Oltre la Bibbia, Archeologia del Culto
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Sisba –Scuola Interateneo di Specializzazione in Beni Archeologici
“Oltre la Bibbia” di Mario Liverani
“Dal terreno al divino. Archeologia del culto nella Palestina del primo millennio” diIda Oggiano
Specializzanda:Marta Narducci
Esame di Storia Orientale AnticaProf. Lucio Milano
Sommario
Immagine di copertina p. 1
Citazione di apertura p. 2
Struttura del libro
Prefazione p. 3
Imprinting p. 4
Parte Prima. Una storia normale p. 6
Intermezzo p. 17
Parte Seconda. Una storia inventata p. 20
Epilogo p. 29
Sviluppo dei punti nodali p. 30
Considerazioni personali p. 31
Fonti p. 35
“Oltre la Bibbia” di Mario Liverani
IMMAGINE DI COPERTINA
La tomba di Abshalom nella valle del Kedron: perché l’immagine di James Clark? Abshalom,
Assalonne secondo alcune versioni, fu uno dei figli ribelli di David, secondo una tradizione
medievale ebraica, il monumento conico nella valle del Cedro, era la sua tomba; ebrei, cristiani e
musulmani portavano qui i figli a colpire la tomba con delle pietre (che hanno parzialmente
rovinato la facciata) per ricordare la sorte della prole ribelle e maledirlo per le sue imprese. Uccise il
fratellastro Amnon per rapire la sorella Tamar, fuggito a Ghesur, ci vollero tre anni per poter tornare
e vedere il re suo padre, quattro anni dopo sobillò una ribellione contro il padre facendosi re
(2Samuele 2:13-16). La valle del Cedro (detta anche valle di Giosafat e valle del Re) è uno dei posti
più sacri di Gerusalemme, tra la città vecchia di Gerusalemme ed il monte degli Ulivi. La tomba
con copertura conica, insieme a quella di Zaccaria (curiosamente, il monumento vicino alla tomba
di Abshalom è chiamato tomba di Zaccaria, attribuito al Zaccaria biblico, figlio del gran sacerdote
Yéhoyadah. Verso la fine del V secolo d.C., le reliquie di Zaccaria del Nuovo Testamento vennero
deposte nel monolite piramidale, attualmente conosciuto come la tomba di Zaccaria) e dei figli di
Hezir, è tra le più antiche del cimitero, costruite tra il II ed il I secolo a.C.; probabilmente però,
Abshalom, non fu seppellito in questa struttura, costruita centinaia di anni dopo la sua morte.
L’attribuzione, è stata fatta sulla base di un passo della Bibbia, 2Samuele 18:18 che recita: “Ora
Assalonne, mentre era in vita, si era eretta la stele che è nella Valle del Re; perché diceva: ‹‹ Io non
ho un figlio che conservi il ricordo del mio nome››; chiamò quella stele con il suo nome e la si
chiamò di Assalonne fino ad oggi”. Nel 2003, fu scoperta, grazie alla luce dell’alba, un’iscrizione in
caratteri greci commemorativa della morte e del martirio di Zaccaria, padre del Battista. “Questa è
la tomba di Zaccaria, martire, sacerdote molto pio, padre di Giovanni.” Sulla morte e martirio di
Zaccaria non vi sono indizi biblici, una tradizione del IV secolo d.C., lo vuole seppellito con
Simeone e Giacomo, fratello di Gesù, nella valle del Cedro; lo storico ebreo Josephus dice che fu
ucciso dagli Zeloti nel tempio e gettato nella valle del Kedron, spiegando il riferimento al martirio
nell’iscrizione. La Bibbia riferisce invece di Giacomo, che fu allontanato dal tempio ebreo, colpito a
morte nella valle del Cedro e seppellito poco distante, nulla riguardo a Simone. Secondo gli
studiosi, l’antropologo Joe Zias e l’epigrafista Emile Puech, è stata incisa da bizantini cristiani (sia
per i caratteri che per la presenza della parola “martire”) che nel IV-V secolo d.C., guidati da Elena,
madre dell’imperatore Costantino che scelse il sito, ora contrassegnato dalla chiesa del santo
Sepolcro, dove Gesù fu sepolto, viaggiavano per la terra santa alla ricerca di luoghi di tradizione
biblica. L’iscrizione, incisa sulla facciata di uno dei tre monumenti costruiti per l’aristocrazia di
Gerusalemme, si trova sull’arco d’entrata a circa 9 m d’altezza, le due righe, lunghe ciascuna 1,2 m,
sono scritte in caratteri di epoca bizantina di circa 10 cm di altezza, a queste, si sono aggiunte, sei
linee d’iscrizione, sempre in caratteri greci, che riportano un passo del Vangelo di Luca 2:25, dove
parla di Simone, in greco Simeone, l’uomo che cullò Gesù, riconoscendolo come Messia. Il
passaggio, è identico alla versione del IV secolo della Bibbia, il Codex Sinaiticus, revisionato poi
ampiamente. Scoperte archeologiche che confermano la narrazione biblica o che si riferiscono a
figure della Bibbia sono rare, secondo Jim Frange, studioso del Nuovo Testamento dell’Università
del Sud della Florida, per gli antichi, incidere le Sacre Scritture sui monumenti, ne sviliva autorità e
significato, ed il suo uso si attesta solo in Europa a partire dall’anno 1000 d.C., questa scoperta offre
un nuovo sguardo sulle tradizioni locali che circondano i primi secoli della chiesa cristiana, e
permette di comprendere come la complessa stratigrafia narrativa e storica abbia ricoperto sotto la
coltre del tempo le epoche che precedettero l’arrivo del messia cristiano, Gesù il Nazzareno Re dei
Giudei, morto sotto Ponzio Pilato. Secondo Stephen Pfann, studioso del testo biblico e preside
dell’Università della Terra Santa, è una testimonianza molto importante per la storia della cristianità
bizantina, che potrebbe mettere in condizione di confermare l’esistenza di una tradizione in loco,
quando i pellegrinaggi bizantini a Gerusalemme trasformarono tombe sepolcrali giudee in meta di
pellegrini cristiani.
CITAZIONE DI APERTURA
Dalla Bereshit Rabba XVI.4: “Tutti gli imperi possono chiamarsi Assiria, perché si arricchiscono
su Israele. Tutti gli imperi possono chiamarsi Egitto perché tiranneggiano Israele.” In ebreo Genesi
Rabba, uno dei testi del periodo del giudaismo classico, comprendente antiche interpretazioni
rabbiniche del libro della Genesi e nato nella Palestina cristiana del III secolo d.C.. Il giudaismo è la
religione del popolo ebraico ed insieme della sua cultura, si fa iniziare dal VI secolo a.C., periodo
dell’esilio in Babilonia, il centro religioso è il secondo tempio di Gerusalemme e l’istituzione
sinagogale (in ebraico “casa di riunione”) legata alla realtà della diaspora degli ebrei. La loro legge
religiosa è la Torah, l’insieme degli insegnamenti e prescrizioni rivelate da Dio attraverso Mosè e
raccolti nei cinque libri del Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). La
Bibbia di Gerusalemme, usata dalla Chiesa, è stata tradotta per l’Antico Testamento dal testo
Masoretico, un testo ebraico vocalizzato tra il VI ed il X secolo d.C. dai Masoreti, maestri ebrei, per
il Nuovo Testamento dal greco. La Bibbia ebraica, fissata dagli ebrei di Palestina sull’inizio dell’era
cristiana è conservata dagli ebrei moderni e per l’Antico Testamento dai protestanti, è divisa in tre
parti: la legge, i profeti, gli scritti. La Bibbia greca dei Settanta è la più antica traduzione del testo
ebraico ed aramaico dell’Antico Testamento in greco ed ebbe inizio nel III secolo a.C., rimanda ai
70 saggi che vi lavorarono, (evidente il rimando simbolico al 7 numero della pienezza), ed è
destinata agli ebrei della diaspora, comprende i libri della Bibbia ebraica tradotti in greco, libri che
non appartengono alla Bibbia ebraica, libri apocrifi; dalla LXX, attraverso il latino della Vulgata
(“edizione per il popolo”, realizzata all’inizio del V secolo da Sofronio Eusebio Girolamo, fino al
Concilio Vaticano II, 1962-1965, ha rappresentato la versione ufficiale della Bibbia per l’intera
chiesa cattolica) è giunta fino alla forma corrente italiana. I due regni, del nord (Israele) e del sud
(Giuda), restano fianco a fianco per molto tempo, culturalmente simili ma politicamente molto
differenti, fino a quando, il regno del nord, segnato da intrighi, colpi di stato ed omicidi, a
differenza del più stabile regno di Giuda, vede la sua fine per mano assira, con la conquista della
capitale e la deportazione della maggior parte della popolazione. Nel verso d’introduzione riportato
dal Liverani, i grandi nemici dell’affermazione del popolo eletto da Dio sono Egitto ed Assiria, ma
tutti i tiranni e tutti gli sfruttatori possono chiamarsi Assiria ed Egitto perché cercheranno sempre di
ostacolare il disegno divino, di affermazione di un popolo eletto, nell’eterna lotta tra bene e male,
metaforizzati dal ricorrente patto/punizione del rapporto tra Yahweh/popolo. L’interpretazione
rabbinica del Libro della Creazione pone l’accento sui regni che oppressero Israele, che li annullò
come entità etnica e dal cui giogo solo la fedeltà a Dio li ha liberati, saranno soltanto gli esuli in
Babilonia, provvisti anche dei membri dell’elite cittadina a compattarsi e ricostituirsi come unità
nazionale, sia a livello linguistico che soprattutto religioso. Questo popolo minore, gli israeliti, vive
tra II e I millennio, la prima fase della sua storia, all’ombra dell’Egitto, influenzato dai fenici, in
lotta con gli aramei e con le nazioni circostanti, poi, oppresso da assiri e babilonesi, viene
schiacciato militarmente da questi ultimi, ma riuscirà a riemergere con una nuova fisionomia
culturale e religiosa di matrice esilica, durata fino ai nostri giorni.
STRUTTURA DEL LIBRO
Prefazione: il Liverani afferma di non essere un Alttestamentler (studioso del vecchio
testamento) e quindi di non voler descrivere Israele parafrasandone la storia contenuta nel testo
biblico come fatto finora, ma di voler scrivere “l’ennesima” storia d’Israele su base storica,
dimostrando l’inattendibilità della Bibbia come retroiezione post-esilica, intesa a giustificare l’unità
nazionale e religiosa ed il possesso della terra per i gruppi di reduci dall’esilio babilonese.
L’archeologia d’altra parte, ha confermato l’assenza di prove a conferma dei testi biblici, che hanno
fatto della normale storia di uno staterello spazzato via dalla conquista assira, la storia di un popolo
eccezionalmente predestinato. Già alla fine dell’ottocento i filologi tedeschi misero in dubbio i
racconti biblici, arrestandosi però al regno unito di David e Salomone considerato sostanzialmente
storico, convalidando la ricostruzione dell’entità etnica, politica e religiosa dei reduci dell’esilio. Il
Liverani si propone così di rimontare i materiali letterari all’epoca della loro redazione e definire
due racconti della storia d’Israele, la storia normale di un paio di regni dell’area palestinese
praticamente cancellati dalla conquista assira e babilonese, e la storia inventata ed eccezionale, base
per la fondazione di una nazione, Israele, e di una religione, il giudaismo, che avrebbero influenzato
il corso della storia a livello mondiale. L’evento particolare si ha con Giosia, re di Giuda, che volle
dar vita ad un regno unito Giuda-Israele, tra la fine dell’Assiria ed il decollo di Babilonia,
sostanziando il tentativo sul piano religioso con il monoteismo yahwista e la legge “mosaica”.
Imprinting : dall’inglese, “prendere forma”. Elementi determinanti furono la conformazione
ambientale e geografica di queste terre ed il ruolo della politica imperiale egiziana.
La Palestina nel Tardo Bronzo (secoli XIV-XIII ): già evidenzia i contrasti, la realtà storica e
geografica modesta, e la fascinosità della terra santa e promessa, idealizzata e valorizzata dal suo
stesso popolo, creata dalla stratificazione storica del paesaggio antropizzato e la stratificazione
simbolica delle memorie. L’agricoltura non è irrigua ma pluviale, alle dipendenze delle incerte
precipitazioni cui sono preposte divinità imprevedibili. Agli antipodi con il vicino Egitto, dove
l’acqua è un dato di fatto stabile che non produce ansia, già nel Deuteronomio (11:10-12) si avvisa
che l’ingresso in un paese diverso dall’Egitto, avverrà per volontà di Yahweh. Un piccolo paese di
circa 20.000 km², in cui impressiona la densità di memorie e di eventi di valenza mondiale e
ripercussioni millenarie. Il territorio è utilizzabile a scopo agricolo solo in alcune nicchie
intermontane e con una pastorizia di transumanza, con villaggi miniaturistici come in un presepio.
Le lodi del paese “dove scorre latte e miele” (Numeri 13:27), sono esagerate ma rendono l’idea di
un paese vivibile con grande fatica quotidiana dell’uomo, in Deuteronomio 8:7-8, si parla della
buona terra, con torrenti e sorgenti, grano, orzo, viti, fichi e melograni, pietre di ferro e montagne di
rame. In realtà, ai margini della mezzaluna fertile, sta una terra che ha scarsi metalli, non pietre
dure, né legnami pregiati, una costa con modestissime lagune e nessun approdo sicuro, attraversata
in fretta dalle carovane per paura degli agguati. Un paese insomma, che nell’età del tardo bronzo,
quando Egitto e Mesopotamia ospitavano milioni di abitanti, non raggiungeva neppure le 250.000
persone. L’unico ruolo riconosciuto, fonte più di sventura che ricchezza, è quello di connessione tra
Egitto ed Asia Anteriore. L’assetto o la frammentazione geopolitica della Palestina per lunghi
millenni, sono determinate dalle caratteristiche topografiche ed ecologiche, incrociate con il livello
tecnologico del mondo antico. Il termine più adatto è in questo caso “stato cantonale”, con al centro
una città di dimensioni correlate alle risorse del territorio che è in grado di drenare, e che nel caso
della Palestina vanno dimezzate rispetto ad esempio ad Ugarit nella Siria settentrionale. La cellula
base del sistema politico (20% dipendenti palatini, 20% pastori, 60% contadini), si perpetua a lungo
in Palestina, dove, la carenza di risorse, non renderà necessario il salto dimensionale di unificazione
politica, per motivi sostanzialmente topografici ed ambientali. A questo va aggiunta la marginalità
insediamentale e socio-economica e politica della Palestina, dove la popolazione si accentra in
poche zone: la costa e le colline a ridosso della costa, la piana di Yizre’el e la media e alta valle del
Giordano; zone che corrispondono nel paesaggio politico agli stati cittadini. Dall’archivio egiziano
di el-‘Amarna, una carta politica della Palestina mostra l’addensarsi dei piccoli stati nelle zone
pianeggianti e poi, quasi isolate, le due città di Gerusalemme e Sichem. Nel Tardo Bronzo la
popolazione si concentra verso le zone più dotate per l’agricoltura. Il diretto dominio egiziano dal
1460 al 1170 a.C. circa, ha influenzato in modo permanente la Palestina, il controllo avveniva per
via indiretta, i “piccoli re” locali conservavano l’autonomia ma non l’indipendenza, erano servi e
tributari del faraone. Il progetto iniziale di Tuthmosi III, il grande faraone che nel 1470-60
conquistò definitivamente la Palestina e gran parte della Siria, prevedeva un controllo diretto molto
esteso con porti e migliori terre agricole sotto diretta gestione egiziana, gli eccessivi costi lo fecero
sostituire con una gestione indiretta che ha lasciato una traccia indelebile anche dopo il venir meno
dell’impero. Il faraone era un dio incarnato, e tutta l’imagery verbale e cerimoniale relativa al modo
di rapportarsi a lui da parte dei re locali dimostra che questa ideologia era conosciuta ed accettata. Il
faraone era in effetti però un dio lontano, che i re palestinesi trovavano inerte e tacito, interessato a
tenere sotto controllo il sistema ed intervenire qualora fosse stata in gioco la permanenza
dell’autorità egiziana sul paese, l’eventuale usurpatore di un trono locale infatti, non lo
preoccupava, perché gli sarebbe stato altrettanto fedele. La capitale palestinese, cinta di mura, era
accentrata sul palazzo reale, residenza del re e della sua famiglia, sede dell’amministrazione, degli
archivi, dei magazzini e di botteghe di artigiani specializzati. La popolazione è divisa in due grandi
categorie, gli uomini del re, lavorano per lui e ne ricevono mezzi di sostentamento, e la popolazione
libera, che detiene mezzi di produzione propri e fornisce al re una quota del reddito sotto forma di
tassa. La classe alta gestisce il potere economico, la classe bassa potrebbe anche cadere nella
schiavitù per debiti. Per quanto riguarda il tempio, i sacerdoti sono considerati uomini del re, con
una laicizzazione del mondo politico mai vista in tutto il Vicino Oriente fino ad allora. Pur
all’interno di un paese dalle modeste risorse, le città palatine del XIV-XIII secolo, sono floride
economicamente e culturalmente vivaci, ospitano infatti scuole scribali di ascendenza babilonese e
l’artigianato di lusso d’influenza egiziana è documentato dall’archeologia, il commercio si svolge
all’interno del sistema regionale, che abbracciava zone urbanizzate e statalizzate, con scarse
relazioni sulle rotte del mediterraneo. I palazzi erano il centro della circolazione e tesaurizzazione di
beni di prestigio, esercitavano una pressione socio-economica sulla popolazione agro-pastorale, e
furono fautori della vistosa cultura Cananea di quel tempo, producendo un forte sbilanciamento a
lungo andare insostenibile. La maggioranza della popolazione era concentrata nei villaggi,
configurabili come unità insediative di modeste dimensioni ed al contempo unità parentelari e
decisionali. La popolazione è suddivisa in una maggioranza di case di contadini liberi e pastori ed
una minoranza di servi del re. Il villaggio, dato lo scambio matrimoniale e la suddivisione ereditaria
è un’unità gentilizia o clan, riconosciuto dall’eponimo, dotato di organismi collegiali necessari sia
alla gestione interna del villaggio che alle relazioni con il palazzo. La gestione collegiale era a due
livelli, uno, ristretto, dato dal consiglio di anziani ed uno, allargato, o assemblea popolare; per i soli
rapporti col palazzo esisteva il “sindaco”, una funzione individuale. L’unità famigliare era data da
persone impegnate nelle varie attività agro-pastorali, che però nelle liste di Alalakh sono ben
distinte tra case di pastori e case di contadini. Nei testi del tardo bronzo tuttavia, si fa riferimento a
nomadi esterni, definiti con termini tribali, la loro presenza è pericolosa, di rado vengono assoldati
come guida o scorta nell’attraversamento dei territori. Di questi nomi tribali presenti nei testi,
nessuno delle tribù d’Israele riportati dai testi biblici è attestato in Palestina alla fine dell’età del
bronzo, solo due menzioni di gruppi tribali sono connessi alla terminologia biblica ma non ai nomi
delle tribù classiche, e sono quelle degli habiru del monte Yarmuti e della tribù di Raham (antenato
eponimo un padre di Raham e cioè Abu-Raham, Abramo). Nel 1230, la stele di Merenptah celebra il
trionfo del faraone in una sua campagna attraverso la Palestina citando i nemici vinti tra cui un
nome col determinativo di gente, cioè Israele, prima menzione in assoluto del nome. Abramiti ed
israeliti erano nel XIII secolo i gruppi pastorali attivi negli interstizi dell’assetto geo-politico
palestinese, tenuti a bada dall’azione militare egiziana. Il tardo bronzo è un periodo di forti
difficoltà sociali ed economiche, dovute alla pressione palatina sui villaggi agro-pastorali, a sua
volta pressata dal faraone, che porterà i contadini liberi ad indebitarsi e ripagare i debiti con la
schiavitù, fino alla fuga nell’impossibilità di pagare il debito. Nel periodo precedente, il medio
bronzo, si tendeva a tutelare il mantenimento della proprietà in ambito famigliare con l’emissione di
editti di remissione dei debiti, ma la cultura palatina, eliminò questa possibilità proteggendo così il
proprio ruolo di creditore e maggiore beneficiario della schiavitù per debiti, i contadini, datisi alla
fuga, si aggregavano ai clan pastorali diventando habiru, termine connesso con le più antiche
attestazioni della parola con cui si traduce ebrei e cioè ‘ibri, nelle lettere di el-‘Amarna, il termine,
dal significato di fuggiasco diventerà sinonimo di nemico. L’atteggiamento duro dei re cananei,
unito all’indifferenza del faraone, porterà alla ribellione ed alla fuga della popolazione di base,
sfociando nella crisi finale dell’età del bronzo che interessò gran parte del mediterraneo orientale e
del vicino oriente.
Parte prima. Una storia normale: cioè storicamente plausibile.
La transizione (XII secolo ): l’etnogenesi d’Israele, riconosciuta come caso singolo nella grande
crisi epocale del passaggio dall’età del bronzo all’età del ferro. Le principali teorie storiografiche
sono: la conquista militare compatta e distruttiva d’ispirazione biblica sostenuta ancora da ambienti
tradizionalisti soprattutto americani ed israeliani, l’occupazione progressiva nelle due varianti della
sedentarizzazione di gruppi pastorali presenti nell’area e dell’infiltrazione dall’adiacente pre-
deserto, la teoria sociologica della rivolta contadina in voga negli anni ’70-’80 ed oggi malvista per
motivi politici. Il quadro da comporre secondo il Liverani, è multifattoriale, adatto ad un fenomeno
complesso. La società palestinese del FI confrontata con quella del TB mostra : elementi di grande
innovazione tecnologica ed insediamentale che segnano una cesura profonda ed interessano l’intero
scenario vicino-orientale e mediterraneo, elementi di continuità nella cultura materiale che
escludono l’immigrazione di genti da chissà dove (i Filistei, veri immigrati, evidenziano la loro
origine “aliena”), elementi di complementarietà nell’occupazione del territorio tra il nuovo
orizzonte agro-pastorale di villaggi ed il pre-esistente orizzonte agro-urbano con conseguente
concorrenza nella gestione delle risorse e consecutiva conflittualità. Il complesso di fattori, scandito
su tempi lunghi, e attraverso riassetti insediamentali complessivi, si coagula in un preciso momento.
Il tempo sociale si concretizza in mutamenti delle competenze tecnologiche, nelle tensioni socio-
economiche, nell’evolvere dell’organizzazione politica, connessi in un momento preciso con i fatti
migratori e gli eventi politico-militari. La crisi socio-economica della fine dell’età del bronzo si
forma dal 1500 al 1200 a.C., la ricerca di un nuovo assetto durerà altrettanto (1200-900 a.C), in
mezzo alle due grandi fasi sta il lasso di tempo di convulsi eventi che si concentra nella prima metà
del XII secolo e che segna il tracollo finale della traballante società del TB. I fattori climatici e
migratori sono stati esclusi dalla fase idealistica della storiografia, tuttavia, le linee interne della
crisi finale del TB, possono essere sommate a quelle esterne di movimenti di popolazioni inquadrate
nel particolare sussulto nel processo di mutamento climatico. L’inaridimento della zona arida del
Sahara e dell’Arabia ebbe momenti di particolare acutezza attorno al 3000, 2000 e da ultimo 1200
a.C., i dati storici confermano tra XIII e XII secolo a.C., l’arrivo in massa nella valle del Nilo di
tribù libiche, le scarsissime precipitazioni sono state evidenziate dalla dendrocronologia anche per il
versante mediterraneo. In questo quadro s’inseriscono le ondate dei cosiddetti “Popoli del Mare”
che s’infrangono su tutte le coste mediterranee fino al margine del Delta dove vengono fermati
dagli egiziani, le invasioni sono registrate dall’archeologia con gravi distruzioni ed abbandoni.
Alcune di queste popolazioni, come i Filistei in Palestina, si stanziarono nelle città distrutte,
ricostruendole, sulla base del modello del regno precedente, di raggio cantonale e centrato sui
palazzi reali, ben visibili gli apporti esterni, sia nell’onomastica che nella cultura materiale. La tribù
di Dan deve il suo nome ai Danuna (Popoli del Mare nella descrizione del loro arrivo da parte del
faraone)? Il sistema regionale del VO muta completamente, Egitto e Khatti (la cui contrapposizione
aveva condizionato la politico vicino-orientale degli ultimi secoli e che si erano divise la sovranità
della striscia siro-palestinese) collassarono, così come il regno Hittita, l’Anatolia centrale occupata
dai Frigi regredisce a livello di villaggi e tribù pastorali. Il contenimento degli invasori avvenne
tramite la concessione di insediamenti in massa sulla costa palestinese, ciò, significò la liberazione
dalla sovranità straniera e la possibilità di dispiegare la dinamica politica interna. L’istituzione
palatina crolla, forse non con unico attore l’invasore dal mare, ma collassa il tipo di regno basato
sulla centralità del Palazzo, crollano le strutture amministrative, le scuole scribali con l’uso del
cuneiforme, scompaiono i maryannu (mantenuti dal re con cospicue concessioni di terre affinché
allevassero cavalli e si addestrassero all’uso del carro in battaglia). Nel TB solo i Palazzi erano cinti
di mura, nell’età del ferro anche i villaggi saranno fortificati, in un’ottica sia di autodifesa che di
pareggiamento gerarchico. A contribuire maggiormente alla configurazione del nuovo assetto
furono soprattutto i gruppi pastorali, la vicenda palestinese infatti è scandita da processi di
nomadizzazione (non visibile archeologicamente quanto il fenomeno sedentario ma evidente sia
dagli habiru che dalla progressiva riduzione di insediamenti stabili dall’AB al MB ed al TB) e
sedentarizzazione (con i nuovi insediamenti del Ferro I). Il gruppo parentelare si consolida
soprattutto sulla base dello sfruttamento territoriale. Le tribù, villaggi considerati fratelli nell’ambito
di un più ampio raggruppamento, hanno dimensione e forza nuova, tramite matrimoni incrociati, i
rapporti sociali sono rappresentati su modello genealogico, il fenomeno è conosciuto ed usato non
solo in Palestina, ma anche fra le tribù di nomadi cammellieri, Amaleciti e Midianiti, e fra le genti
aramaiche in Siria, dove Bit, Casa di…, equivale al gruppo gentilizio, come sarà per la casata di
David. L’assemblea cittadina assume ora un ruolo primario, solo attraverso la solidarietà gentilizia è
stato possibile uscire dal ristretto ambito del villaggio e diventare città. Tra TB e FI si notano
innovazioni tecnologiche e socio-economiche (lavorazione del ferro, alfabeto, addomesticamento ed
utilizzo come animale da soma del cammello e del dromedario, nuove tattiche belliche) di grande
rilievo dovute sia ad apporti esterni che sviluppi interni, è proprio la rottura delle tradizioni culturali
che facilita l’adozione di nuove tecniche, funzionali alla realizzazione del nuovo assetto territoriale.
Il ferro comportò lo sviluppo di fabbri da villaggio, cui necessitava un’attrezzatura modesta, e le
fonti di procacciamento non dipendono da commerci a lunga distanza. Già nel TB alcune
amministrazioni palatine come quella di Ugarit, avevano sostituito il complicato cuneiforme
babilonese, riflesso del prestigio e dell’esclusività della formazione scribale, con il più semplice
alfabeto, che si espande lungo le direttrici commerciali delle rotte mediterranee e delle carovaniere
della penisola araba; i grandi spazi desertici dell’Arabia, dell’Asia centrale e del Sahara, saranno
percorribili grazie all’uso di cammelli e dromedari, in luogo degli asini, più forti e più resistenti alla
fame ed alla sete. Cambia anche il ruolo degli allevatori di cammelli, prima disturbatori poi soggetti
attivi nei commerci, daranno vita alle città carovaniere. Nuove anche le tecniche di navigazione con
i grandi traffici mediterranei fenici e greci e conseguente apertura dei mari. Innovazioni tecniche si
hanno anche in campo agricolo con lo sfruttamento dei territori montani attraverso opere di
terrazzamento e disboscamento. Importanti le opere di canalizzazione, con la messa a punto di
tecniche di aridocoltura sul fondo degli wadi e la costruzione di pozzi profondi e cisterne con
intonaci a migliore tenuta idrica, in Palestina, vennero usati canali di accesso alle falde acquifere
profonde. La nuova occupazione territoriale palestinese si estese agli altopiani ed alle steppe semi-
aride, i villaggi crebbero e gli stanziamenti divennero più omogenei. Il mutamento di orizzonti se
ebbe effetti positivi da un lato, ponendo la Palestina al centro di una vasta rete di scambi
commerciali per terra e per mare, dall’altro, guardando il fenomeno più da vicino, gli altopiani
centrali, a differenza della zona costiera e della Transgiordania, restarono tagliati fuori dall’uno e
dall’altro, procurando a questa terra una nuova e costante marginalità.
La nuova società (ca. 1150-1050): la nuova società occupa gli altopiani con piccoli villaggi su
altura ed ha una formazione agro-pastorale, la popolazione può essere definita “proto-israelitica”
come nuovo complesso etnico già indicato nella stele di Merenptah alla fine del XIII secolo. In
Manasse e Bassa Galilea si ha una continuità con la cultura Cananea, in Efraim e Beniamino, Alta
Galilea e Negev si ha un’occupazione radicalmente nuova, distinguendo due fasi di evoluzione
insediamentale: un primo scenario di XII-XI secolo nelle zone semi-aride con campi pastorali di
transumanza stagionale, o negli altopiani come siti ellittici in cui le abitazioni strette e lunghe sono
disposte in cerchio attorno ad uno spazio aperto ereditando la disposizione delle tende dei nomadi,
un secondo scenario di XI-X secolo, con insediamenti ovoidali ben costruiti con case del tipo a
pilastri attorno all’area vuota centrale. Lo scenario di colonizzazione è dal basso, praticata da
piccoli gruppi famigliari che si impiantano prima in forma leggera e poi stabile. Le case, in cerchio,
tendono a formare una linea chiusa, in modo da assicurarne anche la difesa, l’unità abitativa tipica,
a quattro ambienti, ospita 5/7 persone, tipica famiglia nucleare, il villaggio su altura, con la
disposizione ad anello, corrisponde al clan, con un’estensione che al massimo copre 1ha, accoglie
100/150 persone. L’individuazione delle varie tribù è alquanto complessa, più semplice la visibilità
della frontiera tra il mondo tribale (con l’assenza di ossa di maiale) ed il residuo mondo cananaico.
Modeste anche le installazioni cultuali, aree all’aperto e unico il sacello nello strato XI di Hasor, il
fermento sociale alla base della nuova società non sembra aver avuto una matrice religiosa.
Comprensione dei processi di etnogenesi su base proto-storica, cioè con informazioni testuali
esterne e/o posteriori. I villaggi del FI come proto-israelitici si intendono con un processo in atto,
non ancora cristallizzato né auto-coscientemente pieno, che pone le basi per ciò che le fonti coeve
sui regni storici di Israele e Giuda del FII affermano. Per i villaggi del FI la documentazione scritta,
libri di Giosuè e dei Giudici, è di tradizione storiografica posteriore di parecchi secoli, quindi di
dubbia attendibilità, in particolare le descrizioni delle 12 tribù d’Israele vanno dall’VIII al IV secolo
a.C.. La tipologia delle deformazioni e delle invenzioni non è casuale, i testi utilizzati lasciano delle
tracce o spie attraverso cui retrodatare leggi, personaggi, contesti sociali. Si attribuisce al FI
l’esistenza di tribù e la strutturazione della società in una gerarchia di unità gentilizie decrescenti:
tribù, clan, famiglia allargata, famiglia nucleare; l’aggiunta di tribù o di filiazioni fittizie allo scopo
di far comparire genealogie fondanti non è impresa difficile e secondo l’autore, visto che anche la
terminologia tribale è piuttosto tardiva, il livello di tribù si è costituito in progresso di tempo, con la
sistematizzazione delle tribù e dell’idea della grande federazione tribale sul modello del grande
nomadismo del VI secolo. Riguardo alla collocazione spaziale delle tribù, conoscendone la
localizzazione attraverso i testi biblici, queste possono essere identificate con i nuovi villaggi del FI,
alcune, confluite nella lista canonica, sono funzionali o di dubbia origine, o precocemente
scomparse inducendo dubbi sulla loro esistenza. Esistette effettivamente una lega delle 12 tribù od
una confederazione israelita (ne comprende teoricamente 10, 6 partecipano all’impresa 4 ritengono
di non farlo e ne sono sbeffeggiate, la coalizione è definita Israele ed effettivamente coincide con
quello che sarà poi il regno del nord) come commentato nella Bibbia di Gerusalemme al canto di
Debora (Giudici 5)? Già nel XII secolo i gruppi umani agro-pastorali avevano tale coscienza etnica
comune? Le forme della cultura materiale sono diverse. Ad età molto antica possono risalire le
consuetudini tradizionali, che ben si attagliano alla struttura tribale, ma la gestione di situazioni di
gravità particolare, richiede la scelta di un leader carismatico che una volta passata la necessità
rientri nei ranghi. La legge, Torah, comprende le norme giuridiche cui gli ebrei si attengono, e
proviene da Mosè, dal suo dialogo con Dio sul monte Sinai, ma: come datare il Decalogo?
