Il movimento Ramjanmabhumi, ovvero quando Ram si riscoprì un irato nazionalista indù”

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Il movimento Ramjanmabhumi, ovvero quando Ram si riscoprì un irato nazionalista indù Questo studio si propone di analizzare il modo in cui un’organizzazione di stampo religioso, il Vishwa Hindu Parishad (VHP, Società Indù Universale) riprese il mito di Ram, figura epico-religiosa dalla lunga tradizione, avatara di Vishnu, , rivisitandolo affinché potesse sostenere la mobilitazione di massa per il movimento Ramjanmabhumi (terra di nascita di Ram). Lo scopo di quest’ultimo, infatti, era riappropriarsi del luogo di nascita di Ram, diventato per la destra indù una sorta di eroe nazionale. Secondo la storiografia inglese e quella nazionalista indù, il sito, collocato ad Ayodhya, città dell’Uttar Pradesh, era stato occupato dalla Babri Masjid, una moschea che Babur, imperatore Moghul avrebbe costruito nel XVI secolo dopo aver distrutto un magnifico tempio, memoria del sacro evento. Con lo sviluppo del movimento nel XX secolo, si vennero a creare in India due fazioni atte a definire il valore del sito: da una parte i sostenitori del VHP, dall’altra gli storici della Jawaharlal Nehru University. La destra indù voleva vedere riconosciuta l’azione di distruzione perpetrata dai musulmani nel corso dei secoli e di cui la Babri Masjid, data la sua collocazione, era un esempio eclatante. Per dare validità a questa visione, si cercò di presentare la storia indiana incentrandola su una struttura dicotomica in cui un passato glorioso indù veniva distrutto dall’arrivo dell’islam, religione iconoclasta e dispotica. Il VHP riuscì a diffondere una tradizione storica che descriveva i molteplici tentativi di riconquista del Janmasthan 1

Transcript of Il movimento Ramjanmabhumi, ovvero quando Ram si riscoprì un irato nazionalista indù”

Il movimento Ramjanmabhumi, ovvero quando Ram si riscoprì

un irato nazionalista indù

Questo studio si propone di analizzare il modo in cui

un’organizzazione di stampo religioso, il Vishwa Hindu Parishad

(VHP, Società Indù Universale) riprese il mito di Ram, figura

epico-religiosa dalla lunga tradizione, avatara di Vishnu, ,

rivisitandolo affinché potesse sostenere la mobilitazione di massa

per il movimento Ramjanmabhumi (terra di nascita di Ram). Lo scopo

di quest’ultimo, infatti, era riappropriarsi del luogo di nascita

di Ram, diventato per la destra indù una sorta di eroe nazionale.

Secondo la storiografia inglese e quella nazionalista indù, il

sito, collocato ad Ayodhya, città dell’Uttar Pradesh, era stato

occupato dalla Babri Masjid, una moschea che Babur, imperatore

Moghul avrebbe costruito nel XVI secolo dopo aver distrutto un

magnifico tempio, memoria del sacro evento.

Con lo sviluppo del movimento nel XX secolo, si vennero a

creare in India due fazioni atte a definire il valore del sito: da

una parte i sostenitori del VHP, dall’altra gli storici della

Jawaharlal Nehru University. La destra indù voleva vedere

riconosciuta l’azione di distruzione perpetrata dai musulmani nel

corso dei secoli e di cui la Babri Masjid, data la sua

collocazione, era un esempio eclatante. Per dare validità a questa

visione, si cercò di presentare la storia indiana incentrandola su

una struttura dicotomica in cui un passato glorioso indù veniva

distrutto dall’arrivo dell’islam, religione iconoclasta e

dispotica. Il VHP riuscì a diffondere una tradizione storica che

descriveva i molteplici tentativi di riconquista del Janmasthan

1

(luogo di nascita) dopo la sua distruzione. Naturalmente esso non

organizzò questa mobilitazione da solo, poteva infatti contare

sulla vera matrice del nazionalismo indù: il Rashtriya Swayamsevak

Sangh (RSS, Comunità di Volontari Nazionali), un’organizzazione

nata nei primi anni del ‘900 che raccoglieva gli aspetti marziali

ed estremi della nuova ideologia plasmata da V. Savarkar: lo

Hindutva.1 Lo RSS fornì la struttura organizzativa e ideologica al

VHP, che si proponeva invece come organizzazione a carattere

prettamente religioso. Quando si vide la capacità che aveva il tema

da esse sollevato di mobilitare le masse, entrò in scena anche il

BJP (Bharatya Janata Party), partito di destra che fino ad allora

non era riuscito a conquistare la ribalta della politica indiana.

Sfruttando un’apposita simbologia e personaggi carismatici

adeguati, il movimento riuscì nel suo intento: la moschea fu

distrutta e la destra indù ottenne voce in politica.

Per cercare di rendere più chiari i processi che determinarono

la nascita del movimento Ramjanmabhumi si analizzerà brevemente la

politica della regione durante il periodo coloniale, quando cioè

sorsero i primi conflitti legati alla Babri Masjid. Successivamente

si analizzeranno le varie fasi che la vicenda attraversò nel corso

del XX secolo con le sue conseguenze sociali e politiche.

1 Con tale termine si indica il concetto di “induità” cheaccumunava tutti gli indù. Infatti uno degli obiettiviprincipali di Savarkar fu quello di definire chi fosse indùe chi no. La sua definizione si basava sul concetto diappartenenza alla patria intesa come terra dei padri, masoprattutto sulla condivisione della cultura “sanscrita” cheuniva gli indù e che li avrebbe resi fedeli e pronti asacrificarsi per l’India.

2

Il periodo coloniale

Durante il XVIII secolo la regione in cui si trova Ayodhya,

l’Avadh, era gestita da Nawab, i quali pur essendo formalmente

subordinati all’imperatore Moghul, erano diventati i principali

detentori del potere politico nell’India del Nord. Il primo nawab,

Saadat Khan (1722-1739), fece di Ayodhya la sua capitale,

rendendola il centro vitale della sua signoria. Il suo successore,

Safdar Jang (1739-1754), decise invece di spostarla da Ayodhya a

Faizabad, che restò la capitale fino al tardo XVIII secolo quando

lo divenne Lacknau. Nella storiografia moderna su Ayodhya gli

autori inglesi del XIX secolo erano soliti affermare che quando la

sede del potere dei Nawab si spostò, la città fu finalmente

liberata dall’oppressione musulmana. Quello che questi autori non

considerarono fu che proprio durante il XVIII secolo, ossia sotto i

Nawab, la maggior parte dei templi di Ayodhya fu costruita o

restaurata. Infatti il successo del governo di questi dipendeva

fortemente dalla grande collaborazione tra indù e musulmani: il

rispetto della religione della maggioranza dei propri sudditi era

considerato un dovere morale e politico.2

In quei secoli il numero dei vaishnava (seguaci di Vishnu) era

inferiore rispetto agli shaiva (seguaci di Shiva) e ai buddhisti;

nel XVIII secolo tuttavia, la setta bhakta3 dei Ramanandi (vaishnava)

si era inserita nel panorama religioso di Ayodhya cercando di

2 Ashis Nandy et al., Creating a Nationality. The Ramjanmabhumi Movement andthe Fear of the Self, Oxford University Press, New Delhi, 1998, p. 3. 3 Con il termine bhakti si indica un ampio e differenziatomovimento religioso sviluppatosi in India dal XIII secoloche si incentra sulla devozione e sul rapporto diretto conil Dio, nella sua accezione saguna (con attributi) e nirguna(senza attributi).

