza risultato; perciò optò per una condotta più
rigida, decidendo così di far arrestare Advani il 23 ottobre. La
risposta indù a questa risoluzione fu la violenza. In molte parti
dell’India scoppiarono disordini contro i musulmani anche in
relazione all’annuncio del BJP del ritiro dell’appoggio al governo
Singh e al lancio di un Bharat Bandh, una sorta di sciopero
nazionale: nei distretti in cui i musulmani si rifiutarono di
chiudere le proprie attività in supporto di questo, gli indù
reagirono con la violenza.27 Dal 1° settembre al 20 novembre in 26
località gli scontri causarono 100 vittime. Nonostante ciò i
militanti indù andarono avanti nel loro progetto: realizzare il Kar
seva.
Il Kar seva e i nuovi martiri
Nonostante le misure cautelari prese dai vari stati confinanti
con l’Uttar Pradesh e nonostante gli arresti preventivi di oltre
150.000 persone, migliaia di volontari riuscirono a giungere ad
Ayodhya con lo scopo di eseguire il Kar seva il 30 ottobre 1990.
All’alba del 30 ottobre 1990 circa 40.000 karsevak erano arrivati
all’entrata della città. Diversi tentativi di superare i blocchi
furono fermati, ma quando la folla aumentò diventando irrequieta
per l’ingresso di alcuni leader nella moschea, il CRPF (Central
Reserve Police Force), chiese al magistrato distrettuale e lo
ottenne, il permesso di usare la forza, incluso il fuoco.28 Data la
scarsa capacità della polizia locale di controllare la situazione,
27 Ashis Nandy et al., op. cit., pp. 11-17.28 Idem, p. 28.
17
l’operazione passò nelle mani del Border Security Force. A fine
giornata, a causa degli attacchi alla polizia e dell’ingresso di
alcuni volontari nel sito della moschea con successiva deturpazione
delle cupole della moschea, il fuoco della polizia aveva ucciso sei
persone, anche se il VHP riportò che fossero almeno una
cinquantina. Le forze paramilitari giustificarono la loro azione
sia come atto di difesa, sia per evitare la distruzione della
moschea. La morte di questi karsevak ebbe effetti psicologici molto
profondi: l’insicurezza indù si trasformò in completa
disapprovazione delle autorità politiche; l’odio venne incanalato
contro i musulmani che in questo evento non avevano affatto
partecipato, né erano la causa delle morti. Le violenze
antimusulmane furono giustificate come vendetta per i martiri del
Kar seva.29
Il governo di V.P. Singh perse la maggioranza in parlamento e al
suo posto Chandra Shekhar divenne primo ministro con il supporto
del Congress.
Ultimi mesi della Babri Masjid
Il 9 luglio 1992 karsevak e sadhu avviarono la costruzione
del tempio,30 sebbene la sentenza dell’alta corte avesse vietato
l’edificazione di strutture durature sul terreno vicino alla
moschea acquistato dal VHP e dal BJP. Tuttavia Kalyan Singh,
esponente del BJP al potere in Uttar Pradesh, propose come
soluzione un Kar Seva simbolico, consistente nell’esecuzione di
rituali su una parte della terra contesa.