Sembrerebbe un’insieme di leggi provenienti da epoche diverse, o molto antiche, come il quarto
comandamento, o ben più recenti, il tempo di Giosia, come il primo comandamento. Il Codice
dell’Alleanza, a differenza degli altri testi tardivi, è pertinente alla società israelitica pre-
monarchica, come se, nella nascente società israelitica fossero presenti rivendicazioni da accreditare
all’elemento habiru, debitori alla ricerca della loro tutela e salvaguardia della loro libertà. Grande
sviluppo della pentapoli filistea (Ashdod, Ascalona, Gat, Gaza ed Ekron) tra XII ed XI secolo, che
cercherà sia di subentrare alle guarnigioni egiziane sulla costa, che d’imporre l’egemonia sui
nascenti stati degli altipiani ed espandersi a nord lungo la costa fino al Carmelo, il tutto segnato
archeologicamente dalla presenza di ceramica filistea. La presenza egiziana, come evidente dal
racconto di Wen-Amun, resta radicata, sia sul prestigio che su una presenza commerciale forte. Si
delineano due culture, quella degli stati etnici “proto-israelitici” sugli altopiani e nei tavolati interni
e quella delle città-stato, sulla costa e nelle grandi vallate.
Il processo formativo (ca. 1050-930): la formazione del mosaico palestinese si deve
fondamentalmente a tre fattori: crollo del sistema regionale nel TB e conseguente autonomia e
libertà d’azione del Levante, crisi della centralità palatina con riequilibrio del peso politico
istituzionale e socio economico delle componenti agro-pastorali di base, processi d’innovazione
tecnologica e stanziamento tribale che comportano addensamento demografico ed allargamento
degli orizzonti sia spaziali che sociali. Le tribù israelitiche si trovano a contatto sia con le città stato
della costa che con genti di origine tribale, come le tribù cammelliere (Israeliti, Midianiti,
Amaleciti) del deserto interno che tengono in mano la carovaniera. Prime aggregazioni: Ammoniti,
Moabiti, Edomiti, gruppi aramaici. Accentramento degli altopiani centrali attorno a due città
palatine: Gerusalemme e Sichem; “stati dimorfici”, rapporto urbano-tribale, pochezza delle città
contrapposta alla vigorosa crescita dell’elemento tribale, qui l’evoluzione è per linee interne, la
nuova società prende il sopravvento sugli antichi palazzi conglobandoli in una nuova formazione
politica, a differenza delle pianure, dove le piccole città stato entrano in collisione con gli elementi
tribali. Già dalle lettere di el-‘Amarna, Gerusalemme e Sichem sono connesse con l’elemento
habiru ed hanno una tendenza espansiva, Gerusalemme in particolare, assisterà alla nascita dei due
regni israelitici di Saul e David nel suo territorio, restandole il controllo di un modestissimo cantone
tra Betlemme e Gibe’a. Per Sichem l’assimilazione è progressiva, come confermato
dall’archeologia. Nel nord, piana di Megiddo e Galilea, la situazione è complessa, le zone di
pianura, insediate da una fitta rete di città stato cananee con presenze egiziane prima e filistee poi,
s’incuneano lungo la vallata d’Yizre’el, la media valle del Giordano ed il bacino del lago di
Tiberiade. Su questi centri urbani gravitano le tribù pastorali di Manasse, Asher, Zabulon e Neftali.
Degli scontri riportati dalla cronologia biblica, quello plausibile è la battaglia di Ta’anak presso
Megiddo che vede le milizie tribali della Galilea e centrali guidate da Baraq contro i carri da guerra
cananei, ebbe come esito, alla fine dell’XI secolo, il collasso del sistema delle città stato cananee
con incursione dei nomadi cammellieri e consolidamento del predominio filisteo. Intorno al 1000,
nella zona di confine tra le vecchie città stato di Gerusalemme e Sichem, si forma il primo regno
considerato dalla tradizione propriamente israelitico: Saul e la sua breve discendenza, sugli
altopiani centrali nel territorio di Efraim e Beniamino, due tribù che costituiscono una piccola unità
politica, cultuale il nord con Efraim da cui proviene il profeta Samuele, politico-militare il sud di
Beniamino. Un regno carismatico, con un capo, senza apparato fiscale ed amministrativo come
conferma l’archeologia. Dopo la sua morte e quella del figlio Ishba’al gli “anziani di Israele”
decidono di unirsi alla formazione statale nata più a sud nel territorio della tribù di Giuda ad opera
di David. La “deformazione” biblica metterà in sequenza i due regni per la costituzione di una
storia unitaria del popolo d’Israele e denigrerà la follia di Saul a vantaggio di David in un momento
in cui il rapporto tra monarchia e sacerdozio era oggetto di rilevanti polemiche. Nel sud, territorio di
Giuda, David, come “capo-banda” raccoglie “circa 400 persone” (1Samuele 22:1-2) compresi
habiru, per guerreggiare contro i Filistei, che sottomette e coinvolge. Il suo regno, Hebron,
combatterà contro quello d’Israele ed il suo re Ishba’al fino alla morte di questo e la sua
proclamazione a re di Giuda ed Israele. Della Gerusalemme di David non si hanno resti archeologici
indicativi e dovette restare una modesta formazione politica sotto l’egemonia dei Filistei. Il racconto
biblico di David, incentrato sull’ascesa e sulle lotte di successione, riflette un tipo di autobiografia
monumentale del XV secolo siriana ed una forma letteraria ampia e romanzesca non attribuibile al
X secolo. David, riuscì a trasmettere il suo regno al figlio Salomone, come una vera discendenza o
“casata”, attribuendogli così il ruolo di fondatore del tempio di Gerusalemme, ma può restare
nell’utopia il regno d’Israele perfetto ed unitario, dato che non si estese più a nord della zona di
Sichem. Alla figura di Salomone è attribuito un regno più che pan-israelitico e l’impresa della
costruzione del tempio. L’estensione biblica del regno corrisponde alla satrapia persiana della
Transeufratene, configurando un vero e proprio progetto imperiale, l’estensione pan-israelitica in
1Re 4:7-19 si basa sulla lista dei 12 distretti di Salomone, numero motivato dalla rotazione mensile
nel sostentare i bisogni del Palazzo reale. Il progetto di estensione ai territori del nord può essere
effettivamente solo quello di Giosia del VII secolo. La sapienza e giustezza salomonica sono tratti
tipici della regalità siro-palestinese del X secolo. Riguardo poi alla costruzione del tempio,
l’archeologia ha conferito una datazione bassa, a dinastia omride di Samaria, cioè IX secolo, ai
rinvenimenti di Megiddo, Gezer ed Hasor. Favolistica anche l’impresa marittima con il re di Tiro in
1Re 9:26-28 e 10:11-22? Nel 925 a.C., durante la spedizione di Sheshonq attraverso tutta la
Palestina, i regni di Giuda ed Israele sono ancora uniti sotto Salomone o sono già separati con
Roboamo a Giuda e Geroboamo ad Israele? Il percorso del faraone attraverso la lista di nomi di
luoghi toccati, messo in pianta, sembra costeggiare solamente i regni di Giuda ed Israele forse
perché separati e troppo piccoli per essere di suo interesse.
Il regno di Israele (ca. 930-740): alla morte di Salomone, l’assemblea a Sichem rigetta Roboamo
suo erede ed elegge Geroboamo, lo scisma è posto dal racconto biblico, e la realtà è la persistente
separazione dei due centri di Gerusalemme e Sichem. Beniamino confermò i suoi rapporti con
Gerusalemme e Giuda, mentre Efraim si collegò con Manasse per la comune figliolanza da
Giuseppe, dando vita ad una nuova entità politica detta Israele, utilizzando un nome legato agli
altopiani centrali sin dalla stele di Merenptah e facendo proprie la saghe patriarcali di Abramo,
giunto qui da Ur nella terra promessa Canaan e di suo figlio Isacco e suo nipote Giacobbe detto
Israele, centrate sulla zona di Sichem e Bet-El, il luogo di culto più importante. Il pericolo arameo,
nel grande regno di Damasco. Fino ad Omri, che sposterà la capitale da Tirsa a Samaria, il territorio
d’Israele, da Sichem, incluse la piana di Megiddo, Gile’ad e Galilea. La casata di Omri sarà il nome
con cui gli Assiri indicheranno Israele, fu un trentennio di stabilità e crescita, parallelo a quello dei
regni aramaici di Hamat e Damasco, il regno unito di Tiro e Sidone e la comparsa del regno di
Mo’ab, il testo biblico è antisamaritano. Con Achab si allargano le prospettive politiche d’Israele, la
sua strategia viene proseguita dai figli Ochozia e Yoram, la dinastia omride finisce per mano del
generale Yehu, che agisce per conto e col sostegno di Damasco, le motivazioni sono sia di ordine
religioso, baalismo contro yahwismo, che politico, alleanza o meglio sudditanza con gli aramei di
Damasco in posizione anti-fenicia per la gravitazione sul mediterraneo. Anche la dinastia di Yehu
conferisce al paese la stabilità e la crescita, questa prosperità per tutto il Levante entra in crisi nel
745 a.C., con l’avvento di Tiglat-pileser III in Assiria. Sotto Omri e Yehu, Israele è protagonista per
quasi un secolo nel sistema di alleanze e guerre della fascia siro-palestinese, la situazione pregressa
di contrasto con Ammoniti e Filistei aveva trovato un equilibrio, in Transgiordania invece, il regno
di Edom gravita nell’orbita di Giuda, mentre Mo’ab entra in conflitto con Israele. Nel sistema
regionale gli scontri più importanti si hanno con i regni di Damasco e Hamat con i re assiri che
tentano continuamente di estendere il loro dominio. Con Haza’el per circa 60 anni (845-785)
Damasco fu la potenza egemone di gran parte della Siria-Palestina, e di cui Israele si rassegnò al
ruolo di vassallo che la Bibbia attribuisce ad una punizione divina. Il processo decisionale alla corte
regia avveniva attraverso due canali, la consultazione umana, con tecnici esperti dei vari settori e
due organismi collegiali di anziani e di giovani, e la consultazione divina, attraverso il responso
mantico, sottaciuto dai testi biblici ed i profeti, in grado di trasmettere messaggi divini. I profeti
avevano una funzione sia politica che pubblica di grande valenza, perché in nome di Dio potevano
influenzare le scelte del re. A Samaria ed Israele regna il pluralismo religioso, rivisitato più tardi
come lotta tra il dio nazionale Yahweh ed il dio straniero e di corte Ba’al, ma effettivamente, pur se
nel IX secolo Yahweh era già il dio nazionale, il suo culto teneva in conto la presenza di altre
divinità ufficialmente accettate. La dinastia omride, già con la fondazione di Samaria come capitale,
mostra l’intenzione e la capacità di sviluppare una politica edilizia nuova, con un progetto palatino
esplicito e supportata da maturazione delle procedure fiscali e dalle risorse finanziarie necessarie. Il
periodo è caratterizzato anche da forti tensioni sociali, con il lusso della corte e l’asservimento della
popolazione più bassa.
Il regno di Giuda (ca. 930-720): alla morte di Salomone il regno di Gerusalemme perde Efraim e
resta circoscritto al territorio di Giuda e Beniamino. La casata di David finisce nel sangue e con
pegni (le ricchezze erano tesaurizzate nel “tempio salomonico” che era quindi un annesso del
palazzo) continui da pagare agli aramei ed infine agli assiri per essere difeso da Israele di cui sarà
vassallo. La lenta crescita di Giuda tra X-VIII secolo, s’inserisce nel panorama degli stati di nuova
formazione dell’entroterra della Palestina e della Transgiordania, quali sono la regione abitata dagli
Ammoniti, la regione di Mo’ab ed Edom, quest’ultimo si mantenne in concorrenza con Giuda e poi
in sottomissione all’Assiria per la sua collocazione geografica, a controllo di importanti direttrici
commerciali sulla carovaniera sud-arabica e come sbocco delle vie palestinesi sul mar Rosso. Tra
IX e metà dell’VIII secolo, lo sviluppo è molto modesto, di sostanziale stagnazione. Gerusalemme
resta circoscritta alla città di David e la zona più popolata è quella della Shefela con il sito chiave di
Lakish. Lo yahwismo a Giuda prese piede nel IX secolo con i re Asa e Yosafat, questo non implica
che la popolazione non fosse dedita ai culti della fertilità, ma che nella gestione della cosa pubblica
si facesse ricorso solo a Yahweh; tuttavia, il profetismo, che necessita di una corte vivace con ampi
dibattiti e strategie, qui non è così in voga come al nord, lo yahwismo però è più saldo, sia per
l’assenza d’influenze esterne vista la marginalità di Giuda, che per la probabile origine meridionale
di Yahweh, in età pienamente storica, VIII secolo, si ha dalla piana del Sinai, un’iscrizione che
menziona Yahweh e la sua paredra Asherah, rito definibile come sincretico, cioè di fusione di
elementi diversi, vista l’estraneità del culto originario di Yahweh da simili rapporti. Tra inizi IX e
fine VIII secolo, Giuda ed Israele mostrano un’ideologia religiosa e politica comune, tanto a loro
quanto a tutti gli stati del Levante, i principi basilari sono: dio nazionale, guerra santa, punizione
dell’infedeltà. Il ruolo nazionale deve avere preso consistenza in un’epoca in cui l’identificazione
tra dio e stato etnico era pienamente operativa sul piano politico e militare.
L’impatto imperiale assiro (ca. 740-640): l’indipendenza raggiunta dagli stati del Levante grazie ai
Popoli del Mare vede la fine alla metà dell’VIII secolo ad opera dell’impero assiro. La prima fase di
espansione fu opera di Salmanassar III (858-824), contro Damasco ed Hamat e altri stati siro-
palestinesi tra cui Israele, sottomessi al pagamento del tributo. Con Tiglat-pileser III (744-727)
riprende la politica di espansione esterna con la rapida annessione della Siria e della Palestina fino
allo scontro diretto con Israele, questo pagò tributo come vassallo e vennero costituite le province
assire di Dor, Megiddo e Gile’ad, un certo numero di israeliti vennero deportati in Assiria. Osea
pagò tributo fino a quando contando sul sostegno del faraone non lo sospese, ma l’intervento di
Salmanassar V fece capitolare e trasformare in provincia Samaria e deportare circa 30.000
samaritani. Il regno di Giuda cerca dapprima di contrastare l’Assiria chiedendo l’alleanza
dell’Egitto, poi, con Ezechia, costretto a capitolare sotto Sennacherib nel 701, diviene vassallo dell’
Assiria che assicurerà mezzo secolo di pax assyriaca. La conquista assira è caratterizzata da
deportazioni in massa, anche di famiglie e persone con legami affettivi per rendere più salda la loro
permanenza in terra straniera, selezionando all’arrivo particolari professionalità, e installazione
degli “alieni” a Samaria, il vinto diventa assiro per volere del dio Assur, l’assimilazione linguistica
avviene a vantaggio dell’aramaico, la lingua più diffusa nell’impero, la religione sfociò in un
variegato sincretismo, con una revisione dello yahwismo come elemento di auto-individuazione ed
anche di legame con Giuda, che, connotato da una ferrea ortodossia, stava già definendo sempre più
precisamente ed esclusivamente le forme del culto. Giuda intanto, con Ezechia, è un regno in rapida
crescita, sia nelle risorse materiali che nella consapevolezza ideologica, sono evidenti grandi
interventi urbanistici sia di difesa che di opere idrauliche, crescono anche i villaggi agricoli, con
grandi spostamenti di derrate alimentari verso Gerusalemme. Grande riforma di Ezechia di stampo
yahwista, eliminazione dei culti agrari e delle bamot (alti luoghi), emerge il profetismo come era
stato per il nord (Osea, Michea, proto-Isaia), viene messo in dubbio il rapporto tra classe dirigente,
popolo e divinità. Gli invasori, secondo modelli circolanti nel VO dal III millennio, sono il segno
dell’ira del dio e da lui vengono inviati a punire il popolo infedele, gli assiri, nell’assedio a
Gerusalemme si rivolgono agli assediati in ebraico, con particolare attenzione al popolo che
invitano ad essere deportato in un luogo fertile in cui poter riprendere una via normale. I vinti
possono o riconoscere la superiorità di Assur o tentare la riconciliazione con Yahweh. L’ideologia
del patto, attraverso cui l’Assiria proteggeva o puniva gli stati sottomessi, viene ripresa per stringere
un patto di fedeltà incondizionata ed assoluta con Yahweh, fondandolo all’epoca di David, Giosuè,
Mosè, visto che il sostegno della “canna rotta”, l’Egitto, non era più possibile.
Pausa tra i due imperi (ca. 640-610): raggiunto il culmine della potenza con il lungo regno di
Assurbanipal e la definitiva sottomissione anche dell’Elam e dell’Egitto, l’impero assiro comincia il
suo declino con le guerre di successione ed i grandi costi di un apparato amministrativo ed
economico divenuto ormai di dimensioni spropositate. Nel 625, Napobolassar, capo dei Caldei, si fa
re di Babilonia ed inizia la lotta armata nella Bassa Mesopotamia, zona di sempre difficile controllo
per gli assiri. I Medi, allevatori di cavalli che vivevano negli Zagros centrali, si alleano ai Caldei
portando avanti quello che sarà definito il “lavoro sporco” di distruzione, mentre i babilonesi
saranno i ricostruttori ed i continuatori dell’impero. Il collasso assiro significò per un cinquantennio
(640-590 circa) libertà d’azione per la periferia imperiale, l’allentarsi dei prelievi fiscali e dei tributi
invece la ripresa d’iniziative, come le imprese commerciali di Tiro, lo sviluppo del regno di
‘Ammon, la nascita del regno di Cilicia e Cappadocia, la sostituzione dei persiani all’Elam creando
quello che sarà lo stato di Fars. In Giuda, il collasso assiro, corrisponde al regno di Giosia (640-
609), suoi aspetti salienti sono di carattere ideologico e religioso, di difficile distinzione
archeologica con Manasse, si evidenziano avamposti in zone aride con sofisticate tecniche di
aridocoltura. Il progetto di ampliamento con l’unificazione del regno del nord, con cui Giuda
avvertiva una comunanza etnica e religiosa, andò in fumo sia per l’intervento egiziano che per la
morte di Giosia. La religione di Giosia parte dalla giustificazione della sua riforma come
ritrovamento della legge della Torah, un antico manoscritto, dato da Dio a Mosè, conservato
nell’arca di Yahweh depositata nel tempio sin da Salomone, il tutto in coincidenza con la crisi
dell’autorità assira. Il libro della legge di Giosia, coincide, secondo gli studiosi tedeschi
ottocenteschi, con il nucleo originale dello strato redazionale detto “Codice Deutoronomistico”,
assegnabile a quest’epoca per indizi contenutistici e su cui posteriormente, in età esilica e post-
esilica sono intervenuti. Il nucleo fondante e fondamentale è nel patto d’alleanza con Yahweh, da
quando ha portato il suo popolo fuori dall’Egitto e lo ha condotto alla terra promessa Canaan
all’immediato futuro, se sarà unito (Giuda ed Israele) e fedele, potrà mantenersi autonomo sotto la
protezione dell’unico Dio, Yahweh. Il re impone l’unicità del dio, del culto e del luogo di culto, la
stessa Pasqua di Giosia, “che non si era celebrata dal tempo dei Giudici”, doveva essere una
festività pastorale di transumanza trasformata da Giosia nel pellegrinaggio all’unico tempio, quello
di Gerusalemme, celebrando la fuoriuscita dall’Egitto. La riforma si estende anche a Bet-El,
santuario del nord. La storiografia deutoronomista attraversa i libri di Giosuè, Giudici, Samuele 1-2,
Re 1-2, la corrente o scuola di pensiero deve essere nata dalle riforme di Giosia, il crollo di Giuda
occupa infatti un posto importante. I modelli fondanti di Giosia sono: Mosè che ha stipulato il patto,
Giosuè che ha occupato la terra di Canaan, David che ha realizzato l’unificazione politica e
Salomone che ha costruito il tempio. I vari regni “storici” sono stati condizionati nella loro storia
dalla fedeltà o meno al patto, così Israele è stato punito e Giuda ha potuto raggiungere con Giosia il
momento di riunificazione e pacificazione. Nel 609 il faraone Neko risale la costa palestinese per
contrastare i babilonesi, a Megiddo, Giosia, si scontra con gli egiziani ma viene sconfitto ed ucciso,
Neko, deporta in Egitto l’erede al trono Yoachaz e mette sul trono come tributario un altro figlio di
Giosia, Elyaqim o Yoyaqim. Lo stesso faraone verrà presto sconfitto da Nabucodonosor. Dopo la
morte di Giosia, il profeta Geremia ci informa della sorte delle riforme giosianiche, con la condanna
del baalismo e la critica alla politica dei sacerdoti, condanna anche Yoyaqim per apostasia, con la
ricerca dell’appoggio straniero.
L’impatto imperiale babilonese (ca. 610-585): dopo aver sconfitto a Karkemish ed Hamat gli
egiziani nel 609, l’impero neobabilonese attacca e sottomette tutta la fascia siro-palestinese, con
ferocia maggiore di quella assira. Famosi gli assedi di Tiro e Gerusalemme. A livello locale i vari
stati rivali tra loro approfittano del nemico mandato da dio per maledire i vicini contrapposti,
“Oracoli contro le Nazioni” di Geremia ed Ezechiele, quest’ultimo soprattutto contro Tiro per la sua
potenza marittima. Durante l’assedio di Gerusalemme, tra il 598 e la distruzione finale del 587, il
dibattito interno riconduceva le scelte politiche a generali principi teologici, Ezechiele sosteneva di
dover restare fedeli al giuramento in nome di Yahweh, Geremia era contrario all’idea di formare una
coalizione anti-caldea. Sedecia, re di Giuda regna per nove anni come vassallo babilonese poi si
ribella, l’assedio di Nabucodonosor dura a lungo ma poi il re evade, viene raggiunto a Gerico e
catturato, i conquistatori installano Godolia come governatore della città, pochi mesi dopo viene
ucciso, per paura delle ritorsioni babilonesi la popolazione si solleva, Gerusalemme, povera,
assediata ed intimorita è nel caos, Geremia consiglia di rimanere a Giuda ma i maggiorenti ed il
“resto di Giuda” decidono di rifugiarsi in Egitto. La deportazione babilonese a differenza di quella
assira, porta in Babilonia la sola classe dirigente, lasciando i contadini sul posto ma in una
situazione di degrado e deculturazione totale con conseguente frammentazione amministrativa, non
costruiranno edifici né provvederanno ad una amministrazione locale come fu per gli assiri, gli
assiri cancellarono l’identità nazionale mentre i babilonesi non riusciranno ad estinguere il senso di
auto-identificazione dei deportati.
Intermezzo: intervallo, pausa, interruzione. Una riflessione sugli elementi caratterizzanti la
religione giudaica pre e post esilica: emersione dell’individuo, eticità della religione, cerimonialità
comune in un mondo alieno.
L’età assiale: il VI secolo, nel mondo antico in generale, si configura come l’età assiale, il
momento in cui, post grandi potenze, l’individuo emerge nelle varie culture, come nuovo centro
d’interesse. Quando nasce il monoteismo? Le due storie vanno scisse: quella di Yahweh come dio
tra tanti déi e quella della concezione etnica soggiacente al monoteismo, impatto con il dio Assur e
la fedeltà univoca all’imperatore assiro, elemento di auto-identificazione nella diaspora, congiuntura
storica del VI secolo con la teologia babilonese identificativa, il dualismo cosmico zoroastriano ed
il profetismo etico giudaico, unita all’ambito geografico ristretto. L’assenza del potere egemonico
che si occupa della relazione con la divinità, permette un canale di collegamento diretto, la legge è
collegata e data direttamente da dio, il patto con Dio sostituisce il patto con l’imperatore.
Prospettive di monoteismo universale con il Deutero e Trito-Isaia attraverso lo strumento del
proselitismo. Nell’età monarchica la religione d’Israele si contraddistingue come culto cerimoniale
fondato su palazzo-tempio e rapporto popolo-divinità-re, quando queste condizioni vengono a
cessare la religione diventa etica, di livello personale e collocazione interiore, ma comunque di
cerimonialità formali, necessarie a sostenere la comunità in modo compatto sia sul piano religioso
che etnico, queste regole riguardano soprattutto la circoncisione e l’osservanza del sabato,
l’attenzione per le impurità ed il terrore della contaminazione, tutto questo porterà ad un isolamento
superbo ed un ritualismo ossessivo. Nella collocazione dell’individuo in uno stato di piccole
dimensioni, questo sarà partecipe e responsabile delle sorti della comunità politica, la responsabilità
individuale nell’antico Oriente ed in particolare ad Israele ha un campo di applicazione sia verticale
(i figli sono responsabili delle colpe dei padri fino alla settima generazione, collegato alle norme di
trasmissione ereditaria della proprietà) che orizzontale, la responsabilità di un delitto, ricade sulla
famiglia e sulla comunità cui egli appartiene (responsabilità collettiva o corporativa). Ora, il “nuovo
patto” prospettato dal Deutero-Isaia, comporta una retribuzione o punizione personale, fornendo lo
spiraglio sulla crisi dei valori che la classe sacerdotale e dirigente deve aver tentato di occultare. Più
che provvedere alla rinascita nazionale, molti devono aver preferito la possibilità di continuare a
godere dei frutti del loro lavoro in Babilonia od Egitto, altrove in ogni caso.
La diaspora: Yoyakin e la sua discendenza, vengono riconosciuti dai sovrani di Babilonia come re e
principi di Giuda, nelle vicende di esilio e ritorno, il loro è un ruolo fondamentale. Dai profeti
Geremia ed Ezechiele sappiamo che sussistette un’èlite dirigenziale, una sorta di governo ombra
sottostante l’amministrazione babilonese che potrà produrre il problema della doppia fedeltà. Il
culto, si ricostituisce all’interno dell’esilio, prova ne è l’assenza di sinagoghe in età esilica e la
presenza in età post-esilica matura. Tra gli esiliati babilonesi persiste una forte coesione, a
differenza della dispersione delle dieci tribù deportate dagli assiri in Alta Mesopotamia ed in Media.
Contatti tra i vari gruppi di deportati? Prende forma l’unità pan-israelitica nel segno del mito della
comune conquista sull’azione delle 12 tribù. In Babilonia gli esiliati s’inseriscono nelle attività
finanziarie, i più abbienti, gli altri vengono collocati in cittadine o villaggi abbandonati da
colonizzare come pastori. Oltre ad elementi, ad esempio nell’onomastica tradizionale, fedeli alla
loro origine, si notano elementi di assimilazione come l’adozione dell’aramaico al posto
dell’ebraico o dei nomi dei mesi babilonesi, il tutto nel segno di una forte auto-referenzialità etnica
e religiosa. Ci fu anche una diaspora volontaria, connessa a tutti gli emigrati, ad esempio in Egitto,
che mantennero il collegamento con Gerusalemme pur amalgamandosi alla popolazione locale, si
hanno culti sincretici e costruzioni di templi locali a Yahweh come ad esempio ad Elefantina, anche
questi però, trovarono un richiamo nei coevi gruppi di deportati al coinvolgimento nei progetti di
riscatto nazionale. Questione del “resto”, coloro che sono rimasti nella terra d’origine perché fedeli
a Yahweh, in Ezra si loda però il resto puro preservato in esilio, problematica connessa con il
patrimonio, la terra è di chi è stato esiliato, non colpevole di idolatria e di cedimento all’ambiente
circostante (quindi gli esuli che torneranno) o di chi è rimasto? Nell’ottica imperiale, il “resto”,
viene lasciato sul posto anche come base per un nuovo assetto politico, coloro che sono senza colpa,
non colpevoli di peccato e disprezzo. L’azione profetica di Ezechiele e del Deutero-Isaia, attivo
all’avvento di Ciro, fu fondamentale per il compattamento nazionale degli esuli babilonesi, la
speranza del ritorno deve riguardare Giudei ed Israeliti insieme, fondata sulla “casa di David”, con
una nuova alleanza, basata su un cuore nuovo ed un nuovo comportamento, ed intorno al nuovo
tempio, quello gerosolimitano, Ciro verrà salutato come il messia di Yahweh, venuto a punire e
maledire, come tutti gli strumenti divini, la dinastia caldea. Nell’ultimo periodo pre-esilico si fa
strada la teologia della presenza, Yahweh è presente nel suo tempio seduto in trono sostenuto da
cherubini, il disastro nazionale comporterà l’incomprensione dell’abbandono divino, e pur se
l’aniconismo era imperante, la distruzione del tempio implicherà l’assenza di un luogo in cui
venerare dio. Nel progetto di restaurazione si fa strada la teologia del nome e la teologia della gloria
che consentono di evitare la materialità del culto perché Yahweh, signore delle schiere celesti ha il
suo luogo in cielo ed in terra, il nome, legato alla pratica regale d’impiantare una stele al re
vittorioso, sarà “re della Gloria”, con presenza simbolica in un qualunque santuario terreno. La
storiografia deutoronomistica nacque al tempo di Giosia, il progetto unitario e la mitica fondazione,
vennero ripresi durante l’esilio babilonese confluendo nei libri di Samuele e dei Re. Babilonia,
epicentro di opere cronachistiche, fu terreno fertile per la composizione delle storie del popolo
d’Israele, dalla conquista fino a Salomone con racconti favolistici e leggendari ed il periodo dei
regni divisi, periodo in cui, dal X secolo fino al 587, si poteva disporre di documentazione ufficiale
attendibile, i raffronti, nel sistema di datazione, nel luogo di sepoltura dei re di Giuda e d’Israele,
nel giudizio a ciascun re nell’aver eliminato o meno i luoghi di culto non yahwisti, sono evidenti.
Il paesaggio desolato: la prima metà del VI secolo, dal collasso assiro alla costituzione dell’impero
di Ciro il Grande, è un periodo di profonda depressione per gran parte degli stati del VO,
analogamente al XII secolo di profonda crisi, ma ora soprattutto ideologica. Tra l’impero d’Assiria e
quello di Persia, vi furono situazioni nettamente opposte, la crescita di nuclei forti dell’agricoltura
irrigua e dell’urbanizzazione, e la depressione di tutto il resto del territorio. A parte la Babilonia
caldea, l’Egitto saitico ed alcune zone riparate dall’espansione imperiale come la Lidia e le città
carovaniere sud-arabiche, il resto mostra un collasso generalizzato, riemergono realtà tribali e
riprende il nomadismo, le rovine delle vecchie città abbandonate sono prese da squatters (anarchici,
occupanti di terre privi di titolo) accampati, la Palestina, dovette sembrare, vista da Babilonia, un
immenso deserto in rovina. Confronti tra i miti babilonesi e le leggende bibliche, come per il diluvio
universale, stagionali episodi d’inondazioni del Tigri e dell’Eufrate, divenuto archetipo mitico della
ricorrente vicenda di punizione divina contro l’umana violenza. La torre di Babele e le difficoltà di
vivere e lavorare in un paese dove le varie popolazioni parlano lingue tra loro incomprensibili,
grandezza delle ziqqurat e sconcerto per strutture mai viste dagli ebrei, vecchia tradizione sumerica
dell’imperfezione di più lingue. Il giardino dell’eden come “paradiso”= ebraico pardes, babilonese
pardesu, persiano pairidaeza cioè recinto, riflette sia le grandi fattorie agricole produttivissime che
il giardino regio, ma anche i sentimenti di inclusione-esclusione, protezione-esposizione, agio-
fatica. La griglia genealogica tripartita nei figli di Noè, unico sopravvissuto all’ira divina e dunque
capostipite, riflette la situazione del mondo conosciuto all’epoca della redazione del testo. La
“tavola dei popoli” o terra popolata in Genesi 10, è la genealogia mondiale, le tre grandi ripartizioni
nei figli di Yafet, Sem e Cam riflettono le egemonie mede, caldee ed egiziane. La preistoria
d’Israele è infarcita di genealogie, fenomeno tipico del VI secolo sia nel VO che in Grecia, il mondo
si era talmente ampliato che era tenuto a bada in senso mentale e conoscitivo attraverso griglie
spaziali e diacroniche dei vari gruppi etnici ed il rinvenimento del comune capostipite. Stile
arcaizzante ed interesse per il passato nei nuclei forti della Babilonia caldea e dell’Egitto saitico. Il
crollo dell’impero assiro comportò anche lo sviluppo dell’elemento nomadico-tribale, nei grandi
blocchi delle genti iraniche sulle alte terre del nord e delle genti arabe nel deserto siro-arabico, la
loro presenza minacciosa è evidente sia nei testi storici assiro-babilonesi che in quelli biblici, a loro
si collega il paradigma del nemico dal nord di antica formulazione mesopotamica. La stessa
terminologia ebraica per tribù appartiene a questa fase, furono le grandi formazioni tribali arabe del
VII-VI secolo a fornire il modello per immaginare l’esistenza della grande confederazione delle 12
tribù d’Israele.
Parte seconda. Una storia inventata: il “mito” Israele.