3

costruirsi una posizione a scapito degli shaiva. Safdar Jang aveva

concesso loro il terreno dell’Hanumangarhi su cui costruirono il

loro monastero, diventando i co-protagonisti nella metà del 1850,

dei primi scontri intercomunitari nella regione, riportati in

alcuni rapporti inglesi dell’epoca.4 Gli autori di questi resoconti

non si preoccuparono di mantenere una posizione imparziale: essi

insistevano nel descrivere gli indù come vittime che vivevano in un

clima di incertezza e insicurezza, minacciati dai musulmani

nell’indifferenza del Nawab; perseveravano nell’usare termini

anacronistici in riferimento alla vicenda (ad esempio chiamavano la

Babri Masjid Janmasthan, nome non ufficiale) e non riportavano con

chiarezza il luogo degli scontri (infatti alcune fonti lo

identificano con l’Hanumangarhi altre con la Babri Masjid). Poiché

gli indù erano soliti recarsi per fare offerte nel cortile della

moschea, gli inglesi dedussero che la loro devozione era legata

alla tradizione del precedente tempio di Ram, e ritennero storica

l’affermazione che quel sito fosse il Janmastan.5

Nel 1859 il governo, timoroso che la questione della Babri

Masjid potesse diventare causa di ulteriori conflitti tra indù e

musulmani, decise di intervenire preventivamente erigendo un muro

che separasse fisicamente le zone della moschea usate dalle due

comunità. In realtà, tale intervento fu il frutto non di

un’effettiva possibilità di incidenti, ma del mutato atteggiamento

degli inglesi verso la popolazione indiana dopo la rivolta del4 Sushil Srivastava, “Rama in History, How Avadh’s Secular PolityChanged”, in Asghar Ali Engineer (a cura di), Politics of Confrontation,Ajanta Publications, Delhi, 1992, p. 7.5 Sushil Srivastava, “How the British Saw the Issue”, inSarvepalli Gopal (a cura di), Politics of Confrontation: the babri MasjidRamjanmabhumi Movement, Penguin, Delhi, 1991, p. 42.

4

1857. Infatti il Mutiny, non aveva palesato alcun cambiamento

negativo nella controversia sulla moschea e nessuno scontro tra

comunità si era verificato. Dopo che la rivolta fu sedata gli

inglesi intervennero sulla Babri Masjid, non per motivi di ordine

pubblico, ma per ricompensare coloro che li avevano aiutati. I

bairagi, ad esempio, gli asceti dimoranti presso l’Hanumangarhi,

ricevettero dunque terreni ad Ayodhya e in zone limitrofe, mentre

terre appartenenti ad istituzioni islamiche furono confiscate.6

Fu l’annessione dell’Avadh nel 1856 alla Corona e la rivolta

del 1857 infatti, che modificarono il modo in cui gli inglesi

vedevano e partecipavano alle controversie religiose. Nel periodo

prima dell’annessione al Raj essi avevano sempre mantenuto una

posizione neutrale in ambito religioso, puntando a sottolineare

l’inefficienza politica dei principi indù rispetto ai Moghul. Dopo

l’annessione invece, gli studiosi inglesi avevano adottato un

atteggiamento di biasimo nei confronti dei musulmani e, sulla

vicenda della Babri Masjid, cercarono di trovare fondamenti storici

alle tradizioni locali; dove non li trovarono semplicemente

mitizzarono la storia, come ad esempio ne History of India as Told by its Own

Historians del 1866 di H.M. Elliot.7 I fautori di tali storiografie

perciò vollero proiettare l’idea che l’impero Moghul fosse

oppressivo e intollerante verso le religioni non islamiche e il

fatto che la moschea di Babur fosse stata costruita sulle rovine di

un importante tempio indù confermava le loro supposizioni.

Periodo post coloniale

Dopo la Partition la situazione intercomunitaria nella6 Idem, p. 45. 7 Idem, p. 50.

5

provincia di Faizabad iniziò a deteriorarsi, dando la possibilità

alla Hindu Mahasabha, partito di destra, di provare a sfruttare

politicamente la controversia sul Janmasthan. Nel 1949-50, momento

cruciale per la decisione della strategia politica da seguire, si

optò, per ottenere sostegno politico, di usare la strategia della

mobilitazione religiosa.8 Il tema della Ramjanmabhumi si presentava

come un simbolo facilmente sfruttabile a fini politici perché, se

manipolato nel modo corretto, poteva suscitare una massiccia

mobilitazione della popolazione indù. Questa era infatti a

conoscenza della presunta tradizione storica che supponeva che nel

1528 Babur avesse ordinato di costruire una moschea distruggendo un

tempio situato nel luogo di nascita di Ram. In realtà poiché in

quel periodo non c’erano prove archeologiche che confermassero tale

supposizione, il credere nella sacralità del luogo e del fatto che

fosse esistito lì un tempio era prevalentemente un fatto di fede e,

come si è visto, a parte le diatribe della metà del XIX secolo, ciò

non aveva comportato gravi problemi fino al 1949. Il 22/23 dicembre

di quell’anno infatti, alcune persone penetrarono nella moschea

installandovi le effigi di Ram e divinità a lui legate. Gli indù

accolsero l’evento come un miracolo, i musulmani come un atto

sacrilego. In realtà tutto era stato ampiamente pianificato: giorni

di comizi avevano spinto la gente a radunarsi davanti alla moschea

non solo per ricevere il darshan (visione) delle divinità, ma anche

per reclamare la restituzione del luogo di nascita di Ram. Si

richiedeva la riconversione della Babri Masjid in un tempio a Shri

Ram. Il magistrato distrettuale K.K. Nayar aveva mandato un

messaggio radio al ministro generale dell’Uttar Pradesh, Govind8 Christophe Jaffrelot, The Hindu Nationalist Movement and Indian Politics,1925 to the 1990s, Penguin Books, New Delhi, 1996, p. 91.

6

Ballabh Pant, in cui riportava la notizia che un gruppo di indù era

entrato nella moschea durante la notte e aveva installato delle

statue. A seguito di ciò, una folla di 5-6mila persone aveva

raggiunto il sito cantando slogan ed intonando bhajan (canti

devozionali) e quando cercarono di entrare nella moschea furono

bloccati dalla polizia.9 Il 26 dicembre il ministro Pant, ordinò a

K.K. Nayar di rimuovere gli idoli dalla moschea per riportare la

situazione allo status quo ante,10 ma quello rifiutò con la scusa che

ciò avrebbe creato scontri tra le due comunità. Probabilmente fu

per il fatto di essere sostenitore dello RSS che Nayar disobbedì

agli ordini.