Alla fine di novembre, 195 compagnie di gruppi paramilitari si
29 Christophe Jaffrelot, op. cit., p. 420.30 Ashis Nandy et. al., op. cit., p. 181.
18
erano mossi verso Ayodhya e Faizabad, nonostante le proteste di
Kalyan Singh che riteneva avrebbero peggiorato la situazione
nelle due città. Il governo centrale li considerava invece
necessari per preservare la stabilità minacciata dall’arrivo
dei karsevak. Infatti il 27 novembre più di 10.000 volontari
avevano già raggiunto Ayodhya e il 5 dicembre il loro numero
ammontava a 150.000. Tale massiccia mobilitazione stupì i
nazionalisti indù, spingendo i leader del BJP a riprendere
parte attiva nel movimento. La mattina del 6 dicembre 1992 i
karsevak si erano radunati intorno al recinto della Babri Masjid,
controllati da un piccolo gruppo di uomini dello RSS. La
situazione iniziò però a degenerare con l’arrivo dei leader del
Sangh Parivar. Simultaneamente altri gruppi entrarono dalla
parte posteriore e laterale della moschea incominciando a
lanciare sassi contro la polizia che aveva deciso di non
intervenire. I giornalisti che tentarono di scattare foto
dell’evento furono attaccati, il PAC che stazionava nelle
vicinanze non riuscì ad intervenire mentre il CRPF che
usualmente si trovava dentro l’area contestata, abbandonò la
postazione. Le tre cupole della moschea, nel pomeriggio, una
dopo l’altra furono abbattute.31
I leader politici e religiosi assistettero alla distruzione da
spettatori, pur essendosi impegnati a tenere sotto controllo la
situazione. Questa mancanza di azione ha indotto molti studiosi
e critici a ipotizzare che tutto l’evento fosse stato
progettato precedentemente. Il leader dello RSS Deoras attribuì
la demolizione ad elementi esterni che non facevano parte dei31 Ramesh Thakur, “Ayodhya and the Politics of India’sSecularism”, Asian Survey, vol. XXXIII, n. 7, Luglio 1993, p. 658.
19
karsevak ben disciplinati e da loro preparati. Molti indizi però
dimostrerebbero il contrario: come ha riportato Jaffrelot, la
stessa presenza di gruppi distinti indossanti bandane diverse
sarebbe stato indice di pianificazione; anche la presenza di
strumenti adatti alla demolizione avrebbe fatto pensare al
conseguimento di un piano, dato che martelli e mazze ferrate
non sarebbero stati necessari per un Kar Seva simbolico.32 Dopo la
demolizione della moschea Advani si dimise da leader
dell’opposizione e Kalyan Singh da capo del governo dell’Uttar
Pradesh, assumendosi la responsabilità morale dell’accaduto.
Alcuni leader del Congress avevano richiesto le loro dimissioni
anche prima e, a posteriori, questo li portò a criticare
fortemente la politica tenuta dal primo ministro Rao che aveva
dato fiducia al governo del BJP. Il primo ministro dopo quattro
settimane dall’evento diede il permesso agli indù di pregare
dinanzi alle immagini di Ram lalla poste nel tempietto
provvisorio che era stato costruito.33 Permettendo ciò, egli
rendeva impossibile la ricostruzione della moschea sullo stesso
sito, perché questo avrebbe comportato la distruzione del nuovo
tempio. Tale decisione fu presa dopo la diffusione dei
risultati di sondaggi secondo i quali la maggioranza degli indù
disapprovava la rimozione degli idoli e la sostituzione del
tempio con un’altra moschea. Il governo cercò di adeguarsi non
definendo quando e dove avrebbe ricostruito la struttura.
Naturalmente ciò determinò un notevole calo di prestigio del
Congress agli occhi dell’elettorato musulmano e rafforzò il
32 Christophe Jaffrelot, op. cit, p. 455.33 Manju Parikh, “The Debacle at Ayodhya”, Asian Survey, vol.XXIII, n. 7, Luglio 1993, p. 679.
20
sostegno degli indù al BJP.34
Per i nazionalisti indù che ritenevano la Babri Masjid un
emblema della sottomissione del loro popolo, la sua distruzione
soddisfaceva un duplice obiettivo: dimostrare ai loro seguaci
che aver contributo alla vittoria elettorale del BJP aveva dato
i suoi frutti e cancellare un segno di umiliazione della
storia. A livello politico, tuttavia, la mobilitazione
religiosa portò a due contraddizioni: da una parte, privava il
trinomio RSS-VHP-BJP del suo simbolo più potente, dall’altra
dimostrava quanto peso ormai avessero per la loro politica le
figure religiose.35 La strategia di mobilitazione religiosa
aveva creato uno spostamento di equilibri di potere all’interno
del nazionalismo indù. Il BJP e lo RSS presero consapevolezza
che l’aumento delle violenze inter-comunitarie poteva colpire
quella parte di popolazione più abbiente che li aveva
sostenuti, causandone l’allontanamento. Jaffrelot ipotizza che
l’atteggiamento ambiguo di Rao dipendesse dall’intento di
evitare il confronto diretto con i nazionalisti indù, temendo
che una risposta troppo aggressiva li avrebbe dipinti più come
martiri che colpevoli. Il comportamento del governo oscillò tra
fermezza e spirito di conciliazione.
