"Oltre la Strada"

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Maggio 2013

MenteSuggeSostanza Edizionihttp://mentesuggesostanza.blogspot.it/https://www.facebook.com/MenteSuggeSostanza

in copertina:Tana Libera Tutti - Installazione di Fabio Eracle DartizioFoto di Anna Turina

Disegni in “Otto Gessi” ad opera di Fabio Eracle Dartizio

Pubblicato con Licenza Creative Commons 3.0Attribuzione, Non Commerciale, Non Opere Derivate

Oltre la StradaLe Infinite Possibilità di Direzione

a cura di Mente Sugge Sostanza Edizioni

Indice

• Introduzione

•Al Confine•Nel Viaggio o Rinascita di una Stella•A Spasso nel Tempo•Parsifalata•La Bussola•Aria di Strada•Canto Dell’Uccello Smarrito• Il Cuore e la Ruota•Odore Di Asflato E Di Benzina•Otto Gessi•Viaggio Nell’Immaginario•G.R.urto354/x•Entropia Dei Sensi•Passeggiando Leggero•Disastronauta•Ci Scusiamo Per Lo Spiacevole Inconveniente• In Viaggio con le Parole

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Introduzione

“Il viaggio è una specie di porta attraverso la quale si esce dalla realtà

come per penetrare in una realtà inesplorata che sembra un sogno.”

Guy de Maupassant, Al sole, 1884

L’idea del Viaggio è già Viaggio, strade mentali, percorsi psi-chici, voci veloci, pensieri in corsa, parole su fogli sgualciti... il viaggio come ricerca di un orizzonte sempre nuovo, come va-gabondaggio degli occhi nei cieli... i sapori, i colori, gli asfalti di traiettorie senza meta, le curve del destino... Il viaggio non è raggiungere una meta, ma oscillare costantemente tra la par-tenza e l’arrivo... il viaggio si vive in treno, su strada, a piedi, in moto, il viaggio scopre nuovi spazi interiori, espande la mente ed arrichisce il sapere. Il viaggio è fisico tanto quanto mentale. Percorriamo contemporaneamente due strade sovrapposte.

E così nasce l’idea di raccogliere “i viaggi”, di sperime(n)t(r)are la strada in tutte le sue possibili direzioni, anche quelle che vanno oltre le linee tratteggiate o fisse che segnano l’asfalto, e di gusta-re la varietà degli itinerari che s’aprono agli incroci delle menti.

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Al confine con la Jugoslaviadi Gianni Martinetti

al ritorno dalla Grecia

Io fuila verde collina delle mie opinioni:un sasso un muro un fortilizioun coccio un vaso una civiltà.

Non piansi non risi non pensaidue occhi vivi nel brucioredi tenebre compatte…

E gettaiun fotogramma di storiacarpito ai ricordi di scuola

scherzandocome chi sadi non sapere

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Nel Viaggioo Rinascita Di Una Stella

di Renato Barletti

Giunto all’imo nel tuffo nietzsciano verso l’abissoho visto le sagome dei mostri dormienti vellicato le purulenti loro verrucheho fatto l’amore con ossidati vuoti scafandriruzzolandoci nel brago di un ciarpame decrepitovomitato fin quaggiù a sommo diniegoho vagabondato nella caligine foscadella palude dei desideri abortiti di tanto in tantodanzando con gli spettri di vecchie o giovani signoreal ritmo e l’armonia dell’orchestra dei rospirimbiancando i muri a vetuste cascanti fortezzepattinando spensierato sulla melassa ghiacciatadi soverchi discorsi troppe volte ascoltatiscagliando nel vuoto boomerangs senza ritornopersi nella coltre degli attimi fuggenti mai afferrati…..

….quindi uscito a riveder le stelleho naufragato l’occhio nella miriade di fuochi fatuispecchi sinonimi della medesima luce riflessa

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scomposta e ricomposta negli ultimi colori rimastinell’ultimo caleidoscopio accessibile: il bianco e il nero..…inutile agitarsi nella camicia di forzaper cercare i grigi gli sfumati o i colori più intensi........che questa fosforescenza non regalerà Mai(passeggero sul treno delle emozioni represseho fuggito la pianura dell’individualismo appiattitodove l’impero dell’ambizione d’avere ha cacciatoogni superstite puntigliosa prurigine d’essere)esule ho pelato patate sul veliero della fantasiaper superare incolume l’oceano delle velleitàsordo agli illusori canti di ovvie malcelate sirene

ramingo o signore capopopolo o eremitaho raggiunto il Capo Horn della vita(là dove termina questa valle)e si apre un’ampia via per lo scontato ritornoalla brumosa normalità e al macabro oblìo….

invece prendo la guida dei razzi dell’insondatounico carburante la suprema volontàestrema meta quel fioco astro lassùirrinunciabile scopo riaccenderlo!!!!!!!

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A Spasso nel Tempodi Teresa di Sario

Erano le 14 di un assolato giorno di fine agosto, quando Eric decise che era giunto per lui il tempo di morire.

La sua non era stata una vita difficile o sgradevole, neppure tanto infelice o dolorosa. Aveva condotto una esistenza me-diocre. Sonnacchiosa. Silente. A scuola i voti erano stati nella media. Era riuscito a laurearsi anche se, durante l’università, non aveva brillato per arguzia e intelligenza. Aveva trovato lavoro come impiegato in un ufficio di periferia. Era sposa-to con una brava ragazza. Aveva due figli piccoli. Alternava i pranzi domenicali con maniacale precisione: una volta dai genitori e l’altra dai suoceri. Anche le festività e le vacanze erano equamente spartite tra le due famiglie. Messi a letto i bambini, il sabato era dedicato a una coppia di amici con i quali, lui e la moglie Miriam, trascorrevano il tempo a gioca-re a ramino. Il resto della settimana si consumava monotono e lento tra casa e lavoro. Eric aveva appena trent’ anni, ma a lui sembravano già essere cento. Nei ultimi giorni era passa-to spesso davanti a una libreria esoterica e aveva curiosato all’interno della vetrina dove erano esposti colorati volumi dai titoli misteriosi che trattavano di vita oltre la vita, mor-

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te, karma, trasmigrazione. Qualche sera dopo, in televisio-ne, udì un santone indiano parlare di tali argomenti. Le idee espresse dal guru erano state talmente convincenti che da al-lora Eric pensava di continuo a come sarebbe stata la sua vita nella reincarnazione futura. Cominciò a fantasticare su un destino costellato di soldi, donne, potere, successo. Durante l’attuale esistenza non si era comportato poi tanto male: non aveva fatto le scarpe ai colleghi, non aveva rubato al datore di lavoro, tradito la moglie, o molestato i figli. Certo, non aveva fatto molto per aiutare gli altri, ma non li aveva neanche bi-strattati. Sicuramente la sorte l’avrebbe premiato. Oramai era questo il pensiero, l’ossessione, l’assillo che lo accompagnava-no di giorno e di notte e che, attraverso, frenesia, ebbrezza, e delirio, gli corrodevano il corpo e la mente. Lentamente. Inesorabilmente.

Sostenuto da una lucida insana follia decise che avrebbe in-gerito del veleno per topi. Era di sicuro un buon metodo: nessuna macchia di sangue stampata sul parquet del salot-to, nessuna particella di cervello spiaccicata sulle pareti del-lo studio, nessun cadavere spappolato sul marciapiede sotto casa, nessun brandello di carne sparpagliato sull’autostrada. Se ne sarebbe andato senza fare baccano. Comprò delle mi-nute sfere di colore blu contenente stricnina e appena arrivò a casa le mise dentro una scatolina piena di simpatiche ca-

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ramelle colorate. Infilò il piccolo contenitore in un cassetto, tra canottiere, mutande e calzini, e andò a dormire. Esausto. Svuotato. Prosciugato. La mattina dopo sarebbe stato il pri-mo settembre dell’anno 2012. Un buon giorno per morire. Si svegliò. Una fredda, timida luce annunciava l’alba. Si alzò a fatica e, nonostante il cielo fosse livido e cupo, le nuvole torve e furiose, uscì a fare una passeggiata sulla spiaggia. Gli sarebbe piaciuto rinascere in un paese circondato da sabbia rosata e acqua cristallina. Passando davanti al negozio esote-rico, lesse un annuncio che lo incuriosì. “SOLO PER OGGI SI CONCEDE, ALLA PRIMA PERSONA CHE ENTRERA’ IN QUESTO LOCALE, DI COMPIERE UN INCREDIBI-LE ED ENTUSIASMANTE VIAGGIO CON LA MACCHI-NA DEL TEMPO, CHE PERMETTERA’ AL FORTUNATO VINCITORE DI PROIETTARSI NELLA SUA PROSSIMA REINCARNAZIONE”. Immediatamente nella mente di Eric balenò un’angosciante domanda. Se la vita successiva fosse stata peggiore di quella attuale? Doveva assolutamente vede-re con i propri occhi cosa il destino avesse in serbo per lui. Entrò nella tetra bottega. Non c’era traccia di vita. Inaspetta-tamente, nella penombra, si profilò una pallida sagoma. Era un omino alto poco più di un massiccio, minaccioso banco-ne di legno sul quale riposavano inquietanti statuine di terra-cotta. I due si scambiarono un fugace cenno di saluto e Eric chiese se avesse potuto compiere il viaggio di cui si parlava

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nel cartello. “Certamente”, ghignò il nanerottolo, “lei è il pri-mo cliente della giornata. È davvero un’occasione unica. Non se ne pentirà. Mi segua e faccia attenzione alla testa”.