Reduci e rimanenti: l’invenzione dei Patriarchi: viene attribuito a Ciro il ruolo di salvatore, la
venuta del re persiano è un momento di grande speranza per gli esuli, perché concederà esenzioni e
libertà alla popolazione babilonese, il “servo di Yahweh” annuncia il nuovo esodo da Babilonia
(2Isaia 49). L’impero universale persiano sarà di dimensioni allargate, disponibile ad utilizzare
forme di governo locale, aperto alla libertà di culto. L’editto secondo cui, dice Ezra, Ciro consente il
ritorno in patria degli esuli e la ricostruzione del tempio di Yahweh appare un falso, così il secondo,
necessari a garantire il privilegio imperiale ed a controbattere le pretese del tempio rivale di
Samaria. Il ritorno avvenne soltanto nel 520, guidato da Zerubabbel e Giosuè e che diede il via alla
ricostruzione del tempio come profetizzato da Zaccaria, alla metà del V secolo invece, si ha un altro
importante rientro con il gruppo guidato da Ezra su editto di Artaserse. Il rientro appare così
scaglionato nel tempo, in modo informale e poi di volta in volta autorizzato dagli imperatori. I
gruppi di reduci non potevano essere molto consistenti, forse tornò solo una minoranza. Il rientro
comporta il dibattito delle proprietà terriere e dell’appartenenza a clan israeliti e quindi
l’inserimento di ognuno nelle liste delle case d’Israele. Riguardo alla loro collocazione topografica,
questi provengono da Gerusalemme (personale di culto) e da cittadine e villaggi della Giudea
(territori tribali di Giuda e Beniamino), i gruppi più consistenti sono definiti per clan o eponimo
d’origine (figlio di…); consistenti gruppi da Mo’ab e dall’Elam. Secondo la lista di Ezra, sacerdoti,
leviti ed una parte del popolo si stabilirono a Gerusalemme, servi templari ed israeliti originari di
specifiche città nelle loro città. La ricostituzione del nucleo nazionale giudaico avvenne in parte
mediante il ritorno degli esiliati ma per una parte maggiore mediante il loro compattamento e la
crescita in loco. Altrettanto pochi dovevano essere i rimanenti che furono o rigettati o fusi, grande
peso dovette avere lo status sociale e peso culturale, erano stati infatti deportati i sacerdoti, gli scribi
ed i funzionari, ed erano rimasti i contadini; i reduci avevano maturato una grande convinzione
d’identità etnica e di esclusività divina. Accezione ora negativa dell’espressione “popolo della
terra”, legata alla proprietà, indica il contadiname rimasto ed escluso dall’osservanza religiosa e
tutte le nazioni differenti da quella israelitica. Il rientro andava convalidato con autorevoli tradizioni
che assegnassero la terra di Canaan alle tribù d’Israele, giustificando come legittimi eredi i nuclei
dei reduci. Gli atteggiamenti conflittuali andavano da posizioni dure ad accoglienti, i miti di
fondazione addotti furono quello di Giosuè e la conquista della terra promessa da parte dei reduci
dalla cattività egiziana, e soprattutto quello collocato all’epoca dei Patriarchi, gli antenati eponimi
delle 12 tribù ed i loro padri comuni Abramo, Isacco e Giacobbe, il mito, di epoca leggendaria,
poteva accomunare reduci e rimanenti, perché Abramo fu residente ed ospite, perché dovette
comprare il lotto di terra con un contratto dialogato, perché il suo viaggio da Ur alla Palestina era un
messaggio promozionale per chi dalla Caldea volesse tornare in Palestina, dovendo affrontare sia il
viaggio che la convivenza con altre genti. Il mondo patriarcale viene menzionato soprattutto dai
profeti esilici, e giungerà alla sua forma più completa dal redattore del Pentateuco, in età post-
esilica avanzata non se ne fa più menzione. Le saghe patriarcali sono ambientate in zone palestinesi,
come evidente dai simboli di culto pastorale ma piuttosto tradizionali e senza data, la provenienza
extra-palestinese, come quella di Abramo, prefigura il rientro degli esuli e giustifica i matrimoni tra
cugini incrociati, l’invito è quello di privilegiare il connubio tra reduci e residenti, purché yahwisti e
di discendenza comune. Racconti che fondano gli specifici rapporti con i popoli vicini che
effettivamente contendevano ai reduci il possesso della Palestina nel V-IV secolo, Edomiti, Aramei,
Arabi, Moabiti ed Ammoniti, Filistei di Gerar. Il ruolo di Gerusalemme non è ben definito, si parla
di una pluralità di luoghi di culto sparpagliati nel territorio e per Sichem, l’episodio di Dina mostra
una presa di posizione contro il matrimonio con gli incirconcisi; Gerusalemme e Sichem
rappresentano non tanto i due regni cananei storici degli altopiani quanto piuttosto centri politici dei
rimanenti. La storia di Giuseppe ha sfondo chiaramente novellistico, con paralleli sia ad Ugarit che
dell’epoca dell’impero persiano ed in relazione con il grande mercato di schiavi asiatici egiziano.
Reduci e alieni: l’invenzione della conquista: modello debole di rientro dato dalle tradizioni
patriarcali, dunque mediante convivenza ed accordi, modello forte delle tradizioni della conquista
realizzato sullo scontro duro e sulla chiusura verso i popoli estranei. Il libro di Ezra, come quello di
Nehemia, appare incerto a livello esegetico, ma lascia trasparire un rientro di gruppi di volontari
aiutati finanziariamente dai rimanenti nelle terre della diaspora, in un momento in cui il tempio di
Gerusalemme è ricostruito e con una connotazione cultuale del rientro attraverso le offerte al
tempio. Il gruppo più consistente dovette rientrare nel 2° anno di Dario, il 521, guidato da
Zerubabbel della casa di David e da Giosuè, sommo sacerdote della linea sadocita, il modello forte
della conquista violenta di Canaan da parte di Giosuè appare più che altro un manifesto politico ed
utopico, riferito ai reduci che rientrano nella terra a loro promessa. La Palestina di età achemenide,
V secolo, è in stato di grave degrado e spopolamento, i re persiani, sviluppano la zona costiera
senza occuparsi molto dell’interno lasciato alla libera iniziativa locale. L’archeologia conferma una
modesta ripresa della città di David ed una forte crescita per la fascia costiera da parte imperiale con
evidenti apporti fenici. La presenza fenicio-persiana si estese internamente in due zone, estremo sud
ed estremo nord, aggirando gli altopiani centrali. Gaza assunse il ruolo di terminale mediterraneo
delle carovaniere sud-arabiche prosperando in proporzione a quei traffici che in età persiana ebbero
un incremento notevole. I reduci rientrati in Palestina trovarono una terra non vuota e disponibile,
ma occupata da vari gruppi, i contadini scampati alle deportazioni, i deportati di altra provenienza
stanziatisi in età assira, genti limitrofe che avevano approfittato del vuoto per espandersi o spostarsi.
L’installazione dei reduci venne giustificata dalla vicenda modello di un’antica conquista e la
formulazione di liste di popoli dai nomi fittizi e non includendo quelli storici e reali dell’età del
ferro, sterminando chi non c’è si prova lo sterminio proprio grazie alla loro assenza. Prototipo più
potente per il possesso della terra di Canaan fu l’esodo dall’Egitto sotto la guida di Mosè. Il codice
motorio entrare/uscire è ben conosciuto sia dai testi del TB che in Egitto ed Assiria e mostra il
mutamento di dipendenze politiche da un conquistatore all’altro, la venuta dall’Egitto è motivo ben
conosciuto anche nell’VIII secolo e la migrazione nel deserto di gruppi armati suddivisi per tribù
con struttura decisionale di tipo assembleare, sembra lo spostamento sotto scorta militare di
deportati e reduci organizzata dall’autorità persiana con formulazioni di liste censorie, allo scopo di
assegnare all’arrivo lotti di terra. La metafora dell’uscita dall’Egitto e l’attraversamento del deserto
riflette il dibattito sulla proposta sacerdotale di abbandono di Babilonia, terra ormai conosciuta e
produttiva, per un paese ostile ed abitato da popolazioni agguerrite, il percorso è di difficile
interpretazione, la ricerca d’acqua, riflette il costante motivo del timore di affrontare il viaggio di
una zona desertica, popolata da scorpioni e serpenti. Il dettaglio sulla Legge data a Mosè nell’esodo
serve a legittimare il patto per l’ingresso in Canaan. Coincidenza del Giosuè che attraversa il
Giordano e conquista la terra di Canaan con il sacerdote che con Zerubabbel guida i reduci da
Babilonia. Nei libri di Ezra e Nehemia, appaiono centrali la ricostruzione delle mura di
Gerusalemme e l’opposizione di una coalizione di nemici. La ricostruzione delle mura significa sia
difesa dai nemici che ricostruzione dell’unità nazionale, gli oppositori allarmarono la corte persiana
contro un’operazione che poteva essere atto di ribellione, mentre i sostenitori poterono avallare la
loro azione tramite editti di Ciro, Dario ed Artaserse che consentivano il ritorno e la riedificazione
del tempio con automatico riconoscimento della loro identità nazionale. La conquista fondante
sottolinea l’unitarietà di azione delle 12 tribù e la forte conflittualità dei residenti, i reduci di
Babilonia appartenevano alle tribù di Giuda e Beniamino, nucleo finale dell’ex regno di Giuda
conquistato da Nabucodonosor ed il paese ospitava genti anche non estranee come gli israeliti
yahwisti con cui si poteva giungere ad un compromesso. Il paradigma adottato è quello della guerra
santa, di matrice deutoronomista con profonde radici siro-palestinesi sin dalla pressione assira e
fondato sulla pratica del herem, funzionale alla sostituzione del popolo estraneo con quello eletto, e
ricalcante la visione post imperiale di deportazione e sostituzione. Gli elementi paesaggistici di una
terra in rovina danno spiegazioni eziologiche della conquista archetipica, e conferiscono anche il
carattere di autenticità al racconto, “sono ancora lì a dimostrazione di”, caso più famoso quello delle
mura di Gerico, che l’archeologia ha dimostrato più antiche dell’epoca di Giosuè, o della città di
‘Ai, il cui stesso nome significa “rovina”. L’assimilazione archetipica di alcuni popoli come i
Gabaoniti, alla corvée del santuario di Gerusalemme, doveva servire da spiegazione alla persistenza
di popolazioni e città limitrofe di vistosa consistenza. I popoli immaginari vennero sterminati
mentre quelli veri rimasero, le terre non conquistate da Giosuè coincidono con quelle sviluppate in
età persiana e che lo storiografo deutoronomista non poteva ignorare. La definizione del territorio
comporta la determinazione delle frontiere estreme, così, il presunto impero davidico-salomonico
che va dall’Eufrate al “torrente d’Egitto”, lo wadi Arish, non è nient’altro che la satrapia persiana
della Transeufratene, altra definizione quella dei confini di Canaan coincidenti con la provincia
egiziana di Canaan del XIV-XIII secolo, riflettono la terra assegnata da Yahweh. Altra ricorrente
definizione è “da Dan fino a Be’er-sheba’”, coincidente con la somma dei territori tribali, unità
post-esilica fortemente deteriorata e compromessa; nella realtà di V-IV secolo, corrispondeva alla
provincia di Samaria con unità amministrative minori come il tempio di Gerusalemme. Le
ripartizioni tribali riportate in Giosuè 13-19 hanno un forte accento realistico e possono risalire a
qualche regno che abbia progettato di includerli sotto il suo controllo, dislocazioni tribali
tradizionali pre-esiliche ormai svanite in età post-esilica.
Uno stato senza re: l’invenzione dei Giudici: la struttura amministrativa achemenide, doveva
riflettere quella babilonese, ma rispetto a questa a più livelli e con una gerarchia più complessa
stanti le dimensioni dell’impero. Con Dario I le satrapie diventano due, quella della Transeufratene
aveva come capitale Damasco. La satrapia era poi divisa in province, numerose sulla costa, ed
affidate al governatore della Samaria quelle degli altopiani interni della Palestina. Successivamente
anche la Giudea con capitale Gerusalemme diventerà provincia, la zona d’insediamento dei reduci
andava da Bet-El e Gerico a nord fino a Bet-Sur al sud, una zona certamente piccola. La provincia
di Giudea emetteva monete, spiccioli di circolazione locale. Al di sotto della provincia vi erano
comunità locali regolate da organi collegiali ristretti, organi collegiali ampi e capi politici di vario
tipo. La situazione in Giudea sarà complicata dalla coesistenza di comunità locali rimanenti, nuclei
di rimpatriati da Babilonia e dal prestigio del tempio di Gerusalemme, con conseguenti diverse
opzioni: giudici ed anziani in dipendenza amministrativa da Samaria, statuto reale con
rivitalizzazione della dinastia davidica, statuto di città-tempio su modello babilonese. La scelta, del
modello templare, avverrà dopo un certo tempo e dopo lunghi dibattiti di cui è rimasta traccia
cospicua. Dal 587 al 515, inaugurazione del secondo tempio, sotto i re babilonesi e persiani, la
Giudea rimane senza autorità politica formale e con gli affari locali gestiti da giudici ed anziani,
caso analogo, Tiro, ben documentato. Secondo il testo biblico del libro dei Giudici, il periodo non
risale ad età pienamente storica ma pre-monarchica, cioè dopo la distruzione dei regni cananei da
parte di Giosuè, e prima di Saul e David il paese fu affidato a giudici, sufeti, da sofetim. I 12
giudici, sei maggiori e sei minori, sono utopici, riflettono le cariche giudiziarie che avevano gli
anziani delle comunità locali, e nell’intento dello storiografo affermano che non vi fossero re
israelitici e che le tribù non dipendevano dai residui re alieni. Il libro dei Giudici è una continua
sequela di giudici liberatori da oppressori, un tot di anni di pace e poi di nuovo oppressore e
liberatore, seguendo lo schema di punizione e compassione di Yahweh per il suo popolo,
l’anacronistica e confusa storiografia deutoronomista, in assenza di fonti scritte, causa mancanza di
amministrazione centrale ed archivi, ha inserito alcune memorie in ambientazioni fiabesche e
leggendarie. Le saghe non sono facilmente databili, appartengono a motivi ripetitivi usati da tanti
popoli e la stessa distribuzione geografica dei Giudici si accentra nelle zone di rioccupazione e di
frizione con i vicini, di età post-esilica. Nel periodo dei Giudici, le dodici tribù funzionano
“normalmente” secondo la tradizione storiografica. Il numero dodici, come le liste dei nomi, hanno
carattere artificioso, il modello anfizionico proposto da M. Noth, legato a contribuzioni mensili
dovrebbe basarsi su un santuario che non coesiste mai con la lega e dunque non funziona. La lega è
stata sistemata a livello storiografico per dare unitarietà ai gruppi tribali, le tribù avevano una loro
storia concreta ed una localizzazione pre-esilica notoria. Esistono due modelli d’identità tribale,
quello genealogico delle grandi tribù cammelliere e quello territoriale dei gruppi agro-pastorali
integrati, in età post-esilica la corrispondenza tribù-territorio doveva essere quasi completamente
disgregata. In definitiva le tribù come raggruppamenti geografici di comunità locali imparentate per
discendenza sono sempre esistite e continuamente riplasmate, hanno subito l’interferenza
amministrativa del regno di cui facevano parte, la sistemazione formale in una lega di 12 tribù è
utopica e tarda. I rapporti che regolano gli spazi intertribali sono visibili attraverso alcuni racconti
pseudo-storici come quello di Hasor, e riflettono la visione post-esilica delle interazioni delle tribù
pre-monarchiche. La guerra contro Beniamino è l’unico episodio in cui la lega agisce come corpo
politico unitario; prima di David, senza re, senza capitale e senza amministrazione centrale né
santuario, esistono luoghi di convergenza comunitaria, le decisioni sono prese per acclamazione
assembleare, l’oracolo si chiede 3 volte con impegno crescente e la convocazione per mezzo di
pezzi di bovino inviati e ricomposti durante l’assemblea poteva essere la forma normale. C’è un
ritmo di riunione e dispersione vitali alla gestione del territorio ed alla soluzione dei momenti di
crisi. Centrale il problema dell’ospitalità per muoversi in un territorio insicuro per la sua
differenziata appartenenza con conseguente insegnamento di un modello di comportamento
corretto. Lo scenario di un territorio diversificato ed insicuro, con rapporti alla ricerca di un
equilibrio, viene collocato nel passato fondante dell’epoca pre-monarchica, ma sarà stato il riflesso
della condizione post-esilica, con i reduci sparsi in un territorio che è in parte in mano loro ed in
parte in mano a popoli alieni ed ostili, ed in parte in mano a gruppi con loro imparentati ma
d’incerta inaffidabilità, circoscritti alla zona tra Betlemme ed i centri beniaminiti, forse coincidente
con il territorio che i reduci babilonesi occuparono al rientro.
L’opzione monarchica: l’invenzione del regno unito: il rientro è segnato da posizioni filo-
monarchiche con il profeta Aggeo e filo-sacerdotali con Zaccaria, la storia sembra aver dato un
qualche ruolo al re Zerubabbel, erede della casa di David, fino all’inaugurazione del nuovo tempio,
operazione tipicamente regia, poi, operando una vera e propria rivoluzione nella storia della Siria-
Palestina, il sacerdozio assume la guida della comunità giudea e della nuova città-tempio. Il
dibattito pro e contro la monarchia è collegabile con manifestazioni di particolarismo tribale
insofferente alla soggezione al Palazzo, e viene proiettato al tempo in cui la regalità fu adottata per
la prima volta da Israele, al tempo di Abimelek e Saul, il profeta Samuele è contrario e coincide con
la contrarietà di Yahweh. Chi, come le altre nazioni, vuole un re, è idolatro, non vuole lasciarsi
guidare da Dio soltanto. Secondo la concezione deutoronomistica, il re è sottomesso al controllo
della Legge e dunque del sacerdozio, a differenza della regalità davidica eterna ed incondizionata. Il
re diviene un operatore cultuale, che edifica o restaura il tempio, esegue riforme e assicura le risorse
per l’espletamento del culto. La fondazione mitica non può non avere come archetipo anche il regno
unito di David e Salomone, il “tutto Israele” compreso il nord. Il nuovo patto stipulato tra Yahweh e
David comporta come fattore essenziale la continuità dinastica, nel periodo esilico significa
ricostruzione del tempio e restituzione della casa reale. L’intronizzazione doveva essere legittima e
la continuità dinastica assicurata. Vere e proprie storie di successione sono tra David e Salomone e
tra Salomone e Geroboamo. Una dinastia prestigiosa deve essere sapiente nei rapporti di corte e
giusta nei rapporti con il popolo, tra i libri sapienziali ci sono i Proverbi. Attribuiti a Salomone,
sembrano raccolte di tradizioni orali, con una introduzione apparentemente ellenistica e contenuto
banale quasi popolaresco. La cerimonia d’intronizzazione del re in tutto il vicino oriente è salutata
come un evento gioioso che dona nuova speranza, sia per le azioni propagandistiche di amnistia e
distribuzioni di cibo che per quel rapporto d’intermediario tra divinità e re che doveva garantire il
buon andamento del regno. Sono stati riconosciuti dalla scuola scandinava i salmi messianici, legati
all’epiteto del re come unto (masiah) da Dio. Da un messianismo regio si passerà ad un
messianismo del popolo tutto d’Israele.
L’opzione sacerdotale: l’invenzione del tempio salomonico: l’utopia monarchica viene battuta da
quella sacerdotale, con un regno diretto di Dio, la comunità giudea si configura come una città-
tempio ed il sacerdozio ha un ruolo politico. Il tempio palestinese era sempre stato un annesso del
palazzo con attività cerimoniali, a Babilonia, gli esuli vengono a contatto con tutt’altro modello
templare. La casa di dio era complessa sia a livello organizzativo che architettonico, di tradizione
sumerica con enormi proprietà, il clero giudaico o sadocita (da Sadoq, sacerdote di David) aveva in
mente questo modello, funzionale ai rapporti con gli imperatori, in grado di sopperire alla debolezza
della residua monarchia, in grado di assicurare ai sacerdoti il modo di gestire la nuova comunità
nazionale. Il modello assunto è quello delle origini, il tempio di Salomone, dimostrandone la sua
centralità nella storia d’Israele. La descrizione del tempio salomonico nel libro dei Re combacia con
l’apadana del palazzo achemenide, la dimensione stessa del complesso, 1000 m², non è collocabile
nella Gerusalemme di X secolo, dove occuperebbe praticamente l’intera città di David. Gli esuli
cercarono di riprodurre rafforzandolo il primo tempio, che non era quello di Salomone ma forse
quello di Giosia e distrutto da Nebuzardan. Il primo tempio, costruito da Salomone, viene distrutto
nel 587, sulle rovine, dovettero continuare a celebrare qualche attività cultuale, resta luogo sacro per
i superstiti. I reduci, s’impadronirono delle rovine e riassettarono l’altare, scacciando i sacerdoti ed
entrando in collisione con il popolo della terra che voleva collaborare alla ricostruzione del tempio.
Furono respinti perché l’autorizzazione imperiale riguardava i soli reduci. Il satrapo della
Transeufratene confermò l’autorizzazione e collaborò alla ricostruzione. La costruzione deve essere
iniziata nel 2° anno di Dario e terminata nel 515 con la celebrazione della Pasqua, il sommo
sacerdote Giosuè ha pieni poteri. Al tempo di Artaserse, proseguono le ostilità contro la comunità
templare. Nel 445, un giudeo alto funzionario alla corte persiana, Nehemia, viene mandato a
Gerusalemme come delegato regio, per agevolare la ricostruzione delle mura ed il riordino della
comunità. La città-tempio venne distaccata da Samaria ed ebbe autonomia completa. Dopo il ritorno
di Nehemia alla corte persiana nel 425, la sequenza dei governatori (pehah) s’interrompe e continua
quella dei sommi sacerdoti. La presa di potere sacerdotale deve essersi solidificata nel IV secolo,
quando Ezra, scriba e sacerdote, viene in missione a Gerusalemme come inviato imperiale.
Incaricato di compilare le leggi del paese, accentuò le implicazioni teologiche e politiche, con totale
chiusura verso il popolo della terra e affermando l’autorità suprema delle legge di Dio. Con Ezra la
nuova fase della storia ebraica, è governata dal sacerdozio, unico e legittimo interprete della Legge.
La pluralità di culti e luoghi di culto, dopo Giosia e l’esilio, era stata notevolmente ristretta,
potevano rimanere nel territorio i luoghi sacri d’ambientazione rurale riletti in chiave davidica. I
dati archeologici mostrano però una distribuzione di templi palestinesi d’età persiana lungo la costa,
nell’interno solo un paio in Galilea, la provincia di Giuda era orientata compattamente verso il
nuovo tempio di Yahweh. Samaria però, non poteva accettare di perdere anche il ruolo religioso e
con la questione dei matrimoni misti, venne istituito a Sichem un tempio di Yahweh. Lo scisma
deve essere avvenuto prima di Ezra. La tradizione storiografica samaritana scrive così una storia
alternativa che parte dalla fondazione a Sichem da parte di Giosuè di un regno ed un tempio di
Yahweh ed il ritorno dei samaritani dall’esilio assiro molto prima dei giudei da quello babilonese.
Grazie alla protezione delle autorità persiane Gerusalemme cresce lentamente, la città-tempio
acquista sempre più potere sia economico che politico, pur poco conosciuta la struttura
amministrativa della Giudea, questa era divisa in nove distretti, con a capo un prefetto, nella
capitale l’autogoverno era assicurato da un collegio di anziani, le grandi scelte legislative erano di
competenza dell’assemblea popolare cui tutti i capi-famiglia erano obbligati a partecipare, tuttavia,
a Gerusalemme, la guida effettiva della comunità era gestita dai sommi sacerdoti, che attraverso
l’interpretazione della Legge regolavano tutte le questioni rilevanti della comunità. Chi poteva
esercitare la funzione sacerdotale? Titolo fondamentale era la discendenza da personaggi eponimi e
fondanti e poi la successione ereditaria. L’inserimento però di Ebyatar, figlio di Ahimelek, scampato
al massacro dei sacerdoti di Nob eseguito da Saul, presso David, propone l’alternativa. Il clero
sadocita dovette confrontarsi con quello venuto dal nord alla fine del VII secolo ed il clero dei
rimanenti giudei, il criterio di discendenza formulato si rifaceva all’epoca di Mosè e di Aronne, i
sacerdoti figli di Sadoq diventano figli di Aronne. Il tempio, data la sua complessità, aveva bisogno
di molto personale, c’erano così schiavi templari, oblati, ed operatori specializzati, i Gabaoniti ed un
gruppo di leviti, pochi nelle liste dei reduci, dall’etimologia oscura: aggiunti o dati, affidati, dunque
personale ausiliario. Vengono nominati spesso nell’esodo dall’Egitto, e finirono per venir
riconosciuti come una delle 12 tribù d’Israele, con Levi, eponimo figlio di Giacobbe e Lea ed
associata a Giuda ma dotata di statuto speciale perché non territoriale; ricevono la decima in beni
mobili e vivono distribuiti in tutto il territorio, in città levitiche con spazi riservati di residenza e
pascolo. Le genealogie della tribù di Levi includono Aronne e quindi i grandi sacerdoti sadociti. Il
termine leviti includerà l’insieme degli addetti al culto, il loro passaggio da ausiliari a sacerdoti
deve essere stato dovuto al conferimento di incombenze più strettamente cultuali.
L’auto-identificazione: l’invenzione della legge: ricorrenza dei patti tra Yahweh ed il popolo, alle
assemblee storicamente accertate come quelle convocate da Giosia, si aggiungono assemblee e patti
immaginate come fondanti (v. Abramo e Mosè). Nel tempo, il patto/promessa evolve da fedeltà e
benevolenza a dettagliate clausole comportamentali, con relativi riferimenti prima al patto di
vassallaggio e poi ai codici antico-orientali. Anche per quanto riguarda i protagonisti, si passa da
ruolo centrale del re al ruolo centrale del popolo una volta tramontata la monarchia (ma comunque i
ruoli fondanti si ravvisano in personaggi carismatici del popolo in un momento non monarchico).
La pubblica lettura si contrappone alla clandestinità del testo scritto, di cui unico corretto interprete
è il clero e cui i profeti vorrebbero accedere. Israele, destinatario del patto, ha definizione di tipo
gentilizio, da Abramo discendono anche genti altre, non solo israelitiche. Il modello fondante le
prospettive post-esiliche, va cercato nell’ambientazione tribale, nella formulazione di Mosè, con
Israele come entità astratta e vagante nel deserto. La Torah , “legge” si fa chiudere al tempo di Ezra
e si attribuisce a Mosè, è un complesso vario e disorganico, ricco di contraddizioni, all’interno del
quale si individuano raccolte legislative ridotte, queste organiche. Israele si auto-identifica mediante
l’osservanza della legge, sia nel periodo esilico per mantenere coesa la comunità in terra straniera,
sia nel rientro per ricostruire l’unità nazionale. La configurazione della legge si fonda su antichi
modelli ma per essere non inventata si sviluppa e si formalizza in tutta la storia della nazione. La
legge d’Israele non è mai stata attribuita ad un legislatore regio, come sarebbe normale, persino
Giosia riscopre un antico codice, il dover fondare una nazione senza re la fa risalire ad un periodo
pre-monarchico, Mosè, colui che conduce il popolo dall’Egitto ai confini della Palestina ha una
storia personale largamente fiabesca, raccorda le leggende patriarcali e la conquista della terra
promessa e funge da legislatore, ruolo base nella costituzione di un popolo. L’ambientazione nel
Sinai rimanda a tradizioni delle tribù meridionali e le loro vie di transumanza, i santuari montani e
l’origine meridionale di Yahweh. Il corpus legislativo è conservato in documenti tardi, esilici e post-
esilici, ma non tutti i materiali costitutivi sono tardi. Il Decalogo, con sistemazione monoteistica e
dunque giosianica, contiene materiali databili tra TB e FI. Il Codice dell’Alleanza potrebbe essere
pre-monarchico, forse attribuibile al mondo cananeo. Il Codice Deuteronomico costituisce o deriva
dalla riforma di Giosia con interventi post-esilici. Il Codice di Santità si colloca nella prima età
esilica, al tempo di Ezechiele. Il Codice Sacerdotale è post-esilico. La fissazione avviene nel IV
secolo con Ezra. La ricerca di una “nuova alleanza” riflette l’esigenza di rinnovamento spirituale
portata dai profeti e di cui si fecero redattori i sacerdoti ed i leviti. I testi, redatti dai sacerdoti,
contengono norme di impatto sociale basate sulla giustizia, cioè sul mantenimento dei giusti
equilibri, i disordini, erano dovuti ai processi d’indebitamento, endemici nelle società vicino-
orientali e che corrodevano il sistema socio-economico distruggendo il modello teorico di una
pluralità di famiglie libere. Le remissioni, nelle situazioni monarchiche avvenivano con
l’intronizzazione del nuovo re, nella legislazione biblica hanno carattere utopico e si legano al
problema della proprietà terriera, di quelli che sono rimasti a coltivarla e di quelli che sono tornati e
vorrebbero riprendersela. In stato di emergenza, quale quello post-esilico, vengono riutilizzate le
norme fondanti del remoto passato, cambiano i beneficiari, dagli ebrei come habiru, agli ebrei come
israeliti. La questione più controversa nel diritto di famiglia è quella dei matrimoni misti. Da
sempre denigrate le “donne straniere” o “forestiere”, le linee matrimoniali nei clan israelitici
preferivano i matrimoni con cugine, anche lontane, per mantenere il patrimonio nella famiglia e per
evitare contaminazioni religiose, data la multi-etnicità post-esilica il dibattito si farà sempre più
acceso, ed i matrimoni misti bollati come contaminazione. I comportamenti auto-identificativi
(circoncisione, abitudini culinarie, osservanza del sabato – divenuto essenziale con il rinvio alla
creazione del mondo, particolarità del culto religioso e funerario) divennero in esilio molto
importanti, permettevano di distinguere “noi” eletti dagli “altri” immorali. Le norme
dell’alimentazione e del culto sono incentrate sul concetto di contaminazione-impurità correlato al
concetto di sacralità. La separazione tra sfera umana e divina è intermediata dal sacerdozio che
attraverso norme e criteri, che aumenteranno per severità e dettaglio, opera un potente controllo
sulla comunità tutta. Al rientro, i puri reduci si trovano in un paese contagiato da genti,
comportamenti, divinità impure. La purificazione generalizzata poteva avvenire attraverso la guerra
santa e il herem. In realtà, la strage generalizzata si applicò a popoli immaginari e con quelli reali si
instaurò la convivenza. I rapporti con i ger, residenti stranieri di status libero, inseriti per attività
lavorative in unità famigliari israelitiche, che vengono in qualche modo assimilati; per quanto
riguarda la religione si tenta di fare “proseliti” (ger verrà tradotto dalla LXX con proselytos).
Epilogo: parte finale, conclusiva di un’opera narrativa o drammatica, per estensione, compimento,
termine di una vicenda. Perché una storiografia d’Israele.
Storia locale e valori universali: la storia antica d’Israele è compresa tra due processi più che due
date, l’inizio, si consegna all’etnogenesi che investì il Levante a seguito delle invasioni dei Popoli
del Mare e che affonda le sue radici nelle condizioni socio economiche e politiche del TB, la
fine/prosecuzione si situa al 398, data simbolo per l’inizio del giudaismo con la missione di Ezra;
fenomeni tra loro in continuità fino alla distruzione del “secondo” tempio nel 71 d.C.. Il rapporto
tempio/diaspora, mostra come un Giano bifronte il guardare avanti ed indietro le rielaborazioni
necessarie a concretizzare la promessa divina di Abramo. I due grandi processi sono segnati da
grandi cesure storiografiche, la prima, quella degli inizi del XII secolo, mette fine alla società siro-
palestinese del TB, ed è visibile a livello archeologico anche in buona parte del Levante con
ripercussioni di carattere materiale, economico e tecnologico, la seconda, definita età assiale, di VI
secolo, produce mutamenti ideologici, culturali e religiosi, dovuti ai grandi sconvolgimenti
demografici-insediamentali. Lo storico deve analizzare il testo riuscendo a leggere la vicenda antica
sotto quella ricreata, l’ideologia originaria sotto quella del rielaboratore e scrivere una storia antica
d’Israele al di fuori del filo conduttore biblico. Il libro, con formazione dell’autore negli anni ’70, è
destinato ad un pubblico che s’interroga oggi sulle problematiche internazionali di convivenza
sociale e di tolleranza religiosa, che vengono alluse perché ritenute influenti.
SVILUPPO DEI PUNTI NODALI
Imprinting: la Palestina del TB, XIV-XIII a.C., il dominio egiziano, la cultura palatina, sfruttamento
delle risorse economiche, costante impoverimento della “classe bassa”, cultura agro-pastorale,
habiru.