Nonostante la presenza di norme, sia del Codice Penale che del

Codice della Procedura Penale, che avrebbero risolto la situazione

riportandola allo status precedente, la dissacrazione della Babri

Masjid non fu mai punita e venne a costituire una macchia

indelebile nel sistema politico e legale indiano. Anzi, il 19

gennaio fu accettata la richiesta di legalizzare il culto alle

statue presenti nella struttura, confermata dal giudice civile nel

1951 in base al “fatto indiscutibile” che, nel giorno in cui era

stata presentata la richiesta, gli idoli esistevano nel sito ed

erano oggetto di venerazione e preghiera.11 La Hindu Mahasabha cercò

di sfruttare la vicenda per proprio tornaconto politico: il

segretario generale della organizzazione, V.G. Deshpande, aveva

visitato Ayodhya due volte per cercare raccogliere voti dai

sostenitori della vicenda. Tuttavia i suoi tentativi di fomentare

9 A. G. Noorani, “Legal Aspects to the Issue”, in SarvepalliGopal (a cura di), Anatomy of a Confrontation, op. cit., p. 70.10 Christophe Jaffrelot, op. cit, p. 93.11 Idem, p. 95.

7

l’evento furono fermati dalla determinazione di Nehru e Patel a

mantenere ferma la laicità dello stato indiano, anche per mezzo di

arresti preventivi.

Ayodhya 1986: la riapertura dei cancelli

Dopo la “miracolosa” apparizione dell’idolo di Ram all’interno

della Babri Masjid, la popolazione di Ayodhya iniziò a festeggiare

il Ram Prakat Utsav (manifestazione del giorno di Ram) un

anniversario che commemorava il giorno in cui il dio era apparso

nella moschea. L’anniversario del 1984 cadde il 4 gennaio e fu

accolto con un particolare entusiasmo perché qualcuno era riuscito

a porre la bandiera di Hanuman (Hanuman pataka) sulla cupola

centrale della moschea. Questo evento attrasse una folla massiccia

che poté beneficiare per la prima volta anche di un havan

(sacrificio del fuoco) eseguito da numerosi mahant nel sanctum

sanctorum.12

Fu in quest’occasione che la leadership dello RSS realizzò

pienamente il potenziale politico del tema. Per tale motivo il 7-8

aprile 1984 fu tenuto a New Delhi un meeting del Dharma Sansad del

VHP13 in cui fu deciso di dar vita ad un movimento per la

liberazione del tempio di Ayodhya, a cui sarebbe seguita la

liberazione di quello di Shri Krishna a Mathura e di Vishwa Nath a

Varanasi. Il 25 settembre fu condotta dal Ram Janmabhumi Mukti

Yajna una processione che partiva da Sitarmahi, ritenuto il luogo

di nascita di Sita, moglie di Ram, in Bihar, con lo scopo di

12 P. V. Narasimha Rao, Ayodhya 6 December 1992, Penguin Viking,Delhi, 2006, p. 23.13 Si ricorda che in quegli stessi mesi vide la nascita anche ilBajrang Dal, la componente violenta e armata della destra indù,che in breve tempo raccolse 100.000 membri in Uttar Pradesh.

8

liberare il tempio di Ayodhya. Si trattava di una processione

religiosa con risvolti politici14 ma priva di qualsiasi carattere

violento. Essa seguiva un camion su cui le statue di Ram e Sita

erano state poste sotto una bandiera con lo slogan Bharat Mata ki Jai

(vittoria alla madre India). La processione giunse a destinazione

il 7 ottobre, raccogliendo un gran seguito tra membri di diverse

sette, provenienti da varie parti dell’India che, per la prima

volta, si trovarono fianco a fianco. Tuttavia nonostante la

preparazione attenta dell’evento, la partecipazione della

popolazione fu scarsa: solo 7000 persone circa si presentarono,

numero esiguo se confrontato con altre manifestazioni religiose

tenutesi ad Ayodhya, capaci di richiamare centinaia di migliaia di

devoti. I primi a parlare furono i rappresentanti del VHP che

affermarono la necessità di liberare il dio Ram dalla sua prigionia

nella moschea e ribadirono l’ingiustizia compiuta dallo Stato

indiano che trattava i suoi cittadini indù come cittadini di

seconda classe, non aventi neanche il diritto di accedere a uno dei

loro siti più sacri. Il discorso più sentito fu quello di

Paramahams Ramchandradas dell’ordine dei Ramanandi, il quale chiese

ripetutamente il motivo dell’assenza all’incontro di alcuni

esponenti religiosi della città.15

14 Infatti uno dei messaggi più ripetuti fu quello di votare soloquei partiti politici che avessero promesso di restituire agliindù i loro siti sacri. 15 Importanti, infatti, furono anche i “grandi assenti”, come li definì PeterVan der Veer: i Ramanandi di Ayodhya, Ram Dayal Saran e Ramcharitradas,importanti perché la loro assenza era in teoria ingiustificata dato il ruoloche fino ad allora avevano avuto nella vicenda della liberazione delJanmasthan. Lo studioso ha ipotizzato le possibili motivazioni che li portaronoa non presentarsi. Secondo Van der Veer, i Ramanandi non avevano alcuninteresse effettivo nella liberazione del sito: infatti il loro tempio,l’Hanumangarhi, era il più importante ad Ayodhya, perciò la costruzione di unaltro tempio, con tutta la pubblicità che se ne stava facendo, avrebbe causato

9

Tutta questa mobilitazione prima delle elezione di gennaio, fu

rovinata dall’assassinio di Indira Gandhi che vanificò la

strategia. Infatti, dopo la morte del primo ministro, la

popolazione indiana, veicolata dalla tragicità dell’evento e legata

a quella che si considerava la dinastia politica indiana per

antonomasia, la Nehru-Gandhi, votò in massa per il figlio

primogenito Rajiv Gandhi, divenuto l’esponente del Congress.

Con l’entrata in politica di Rajiv Gandhi, il Congress sembrò

riguadagnare quella posizione dominante tra i partiti politici

indiani che aveva permesso a Nehru di attuare politiche laiche

negli anni ‘50. La vittoria che ottenne nelle elezioni del 1984 e

1985 diede una battuta d’arresto al VHP che non riprese la campagna

Ramjanmabhumi se non alla fine del 1985, quando si ripresentò la

possibilità di sfruttare i sentimenti indù sorti contro la

mobilitazione dei musulmani tradizionalisti per il caso Shah Bano.16

Le richieste insistenti dei nazionalisti trovarono sostegno in un

avvocato, Umesh Chandra Pandey che presentò il 25 gennaio 1986 al

munsif (magistrato locale) la richiesta di aprire i cancelli della

Babri Masjid per permettere la partecipazione collettiva alla puja e

al darshan. Il munsif rinviò la richiesta all’alta corte che si era

sicuramente una perdita di prestigio per loro e, di conseguenza, anche laperdita degli introiti frutto dei pellegrinaggi. Ram Dayal Saran era il leaderdei canti devozionali che si tenevano costantemente davanti alla moschea.Tutte le donazioni raccolte in tale circostanza erano affluiti nelle suetasche; la costruzione del tempio avrebbe reso superfluo l’akhand kirtan e diconseguenza anche le entrate sarebbero venute a mancare (P. van der Veer, “GodMust be Liberated! A Hindu Liberation Movement in Ayodhya”, Modern Asian Studies,21:1, 1989, p. 291.)16 Shah Bano era una anziana donna musulmana che, ripudiata dal marito, avevafatto appello al corte suprema per ottenere gli alimenti. Quando nel 1985 lacorte le diede ragione, la maggioranza musulmana tradizionalista si mobilitòper difendere la propria separata legislazione. Dopo varie manifestazioni, ilprimo ministro, per paura di perdere il sostegno dei musulmani tradizionalipresentò nel 1986 la Muslim Women Bill.