Il retro del negozio, sorprendentemente allungatosi in un angusto budello, si snodava in un labirinto di salite, discese, curve e cunicoli. Dopo alcuni interminabili minuti di buio accecante, un’esitante spiraglio di luce si intrufolò attraverso un’ammuffita crepa del muro. L’omuncolo infilò un braccio nella parete che di colpo si fece liquida, prese la mano di Eric e lo condusse all’interno di quella che sembrava una grumo-sa pozza di pece e catrame. Senza poter respirare, nuotaro-no in un denso liquido gelido fino a quando, una impetuo-sa roboante cascata, li catapultò in una spoglia radura. Una bizzarra macchina, che sembrava essere stata scaraventata lì da un pianeta lontano, rendeva l’atmosfera insolita. Surrea-le. L’omino, che per una qualche strana illusione ottica pare-va più alto e imponente, accompagnò Eric alla vettura e gli spiegò che doveva proseguire da solo. Appena si fosse sedu-to nell’abitacolo, sarebbero apparse le istruzioni da seguire per giungere alla destinazione prescelta. Eric si sistemò sullo scomodo sedile, chiuse la piccola capote di vetro e aspettò le informazioni. Giunsero dopo pochi secondi. Digitò su un monitor il proprio nome e cognome, la data, il luogo di na-scita, e il periodo temporale a cui era interessato. Il veicolo

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rimase immobile. Eric chiuse gli occhi un istante. Quando li aprì si ritrovò su una spiaggia. Impressionato, saltò fuori dal disagevole trabiccolo e si avventurò alla ricerca di qualche anima viva. Morbide dune rendevano il paesaggio uniforme e regolare. Il sole era alto, affascinante, raggiante. La sabbia sinuosa e mansueta. In lontananza due vaporose tende pre-sero forma, rallegrando lo stagnante orizzonte. Il giovane si avvicinò con aria trionfante. “Ehilà, c’è qualcuno”?garrì. Non si udì alcuna risposta. Sollevò il lembo di un drappo colorato che mostrava un passaggio, ed entrò. All’interno del padi-glione c’erano una poltrona e uno schermo. Incuriosito Eric si accomodò. Immediatamente comparvero delle immagini. La scena si svolgeva nel cimitero della sua cittadina.

Vide sfilare, composti, pacati, i suoi genitori, quelli della con-sorte, i due figli, la coppia di amici con cui giocava a car-te, e alcuni colleghi di lavoro. “ Il mio funerale”! esclamò. “Povera moglie mia, dovevi essere proprio sconvolta per non presenziare all’estremo saluto”. Il sacerdote cominciò l’ome-lia funebre. “Oggi, 3 settembre 2012, siamo qui riuniti per dare un commosso addio alla vita terrena della cara sorella Miriam.” Eric, incredulo, balzò dalla poltrona e si precipitò fuori. Disorientato, sgomento e spaurito, si rintanò nella ten-da vicina. Da uno sconfinato schermo in 3 D, spuntò fuori la moglie che, canticchiando, entrava nella loro camera da letto,

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mandava con la mano un tenero bacio al marito, che sdra-iato sul letto sembrava dormire, apriva il cassetto, dove Eric teneva gli indumenti intimi, per riporvi quelli appena stira-ti, prendeva una scatolina colorata, sollevava il coperchio, sceglieva una piccola caramella blu a forma di sfera e, dopo averla appoggiata delicatamente sulla lingua presagendo un carezzevole, soave sapore, si dirigeva in cucina, gongolante e giuliva, come una bimba che ha appena compiuto una in-nocente, candida marachella. Dopo circa venti minuti, le si paralizzarono i muscoli del collo e del viso. In un attimo l’ir-rigidimento si diffuse in tutto il corpo e si tramutò in terribili spasmi che acquistavano frequenza crescente. La schiena si inarcò. La respirazione si bloccò. La donna rovinò penosa-mente sulle amate, linde, lucenti mattonelle verdine. Durante la straziante agonia la coscienza di Miriam era restata lucida. Eric lo aveva intuito dagli occhi in cui era rimasto impresso un violento, bruciante terrore. L’uomo voleva fuggire, ma il padiglione sembrava essere stato cucito fin dentro le visce-ri della terra e più cercava un varco, più lo spazio diventava stretto, soffocante. In preda al panico, si accasciò. Le immagi-ni, nervose e incalzanti, lo rincorrevano, lo accerchiavano, lo sommergevano. Il padre e la madre di Miriam, sconvolti per la perdita della cara unica figlia, il giorno dopo le esequie, si erano tolti la vita ingerendo una potente dose di tranquillan-ti. La polizia li trovò sdraiati sul talamo nuziale. Mano nella

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mano.

I suoi genitori, devastati dal dolore, avevano trascorso il resto di una vana e grama esistenza internati in un ospedale psi-chiatrico. I due figlioletti, rimasti senza alcun parente, erano stati affidati a una casa famiglia e in seguito a una coppia di coniugi che li picchiavano e li sfruttavano. La ditta per cui Eric aveva lavorato era fallita poiché il commercialista, che avevano assunto al suo posto, aveva trasferito i capitali dei clienti su un conto straniero, ed era fuggito con il fidanzato del capo che, amava segretamente da anni. L’uomo cadde a terra stremato. Quando riprese conoscenza, intorno a lui c’e-ra solo il deserto. Si mise alla ricerca del congegno infernale che lo aveva condotto fin lì, ma non era capace di orientarsi in quella oceanica, granulosa, aspra distesa. Si trascinò, an-naspò, arrancò, quando finalmente scorse un bagliore. Spro-fondata nel ruvido, rugoso terreno, la macchina del tempo giaceva incustodita. Dimenticata. Eric cominciò a scavare fre-neticamente, convulsamente. Dopo aver ingerito una discre-ta quantità di minuscoli invadenti granelli di sabbia, riuscì a liberare la cupola di vetro, entrò, chiuse la capote, e aspettò le istruzioni. Non apparve alcuna parola. I pensieri cozzavano nella testa come falene che si scagliano ostinate e cocciute contro una lampada accesa, i battiti del cuore rimbombava-no dentro la cassa toracica, come l’inesauribile eco di mille cannoni, le mani e il corpo tremavano come una casupola

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di paglia e fango durante un implacabile terremoto. Eric co-minciò a singhiozzare e solo allora lo schermo liquido svelò l’agghiacciante verità. In preda all’ accecante delirio che si era impossessato di lui facendogli desiderare, bramare, invocare la morte, la notte tra il trentuno agosto e il primo settembre, all’interno della sua testa una vena era esplosa, facendo affo-gare quella molliccia massa grigia chiamata cervello.

L’angelo della morte che tanto aveva invocato, lo aveva ac-contentato andandolo a prendere ma, poiché Eric aveva di-sdegnato, mortificato, calpestato la Vita, la sua anima avrebbe vagato in eterno in uno sconfinato, impietoso deserto. Senza alcuna possibilità di rinascita.

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Parsifalatadi Ada Simona Totaro

Sul far della sera, mentre il basso cielo del giorno di fuori appariva incatramato nero e in gran segreto un’impavida nu-vola di maestrale giocava alla roulette rosa dei venti, - pun-tando sul tredici rosso qualche piccola perlina di deserto -, l’intrepida soubrette di questa breve storia un po’ marziana, la cavalletta con gli occhiali del “c’era una volta e c’è una volta ancora il jazz”, che cinguettava strana, circondata in tondo dai raccolti astanti, ad annunziare avanti il dirompente arrivo di giammai estinti umori cavalcanti, decise su due zampe di lasciarsi ormai alle spalle, non davanti, la cupa nostalgia dei ritmi magri, palesemente immersa nei chiaroscuri ossuti e tristi degli appassiti tempi pigri e, armata di tutto punto, brio, coraggio e brigantaggio, occhiali in testa e sulla fronte la piu-ma di battaglia, scese danzando in fuga le venticinque scale dell’allegretto della chiocciola di mare, ingentilita, nel vorti-coso andare, da scarpe in vera pelle e suole in cuoio - alte sì tanto da far le zampe silenziose e snelle -, e croce sul cuore, ad est canna di ballo e come scudo, ad ovest, un Borsalino trapuntato di perle nere da ribelle, si inoltrò grezza, nell’in-tricato verde amazzone dei gineprai della foresta intonsa in fondo al Baccanale, lo scostumato palcoscenico dei quattro

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canti, in cui, manco a volerlo, la cavalletta entrata in furia al vento, perse di subito l’orientamento e, cadendo vivacemente giù in picchiata, diede d’un fiato a terra una genial capata.

Il forte odore del palcoscenico irritante era difatti irragio-nevole e inebriante - come del resto l’altre nascoste feste di Dioniso, il dio, come si dice tra i poeti, il più infuocante -, e l’abito anti età che frate grillo del fine fiuto e dell’astuto filo le avrebbe presto regalato per il compleanno di duemilacinque-cento spogliarelli prima, o forse in occasione dell’anniversa-rio dei novant’attimi di scarabeo, papà lucente delle biglie astrali e mamma porpora, lucciola rossa sbocciata come rosa tra i canali, era ancora di nascosto conservata in cassapanca e pronta lì a servire il primo show per festeggiar così la gaia ri-correnza, intonando il dolce canto della lunga lenza e in piedi per pescar dodicimila pesci, badate bene, in una sola danza. Nell’improvvisa situazione d’emergenza, nessuna maschera o costume, nemmeno l’abito segreto preparato, sembrò se-guir l’andante moderato della desiderosa cavalletta dance, e il gas fumogeno del palcoscenico eccitante ebbe la meglio su qualsivoglia improvvisata lap, causando alla gentile cavalletta ardente un grave indoramento della vita che, tra le note fuse in gran piacere, da presto a adagio e poi da adagio a lento, la-sciò l’amica nuda e inebetita, dentro una nube d’arte erotica infiammata.

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Il ritmo stesso percuoteva la soubrette, tirandola ormai via dalla sua vecchia buca, e in quello strano carro dell’auriga, non di vaudeville, per grazia, ma di coscienza in fuga, niente poterono le poche cose che la rea confessa aveva raccattato per il nottambulesco andare: la bussola che nonna mantide, puttana mai pentita, le aveva presto dato intestardita prima di filar via con il suo ragno, un vero amante, tanghero nuevo dell’antico tango d’oro - l’unico cui consegnò la testa, il cuore ed il decoro -, era impossibile, credetemi, trovarla in quel tri-pudio, né tanto meno l’acquatico metronomo che zio salmone del sermone, zio per affetto d’un senso zoppicante, le avrebbe regalato in occasione della competizione più controcorrente. Gara che purtroppo lo ziastro aveva poi nuotato in solitario, senza ballar con lei nemmeno un valzer, poich’era in ansia solo per se stesso e il suo glorioso assolo progressista - core-ografato pure malamente dal bruno scorfano, retore magno, anarchico di destra -. E così fu che, sul finale in risalita, lo zio sbagliò un jeté e sfumò in un salto la sua ascesa, gio-candosi a quel modo, in quella gara, il duro allenamento d’una vita. Gara vivace, bisogna dirlo e oso, ma dalla quale non tornò più lo zio lezioso, così ottenendo che il già zoppicante affetto, in coppia col metronomo da sub, restassero con lui, salmon gradasso, che ancora oggi, in mezzo a oziose onde, cerca la fama spiaccicatasi su un sasso.