La storia normale: la transizione del XII secolo con la crisi multifattoriale che porterà dal TB al
primo ferro con notevoli elementi di contrasto. Sconvolgimenti climatici con eventi di grande
siccità ed invasione dei Popoli del Mare. La liberazione dal dominio straniero creerà nuove
dinamiche interne alla Palestina. Processi di nomadizzazione e sedentarizzazione, apporto degli
“sbandati” ed “emarginati” al rafforzamento dei gruppi pastorali, concetto di tribù, importanza
dell’elemento cittadino. Innovazioni tecnologiche. Marginalità in ogni caso degli altopiani centrali
della Palestina rispetto alle vie carovaniere e marittime. I proto-israeliti. Problemi di tradizione
testuale e rielaborazione tardiva dei dati. Fonti bibliche e fonti storiche sulla natura, rapporti e leggi
delle 12 tribù. Datazione delle norme giuridiche. Embrione della nuova società tra XII-XI secolo
a.C.; formazione del mosaico palestinese nell’orizzonte allargato tra 1050-930, importanza delle
aggregazioni tribali e del grande asse carovaniero che attraversa da sud a nord la Transgiordania. I
regni di Saul e David, spezzoni di una storia unitaria del popolo d’Israele? La figura di Salomone
tra amministrazione e leggenda. Il regno d’Israele e le saghe patriarcali. Il secolo di prosperità ed
equilibrio d’Israele con le casate di Omri e Yehu. Il modesto regno di Giuda, vassallaggio ad Israele,
fine della casata di David. L’impatto imperiale assiro, le deportazioni e la crescita di Giuda.
Collasso assiro, nuova libertà per la periferia imperiale nella pausa tra i due imperi, zoroastrismo
iranico e profetismo ebraico. Giosia, le riforme, il progetto unitario, i mitici elementi fondanti della
storia d’Israele. Nabucodonosor e la riconquista imperiale, la deportazione selezionata e la
deculturazione degli stati palestinesi.
Intermezzo: VI secolo, la diaspora e la formazione tra reduci e rimanenti del popolo di Yahweh.
Una storia inventata: i Patriarchi come modello debole di venuta di un popolo da un altro paese, la
conquista come modello forte di presa violenta della propria terra. I giudici, sufeti, in uno stato
senza re. L’utopia della lega delle 12 tribù. L’opzione monarchica, il regno unito. L’opzione
sacerdotale ed il tempio salomonico. La Legge.
Epilogo: i due processi formativi della storia d’Israele e l’approccio storico. Il terzo scenario al di
fuori della tendenza tradizionalista e di quella innovatrice.
CONSIDERAZIONI PERSONALI
“Eppure questo paese così modesto per risorse naturali ed addensamento umano, è un paese che
ha svolto un ruolo di primaria importanza nelle vicende storiche di gran parte del mondo.”
Il contrasto, inaudito per l’autore, tra povertà del soggetto e successiva fama, è evidente fin dalle
prime battute, l’autonoma considerazione, della eccessiva distruttività critica della seconda parte del
testo, è dovuta, afferma, alla non “accettazione” della collocazione nella “storia inventata” biblica,
di valori universalmente accettati. La grande eco di queste vicende, comporta sia considerazioni di
stampo religioso che di stampo politico internazionale. Tuttavia, la nostra semplice Storia,
richiederebbe la ricostruzione dei fatti così come sono avvenuti collocandoli nel tempo archeologico
assoluto. L’implicazione biblica, che ha improntato popoli, culture, guerre sante, e non meno
importante la cronologia, a.C. o d.C., comporterebbe approfondite analisi a livello di critica
teologica, o esegesi biblica, cosa che non spetta all’autore in quanto non studioso vecchio-
testamentario, ma storico di professione. A prescindere dalla storia d’Israele, non è forse negli
sviluppi occidentali più che vicino-orientali, più ecclesiastici che non rabbinici che risiede la cassa
di risonanza di questa mitica fondazione? La moderna esegesi biblica nasce con i filosofi ed i
teologi del XVII secolo come Hobbes e Spinoza, una delle prime opere fu quella di Richard Simon
del 1685 “Histoire critique du vieux testament”, gli studiosi iniziarono a chiedersi chi avesse scritto
soprattutto i libri del Pentateuco e quale fosse la loro origine, in particolare trovarono contraddizioni
ed incongruenze che li fecero dubitare circa la loro paternità mosaica. Ascrivibili ad un periodo
compreso tra 1880 e 1890, sono due quaderni custoditi alla Biblioteca Comunale di Amelia (TR) e
la cui analisi è stata gentilmente concessa in via inedita dal Dottor Andrea Lorenzoni, egittologo.
L’autore, Marucchi, elaborò questi testi che non possono essere definiti semplicemente “appunti”, in
quanto contengono uno studio comparato tra le fonti bibliche e quelle Vicino Orientali, Assiro-
Babilonesi ed Egizie in particolare, mettendo a confronto, soprattutto, toponimi, eponimi e nomi di
sovrani. Come lui stesso ammette in uno dei due quaderni: “lo studio delle antichità orientali si è
reso necessario come risposta alle critiche di alcune correnti protestanti”. La “corrente protestante”
cui si riferisce è probabilmente quella del protestantesimo liberale, corrente teologica che si
sviluppa in ambito luterano e tedesco nel XIX secolo e che promosse lo studio scientifico dei testi
biblici. In quel periodo si posero infatti i fondamenti delle scienze storiche e letterarie, che
sottolineavano “con speciale radicalità il problema della «ispirazione» della Sacra Scrittura e della
sua veridicità nei confronti dei dati forniti dalle scienze naturali e storiche, che cercavano di
precisare il contesto storico e letterario della Bibbia”. Archeologo paleocristiano e cattolico
convinto, nominato da Papa Leone XIII scrittore per la lingua latina della Biblioteca Apostolica
Vaticana e archeologo dei Musei Pontifici, il Marucchi sembra avvicinarsi allo studio delle antichità
orientali per finalità apertamente “apologetiche”, come dimostra un altro passaggio contenuto nella
prima pagina del secondo quaderno: “il documento più antico e veridico che esista della storia è la
Bibbia. Essa risale al secolo XIV av. G.C. Altri documenti non vi sono, solo i miti e le favole
Egiziane, Assire, Caldee”, egli tenta di provarne l’antichità e l’autenticità rispetto alle tradizioni
mesopotamiche. I due quaderni presentano in primis un valore documentario in quanto importanti
documenti d’archivio, in secondo luogo, non può essere non ravvisata la loro importanza storico-
culturale, legata soprattutto alla storia degli studi, in quanto testimonianza della “temperie culturale”
post-unitaria nell’ambito della cosiddetta “questione biblica”, sorta proprio in quegli anni e punto di
partenza di quella che verrà poi comunemente definita “ermeneutica” delle Sacre Scritture, cioè la
loro interpretazione e ricerca dei molteplici significati (“polisemia”). Non bisogna dimenticare che
nel 1872 l’assiriologo George Smith, citato più volte dallo stesso Marucchi nei suoi quaderni,
riordinando le tavolette di contenuto mitologico provenienti dalla biblioteca di Assurbanipal, era
riuscito ad individuare la versione caldea del diluvio universale. La scoperta mostrava che un testo
pagano precedeva e confermava narrazioni contenute nell’Antico Testamento. Questo diede un
grandissimo impulso, non solo agli studi di Assiriologia, ma anche a quelli comparati con la
tradizione biblica. Il punto di vista del Marucchi, come uomo e studioso, sembra essere quello di un
archeologo paleocristiano strettamente legato agli ambienti ecclesiastici, impegnato attraverso le
sue ricerche a difendere l’unicità e la veridicità delle Sacre Scritture contro alcune correnti
razionalistiche che vedevano nella Bibbia una “semplice” raccolta di scritti anteriori. Il problema è
tutt’ora irrisolto e, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, una serie di campagne archeologiche
nel Vicino Oriente hanno cercato di chiarire, confermare o smentire alcuni episodi biblici.
L’importanza di questi quaderni sta, soprattutto, nel costituire una delle prime testimonianze di un
approccio scientifico, storico-filologico, alla “questione biblica”, seppur in un’ottica chiaramente
“cristiano-centrica”. La loro datazione può essere ristretta ad un periodo compreso nel quinquennio
1880-85, cioè dal momento dei primi studi del Marucchi in ambito orientale e mediterraneo e la
pubblicazione de “Le Catacombe e il Protestantesimo” del 1884, in aperta polemica con la scuola
protestante. L’esegesi biblica tedesca del XIX secolo con Julius Wellhausen arrivò alla versione
definitiva dell’ipotesi documentale, affermando che il Pentateuco era formato da almeno quattro
documenti distinti, nessuno dei quali composti prima del X secolo e combinati da uno scriba nella
forma presente al più tardi nel V secolo. Il dibattito, proseguito attraverso le critiche dei sostenitori
della fede, passando per la storia della tradizione (orale) di Martin Noth, e l’archeologia biblica di
William Foxwell Albright, giunge negli anni ’60 a criticare sia Albright con l’archeologia a
sostegno di quanto detto nella Genesi e nell’Esodo che l’ipotesi documentale, arrivando a proporre
nuovi modelli frammentari di composizione. Alla fine del XX secolo, il Vaticano accoglie, con le
dovute cautele, l’esegesi biblica. Nella presentazione de “La Bibbia di Gerusalemme” Monsignor
Ravasi, spiega che la Bibbia della CEI (versione curata dalla Conferenza Episcopale Italiana, detta
BC, “editio princeps” del 1971) tenta, attraverso un team di biblisti italiani, di fornire note di critica
testuale con una “lezione” e quindi versione diversa dalla BJ (Bible de Jérusalem nella revisione del
1984 ad opera di esegeti cattolici francesi). Versioni dunque, tentativi di lettura. Ritroviamo lo
stesso Mons. Ravasi nella critica sull’Avvenire al libro di Filkenstein e Silbermann “Le tracce di
Mosè. La Bibbia tra storia e mito”, affermare che: « la Bibbia presenta una storia profetica, una
storia narrata per il suo valore di segno, una storia fortemente interpretata». Ed ancora, nella
prefazione al libro di Beretta e Broli “Gli undici comandamenti”: « a raccogliere l’immensa mole di
equivoci, luoghi comuni, e miti che nei secoli si sono accumulati intorno alla Sacra Scrittura, si
sono impegnati due giornalisti, Roberto Beretta ed Elisabetta Broli, che, come segugi, sono andati
alla ricerca di questi tartufi pseudo-biblici, deliziosi e maleodoranti al tempo stesso […].». Larga
accettazione dunque di una visione distaccata del testo biblico. Ma, la storia, per essere ricostruita
necessita dell’apporto di altre scienze, come l’archeologia, l’epigrafia, le fonti, la Bibbia, può essere
una fonte al pari delle lettere di el-‘Amarna o gli Annali Assiri? Quale è più o meno inficiata
dall’ideologia imperiale o tribale che dir si voglia? Meno mitologica dell’Epopea di Gilgamesh?
Chi ha preso da chi? Certo, il materiale extra-biblico è da considerarsi di uso immediato perché
coevo e dovuto a motivi più ovvii e banali, ma per la Bibbia, solo l’analisi delle successioni
stratigrafiche ci darebbe risposte nella compilazione del matrix narrativo.
“L’area occupata dalle tribù israelitiche, collocata nell’interno e nella parte meridionale del
Levante, non può certo pretendere miracolose precedenze”.
L’autore forse calca troppo la mano sulla pretesa di miracolo, quale popolo non ha eroe eponimo o
fondazione mitica? Nel testo “Antico Oriente. Storia società economia.”, pur percorrendo il filo
conduttore che troviamo in “Oltre la Bibbia”, il Liverani ha un atteggiamento più morbido nei
confronti dell’AT, senza il quale, dice, sarebbe difficile una ricostruzione storica della Palestina pre-
classica. Soprattutto nella parte dedicata alla “storia normale” sono moltissimi i rimandi ai passi
della Bibbia, con una continua conferma della “bugia biblica” che a volte viene comunque presa
come fonte, laddove, vista l’invenzione presunta, mi sarei aspettata una storia sulla sola base
“archeologica”. Vero è che la ricerca archeologica è limitata in quelle zone dagli attuali assetti geo-
politici instabili, e dunque causa del permanere di lacune di dati. Nell’intermezzo, viene definita la
Palestina come terra vuota e paesaggio desolato, abbandonata da Dio e dagli uomini, evidente il
contrasto tra l’emersione di gruppi tribali che ora sono soltanto squatters disperati, ma che nel
passaggio dal bronzo al ferro furono la nuova società. Il raffronto tra ciò che è buono e ciò che non
lo è appare soggettivo, forse nei termini, perché concettualmente la ricostruzione storica del
Liverani convince. Nelle conclusioni il Prof. Liverani afferma che l’unica Storia può essere
bipartita, considerando quella normale e quella inventata l’una in funzione dell’altra. Leggendo
questa complessissima opera, l’ho avvertita come il passo successivo alla sola Storia Antica
d’Israele, storia che, forse nel dubbio della stratificazione narrativa della Bibbia, potrebbe essere
fatta con il solo confronto materiale, archeologico sicuramente, e più ancora riferito a fonti “altre”.
L’approccio, deve andare oltre sia il metodo tradizionalista che quello innovatore, cercando la sola
verità tangibile delle condizioni geografiche, ambientali, economiche e relazionali che hanno
segnato l’evoluzione della Palestina. “Oltre la Bibbia” è una grandissima opera storiografica, che
pone immensi spunti per uno studio approfondito delle Sacre Scritture che appartengono a questo
popolo. Su suggerimento della Dottoressa Mangolini, che critica in maniera molto aspra il Liverani,
soprattutto su posizioni politiche e spirituali, ho potuto visionare il sito www.israele.net,
capacitandomi del fatto che sia la Bibbia che qualsiasi altra antica fonte, vanno interpretate, ed
essendo l’interpretazione soggettiva, cioè dipendente da propri obiettivi e formazioni, può
illuminare talune verità e non altre magari, così ad esempio, la Stele di Tel Dan, in
www.sezione,,3472.htm, viene presa come il più antico riferimento extra biblico alla monarchia
davidica, mentre in “Oltre la Bibbia” come riferimento all’occupazione della città di Dan da parte di
Haza’el di Damasco. Max Weber in “Introduzione all’antico giudaismo” affermava che ci sarebbe
voluta più di una vita per conseguire una vera padronanza della letteratura concernente la religione
d’Israele e la Bibbia, che potrebbe essere secondo G.P. Miller, “la più antica filosofia politica
d’Occidente”, contenendo infatti, la formalizzazione delle idee politiche attraverso la narrativa, la
storia di Adamo ed Eva, Abramo, l’arca di Noè, Mosè, i re ecc., raccoglie gli spunti per un’analisi
sofisticata, coerente e logica del problema dell’autorità. La modalità narrativa è già di per sé
validante rispetto all’obiettivo iniziale, attraverso benefici mnemonici (le antiche culture sono
effettivamente caratterizzate dall’oralità), qualità artistiche, autenticazioni del messaggio grazie
all’autorità del passato, figure ancestrali, importanti rituali, eziologia, etimologia, cultura popolare,
si forma la radice comune e splendente in cui un popolo fonda la sua essenza. Non considerando il
valore spirituale del testo, la Bibbia può essere considerata un documento secolare a servizio delle
necessità di una particolare società umana. Da un punto di vista strettamente spirituale, non storico
quindi, per ebrei, cristiani e musulmani, proprio questi contrasti, appaiono il fondamento della loro
fede, con la pochezza di una terra promessa da Dio cui gli ebrei sono guidati da Mosè, la semplicità
e la ricchezza di un “avatar” come Gesù Cristo, Verbo che si è fatto Carne, con la meta di
Maometto in questo luogo, alla fine di un miracoloso viaggio notturno, che mosse da Mecca e che
lo fece poi ascendere al cielo visitando il paradiso dopo aver sorvolato l’inferno.
(N.D.R.: in corsivo le citazioni dell’autore)
FONTI
R. Beretta-E. Broli, Gli undici comandamenti, Alessandria 2002
R. Carcano, Le tracce di Mosè, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti.mht, 2003
Database Antikitera, 2003
Database Archeologia Biblica, 2003
Enciclopedia Treccani
E. Galavotti, Le bugie della Bibbia, Homolaicus.mht, 2012
www.israele.net/sezione,13,.htm
La Bibbia di Gerusalemme
G. Lacerenza, Israele ed il Levante, in La Grande Storia. Le civiltà del Vicino Oriente, Milano
2011, pp. 415-433
www.LaParola.net
M. Liverani, Antico oriente. Storia società economia. Bari 2003
A. Lorenzoni, Osservazioni preliminari. [inedito] Amelia 2012
L. Mangolini, Oltre la Bibbia. Storia Antica D’Israele, in Episteme.mht n°6
G.P. Miller, The ways of a king. Legal and political ideas in the Bible, in Journal of ancient
Judaism. Supplements, Gottingen 2011, pp. 7-25
www.mostrabiblica.it
G. Regalzi, Chi si librava sulle acque? Interpretazioni e trasformazioni in Gen. 1:2, in Mutuare,
interpretare, tradurre: storie di culture a confronto. Atti del 2° incontro “Orientalisti”, Roma 2003,
pp. 105-114
A. Socci, Indagine su Gesù, Milano 2008
J. Zias-E. Puech, The tomb of Absalom reconsidered, in www.asor.org/pubs/nea/
B. Zissu-A.S. Tendler, The Kidron Valley Tombs in the Bizantine Period: A
Reconsideration, in New studies on Jerusalem, Volume 17, Ramat-Gan 2011
Sommario
Immagine di copertina p. 1
Struttura del libroIntroduzione p. 1
Ferro I: il cambiamento nella continuità delle tradizioni p. 2
Ferro IIA-IIB: il primato del regno settentrionale ed il lento sviluppo della Giudea p. 10
Ferro IIC: la conquista assira tra deculturazione e pax assyriaca p. 18
Periodo babilonese ed età persiana: la Palestina ancora luogo di incontro tra culture p. 25
Il tempio di Gerusalemme: una questione ancora aperta p. 32
Il culto: luoghi, oggetti, immagini p. 34
Sviluppo dei punti nodali p.44
Confronti con “Oltre la Bibbia” e considerazioni personali p. 45
Fonti p. 46
“Dal terreno al divino. Archeologia del culto nella Palestina del primo millennio” di Ida Oggiano
IMMAGINE DI COPERTINADivinità maschile dal santuario tribale di Horvat Qitmit: parte di una statua di divinità in terracotta,
la testa, di 13 cm, è dipinta in rosso con boccoli neri, indossa il tipico attributo divino del copricapo
a tre corna, la figura, vista come divinità femminile guerriera per l’acconciatura e la pittura rossa sul
viso, ma soprattutto per l’elmo con corno centrale, trova confronti solo nelle figurine in metallo di
dee provenienti da scavi clandestini in Siria ed Israele. Simili a questo esemplare per l’espressione
del viso ed il metodo di attacco delle corna alla testa, sono tre figurine da Kafr Kanna in Galilea. Il
reperto, rinvenuto a 3-5 metri a sud del recinto del complesso A, ci parla, insieme ai numerosi altri
testimoni materiali, di un luogo, extraurbano, specificatamente sacro, intensamente frequentato,
sede del culto a varie figure divine, iconiche ed aniconiche, transitato da diverse popolazioni. Un
santuario tribale ai margini orientali della valle di Beer-Sheba-Arad non connesso con nuclei
abitativi ma testimonianza della cultura dei popoli che controllavano le vie meridionali commerciali
e che potevano liberamente adorare le loro divinità senza precise direttive religiose tra VII e VI
secolo. Un’immagine a tutto tondo quella fornita dalla copertina di questo libro, obiettivo del quale
è misurare la varietà reale delle manifestazioni di culto con la unidirezionalità del testo biblico.
STRUTTURA DEL LIBROIntroduzione: “si può scrivere oggi una sintesi sulla storia del culto nell’area del Levante
meridionale attraverso lo studio della documentazione archeologica?” L’esito degli studi
archeologici, secondo l’archeologia contestuale e cognitivo-processuale, è la ricostruzione storica.
Quindi: “perché una sintesi storico-archeologica su un tema così insidioso come quello della
religione (in particolare dell’aspetto cultuale) dell’area del Levante meridionale del I millennio, […]
con una tradizione di studi fortemente legata agli ambienti teologici, […] una bibliografia
amplissima da interpretare e codificare, […] in modo da cogliere la possibile trappola di una
volontaria alterazione delle informazioni?”. I numerosi studi relativi a quest’area nella
documentazione cultuale, sono marginali, parziali e settoriali, limitati a classi di monumenti e
materiali, specifiche problematiche, periodi ben definiti o singoli gruppi. Manca una sintesi nel
contesto geografico-culturale che segua il complesso svolgersi dalla fine del II millennio al V
secolo, così da cogliere continuità e cambiamenti. L’analisi dei singoli contesti archeologici, con
l’aggiornamento delle datazioni, non è stata disgiunta dall’esame delle singole classi di materiali,
confluendo, nel confronto con le fonti epigrafiche e letterarie non riesaminate dall’autrice, nella
lettura storica dell’area levantina meridionale del I millennio; a livello metodologico è stato seguito
un approccio contestuale. Per quanto riguarda i limiti geografici, l’area, chiamata negli anni in modi
assai diversi (Palestina, Siria-Palestina, terra di Canaan, terra d’Israele, Terra Santa e Terra
Promessa), per le esigenze della Oggiano è stata definita Levante Meridionale, suddivisa in aree
geografico-culturali: filistea, fenicia, giudaica, transgiordanica. In alcune zone di contatto gli
influssi sono sfumati o prevalgono quelli di aree limitrofe. I limiti cronologici si pongono tra
l’inizio dell’età del ferro e l’età persiana inclusa, riprendendo le grandi “cesure storiografiche” di
Mario Liverani, quella dell’inizio del XII secolo che con le innovazioni tecnologiche,
insediamentali ed etnopolitiche caratterizza il passaggio tra TB e FI e quella del VI secolo, con
nuovi rapporti socio-politici e nuove concezioni religiose e culturali. Conclusivi di un grande ciclo
della storia palestinese sono i secoli VI e V in cui si colloca il fermento di elaborazione ideologica
che caratterizza l’età persiana e sfocerà nel giudaismo e che si fa iniziare con la missione di Ezra del
398 a.C.. Per quanto riguarda la periodizzazione si è mantenuta la divisione tradizionale in Ferro I,
IIA, IIB, IIC, periodo babilonese ed età persiana. Per quanto riguarda la cronologia assoluta è stata
adottata la cronologia bassa proposta dallo studioso israeliano Israel Finkelstein, sulla base
dell’assenza della ceramica “monocroma filistea” dalle fortezze egiziane della XX dinastia nella
Palestina meridionale e sull’assenza di ceramica egiziana/egittizzante dai siti filistei, ed affermatasi
secondo Finkelstein dopo la fine della dominazione egiziana nella regione e cioè il 1135 a.C..
Problema principale della cronologia “palestinese” è la mancanza di dati di cronologia assoluta certi
per il periodo compreso tra la fine del dominio della XX dinastia egiziana in Canaan nel XII secolo
e le campagne assire della fine dell’VIII secolo. Gli archeologi si sono basati perciò su due
elementi: la comparsa sulle coste della Palestina della “Monochrome Pottery” e la stratigrafia dei
vecchi scavi di Megiddo. Sito chiave per la definizione del passaggio tra FI e FII in Palestina è lo
strato IV di Megiddo, qui, edifici a pilastri furono datati all’inizio al X secolo, interpretati come le
stalle di Salomone, poi, Yadin, propose di datare solo la fase iniziale dello strato al X secolo, con la
porta urbica a sei vani, e di datare lo strato IVA, le stalle ed il sistema idrico, all’inizio del IX
secolo, la dinastia di Omri. In base all’abbassamento della cronologia della ceramica filistea, lo
strato VIA di Megiddo andrebbe collocato nel X secolo, quello salomonico della monarchia unita,
caratterizzato come periodo di continuità culturale sostanzialmente cananeo. Questo abbassamento
porterebbe come conseguenze l’eliminazione delle uniche testimonianze archeologiche della
monarchia unita con capitale Gerusalemme, la rivalutazione del Regno d’Israele, l’individuazione
della presenza aramaica nella parte settentrionale del paese.
Ferro I: il cambiamento nella continuità delle tradizioni: crisi dei grandi stati regionali
dell’età del bronzo. Tra la metà del XIII e la seconda metà del XII secolo vengono distrutte alcune
tra le più importanti città cananee, declina il controllo egiziano sulla regione, entra in crisi il sistema
politico-amministrativo delle città cananee, gruppi nomadi si sedentarizzano parzialmente. Le
popolazioni costiere vivono un periodo di crescita economica dovuta all’allargamento dei propri
orizzonti commerciali in seguito alla crisi del controllo egiziano sulla regione, nasce, grazie anche
all’emergere dei ceti mercantili, la pentapoli filistea e si sviluppano i centri urbani fenici. La zona
interna della Palestina mostra una sostanziale continuità, le regioni della Transgiordania invece,
sono occupate da una popolazione organizzata in tribù che tende a dividersi tra piccoli villaggi ed
insediamenti periodici. Nella prima metà del XII secolo in alcuni centri urbani come Hazor,
Megiddo e Beth-Shean, il passaggio alla nuova fase culturale sembra avvenuto. Il panorama extra-
urbano si ridisegna con un drastico aumento della popolazione sedentaria nelle colline centrali e con
la nascita di villaggi in cui si insediano tanto le popolazioni indigene prima dedite alla pastorizia,
quanto gli abitanti delle città cananee in crisi. A questi si aggiunsero, genti dalla costa e delle terre
basse adiacenti alle colline e gruppi nomadi provenienti dall’est. All’interno di questo panorama
territoriale, così come Aramei, Fenici, Ammoniti, Moabiti, Edomiti si affermano gli Israeliti, come
realtà politica autonoma dotata di proprio corredo religioso, ideologico e culturale.
La continuità funzionale del tempio urbano.
Uso e ricostruzione dei templi cittadini del bronzo tardo e nuove formule architettoniche: nel XII-X secolo,
le testimonianze relative al culto ed alle diverse manifestazioni della cultura materiale mostrano da
un lato una sostanziale continuità con la fase precedente specialmente in ambito urbano, dall’altro
una progressiva tendenza al mutamento soprattutto nei centri urbani costieri. Il tempio urbano
prosegue la sua funzione di centro di aggregazione politica. I più antichi ed importanti santuari
vengono ricostruiti e restaurati. I centri che hanno restituito documenti di architettura templare
databili a questa fase sono tre: Megiddo, Sichem e Beth-Shean. Megiddo fu una delle città più
prospere del TB e caposaldo della XX dinastia egiziana, distrutta verso il 1135-1130, sulle sue
rovine sorse un piccolo villaggio. Agli inizi del FI viene ricostruito il tempio-fortezza o migdol che
si trovava nell’area sacra BB occupata fin dal III millennio da edifici di culto, dopo di questo, dal
IX secolo, l’area sarà occupata da edifici secolari. L’edificio del TB era un tempio magnifico dalla
tecnica raffinata, quello dei FI sarà più povero. Sichem non presenta tracce di distruzione violenta,
continua ad esistere nel FI come villaggio agricolo, il migdol, del bronzo viene usato fino alla metà-
fine del X secolo quando l’area templare viene occupata da case rurali. Il tempio ricalca lo schema
tipico dei templi nord-siriani a pianta longitudinale. Beth-Shean nella piana di Esraelon, fu uno dei
più importanti centri della regione del TB e caposaldo egiziano in Palestina, occupata soprattutto da
edifici amministrativi, ebbe un rapporto privilegiato con gli egiziani, tanto che continuarono a
governare anche dopo la distruzione della fine del XIII secolo; l’influsso egittizzante è palesato nel
tempio da evidenti affinità con le installazioni cultuali di El Amarna. Il definitivo declino della
presenza egiziana si avverte nell’emergere di tratti culturali tipicamente locali che trovano
espressione nella costruzione di edifici monumentali come il 1700 o i cosiddetti “templi doppi”.
Realizzati nell’area occupata dal tempio nel TB e da quello della fine del XII secolo, sono assai mal
preservati, il Tempio Nord, non avendo traccia di installazioni cultuali, non ha natura sacra certa, il
Tempio Sud, collegato a quello Nord da uno stretto corridoio, era orientato EO a differenza di quelli
del TB e FI orientati N-S, al suo interno sono stati trovati molti oggetti di culto, supporti in
ceramica decorati. I templi e la città fiorirono nella seconda metà dell’XI secolo e furono in uso fino
al X, mostrando una continuità nell’adorazione di statue di culto e stele di Sethi I, Ramses II e III,
logico riflesso di tradizioni culturali e religiose egiziane fortemente radicate.
Oltre il Giordano: l’area, tra la fine del XIII secolo e la prima metà del XII rientrava nel circuito
economico egiziano che faceva capo a Beth-Shean. A Tell Deir ‘Alla esisteva un importante
santuario frequentato da genti di diversa provenienza che commerciavano tra le montagne di Gilead
e l’Egitto, che aveva la funzione di garantirne le attività e che anche dopo l’abbandono del centro
nel 1200 venne recuperato da pastori transumanti e metallurghi itineranti. La stele di Balu’a, di
carattere egittizzante, indica le relazioni tra l’Egitto e le zone ad est del Giordano, trovata fuori
contesto, mostrerebbe un capo degli Shasu, turbolenti nomadi, condotto per mano da una divinità
verso un’altra. In Ammon, Tell ‘Umayri, fu un ricco centro agricolo che nel FI venne dotato di un
sistema fortificato a ridosso del quale erano due edifici, uno dei quali definito luogo di culto grazie
ad un masso tondeggiante dalla sommità piatta e posto di fronte ad una pietra ovale di calcare. A
Tell el-Mazar, simile situazione con un tempio a corte aperta, l’edificio, di dimensioni notevoli,
visse fino alla seconda metà del X secolo ed è stato interpretato come santuario, sia in base al tipo di
pianta, con tre ambenti che si aprivano su una corte, che al rinvenimento di ceramica di tipo
cultuale, insieme a resti di ossa animali e cenere.
L’area costiera ed il suo entroterra: la nuova realtà urbana e sociale dei centri filistei: questione
filistea. Area costiera interessata nel XII secolo da sostanziali cambiamenti nel quadro insediativo e
nella cultura materiale tradizionalmente collegati all’invasione dei Popoli del Mare e successivo
stanziamento dei Filistei. Chi erano i Filistei? Genti che alla fine del II millennio diedero vita ad una
cultura palestinese costiera dai caratteri chiaramente definibili, o provenienti dall’Egeo o emergenti
tra Cipro e la Fenicia come nuovo gruppo sociale, una classe di mercanti che grazie alla crisi del
sistema palatino, poté dar vita a nuove forme di organizzazione economica e politica. Quando
“nacquero”? Sulla base delle testimonianze materiali peculiari, cioè la ceramica Monocroma
Filistea, secondo alcuni studiosi tra la fine del XIII e la prima metà del XII, secondo altri verso il
1135. La Oggiano usa in questa sede la cronologia bassa di Finkelstein e con il termine Filistei,
indica un insieme di genti di provenienza varia, la cui caratteristica fu nella connotazione mercantile
della sua classe dirigente. La facies culturale della pentapoli filistea combina tradizioni cananee e
forme di cultura dei presunti paesi d’origine.
Lo spazio sacro filisteo tra strutture templari ed aree produttive: della pentapoli solo due città hanno
restituito testimonianze relative al culto per le prime fasi del FI: Ashdod ed Ekron. Ashdod era stato
un importante centro commerciale in stretto rapporto con Ugarit e sotto influenza egiziana, al ritiro
dell’Egitto da Canaan nel XII secolo, fu distrutto e sui suoi resti fu costruita una città che mostra
caratteri di continuità con la locale tradizione Cananea del TB. Nell’area G, fu rinvenuta, all’interno
di una zona artigianale di lavorazione della ceramica, una struttura denominata “alto luogo”, con
frammenti di ceramica ed ossa. Negli ambienti che servivano come laboratori sono state rinvenute
figurine fittili del tipo detto ashdoda. Tra fine XI ed inizi X secolo, la città prospera, nell’area H è
testimoniata l’attività edificatoria di un centro ben pianificato dai caratteri chiaramente rinnovati.
Del centro filisteo rimangono due complessi di edifici divisi da una strada, una struttura rettangolare
di mattoni intonacati appoggiata ad una delle due basi di colonne all’interno della corte rettangolare
è stata interpretata come altare per offerte. Anche un vano con una struttura absidata su sostruzione
rettangolare è stata riletta come installazione cultuale, sia per la vicinanza alla corte che per il
rinvenimento in un vicino ambiente di una figura di personaggio femminile in trono: la cosiddetta
“ashdoda”. La produzione della ashdoda è locale, con origini micenee e cipriote, la cui
interpretazione come “Grande Dea Madre” è concettualmente superata. Molti elementi di tradizione
egea si trovano nella documentazione del centro di Ekron, città stato cananea del TB, tra XII ed XI
secolo fu estesa, ben pianificata, fortificata ed economicamente fiorente, le prime testimonianze
relative al culto risalgono agli inizi dell’XI secolo quando fu costruito il Building 351. L’edificio
presenta un vano quasi interamente occupato da un focolare, importante elemento sia nell’Egeo che
a Cipro, in particolare degli edifici a megaron. Al di sopra fu realizzato il Building 350, tra fine XI
ed inizi X secolo, che aveva un focolare più piccolo rispetto a quello della fase precedente. Negli
ambienti rettangolari sono stati rinvenuti oggetti di ascendenza cipriota ed egea. Nella fase finale
dell’edificio il pavimento è coperto da coppe in Red Slip, e, nel vano settentrionale, un deposito di
oggetti unici di influsso egiziano della XXI dinastia. La monumentalità dell’edificio ed elementi
come il portico, lo fanno interpretare come struttura di funzione sacra, pur in assenza di confronti
precisi nel Levante ed a Cipro. Elementi cultuali sono stati infine rinvenuti nella zona delle
fortificazioni cittadine di Ekron. Le più importanti testimonianze sul culto filisteo si hanno da Tell
Qasile, un piccolo centro dell’area settentrionale costiera al limite della Filistea vera e propria. Fu
fondato ex novo nell’XI secolo, il primo insediamento ebbe nell’area sacra il punto focale intorno a
cui si articolarono le altre strutture, questa, era separata dal resto dell’abitato da un recinto che
delimitava lo spazio all’interno del quale era un piccolo tempio, il Tempio 319, un vano di forma
allungata ed un’ampia corte. L’area templare mostra una continuità d’uso fino al definitivo
abbandono alla fine del X secolo. Non si è in grado di dire a chi fosse dedicato, i molti oggetti con il
motivo del volatile possono essere confrontati con la documentazione ugaritica in cui una coppa
mostra una dedica a Reshef. La struttura templare di Tell Qasile è l’unica dell’area costiera
definibile con certezza come tempio per queste fasi. Il suo inserimento all’interno del tessuto
urbano mostra il ruolo che aveva nell’ambito del centro, uno spazio dedicato alle attività religiose di
una cittadinanza culturalmente orientata tanto verso l’entroterra cananeo quanto verso il mare e le
sponde cipriote.