10

occupata del caso nel 1961. Il 1° febbraio il giudice distrettuale

di Faizabad, K.M. Pandey, dopo aver riesaminato le testimonianze

del magistrato distrettuale e del commissario di polizia, decise di

aprire i cancelli. 17 Quaranta minuti dopo la sentenza, i lucchetti

che chiudevano la moschea furono rimossi. L’equipe televisiva di

Doordashan, la rete nazionale, era già sul posto, così come era

presente una folla di sostenitori del VHP, a conferma dell’ipotesi

generale che le autorità avessero pianificato l’evento. Il fatto

stesso che l’appello del 31 gennaio fosse stato accolto evidenziava

la reale natura politica della decisione del giudice. C’erano state

infatti delle negoziazioni durante il dicembre 1985 tra il VHP, il

magistrato distrettuale e il primo ministro dell’Uttar Pradesh, Vir

Bahadur Singh, per la sollecitazione dell’azione dato che, in

quello stesso periodo, era stata approvata la Muslim Women’s Bill

per placare gli animi dei musulmani relativamente al caso Shah

Bano. Dunque l’apertura dei cancelli poteva essere interpretata

come un modo per accontentare anche agli indù.18

Dopo tale episodio, le autorità affidarono nuovamente il caso

al tribunale. Ma una volta innescato, il meccanismo fu difficile da

fermare. Infatti gli indù nazionalisti, ottenuto il diritto di

pregare nella moschea, presentarono una nuova richiesta: costruire

un tempio al suo posto. Lo RSS, avendo visto che il governo

centrale aveva ceduto alle sue richieste, decise di preparare nuove

mobilitazioni con l’aiuto del VHP. Il 3 febbraio 1986 si tenne un

Sant Sammelan, un incontro tra sadhu, in cui si creò un Ramjanmabhumi

Trust per trasferire i diritti di proprietà del sito su di questo,

17 A. G. Noorani, op. cit., p. 77. 18 Christophe Jaffrelot, op. cit, p. 371.

11

affinché si potesse costruire il più grande tempio del mondo.

Il 5 febbraio fu fondato invece il Babri Masjid Action Committee

(BMAC) con l’intenzione di realizzare delle manifestazioni in Uttar

Pradesh e a Delhi agosto, che potessero riportare lo status quo ante ad

Ayodhya. Ma la crescente tensione intercomunitaria, degenerata in

scontri nelle città di Aligarh, Muzaffarnagar e Faizabad, spinse il

ministro degli interni Buta Singh a richiedere la sospensione delle

marce che i musulmani avevano organizzato.19

Ram Shila puja: l’esacerbazione della strategia di mobilitazione religiosa

L’ottenimento dell’apertura dei cancelli della Babri Masjid da una

parte aveva rappresentato un trionfo per il VHP, dall’altra però lo

aveva privato della causa più importante. Dopo l’apertura c’erano

stati vari meeting, che però non avevano riscosso particolare

successo; anche il Ram Prakat Utsav non richiamava più la stessa

folla. Per evitare di perdere il sostegno guadagnato, nel febbraio

1989 durante il Dharma Sansad di Allahabad, il VHP propose

l’induizzazione della politica, ossia appoggiare quei politici

favorevoli alle richieste indù, per portare a compimento la

costruzione del tempio al posto della moschea, che sarebbe stata o

spostata o tramutata in tempio, mantenendo però le cupole.20 I fondi

per la costruzione del tempio sarebbero provenuti dalla popolazione

mediante donazioni. L’evento che più riuscì a coinvolgere gli indù

fu la mobilitazione atta alla raccolta di speciali mattoni recanti

il nome di Ram (Ram shila), mattoni che venivano santificati durante

la puja e che sarebbero stati usati per la costruzione del tempio.

Diverse processioni percorsero l’India allo scopo di raccogliere

19 Idem, p. 373.20 P. V. Narasimha Rao, op. cit., p. 38.

12

più mattoni consacrati possibili, affinché potessero poi convergere

tutte ad Ayodhya per la costruzione del tempio prevista per il 9

novembre 1989, prima cioè che si svolgessero le elezioni, da indire

prima della fine dell’anno. Nella campagna elettorale del 1989 i

temi religiosi e di giustizia sociale furono al centro dei discorsi

di tutti i candidati. Lo stesso Rajiv Gandhi, che rappresentava il

Congress, partito da sempre laico e propenso alla salvaguardia

delle minoranze, dovette giocare la carta religiosa riprendendo le

stesse tematiche del BJP, ossia focalizzando una parte della sua

attenzione su Ayodhya e dichiarando di voler governare in nome del

Ram Rajya.21 La campagna elettorale vide fondamentalmente tre

sfidanti, Rajiv Gandhi, l’ex Ministro della Difesa V. P. Singh e

Lal Krishna Advani ormai a capo del BJP. Fu grazie ad Advani che il

partito riprese le sue caratteristiche più militanti. In questo

modo il BJP poteva sfruttare il sostegno locale fornito dalla

struttura dello RSS e quest’ultimo poteva controllare e giudicare

il lavoro del BJP. Il manifesto politico elettorale del BJP non

conteneva alcun accenno ad Ayodhya, in quanto la “strategia

Ayodhya” era da strumentalizzare a livello locale per riscuotere il

giusto successo. Advani aveva dunque sempre più consolidato il

legame tra BJP e RSS cercando di sfruttare l’ampliamento del

network degli swayamsevak per aumentare i suoi sostenitori,

proponendosi come loro rappresentante nella vita politica. L’unità

tra il VHP, lo RSS e il BJP si realizzò effettivamente in quegli

anni. 22

21 Con questo termine si intende l’ideale governo di Ram,esempio di giustizia e benessere, ideale politico atavicodel panorama indiano.22 Christophe Jaffrelot, op. cit, p. 383.