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Ma non essendo quello il tempo per recriminare, dal momen-to che in quelle condizioni alquanto strane e in quella ancor più strana perdizione, non si sapeva di che tempo si trattasse, la nostra cavalletta musicante chiamò a raccolta l’esile corag-gio che le scorreva per le vene capillari e, tra le note del “c’era una volta e c’è una volta ancora il jazz”, di maggio, scese più giù, a tastoni tra i rinali, per sviscerare un giogo malfama-to e, a rischio della vita e della morte, stanare dal groviglio indedalato, il più temibile avversario dei funamboli: mostro crudele, fantasmagorico dragone, lo scor-piotauro con fauci di leone, rinchiuso al centro del più rosso asso di cuori, che preda i giocatori sfegatati, pittori, attori acrobati e cantanti, mordendo in mezzo al petto tutti quanti. La cavalletta in-genua, cercando in quella fogna, dal primo trabocchetto fu presto tramortita: tre talpe mute, cugine non di sangue ma fatali, famose ad arrostir topi in padella, sniffando l’avvicen-darsi della imberbe pulzella, s’erano imbacuccate con furbi-zia sotto terra e, apparecchiate tra le zolle a festa, tracciarono la mappa d’un piano a buon mercato, ma che sembrava loro di prometter grosse entrate. Con un coltello arrugginito in pugno, intrappolando la cugina buona a nulla - così la giudi-cavano le tre balorde dell’oscura padella -, le presero di forza, bluffando in contro zampa, gli occhiali dance dal viso, poi la piuma e la favella. Detto in sordina, in pieno stil talpesco, gli occhiali dance li avrebbero indossati per stare in vista ed

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esibirsi nella tarantella, con la favella, invece, avrebbero ac-chiappato, cieche buffone, a caso qualche battuta bella. Invece della piuma non sapendo cosa farne, decisero di venderla a un mercante su al villaggio, o ad un economo, ad un collezio-nista, ad un qualsiasi qualunquista mercenario di passaggio. Si narra, invero, che per tutto maggio, tra i bassifondi lerci, quelli di periferia - ma pure il ventitré di tutti i mesi che per i perditempo sono da buttare via -, un ambulante mercatino era allestito per barattare oggetti incomprensibili e in disuso, in cambio di portate di sostanza, non per palati fini, certo, ma tali almeno da zittir la panza. Dunque, le talpe, ricordando all’improvviso che il mese tanto att eso era arrivato, sfregia-rono la cavalletta in viso e le rubarono il bottino sì pregiato. La cavalletta, derisa e depredata, non si piangeva addosso e non s’era manco arresa, poiché vedeva che l’arrugginito arne-se, la lama usata dalle arpie per dissacrarla, era in realtà un coltello a doppio taglio che, se da un lato minaccia ed avve-lena, dall’altro libera, pulisce e dona lena. Questo pensiero, unito al cuore e divenuto intenso, permise alla soubrette di riscattarsi e andare: a muso duro si ripulì le scarpe, senza vol-tarsi indietro, senza odiare e uscì guardando avanti stretta al suo ideale. Ella sentiva dentro sé, con dispiacere irrazionale, che le ignoranti arpie, le tre meschine talpe, sarebbero nel tempo state ripagate, ladre avare, dei loro affari abbietti ed in misura ai loschi atti.

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Senza badare più alle formalità e al disagio, la cavalletta jazz, sul finire del suo viaggio, si ritrovò nel mezzo di un asperri-mo paesaggio: aperto, montagnoso ed innevato, bianche le vette che la guardavano dall’alto e che le suggerivano, in si-lenzio, d’attendere, tra lamine di freddo, l’incontro col bestio-ne ormai alle porte. E nonostante fosse stracca e indebolita dalle difficoltà del lungo andare e insonnolita, e benché la perdita raccapricciante (in apparenza), d’ogni rigore spazio-temporale avesse ormai quasi del tutto vinto su di lei, la no-stra cavalletta era riuscita a entrare nella tana più invernale. Di lì a poco, infatti, la soubrette febbricitante sentì l’eco d’un verso discordante , poi vide avvicinarsi, quatta quatta, l’om-brosità spettrale d’un leone e capì d’un fiato, tremando tut-ta quanta, d’essere ormai arrivata a conclusione: era là dove aveva disperato con tutte le sue forze ma non solo, qualche altra forza l’aveva accompagnata, straniera, buona, oscura, ancora non sapeva. Comunque sia, l’atteso attimo fug-gente - come qualcuno l’ebbe certo già a chiamare, ma riferendo-si probabilmente a un attimo d’eterno amore risplendente -, veniva a lei, o per dir meglio, era arrivato, sorretto con ogni probabilità, ma senza calcolo o controllo razionale, più da un volere assurdo che da un agir del caso o d’un caotico a ca-saccio andare. E proprio per assurdo, in men che non si dica, la nostra cavalletta amica si ritrovò faccia a faccione col suo

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temibile avversario inferocito, lo scorpiotauro fauci di leone. Messa alle strette, la semplice soubrette, calzò di lena lo scu-do Borsalino sulla testa, brandì con gesto ar dente la canna di combattimento e “Fooooul!” gridando con vocion baritona-le - suono che non le parve certo suo ma che comunque, in quel frangente, le fece comodo trovarsi nel non bucato cavo strumentale -, destò un immediato ed improbabile stupore nel drago labirintico e agguerrito, stupore che tra l’altro non tardò innanzi a cessa-re, per diventar prima terrore e dopo ancora, fatto strano, soccombente mansuetudine d’umore. A farla breve, la cavalletta rompi-ghiaccio, in un sol gesto e con un sol trombone, era riuscita ad atterrare in quel di maggio la fiera chiusa dentro al più gelido cuore. Inoltre, fatto que-sto clamoroso, quel suono ridestò improvvisamente tutti gli insetti addormentati tra le ombre della prigione oscura e de-primente. Così che, dietro alla soubrette incanutita, correndo tutti via da quelle lande, uniti in grande cerchio poiché s’era-no salvati, gli insetti alti nell’aria cominciarono a inneggiare. Finito il rito, per salutarsi e andare, tra calde lacrime d’onesta vocazione, la cavalletta, gorgheggiando canterina, ringraziò tutti del buon cuore offerto prima.

Giunta che fu, dunque, senza troppi intralci a casa, però sor-presa sempre da orizzonti e verticali, tra gli alti e i bassi esi-stenzial vitali, comprese d’improvviso e manifesta commo-

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zione, il senso e l’importanza di un’autentica emozione. Ed ora concludendo, senza spiegarci inutilmente il come, la sou-brette di varietà fece una pausa, non di trucco, grazie a Dio, bensì d’attrice - così come del nostro servente agir si dice -, poi in un sorriso nuovo naufragò e, nella bora di una fusion silenziosa, con infinita tene-rezza, entrò.

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La Bussoladi Lajla Pagini

Non m’incanteranno le sirene,con le loro vane voci

di fetide lusinghe celatedal miele dell’armonia.

Non ascolterò l’occulto cantoche invita l’anima a partire

per isole improbabilie vuote sponde come metadell’approdo. Nel viaggio,

mi guiderà questa canzone,antica nenia custodita

nel mistero della mia sorgente.Arcana sapienza giunta

da lontano, eredità del sangue,figlia di fatiche millenarie.

E non avrò paura delle onde,o di un improvviso vento

capriccioso. Guiderò il mio legno

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con fiducia, guidata da unabussola segreta, solo mia.

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Aria di Stradadi Marco de Maria

La dolcezza è morta,è sulla strada col pollice alzato,ma non attraversa gli incroci.C’è un alcolico odorealle labbra di chi chiede:“chi esce? Quando esce?”e più libido e calorealle labbra di chi chiede:“chi entra?”Le dormienti sulle stradesi smembranonei loro corpi:il petto, le cosce,i capelli, la gola,l’anima, la voce.La tristezza è morta,è sulla strada con l’indice teso,ma non va oltre la pelle.È mortasu queste stradedove non si incontrano occhi

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d’acqua o di ghiaccio,di vento o di neve.Forse che dietro il freddo dei seniun cuore non batte?O batte appena più lento,impercettibile,dietro quegli occhid’acqua o di ghiaccio,di vento o di neve?La ragione è morta,è sulla strada con la mano tesa,ma non va oltre gli incroci.E ci ha portati alla follia,per mano,ci ha portati, ma lei non c’era,era l’illusione,il suo sentimento.Dove la strada aprele coscenon si può entrareal centroe la ragione lì è morta,è sulla strada col medio alzato,ci guarda,ma non va oltre gli incroci.

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Canto Dell’Uccello Smarritodi Matilde Esposito

Sono spumad’un abisso a tinte chiare.Scure vene con le alimi sorreggono.Cerco forteuna traiettoria.Seguo solo il cantoche conosco da quandomi hanno soffiato insieme a Zefirolontano.Sono soloin questa quiete disperata.Perdo notizieinnocenzemilitanzeamicizie.Oltrepasso fili d’ombraindicanti nuovi nidi.Ma mi sono perso.Ruoto nell’assenzanell’evanescenzache scoppia tra gli uomini.Ora non so prender possesso

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del volo.Pesco le spintee sono trasportod’infanzie.Laggiù ci sono le donneche mi cinguettano in sonno.Laggiù ci sono le donneche adorano pettinari loro figli.Ma se torno a terranon vedrò le attese.Trovo nascosto un varcopronto a portarmi apertoalla mia destinazione.Desiderio di un risvegliolimpido australe morbidodi veder le luci carelampeggiarmi e farmi strada.

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Il Cuore e La ruotadi Gianluigi Maira Masucci

Fu così che agì richiamando l’istinto, per riuscire a non pensare troppo.A non temeredi essere invadentea disperdersi nel pensierodi non essere ancora pronto.

Con lo stesso piglio degli uccelli quando migrano.

Si diresse lì.Esitòma solo per pochi istanti. Conosceva bene la strada.

Non sapeva se da lì in alto-dove sempreaveva riservato

dentro

un posto speciale-poteva sentire o vedere.

Lì la luce non si era mai spenta.

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Diede fiato al motivouno di quelli che illuminavanoi suoi giornidi un mondo immaginato in cui crederespesso da soloo in compagnia dell’impressione fugaceche anche lissù qualcosa stava fermentandonello stesso momento.

Poi diede forza ai pedali.