Incontri, scambi e memoria del passato all’origine dei rituali filistei: i centri costieri meridionali di queste
fasi funsero da aree sacre urbane, sono assenti edifici sacri monumentali e le attività religiose sono
collegate, all’interno dei centri, alle attività economiche. Il tempio a pianta longitudinale delle città
cananee era simbolo della città stessa in quanto rappresentazione dell’aspetto religioso della
regalità, le strutture cultuali dell’area filistea erano testimoni di una pianificazione dell’attività
religiosa piuttosto originale e svincolata dalla tradizione locale. Il culto e le sue strutture sembrano
riflettere la principale attività commerciale e mercantile della nuova classe dirigente.
L’inquadramento tipologico di queste strutture fu tentato dal Mazar, definendo la categoria degli
Irregular Plan Temples, distinguendoli dal tempio monumentale a pianta longitudinale di tradizione
nord-siriana. La definizione è stata criticata sulla base di un uso libero di formule architettoniche
differenziate tra la costa palestinese e Cipro. La presenza di elementi d’arredo e cultuali simili può
essere spiegata con l’appartenenza dei costruttori ad un medesimo milieu culturale, in un complesso
intreccio di tradizioni antiche cananee con nuove egee, cui non dovevano essere estranei influssi
levantini. L’integrazione delle aree di culto all’interno del tessuto urbano si può spiegare con
l’emergere di nuove forme di religiosità cittadina, che videro affiancate, attività cultuali ed attività
quotidiane. Una connessione permarrà nelle fasi successive, come testimoniato in ambito filisteo ad
Ekron nel VII secolo od in Fenicia a Sarepta. L’origine parallela in area egea e vicino orientale è
stata ipotizzata per i kernoi, conosciuti già nel AB e nel MB nel Levante, nel TB hanno una grande
fortuna nell’Egeo e successivamente in area palestinese. Il legame con Cipro è rafforzato dalla
presenza di maschere antropomorfe e zoomorfe che in Fenicia vengono trovate anche in contesti
funerari. Nella coroplastica, gli influssi egei convivono con le tradizioni cananee. La cultura
materiale filistea mostra caratteri assai eterogenei, essendosi formata già nel corso della fase finale
del TB per il confluire ed il mescolarsi di elementi cananei, egiziani, ed egei. Questi ultimi,
interlocutori economici e culturali già da secoli, diventano parte integrante del mondo vicino-
orientale, ricoprendo un nuovo ruolo all’interno dello sviluppo regionale delle culture palestinesi
del FI.
La realtà del villaggio ed i locali di culto: alcuni insediamenti come Hazor, vengono ridotti, da
capoluoghi regionali, a piccoli villaggi. Il centro rurale è tipico del periodo con la nascita di villaggi
sorti ex novo nelle zone collinari palestinesi. L’attività di culto si svolge entro vani domestici non
architettonicamente connotati ma definiti cultuali in base al tipo di reperti rinvenuti. Quindi
l’attività religiosa non aveva impegno pubblico e si svolgeva nel quotidiano degli abitanti. Hazor ha
restituito allo strato XI della fine dell’XI secolo, la stanza 3283, dove, sotto il pavimento, era
nascosta una giara con bronzetto imberbe e mano forata, lame di asce e punte di freccia,
identificandolo così come dio guerriero. La pratica è attestata anche ad ‘Ai, villaggio di nuova
fondazione del FI, riconosciuto per la caratteristica cultuale della ceramica ivi rinvenuta, come a
Khirbet Raddana, dove al di sopra di una piattaforma erano due supporti con offerte votive, sempre
da questa zona un cratere che combina caratteri locali dei crateri poliansati e vasi in stile hittita con
una canna tubolare a livello dell’orlo da cui emergono teste di bue.
Il santuario extraurbano come centro di aggregazione delle comunità delle alte terre: centri
urbani/templi di antica tradizione, villaggi/piccoli vani domestici, la novità fu nel santuario
extraurbano. L’alternatività è evidente nella collocazione topografica e nell’originalità delle formule
architettoniche adottate, rispondenti ad una popolazione sparsa sul territorio ed etnicamente
eterogenea. Il centro della regione è il centro della comunità che la occupa. L’impresa architettonica
mostra anche un certo impegno economico, come se nella città fosse venuta meno la possibilità di
sostenere determinate spese e la popolazione dei villaggi si organizzasse in qualche forma di
congregazione per realizzare un’impresa d’interesse comune. Le evidenze archeologiche lasciano
anche ipotizzare un qualche tipo di normativa unitaria. Il primo monumento è il cosiddetto Bull
Site, dalla statuina di toro rinvenuta presso il muro occidentale del recinto. L’altura si trova nei
pressi di Samaria, nel territorio di Manasseh, si tratta di un’area all’aperto chiusa da un recinto di
forma circolare irregolare. I reperti sono scarsissimi ed in base al testo biblico che recita “presente
in ogni collina e sotto ogni albero frondoso”, lo scopritore, Mazar, la interpretò come bamah, o area
sacra aperta. Il bronzetto taurino ha confronti sia con FI che TB e la sua simbologia è molto
complessa, il culto del toro può relazionarsi sia alla divinità in senso stretto che come suo attributo o
compagno, ed è ben radicato nella cultura cananea cui è accompagnato al dio della tempesta Ba’al.
Tuttavia, il suo rinvenimento in territorio samaritano e l’esistenza a Sichem del santuario di El-
Berit, potrebbe far anche pensare al dio El. Una struttura più articolata è quella ritrovata sul pendio
nord-est del Monte Ebal a nord della valle di Sichem. Si tratta di una grande area recintata con
doppia cinta muraria, del recinto interno sono state individuate due fasi, entrambe del FI. Della
prima fase resti di murature sono riferibili ad un recinto che racchiudeva una larga corte, nel mezzo
della quale si trova un’installazione cultuale rotonda, all’esterno, alcune strutture sono state
interpretate come abitative. Nella seconda fase furono realizzati lavori per la creazione di un
complesso monumentale che aveva il suo fulcro nello spazio superiore dell’area che venne
recintato. L’edificio principale era una grande terrazza rettangolare edificata con grosse pietre.
Sembra mancare di una qualsiasi forma d’ingresso ed aveva gli angoli orientati secondo i punti
cardinali. La seconda fase è datata alla prima metà del XII secolo e l’abbandono senza distruzione
intorno al 1130. Secondo Zertal, il suo scopritore, l’area, un’ampia terrazza-altare con struttura
centrale usata come altare per sacrifici, era area sacra centrale supertribale se non nazionale per
l’intera confederazione tribale associata all’altare di tradizione biblica eretto a Monte Ebal, sarebbe
il primo centro religioso degli israeliti abbandonato in seguito alla creazione del santuario
supertribale di Shilo, nei resti faunistici di animali giovani e maschi, bruciati all’aperto e tagliati
vicino alle giunture, ritenuti puri, vedrebbe una conformità con il giudeo mizvot del periodo del
Secondo Tempio. Altri studiosi hanno posizioni più caute, altri sono dubbiosi o contrari, altri ancora
hanno proposto funzioni alternative tipo quella militare per cui l’altare sarebbe una torre di
avvistamento del tipo attestato a Giloh.
Oggetti di culto e strumenti per il culto: i supporti cultuali: le pratiche rituali all’interno dei vari
contesti sono poco note, tuttavia, esiste una categoria di oggetti che per singolarità della forma ed
interpretazione del loro uso all’interno delle cerimonie, meritano una trattazione specifica, si tratta
dei supporti cultuali o cult stands. Questi oggetti, incensieri o meglio bruciaprofumi, sono
riccamente decorati, attestati anche nel II millennio, ebbero particolare fortuna tra XII ed XI secolo.
Dal punto di vista decorativo rientrano in due categorie: dipinti, nella regione costiera e nelle valli
settentrionali e con decorazione a rilievo ed incisa. L’abbondanza dei supporti cultuali è uno dei
tratti distintivi del FI in Palestina e delle forme di attività rituale di questo periodo. I supporti
cultuali di Beth-Shean provengono dall’area sacra del Tempio Sud e da contesti ignoti, la forma ha
l’aspetto di un edificio, la ricca decorazione è sia dipinta che applicata, peculiare il motivo del/dei
serpente/i che avvolgendo il supporto tocca/no il becco di una colomba che si affaccia da aperture
praticate nel vaso, la raffigurazione richiama motivi cananei e viene interpretata come divinità
femminile legata al tema della fertilità. A Ta’anach, due supporti cultuali sono generalmente
inquadrati nel X secolo, si riferiscono ad una medesima tradizione sia per quanto riguarda la
tipologia che la stessa formula iconografica e decorativa. Per la funzione, si ipotizza il supporto a
coppe per offerte e libagioni, o per la statua della divinità, opinione diffusa è che rappresentassero
un tempio contenente l’immagine della divinità e quindi un modellino di santuario. L’ingresso del
tempio era custodito da figure mitologiche ed il tempio, secondo confronti con la “Signora degli
animali”, forse erede della Athiratu ugaritica, era dedicato ad Asherah, operante a fianco di Yahweh
nella fase pre-esilica. Della tipologia dei supporti decorati è anche l’incensiere con musici da
Ashdod, immagini di musici sono rare ma un confronto si ha con la Orpheus Jug dove l’unità
narrativa della rappresentazione richiama l’illustrazione di un mito ben preciso. Sempre tipo di
supporto cultuale, il vaso ritrovato nello strato XIV della città di David a Gerusalemme.
Dèi, uomini e animali: le immagini dei sigilli e della coroplastica: forme ed iconografie dei supporti
cultuali di XI-X secolo, sono evidenti i legami con Siria, Anatolia, ambito hittita e del medio
Eufrate, a testimonianza dell’apertura della Palestina del I millennio. I legami con la tradizione
siriana ed egiziana risalgono fin al MB, quando divinità locali ed eroi mitici furono rappresentati
nella glittica e nella scultura palestinese in forme egittizzanti e siriane. La religiosità dell’età del
Ferro, grazie alla forte conservatività iconografica e stilistica della bronzistica del XII-XI secolo, è
prova dell’attività delle ultime botteghe del TB palestinese e della resa iconografica di divinità dalle
vecchie forme e nuovi nomi. Per l’influsso egiziano, notevoli testimonianze le abbiamo grazie alla
glittica, continuando come ricco campionario per la classe politica locale anche dopo il ritiro
dell’Egitto dalla regione. Tra XII-XI secolo le iconografie egiziane vengono in parte modificate con
tendenza all’elaborazione autonoma di un’originale simbologia e scomparsa di alcune immagini in
uso nel TB dal repertorio egiziano. Nei sigilli e negli amuleti tendono a scomparire le raffigurazioni
di divinità femminili, sopravvivono le immagini legate al tema della fertilità reso attraverso forme
simboliche. In ambito urbano, la forte impronta egiziana, pare indicare che l’elite cittadina era
orientata verso un sistema di simboli provenienti dalla valle del Nilo. In ambito extraurbano
sopravvivono elementi della cultura cananea. In città, è nelle classi meno elevate che sopravvive la
tradizione locale, come per le “placchette di Astarte”, o statuine di terracotta raffiguranti la figura
femminile nuda senza attributi. Connesse ai culti della fertilità del mondo cananeo,
rappresenterebbero Astarte o Ishtar per alcuni, per altri, dedicanti che richiedevano la protezione nel
matrimonio, gravidanza, parto. Le placche del FI vengono usate soprattutto in ambito urbano e
cerimonie di devozione privata praticata dalle donne. Nell’ultima fase del FI, nel corso del X
secolo, cominciano a delinearsi nuove tendenze, la modificazione di motivi iconografici noti e
l’introduzione di nuove immagini, a testimonianza dell’emersione di forme di organizzazione
politica ed amministrativa assai diverse, si afferma sempre di più la tendenza alla rappresentazione
non antropomorfa della divinità, gli déi sono rappresentati attraverso il loro attributo o entità
sostitute. La produzione glittica locale si allineerà a queste tendenze, con raffigurazioni di attributi o
simboli divini. La scuola iconografica di Fribourg individua in alcuni animali gli attributi di
specifiche divinità ed in alcune scene l’illustrazione di miti, l’approccio iconografico tuttavia è
limitato, gli attributi tendono ad essere polifunzionali e cambiano a seconda del contesto
cronologico e regionale, rintracciare i nomi di divinità sia nella raffigurazione antropomorfa che,
ancor più, nella resa simbolica, è impresa difficile. Questo problema è tanto più forte e dibattuto
nella divinità femminile, la raffigurazione antropomorfa infatti, permane nelle terrecotte del X
secolo, ma a dispetto della conservatività del genere, fu interessata da innovazioni. Emergono i tipi
a tutto tondo ed il motivo della donna che suona il tamburello, l’immagine della dea sarebbe
sostituita con quella di una partecipante al culto, seguendo la tendenza del periodo alla
rappresentazione non antropomorfa della divinità.
Ferro IIA-IIB: il primato del regno settentrionale ed il lento sviluppo della Giudea:
dalla seconda metà del X secolo in area palestinese maturano le condizioni che, attraverso la
centralizzazione politica, economica e religiosa, porteranno alla riorganizzazione delle diverse
componenti, cittadina, tribale, contadina sotto la guida di un rinato istituto monarchico. Le radici
sono nell’incremento della produzione agricola, nello sviluppo dei contatti tra aree collinari e
pianure e nei commerci tra regioni, esiti del variegato panorama economico e politico dei secoli XII
e X. Il riaffermarsi dell’istituto monarchico rispose ad esigenze amministrative nuove, che
riunissero una popolazione socialmente ed etnicamente eterogenea. La “tarda fioritura cananea”
della Palestina settentrionale si compì definitivamente solo nel IX secolo. Il passaggio al IX secolo
è segnato da una serie di distruzioni tradizionalmente attribuite al faraone Sheshonq ma che
comunque coincidono con un cambiamento nella cultura materiale del paese. I popoli degli
altipiani, demograficamente cresciuti e culturalmente uniti rappresentarono una nuova forza vitale
dell’area. Molti piccoli villaggi furono abbandonati e confluirono in centri di dimensioni maggiori
che si trasformarono in città fortificate. La città assume un ruolo primario in seguito all’affermarsi
di un modello insediativo gerarchico con capitali, centri regionali, villaggi, fattorie e fortezze poste
a controllo delle vie carovaniere. Il processo di pianificazione urbana e di monumentalizzazione è
stato posto in relazione con l’attività del re costruttore Salomone ma che con la cronologia bassa si
colloca nel IX secolo. La nuova formula urbana, diffusa anche in area siro-anatolica, si basava sulla
cittadella, all’interno della quale si concentravano il complesso palatino e strutture come stalle,
silos, granai ed imponenti sistemi idrici. All’interno del territorio palestinese convivono realtà che si
intrecciano in relazioni pacifiche e conflittuali, la cui fine sarà decretata dall’avvento assiro, tra i
conflitti l’archeologia evidenzia quello tra Aram ed Israele che portò Aram a controllare tra l’835 e
l’800 la valle dell’alto Giordano ed alcune importanti zone della regione israelita. La cultura
materiale del periodo riflette il frazionamento politico, con la parte settentrionale del paese
economicamente e culturalmente orientata verso l’area fenicia e siriana e la parte meridionale
politicamente e culturalmente più isolata.
La corte di Samaria ed il suo sistema di simboli: il regno d’Israele è dunque uno stato egemone e
dinamico grazie alla sua economia fiorente ed alle intense relazioni politiche e commerciali con i
regni aramaici di Siria e con quelli fenici della costa. Alla dinastia degli Omridi (re Omri ed Achab)
si fanno risalire le intense attività edilizie e la fondazione della capitale a Samaria. La nuova
capitale del regno era in posizione strategica tra Gerusalemme e Damasco e la valle del Giordano e
la costa. Proprio per soddisfare le esigenze delle corti levantine si era sviluppato nel IX secolo un
circuito commerciale di prodotti di lusso ed allusivi al prestigio ed al potere che favorì la fioritura
delle arti minori, con botteghe e centri specializzati cui dovettero rivolgersi i sovrani di Samaria.
Questi, commissionarono gli arredi suntuari rinvenuti nell’Edificio degli Avori e che rappresentano
l’unico strumento per indagare il mondo spirituale della corte samaritana dipinta dalla Bibbia come
baalista e filofenicia. Il repertorio iconografico usato a corte è evidentemente pagano, con la ripresa
di motivi egittizzanti. Queste immagini dovevano riflettere una religiosità lontana ma nota da
millenni in cui è evidente la stratificazione semantica come adeguamento della corte ad una
tendenza culturale del periodo. L’elite palatina riconosceva questo repertorio standardizzato, grazie
anche alla mobilità culturale e sociale, quale è l’ambito dei matrimoni dinastici. A fianco della
residenza reale deve essere stato costruito il tempio della divinità dinastica, sepolto oggi
probabilmente dalle strutture di età ellenistica e romana. La capitale Samaria aveva un suo santuario
o il luogo di culto più importante continuava ad essere quello di Dan?
La città di Dan: il percorso “sacro” dalla porta alla terrazza di culto: nell’835 il regno di Aram-
Damasco conquista Israele, l’alta valle del Giordano e la regione nord-orientale del paese furono
politicamente e culturalmente dominati dagli aramei, i centri in cui l’influsso fu maggiore furono
Hazor, Dan e Bethsaida. Dan si trova nella parte settentrionale della valle di Hula, al confine con il
regno di Aram, fu uno dei maggiori centri economici, religiosi e politici della regione. La città, tra
fine IX ed VIII secolo fu dotata di un imponente sistema di fortificazioni ed ingresso monumentale.
La sacralità del centro si percepisce già dalla collocazione, all’interno della porta bassa, di
un’installazione cultuale, strettamente connessa alla via processionale della strada che collegava la
porta inferiore a quella superiore. L’assetto generale della porta con il canopo e la piattaforma
sembrano sconosciuti all’ambiente israelitico e giudaico e rimandano a quello aramaico. Il ruolo
della porta di Dan fu anche cerimoniale, visto che verso la metà del IX secolo vi fu eretta una stele
scritta in aramaico per celebrare la vittoria di un re di Damasco sulla città. Sul versante nord-
occidentale del sito agli inizi del IX secolo, si inizia la costruzione di un centro di culto la cui
importanza è testimoniata dall’uso fino ad età ellenistica e romana. Il complesso nella sua prima
fase, agli inizi del IX secolo, vede la costruzione di un recinto che racchiudeva ambienti chiusi e
spazi aperti, la parte più importante del santuario era costituita da una massiccia struttura costruita
in blocchi di travertino e posta nella parte settentrionale del recinto. La parte meridionale fu
denominata Bamah A, attorno alla corte erano diverse installazioni cultuali la più notevole delle
quali era una fondazione di forma quadrangolare, forse la base di un grande altare. Una serie di altre
installazioni comprendeva magazzini coperti, una corte acciottolata ed una installazione produttiva
per la produzione di olio, le statuine frammentarie, in faience, di iconografia egiziana, ritrovate
all’interno delle giare e dei bacini vanno interpretati come oggetti di uso cultuale. Nella parte
meridionale del complesso fu individuato un piccolo bacino rettangolare ed una grande vasca in
terracotta con sedile. Intorno alla metà del IX secolo il santuario fu distrutto probabilmente in
seguito agli attacchi degli Aramei di Damasco. Quando fu ricostruito, il podio, Bamah B, fu
ampliato. Dopo la cacciata degli Aramei dalla zona settentrionale del regno e la ripresa del potere da
parte di Geroboamo II il santuario vide un momento di ripresa e restauri. Di questo periodo è una
porzione di altare a forma di corno ed un altare in pietra del tipo detto “a corna”, oltre ad una serie
di ambienti disposti su un unico allineamento, forse ausiliari. La “stanza dell’altare” a sud-ovest del
podio ha restituito tracce di bruciato sulla superficie superiore, la testa di uno scettro in bronzo e
materiali connessi all’uso dell’altare per sacrifici animali. La fine di questa fase si connette con il
momento di distruzione del sito intorno al 732 con l’arrivo degli assiri. Il complesso architettonico
di Dan fu un grande santuario con nucleo centrale dal possente podio con il tempio e strutture
funzionali alle attività cultuali. Difficile stabilire le modalità di accesso da parte dei fedeli.
I luoghi di culto alla porta tra antiche tradizioni e rinnovati influssi aramaici: a partire dal MB la
porta aveva assunto all’interno del panorama urbano delle città palestinesi un ruolo centrale come
luogo di passaggio, di mercato ed aggregazione della comunità, a livello simbolico indicava il
passaggio tra due mondi, quello esterno e quello interno alla città. Nel nuovo processo di
urbanizzazione nel corso del IX secolo, ebbe una forte connotazione la costruzione di cinte
fortificate con porte a sei vani, cui non dovettero essere estranei gli influssi di area aramaica. Nel
nord della Palestina esempi di questa tradizione si hanno a Megiddo VA con il Locus 2160, ed a Tell
el-‘Ureyme, a nord-est del lago di Tiberiade, dove, dietro un pilastro interno della porta urbica
dell’VIII secolo, è stata trovata una piattaforma nelle cui vicinanze fu scoperto un incensiere ed un
cucchiaio per incenso di origine aramaica. Anche nella meridionale Beer-Sheba V l’accesso alla
porta era protetto da un avancorpo e nella nicchia tra la torre e la tenaglia è stata messa in luce una
struttura arrotondata interpretata come base di podio di culto. Tell el-Far’ah Nord, la biblica Tirzah,
la città più importante della regione prima della fondazione di Samaria, visse nel IX secolo, un
periodo di particolare sviluppo, con uno schema insediamentale a griglia regolare cinto da
fortificazioni che, risalenti al MB, furono restaurate in questo periodo. Nel IX secolo, in asse con
l’ingresso est si trovava un bacino ed una base di pietra di forma squadrata che fu interpretata come
parte di una stele grazie a confronti con Ta’anach ed Arad. Un riesame della stratigrafia ha proposto
che si trattasse di un impianto per la lavorazione delle olive da attribuirsi alla fase successiva di VII
secolo, possibile che il monolite fosse una stele sconsacrata collocata tra X e IX secolo presso la
porta della città. La sacralità del passaggio è ben attestata a Tell el-Bethsaida, città sulla riva nord-
orientale del lago di Tiberiade all’imboccatura del Giordano, che nel IX secolo rientrò nel piano di
ristrutturazione dei centri israeliti di confine da parte di Damasco, e fu circondata da un massiccio
muro di fortificazione e dotata di una porta a quattro vani. Nel livello 5, in una nicchia della torre fu
trovata un’installazione cultuale denominata dallo scavatore “alto luogo” costituita da un podio cui
si accedeva tramite due gradini, sul podio era collocata una stele decorata, un bacino rettangolare
con una depressione ed una cavità poco profonda. Nella nicchia della torre meridionale fu messo in
luce uno scaffale a circa 90 cm al di sopra del pavimento della corte, la destinazione cultuale,
doveva estendersi a comprendere lo spazio immediatamente all’interno ed all’esterno del passaggio.
La stele decorata, ritrovata rotta in 5 pezzi, aveva un’immagine zoomorfa stilizzata formata da una
sorta di palo, da cui si dipartivano degli arti concavi rivolti verso il basso e la cui sommità
terminava con la testa di un toro con grandi corna, la figura portava una spada la cui lama era
sormontata da un disco quadripartito o da una rosetta; l’immagine, deriverebbe da un’antica
iconografia del dio Luna di Harran che vedeva il toro associato al crescente lunare, confronti si
hanno in area siriana ed anatolica. Potrebbe anche riferirsi ad una manifestazione locale del dio
della tempesta Hadad o che le due divinità erano rappresentate contemporaneamente.
La crisi del tempio cittadino e i vani di culto in ambienti domestici: la zona settentrionale della
Palestina è in questo momento politicamente vitale ed economicamente florida. Samaria e Dan
erano i due poli religiosi di rilevanza nazionale in contesti di tipo urbano. Nel resto del paese, cioè
Gerusalemme, la documentazione di X-IX secolo è scarsa, la città doveva essere una roccaforte
collinare in cui gran parte del suo spazio urbano era occupato dalla cittadella di Sion e dal millo, il
terrazzamento ritrovato sul fianco della collina dell’Ofel. Il territorio circostante doveva essere
costellato da villaggi ad economia agricola e pastorale e centri di dimensioni maggiori dalle
funzioni specifiche, militari ed amministrative, un grande impegno fu profuso nella ricostruzione di
alcuni importanti centri urbani e nella costruzione di edifici pubblici tra cui mancano quelli di culto.
I grandi templi di Sichem e Megiddo, ancora in uso nel FI, perdono la loro funzione di complessi
cultuali e vengono utilizzati a scopi diversi. A prescindere dal tempio sede ufficiale della divinità
nazionale, in ambito urbano nel IX secolo, sono attestati ambienti, definiti Cult Rooms in cui la
presenza di oggetti collegabili ad attività di culto, li rende interpretabili come templi o santuari. La
Megiddo dello strato VA nella prima metà del IX secolo, restituisce testimonianze di pratiche
cultuali da abitazioni private, una di queste, forse la casa del governatore, ha riportato alla luce una
serie di oggetti in situ, come altari a corna, supporti in ceramica ed in calcare, calici, massebah, che
hanno lasciato ipotizzare o la funzione di vano-ripostiglio per gli arredi di culto o come luogo
cerimoniale riservato ad un pubblico ristretto. Spazi dedicati alla semplice conservazione degli
strumenti rituali è già attestata nel Building 10 di Megiddo. Alla metà del IX secolo il santuario di
Dan rappresenta l’unica struttura di culto pubblica. La lettura funzionale degli oggetti come
strumenti di culto e non oggetti di prestigio è resa ancora più problematica dalla collocazione
contestuale all’interno di vani di passaggio, così come è per i due vani cultuali di Ta’anach, città che
sorgeva in posizione strategica lungo un importante asse di collegamento viario e che rivestì un
ruolo rilevante durante l’età del Ferro. Al IX secolo si data un quartiere abitativo al centro del
settore meridionale del sito, qui, negli ambienti detti Room 1 e 2, scavi austriaci rinvennero oggetti
da correlare ad attività cultuali. Un bacino delimitato da lastre, rinvenuto da Sellin nel 1902, fu
interpretato come pressa per olive, poi, il rinvenimento di una grande lastra, collocata all’interno del
bacino stesso ed interpretata come massebah, lo identificò definitivamente come struttura di culto,
tuttavia, i vani ed il cortile, non direttamente destinati allo svolgimento di pratiche rituali ma
annessi ad un santuario come quelli del temenos di Dan, furono anche interpretati come magazzini
di un’abitazione privata dalla particolare funzione di luogo di culto. Il materiale di Megiddo 2081 e
di Ta’anach trova confronti precisi con quello di Lachish V, unico luogo di culto rinvenuto in area
giudaica databile al IX secolo. La città, capoluogo della Shefelah, ospita tra la fine del X e gli inizi
del IX secolo, all’interno di un’area che in età persiana-ellenistica avrà una destinazione cultuale, un
edificio che conteneva reperti riferibili alla sfera del culto, la Cult Room 49. La piccola stanza, che
si appoggiava ad un muro di terrazzamento, aveva ai tre lati banchette di pietra intonacate, su queste
e sull’ingresso erano diversi reperti: altare a corna, brocche, calici, lucerne, coppe, pentole. Il
materiale, in base alla disposizione ed alle dimensioni della stanza, doveva essere qui custodito.
Anche in centri minori come ‘En Gev III, Tell el-Sa’idiyeh VIII, Tell Halif, Tell el-Far’ah Nord e
Tell Michal, forme di culto erano praticate in contesti domestici. In particolare, a Tell Michal, sono
emersi resti di strutture cultuali su tre delle cinque collinette che formavano l’insediamento del X
secolo, Herzog, ha ipotizzato che fossero usate contemporaneamente come sacelli di famiglia da
parte degli abitanti del Tell.
Immagini divine come simboli di prestigio sociale: a parte la piccola bronzistica figurata ed il
frammento di statua in terracotta di Dan, non sono rimaste testimonianze di statue o immagini di
culto, a meno che fossero in materiale deperibile. Sull’indicazione delle divinità adorate tuttavia, la
glittica e la coroplastica ci consentono delle riflessioni. La glittica circolò nel IX secolo grazie
all’affermazione di alcune categorie di personale amministrativo e militare che divenne il perno su
cui ruotava il nuovo sistema politico riorganizzato intorno alla figura del monarca, le esigenze delle
classi degli alti ufficiali e degli amministratori di nomina palatina vennero soddisfatte da botteghe
di incisori che produssero sigilli quasi identici a quelli dell’area fenicia ed aramaica, distinguibili da
questi a volte solo se presente l’iscrizione. Il repertorio iconografico è costituito da immagini
tradizionali quali il “Signore degli Struzzi” ed il “Signore dei Capridi” ed immagini nuove
d’influenza egiziana. La ripetizione seriale ed il processo di standardizzazione mitigarono il valore
religioso di molte figure, la scelta ricadde soprattutto su motivi apotropaici come l’occhio di Horus
e Bes ed i simboli solari, diffusi comunque in tutta l’area levantina. Queste iconografie erano legate
alla regalità, come è evidente dal disco solare e scarabeo alati nei sigilli lmlk, appartenenti al re.
Le figurine a pilastro: quale divinità?: la coroplastica ci aiuta ad indagare aspetti meno ufficiali della
religione. Oltre alle iconografie tradizionali come la divinità femminile nella posizione frontale con
mani ai seni o lungo i fianchi, si trovano figure femminili che esaltano l’aspetto della maternità
essendo raffigurate con in braccio o al seno un bambino. Tra la popolazione giudea circolava la
figurina fittile a pilastro “Judean Pillar Figurine”, la cui produzione si inquadra tra VIII e VI secolo,
plasmate con tecnica mista, a mano ed a stampo, si presentava con una capigliatura a casco con fitti
riccioli di tipo egittizzante. Provengono da contesti domestici privati e da tombe, sono scarsamente
attestate fuori dell’area giudaica, in singoli esemplari anche da contesti palatini, mentre sono assenti
nei pochi contesti cultuali noti di questo periodo. Nella Giudea considerata diffusamente
monoteista, queste forme di culto definite popolari e non ufficiali, si ritrovano in abitazioni ma mai
associate ad altari, supporti ceramici e simili, il dibattito ruota attorno alla loro probabile
identificazione con Asherah, tuttavia, l’assenza di rapporto diretto tra immagini e fonti scritte lascia
per ora semplicemente ipotizzare che si trattasse di una divinità femminile tutelare della casa e del
riposo eterno.
Le tradizioni costiere e la “scomparsa” dei Filistei: fino al FI l’area costiera mantiene la sua
specificità culturale di impronta egea, dal IX secolo l’archeologia non testimonia più la peculiarità
filistea rispetto al panorama palestinese e si è detto che i Filistei furono assimilati dalle popolazioni
locali. Meglio però ipotizzare la graduale trasformazione dei caratteri culturali di una popolazione
urbana costiera, con la perdita o l’attenuarsi della “patina egea”, la spiegazione non descrive tuttavia
la reale entità della trasformazione culturale di cui furono protagonisti i centri filistei tra IX e VII
secolo. Per l’aspetto religioso ad esempio, poco si conosce sia dell’architettura religiosa che delle
divinità adorate, non riuscendo ad evidenziare la presenza di credenze formatesi lungo le coste della
Palestina tra XII e X secolo dall’incontro delle componenti egee e quelle della costa siro-
palestinese. Gli indizi dell’esistenza nel FII di un’identità culturale filistea si ricavano dalle fonti
scritte, dalla Bibbia ai testi neoassiri dove la Filistea ed i suoi centri maggiori sono descritti come
unità politiche e culturali autonome. A parte la continuità d’uso del tempio di Qasile, l’unico
edificio di culto dell’area filistea costiera è quello venuto alla luce nello strato VIII di Ashdod,
fiorente nell’VIII secolo. Nella città bassa si trovava un complesso di ambienti con diverse funzioni:
immagazzinamento e vani cultuali. Il nucleo principale delle attività religiose era il Vano 1010 di
forma irregolare, nell’angolo nord-occidentale si trovava un’apertura che portava alla stanza 1003
di forma rettangolare. Connessi alle attività cultuali svolte nella parte meridionale del complesso
erano il Podio 1025 e la Favissa 1004. Dopo la distruzione della fine dell’VIII secolo il complesso
edilizio non fu ricostruito e l’area occupata da pozzi. Ashdod mostra che alcune usanze provenienti
dalla locale tradizione dei secoli finali del II millennio, perdurarono, carattere tipicamente filisteo è
l’inserimento del culto all’interno del tessuto urbano e nelle vicinanze di un’area produttiva e
l’usanza di impiegare nei rituali religiosi kernoi e rytha, per il resto della documentazione materiale
i richiami rimandano ad area palestinese, la coroplastica in particolare ne condivide in pieno i
motivi iconografici. Statue di culto nei centri di Gaza, Ashdod e Ashkelon sono testimoniate da due
lastre, una da Nimrud e l’altra da Ninive in cui gli assiri raffigurano la presa di Gaza e di Ashkelon
con il bottino costituito da quattro statue e portato in spalla dall’esercito assiro.