13

Come si è accennato, il BJP stava già giocando la sua carta

indù con il progetto dello shilanyas. Il 27 settembre a Lakhnau, un

incontro organizzato dal ministro dell’Uttar Pradesh si concluse

con l’autorizzazione dello shilanyas in cambio della promessa che si

sarebbero rispettati i diritti di proprietà come definiti dal

verdetto del tribunale. Nonostante la promessa fatta, i piani del

VHP e del BJP erano altri: il 2 novembre alcuni pandit di Varanasi e

volontari del Bajrang Dal segnarono il sito per lo shilanyas proprio

nell’area contesa della moschea. Lo scopo era quello di opporsi

all’autorità governativa sfidandone il laicismo; essi avevano dalla

loro le schiere di sadhu che sarebbero intervenute all’evento. Il 9

novembre 1989 furono scavate le fondamenta per il tempio. Lo

shilanyas era stato concepito per essere un vero e proprio rituale,

pensato nei minimi particolari in cui il mattone era il principale

simbolo: ne erano stati raccolti in tutta l’India 167.063.23

Il successo dell’evento dipese in parte dalla contemporaneità di

questo con il pellegrinaggio annuale parikrama (pellegrinaggio che

tocca i templi di Ayodhya e Faizabad) per cui alla folla già

raccolta si unirono anche 25.000 pellegrini. Il VHP cercò di

coinvolgere tutta la popolazione indù, proponendo un modus operandi

per partecipare all’evento anche a distanza: il fedele avrebbe

dovuto offrire fiori in direzione di Ayodhya alle 13:35 di venerdì

10 novembre, nel momento in cui si sarebbe posta la prima pietra. I

nazionalisti indù cercavano di trasmettere un’idea di India unita

sotto la bandiera dell’induismo, facendo di Ayodhya il centro

fisico di questa unità. I rituali dovevano servire anche da stimolo

per una solidarietà tra gli indù, cercando di indurre in tal modo

23 Idem, p. 400.14

le scheduled castes a votare per il BJP.24

Nella campagna elettorale del 1989 la combinazione RSS-VHP-BJP

si rivelò vincente perché riuscì ad incentrare l’attenzione su

Ayodhya, a fomentare gli scontri intercomunitari per consolidare il

voto indù nazionalista e a sfruttare la debolezza del Congress

appropriandosi di temi socio-economici. Tutto questo portò alla

vittoria del BJP nel Madhya Pradesh, grazie anche all’alleanza tra

questo e il partito dell’opposizione formato da V. P. Singh, il

quale aveva radunato le forze avverse a Rajiv Gandhi riuscendo ad

ottenere la vittoria elettorale.

Il Rath Yatra di Advani

Dopo la formazione del governo della National Front Coalition

di V. P. Singh, il VHP rilanciò il movimento Ramjanmabhumi. Questo

accadde perché il nuovo primo ministro aveva deciso di attuare le

raccomandazioni della commissione Mandal.25 Lo RSS aveva preso la

notizia come un piano per acuire le divisioni all’interno della

“nazione indù”; il BJP d’altra parte non poteva condannare il

progetto di V.P. Singh per non alienarsi il sostegno delle caste

svantaggiate che rappresentavano il 52% della popolazione indiana.

Il partito perciò rispose cercando di spingere il primo ministro ad

approvare le quote riservate basandosi su criteri economici e non

castali, dedicandosi contemporaneamente alla nuova campagna

lanciata dal VHP, il Kar seva, ossia la realizzazione del tempio.26

24 Idem, p. 403. 25 La commissione, costituitasi la prima volta nel 1953 aveva loscopo di definire chi doveva far parte delle cosiddette “classisvantaggiate” a cui, secondo la Costituzione, erano riservatiparticolari privilegi, fra cui una percentuale nell’impiegopubblico. (Idem, pp. 194-95). 26 Idem, p. 415.

15

Per mobilitare l’opinione pubblica e sollecitarne il supporto,

Advani annunciò di voler intraprendere un Rath Yatra dal 25 settembre

al 30 ottobre. Tale mossa palesava come il BJP stesse cercando di

lavorare autonomamente, distanziandosi dalla politica di Singh, per

potersi presentare come partito singolo alle prossime elezioni,

manifestando apertamente il suo sostegno al VHP. Con lo yatra di

Advani si passò direttamente alla strumentalizzazione della

mobilitazione religiosa: il presidente del BJP percorse 10.000

kilometri in un veicolo disegnato per somigliare ad un carro epico,

decorato con il simbolo del partito, il loto e la sillaba Om.

Advani lasciò Somnath il 25 settembre, pianificando di percorrere

otto stati prima di raggiungere Ayodhya il 30 ottobre, data in cui

si sarebbe inaugurato il Kar seva, ossia l’inizio della costruzione

del tempio da parte di volontari (karsevak) che avrebbero espresso

la loro devozione attraverso il lavoro. L’organizzazione del Rath

Yatra seguiva le modalità degli altri yatra realizzati dal VHP:

evocare una comparazione con le classiche processioni indù,

cercando di trasmettere un senso di unità e collettività basato su

canoni religiosi.

Advani raggiunse New Delhi acclamato dalla folla. Fu allora che

V.P. Singh si trovò in difficoltà: egli aveva cercato di negoziare

con le “forze indù” per non perdere il sostegno del BJP ma, dato

l’andamento della processione di Advani, si trovò costretto a

gestire una situazione che avrebbe potuto allontanare altri suoi

sostenitori. Il primo ministro cercò di organizzare un meeting di

tutti i partiti politici per pronunciarsi in favore del

mantenimento dello status quo ad Ayodhya, ma fu boicottato dal BJP.

Il 17 ottobre Advani annunciò che avrebbe ritirato il suo appoggio

16

al governo Singh se il primo ministro gli avesse impedito la

costruzione del tempio. Singh cercò di trovare una soluzione di

compromesso ma senza risultato; perciò optò per una condotta più

rigida, decidendo così di far arrestare Advani il 23 ottobre. La

risposta indù a questa risoluzione fu la violenza. In molte parti

dell’India scoppiarono disordini contro i musulmani anche in

relazione all’annuncio del BJP del ritiro dell’appoggio al governo

Singh e al lancio di un Bharat Bandh, una sorta di sciopero

nazionale: nei distretti in cui i musulmani si rifiutarono di

chiudere le proprie attività in supporto di questo, gli indù

reagirono con la violenza.27 Dal 1° settembre al 20 novembre in 26

località gli scontri causarono 100 vittime. Nonostante ciò i

militanti indù andarono avanti nel loro progetto: realizzare il Kar

seva.

Il Kar seva e i nuovi martiri

Nonostante le misure cautelari prese dai vari stati confinanti

con l’Uttar Pradesh e nonostante gli arresti preventivi di oltre

150.000 persone, migliaia di volontari riuscirono a giungere ad

Ayodhya con lo scopo di eseguire il Kar seva il 30 ottobre 1990.

All’alba del 30 ottobre 1990 circa 40.000 karsevak erano arrivati

all’entrata della città. Diversi tentativi di superare i blocchi

furono fermati, ma quando la folla aumentò diventando irrequieta

per l’ingresso di alcuni leader nella moschea, il CRPF (Central

Reserve Police Force), chiese al magistrato distrettuale e lo

ottenne, il permesso di usare la forza, incluso il fuoco.28 Data la

scarsa capacità della polizia locale di controllare la situazione,

27 Ashis Nandy et al., op. cit., pp. 11-17.28 Idem, p. 28.

17

l’operazione passò nelle mani del Border Security Force. A fine

giornata, a causa degli attacchi alla polizia e dell’ingresso di

alcuni volontari nel sito della moschea con successiva deturpazione

delle cupole della moschea, il fuoco della polizia aveva ucciso sei

persone, anche se il VHP riportò che fossero almeno una

cinquantina. Le forze paramilitari giustificarono la loro azione

sia come atto di difesa, sia per evitare la distruzione della

moschea. La morte di questi karsevak ebbe effetti psicologici molto

profondi: l’insicurezza indù si trasformò in completa

disapprovazione delle autorità politiche; l’odio venne incanalato

contro i musulmani che in questo evento non avevano affatto

partecipato, né erano la causa delle morti. Le violenze

antimusulmane furono giustificate come vendetta per i martiri del

Kar seva.29

Il governo di V.P. Singh perse la maggioranza in parlamento e al

suo posto Chandra Shekhar divenne primo ministro con il supporto

del Congress.