Quando un mondo interovive e cresce in maggioranza per forza di sogno che di nitida sen-sazioneè sempre difficile avvicinarlo al concreto.Renderlo azione.Nel portare alla luce della realtàun sentimento profondonutrito dal sognosi è accompagnati da un terrificantesenso di rischio, pericolo.

Come un parto.

Continuò ad agire senza pensare troppo.

L’aria si addensava sempre di più tra i palazzi

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la piazzetta era estiva, silenziosa e calda.Quello che sentivaa starelìera un senso di completezza in espansioneche si irradiavaconcentricamentedal punto mediodi un filo invisibileverso il mondoa scovare la bellezza nelle coseun po come fa la luce del tardo pomeriggio.Diffonde, schiarisce, accarezza.E tutto ti entradolcedentroagli occhi.

Sentiva il filo invisibile.Quel filo non l’aveva mai abbandonato.Sentiva di stare risuonandocon tutto ciò che stava all’altro capo del filo.il battito cardiaco aumentava la sua frequenza.Era la voce del parto.Pulsava forte

tanta vita.

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tanta vitaattraversava i canali,si districava tra gli altri organisi espandeva tra i filamentifino a giungere agli arti.

Le spalle - le braccia - le manie quindiil manubrio a dettare la direzione.

Il bacino - le gambe - i piedi e i pedalifino agli ingranaggila forza che decideva il movimento e scandiva la velocità.Il cuore si distendeva nelle ruote per mezzo del corpo.

Il cuore e la ruota.Una storia antica quanto il genere umano...

...Finalmente era lui a decidere.La mente si limitava a parteciparea realizzare tecnicamente il suo volere.

Se c’è un momento in cui l’essere umano può ritenersiprofondamente vivoè proprio quando riesce a far convivere nella sua esistenzacontemporaneamenteil sogno e la realtà.La maggior parte delle esistenze

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sopprimono i sogni, smettono di crederedi curarne la piantaper affidarsi totalmentealle mani rassicurantidella realtà.Che poi finiscono puntualmente per strozzarle.Altre rimangono confinate nei sognisenza volertrovare la strada e il coraggioper affrontare il parto al mondo concretoda cui si allontanano sempre piùsolefino a regredireallo stato aeriforme.

In quel momento sentiva chiaramente di stare esistendo.Tutto era lì con lui.

Non sapeva se da lassù poteva sentirlo o vederlo

e diede più fiato al suo motivoche bene mimavail nomedentro ad un fischio greve.

Voleva che sapesse della sua presenza.Un atto poco eclatantema immensamente vivo

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e spontaneamente vero

Ci sono delle immaginimai svanitemomenti nei quali la vita ha lasciatoesploderela sua bellezzadentro a un visoun’espressione invincibile, indicibilenel tremore delle maniessere insieme.Cambiando le esistenze.E senza poterle mai più lasciare.Non si rimpiazzano.Ti trovano e ti troverannoovunque tu vada.Quella bellezza era ancora lì.E lui ci stava pedalando dentroportandosi dietro tonnellate di storia,gioie e dolorisilenziosie pensiero di...

Non sapeva

e suonò più forte la campana.

All’improvviso

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mentre il cuore continuavadentro le due ruotea sperimentare il sogno nella vita realesu di una traiettoria precisae veraquanto un binario per le rotaie d’un treno in corsa

avvertì una risposta...non riuscì a capire se fossestata l’immaginazione a inventarla o qulacun’altronei paraggi

-era cosciente che in ambedue i casiin quel momentoluistava cambiando -

fu sorpresoe di nuovol’intera vita in un attimofu un sorriso

tutto era lì:

un fischio col proprio nome dentro

quel fischio di rispostacorrispondeva al mondo realecome il suo cuore

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corrispondevaalla preghierache la traiettoria delle ruote stava salmodiando sul suolo della piazzetta da chissà quanto tempo:la Lemniscata, il simbolo dell’infinito. (∞)

Capì che doveva andarsene.

Sulla cittàIl motivo stava al mondo reale come il cuore stava alla Lemnisca-ta.

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Odore Di Asflato E Di Benzinadi Michele Piacenza

La notte mi ha chiamato e ora sono quiA correre senza sapere il perchéUn autostrada che sembra un rasoioUna tattica che non conosco per nienteLegato per sicurezza al mio nodo scorsoioMentre qualcuno scrive sopra i muriVivo come vivo ma di certo non mi annoio.

Sono sicuro che stai cercando una nuova torturaE so che tra poco lo scopriròOcchi chiusi e mani in tasca sino a seraFilosofie contorte che evaporano all’istanteNiente musei o cene al lume di candelaL’uomo sulla luna che mi guarda preoccupatoE tu, come Eva, che mi offri sorridendo la tua mela.

E le luci scorrono e poi scompaiono nel nullaUna febbre che non mi lascia, una sciocchezzaUna macchina impazzita per una recita specialeCome i colori del circo, l’affitto da pagareDue idee storte, un whisky e un po’ d’adrenalinaUn passaggio obbligato, una gita al lago

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Nessuna profumo, solo odore di asfalto e di benzina.

Tra poco la tua scimmietta sarà in gabbiaE il gioco ricomincia tra la cucina ed il lettoImmagini allo specchio e un cielo increspatoUna tazza di Ginseng e un segreto da scoprireAromi cattivi d’ortica e di erba cipollinaOcchi neri che ridono alle mie spalleUn pensiero per ogni stella che ritrovo la mattina.

Ho con me un’armonica che non ti conosceCalendari di vent’anni e una partita a scacchiTraguardi alla finestra di un poeta scombinatoSchiamazzi lungo questa strada misteriosaUn gufo che scuote la testa, un’ombra che s’avvicinaUna nuvola che piange e mi porta viaUn angelo che aspetta sulla tua lavatrice in cantina.

La notte mi ha chiamato e ora sono quiA guardare la tua sala come fosse un santuarioUna stampa di tuo nonno ed un vecchio mappamondoUn fantasma che passeggia tra la radio e un barbecueE ora vieni a salutarmi, il primo nome in agendinaMentre il buio gioca al lotto senza rischi e senza fineE il vento che ci porta ancora odore di asfalto e di benzina.

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Otto Gessidi Fabrizio Eracle Dartizio

Gesso numero unoLa voce:

“Gli occhi friggono da dentro e sudano la fronte, come vele di carne, la gente naviga.”

Gesso numero dueForma mentis:

Il mio cervello è cresciuto in mezzo ai campi, fra i paninari lun-go le provinciali, nei boschi chimici delle zone industriali, con le nike in terza media e i capelli cementati nel gel azzurro da 10 euro al kilo. Il mio cervello s’è fatto grasso in un corpo molliccio e poco atletico, carico di paranoie adolescenziali. Ora ha ven-titré anni ed è bello, mi piace, pieno di grovigli, sono incroci di città disegnati dal divorzio di un urbanista ubriaco con due figli a carico, maschio e femmina ammattiti che litigano sempre.Il mio cervello non si è mai presentato e non stringe la mano, è nato ch’era muto e quando ha iniziato a parlarmi non ave-va nome, significato, identità. Mi è caduto in testa dal cie-lo, in uno schianto di gioia. Per tutto, ho dovuto pensarci.

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Gesso numero treLa crepa:

Mia madre ieri piangeva, ad ogni parola piangeva o le ve-niva da piangere, strozzava le lacrime nelle guance gonfie per il cortisone. Fra un letto d’ospedale e un divano rosso da soggiorno, stava seduta a bordo della sua sedia a rotelle. In vent’anni non le ho mai visto parcheggiare una macchina, su due ruote se la cava meglio. Frenate, curve, retro in cucina. Ieri piangeva, stringendo forte i pugni nell’umido degli occhi verdi. Sono contento, è insopportabile vedere un malato di cancro con più gioia di vivere degli altri.Mentre se la prendeva con la sua ragione rincoglionita dai farmaci e mi guardava soffocando negli occhi gonfi le lacri-me verdi, stavo guardando la donna più forte del mondo e m’è sembrata umana, non un miracolo. Nessuna esclusiva, tutti abbiamo una crepa in testa.

Gesso numero quattroI comandi:

Mi sveglio, mi sono detto a Modena ci vado in bici.Ho seguito l’Adda scorrere fino a Cassano, poi Treviglio, a Caravaggio mi tuffo nell’oro del grano-turco e mi perdo.Spadino a ruota un trattore, alla guida un vecchio, con le rughe

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vive m’ha detto: “Se fai questa stradina arrivi fino a Crema”.Alla stazione di Crema conosco un negro, mi dice bellabici, gli rispondo bellapelle. Ci stringiamo la mano, racconta del Senegal e di Rimini “Sto andando al mare senza biglietto”, m’innamoro come un fulmine della libertà dei poveri. Crema è bella, una perla e Cremona una perla più grande. Refrigerio ad una fontanella, due parole con uno spazzino, gli chiedo come mai ci siano così tanti artigiani liutai, lui colma la mia ignoranza su Antonio Stradivari in una lezione da chi spazza l’inciviltà da terra. Compro un violino di legno calamitato con su scritto Cremona in smalto nero, costa 5, ma dietro al banchetto c’è una signora, le racconto del grano e del trattore, lei ride e ne pago solo 3. Se la felicità sta nelle piccole cose, a furia di voler fare le cose in grande finisci col diventare una persona triste. Alla stazione di Cremona c’è folla intorno a un pullman bianco gigante, lampeggia “sostituivo Fidenza”. Colgo l’affare e mi lamento anche io come un italiano sotto al sole. Carico la bici, non pago niente e arrivo a destinazione. Scenso dalla latta, l’autista interrogato mi risponde “Parma? Parma sempre diritto su quella strada li in fondo a sinistra della pizzeria che vedi li in fondo, li in fondo a sinistra”. Pen-so infondo è un autista e l’italiano non gli serve. Per 20 km respiro camion poi mi ritrovo all’imbocco della tangenziale, maledetto autista. Prima uscita San Pancrazio, svolto, fanta-stico su come sarebbe il paese dei punk e arrivo a Parma. An-

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che Parma è bella, non mi ha convinto la casa della musica, nessuna melodia nell’aria, solo marocchini annoiati sdraiati sul prato e sul cemento.Attraverso un ponte, entro in un parco, sfido a morra cinese un bimbo per bere alla fontana, vinco io ma lo faccio bere per primo.Poi Reggio Emilia, Modena, una casa, un souvenir in dono da Cremona e come un animale una grande scopata.Tra il pensiero e l’azione io ci metto il caso.