I culti extraurbani: santuari rurali, di frontiera e di confine: testimonianze relative ad edifici di culto
sono scarse in area palestinese, tuttavia, i centri urbani erano i fulcri dell’aggregazione territoriale
ed ospitavano le sedi delle principali istituzioni pubbliche del paese. Al di fuori delle mura cittadine,
altrettanto poco noti sono i rituali praticati, tuttavia, decaduta la necessità di collocare al centro del
territorio del paese un edificio che fungesse da punto di aggregazione della popolazione, come era
stato per il XII-XI secolo, manifestazioni di culto dovevano essere svolte in aree aperte forse
utilizzando oggetti d’uso quotidiano. La collocazione extraurbana del luogo di culto sembra
rispecchiare una scelta cosciente di semplice necessità alternativa alla locazione cittadina. Fin dal X
secolo, l’extraurbanità assunse il carattere di rapporto personale con la divinità, senza bisogno di
mediazione della classe sacerdotale, connotandosi così con semplicità, riflessa nei luoghi costituiti
forse da soli altari. La critica dei redattori biblici rifletterebbe l’espressione sacerdotale contro
queste forme di culto. Tra IX e VII secolo si afferma il fenomeno dell’architettura sacra extraurbana
detta “di frontiera” o “di confine”. La dimensione commerciale del paese fortemente dinamica
comportò l’allargamento dei confini, con conseguente incontro di genti diverse, questi spazi
extraurbani ed extraterritoriali sacri documentano forme di sincretismo religioso, si tratta per lo più
di santuari edificati entro fortezze, in cui la volontà di controllo della sfera cultuale è ancora
marcata, e caravanserragli, luoghi di passaggio e di commercio e di confine ideologico. Per il
tempio fortezza si ha un esempio a Beer-Sheba, città provinciale pianificata, qui, lo strato II ha
restituito pietre ben squadrate, parti di un altare a corna, riutilizzate all’interno di uno dei muri del
magazzino di Beer-Sheba II. Lo smantellamento e la sconsacrazione di questo luogo di culto
potrebbe essere la testimonianza delle riforme dei re giudei e del progressivo accentramento del
culto a Gerusalemme. Per il culto entro caravanserraglio un’importante testimonianza è a Kuntillet
‘Ajrud al confine del territorio giudaico, sulla strada che da Gaza portava a Rafah ed al Golfo di
Elath e al Sinai. I resti di due edifici divisi da un’ampia corte sono su un altopiano nella parte
settentrionale della penisola del Sinai. L’edificio principale aveva l’aspetto di una grande struttura
rettangolare, appena entrati è un ambiente di forma stretta ed allungata, diviso in due ali, a fianco di
quella nord una stanza rivestita di intonaco decorato e con numerose iscrizioni, a sud ed ad ovest
della grande corte centrale, due vani lunghi con funzione di magazzino contenevano pithoi e giare
di conservazione. L’ambiente a due ali vicino all’ingresso ha restituito due pithoi iscritti e decorati
con motivi vari e diverse coppe in pietra, offerte votive che, dopo essere state deposte sulle
banchette, venivano trasferite all’interno della stanza. Confronti tipologici hanno permesso di
datarli intorno all’800 ed analisi chimiche ne hanno identificato come luogo di provenienza
Gerusalemme, i due grandi pithoi (A e B) sono tuttora oggetto di controversa interpretazione,
realizzati da tre mani, furono deposti privi di iscrizioni e decorati in momenti diversi, manca
evidentemente la coerenza compositiva. Il pithos A in particolare, rende difficile sia la definizione
del sesso dei due soggetti rappresentati, che la loro identificazione (Yahweh e Asherah come
rimanderebbe l’iscrizione) che il loro rapporto con l’arpista/divinità/re in alto. Il pithos B invece, di
più facile lettura, riporta una processione di uomini come confermato dai nomi presenti sulle giare.
Anche le pitture parietali frammentarie non destano particolare problemi d’interpretazione, con
evidenti richiami sia alle coppe fenicio-cipriote che a tematiche assire ed egiziane. Nell’insieme il
complesso evidenzia che l’inserimento della Palestina tra IX ed VIII secolo, nell’allargato orizzonte
commerciale del Levante, comportò la somma di diversi caratteri e la polifunzionalità di questi
luoghi di culto, l’aspetto religioso forse non era totalmente lasciato alla libera iniziativa dei
visitatori, ma non si registra nemmeno la presenza di una classe sacerdotale dirigente delle pratiche
rituali, le diverse forme di credo convivono in modo più o meno libero, affiancando, Yahweh a Bes,
dio minore del pantheon egiziano scelto forse per la forte valenza apotropaica della sua immagine.
I regni tribali della Transgiordania: anche i gruppi ad est del Giordano come quelli della
Cisgiordania, si organizzarono dal IX secolo in stati nazionali con a capo un sovrano, “regni tribali”
con caratteri locali in cui il sovrano era il capo di una comunità formata da un insieme di tribù che
sotto un’unica autorità mantenevano spazi di vita autonomi. I sovrani si allinearono con quanto
avveniva nelle corti degli stati contermini, avvalendosi di un apparato celebrativo che utilizzava
iconografie e stili dell’area siriana ed egiziana. Le antiche tradizioni artistiche costituirono
l’ispirazione per la scultura statuaria tra la fine del IX e gli inizi dell’VIII secolo. La cittadella di
Amman ha riportato alla luce statue che furono prodotte da una scuola di scultura locale che
perpetrò la sua attività anche dopo la conquista assira, la statuaria ammonita riproduce immagini di
divinità e sovrani defunti, con chiaro riferimento ad un’antica tradizione siriana. I re ammoniti
adotteranno la corona egiziana atef come attributo regale. La stele di Shihan riflette la grande
varietà d’influssi che raggiunse l’area transgiordanica in queste fasi cronologiche.
Ferro IIC: la conquista assira tra deculturazione e pax assyriaca : l’intervento militare
della potenza assira e poi quello successivo neo-babilonese portarono alla distruzione degli stati
territoriali-nazionali, intere aree furono depredate, le città distrutte, la popolazione deportata, il
territorio palestinese, al termine delle campagne militari assire, venne riorganizzato ed inserito
all’interno del sistema provinciale assiro. La fine dell’indipendenza dei piccoli regni del Levante,
portò la cosiddetta pax assyriaca, un clima di pace forzata che ebbe come conseguenza un’intensa
ripresa economica della regione. Alcune aree divennero punti di raccolta e transito di prodotti
provenienti da regioni lontane, altre trasformate in zone specializzate nella produzione di beni
particolari. Il clima di pace favorì una certa osmosi culturale determinata da diversi tipi di mobilità
di genti all’interno dell’area, una forzata, dovuta allo spostamento di popolazioni da un confine
all’altro dell’impero a seguito della distruzione di grandi centri, l’altra libera, dovuta alla
circolazione di genti all’interno di un mondo levantino ormai aperto verso terre assai lontane dai
suoi tradizionali e millenari confini. Il modello economico creato dall’impero neo-assiro favorì la
ricerca di materie prime e la produzione di un certo surplus di beni, portando, nel primo quarto del
VII secolo, ad uno sviluppo differenziato delle aree del Levante. Da un lato s’incentivò la crescita
della città basata sui commerci con le aree trans-desertiche e con quelle trans-mediterranee,
dall’altro la crescita di alcune zone agricole. La regione settentrionale interna del paese ad
economia prevalentemente agraria fu quella che risentì maggiormente della perdita
dell’indipendenza politica ed economica con conseguente decadenza culturale. I governatori assiri
ricostruirono le città distrutte ed alcune vennero trasformate in capoluoghi provinciali assiri come
Megiddo e Samaria. Pur se sono scarse le informazioni sul regno d’Israele, fu questo probabilmente
a subire le maggiori deportazioni ed il ripopolamento tramite genti mandate da Babilonia e
dall’Arabia. Unica eccezione a questo silenzio documentario è il centro di Dan, nodo di
collegamento tra Palestina settentrionale e Siria, continuò a rivestire qualche interesse per l’Assiria,
e l’antica area di culto mantenne una sua forma di attività testimoniata da resti di edifici, uno di
questi è stato interpretato come lishkah, termine usato nella Bibbia per indicare un vano all’interno
del recinto del tempio, sala per le assemblee o tempio sussidiario.
Samaria ed il deposito votivo E207: testimonianza dei culti praticati dalla popolazione etnicamente
eterogenea nella Palestina interna settentrionale di VII secolo è la struttura E207 rinvenuta extra
moenia a Samaria. L’area, di 30x26m, è di forma trapezoidale con gli angoli arrotondati, qui sono
state rinvenute moltissime ceramiche in frammenti di tipo cultuale e figurine fittili di cavalieri a
cavallo, donne con bambino, figurine a pilastro, animali. I confronti sono con la Cave I di
Gerusalemme di dubbia interpretazione. Studi recenti lo datano tra la fine dell’VIII secolo e la
prima metà del VII. La collocazione topografica e la vicinanza con un’area sepolcrale lo ha fatto
leggere come luogo di pratiche rituali connesse con le cerimonie funerarie, oltre alla interpretazione
del sito è controversa anche l’analisi delle figurine a cavallo, che compaiono proprio dal FIIC.
La politica religiosa dei conquistatori e la diffusione della simbologia astrale: le deportazioni e lo
spopolamento della regione comportarono una progressiva crisi di identità culturale, dovuta alla
fine delle dinastie locali e all’influenza assira sui centri cittadini, il collasso della monarchia
israelitica portò con sé la crisi del sistema di simboli da essa adottato per la celebrazione della
propria potenza, segno dell’indissolubile legame tra sovrano e dio nazionale. Le città capoluogo di
provincia dovettero accogliere probabilmente divinità e santuari dei conquistatori, anche se le
uniche testimonianze si trovano in area filistea e transgiordanica. Gli elementi di acculturazione
archeologicamente evidenti sono limitati agli aspetti ufficiali dell’architettura monumentale palatina
ed alla glittica importata, che testimoniano un coinvolgimento percepibile solo ai livelli più alti
della scala sociale, riflesso della marginalità del ruolo svolto dalla religione nella politica di
annessione territoriale assira. Gli edifici di culto collegati alla presenza di persone di provenienza
assira si trovano in località particolarmente coinvolte nei rapporti con l’Assiria. Nel lontano Sinai, il
centro fortificato di Abu Salima dell’VIII secolo al fine di controllare il mercato -karu-, mostra
tracce di costruzioni realizzate secondo tipologie architettoniche e tecniche edilizie di diretta
derivazione assira, nella parte nord-occidentale del forte, una sala di forma rettangolare, per
analogie con edifici assiri, è stata interpretata come tempio. Un impianto sostanzialmente simile si
ha nel centro industriale filisteo di Ekron, qui, intorno al primo quarto del VII secolo, fu costruito
un complesso monumentale con una sala del trono o di ricevimento che dava accesso ad un’area
cultuale. Sul lato sud dell’edificio era stata realizzata una stanza destinata alle attività produttive
connesse al culto come la produzione di olio. I reperti mobili sono in parte connessi alla fase assira
ed in parte alla successiva egiziana. Dal complesso provengono anche tre dei sei ripostigli ritrovati
nel sito di Ekron. L’edificio 650 fu costruito secondo schemi assiri e dedicato da un sovrano dal
nome greco, ‘kys, ad una divinità dal nome non semitico di Ptgyh. A fianco di questa divinità di
origine egea dovevano essere adorati Ba’al ed Asherah oltre a divinità egiziane successive. Questa
tendenza della religiosità locale ad accogliere forme di culto derivanti dalle altre aree si afferma nel
momento in cui la città diviene centro di produzione di olio internazionale, a questo periodo risale
anche la diffusione dell’altare a corna collegato a tipologie diffuse in area israelitica e forse
introdotte da gruppi di popolazione provenienti da Israele deportati dagli assiri in area filistea e
impiegati nella produzione di olio di Ekron. La connessione tra gli altari e la più importante attività
economica della città spiega la grande popolarità che questi manufatti ebbero nello svolgimento
delle pratiche religiose delle famiglie della città nel VII secolo. Tra le aree in cui maggiormente si
avvertì l’influsso assiro vi fu la regione edomita, che dalla conquista assira trasse forte impulso alla
crescita dei propri traffici commerciali. Nella capitale di Edom, Buseirah, tra la fine dell’VIII ed il
VII secolo, un complesso palatino, il Building B, era organizzato su due corti secondo uno schema
planimetrico di chiara derivazione assira. Qui, come ad Ekron, differentemente da Abu Salima, è
difficile l’identificazione negli assiri dei fruitori dei templi, gli edifici della cittadella mostrano
somiglianze con l’architettura assira ma elementi simili si trovano in tutto il Levante e la
Mesopotamia alla fine dell’età del Ferro ed Edom pur pagando tributo all’Assiria non divenne mai
provincia di questo impero. Per l’area filistea, sono attestate forme di religiosità piuttosto aperte alla
ricezione di influssi esterni che videro affiancarsi rituali assiri e forme cultuali di tradizione locale.
Per quanto riguarda la diffusione di culti, come è deducibile dalla glittica, le divinità e le scene
mitologiche raffigurate nella glittica d’importazione, sono solo l’immagine della religiosità degli
assiri mandati nelle lontane province del Levante meridionale. Maggiore impatto dovette avere la
diffusione di culti astrali, come Venere a otto raggi, le Pleiadi, il crescente lunare ed il simbolo del
dio Luna di Harran, quest’ultimo, venerato fin da tempi antichissimi nella Siria settentrionale, fu
molto amato dagli assiri col nome accadico di Sin, al seguito delle truppe assire fu una sorta di
patrono dell’espansione dell’impero.
Dentro e fuori le mura di Gerusalemme: il regno di Giuda rispetto all’impatto assiro, fu
geograficamente più isolato e più vicino all’Egitto e la politica dei suoi sovrani più cauta nei
confronti dell’invasore, mantenne così la sua indipendenza anche se dopo la presa di Lachish da
parte di Sennacherib nel 701, la Shefelah ed il Negev dovettero andare perduti e l’economia del
paese messa a dura prova in seguito alle deportazioni ed imposizione di tributi. Una ripresa si
avverte alla fine dell’VIII secolo durante il regno di Ezechia, Manasse e Giosia, Gerusalemme fu
ampliata con la costruzione di nuovi quartieri, una cinta fortificata e sistemi idrici di
approvvigionamento. Venne costruita la residenza reale di Ramat Rahel e si intensificò il controllo
delle vie commerciali del Negev con la costruzione o ricostruzione delle fortezze. Dopo la
distruzione di Lachish e del suo santuario, Gerusalemme con il tempio al centro della politica
religiosa dei sovrani di Giuda, assurge a simbolo della nazione e dell’identità ebraica. I pochi dati
relativi alle attività di culto si hanno nella Grotta I erroneamente interpretata come santuario in base
alla presenza di numerose figurine fittili ma che il riesame della ceramica l’ha assegnata ad un
orizzonte essenzialmente domestico.
La divinità nazionale di Giuda aveva una sua forma di rappresentazione iconica?: la grande
diffusione del simbolo di Harran è stato riletto in ambito provinciale palestinese secondo le regole
del codice religioso locale. In alcuni sigilli di ambiente giudaico il motivo astratto dello stendardo è
stato sostituito dalla rappresentazione della divinità in trono in atto di benedire, al di sopra della
base che sosteneva lo stendardo è stato posto il dio che in alcune iconografie d’influsso fenicio è
collocato all’interno di una barca. Questa figura può essere interpretata come Yahweh? I
committenti colti giudaici commissionarono la combinazione dell’antica divinità lunare, diffusa con
la conquista assira, con le tradizioni artigianali fenicie per dar vita ad una divinità nazionale dotata
di una propria iconografia? Sicuramente, sui sigilli è rappresentato un dio antropomorfo che viene
considerato da alcuni proprio protettore. In un gruppo di terracotta dal mercato antiquario,
Uehlinger ha riconosciuto Yahweh e la sua Asherah. Nella glittica si individuano invece due
tendenze, la diffusione di una simbologia astrale con prevalenza di quella lunare e sigilli privi di
raffigurazioni. Dalla fine del VII secolo si diffondono sigilli iscritti aniconici, con diffusione di
iscrizioni a discapito delle immagini, in una progressiva alfabetizzazione delle classi di possessori e
fruitori dei sigilli e nella probabile tendenza alla non rappresentazione di immagini che alcuni
legano alla riforma religiosa di Giosia.
La statuaria ammonita e la divinizzazione dei sovrani defunti: tra VII e VI secolo l’area ammonita
vive un momento di grande prosperità, dalla zona di Amman provengono sigilli decorati ed iscritti,
brevi iscrizioni ed un importante gruppo di sculture in pietra. La produzione scultorea è
paragonabile solo alla straordinaria fioritura della produzione plastica cipriota. I resti scultorei sono
pertinenti a statue a tutto tondo sia maschili che femminili, si inquadrano tra IX e VI secolo e
rimandano a tre gruppi stilistici: egiziano, di tradizione locale, neo-siriano cui si aggiungono le
“teste hatoriche”. Tra i personaggi maschili, quelli con copricapo a fasce orizzontali rappresentano
dei sovrani o dignitari. Per i personaggi che indossano la tiara atef egiziana, l’interpretazione è più
problematica, la corona di Osiride sarebbe anche in Transgiordania attributo divino e la corona reale
ammonita potrebbe essere stata utilizzata a Rabbath-Ammon fin dal TB per indicare la
divinizzazione dei sovrani defunti. Questo spiegherebbe il gran numero di teste “reali” rinvenute,
ma non è certo se la corona ammonita fosse indossata da re o da divinità. Caso tipico quello del “re”
Yerah ‘Azar che non indossa la corona. L’assenza di una caratterizzazione delle pupille in alcune
statue che indossano l’atef indicherebbe la deificazione dei re dopo la morte. Supporto alla
discussione è il ritrovamento di alcune figurine maschili in argilla rinvenute nella cittadella di
Rabbath-Ammon a Tell ‘Umayri e Tell Jawa che mostrano caratteristiche quasi identiche nella
forma del copricapo. Anche la statuaria femminile viene identificata con divinità ed il tipo di figura
femminile con le mani ai seni è attestato anche nella glittica ammonita, i tipi iconografici si
ritrovano quindi in aree contermini.
La religiosità del confine. I santuari entro fortezza e la sacralità del passaggio alla porta: all’interno delle
fortezze nella periferia meridionale vengono eretti luoghi di culto strettamente dipendenti
dall’autorità centrale giudaica, come testimoniato dal santuario extraurbano di confine. Il confine
controllato assolveva una funzione di riferimento politico in un periodo in cui la Giudea andava
accogliendo profughi delle regioni settentrionali e della Shefelah ed i suoi abitanti rafforzavano il
senso di identità culturale e religiosa. Il luogo di culto entro fortezza indicava l’estensione delle
direttive religiose della capitale a nuclei abitativi periferici. Quale divinità indicassero non è
percepibile attraverso i dati archeologici. I centri sorti lungo le vie che conducevano all’Arabia
meridionale, ebbero un ruolo importante visto che il Negev rappresentò la terra di passaggio verso il
golfo di Aqaba ed il terreno di confronto con gli edomiti. In diverse fortezze del Negev è
testimoniata la presenza di edifici templari, elementi primari nella progettazione di questi luoghi tra
cui il caso più noto è quello di Arad. La sequenza stratigrafica è stata fissata da Aharoni ed i suoi
collaboratori, in base alla cronologia alta e con evidente influenza del testo biblico soprattutto
nell’adattamento all’adozione del cubito reale. Il tempio, ebbe secondo lui diverse fasi legate alle
distruzioni e ricostruzioni, mutando dimensioni, posizione ed aspetto, delle tre stele solo quella più
grande e rossa venne lasciata nell’adyton. La recente revisione della stratigrafia della fortezza e
della datazione del tempio, portano ad una completa riconsiderazione della messa in fase proposta
da Aharoni, che vedrebbe tre fasi costruttive di cui solo l’ultima interessata dalla fabbrica templare
vissuta fino alla distruzione finale del forte nel VI secolo. Anche i ritrovamenti dell’area del tempio
datati da Aharoni tra IX-VIII secolo, sono stati collocati entro il VII, riaprendo anche il dibattito
sull’iscrizione su ostrakon con l’identificazione del tempio denominato “casa di Dio”, unico
riferimento epigrafico sicuro dell’esistenza di un tempio di Yahweh nella regione. Sulla base della
datazione ceramica si può affermare che la fabbrica templare non poteva far parte del programma
edilizio salomonico ed è difficile pensare che sia stata distrutta immediatamente dopo la sua
costruzione. Il tempio è dunque una costruzione tarda di VIII-VII secolo, il suo impianto tripartito è
stato paragonato a quello di Salomone, ma rispetto a questo, la cella ha sviluppo latitudinale. La
differenza, attribuita al carattere locale del tempio, è legata a tradizioni architettoniche locali dei
templi a sviluppo latitudinale e radici nelle tende dei beduini e nelle case israelitiche a quattro vani.
Incerta l’esistenza a Kadesh Barnea nella fase datata tra VII-VI secolo, di un luogo di culto, qui, la
fortezza, ospitava un ambiente rettangolare posto nella parte nord-occidentale della zona interna, ed
all’interno di uno dei vani si trovava un’installazione rotonda di mattoni crudi piena di cenere e
circondata da muretti nei pressi dei quali è stata rinvenuta una struttura più piccola in ceramica
piena di cenere. Se non erano dotate di strutture templari, le fortezze accoglievano forme di culto
legate alla funzione sacra del passaggio, così è per Horvat ‘Uza e Horvat Radum, in entrambe, ai
lati della porta sono state trovate rispettivamente un podio sopraelevato cui si accedeva da tre
gradini ed una piattaforma su cui si saliva grazie a gradini.
Fuori dalle mura, fuori dai confini: tra VIII e VII secolo la regione meridionale palestinese divenne
centrale per l’economia degli Stati levantini ed anche per il potere politico imperiale assiro, per
l’area del Negev, passavano le vie che collegavano l’Arabia meridionale al Mediterraneo, fu
percorsa da carovane e punteggiata di insediamenti con funzione di controllo, passaggio, mercato,
raccolta di prodotti ed incontro di uomini. Alla fine del VII secolo tra la piana costiera fino alle alte
terre di Edom vi fu una vera e propria esplosione demografica, la regione era abitata da popolazioni
nomadi che controllavano i traffici carovanieri anche attraverso la pirateria terrestre e sfruttavano le
miniere di rame controllandone la commercializzazione. È difficile dire chi realmente dominasse
tali terre, vista la mobilità dei confini politici e la difficoltà delle popolazioni che vi risiedevano a
creare forme di organizzazione statale stabile. Il controllo giudaico è testimoniato dai forti costruiti
nella regione, il controllo edomita è stato ipotizzato, ma queste genti erano per lo più commercianti,
il reale controllo era esercitato forse dalle tribù arabe che detenevano il principale potere di
conoscenza degli itinerari desertici e le attrezzature adatte per affrontarli. Il Negev rappresentò una
terra di confronto per i poteri locali ed imperiali che si succedettero, due luoghi di culto ci aiutano a
comprendere la religiosità espressa da quelle popolazioni: ‘En Hazeva e Horvat Qitmit.
Un caso di tempio extra-moenia: ‘En Hazeva: nel sito venne costruito un forte piuttosto imponente a
casematte con porta a quattro vani, ebbe vita piuttosto lunga, dal X al IX secolo fino al periodo
islamico. La fortezza del VII secolo si distingueva per dimensioni e forma dai forti giudaici della
valle di Beer-Sheba, è stato ipotizzato che insieme a Kadesh-Barnea fossero state erette sotto egida
assira e che vi fossero truppe stanziate provenienti da Giuda e da Edom. La ceramica presente nel
forte testimonia il passaggio di genti eterogenee in questo importante snodo viario. Nella fortezza di
metà del VII secolo non è attestata la presenza di luoghi di culto ufficiali, mentre fuori dalle mura è
un piccolo edificio di culto di forma allungata, in cui doveva essere originariamente collocato il
materiale ritrovato in una favissa scavata a pochi metri da esso, gli oggetti, collocati interi, vennero
intenzionalmente distrutti con massi provenienti dal tempio stesso forse per preservarli dal
saccheggio babilonese in arrivo. Per la pianta non si hanno termini di paragone, mentre gli oggetti
aiutano ad inquadrare la struttura sia cronologicamente che culturalmente. Molto caratteristici i
supporti antropomorfi realizzati in tecnica mista con testa e corpo fatti al tornio, braccia e particolari
del volto applicati a parte, con tracce di pittura rosso-bruna, in atto di ossequio o benedizione, molto
originale la presenza della coppa sul capo. Numerosi i pendenti a melagrana, attestati in area
transgiordanica e diffusi fin dal TB in area siro-palestinese. La ceramica ritrovata presenta caratteri
simili a quella di altri siti giudaici e manca del tutto quella edomita, i supporti cultuali mostrano
elementi derivati da diverse tradizioni artistiche, tra cui riveste un ruolo importante quella dell’area
giudaica. Il carattere edomita è stato posto in luce soprattutto dalla presenza nelle iscrizioni del
nome del dio edomita Qaus, ed il carattere locale negevita sarebbe confermato dall’assenza nel
deposito cultuale di ceramica dipinta edomita, che sarebbe stato logico trovare tra i materiali all’atto
della sconsacrazione, la ceramica e le statue sono di un tipo che ha rimandi in area giudaica. La sua
collocazione fuori le mura lo rende accessibile alla popolazione esterna al forte e non lo fa sembrare
pianificato nel complesso fortificato, non è quindi espressione ufficiale del culto giudaico. Per
quanto riguarda gli inizi, Cohen ed Yisrael lo datano tra VII-VI secolo, inquadrando la
frequentazione giudaica in un periodo di vitalità ed espansione del regno di Giuda, quindi fu
costruito sotto egida assira e frequentato dai negeviti. Riguardo alla divinità cui era dedicato il
sacello, oggetti diversi, una stele ed un sigillo, riportano il simbolo delle corna di toro o crescente
lunare o altare a corna, lasciando supporre che il sito fosse interessato dal fenomeno che vide la
diffusione dei culti nord-siriani nella tarda età del Ferro, in particolare del dio Luna, la
documentazione più tarda, dimostrerà la venerazione da parte delle tribù arabe del dio Salm sotto
forma di toro.
Il santuario tribale di Horvat Qitmit: nel VII secolo è attestato in area negevita il santuario tribale,
ricompare dai tempi del FI la formula del santuario isolato all’interno di un territorio occupato da
piccoli villaggi agricoli, centri minerari, accampamenti beduini. Il santuario di Horvat Qitmit
mostra l’occupazione in un'unica fase divisa in due sottofasi. Era formato da due complessi di
edifici detti A e B distanti tra loro circa 15 metri. L’edificio B di forma quadrangolare presenta una
corte scoperta ed una serie di ambienti che si aprono su di essa, le due fasi di vita riconoscibili sono
state identificate solo nel Vano 108. Nell’angolo meridionale della corte fu rinvenuta in situ una
pietra rettangolare interpretata come massebah. Il complesso A, nella parte meridionale del sito, era
costituito da un edificio a tre vani, un recinto costruito intorno ad una piattaforma, un altare ed un
bacino di pietra, dell’edificio tripartito sono state distinte due fasi, nella seconda furono apportate
modifiche di non chiara funzionalità, realizzando segmenti di muro perpendicolari all’ingresso delle
stanze non legati alla statica dell’edificio e quindi forse percorsi rituali. Diversi oggetti sono stati
rinvenuti in tutta l’area, concentrati in gruppi sulla superficie rocciosa o in sottili strati di terra,
molti ritrovati all’esterno. La loro funzione è varia, alcune statuette antropomorfe sono state
interpretate come oranti, altri, immagini di guerrieri con funzione di rappresentare l’interesse del
fedele che lo aveva depositato all’interno. L’inquadramento culturale è piuttosto complesso e data la
mancanza di confronti precisi a livello architettonico, è fattibile solo attraverso l’analisi dei reperti
materiali. Gli artigiani che produssero questi oggetti erano pienamente partecipi del carattere
eclettico che connotava l’artigianato levantino di queste fasi, riguardo ai luoghi di produzione,
l’analisi delle argille potrebbe portare delucidazioni tra la produzione in loco e l’importazione.
Riguardo alla produzione in loco si potrebbe parlare sia di arte edomita che di varia origine dei
frequentatori del santuario. Lo scavatore, datando l’insieme dei reperti ceramici tra VII e VI secolo
ed in base alla presenza di ceramica edomita, ritenne che fosse stato costruito dagli edomiti alla fine
del periodo monarchico dopo la conquista di questi territori del Negev nel senso di un
conservatorismo spinto nei confronti di un tradizione religiosa ed iconografica cananea. Di parere
diverso Finkelstein e Bienkowski, che, sulla base dei caratteri transgiordanici della documentazione
e l’identificazione dei costruttori e frequentatori del complesso, ritengono, che il santuario e gli
oggetti sarebbero lo specchio della cultura dei popoli che vivevano in questa zona controllando le
vie commerciali meridionali. L’associazione di iconismo ed aniconismo, sarebbe prova della
mancanza di direttive cultuali precise. La quantità del materiale ci dà l’idea della fortuna del
santuario pur se su tempi brevi. Il santuario è spiccatamente originale sia per l’organizzazione dello
spazio sacro, che per la posizione e la funzione esclusivamente sacra, oltre naturalmente alla varietà
di figure divine, titolari del culto o “visiting gods”, nel complesso sacro transitavano le diverse
popolazioni che si incontravano intorno ad una o più divinità riconosciute o riconoscibili, santuario
tribale come ve ne saranno nell’Arabia Saudita del II secolo d.C..
Santuario commerciale e spazio della divinazione: Deir ‘Alla: un confronto con Horvat Qitmit è fattibile
con il santuario del TB di Deir ‘Alla, qui, la fama mai perduta di luogo sacro, lo fece intorno all’800
sede di luogo di culto in cui veniva praticata la divinazione. Costruito nell’VIII secolo, in una
piccola stanza ipetrale (priva di copertura nella zona centrale), con pavimento digradante verso il
centro, è stata rinvenuta un’iscrizione tracciata in inchiostro nero su intonaco bianco datata intorno
al 700, il testo, in una lingua semitica del nord-ovest, inizia con “Libro di Baalam, il veggente degli
Dei”, indicando così la sede della comunicazione con la divinità attraverso il veggente pur se in un
quartiere abitativo, industriale, commerciale. Secondo altri era una scuola per scribi.
Periodo babilonese ed età persiana: la Palestina ancora luogo di incontro tra culture.
Dal ritiro dell’Assiria alla distruzione del tempio di Gerusalemme: il 586 a.C., grazie al forte valore
ideologico attribuito alla data della presa di Gerusalemme, è stato considerato per l’intera area
palestinese l’anno del cambiamento e del passaggio ad una nuova fase culturale. In realtà, pur se
l’archeologia documenta distruzioni ed abbandoni in numerosi centri, la Palestina nel passaggio
dalla dominazione assira a quella babilonese è caratterizzata da una sostanziale continuità nella
cultura materiale del paese. La violenza degli interventi babilonesi fu differenziata, Gerusalemme
viene distrutta, le zone a nord ed a sud della capitale mostrano continuità insediativa ed in
Transgiordania gli edomiti estesero il loro dominio sul Negev. Sulla costa, la crisi dell’Assiria aveva
già lasciato campo libero alla XXVI dinastia egiziana che fino alla sconfitta di Karkemish dominò
politicamente e culturalmente l’area meridionale e costiera. Alcune immagini di dèi menfiti fecero
la loro comparsa in terra palestinese, come Ptah e Sekhmet ed i nani Bes e Ptah Pateco. Sull’area
filistea, l’Egitto ebbe un notevole influsso nelle forme di culto, anticipando un fenomeno diffuso in
età persiana. Nel territorio conquistato dai babilonesi però la documentazione relativa all’attività
religiosa è quasi inesistente, gli interventi dell’autorità babilonese non sono stati ben studiati e per la
Palestina ci si può riferire solo ad alcuni sigilli d’importazione che ci danno la possibilità di
ipotizzare che la tendenza a rappresentare gli déi in forma non antropomorfa diffusa in
Mesopotamia e sulle coste mediterranee, potrebbe essere posta in relazione ad un primo sviluppo
dell’aniconismo programmatico dell’area giudaica in età persiana.