Ultimi mesi della Babri Masjid

Il 9 luglio 1992 karsevak e sadhu avviarono la costruzione

del tempio,30 sebbene la sentenza dell’alta corte avesse vietato

l’edificazione di strutture durature sul terreno vicino alla

moschea acquistato dal VHP e dal BJP. Tuttavia Kalyan Singh,

esponente del BJP al potere in Uttar Pradesh, propose come

soluzione un Kar Seva simbolico, consistente nell’esecuzione di

rituali su una parte della terra contesa.

Alla fine di novembre, 195 compagnie di gruppi paramilitari si

29 Christophe Jaffrelot, op. cit., p. 420.30 Ashis Nandy et. al., op. cit., p. 181.

18

erano mossi verso Ayodhya e Faizabad, nonostante le proteste di

Kalyan Singh che riteneva avrebbero peggiorato la situazione

nelle due città. Il governo centrale li considerava invece

necessari per preservare la stabilità minacciata dall’arrivo

dei karsevak. Infatti il 27 novembre più di 10.000 volontari

avevano già raggiunto Ayodhya e il 5 dicembre il loro numero

ammontava a 150.000. Tale massiccia mobilitazione stupì i

nazionalisti indù, spingendo i leader del BJP a riprendere

parte attiva nel movimento. La mattina del 6 dicembre 1992 i

karsevak si erano radunati intorno al recinto della Babri Masjid,

controllati da un piccolo gruppo di uomini dello RSS. La

situazione iniziò però a degenerare con l’arrivo dei leader del

Sangh Parivar. Simultaneamente altri gruppi entrarono dalla

parte posteriore e laterale della moschea incominciando a

lanciare sassi contro la polizia che aveva deciso di non

intervenire. I giornalisti che tentarono di scattare foto

dell’evento furono attaccati, il PAC che stazionava nelle

vicinanze non riuscì ad intervenire mentre il CRPF che

usualmente si trovava dentro l’area contestata, abbandonò la

postazione. Le tre cupole della moschea, nel pomeriggio, una

dopo l’altra furono abbattute.31

I leader politici e religiosi assistettero alla distruzione da

spettatori, pur essendosi impegnati a tenere sotto controllo la

situazione. Questa mancanza di azione ha indotto molti studiosi

e critici a ipotizzare che tutto l’evento fosse stato

progettato precedentemente. Il leader dello RSS Deoras attribuì

la demolizione ad elementi esterni che non facevano parte dei31 Ramesh Thakur, “Ayodhya and the Politics of India’sSecularism”, Asian Survey, vol. XXXIII, n. 7, Luglio 1993, p. 658.

19

karsevak ben disciplinati e da loro preparati. Molti indizi però

dimostrerebbero il contrario: come ha riportato Jaffrelot, la

stessa presenza di gruppi distinti indossanti bandane diverse

sarebbe stato indice di pianificazione; anche la presenza di

strumenti adatti alla demolizione avrebbe fatto pensare al

conseguimento di un piano, dato che martelli e mazze ferrate

non sarebbero stati necessari per un Kar Seva simbolico.32 Dopo la

demolizione della moschea Advani si dimise da leader

dell’opposizione e Kalyan Singh da capo del governo dell’Uttar

Pradesh, assumendosi la responsabilità morale dell’accaduto.

Alcuni leader del Congress avevano richiesto le loro dimissioni

anche prima e, a posteriori, questo li portò a criticare

fortemente la politica tenuta dal primo ministro Rao che aveva

dato fiducia al governo del BJP. Il primo ministro dopo quattro

settimane dall’evento diede il permesso agli indù di pregare

dinanzi alle immagini di Ram lalla poste nel tempietto

provvisorio che era stato costruito.33 Permettendo ciò, egli

rendeva impossibile la ricostruzione della moschea sullo stesso

sito, perché questo avrebbe comportato la distruzione del nuovo

tempio. Tale decisione fu presa dopo la diffusione dei

risultati di sondaggi secondo i quali la maggioranza degli indù

disapprovava la rimozione degli idoli e la sostituzione del

tempio con un’altra moschea. Il governo cercò di adeguarsi non

definendo quando e dove avrebbe ricostruito la struttura.

Naturalmente ciò determinò un notevole calo di prestigio del

Congress agli occhi dell’elettorato musulmano e rafforzò il

32 Christophe Jaffrelot, op. cit, p. 455.33 Manju Parikh, “The Debacle at Ayodhya”, Asian Survey, vol.XXIII, n. 7, Luglio 1993, p. 679.

20

sostegno degli indù al BJP.34

Per i nazionalisti indù che ritenevano la Babri Masjid un

emblema della sottomissione del loro popolo, la sua distruzione

soddisfaceva un duplice obiettivo: dimostrare ai loro seguaci

che aver contributo alla vittoria elettorale del BJP aveva dato

i suoi frutti e cancellare un segno di umiliazione della

storia. A livello politico, tuttavia, la mobilitazione

religiosa portò a due contraddizioni: da una parte, privava il

trinomio RSS-VHP-BJP del suo simbolo più potente, dall’altra

dimostrava quanto peso ormai avessero per la loro politica le

figure religiose.35 La strategia di mobilitazione religiosa

aveva creato uno spostamento di equilibri di potere all’interno

del nazionalismo indù. Il BJP e lo RSS presero consapevolezza

che l’aumento delle violenze inter-comunitarie poteva colpire

quella parte di popolazione più abbiente che li aveva

sostenuti, causandone l’allontanamento. Jaffrelot ipotizza che

l’atteggiamento ambiguo di Rao dipendesse dall’intento di

evitare il confronto diretto con i nazionalisti indù, temendo

che una risposta troppo aggressiva li avrebbe dipinti più come

martiri che colpevoli. Il comportamento del governo oscillò tra

fermezza e spirito di conciliazione.

Mitizzazione e massificazione del culto di Ram

Mentre nel passato i sovrani indù riuscirono a far

coincidere e far accettare alla popolazione una storia di Ram

che, grazie ad uno specifico linguaggio iconografico e alla34 Ramesh Thakur, “Ayodhya and the Politics of India’sSecularism”, Asian Survey, vol. XXIII, n. 7, Luglio 1993, p. 660. 35 Christophe Jaffrelot, op. cit., p. 458.

21

giusta legittimazione culturale, apparisse al contempo epica,

mitica, umana ma soprattutto divina, i sostenitori del VHP lo

dovettero storicizzare per dar credibilità alle loro pretese.

Pur essendo palese che le sue richieste si basavano su miti e

credenze popolari, questi furono presentati come evidenze

“storiche”. Per ottenere ciò si fece grande uso della tecnica

di citazione, considerata più importante della verifica delle

documentazioni stesse: semplicemente aggiungendo un Itihas sakshi

hai (la storia è testimone) essi credevano di poter presentare

le narrazioni come fonte di verità assoluta.36 Storia e mito

erano usati in modo funzionale: quando la storia proposta era

criticata e dimostrata fallace, si cercava legittimità nel

mito, affermando che credere in esso era un fattore di fede su

cui nessun tribunale o governo potesse decidere.