Gesso numero cinque Il segreto:

D’estate andavo al mare, ad Agosto, era Luglio. Festeggiavo il compleanno con mio nonno, non con i miei amici. Quando mio nonno morì non provai dolore. Mio fratello disse, biso-gna essere forti.Io non capivo per cosa, io non capivo la morte, io non ne ave-vo coscienza. Lessi un fumetto, il protagonista era Archime-de Pitagorico, uno fra i personaggi minori di Topolino. Ho impressa la vignetta in cui lui aveva il becco mezzo aperto e il dito puntato al cielo, come gridasse eureka. Lo sfondo era nero. Mio nonno era morto e io ero in una vignetta di un fu-metto, non esistevo al mondo. Ho dei problemi a gestire gli stati emotivi, il mio cervello non funziona così razionalmen-te. Si lascia scuotere da lampi di luce e catene di lontananza.

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A tratti smetto di esistere. Il mio cervello ha delle stranezze, dei nodi tutti suoi, dei diamanti incastonati come fuoco nel catrame di un vulcano in subbuglio. Il mio cervello sono io e vorrei non esistesse per un po’, cieco e muto a comando, pri-vo di sensi.Una mia cara amica si chiamava Chiara ed era bionda, suo-nava la chitarra. Chiara mi riconosceva senza che parlassi, senza che facessi niente, era cieca e diceva “Fabio!”. Quello ero io, l’unico Fabio sincero che abbia mai conosciuto. Do-vremmo spegnere l’abat jour e vivere alimentati nell’immo-bilità del buio, in sarcofagi di cotone a fare l’amore come una macchia rosa in divenire.

Gesso numero seiL’amore:

Della mia ex ragazza mi è rimasta una tariffa telefonica. L’a-more esiste nel cervello non nel cuore, milita come un sol-dato di ragionamenti in trincea, fra cappotti rosa, colpi di sole, apparecchi ai denti, eiaculazioni precoci, orgasmi tita-nici, viaggi in pullman, sedici ore e sei in Calabria, due ore sei a Bardolino, con l’aereo vado in Spagna. Mi piacciono gli elenchi, l’amore nel cervello è un elenco, non una storia, è un listato di emozioni, punto dopo punto, anche sconnesse, invertite e non importa “c’era prima questo e poi quello”, nel

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cervello l’amore è confuso e viceversa.Il colpo di fulmine esiste, c’è chi ci è morto. Se persone sono state tanto sfortunate da calpestare un fulmine, allora io cre-do all’amore come un colpo. Succede, a me capita col cibo, colle donne mai. Sono miope, porto gli occhiali e se parlo a una donna sono troppo concentrato a pensare che non mi stiano male per innamorarmi.Quando mangio li tolgo: Pasqua 2013, Agnello al forno con le patate, fall in love.Capisci di essere innamorato quando la gioia si moltiplica e il dolore si divide, solo per due e nessun altro numero.Le tariffe non centrano niente.

Gesso numero setteLa patria:

Dimagrito, sventrato, salato, portato ai pazzi, fatto a pezzi, i ricchi mangiano, i poveri non esistono, vengono buttati sotto al letto, come la polvere pulita dai pigri.Il mio cervello è come il mio paese, ritagliato in stracci di carta sporchi, urlato con le braccia che gesticolano, ci sono i cani, i ladri, i porci, è una fattoria di bestie lorde. Tutti abbia-mo il pensiero che galleggia a fatica sull’aria viziata di quest’I-talia ruffiana e scostumata, vestita male, tronfia dei propri successi e vittima della gola d’una classe politica avida, che

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affama mentre guida macchine costose, stringendo mani a destra, stringendo mani a sinistra, stringendosi a cerchio in stanze gonfie d’arazzi a ballare la tarantella dei propri suc-cessi. Si salvi chi può e i politici si salvano sempre sboccian-do cadaveri sulle bottiglie di Roma. Cesare non deve morire, vanno tutti d’accordo, il buono non esiste e il cattivo è un prestanome dietro cui nascondersi. In questa patria secca il mio cervello con voce rammaricata mi dice: “Eracle, c’è da piangere quant’è bella Venezia, Roma e Firenze”.

Gesso numero ottoLa morale:

Sono sulla metro verde, oggi non puzza, erano anni che non salivo su uno di questi aggeggi. La tratta da Gessate parte esterna, poi i vagoni diventano una fila di tremors e si ficcano dritti nel budello interrato di sua maestà Milano.Alla Fermata Cassina De Pecchi sale un rapper alla moda, con le sneaker e le cuffie enormi, si siede sotto il suo cappel-lino. Penso che è dura la vita per un rapper di provincia, tutti a scrivere i muri dei palazzoni, a cantare le cronache ghetto delle metropoli e lui che al massimo puoi lamentarsi di un appartamento troppo piccolo nel mezzo dei campi di grano. Cernusco lombardone, non sale nessuno. Sulla tratta esterna c’è una fermata per ogni manipolo di case sparse qua e la in

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pianura, saranno nemmeno a un chilometro l’una dall’altra, come nei sulla pelle. A fianco al Rapper si è seduto qualcosa con i brufoli, il piumino nero, capello col ciuffo, liceo scienti-fico più biotecnologie, un tipo così insomma.Guardo fuori dal finestrino, vedo tutto blu, beati sono i wri-ters ma non mi sarebbe dispiaciuto capire dove mi trovo. Sbuffando si aprono le porte, fermata Cascina Gobba, è una stazione importante: due zingari e un marocchino a binario, che per quattro binari fa una popolazione di sedici senza Dio. L’importanza di una stazione la capisci non dal numero di treni che vi passano, ma da quanti senzatetto vi dormono.Che fischio, che urla! Arrivo a Loreto e scendo, che devo cam-biare linea, dal metallo verde al rosso, come i conti in Italia.Una giovane cilena mi passa davanti, mi osserva senza inte-resse, come si guarda qualcosa di strano. Passeggio lungo la banchina, incrocio una cosa alla moda, col pantalone stretto e le nike rosse, gioca a tenere l’ombrello in equilibrio sulla punta del piede cercando di attirare l’attenzione di una bion-da seduta alle sue spalle. Bella mossa amico, adesso ti lancia le sarde, come all’esibizione circense di una foca.La metro è arrivata, la foca sparisce, il biglietto mi gira fra le dita e salgo a bordo.C’è una milf bassa, uno e cinquanta al massimo, ottimo truc-co, sguardo da stronza, capelli rossi, culo sigillato in un jeans nero borchiato. Me la immagino a prendermelo in bocca qui

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davanti a tutti, nel mezzo del vagone, patta aperta, cazzo di fuori e con la mano a reggermi alle passantine metalliche, come in una versione porno dello spot “alto là al il sudore”. Ho studiato pubblicità per anni. Studiare pubblicità mi ha dato ai nervi, t’insegnano a dire non quello che pensi ma ciò che la gente vuole sentirsi dire, “t’imparano a parlare litaglia-no allincontrario”.Un barbone senza gambe mi passa davanti alle ginocchia, cammina su ciò che gli resta usando le braccia come fossero stampelle, chiede la carità con un rasoio elettrico al posto della voce, non riesco a dargli moneta, il suo dramma mi pa-ralizza e il sogno erotico con la milf è svanito in un lampo ad occhi chiusi. Se dovessi dare un euro ad ogni mendicante, finirei uno di loro, solo sulla verde gli abitudinari sono una decina. Dovrebbero arredarsi casa, mettendo un fornello per il vagone cucina, un materasso a terra per le camere da letto e una scrivania sul fondo del vagone: la zona ufficio per gestire il business dell’estorsione caritatevole.A bordo ne sale un altro, è un meeting, indossa una coppola sdrucita sul becco e una borsa a tracolla con dentro un cane arancione più curato di lui. M’immagino una vecchia impel-licciata che attacca volantini col nastro adesivo agli alberi del centro, ha smarrito il cane ed è disperata tanto si sente sola senza il suo pelo comandato a guinzaglio. Cara signora, Il cane pare stia bene, ha gli occhi neri, tondi e lucidi. Bisbiglio

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“lilli e il vagabondo” poi mi guardo attorno, c’è una dea pa-gana, indossa un cappellino nero con la visiera larga e tiene le mani smaltate sulla borsa griffata, 1200 euro poggiati alle ginocchia. Guarda rigida davanti, sotto gli sguardi dei lupi fedeli.Scendo, cambio metro e linea interrotta, servizio navetta fino Cimiano. Salendo le scale per uscire dalla stazione, in un’au-rea di grazia una modella macina i gradini di fretta sotto, sottovuoto nei leggins bianchi, le vedo tutto, il profilo netto della brasiliana e del pizzo. La modella sparisce come un mi-raggio e una zuppa italo nera nord coreana di gente affolla una pensilina, ci si lamenta tutti assieme.I dotti professori della mobilità urbana consigliano tragitti alternativi, chiamano a gran voce linee di tram, numeri di pullman, volendo signora può andare a piedi. Grazie mille di qui, grazie mille di la, grazie ‘sto cazzo. Come ogni italiano in crisi il dipendente pubblico pensa allo stipendio, alla pagnot-ta, al mutuo, all’affitto che affama. “Se non funziona qualcosa non me ne frega niente”. Leggo questo negli occhi di un fun-zionario ATM, stufo di dover rendere conto del suo lavoro ancora prima di aprir bocca. Arriva un giovane, con la rabbia che può avere solo un ventenne disoccupato sputa fuori dai denti una poesia: “Mannaggia a Cristo non si capisce un caz-zo di niente, mi si è rotto anche l’ombrello madonna ladra”. A Milano la primavera piove.