La koiné achemenide e la nuova percezione della diversità giudaica: la metà del VI secolo è
caratterizzata da eventi militari e vicende politiche incalzanti: presa di Gerusalemme e distruzione
del tempio nel 586, la conquista persiana di Babilonia nel 539, l’editto di Ciro il Grande che
autorizzava gli esuli al rientro nel 538. La Palestina, insieme alla Siria ed alla Fenicia venne
immediatamente inserita nella satrapia chiamata nei testi persiani Athura, ma solo nel 450 viene
istituita la provincia autonoma di Samaria e Yehud. La definizione dei caratteri principali della
cultura palestinese tra metà V e IV secolo, ebbe inizio già dagli anni finali del VI secolo. La
lentezza e gradualità del processo sono provate dalla difficoltà a distinguere dal punto di vista
archeologico il periodo babilonese da quello persiano. Col progresso degli studi, l’età persiana
viene vista come un momento di straordinaria crescita sia economica che culturale. La ripresa del
fenomeno urbano costiero si affianca nelle regioni interne ad uno sviluppo delle attività agricole ed
artigianali, la costa con gli scali filistei e fenici e l’intensificazione dei commerci con il
Mediterraneo orientale ed occidentale, rappresentò il luogo d’incontro e transito di popoli e culture,
la terra dove meglio si colgono le manifestazioni della koiné culturale persiana di cui partecipò tutto
il Levante. L’irruzione della grecità nel mondo vicino orientale ebbe come esito l’ellenizzazione dei
costumi, sia per le classi elevate che quelle più umili, che tentarono di imitare nella coroplastica.
L’influsso persiano invece fu limitato ai soli aspetti ufficiali dell’architettura monumentale. Anche
l’Egitto, in un clima politicamente stabile, venne reinserito nell’orbita delle relazioni del Levante
costiero, da sempre fonte d’ispirazione, bilancerà la moda occidentalizzante che permeò la cultura
siro-palestinese di V-IV secolo. Da tutto questo rimasero esclusi i territori della Transgiordania e
l’area dell’antica provincia di Giuda, schiacciata dalle devastazioni subite e penalizzata dalla
povertà di risorse del suo territorio, e provata dai conflitti interni tra popolazione esiliata e quella
rimasta nel paese, elementi che definirono la specificità culturale e religiosa della provincia giudea.
Dal punto di vista della religione, l’opposta tendenza della regione costiera e di quella giudaica,
diede luogo al mosaico religioso della Palestina di quegli anni, le testimonianze del periodo
persiano mostrano che si era andato formando un quadro etnico e religioso assai composito che
portò all’affermazione di forme di culto nuove o rinnovate.
Il tempio alla periferia dell’impero: da Gerusalemme alla costa fenicia: i sovrani persiani attuarono
una politica di ricostruzione delle strutture religiose in tutte le regioni poste sotto la loro
giurisdizione, dalla Fenicia alla Palestina all’Egitto. Lachish, dopo la distruzione ed il momentaneo
abbandono, fu oggetto di grandi opere pubbliche, ad est del palazzo, verso la metà del V secolo,
venne edificato un edificio templare noto come Solar Shrine, orientato est-ovest e coperto da un
tetto con volte, vi si accedeva dal lato est, i diversi ambienti hanno restituito materiali assai vari che
hanno portato diverse datazioni su cui permangono dei dubbi. Lo scavatore, Starkey, lo datò ad età
persiana, Tufnell, in base all’assenza di materiali achemenidi negli strati d’uso e ceramica greca e
monete di II secolo negli strati superiori lo datò ad epoca più tarda, Aharoni confermò quanto detto
da Tufnell, tutti, senza spiegare la presenza in strati di età ellenistica di materiali di età persiana.
Stern datò il complesso alla prima metà del V secolo e l’uso fino ad età ellenistica. Sulla funzione,
non sussistono dubbi, ma Starkey lo definì dedicato a culti intrusivi in Palestina in età persiana,
l’orientamento ad est e la posizione dell’altare lo fecero attribuire ad un culto solare, Aharoni,
confrontandolo con quello di Arad affermò che sarebbero stati entrambi dedicati a Yahweh con la
permanenza del culto solare tra i giudei di età post-esilica. A chi fosse dedicato, resta in realtà un
problema aperto, la teoria da prendere in considerazione ed approfondire, visto il ritrovamento di
figurine fittili tra cui una rappresentante Eracle, riguarderebbe quella koiné culturale che si andava
formando in quegli anni con l’assimilazione tra Eracle e Melqart. Il santuario di Dan in Alta Galilea,
è l’unico di cui si segue quasi ininterrottamente la vita a partire dal IX secolo fino al periodo
ellenistico, all’età persiana si datano alcune strutture messe in luce all’interno del temenos ed i
materiali contenuti all’interno di una favissa trovata nella corte, segno delle ristrutturazioni
intraprese in questa epoca.
La ricostruzione del tempio di Gerusalemme: la prospettiva persiana e quella giudaica: dopo il 586
Gerusalemme fu rioccupata soltanto per una sottile striscia della collina dell’Ofel, dovette tornare
ad un vero e proprio status urbano soltanto in età ellenistica. Ciro, dopo aver conquistato Babilonia
nel 539, emana un editto nel 538, con cui autorizza gli esuli ebrei a tornare in Giudea e ricostruire il
tempio a Gerusalemme, restituendo ai sacerdoti gli arredi d’oro e d’argento depredati da
Nabucodonosor. Per i persiani significava il riconoscimento ufficiale di Giuda come distretto
amministrativo achemenide, lo spostamento verso il tempio di funzioni amministrative e quindi la
fine dell’istituto monarchico, per i giudei ebbe un impatto fortissimo con il riconoscimento del
diritto a riprendersi la loro terra e l’individuazione del tempio come luogo fisico intorno a cui
ricostruire il tessuto politico, sociale e religioso. Per quanto riguarda la conservazione del tempio
oggi è praticamente nulla, ricerche per individuare il Primo Tempio si sono concentrate sulla
presenza nella muratura di contenimento orientale della piattaforma dell’Haram esh-Sherif, di una
discontinuità o straight joint, che evidenzia l’appoggio della muratura di età erodiana ad una più
antica, che secondo alcuni è ciò che resta del periodo post-esilico. In base alla tipologia della
struttura ed il tipo di tecnica utilizzata, trova precisi confronti con gli edifici terrazzati di età
persiana a Sidone e Biblo (il cui contatto con l’area costiera a fronte dell’evidente isolamento
giudaico, sarebbe limitato a questa testimonianza) e definiti dal Kenyon “podi di magnificenza”.
Secondo altri saremmo di fronte all’angolo sud-est del muro di sostegno della spianata su cui
sorgeva il complesso palatino e templare salomonico.
I templi dell’area fenicia: culti salvifici e i voti per i bambini: la fase persiana è ampiamente documentata
nell’aspetto cultuale e religioso dell’area costiera fenicia con Amrit, Biblo, Sidone e Kharayeb, ma
anche in territorio palestinese con Dor e Makmish, i santuari sorgevano in zone urbane ma
soprattutto extraurbane isolate e ricche di acque ed in contesti naturali dal particolare potere
evocativo. La collocazione topografica dei templi, le forme architettoniche impiegate, gli oggetti
rinvenuti nei santuari e le immagini raffigurate, indicano che un cambiamento nel rapporto tra
divinità e fedele era avvenuto. La crisi della regalità in seguito alle conquiste assire e babilonesi ed
alla riduzione della regione palestinese a provincia persiana, e quindi del ruolo del santuario urbano
come luogo dell’intermediazione controllata tra individuo e déi dinastici, trovò espressione nella
scelta di collocare in zone extraurbane ed isolate sia i templi più importanti che i semplici sacelli.
Le stesse soluzioni architettoniche enfatizzeranno il ruolo nuovo dell’individuo, coinvolto in prima
persona nelle attività rituali, con la permeabilità ed accessibilità dello spazio destinato ai fedeli. In
città comunque, continuano ad esistere i santuari, legati come a Sidone e Biblo, alla figura del
sovrano nella sua veste di re costruttore. I déi dinastici però subiscono, al pari del sovrano, un
ridimensionamento rispetto alle divinità dai caratteri universali, e gli edifici cui sono dedicati,
diventano poli di forte richiamo culturale ed artistico. L’apertura dei nuovi scenari economici
d’altronde, comporterà la circolazione di idee nella facciata mediterranea del Levante e l’incontro di
genti dal cui confronto nacque quella koiné culturale che coinvolgerà in età achemenide il mondo
levantino ed in età ellenistica l’intero bacino mediterraneo. In Grecia esplode la devozione ad
Asclepio in stretta connessione con la fioritura delle scienze mediche, legata e preceduta dai culti
alle divinità guaritrici in area fenicia. Il maggior coinvolgimento dell’individuo è evidente anche
nella quantità di ritrovamenti di offerte votive soprattutto in terracotta di produzione seriale
collocate nei templi. Alle divinità si affidano ora, fenomeno nuovo, i bambini, le statuine Temple
Boy si trovano ora in templi sia fenici che palestinesi con dedica. Queste forme di rituale e
l’elevazione del bambino in atto giocoso a dignità d’immagine votiva ebbero origine in ambito egeo
e furono introdotte in area palestinese grazie ai rapporti con l’area cipriota. L’accoglienza di queste
pratiche si deve a motivazioni di carattere politico e sociale in ambito urbano, in ambito extraurbano
all’affermazione dell’insediamento rurale cui si lega la ripresa di forme di culto agrario e
fertilistico. La costa palestinese rientrò politicamente e culturalmente sotto influsso fenicio grazie
all’inserimento di Dor e Giaffa all’interno del regno di Sidone per concessione del re di Persia. Il
sito di Tell Michal-Makmish ha restituito importanti testimonianze, situato tra Tiro e Giaffa, fu
notevole sia per gli scambi commerciali tra area costiera palestinese e Fenicia, che per il controllo
dell’area costiera. La collinetta nord-orientale ospitò già nel X-IX secolo un locale di culto e nella
fase persiana venne costruito un tempio. Qui, dovevano essere collocate le numerose figurine in
terracotta rinvenute sia nell’edificio che all’esterno con varie iconografie che imitano e richiamano
stili persiani, ciprioti, egiziani, greci. La dedica del tempio rimane incerta. Un’altra struttura sacra
doveva essere sulla collinetta orientale, una struttura a banchette e nelle vicinanze una favissa con
lucerne usate ed un anello sigillo in bronzo. Un certo influsso culturale fenicio dovette estendersi
oltre la costa nei siti più interni come Mizpe Yammin, scelto grazie alla posizione per installarvi un
insediamento fortificato. La vasta corte recintata ospitava un tempio di medie dimensioni, l’edificio
era costituito da due ambienti, fondato in età persiana, vi sono state riconosciute due fasi edilizie,
rimase in uso fino al II secolo, alcune importanti scoperte furono fatte nell’area rocciosa presso la
piattaforma occidentale, indicando che le pratiche di culto adottate erano piuttosto simili a quelle
della costa fenicia e palestinese, da dove provenivano gli impulsi culturali che coinvolgevano anche
la sfera religiosa.
Gli déi e le dee delle città costiere: la regione filistea emerge a nuovo vigore nel periodo persiano, si
avverte l’influsso fenicio in questa fase dovuto anche ad una reale predominanza politica di Sidone.
La tendenza religiosa è quella del sincretismo, innestata su forme di religiosità locali, dalla Fenicia
provengono simboli ed iconografie elaborate nell’area della costa settentrionale tra cui furono
predilette quelle di divinità femminili, sia nella loro forma antropomorfa come la pregnant woman
che in quelle aniconiche come il simbolo di Tanit. Il contatto oriente/occidente permane in età
romana, quando ad Ashkelon si conierà una moneta con iscritto “Phanébalos”, “faccia di Ba’al”,
epiteto creato in contesto punico d’occidente e frequente nel tofet, luogo di incinerazione di
bambini. Le città costiere, mostrano nei ritrovamenti di età persiana, terrecotte, sigilli, amuleti,
scarabei, di divinità femminili che le fonti chiamano Astarte/Atargatis/Afrodite, coesistenti con
divinità maschili. Così è nelle favissae di Acco e Dor. La documentazione di Ashkelon non ci dà
elementi sul tempio di Afrodite Urania di cui parla Erodoto, ma un piccolo tesoro di bronzi,
testimonia l’adozione di divinità ispirate al pantheon egiziano ed egittizzanti, forse di produzione
locale. L’Egitto continua dunque ad essere fonte d’ispirazione, grazie anche al rinnovato contatto tra
le sponde della Palestina meridionale e l’area del Delta riaperto al Levante grazie alla politica dei
sovrani achemenidi.
Il cimitero dei cani di Ashkelon: nella città, in aree occupate da livelli di abbandono delle fasi
precedenti, sono state rinvenute 1400 tombe di cani. La cura nella posizione della coda e delle
zampe, la sigillatura perfetta delle piccole fosse, permettono di percepire l’importanza che tra metà
del V e fine del IV secolo dovettero avere cani femmine e maschi morti per cause naturali e non
ancora in età adulta, tanto da meritare degna sepoltura. Sepolture di cani sono note nel Mediterraneo
e nell’area vicino orientale fin dal calcolitico, ma la documentazione di Ashkelon è a tutt’oggi
eccezionale. Le componenti etniche e religiose di questa città sono varie e per ognuna si può
ravvisare un’origine sacra nel trattamento post mortem di questo animale, così per i persiani e la
religione zoroastriana, ancor più per gli egiziani che già lo mummificavano, così per greci e fenici
che condividevano le idee circolanti. Non si esclude, che la fortuna di questo animale in età persiana
fosse dovuta alla diffusione di culti delle divinità salvifiche cui il cane è da sempre collegato.
Ciò che resta del tempio? Le favissae : gli ex voto, in occasione di ristrutturazione o ripulitura del
santuario, venivano raccolte all’interno di depositi chiamati favissae. La favissa, come luogo
esterno al santuario, entro cui venivano raccolte le offerte votive nelle ripuliture del tempio o per
una ristrutturazione, in area palestinese, a volte si trova isolata rispetto all’edificio templare,
generando confusione nella definizione funzionale del contesto di ritrovamento. A volte, semplici
contesti stratigrafici, accumuli, sono stati comunque interpretati come votivi. La datazione dei
depositi palestinesi si rimanda ad età persiana, momento in cui la grande frequentazione di questi
luoghi era tale da richiedere una continua ripulitura del santuario e deposizione di questi oggetti, ma
vale anche l’ipotesi per cui questi “tesori” siano stati seppelliti in età ellenistica, intenso momento di
attività di ristrutturazione e ricostruzione. La grande diffusione di bronzi e terrecotte tra V e IV
secolo ha permesso il costituirsi di una buona base documentaria che viene esposta appoggiandosi
agli studi di Stern. In base a criteri di carattere iconografico e stilistico, lo studioso individua due
gruppi, uno occidentale con figure maschili tipo Apollo, Eracle, Hermes, e figure femminili in trono
o stanti in abiti greci, rari esemplari di bambini, ed un gruppo formato da un personaggio seduto a
banchetto, una maschera di satiro, un pigmeo nudo, ed uno orientale, con figurine femminili nude di
ascendenza locale ed abbigliate con vesti fenicie, egiziane, persiane e babilonesi, tra i tipi maschili
un personaggio seduto avvolto da un mantello con barba e grandi baffi. Ampiamente diffuso in
questo periodo il tipo del cavaliere, rappresentazione di una classe sociale che costituì il modello
iconografico semplicemente per un individuo di rango, orgoglioso della sua appartenenza.
Particolare fortuna tra le figure femminili ebbe la dea tyria gravida, per l’origine fenicia del tipo
iconografico, si è incerti sulla sua interpretazione come divinità o come dedicante in cerca di
protezione per il suo parto. Il numero elevato degli esemplari ci dà la misura della grande attività
levantina dei laboratori, in un circuito commerciale di oggetti artigianali legati al culto, che dalla
costa, dove giungevano per il commercio delle città fenicie e filistee prodotti rodii e ciprioti,
arrivava fino all’interno.
Madri e bambini, déi ed eroi. Le immagini che parlano della divinità e alla divinità: anche in età
achemenide, la ripresa dei sistematici rapporti tra area costiera siro-palestinese, Egitto e Cipro,
lasciò segni evidenti sia come luoghi di origine di alcune importazioni, che fonti d’ispirazione per
gli artigiani fenici e palestinesi. Nella selezione del repertorio iconografico prevalgono le immagini
legate agli aspetti della maternità e dell’infanzia, sia di tradizione locale che fenicia, che egiziana e
cipriota, con la doppia funzione di parlare della divinità ed alla divinità. Per quanto riguarda
l’accoglienza, comprensione e riproduzione delle immagini da parte della popolazione palestinese,
questa può essere analizzata attraverso più chiavi di lettura: la divinità straniera era accolta sia nella
forma esteriore che negli aspetti funzionali grazie a nuclei stranieri in loco che ne filtravano il
messaggio; forme e stili stranieri vengono accolti per la rappresentazione di divinità locali in modo
superficiale; tipi iconografici sia noti che sconosciuti vengono accolti in area palestinese sia
stravolgendone il significato originario che creando nuove iconografie dall’incontro dei mondi
greco e levantino come è stato per l’Eracle tirio, eroe-dio incedente, di stile greco ed elaborazione
cipriota, con elementi di origine orientale di II millennio tipo lo smiting god, assimilato a Melqart,
re della città e protettore dei coloni.
Bruciare incenso nei templi e nelle case: la diffusione degli altarini a cassetta: dal V-IV secolo, si
diffonde sempre più l’usanza di bruciare incenso, come dimostrano i numerosi incensieri o
bruciaprofumi o thymiateria. Gli esemplari più pregiati erano in bronzo, di forma umana, maschile
o femminile, con la testa sormontata da una coppa destinata alla combustione delle sostanze
odorose. Più diffusi gli altarini a cassetta o cuboidi, comparsi in area palestinese intorno al VII
secolo e rimasti in uso fino ad età ellenistica. Stern li ha suddivisi in quattro tipi in base alla
decorazione incisa sulla superficie esterna. L’area di origine sarebbe la Mesopotamia e secondo lo
studioso la loro diffusione si deve alla conquista assira. Lo studio del 1983 di O’Dwyer Shea, ha
definito tre gruppi in base all’associazione del tipo di materiale, della forma e della decorazione,
riflettendo produzioni regionali. Secondo Millard, sarebbero la riaffermazione nel VII secolo, di un
tipo noto nell’area del Medio Eufrate fin dal II millennio. Certo è, che furono usati per fumigare
incenso e sostanze aromatiche, come dimostrano sia le iscrizioni presenti su di essi che l’analisi
delle superfici combuste. Essendo stati trovati in gran numero in contesti domestici, il loro uso non
doveva essere esclusivamente pubblico e rituale, magari anche igienico e di profumazione
dell’ambiente, ma comunque accessibile a tutti i livelli della popolazione grazie all’apertura della
via dell’incenso dovuta ai commerci con la penisola araba. Difficile individuare la o le divinità cui
la fumigazione doveva essere gradita, le iconografie non ancora totalmente studiate, parlano più
della provenienza degli artigiani o dell’incenso che non di tematiche sacre.
L’area giudaica: le “assenze” che parlano del cambiamento: emerge, dal confronto con i centri
fenici e costieri, la peculiarità culturale dell’area giudaica. Templi e favissae contenenti oggetti di
culto sono stati trovati in tutta la Galilea e nella Shefelah, ma quelli definiti dalla letteratura
scientifica pagan remains, non si incontrano né a Samaria né in Giuda. L’isolamento del territorio e
la sua povertà devono aver contribuito alla non omogeneità con i siti della costa e parte della
Transgiordania, ma da queste fasi cronologiche si registra un certo recedere di alcune forme di
rituale fino ad allora praticato, scompaiono le Judean Pillar Figurines, segno forse del ban of idol
applicato in area giudaica. Le “assenze” parlano di un effettivo cambiamento delle pratiche religiose
di giudei e samaritani, in una vera e completa rivoluzione nella loro attitudine verso le attività
cultuali rispetto al periodo precedente.
Il tempio di Gerusalemme: una questione ancora aperta: il tempio di Salomone nelle
trattazioni archeologiche viene collocato nel X secolo, cioè per noi, Ferro I o IIA. La descrizione
biblica è ritenuta una vera testimonianza dell’architettura templare di questo periodo, più reale della
realtà documentaria e soggetto di confronto per monumenti perduti come il tempio di Hiram di Tiro.
Il Liverani stesso tratta il tema nella parte finale del libro “Oltre la Bibbia”, indicandolo come
invenzione. Il Primo Tempio non esiste e nella forma descritta dalla Bibbia non esisteva forse
nemmeno ai tempi di Salomone.
La fonte biblica e la documentazione archeologica: il testo biblico, (1Re 5:16-6, 2Cronache 4) è
l’unica fonte d’informazione di cui si dispone. Descrive nella Gerusalemme di X secolo, capitale
della monarchia unita, piccolo centro gebuseo della Palestina interna trasformato in centro politico,
cerimoniale e religioso, la progettazione di un complesso monumentale da parte di Salomone,
annettendo la collina monte Sion o Moriah alla città di David e costruendo le fabbriche palatine e
templari note come Casa della Foresta del Libano ed il tempio di Yahweh. La descrizione del
tempio è molto dettagliata, ci informa sulle dimensioni, porte, coperture, decorazioni interne ed
arredi, maestranze locali e fenicie che lo realizzarono. La fabbrica principale ad asse longitudinale,
era tripartita, con ingresso assiale ad est, il sancta sanctorum, separato dalla cella da un tramezzo di
legno, custodiva l’Arca dell’Alleanza, il tesoro del tempio si trovava nell’annesso che circondava la
cella. La fronte dell’edificio era ornata da due colonne di bronzo, chiamate Yachin e Boaz, con
capitelli decorati con fiori di loto da cui pendevano melagrane di bronzo. Gli arredi erano in oro e
bronzo. All’interno del tempio era il Trono di Yahweh, formato dalle ali di due cherubini tese
all’interno orizzontalmente ed all’esterno verticalmente a proteggere il trono. La descrizione è
attendibile, sia per l’estremo dettaglio per cui chi ha redatto il testo, vide il tempio prima della
distruzione del 586 o doveva aver consultato documenti d’archivio (Liverani ritiene che il redattore
del passo vide il progetto del Secondo Tempio enunciato da Ezechiele), sia perché rende l’immagine
di una tipologia templare nota nell’area siro-palestinese fin dal II millennio. Archeologicamente, a
parte lo straight joint di Laperroussaz, del tempio salomonico non è stata trovata traccia. L’unico
oggetto assegnabile alla fase di VIII secolo e proveniente dal mercato antiquario è una melagrana
d’avorio su cui l’incisione, che lo ha datato paleograficamente, riferisce l’oggetto all’ambiente
liturgico.
La cultura materiale come testo:proposta di messa in fase archeologica della descrizione del tempio:
l’analisi del monumento dovrà indirizzarsi sul confronto tra la descrizione biblica dettagliata,
l’assenza di testimonianze archeologiche e la collocazione storica della redazione del passo biblico.
Il tipo di approccio deriva dal metodo archeologico ed è quello della “messa in fase” applicata
all’analisi del testo. L’esposizione particolareggiata del testo biblico deve essere scaturita o dalla
visione diretta poco prima della distruzione o da documenti d’archivio che lo descrivevano. Se
avvenuta in base alla memoria degli esuli ritornati da Babilonia, i redattori avranno ricordato
l’ultima fase d’uso e di vita del tempio, se hanno consultato documenti d’archivio, devono essere
stati quelli forse relativi al progetto iniziale, ma più probabilmente i dati di un grosso rifacimento
dell’edificio, forse l’ultimo. La costruzione del tempio ed il suo aspetto iniziale sono elementi
sfuggenti nella messa in fase testuale, l’edificio descritto quindi non sarà quello di Salomone del X
secolo, ma il tempio che forse edificato dal sovrano fu usato, riedificato e ristrutturato prima della
presa di Nabucodonosor. La documentazione testuale ci consente di immaginare la fase d’uso del
tempio di VI secolo. Le uniche considerazioni fattibili sono quelle di ordine storico, in quale
momento e quale sovrano di Gerusalemme fu in grado sia politicamente che economicamente di
realizzare un’acropoli monumentale comprendente palazzo e tempio annesso? Nel X secolo la città
non era grande ma solo uno dei tanti centri dell’altopiano giudaico, quindi meglio spostare il florido
momento all’VIII secolo, quando sia Gerusalemme che la Giudea, vissero un periodo vivace e si
avviò quel processo di crescita demografica che culminò nell’espansione del VII secolo. In questo
contesto si colloca la rifondazione ideologica del tempio da parte di Giosia e la sua ricostruzione
fisica. La descrizione biblica richiama tradizioni architettoniche di riferimento differenti, per il
palazzo l’architettura achemenide con la grande sala a colonne detta apadana, per il tempio, quello
palatino a pianta longitudinale tripartita di ascendenza nord-siriana. Il rimando alla Fenicia con
l’uso di maestranze tirie all’opera nel tempio sono indicate dal testo biblico, ma l’impianto
architettonico dell’edificio e la tipologia del complesso cerimoniale palazzo-tempio, hanno origine
nella Siria settentrionale del II millennio. Riguardo agli oggetti poi, questi danno l’istantanea
immaginaria del tempio ideale con tutti gli oggetti più preziosi e ricchi di significato accumulati nei
secoli e scomparsi perché depredati. Il riferimento alle tradizioni siro-palestinesi del II millennio è
evidente anche nella descrizione delle decorazioni. Il Trono stesso di Yahweh, fiancheggiato da
sfingi alate o cherubini, trova numerosi confronti nell’area levantina, particolarmente in Fenicia, fin
dal II millennio. Il trono era in genere associato all’immagine del sovrano, la connessione con la
regalità di questo tipo di trono pare certa, meno sicuro se il trono accogliesse o meno in origine una
statua di divinità. Nel caso dell’aniconismo comunque, sarebbe conciliabile con l’uso del periodo
post-esilico, la tendenza alla rappresentazione aniconica rese naturale identificare nel trono vuoto
un adeguato simbolismo per il dio “invisibile” di Giuda, mentre per le fasi precedenti è possibile
che accogliesse un’immagine antropomorfa della divinità, forse in trono. Al centro del sistema
simbolico nazionale e religioso di quella che era ormai una casa regnante piuttosto potente, si trova
il trono fiancheggiato da cherubini, simbolo di una divinità che, visibile o invisibile, era sovrana, i
cherubini hanno funzione di guardiani dell’albero della palma. Tori, leoni e sfingi sui dieci carrelli
rituali di bronzo vanno intesi come animali mitologici, associati nel corso dei secoli alle varie
divinità e dunque di difficile interpretazione in quel contesto a causa della stratificazione semantica.
Il repertorio iconografico del tempio di Gerusalemme pare creato a tavolino, basandosi su una
selezione di oggetti e simboli che aveva lo scopo di rafforzare la scelta della tipologia di tempio da
dedicare a Yahweh: il sovrano era garante del culto dinastico, legittimato dalla divinità nazionale
legata indissolubilmente alla casa del sovrano.
Il primo tempio è mai esistito?: le considerazioni di cui sopra confermano l’inquadramento
cronologico basso, sia nella tipologia templare che nel mondo delle immagini che si ritrovano sugli
avori di Samaria e sulle coppe fenicie, affermandosi e diffondendosi tra VIII-VII secolo. La fioritura
fenicia sembra attagliarsi di più al IX che non al X secolo, con l’allargamento degli orizzonti
commerciali tirii all’Egeo ed il consolidarsi delle relazioni con Cipro, quella del X secolo è forse
creazione dei redattori biblici cui si ispirò Giuseppe Flavio parlando di Hiram di Tiro come sovrano
illuminato simmetricamente a Salomone. È probabile che il Primo Tempio sia esistito, non con
l’aspetto descritto dalla Bibbia, ma non dissimile da quelli di altri centri di questa fase cronologica,
modificato, restaurato e depredato nel corso dei secoli.
Il culto: luoghi, oggetti, immagini: questa sintesi storico-archeologica dà luogo a tematiche
riassuntive rispondenti a queste domande: dove erano svolte le attività religiose delle comunità che
nel I millennio abitavano il Levante meridionale? Quali erano i rituali, come si effettuavano e con
quali strumenti? Chi adoravano e come lo rappresentavano?
Dove praticavano il culto: la difficoltà va dalla generica definizione del concetto di spazio sacro a
quella più specifica di santuario, tempio ecc., è stata individuata una gerarchia concettuale che
consente di collocare le informazioni archeologiche all’interno dell’antico “dove mentale”, “dove
topografico” e “dove architettonico”.
Definizione di spazio sacro: il “dove mentale”. Lo studio del rapporto tra l’uomo e lo spazio, e per
estensione lo spazio sacro, è campo privilegiato delle scienze sociali ed in particolare
dell’antropologia, questa, intende per spazio sacro un territorio recepito sia come concetto
geografico che come luogo dove un determinato gruppo si sente sicuro in virtù del rapporto che
stabilisce con gli “spiriti del luogo” che lo popolano. All’origine della definizione di sacralità
possono essere un’apparizione soprannaturale, la richiesta di una benedizione divina su un luogo
occupato dall’uomo, una porzione del territorio umano riservata al dio. Nelle civiltà storiche lo
spazio cultuale coincide con lo spazio sacro perché è lo spazio in cui si effettuano i rituali, può
essere l’interno di una casa, il tempio, uno spazio aperto. La definizione di edificio di culto è più
complessa, rientrano in questa accezione, santuari e templi e cult corners in abitazioni private.
Nell’archeologia del Levante lo spazio sacro è affrontato in studi che trattano di architettura.
Holladay Jr. nel 1987 distingueva tra santuari, struttura ampia e multicomponente, e shrine, singola
unità integrata nel contesto circostante che invece è dominato dal santuario. Zwickel invece
distingue in: tempio, cappella, vano accessorio, area cultuale, culto privato. Il contesto storico
trattato nel libro, raramente offre la possibilità di elaborare una serie di dati che condividano
caratteristiche comuni e codificabili.
L’ubicazione dello spazio sacro: in relazione agli altri tratti del paesaggio urbano ed extraurbano o
anurbano, permette di dedurre numerose informazioni circa le proporzioni del sacro all’interno di
una civiltà. Il ruolo della geografia quale ambito significante per la storia dei luoghi di culto è
basilare, distinguendo la posizione urbana ed extraurbana nei diversi periodi.
Spazi sacri urbani ed extraurbani: nelle città stato cananee del TB la collocazione del tempio della
divinità principale all’interno dello spazio urbano era fondamentale per garantirne il significato
politico. Nel FI il ruolo dello spazio urbano non esiste più a parte la sopravvivenza delle aree
templari di Sichem e Megiddo, e Beth-Shean. Nei centri filistei il nuovo spazio urbano comprende
gli edifici di culto e li affianca alle attività produttive, evidenziando nuove forme di religiosità
cittadina. Così a Tell Qasile il tempio è parte della città stessa. Così ad Ashdod, dove era collocato
presso i laboratori ceramisti. Permarrà nelle fasi successive di VII secolo ad Ekron e Sarepta. Lo
spazio urbano riacquista un ruolo importante a partire dal FII quando sorgono templi cittadini e
nazionali come quello di Dan. Nel resto del paese però, nella città non sorgono aree isolate riservate
ad edifici di culto, ipotizzando che si svolgessero in spazi aperti ad esse dedicati, interessante in
quest’ottica il ruolo della porta urbica. In età persiana si avrà una nuova fioritura dei centri urbani,
in particolare costieri, il santuario cittadino perde il suo significato politico di esclusivo riferimento
religioso e l’extraurbanità assume un ruolo significativo. Il Monte Ebal è il sito che maggiormente
offre con la sua collocazione extraurbana e collinare, la visuale su una cosciente alterità espressa sia
dalla collocazione topografica che dalla tipologia monumentale. L’anurbanità come alternativa tese
a perdersi nel momento in cui cambiarono le condizioni politiche, amministrative ed economiche
che riconsegnarono lo spazio urbano alla popolazione come sede ufficiale del culto nazionale.
L’extraurbanità viene collegata al controllo, anche militare, delle pericolose vie commerciali del
deserto e delle aree di confine. I santuari del deserto meridionale non ebbero mai quella centralità
ideologica che si può supporre per i santuari extraurbani del FI. Unica eccezione Horvat Qitmit,
luogo d’incontro di tribù, e commercianti. I santuari extraurbani nati tra VII e VI secolo, ebbero
tipicità nell’età persiana. Dopo l’impatto assiro, sia per la posizione isolata che per la dedica a
divinità salvifiche, sembrano sopravvivere alle conquiste, ed acquisiscono una preminenza nella
regione che li trasformerà in poli dal forte richiamo culturale ed artistico.