Mitizzazione e massificazione del culto di Ram
Mentre nel passato i sovrani indù riuscirono a far
coincidere e far accettare alla popolazione una storia di Ram
che, grazie ad uno specifico linguaggio iconografico e alla34 Ramesh Thakur, “Ayodhya and the Politics of India’sSecularism”, Asian Survey, vol. XXIII, n. 7, Luglio 1993, p. 660. 35 Christophe Jaffrelot, op. cit., p. 458.
21
giusta legittimazione culturale, apparisse al contempo epica,
mitica, umana ma soprattutto divina, i sostenitori del VHP lo
dovettero storicizzare per dar credibilità alle loro pretese.
Pur essendo palese che le sue richieste si basavano su miti e
credenze popolari, questi furono presentati come evidenze
“storiche”. Per ottenere ciò si fece grande uso della tecnica
di citazione, considerata più importante della verifica delle
documentazioni stesse: semplicemente aggiungendo un Itihas sakshi
hai (la storia è testimone) essi credevano di poter presentare
le narrazioni come fonte di verità assoluta.36 Storia e mito
erano usati in modo funzionale: quando la storia proposta era
criticata e dimostrata fallace, si cercava legittimità nel
mito, affermando che credere in esso era un fattore di fede su
cui nessun tribunale o governo potesse decidere.
La presenza dei musulmani venne completamente demonizzata:
erano coloro che avevano posto fine al glorioso passato indù,
portando solo distruzione e declino. L’unica possibilità per
ripristinare la situazione era un ritorno alla originale gloria
indù. Infatti, secondo Bhattacharya, dato che in India gli
esperimenti moderni di laicità e razionalismo erano falliti
portando ad una crisi nella società, l’unico modo per
permettere la sopravvivenza della nazione era l’aggressione
politica. Come dimostra lo studioso, la politica della
Ramjanmabhumi non cercava di difendere i miti, le pratiche e i
valori tradizionali indù, ma di appropriarsi di una tradizione
36 Neeladri Bhattacharya, “Myth, History and the Politics ofRamjanmabhumi”, in Sarvepalli Gopal, Anatomy of Confrontation, op.cit., p. 124.
22
leggendola in chiave comunitarista.37 Tutto il passato indiano
veniva riletto in tale chiave: così la nuova storia di Ayodhya
si incentrava sulla sacralità del Janmasthan e di come questo
fosse stato oltraggiato dai musulmani. Grazie all’uso di un
linguaggio semplice e popolare, la storia narrata dal VHP era
stata capace di arrivare alle masse non istruite, a differenza
di quella degli storici laici che scrivevano in inglese e per
un pubblico ristretto. Oltre all’uso delle parole giuste,
determinati messaggi vennero inculcati e ripetuti nelle menti
attraverso diversi mezzi di comunicazione: audiocassette,
poster, figurine, libretti e pamphlet. La cronologia risultante
da tutte queste fonti giustificava la lotta del VHP perché
dimostrava l’incessante battaglia compiuta degli indù per
liberare il Janmasthan sin da secoli a.C.38 Lo scopo di questa
storia era enumerare le molte occasioni in cui gli indù erano
sorti in difesa del Janmasthan, catalogando il loro enorme
sacrificio. La storia dunque diventava un mezzo, stimolato
dall’accuratezza statistica e dalla precisione con cui erano
riportati gli eventi, per spingere i fedeli all’attivismo e al
sacrificio.39
Analizzando il materiale divulgato dal VHP si nota come
cercasse di delineare dei precisi confini tra il “noi indù” e
il “loro musulmani”. Esemplare di questo era il pamphlet Angry
Hindu? Yes, Why Not?, in cui si sottolineava la necessità
dell’aggressione, tema fondamentale della propaganda del VHP.