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Riesco finalmente a salire su una delle navette sostitutive alla metropolitana, gli italiani fanno gli italiani, spingono, qual-cuno urla. L’unico dipendente disposto a dare informazioni esaustive dentro di sé sta pregando: “Dio, se ci sei, portami in un altro paese, in un altro luogo. Lontano, calmo, sereno”. Io lo immagino al mare, con le palme, un cocco di pinja cola-da nella mano abbronzata, una moglie bellissima che luccica sotto al sole tropicale e un conto gonfio, gonfio come i seni di una massaia calabrese.Lezione numero uno: quando la metro è bloccata prima di capirne il motivo, pensa a come rientrare a casa.Lezione numero due: non siamo tutti uguali. Una generazio-ne di Gossip Girls e vecchie Beautiful starnazzano “cos’è suc-cesso?” “Ma dai no” “E’ una vergogna” “Cosa? Ancora!” “È il terzo in un mese!” “Non hanno niente di meglio da fare che ammazzarsi in metro?”. Pensiero: quando decidi di farla fini-ta non hai niente di meglio da fare se non morire.Un uomo stracciato sotto la metro, l’ennesimo strangolato da questa società cagna. Del suo suicidio mi più tristezza l’umo-rismo inutile dei passeggeri: “Ma non poteva buttarsi dal bal-cone? “. Tutti si sprecano a ridere. La migliore, con colto fre-mito di lampante genio: “Era un mitomane, voleva che tutti lo sapessero!”. Risate grasse riempiono il pullman stipato, noi a bordo come sardine in scatola.Una bionda settantenne tirata e truccata fa della morale sot-

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to al suo cerone, nel bordò di un foulard borghese. La sento nelle orecchie, come l’interferenza di un telefono: “Io sono felicissima della mia vita, ma se uno vuole morire, non deve rompere le scatole a noi, che beva un bicchiere di barolo e si butti dal balcone!” - “Glielo compra lei il barolo, signora?”, il pullman intero mi lancia gli occhi addosso, porto a V le dita sulle labbra e tiro fuori la lingua.Se un lupo perde la vita, il branco ulula alla luna.se un essere umano perde la vita, noi ce ne sbattiamo il cazzo.Scendo, piove, che a Milano la primavera piove.

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Viaggio Nell’Immaginariodi Angela Giordano

Nel mio continuo vagarenell’immaginario

il tempo è rimosso dalla mente,non scandisce più

ore, minuti, secondi...non v’è più il giorno

ne giunge poi la notte,è un continuo presente di luce.

Mi intrica l’estasi dei sensi,gli occhi si smarriscono

in orbite e spirali e prismadi mille colori riflessi,

le mani sfiorano petali di stellee bianche scie di via lattea,

s’ode il frastuono delle onde sugli scoglie mai silenzio è stato così profondo...

mi giungono profumi,inebrianti e sconosciutida un’isola che non esiste ma è qui.

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Ed il corpo emana fluididi richiamo verso il mondoda un pianeta nell’infinito

spalancando la bocca voraceper divorare

in un attimo la vita!

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G.R.urto354/xdi Luigi Pignalosa

Inizio trasmissione. Qui G.R.urto354/x . Trasferimento col-locazionale proceduto senza interferenze, terminato. Meta raggiunta con successo, attualmente sono al punto designa-to. Inizio missione seguendo procedura di inizializzazione ospite. Terminata scansione, l’organismo è sotto controllo. Dispongo di organi fisici basilari in un primo stadio di svi-luppo. Attivo procedura di analisi funzionale. Individuati organi autoreferenziali destinati al mantenimento e all’ac-crescimento della struttura stessa. Restanti organi appaiono destinati alla mobilità, riproduzione, percezione sensoriale. Il centro di controllo è situato nell’organo posto sulla som-mità della struttura. Attivo sensori ottici e uditivi. Intorno a me vedo delle pareti, due finestre, due individui adulti che entrano ed escono ripetutamente. Le appendici tattili e mo-bili del mio involucro sono ancora inefficienti. Vedo soggetti trafficare intorno all’involucro. La loro frequenza biologica è molto elevata e non mi consente di decodificare la loro attivi-tà. Attualmente i sensori registrano solo una rapidissima cir-colazione di individui intorno alla mia sede, principalmente sono sempre gli stessi individui a frequentare il mio sito ed a manipolare alcune funzioni del mio involucro. Ci sono an-

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che altri individui. Attivo rallentatore cronotopico per racco-gliere dati alla loro stessa frequenza.

In questo momento la femmina ha sollevato il mio involu-cro e sembra intenta a nutrirlo tramite un orifizio collegato all’impianto di trasformazione chimica dei materiali. Avvio procedura raccolta dati sensibili. Disattivo rallentatore e ana-lizzo i dati raccolti in due cicli del loro sole.

I meccanismi rilevati presentano un quadro contraddittorio. Disambiguando i dati conflittuali risulta una struttura socia-le parentale. I soggetti si riproducono tramite lo scambio di liquidi organici, non tramite meiosi. Vantaggi riproduttivi: alta trasformabilità genetica. Svantaggi: difficoltà di conser-vazione sintagmi genetici positivi. Il mio involucro ha impa-rato diverse nozioni ed ha effettuato una automatica reim-postazione della rete di collegamento dell’organo centrale di controllo. Nonostante la struttura parentale si mostri chiara-mente legata al concepimento ed al mantenimento, dai primi dati risulta chiaramente che gli stessi soggetti mettono in atto una complessa ritualità di atteggiamenti volti ad inibire le fa-coltà spontanee che il mio involucro dimostra di possedere. Spendono energie immense nella propria duplicazione ma hanno un incomprensibile bisogno di strutturare il nuovo organismo secondo i propri parametri. Gli strumenti indica-

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no che l’involucro ha raggiunto la mobilità autonoma. Ha an-che utilizzato come modulatore di segnali fonici l’orifizio che sembrava destinato all’introduzione di sostanze organiche. Risulta palese che la popolazione locale non utilizza le facoltà di trasmissione intercerebrale che appaiono potenzialmente presenti nella struttura cerebrale.

Attivo rallentatore cronotopico e inizio seconda esplorazio-ne. I sensori ottici sono diventati più efficaci, i sensori uditivi hanno una soglia di pochi decibel. Mi muovo in autonomia. Esco da un varco. Mi ritrovo in uno spazio aperto. Il loro sole sprigiona un energia notevole che attiva numerose reazioni chimiche quando entra a contatto con il tessuto di rivesti-mento del mio involucro. La popolazione sembra modulare. Ciascun nucleo parentale gestisce una porzione di spazio di superficie rivestendola con lamine di materiali leggeri, una miscela di ossido di calcio e ossido di silicio. La superficie circostante sembra completamente destinata all’alloggiamen-to di numerosi nuclei parentali. Ci sono anche strutture più complesse, composte come stratificazioni di nuclei. Atten-zione. La femmina-nutrice del mio involucro corre verso di me, inspiegabilmente invia un costrutto semantico formato da segni vocalici e gestuali che scatena nel mio involucro re-azioni chimiche immediate e turbolente. L’analizzatore con-ferma che si tratta di reazioni di paura, dolore e vergogna.

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La femmina nutrice-afferra uno degli arti dell’involucro. Sta utilizzando una quantità di energia eccessiva, ha provocato delle microlesioni nei tessuti interni dell’arto. La femmina trascina l’involucro nuovamente all’interno dello spazio. Di-sattivo rallentatore cronotopico per evitare di compromette-re la missione e lasciare che il mio involucro possa gestire la situazione tramite il suo sistema di decodifica.

L’analisi dei dati semantici raccolti dimostra che la reazio-ne della femmina è stata provocata dal suo considerare pe-ricoloso che il mio involucro si muovesse in autonomia in uno spazio esterno al modulo parentale. Domanda: esiste una relazione fra la quantità di cicli che l’organismo ha com-piuto e la possibilità di accedere a spazi esterni? Il calcolato-re conferma. Gli individui che hanno facoltà di liberamente accedere agli spazi esterni hanno un minimo di sette o otto cicli ma mediamente si attestano verso i trenta cicli. Per ul-teriori esplorazioni dovrò aspettare che il mio involucro ab-bia compiuto almeno una quindicina di cicli. Secondo i miei calcoli dovrebbe avvenire nell’arco di pochi Kelter. Intanto mi concentro sulla raccolta di ulteriori informazioni sul nu-cleo in cui mi trovo. Utilizzano principalmente una fonte di energia elementare, basata sulla circolazione degli elettroni in conduttori metallici e sulla formazione di campi magne-tici. Analizzando delle impressioni mnemoniche dell’involu-

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cro ho l’impressione che abbiano sviluppato una tecnologia di comunicazione basata su dei terminali in grado di codi-ficare e decodificare il linguaggio binario, anche se le loro procedure di codifica e decodifica risultano molto ingenue. Sono affascinato dal maschio. Ha dei comportamenti diversi dalla femmina, soprattutto nei confronti dell’involucro. Dalle impressioni mnemoniche raccolte sembrerebbe che ami tra-scorrere una notevole quantità di tempo (relativamente alla loro rapida attività biologica) davanti ai terminali di deco-difica dell’informazione. Ho anche individuato un secondo terminale univoco che sembra avere la specifica funzione di convogliare dati ai soggetti senza che ai soggetti siano richie-ste risposte. Trovo insolito questo terminale, potrà tornarci utile. Promemoria. Maggiori analisi nella prossima esplora-zione. Intanto gli strumenti mi confermano che sono trascor-si altri dodici cicli. Riattivo rallentatore cronotopico.

Il mio involucro si è incredibilmente sviluppato in dimensio-ni e potenzialità. Risulta in grado di pilotare un rudimenta-le mezzo propulsivo di superficie basato sulla diminuzione dell’attrito tramite ruote e l’utilizzo di energia tratta da una roz-za forma di combustione. Avvio una terza esplorazione auto-noma. Quando mi dirigo verso l’uscita del nucleo la femmina emette dei segnali vocalici. Il calcolatore mi informa che rap-presentano delle raccomandazioni per aumentare il grado di

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allerta dell’involucro. Evidentemente ci sono pericoli ancora sconosciuti. Pare riguardino la circolazione su quello strano mezzo di propulsione. Attivo funzione di risposta istintiva, l’involucro risponde con segnali vocalici che sembrano desti-nati a rassicurare la femmina. Esco. Tramite il mezzo compio una ricognizione di tutto il sistema abitativo e sociale. Il loro sistema sembra molto vasto. I dati raccolti fanno compren-dere che la società è organizzata in modo abbastanza unifor-me in tutti i nuclei che visito. Attivo la raccolta, la scansione e l’analisi dei dati vocalici che l’involucro può ricevere duran-te questa esplorazione. Mi infastidisce dover continuamente nutrire questo involucro, anche usando il massimo livello di rallentamento temporale mi sembra che debba nutrirsi ogni istante. Mentre il computatore raccoglie dati effettuo un con-trollo dello stato di efficienza dell’involucro. Gli strumenti mi comunicano che sono trascorsi sei cicli. L’involucro sembra in perfette condizioni, credo abbia raggiunto la fase di pie-na maturità strutturale, le proiezioni indicano che in breve inizierà la fase di degenerazione biologica. Torno nel nucleo per l’analisi dei dati. Non capisco bene. C’è qualcosa che non va. Quando la coppia parentale mi vede hanno delle reazioni incomprensibili. Attivo decodificatore sociopsicologico. Le reazioni sono dovute al fatto che secondo i loro parametri sociali è impossibile uscire dal nucleo e rimanere fuori per sei cicli solari. Evidentemente è stata prematura l’idea di uti-

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lizzare l’involucro in una esplorazione durata un tempo che, secondo i loro standard, è immenso. Disattivo il rallentatore cronotopico e lascio che il mio involucro si sbrighi la faccen-da da solo mentre analizzo i dati raccolti.