Architettura. La questione all’approccio tipologico alla classificazione dell’architettura religiosa: le
formalizzazioni tipologiche necessitano la selezione all’interno di una base documentaria, di un
numero sufficiente di individui che condividano una serie di attributi. Questo tipo di approccio
difficilmente dà risultati soddisfacenti relativamente all’area levantina di I millennio. A parte i
templi a pianta longitudinale, le altre strutture non rispondono a codici architettonici di volumetria e
planimetria. Tuttavia, è stata proposta una categoria architettonica templare definita irregular plan,
in cui queste strutture non sono inquadrabili in un modulo predefinito né in una categoria
architettonica nota. Secondo Wright, la tradizione cananea precedente l’età del ferro, si definisce su
quattro moduli planimetrici: a sviluppo longitudinale, a sviluppo latitudinale, ad asse spezzato, a
pianta quadrata; soddisfacendo due condizioni generali: la simmetria della costruzione e la
monumentalità, e per l’età del bronzo, la monumentalità e le dimensioni delle strutture murarie;
queste caratteristiche vengono a mancare nell’edilizia del I millennio. Nell’area palestinese infatti
esistevano due linee parallele di sviluppo dell’architettura templare: la locale tradizione cananea con
origini nord-siriane e le diverse ispirazioni architettoniche e cultuali della variegata popolazione
della Palestina tra fine TB e Ferro. Eredi della tradizione architettonica proto e paleo-siriana sono le
due tipologie di architettura sacra rappresentate nell’area: il tempio a sviluppo longitudinale
(utilizzata per il tempio urbano sia nel FI che FII, migdol o templi fortezza di Megiddo e Sichem) e
la terrazza di culto (più antico e grandioso esempio il monumento P3 della città bassa di Ebla che
Matthiae ha chiamato bamah). Il confronto archeologico-architettonico, a prescindere dal termine
biblico e dalla sua vera natura, mostra una struttura che ha come caratteristica principale quella di
creare uno spazio architettonico sopraelevato ed aperto. Questa forma di santuario, un podio
sopraelevato all’aperto, fu adottata anche nel I millennio. Le varianti tipologiche si devono sia allo
sviluppo bimillenario, che alla mancanza di canoni edilizi da applicare a questa tipologia
monumentale. Caratteristico dell’area palestinese fin dal FI è lo spazio cultuale aperto, troppo
genericamente associato con la definizione di “alto luogo”, è difficilmente rintracciabile sul terreno.
La classe degli Irregular Plan Temples, secondo Mazar, raggruppa edifici templari che non rientrano
nelle categorie architettoniche note nell’area levantina tra AB e TB, si distinguevano sia
architettonicamente che funzionalmente dal tempio a pianta longitudinale nord-siriano. L’esistenza
di questa categoria è stata messa in dubbio, orientandosi a vedere nelle caratteristiche condivise,
l’appartenenza dei costruttori ad un medesimo ambito culturale. Altra caratteristica è la mancanza di
allineamenti ed orientamenti costanti nei luoghi di culto.
Forme architettoniche e testimonianze letterarie: cosa era una bamah ?: il termine, bamot al plurale, è desunto
dalla Bibbia, dove è usato in relazione a luoghi di culto, la traduzione più diffusa, desunta dalla
Vulgata, è quella di “alto luogo”. Con il termine sono state designate varie realtà ma quella che ha
avuto maggior seguito è la definizione di “installazione piuttosto semplice a cielo aperto su altura
naturale, che aveva come elementi caratteristici la presenza di asherah (albero o palo sacro) e
massebot (stele)”. Nello studio diacronico ed in riferimento a strutture socio-politiche che usarono
questo tipo di luogo di culto, Alper Nakhai giunge alla conclusione che il termine indichi in modo
generico luoghi di culto distribuiti sul territorio con funzione di centri religiosi regionali, potevano
essere costruiti dagli stessi sovrani in diverse parti del paese e vi officiavano sacerdoti di tutti i
gruppi della popolazione tranne che i Leviti. Era un luogo complementare alla regalità e considerato
legittimo fino a quando i sacerdoti levitici non manifestarono nei loro scritti un chiaro
atteggiamento di condanna nei confronti di un tipo di santuario gestito da una classe sacerdotale di
cui loro non potevano far parte per decreto regio. L’impostazione della questione sul rapporto tra il
termine bamah ed i diversi contesti storico-culturali all’interno dei quali fu usato, rende impossibile
la definizione di criteri tipologici monumentali. La terrazza di culto invece o piattaforma cultuale,
ha precisi riferimenti architettonici nella tradizione dell’edilizia sacra siro-palestinese.
Ambienti e strutture annesse agli edifici di culto: gli impianti produttivi: archeologicamente sono testimoniate le
attività di tessitura, produzione di olio, ceramica e figurine di culto. L’atto della produzione era
sacro, realizzato entro il recinto sacro del tempio, ed oltre al controllo della purezza del prodotto, la
gestione degli introiti delle vendite comportava un ritorno economico.
Come praticavano il culto. Gli oggetti: quelli offerti e votati alla divinità e quelli usati nei rituali: non
sempre è possibile identificare la funzione cultuale dei manufatti, spesso nelle pratiche religiose
erano utilizzati oggetti d’uso quotidiano, rara è la circostanza in cui un oggetto per forma,
dimensioni e decorazione può essere indicato come esclusivamente cultuale. Nel caso della
Palestina meridionale è difficile estrapolare differenze nelle pratiche rituali dei singoli gruppi
abitanti nelle diverse regioni culturali. Così, se dappertutto si sacrificava e si bruciavano sostanze
aromatiche, non sappiamo con quali gesti e parole. Una distinzione può essere fatta tra oggetti
rinvenuti nei templi e nei luoghi di culto e quelli offerti in virtù del loro valore intrinseco e quelli
impiegati nelle pratiche cultuali. Quanto alle dimensioni è ben attestato anche in Palestina il
fenomeno della miniaturizzazione.
Oggetti offerti o votati: figurine, gioielli, vasi pregiati e ceramica comune: le figurine di terracotta vennero
prodotte ed offerte nei templi in tutte le epoche. Sulla funzione sono state formulate varie ipotesi,
dalla riproduzione di grandi statue di culto, a dedica votiva, a riproduzione dell’offerente. La crisi
dei santuari urbani e del sistema della religiosità dei centri cananei del TB, nel FI si ripercuote
sull’attività dei coroplasti con una notevole flessione. La ripresa si ha nel FII, con maggiore utilizzo
in ambito domestico, con eccezione di Horvat Qitmit ed ‘En Hazeva, ma la vera esplosione si ha in
età persiana, le terrecotte diventano il principale indicatore dei mutamenti sociali e religiosi del
periodo, il contatto con il mondo greco, il tipo di rapporto tra fedele e divinità e la diffusione dei
culti terapeutici. Sul lungo periodo i tipi iconografici attestati sono limitati, segno del concetto
legato nelle varie epoche alle diverse divinità. Nuova e originaria da Cipro la figura del Temple
Boy, accovacciato con il sesso in evidenza, forse richiesta di protezione dalle infezioni nella
circoncisione. Altri oggetti erano offerti, ma di questi, per la loro preziosità, le tracce sono scarse,
gioielli, coppe in oro e bronzo, furono depredati e ne restano pochissimi esemplari da ripostigli. La
ceramica offerta mostra la pratica di iscrivere coppe e piatti a finalità cultuali.
Oggetti usati nel rituale: altari, supporti cultuali, modellini e maschere: tra i rituali praticati, ricostruibili
attraverso gli oggetti, è sicuramente quello della cremazione di sostanze aromatiche ed incensi su
incensieri o cult stands. In pietra, ceramica e bronzo, erano diffusi in area palestinese lungo tutta
l’età del ferro, provengono sia da contesti domestici (dove potevano essere usati per la
profumazione degli ambienti) che da templi e luoghi di culto. Venivano usati anche altari di piccole
dimensioni e varia forma, noti fin dal BA in area palestinese, evolvono nella foggia all’interno del
FII. A partire dal IX e fino al VII secolo le varianti delle sagome aumentano. Gli altari a corna
compaiono per la prima volta nel X secolo con esemplari ad alto profilo triangolare e sono attestati
fino al VII secolo ad Ekron. La maggior parte proviene da Israele, il dato è stato associato alla
minore centralizzazione del culto a differenza di Giuda. Gli altari potevano essere mobili, hanno
infatti tutti i lati ugualmente decorati, altri, con uno o più lati non rifiniti, dovevano essere collocati
entro nicchie. Nel caso di cerimonie all’aperto, dovevano essere custoditi nelle cult rooms adibite a
magazzini. A volte i supporti, erano usati per le libagioni, offerte rituali di liquidi, ed avevano una
coppa, esistevano comunque per questa pratica appositi strumenti, rhyta e kernoi. Riguardo ai
modellini di santuari, questi sono attestati dall’età del bronzo, si diffondono dal X secolo e restano
in uso durante il FII B-C. Fu posto in luce il loro aspetto di contenitore di un oggetto o una statuetta
di culto, ma non sono mai stati trovati associati in situ con queste e quindi l’associazione è avvenuta
per confronto con modellini da Cipro e Achzib. Rispetto all’architettura templare contemporanea,
questi non trovano corrispondenza. Trovati frequentemente nelle case, potevano avere funzione
sostitutiva. Le maschere in ceramica sono conosciute in area palestinese tra TB e XII secolo, sono
comuni in Fenicia ed a Cipro. L’origine è levantina e si diffondono dal FI. Esemplari antropomorfi a
grandezza naturale e con fori per occhi e bocca, indicano l’uso in cerimonie rituali. La pratica della
divinazione sembra attestata grazie alla scapola da Ekron e i dadi del vano con altare di Dan.
La preghiera, la musica, la danza: l’informazione su tali pratiche, può essere dedotta dalle dimensioni
e dalla forma dell’edificio di culto, il grande recinto del Monte Ebal, lascia supporre la
partecipazione ai rituali di un certo numero di fedeli e l’esistenza di feste periodiche in cui
confluivano genti di diversa provenienza. Le iconografie indicano l’esistenza di una gestualità
tipicamente usata nella preghiera, così nella glittica vediamo scene di uno o più fedeli con le mani
sollevate o la mano sinistra che regge un’offerta e la destra alzata. Anche nella coroplastica è
attestato il gesto dell’orante, come nei supporti antropomorfi da ‘En Hazeva. Sul Pithos B di
Kuntillet ‘Ajrud è dipinta una processione di uomini ed in quello A la presenza di musici è
dimostrata. Le cerimonie del FI infatti erano accompagnate dalla musica, come dimostra il supporto
dei musici da Ashdod e la pratica proseguirà fino ad età persiana. Le statuine di terracotta con
tamburello sono state interpretate come donne che suonavano all’interno di cerimonie cultuali,
l’alternanza con l’iconografia della dea nuda rende possibile che si tratti di una divinità il cui
attributo la collega a cerimonie propiziatorie di matrimoni e nascite. Strumenti di vario tipo quali
sonagli di ceramica e metallo sono stati trovati anche in ambienti domestici, ma soprattutto nelle
sepolture. Il supporto fenestrato da Qasile con persone che si tengono per mano ci fa supporre che
danzassero.
Sacrificare, cucinare e banchettare: il cibo nel rapporto con la divinità: l’offerta alimentare comportava
rinuncia e sacrificio cruento, cioè morte, comprendeva la fruizione immediata del bene offerto,
enfatizzando l’azione del nutrimento per la vita stessa.
Sacrificare e cucinare: l’offerta sacrificale era la principale forma di comunicazione tra sfera umana e
divina in tutto il Levante, poteva essere animale, vegetale, alimentare e incenso. Il sacrificio cruento
si svolgeva nel tempio o nel luogo di culto pubblico, mentre le offerte non cruente erano dedicate
anche nelle case. L’appannaggio al tempio del sacrificio cruento era legato alla consumazione dei
pasti rituali, cui si connette la “cucina del sacrificio” ed il rinvenimento di ceramica da mensa; il
sacrificio era praticato in tutta la Palestina dal FI al FII, cucinava il pasto il personale addetto, sia
maschi che femmine probabilmente e quest’ultime erano anche ammesse alla partecipazione ai
pellegrinaggi ed attività comunitarie. Gli animali scelti erano selezionati tra quelli usati come cibo, i
maiali sono raramente attestati come cibo ed esclusi totalmente dal rituale sacrificale a parte alcuni
riti associati ai morti, interessante il collegamento con l’Antico Testamento, in cui è proibito
mangiare e quindi sacrificare, animali ritenuti impuri come il maiale.
Tabù alimentari: la società a base pastorale avrà soprattutto consumato capre e pecore, con evidenti
limitazioni per motivi economici, la carne di maiale era minoritaria, sicuramente per le condizioni
ambientali che ne limitavano l’allevamento, ma non solo, vista la presenza scarsa di suini in territori
in cui, come Egitto e Babilonia la presenza di acqua ne consentiva l’allevamento ma che erano
presenti nella dieta ma proibiti nei sacrifici. La contrapposizione tra puro ed impuro e quindi
l’impurità del maiale (forse perché mangiava gli scarti degli uomini?) quando nasce? Questo tabù
definisce la nascita della comunità israelitica? L’abitudine di mangiare il maiale è attestata nell’area
palestinese ininterrottamente dal bronzo al ferro, la concezione giudaica quindi sarebbe
un’innovazione esilica e post-esilica, sempre poco usato come alimento in Siria e Palestina
comunque, divenne sempre più raro e poi proibito anche tra i Fenici. Il processo di eliminazione del
maiale ebbe nel FI il momento chiave, entrando in crisi il suo allevamento in seguito al crollo
dell’intero sistema economico levantino. Il confronto nella percentuale di ossa di maiale nei siti
delle alte terre palestinesi e delle città filistee mostra diverse percentuali in base alle situazioni
ambientali ed al retroterra socio-economico dei siti. Nel FI appaiono in gran numero nella Shefelah
e nella piana costiera meridionale e sono piuttosto diffusi nelle altre alte terre, scompaiono dagli
insiemi faunistici delle colline centrali. Ora e poi nel FII continuano ad essere presenti in numero
significativo a Heshbon in Transgiordania. L’assenza nel FI nelle colline centrali è ritenuto l’unico
vero elemento di definizione dei confini etnici delle popolazioni israelitiche o proto-israelitiche.
I banchetti cultuali: la loro esistenza è nota dai testi di Ugarit dove erano denominati mrzh, il termine
già attestato ad Ebla ed Emar, indicava un’associazione religiosa dotata di una propria struttura
economica, con famiglie che possedevano terreni, case dove avvenivano gli incontri, e vigneti, dove
era prodotto il vino consumato durante particolari cerimonie, svolte forse mensilmente, il consumo
alcolico aveva lo scopo di creare uno stato di trance. Il termine era usato sia per la cerimonia del
banchetto che per il locale, che per l’associazione religiosa, quest’ultima, nel primo millennio è
testimoniata in area fenicia ed israelitica, nella Bibbia ed in una iscrizione fenicia databile ad età
persiana incisa su una coppa bronzea di un tipo noto e diffuso in ambienti sia palatini che religiosi.
Il profeta Amos tra l’altro, disapprova quanti “bevono vino dalle coppe”. L’uso non sembra
esclusivo di tali cerimonie, ed è noto ad Elefantina e Palmira. Il collegamento tra pratiche rituali e
mrzh è stato proposto in riferimento a poche testimonianze, tra cui un gruppo di avori studiati da
Ferris Beach, provenienti da diverse località tra Assiria e Palestina che condividendo caratteristiche
tecniche, iconografiche e funzionali, ne ha fatto ipotizzare un loro specifico impiego per la
decorazione di un particolare gruppo di mobili, decorati per essere usati nel mrzh. Il carattere
funerario, connota cerimonie di contesto levantino meridionale. Esistevano però dei mrzh
all’interno dei quali la connessione tra la vita, il banchetto e la morte era forte ed alla base stessa del
rituale praticato. Così, la donna alla finestra, Inanna/Ishtar, è la divinità che discende all’aldilà ed
ammicca al cliente.
Il culto in ambiente domestico e la sfera intima della religione delle donne: nella casa, le attività cultuali,
sono denotate dal ritrovamento di statuine di terracotta, supporti per bruciare sostanze aromatiche,
amuleti e piccoli gioielli. In base allo studio del repertorio ceramico di VIII-VII secolo di Tell Jawa,
col ritrovamento di statuine in associazione con particolari forme ceramiche in strati di crollo, ha
fatto avanzare l’ipotesi che particolari rituali avvenissero sul tetto. Nella casa non doveva esserci
sempre un luogo preposto al culto, gli oggetti, potevano essere riposti su scaffali e mensole, e se
non più utilizzati, seppelliti all’interno della casa per preservarne la sacralità. Sembra che il ruolo
delle divinità maschili nel I millennio fosse prevalente nei culti ufficiali, come divinità nazionale,
quelle femminili erano ad appannaggio delle donne, legate ai riti della fertilità, salute e benessere
dell’infanzia, la ripartizione, potrebbe essere reale quanto potrebbe derivare dall’esclusione biblica
delle donne da un ruolo all’interno della religione israelitica e giudaica. Le donne dovevano forse
preservare anche il culto della memoria e del passato, come potrebbe indicare l’analogia tra figurine
di terracotta rinvenute nelle abitazioni ed i terafim della Bibbia. Un ruolo femminile importante era
quello in occasione del rituale funerario, in cui le piangenti, ritualizzavano comportamenti di furore
ed erotismo, come nell’iconografia del sarcofago di Ahiram di Biblo.
Onorare e disonorare il passato: il seppellimento rituale delle stele e dei supporti cultuali: in forma diversa
dall’area mesopotamica, anche in Palestina il tempo passato era qualcosa da onorare o disonorare,
così, l’abbattimento delle sue sgradite testimonianze è ben visibile a Dan con la rottura ed il
riutilizzo della stele aramaica, od il riuso delle stele di Sethi I, Ramses II e III a Beth-Shean, dove il
glorioso passato tentava così di essere rievocato, od il seppellimento come ad Hazor del FI, della
statuina di bronzo insieme ad armi in bronzo, od il seppellimento nella cisterna a Ta’anach di un
supporto cultuale integro.
L’incenso bruciato sui tetti: gli altari a corna e l’origine siriana di un rituale: gli antecedenti del tipo in
pietra caratteristico dell’età del ferro sono stati trovati, grazie allo studio di Gitin, nella Siria del
Medio Eufrate del II millennio per conservarsi nel Levante meridionale e durare fino all’età
persiana. I più antichi esemplari caratterizzati dalla presenza di quattro corna alla sommità sono i
modelli di torri di terracotta da Emar, Mumbaqat e Tell Faq’ous del TB e riprendono l’architettura
siriana ed erano usati per bruciare offerte o come altari. Le corna, oltre a richiamare la merlatura, si
relazionano al simbolismo di questa forma in tutto l’ambito mesopotamico, anatolico ed egeo. Lo
sviluppo naturale sarà quello degli altari a corna in pietra che si affermerà nel FII. L’aspetto
originario della torre, sul cui tetto veniva collocata la sostanza aromatica da bruciare, richiama
cerimonie di culto che trovano conferme nei testi, sia mesopotamici che biblici, e dal crollo ad
Ashkelon di un edificio amministrativo.
Chi adoravano e come lo rappresentavano: a chi dedicavano i templi? E chi sono le divinità
rappresentate sui diversi supporti? E quando nasce l’aniconismo giudaico?
Le immagini di culto: il Renger annovera tra le immagini di culto, tutte le rappresentazioni
antropomorfe, teriomorfe e simboliche, sia in forma di statue a tutto tondo che a rilievo, che
rappresentavano divinità e sovrani defunti, sia simboli e soggetti secondari come ad esempio gli
oranti. Rappresentazioni aniconiche ed iconiche dunque, compresa quella non antropomorfa. Nel
VO, i rituali religiosi si svolgevano di fronte ad un’immagine di culto, nel Levante meridionale del
I millennio, la situazione doveva essere simile ma ne abbiamo ben poche tracce. La lacunosità della
documentazione è stata ritenuta prova dell’aniconismo biblico e della proibizione alla
rappresentazione di Yahweh. La statuaria deve essere andata perduta, perché realizzata in materiali
deperibili e adornata di gioielli soggetta a bottini di guerra, la glittica e la coroplastica possono
aiutare nell’analisi della pratica della religione ufficiale.
Antropomorfismo ed aniconismo de facto : nel VO veniva adorata in genere la statua di una divinità in
forma antropomorfa, il mondo divino mesopotamico ed egiziano era antropomorfo, sebbene
esistano divinità rappresentate aniconicamente o attraverso simboli. Nel Levante meridionale del I
millennio la quasi totale assenza di statue ed immagini di culto è stata legata al divieto di
rappresentazione della divinità, fatto che troverà espressione programmatica in ambito giudaico e
poi islamico. Immagine di culto è qualsiasi forma di rappresentazione della divinità, anche quella
non antropomorfa, culto aniconico è la venerazione di simboli aniconici o di uno spazio vuoto
ritenuto sacro, tendenza aniconica quella di certe iconografie divine che non possono considerarsi
con certezza espressione di un programmatico ripudio delle immagini. La documentazione levantina
offre due forme di aniconismo: quello de facto e quello programmatico. L’aniconismo de facto è
l’indifferenza verso le icone, la mera assenza di immagini, un’osservanza convenzionale attestata in
area semitica occidentale che si affianca al culto antropomorfo senza una reale contrapposizione.
Secondo Mettinger, la radice sta nei santuari all’aria aperta, in cui il simbolismo cultuale consiste in
alberi sacri, stele e altari, con significato convenzionale di spazio sacro ed accesso alla presenza
divina. L’aniconismo programmatico è il cosciente ripudio di ogni forma di immagine che può
sfociare nell’iconofobia e iconoclastia. Lo studio di questo ambito permetterebbe di trarre modalità
convenzionali di rappresentazione in base alle concezioni della divinità presso i vari popoli. Molto
complessa la lettura delle forme aniconiche di rappresentazione, le massebot, oltre a
rappresentazioni aniconiche potrebbero essere indicatori visuali dello spazio consacrato e di
conseguenza della presenza divina. Tra XII e VI secolo, normalmente, i culti ufficiali all’interno dei
templi cittadini, erano incentrati sulla venerazione della divinità dinastica nazionale, quando si
afferma l’aniconismo giudaico? Nei primi secoli del I millennio, le poche testimonianze di piccola
bronzistica figurata vengono dall’area settentrionale della regione, mentre per l’area giudaica, in
virtù del suo isolamento e quindi di cambiamenti di carattere economico e sociale, la
documentazione è praticamente inesistente. L’unica classe dimostrativa della tendenza alla
recessione di figure antropomorfe, sostituite da altri soggetti, è la glittica, meno conservativa di
iconografie cultuali tradizionali e dunque piuttosto sensibile alle trasformazioni temporali
congiunturali. Le terrecotte invece, continuano ad avere nella forma umana il principale soggetto
d’ispirazione. Le radici dell’aniconismo vanno cercate nel FI? Secondo Mettinger il culto di
Yahweh fu aniconico fin dall’inizio, collegato alle aree cultuali all’aperto. Il Bull Site ad esempio,
mostrerebbe la convivenza di forme iconiche ed aniconiche. L’aniconismo dello spazio vuoto è
attestato nel supporto Lapp di Ta’anach. Al FI risalgono le poche testimonianze di rappresentazione
di scene mitiche come nella Orpheus Jug, o nell’incensiere dalla Città di David a Gerusalemme. Nei
secoli IX e VIII da un lato si tende alla continuazione nell’utilizzo di immagini della tradizione
locale cananea soprattutto nella coroplastica, dall’altro alla presenza di alcune innovazioni
testimoniate nelle produzioni glittiche. Nei secoli che precedettero la conquista assira, il nord del
paese continuò ad orientarsi verso poli culturali siro-fenici mentre il sud elaborò forme cultuali che
raggiungeranno la maturità solo nel VII-VI secolo. Nel panorama figurativo, le raffigurazioni divine
antropomorfe diminuiscono a favore della simbologia astrale. Per la statuaria di culto antropomorfa
all’interno dei templi, questa è testimoniata da statue in pietra del regno di Ammon e da quella in
terracotta di Dan, e per l’area filistea dai rilievi assiri con la raffigurazione della presa di Gaza ed
Ashkelon. Nella coroplastica, in contesti domestici e funerari prevale l’iconografia della figura
femminile con mani ai seni. Continuano ad essere attestati i culti aniconici, con alcune importanti
testimonianze nelle massebot di Lachish, Arad, Dan e Megiddo. La tendenza del periodo è comune
in tutta l’area palestinese, senza prevalenza degli abitanti della Giudea. Nel FIIC convivono in area
palestinese diverse forme di rappresentazione della divinità, in contesti funzionali e sociali
differenti. Il culto filisteo predilige la forma umana. L’area desertica meridionale del paese è quella
che offre i migliori dati per l’origine dell’aniconismo e per la compresenza con l’iconismo, nel
tempio di Arad, sede del culto ufficiale, la divinità veniva adorata nella forma di una o più stele,
mentre nell’aperto santuario di Horvat Qitmit, le figure divine assumevano forme varie ed originali.
Le differenti forme di religione di Giuda ed Edom ed il diverso retroterra di cui sarebbero
testimonianza, sono rappresentate in forma iconica ed aniconica. Con la fine del VII secolo, le
immagini sono sostituite dalle iscrizioni, il fenomeno va letto sia nel senso della progressiva
alfabetizzazione che, probabilmente, nell’esito della riforma di Giosia. In età persiana,
differentemente da quella neobabilonese, le diverse tendenze religiose sono meglio definibili. La
costa viene invasa da immagini di divinità egiziane e greche, mentre la Giudea resta isolata, forse
per il divieto programmatico alla rappresentazione della divinità, che scompare anche dalle
terrecotte. Secondo alcuni, questa proibizione si generò dal confronto con la “terra delle immagini”
babilonese, il confronto con i culti degli esiliati, fece ritenere inadeguate le rappresentazioni di
qualunque tipo per Yahweh. L’aniconismo giudaico in realtà, limitato peraltro al periodo del
secondo tempio, non è un fenomeno isolato nel VO del I millennio. Nella tradizione mesopotamica,
sia iconografica che testuale, gli déi sono rappresentati in forme umane. Alcuni però trascendono gli
altri, perché il loro aspetto non può essere compreso, così sono gli emblemi divini ad interpretare la
funzione del dio, questi simboli, comune nel TB, si diffondono nel Ferro. La tendenza alla
rappresentazione simbolica del dio si afferma quindi tanto in area mesopotamica quanto in quella
levantina.
Per una conclusione: “ la storia della Palestina del I millennio non può più proporsi, … nei termini
della storia della religione del popolo di Yahweh, ma deve essere la storia, e la storia delle religioni,
di tutti i popoli di tutti gli dèi che abitavano questa regione.”
SVILUPPO DEI PUNTI NODALI
Introduzione: definizione particolareggiata della “mission”, tipo di approccio metodologico, ambito
cronologico e geografico.
Ferro I: il cambiamento nella continuità delle tradizioni: il tempio urbano e la continuità funzionale
dal TB, la nuova realtà urbana dei centri filistei, la realtà del villaggio ed i locali di culto, il
santuario extraurbano come centro di aggregazione delle comunità delle alte terre, i supporti cultuali
e le immagini dei sigilli e della coroplastica.
Ferro IIA-IIB: il primato del regno settentrionale ed il lento sviluppo della Giudea: la corte di
Samaria ed il suo sistema di simboli, la città di Dan, il percorso sacro dalla porta alla terrazza di
culto, il culto alla porta, la crisi del tempio cittadino ed i vani di culto domestici, le figurine a
pilastro, la scomparsa dei filistei, santuari rurali, di frontiera e di confine, i regni tribali della
Transgiordania.
Ferro IIC: la conquista assira tra deculturazione e pax assyriaca : Samaria ed il deposito votivo
E207, i conquistatori e la diffusione della simbologia astrale, Gerusalemme e la forma di
rappresentazione aniconica, la statuaria ammonita e la divinizzazione dei sovrani defunti, la
religiosità del confine.
Periodo babilonese ed età persiana: la Palestina ancora luogo d’incontro tra culture: il ritiro
dell’Assiria e la distruzione del tempio di Gerusalemme, la koiné achemenide e la diversità
giudaica, il tempio alla periferia dell’impero, interpretazioni della divinità ed alla divinità, la
fumigazione e gli altari a cassetta, le assenze in area giudaica che parlano del cambiamento.
Il tempio di Gerusalemme: una questione ancora aperta: la fonte biblica e la documentazione
archeologica, la messa in fase della descrizione del tempio, esistenza del Primo Tempio.
Il culto: luoghi, oggetti ed immagini: dove praticavano il culto, come, chi adoravano e come lo
rappresentavano.
CONFRONTI CON “OLTRE LA BIBBIA” E CONSIDERAZIONI PERSONALI
“Voluta assenza di riferimenti incrociati a fonti epigrafiche e letterarie”. Una “storia”, tangibile, di
ricostruzione del dato materiale, che sì, passibile di interpretazione, ma che dà l’idea di ciò che può
dirsi esistito. L’autrice, delinea lucidamente, nella cornice ben delimitata e proposta, “la storia delle
religioni di tutti i popoli e di tutti gli dèi”. Onde non dare adito a malintesi, introduce i punti
cardinali del suo lavoro, confrontando solo come sottofondo, la biblicità inventata del Liverani.
Questa storia dell’archeologia del Levante meridionale del I millennio, è quanto mi sarei aspettata
nella Storia antica d’Israele di Oltre la Bibbia, quest’ultimo, libro millenario, ma denso di
coinvolgimenti emotivi e politici assolutamente non super partes. Vero è che la “verità” emerge solo
tramite una visione a 360° della realtà, così nella trattazione di Kuntillet ‘Ajrud, al confine con il
territorio giudaico, la Oggiano evidenzia maggiormente le iscrizioni e le immagini sui pithoi A e B,
mentre il Liverani, trattando delle iscrizioni su intonaco, pone il problema dello “Yahweh di Teman”
e “Yahweh di Samaria”, dove Teman è il nome biblico di Kuntillet ‘Ajrud. Od anche Deir ‘Alla, per
la Oggiano, antico santuario del TB, dove l’iscrizione su intonaco è presa per parlare della
divinazione, mentre in Liverani, citato in più punti, come santuario pastorale, e per le iscrizioni di
tipo egeo che confermerebbero apporti esterni nel periodo di transizione del XII secolo. Horvat
Qitmit poi, se nella Oggiano è simbolo e portabandiera della varietà religiosa della Palestina del I
millennio, o meglio del Levante meridionale, come santuario tribale di area negevita, per Liverani è
un tempietto edomita del VII secolo. Il filo di Arianna, è cronologico e riferito ai movimenti
politici, economici e sociali in cui la Palestina e l’isolato territorio di Giuda sono immersi,
mancherebbe forse, una definizione dei tratti del tardo bronzo cui si riferisce nel capitolo dedicato al
FI, ma i rimandi sono frequenti in tutta la trattazione. Come il Liverani, ma facendo sembrare che
non lo faccia per lo stesso motivo, tratta il tempio di Gerusalemme alla fine del testo, a mio parere il
capitolo più bello, di “scienza dell’archeologia applicata”.
“The past exist only in the things we say about it” (Matthew Johnson). L’archeologia, studia le
evidenze del passato, per ricostruire oltre a livello storico, l’evoluzione umana anche dal punto di
vista cognitivo. Proprio per fare una storia delle religioni, o la storia della religione di un popolo,
dovremmo essere capaci di entrare in quel mondo, per noi visivamente simbolico, di concetti
rimasti espressi nel reperto materiale. L’archeologia è una materia interdisciplinare, necessita dei
più diversi apporti per arrivare ad una “verità”, che per essere chiamata tale forse deve essere intesa
come “verità” dai più se non da tutti. Il record archeologico delle comunità umane del passato viene
studiato in senso diacronico. La teoria dei sistemi complessi (il sistema è un organismo complesso,
composto da parti che interagiscono in base alla loro funzione all’interno del mantenimento del
sistema stesso) è l’approccio che la Oggiano ha ritenuto valido, rivalutando la lettura storica rispetto
a quella astorica di certa archeologia processuale, all’interno sì della New Archaeology
(l’archeologia deve seguire l’evoluzione storica delle scienze naturali), con approccio contestuale e
cognitivo-processuale, ma non condividendo alcune forzature metodologicamente discutibili della
Interpretive Archaeologies di Shanks, ramo dell’archeologia processuale che sostiene che la
conoscenza scientifica non è mai oggettiva, un’archeologia post-processuale di applicazione di
metodologie scientifiche, al fine di ricostruire ciò che le popolazioni di cui ritroviamo i testimoni
materiali, “sentivano” e così esprimevano, l’aspetto essenziale è la contestualità. In archeologia
l’assenza di ogni possibile condivisione determina la necessità che nella fase di lettura dei segni si
debbano ricostruire contemporaneamente le sfere del significante e del significato, cioè capire allo
stesso tempo qual è il segno e qual è il suo significato in quel determinato contesto.
FONTI
A.M. Bietti Sestieri, L’archeologia processuale in Italia, o l’impossibilità di essere normali, Edizioniall’insegna del Giglio 2001
M. Montagnari Kokelj, Archeologia teoretica: una breve introduzione, in La preistoria dell’uomo.L’oriente mediterraneo. Vol. I, Storia d’Europa e del Mediterraneo, Salerno Editrice.
New archaeology, archeologia processuale.mht
E. Zanini, S. Costa, Organizzare il processo cognitivo nell’indagine archeologica: riflessionimetodologiche ed esperimenti digitali, in Archeologia e calcolatori 17, 2006, pp. 241-264.