37 Idem, p. 131. 38 Gyanendra Pandey, “The New Hindu History”, South Asia, vol.XVII, 1994, pp. 100-101. 39 Idem, p. 103.
23
Le invasioni musulmane e l’indipendenza dell’India erano i due
eventi storici cardini della storia indù e dei suoi cambiamenti
politici. Babur era un invasore straniero e con lui tutti i
musulmani indiani che iniziarono ad essere chiamati Babur ki aulad
(progenie dell’invasore). Il governo musulmano aveva ridotto in
schiavitù gli indù, schiavitù che si era mantenuta anche dopo
l’indipendenza, quando, nonostante il laicismo dello stato, non
era ancora stato permesso loro di costruire un tempio in uno
dei loro siti più sacri.40
La battaglia per la Ramjanmabhumi dunque si presentava come il
giusto mezzo per rispondere a secoli di maltrattamenti e
tirannia islamica: poiché i musulmani del passato avevano
oppresso gli indù, quelli del presente ne avrebbero pagato le
conseguenze. La “colpa” di Babur si era trasmessa alla comunità
che rappresentava. Secondo questa linea di pensiero, essendo
stato nel passato distrutto il tempio indù, la moschea lo
sarebbe stata nel presente. Tale proposito era accettato anche
perché, agli occhi del VHP, la Babri Masjid non era un edificio
religioso ma un simbolo della sottomissione al potere islamico:
la sua distruzione era una tappa necessaria per il movimento di
liberazione degli indù. Coloro che aspiravano a questa
“emancipazione” erano così stimolati a riconoscersi nel
movimento Ramjanmabhumi, che iniziò ad utilizzare una nuova
iconografia di Ram. 41
Come Ram divenne simbolo dello “angry hindu”
Anuradha Kapur nel suo articolo Deity to Crusader: The Changing
40 Idem, p. 110. 41 Neeladri Bhattacharya, op. cit., p. 128.
24
Iconography of Ram, dimostra che il Ram creato dal movimento
Ramjanmabhumi si distaccava fortemente dalla iconografia
classica dell’avatara e dal significato che la bhakti aveva
affidato alla sua persona.
Come spiega Kapur, le icone nascono per rappresentare le
caratteristiche essenziali di una divinità: il corpo, la
postura, le espressioni, tutto intercorre a trasmettere il
senso profondo di quella. L’iconografia tradizionale tendeva a
mostrare Ram insieme a Janaki e Lakshmana, posti spalla contro
spalla con lo sguardo fisso all’orizzonte e il volto
sorridente; Hanuman di solito era di profilo, ai loro piedi.
Ram era sempre raffigurato con l’arco, ma mai nell’atto di
usarlo. Il rasa42 che si voleva manifestare era lo shanta rasa, una
sensazione di benevolenza e tranquillità.43 Tradizionalmente
infatti, le armi simboleggiavano l’energia, il temperamento e
la funzione di una divinità, aiutando anch’esse a esplicarne il
valore. Questo perche Ram era concepito per rappresentare il
mediatore dell’ordine universale: egli era il giusto esempio di
comportamento etico (maryada), simbolo di amore e compassione
(patitpavan kripanidhan), di auto sacrificio e lealtà al dovere
(kartavyanishtha).44
Le diffusione in India di nuove tecniche artistiche nel XIX
42 Questo è il termine che nell’estetica indiana indical’essenza di un sentimento o di un’emozione.43 Anuradha Kapur, “Deity To Crusader: The Changing IconographyOf Ram”, in Gyanendra Pandey, Hindus and Others, Viking PenguinIndia, New Delhi, 1993, p. 74. 44 Enrico Fasana, “Mandal and Mandir: Religion and Society inIndipendent India”, in Bakshi K.N., Scialpi F. (a cura di), India1947-1997 Fifty Years of Indipendence, Istituto Italiano per l’Africa el’Oriente, Roma, 2002, p. 81.