Il computatore ci mette un po’ ad analizzare la massa dei dati. L’analisi geografico materiale indica che la loro razza è diffusa su tutta la superficie del pianeta. Le prime analisi sociolo-giche dimostrano che si tratta di una società altamente tri-bale, organizzata intorno a soggetti-divinità che ottengono una capacità di agire eccezionalmente maggiore della restan-te massa. Il fattore determinate sembra essere la possibilità di manipolare una forma di credito, efficace per mezzo di un vettore psicologico che loro denominano ricchezza e che ottengono in larga parte depredandola ai loro simili. Tale ric-chezza risulta in origine formarsi tramite la misurazione del lavoro. Per tale misurazione utilizzano, nelle varie aree geo-grafiche, unità di misura chiamate monete. Aspetto insolito: tale misurazione, originariamente legata al tempo lavoro, è attualmente associata ad una valutazione del valore del la-voro stesso per cui alcuni lavori meritano una valutazione sproporzionatamente maggiore di altri. In ogni caso i sog-getti-divinità hanno accumulato una inconcepibile ricchezza utilizzando il lavoro degli altri. L’analizzatore strutturale mi conferma che l’analisi dei dati ha richiesto una cinquantina

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dei loro cicli. L’involucro sta rapidamente degenerando. At-tivare procedura di configurazione della scomposizione cro-mica per trasferimento di ritorno. Devo rapidamente abban-donare l’involucro, in pochi Kelter sarà inutilizzabile.

Sintesi rapporto viaggio: Terra, pianeta classe C, facilmen-te occupabile. Note. La conquista risulterà semplicissima ac-quisendo inizialmente una vasta porzione della loro forma di credito ed in un secondo momento utilizzando il terminale di comunicazione univoca per facilitare la fase finale di ster-minio mirato dei soggetti meno disposti a comprendere la nostra superiorità.

Fine trasmissione.

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Entropia Dei Sensidi Ivan Rusciano

“Ho sognato la mia genesi” Dylan Thomas

L’impossibilità di sentire lo spazio, di toccarlo o esserne toc-cato,esservi immerso, nessun corpo per provarne il peso,nessuna mente per ponderare o delirare,nè aria nè sapore nè colore nè rumore.

Ogni forma è risucchiata dalla sua stessa immagine riflessa,sorge già morta o viva e avvizzisce in un tempo mai reale,non c’è durata, nè simultaneità, nè le stesse parole usateper descriverle.

Non è che tutto taccia, ma tutto parla in egual modo,segnando un silenzio chiassoso che non ha fine,non c’è tempo per la diversità, tutto è solo indistinzione.

E che cosa mai potrebbe essere una fine?Quella stessa indistinzione che si auto-fagocita ad ogni istanteè una cecità larvale che squarcia la propria crisalide per de-

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fecarneun feticcio putrido, il proprio ventre esposto.

Una cecità in cui nessun occhio può schiudersi,nessuna palpebra nè ciglia nè iride nè pupilla,eppure la vita vi è disciolta e sparsa,non c’è un centro.

Questo mondo buio sovrasta le singole sensazioni,ha la capacità di dislocare i punti e le posizioni fisse,in questo mondo le vene scorrono nel sangue,la terra affonda nelle radici, l’io è altro da sè stesso.

In questo mondo sei sopraffatto, precipiti nei tuoi occhiaperti sulla schiena divenuti sabbie mobili, senti quello che vedie vedi quello che senti, la lingua diventa uno sfintere che prude,un icore lacustre si espande dalle ossa che sono ormai semi di agave,i muscoli sono polline fecondo, hai la gola piena di acido perchè respiri con la vescica.

Eppure sei conscio dell’incoscienza,è un coma in cui sai di essere una spora puntiforme

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starnutita da un gibbone malato che sta leccando il tuo culotempestato di diamanti.

Sai che l’ordine in cui ti vedi di solito è solo arbitrario,sai che quella perfezione è parte di una imperfezione per-versa,frutto di incongrue coincidenze che ti lacerano.

Sei conscio di una coscienza che è come l’acqua, si posasulle rocce e vi lascia piccole invisibili gocce ogni volta,sei una medusa fatta di materia cerebrale sottile che coni propri tentacoli filamentosi cerca di urticare il denso buio,attaccandovi tracce di velenose particelle strappandole dalle viscideestremità carnose.

Ma non sei realmente qualcosa, sei come brina sulle palle di un coguaro,una volta che si sarà mosso si scrollerà di dosso quel ghiac-cio e tu sarai pregnodella minchia felina la quale gentilmente ti portò con sè.

Non sei qualcosa nel modo in cui potresti essere qualunque cosa,il tuo io si aliena da sè stesso di continuo mentre sei,

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percepisci una forma senza i suoi perimetri, senza punti fis-si e direzioni.

Non puoi muoverti senza direzioni, e lo spazio non è un in-torno,perchè non potresti mai raggiungere uno spazio con delle direzioni,sarebbe sempre un passo avanti, questo spazio tu lo riempi solo,anzi lo crei come un bozzolo che non può richiudersi su sè stesso,poichè non può indirizzare la propria volontà in nessun luogo.

Non è un vero spazio, non vi è differenza concepibile tra concavo e convesso,l’interno viene strappato via dagli oggetti e si posa sull’ester-no,ma da qualunque prospettiva si osservi c’è solo una bruma neurale sospesa.

Non è una vera osservazione, non puoi vedere nel modo in cui un uomopuò anatomicamente farlo, non c’è profondità di campo e larghezza

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e lunghezza, non ci sono lati su cui appoggiarsi, dietro e avanti sono uguali, il tuo umore vitreosi piscia da solo sul tuo bulbo, la retina ti cresce sulla pelle, come una muffa fungiforme,un’escrescenza che non si solleva nè implode, non che tu ab-bia veramente la pelle,sono atomi epidermici di intestini villosi, e un paio di ragni tendono il tuo nervo ottico.

I profili delle forme si delineano solo scontrandosi,il loro aspetto è proporzionale allo scontro, come la schiuma delle onde.Pian piano impari a sentire i colori, le frequenze del rosso, del giallo e del blu,l’orientamento di ogni molecola, la sfumatura che viene cau-sata dalla mortedi alcune di esse, le senti sui contorni di un altro colore come corpi di battaglia ammassati,allora realizzi che le differenze tra i colori sono dettate da quelle urla sorde di molecole decedute,impari a riconoscere ogni grido di contrizione, durata, acu-tezza, gravità, ogni peculiarità.

Ti abitui a questa condizione vitale, comprendi, anche se non hai senno e localizzazione

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che quando guardavi un colore usavi solo la vista e non rea-lizzavi che quando quelle molecoleentravano nel tuo campo esistenziale stavano pervadendo tutti i tuoi sensi, ma a te non serviva saperlo,sceglievi di essere ignaro. E’ probabile che il colore stesso abbia compreso questa cosa per te.

Deliberatamente impedivi a quel fascio di esistenza color pervinca di assaporarti,non sei/sono mai realmente stato addormentato ed ora non sei/sono realmente sveglioforse solo la fantasmatica proiezione di un Io lontano anni lucestai/sto ancora vivendo le sue sensazioni in un torpore me-tallico di rame...un rossore lucente e vermiglio che mi/ti intrappola....uomo-ingranaggio,sei/sono ruggine celeste di un astro decaduto,grattugiato via dalla superficie della tua/mia stessa bucherel-lata esistenza....forfora mnemonica a granelli....materia cerebrale colante neuroni a pezzi....e nel nero puntinato di strane creature divento/diventi una sincope irregolare, un ritmo deformanteche sottintende alla trama stessa della natura.....e lì vedi/

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vedo quei piccoli nodi di lana aggrumarsi liquidamente in quella sottile tessitura....Cazzo succede a questo domino di sensazioni mesmeri-che.....è come se mi/ti avessero sparato un globo di luce gialla dura, fino in fondo al cervello....

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Passeggiando Leggerodi Sharon Samà

Passeggiando leggero, tra le nuvole,appoggio il bastone a ritmo di passo,giro il bastone a 360 gradi, a ritmo di polso,mi faccio spingere dal vento, a ritmo di corrente.Non si riesce più a pensare a niente,sulla terra ti senti nient’altro che demente,per cui si preferisce sollevarsi....leggeri, con la mente e lo spirito,immaginando, leggeri, di spostarsi anche con il corpo.Passeggiando leggero, tra le foglie,salto tra una più ingiallita e l’altra più verde, a ritmo di ven-to.Ci si lascia soffiare, come si fosse come loro,senza volontà di scegliere la propria strada.Ci si lascia spostare, come si fosse come loro,incapaci di prendere posizione e di imporre la propria vo-lontà.Ci si lascia cadere, come loro,quando muoiono in autunno,con l’ultimo sospiro prima di toccare terrae ci si rende conto che in cielo non eravamo mai stati,

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ma che stavamo solopasseggiando, leggeri, con la mente.

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Disastronautao storia di un periplo disastroso nel bel mezzo del vuoto del nulla

di Armando Liccardo

“Mentre l’essere si disgregacome il mar tutto d’un pezzo.”

Antonin Artaud

Se è possibile trovarsi a galleggiare, senza sapere neanche quando si è entrati in acqua, portati dalla corrente verso un chissà dove senza approdo, con indosso nulla oltre che il pro-prio corpo per metà sommerso da un movimento ondoso poco percettibile ed il volto abbrustolito dal sole, allora è an-che possibile che ad un certo imprecisato momento, per un qualche fenomeno magnetico di inversione dell’orizzonte, i polmoni si sono riempiti di sale rendendo alquanto arduo ogni tentativo di respirare con efficacia. Ed è anche possibi-le accorgersi, solo nel mentre di questo dramma marino, di non avere le braccia, di non avere le gambe e di essere quin-di totalmente impossibilitati a ritornare pancia all’aria con il cielo riflesso negli occhi. Si direbbe una situazione inverosi-

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mile, che diverrebbe davvero grottesca se nell’affondare ci si rendesse conto che nella rifrazione del proprio sguardo, tra le scheggie lumescenti di una superficie sempre più lontana, un tronco marcio, che altro non è che quel corpo a cui ci si credeva attaccati, se ne cade verso l’abisso seguendo una tra-iettoria propria.