La presenza dei musulmani venne completamente demonizzata:

erano coloro che avevano posto fine al glorioso passato indù,

portando solo distruzione e declino. L’unica possibilità per

ripristinare la situazione era un ritorno alla originale gloria

indù. Infatti, secondo Bhattacharya, dato che in India gli

esperimenti moderni di laicità e razionalismo erano falliti

portando ad una crisi nella società, l’unico modo per

permettere la sopravvivenza della nazione era l’aggressione

politica. Come dimostra lo studioso, la politica della

Ramjanmabhumi non cercava di difendere i miti, le pratiche e i

valori tradizionali indù, ma di appropriarsi di una tradizione

36 Neeladri Bhattacharya, “Myth, History and the Politics ofRamjanmabhumi”, in Sarvepalli Gopal, Anatomy of Confrontation, op.cit., p. 124.

22

leggendola in chiave comunitarista.37 Tutto il passato indiano

veniva riletto in tale chiave: così la nuova storia di Ayodhya

si incentrava sulla sacralità del Janmasthan e di come questo

fosse stato oltraggiato dai musulmani. Grazie all’uso di un

linguaggio semplice e popolare, la storia narrata dal VHP era

stata capace di arrivare alle masse non istruite, a differenza

di quella degli storici laici che scrivevano in inglese e per

un pubblico ristretto. Oltre all’uso delle parole giuste,

determinati messaggi vennero inculcati e ripetuti nelle menti

attraverso diversi mezzi di comunicazione: audiocassette,

poster, figurine, libretti e pamphlet. La cronologia risultante

da tutte queste fonti giustificava la lotta del VHP perché

dimostrava l’incessante battaglia compiuta degli indù per

liberare il Janmasthan sin da secoli a.C.38 Lo scopo di questa

storia era enumerare le molte occasioni in cui gli indù erano

sorti in difesa del Janmasthan, catalogando il loro enorme

sacrificio. La storia dunque diventava un mezzo, stimolato

dall’accuratezza statistica e dalla precisione con cui erano

riportati gli eventi, per spingere i fedeli all’attivismo e al

sacrificio.39

Analizzando il materiale divulgato dal VHP si nota come

cercasse di delineare dei precisi confini tra il “noi indù” e

il “loro musulmani”. Esemplare di questo era il pamphlet Angry

Hindu? Yes, Why Not?, in cui si sottolineava la necessità

dell’aggressione, tema fondamentale della propaganda del VHP.

37 Idem, p. 131. 38 Gyanendra Pandey, “The New Hindu History”, South Asia, vol.XVII, 1994, pp. 100-101. 39 Idem, p. 103.

23

Le invasioni musulmane e l’indipendenza dell’India erano i due

eventi storici cardini della storia indù e dei suoi cambiamenti

politici. Babur era un invasore straniero e con lui tutti i

musulmani indiani che iniziarono ad essere chiamati Babur ki aulad

(progenie dell’invasore). Il governo musulmano aveva ridotto in

schiavitù gli indù, schiavitù che si era mantenuta anche dopo

l’indipendenza, quando, nonostante il laicismo dello stato, non

era ancora stato permesso loro di costruire un tempio in uno

dei loro siti più sacri.40

La battaglia per la Ramjanmabhumi dunque si presentava come il

giusto mezzo per rispondere a secoli di maltrattamenti e

tirannia islamica: poiché i musulmani del passato avevano

oppresso gli indù, quelli del presente ne avrebbero pagato le

conseguenze. La “colpa” di Babur si era trasmessa alla comunità

che rappresentava. Secondo questa linea di pensiero, essendo

stato nel passato distrutto il tempio indù, la moschea lo

sarebbe stata nel presente. Tale proposito era accettato anche

perché, agli occhi del VHP, la Babri Masjid non era un edificio

religioso ma un simbolo della sottomissione al potere islamico:

la sua distruzione era una tappa necessaria per il movimento di

liberazione degli indù. Coloro che aspiravano a questa

“emancipazione” erano così stimolati a riconoscersi nel

movimento Ramjanmabhumi, che iniziò ad utilizzare una nuova

iconografia di Ram. 41

Come Ram divenne simbolo dello “angry hindu”

Anuradha Kapur nel suo articolo Deity to Crusader: The Changing

40 Idem, p. 110. 41 Neeladri Bhattacharya, op. cit., p. 128.

24

Iconography of Ram, dimostra che il Ram creato dal movimento

Ramjanmabhumi si distaccava fortemente dalla iconografia

classica dell’avatara e dal significato che la bhakti aveva

affidato alla sua persona.

Come spiega Kapur, le icone nascono per rappresentare le

caratteristiche essenziali di una divinità: il corpo, la

postura, le espressioni, tutto intercorre a trasmettere il

senso profondo di quella. L’iconografia tradizionale tendeva a

mostrare Ram insieme a Janaki e Lakshmana, posti spalla contro

spalla con lo sguardo fisso all’orizzonte e il volto

sorridente; Hanuman di solito era di profilo, ai loro piedi.

Ram era sempre raffigurato con l’arco, ma mai nell’atto di

usarlo. Il rasa42 che si voleva manifestare era lo shanta rasa, una

sensazione di benevolenza e tranquillità.43 Tradizionalmente

infatti, le armi simboleggiavano l’energia, il temperamento e

la funzione di una divinità, aiutando anch’esse a esplicarne il

valore. Questo perche Ram era concepito per rappresentare il

mediatore dell’ordine universale: egli era il giusto esempio di

comportamento etico (maryada), simbolo di amore e compassione

(patitpavan kripanidhan), di auto sacrificio e lealtà al dovere

(kartavyanishtha).44

Le diffusione in India di nuove tecniche artistiche nel XIX

42 Questo è il termine che nell’estetica indiana indical’essenza di un sentimento o di un’emozione.43 Anuradha Kapur, “Deity To Crusader: The Changing IconographyOf Ram”, in Gyanendra Pandey, Hindus and Others, Viking PenguinIndia, New Delhi, 1993, p. 74. 44 Enrico Fasana, “Mandal and Mandir: Religion and Society inIndipendent India”, in Bakshi K.N., Scialpi F. (a cura di), India1947-1997 Fifty Years of Indipendence, Istituto Italiano per l’Africa el’Oriente, Roma, 2002, p. 81.