25
secolo, portarono una innovazione nella rappresentazione delle
icone: i colori ad olio, le stampe, le litografie, riuscivano a
trasmettere una nuova caratteristica alle immagini, il
realismo. Questo, unito ai valori dell’induismo militante,
aggressività e mascolinità, dava una nuova sensibilità nella
resa dei corpi, più muscolosi per gli uomini e delicati per le
donne. I colori ad olio erano in grado di rendere palpabile il
peso e il volume delle figure e materiali gli oggetti che le
decoravano. Con queste nuove tecniche si realizzò la
possibilità di inserire le divinità in un piano reale che
l’osservatore poteva considerare a sé contemporaneo, con
l’impressione dunque di sentire gli dei più prossimi.45
Nei poster diffusi dopo la nazionalizzazione del caso, i canoni
furono rovesciati: Ram era spesso raffigurato da solo,
riccamente armato e pronto per la guerra. Era un Ram ugra,
furioso. L’aggressività trovava la sua espressione nei muscoli
tesi, nello sforzo di tendere l’arco, nei capelli lasciati
sciolti al vento. Il dio era spesso ritratto nella posa di
scagliare una freccia, con ai suoi piedi un tempio, immagine
del futuro progetto di quello del Janmasthan. Ram divenne un
guerriero alla stregua di Ben Hur, El Cid, dello stesso Bhima e
Arjuna delle serie televisive indiane. Come questi eroi, anche
lui si trovava a combattere per il possesso, per il controllo e
il ripristino del proprio status.46
Analizzando anche la simbologia della Toyota DCM che era stata
usata per fungere da carro di Ram durante il Rath Yatra di
Advani, Richard Davis riconosce uno schema decorativo molto45 Anuradha Kapur, op. cit., p. 99. 46 Idem, pp. 104-105.
26
complesso ed eterogeneo. Il design generale della macchina
riprendeva il modello del carro di Arjuna come era stato
realizzato durante la serie televisiva Mahabharata; sul cofano,
su uno sfondo dorato, era stampato l’itinerario della
processione, da Somnath ad Ayodhya; dei leoni rampanti di
profilo erano stati posti sugli sportelli insieme a fiori di
loto da otto petali. La porta del vano posteriore era stata
coperta con il disegno del cakra. Nel retro della macchina,
sotto due grandi Om, era appeso il ritratto di Advani.47 Secondo
Davis, la scelta di ogni singolo simbolo fu accurata: nel
selezionare un assortimento eterogeneo di immagini indù
convenzionali, il VHP, e con esso il BJP, non cercava di
manifestare l’induismo classico, quanto di crearne uno nuovo
che unisse tutte le sfaccettature delle sette presenti in
India, di cui la Ramjanmabhumi potesse diventare l’emblema e il
Ramarajya una nuova configurazione politica e religiosa.48 Anche
la scelta di iniziare lo Yatra a Somnath aveva un significato
ideologico evidente: la città era il sito di uno dei più famosi
episodi di distruzione di templi avvenuto in India da parte di
Mahmud di Ghazna nel 1026. Per tale motivo nella storia del VHP
Somnath aveva una posizione preminente: rappresentava il primo
segno del riscatto indù. Infatti nel 1950 l’antico tempio era
stato ricostruito, diventando così un importante precedente di
sostegno governativo nella ricostruzione di un tempio.49
Al passaggio della Toyota avevano partecipato anche individui47 Richard Davis, “ The Iconography of Ram’s Chariot”, in D.Ludden, Making India Hindu, Oxford University Press, New Delhi,2007, p. 28. 48 Idem, p. 33. 49 Christophe Jaffrelot, op. cit., pp. 84-85.