25

secolo, portarono una innovazione nella rappresentazione delle

icone: i colori ad olio, le stampe, le litografie, riuscivano a

trasmettere una nuova caratteristica alle immagini, il

realismo. Questo, unito ai valori dell’induismo militante,

aggressività e mascolinità, dava una nuova sensibilità nella

resa dei corpi, più muscolosi per gli uomini e delicati per le

donne. I colori ad olio erano in grado di rendere palpabile il

peso e il volume delle figure e materiali gli oggetti che le

decoravano. Con queste nuove tecniche si realizzò la

possibilità di inserire le divinità in un piano reale che

l’osservatore poteva considerare a sé contemporaneo, con

l’impressione dunque di sentire gli dei più prossimi.45

Nei poster diffusi dopo la nazionalizzazione del caso, i canoni

furono rovesciati: Ram era spesso raffigurato da solo,

riccamente armato e pronto per la guerra. Era un Ram ugra,

furioso. L’aggressività trovava la sua espressione nei muscoli

tesi, nello sforzo di tendere l’arco, nei capelli lasciati

sciolti al vento. Il dio era spesso ritratto nella posa di

scagliare una freccia, con ai suoi piedi un tempio, immagine

del futuro progetto di quello del Janmasthan. Ram divenne un

guerriero alla stregua di Ben Hur, El Cid, dello stesso Bhima e

Arjuna delle serie televisive indiane. Come questi eroi, anche

lui si trovava a combattere per il possesso, per il controllo e

il ripristino del proprio status.46

Analizzando anche la simbologia della Toyota DCM che era stata

usata per fungere da carro di Ram durante il Rath Yatra di

Advani, Richard Davis riconosce uno schema decorativo molto45 Anuradha Kapur, op. cit., p. 99. 46 Idem, pp. 104-105.

26

complesso ed eterogeneo. Il design generale della macchina

riprendeva il modello del carro di Arjuna come era stato

realizzato durante la serie televisiva Mahabharata; sul cofano,

su uno sfondo dorato, era stampato l’itinerario della

processione, da Somnath ad Ayodhya; dei leoni rampanti di

profilo erano stati posti sugli sportelli insieme a fiori di

loto da otto petali. La porta del vano posteriore era stata

coperta con il disegno del cakra. Nel retro della macchina,

sotto due grandi Om, era appeso il ritratto di Advani.47 Secondo

Davis, la scelta di ogni singolo simbolo fu accurata: nel

selezionare un assortimento eterogeneo di immagini indù

convenzionali, il VHP, e con esso il BJP, non cercava di

manifestare l’induismo classico, quanto di crearne uno nuovo

che unisse tutte le sfaccettature delle sette presenti in

India, di cui la Ramjanmabhumi potesse diventare l’emblema e il

Ramarajya una nuova configurazione politica e religiosa.48 Anche

la scelta di iniziare lo Yatra a Somnath aveva un significato

ideologico evidente: la città era il sito di uno dei più famosi

episodi di distruzione di templi avvenuto in India da parte di

Mahmud di Ghazna nel 1026. Per tale motivo nella storia del VHP

Somnath aveva una posizione preminente: rappresentava il primo

segno del riscatto indù. Infatti nel 1950 l’antico tempio era

stato ricostruito, diventando così un importante precedente di

sostegno governativo nella ricostruzione di un tempio.49

Al passaggio della Toyota avevano partecipato anche individui47 Richard Davis, “ The Iconography of Ram’s Chariot”, in D.Ludden, Making India Hindu, Oxford University Press, New Delhi,2007, p. 28. 48 Idem, p. 33. 49 Christophe Jaffrelot, op. cit., pp. 84-85.

27

che si erano identificati completamente con la marcia e che,

vestiti come Lakshmana, Hanuman, lo stesso Ram e Shiva, si

erano armati di tridenti e archi. La presenza di queste armi, e

i toni che in alcune occasioni assunse la marcia, fece sorgere

i disordini civili che portarono all’arresto di Advani il 23

ottobre. La degenerazione ulteriore della manifestazione si

ebbe quando alcuni karsevak penetrarono nella Babri Masjid

riuscendo a porre delle bandiere color zafferano sulle cupole,

danneggiando la struttura. Nonostante la gravità delle azioni,

il VHP sosteneva che si trattasse di manifestazioni spontanee

da parte della popolazione indù, finalmente risvegliatasi per

mostrare la sua unità. 50

La recettività delle masse a questo nuovo significato fu

aiutata dalla trasmissione del Ramayana in televisione: 78

episodi narrarono la storia del poema tra il 1987 e il 1988. La

serie, ideata da Ramanand Sagar, divenne subito popolare,

soprattutto nell’India del nord, suscitando fenomeni di fervore

religioso per cui alcuni ritenevano che guardare un episodio

equivalesse all’avere il darshan del dio.51 In tal modo prima

dello Rath Yatra di Advani52 alla popolazione indù era già stata

presentata la nuova versione di Ram nei panni di eroe storico

50 Richard Davis, op cit., p. 48.51 Christophe Jaffrelot, op. cit., p. 389. 52 Fino ad allora infatti il movimento aveva avuto solocarattere regionale. Lo Yatra invece fece divenire la contesasul sito della Babri Masjid un tema centrale del dibattitopubblico in India. Fu proprio la tematica di Ayodhya chetrasformò il BJP da partito periferico della destra aprincipale partito di opposizione al Congress, grazie alla suaabilità di manovrare l’elettorato (Richard Davis, op. cit., p.30).

28

nazionale.

Come si è già detto, la mobilitazione indù era ritenuta

dal VHP una risposta spontanea della popolazione. Questa

spontaneità si era manifestata sin dai primi meeting

organizzati dal VHP e dallo RSS in cui sadhu e sannyasi avevano

partecipato di propria iniziativa. Durante questi incontri

però, i discorsi dei “santoni” avevano poco a che fare con la

spiegazione di testi e idee religiose: essi davano piuttosto

indicazioni politiche ed esortavano all’attivismo. Infatti, il

loro compito non era illuminare i presenti con le proprie

conoscenze ma piuttosto ripetere il programma che il VHP e lo

RSS avevano delineato. Le due organizzazioni gestivano i

meeting dal retroscena, assumendo apparentemente una posizione

subordinata rispetto a quella dei sadhu presenti, sempre per

dare l’impressione che tutto accadesse in modo spontaneo. Con

Ashok Singhal, il ruolo subordinato della religione divenne più

manifesto e tuttavia si riuscì sempre a dare l’impressione

della spontaneità. Il richiamo all’attivismo entrò ben presto a

far parte del messaggio delle videocassette: in esse erano

riprese folle in marcia con lathi, bandiere e tridenti, che si

dicevano animate dall’energia che il ritorno di Ram nel 1949

aveva provocato. La violenza era la conseguenza naturale, la

risposta all’oppressione perpetrata nei secoli dai musulmani e

che richiedeva ora il risveglio del popolo e il suo

sacrificio.53

53 Tapan Basu et al.,Khaki Shorts, Saffron Flags, Orient Longman, NewDelhi, 1993, pp. 96-97.

29

Conclusioni

La storia dunque era stata manipolata e adattata per individuare

e definire gli obiettivi del futuro; le cassette, i video e lo

showroom cercavano di lavorare a livelli diversi di significato

per convergere su un unico scopo: creare un’immagine

autoritaria e stabilire una cultura indù unita nonostante le

sue varie sfaccettature. Anche questa pluralità fu adottata e

ridefinita in chiave sincretica: simboli di varie sette vennero

intesi come espressioni di un'unica entità definita Hindutva.

Adesivi di Ram, dell’Om, del tempio erano distribuiti e spesso

attaccati sulle macchine e sulle vetrate dei negozi per rendere

ridondante il messaggio, occupando lo spazio visivo quotidiano

degli individui e diffondendo l’impressione che ci fosse una

intensificazione della religiosità nel paese.54

54 Pradip Kumar Datta, “VHP’s Ram: The Hindutva Movement InAyodhya”, in Gyanendra Pandey (a cura di), Hindus and Others, op.cit., p. 68.

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