27
che si erano identificati completamente con la marcia e che,
vestiti come Lakshmana, Hanuman, lo stesso Ram e Shiva, si
erano armati di tridenti e archi. La presenza di queste armi, e
i toni che in alcune occasioni assunse la marcia, fece sorgere
i disordini civili che portarono all’arresto di Advani il 23
ottobre. La degenerazione ulteriore della manifestazione si
ebbe quando alcuni karsevak penetrarono nella Babri Masjid
riuscendo a porre delle bandiere color zafferano sulle cupole,
danneggiando la struttura. Nonostante la gravità delle azioni,
il VHP sosteneva che si trattasse di manifestazioni spontanee
da parte della popolazione indù, finalmente risvegliatasi per
mostrare la sua unità. 50
La recettività delle masse a questo nuovo significato fu
aiutata dalla trasmissione del Ramayana in televisione: 78
episodi narrarono la storia del poema tra il 1987 e il 1988. La
serie, ideata da Ramanand Sagar, divenne subito popolare,
soprattutto nell’India del nord, suscitando fenomeni di fervore
religioso per cui alcuni ritenevano che guardare un episodio
equivalesse all’avere il darshan del dio.51 In tal modo prima
dello Rath Yatra di Advani52 alla popolazione indù era già stata
presentata la nuova versione di Ram nei panni di eroe storico
50 Richard Davis, op cit., p. 48.51 Christophe Jaffrelot, op. cit., p. 389. 52 Fino ad allora infatti il movimento aveva avuto solocarattere regionale. Lo Yatra invece fece divenire la contesasul sito della Babri Masjid un tema centrale del dibattitopubblico in India. Fu proprio la tematica di Ayodhya chetrasformò il BJP da partito periferico della destra aprincipale partito di opposizione al Congress, grazie alla suaabilità di manovrare l’elettorato (Richard Davis, op. cit., p.30).
28
nazionale.
Come si è già detto, la mobilitazione indù era ritenuta
dal VHP una risposta spontanea della popolazione. Questa
spontaneità si era manifestata sin dai primi meeting
organizzati dal VHP e dallo RSS in cui sadhu e sannyasi avevano
partecipato di propria iniziativa. Durante questi incontri
però, i discorsi dei “santoni” avevano poco a che fare con la
spiegazione di testi e idee religiose: essi davano piuttosto
indicazioni politiche ed esortavano all’attivismo. Infatti, il
loro compito non era illuminare i presenti con le proprie
conoscenze ma piuttosto ripetere il programma che il VHP e lo
RSS avevano delineato. Le due organizzazioni gestivano i
meeting dal retroscena, assumendo apparentemente una posizione
subordinata rispetto a quella dei sadhu presenti, sempre per
dare l’impressione che tutto accadesse in modo spontaneo. Con
Ashok Singhal, il ruolo subordinato della religione divenne più
manifesto e tuttavia si riuscì sempre a dare l’impressione
della spontaneità. Il richiamo all’attivismo entrò ben presto a
far parte del messaggio delle videocassette: in esse erano
riprese folle in marcia con lathi, bandiere e tridenti, che si
dicevano animate dall’energia che il ritorno di Ram nel 1949
aveva provocato. La violenza era la conseguenza naturale, la
risposta all’oppressione perpetrata nei secoli dai musulmani e
che richiedeva ora il risveglio del popolo e il suo
sacrificio.53
53 Tapan Basu et al.,Khaki Shorts, Saffron Flags, Orient Longman, NewDelhi, 1993, pp. 96-97.
29
Conclusioni
La storia dunque era stata manipolata e adattata per individuare
e definire gli obiettivi del futuro; le cassette, i video e lo
showroom cercavano di lavorare a livelli diversi di significato
per convergere su un unico scopo: creare un’immagine
autoritaria e stabilire una cultura indù unita nonostante le
sue varie sfaccettature. Anche questa pluralità fu adottata e
ridefinita in chiave sincretica: simboli di varie sette vennero
intesi come espressioni di un'unica entità definita Hindutva.
Adesivi di Ram, dell’Om, del tempio erano distribuiti e spesso
attaccati sulle macchine e sulle vetrate dei negozi per rendere
ridondante il messaggio, occupando lo spazio visivo quotidiano
degli individui e diffondendo l’impressione che ci fosse una
intensificazione della religiosità nel paese.54
54 Pradip Kumar Datta, “VHP’s Ram: The Hindutva Movement InAyodhya”, in Gyanendra Pandey (a cura di), Hindus and Others, op.cit., p. 68.
30