“L’Orrore, l’orrore”, gridò in un bagno di sudore, quando il vuoto si empì e diventò pesante portandolo con se nel buio pesto di un pozzo scontornato.

Si dice, che una discesa di tal genere, in un fluido denso che sprofonda strato su strato verso l’anossia e la cecità, sia di una lentezza tale che il tempo stesso s’addormenti senza ac-corgersi di passare. Lo spazio percorso dalla bolla in caduta, diminuisce, è vero, ma si fraziona quasi fino all’infinito, ap-prossimandosi al fondo solo un istante prima, un istante na-scosto dalla torbidezza di una profondità non calcolabile. Se possibile, la geometria di un tale spostamento è resa ancora più disarticolata dalle percezioni distorte dei sensi frantuma-ti, colpiti da correnti fredde e calde che sfuggono ai teoremi.

“Quelle sono le perle che furono i suoi occhi”. Si strizzò gli occhi così forte da farne gocciolare gli iridi fino alla bocca.

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Si rimane senza parole, soprattutto quando la luce s’attarda e si perdono i colori. Si rimane muti, con la lingua inclinata e la gola stretta. L’immagine senza voce, senza colori, diviene la notte con i suoi movimenti nascosti. La pupilla si dilata ai contrasti e agli spettri invisibili che fuggono ed entrano l’orlo diverso di una visione da pesce.

“Il suo cervello lascia passare un sol pensiero formato a metà”, biascicò mentre una fitta emicranica gli graffiava la testa.

La flemma dell’inabissamento si comprime alle tempie con una pressione insistente contorcendo i vasi sanguigni in pie-ghe dalle ombre nette che lobotomizzano ogni forma di re-azione. Si tratta di una pulsazione assordante che distoglie l’attenzione e sposta il fuoco di ogni attività su un piano sa-turo di sfocature. E allora del tentativo di una risalita non ne rimane che il tratto interrotto della mano alzata a metà, poi più niente: un gesto cancellato dalla sua incompletezza.

... pagine mancanti ...

Quando ricordò di essersi fatto a pezzi e di essersi buttato, pezzo per pezzo, giù dal salto lasciando per ultima la mano, sorrise perchè sapeva che quel viaggio non avrebbe potuto farlo tutto d’un pezzo.

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Ci Scusiamo Per Lo Spiacevole Inconvenientedi Nicolò Targhetta

Tum-tum. Tum-tum. Fa il treno.Non lo fa davvero. Ci sono delle casse, piazzate in ogni car-rozza, che simulano il rumore del treno. Rassicura.Non ci sono rotaie, non ci sono traversine. Non ci sono bi-nari dove fare tum-tum.Non è neppure un treno.Heule guarda fuori dal finestrino e vede il cielo stellato. Il cielo stellato sotto di me, pensa.Prova a spegnere una costellazione lontana premendoci il dito sopra. Si annoia.I viaggi più lunghi tirano fuori i pensieri più brutti.Si sono lasciati alle spalle Eiris e Nix. Nix, notte. Senza trac-cia di ironia hanno iniziato a servire la colazione quando, dietro l’angolo (se di angoli si può parlare) è spuntato il di-sco rosso di Centauri B.Vorrebbe dormire, ma i finestrini schermati, dopo l’ultimo sole superato in fretta, emettono un riverbero arancione che gli sega le palpebre andando a disturbare la pupilla.

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Una voce cordiale: «Prossima fermata Cibern otto, prima luna di Haedran (Centauri B)» «Next stop Cibern eight, first moon of Haedran (Centauri B)» La porta viene tirata.Lui si volta illuminato solo per scherzo dallo spazio profon-do.Lei lo guarda: «Ferma a Paranal?»Lui la guarda. E non dice niente.«Paranal? Proxima?» insiste lei con un sorriso.Lui sorride. E non dice niente.«Allora?»Lui sorride. Per la terza volta. Qualcuno, nel suo cervello, attiva l’allarme generale. Dopo un tempo irrimediabilmente imbarazzante, riesce a spremere fuori un cenno di assenso.Lei lo ricambia alzando di nuovo le labbra e tirando un tea-trale sospiro di sollievo. Trascina dentro un sacco di valige.A fatica le issa, una per una, sul portapacchi. Lui non muove un muscolo. È incantato.La studia sedersi tirando il fiato, estrarre un tascabile e co-minciare a leggere. Ne osserva il profilo, i tratti delicati, i capelli che viaggiano impazziti da un capo all’altro dello spettro dei colori. Gli occhi luminosi piantati sulle pagine del libro che scorrono da sinistra a destra e ritorno. Le lab-bra che mordono parole mute.Heule non lo sa. Ma dietro di lui, ad una decina di migliaia di anni luce di distanza, una stella sta esplodendo.

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Heule non lo sa. Ma dentro di lui, a qualche centimetro sot-to il cuore e sopra l’intestino un’altra stella sta esplodendo.Voce cordiale «Avvisiamo i passeggeri che a breve entrere-mo in una tempesta di neutrini. Le scariche elettromagneti-che potrebbero generare forti scompensi fra gli emisferi dei vostri cervelli costringendovi in un attimo di pura e lucida sincerità. Ci scusiamo per lo spiacevole inconveniente» Lei alza lo sguardo, in cerca di una faccia da associare a quella voce. Poi arriva la tempesta. Il “treno” barcolla. Il tum-tum registrato si smorza fino a diventare un fruscio indistingui-bile. Lo spazio fuori diventa blu acceso e poi rosso, poi aran-cione e poi blu di nuovo.Heule guarda fuori.Lei guarda fuori.«Ti amo» dice Heule. Poi si blocca. Impietrito.Il cosmo si ferma a ridacchiare.Lei sgrana gli occhi.Lui non la fa neppure cominciare«Ti amo da quando sei entrata. Ti amo e ti amerò sempre. Sembrerebbe una bugia dirti che non ho pensato di fare ses-so con te appena ti ho vista. Ma è una bugia. Io ho pensato di fare l’amore. Un amore lercio e vietato in almeno cinque sistemi solari. Ma amore. E questa cosa mi spaventa terribil-mente perché sto andando a raccogliere i pezzi di una rela-zione che era iniziata proprio così. E li sto andando a racco-

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gliere fuori dalla galassia. Ti amo e tu non puoi farci niente. Ti amo e io non posso farci niente. Vorrei vivere con te tutto quello che c’è da vivere. Ma ho paura. Ho tanta paura. E ora, se vuoi, cambio carrozza»Lei lo guarda. E non dice niente.Lui si alza. Prende la sua roba, fa per uscire. Viene afferrato per un polso. «Anch’io» dice lei.«Cosa?»«Tutto»La valigia gli cade di mano.Fanno l’amore.

Voce cordiale: «Avvisiamo i passeggeri che è politica di que-sta compagnia di trasporti seguire ad una incidentale tem-pesta di neutrini una deviazione in una nebulosa (CRX003). Lo sbalzo magnetico fra lo spazio profondo e la nebulosa agirà sui vostri cervelli come rilassante, cancellando i ricor-di dell’ultima mezzora. Inoltre nella carrozza numero cin-que e disponibile un ristorante/bar con snack dolci e salati. L’annuncio verrà ripetuto fra mezz’ora, visto che non ve lo ricorderete. Ci scusiamo per lo spiacevole inconveniente e vi auguriamo buon viaggio»Si sono rivestiti, si sono abbracciati, hanno sentito l’annun-cio e ora si guardano terrorizzati.«Cosa facciamo? Non voglio...» dice lei

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Lui si alza in piedi: «Ho un’idea. Muoviti»Apre lo porta «Che carrozza è questa?»«La due»«Seguimi» Heule parte sicuro lungo il corridoio. Lei lo se-gue. Corrono. La nebulosa tocca la locomotiva con un “blop”. La sensazione è di violare un budino di melassa. Il treno stride. Il sole di Centauri B diventa rosso. Il vuoto si caramella di beige.

CARROZZA TRE«Colore preferito?»«Rosso»«Arancione»

CARROZZA QUATTRO«Film preferito?»«Ultimo Tango a Parigi»«Ultimo Tango a Parigi»«Ma dai!»«Giuro!»

CARROZZA CINQUE«Sono commercialista»«Mi spiace»«Spiritosa. Tu?»

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«Lavoro per uno studio di architettura da cinque anni»«Mi piace l’architettura»«A me no»

CARROZZA SEI«...be’, in quel caso e solo in quel caso, ti farei una serenata»«Sai suonare?»«Imparerei»Ride.

CARROZZA SETTE

«...e non ha funzionato»«Mi spiace. Il mio ex era fissato col controllo»«La mia con il vicino»

CARROZZA OTTO«I tuoi occhi»«I tuoi capelli»«I miei capelli?»«Sì. I tuoi capelli»«Che hanno i miei capelli?»«Sono belli»

CARROZZA NOVE

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«Se è femmina Iris»«Che razza di nome è Iris?»«O Iris o niente»«E vada per Iris»

CARROZZA DIECISi bloccano di fronte ad un portellone chiuso. Il blob di me-lassa si mangia le carrozze dietro di loro, man mano che il treno arranca al suo interno. «Ci sono ancora tante cose» dice Heule «Da dove vieni? Quand’è che piangi? Cosa ti fa ridere? Sei vegetariana? Hai un cane o un gatto? No, perché io detesto i gatti»«E tu? Vivi da solo? Per chi voti? Fai sport? Ti piace viaggia-re? Dove mi porteresti in vacanza?»«Mi ami?»«Mi ami?»«Io...»Blop.

Heule guarda il portellone e si chiede come ci sia arrivato. Forse cercava la carrozza ristorante. Ma la carrozza ristoran-te sta al cinque. O era il sei?C’è una ragazza davanti a lui. Una bella ragazza che gioca con le punte dei suoi capelli e lo guarda con un’aria strana. Lo mette un po’ a disagio. Sorride, di circostanza «Scusi,

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dove trovo il ristorante?»«Carrozza cinque» risponde lei. E mentre lo dice è sicura. E mentre lo dice sorride.

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In Viaggio con le Paroledi Mario Basile

Le poche lettere che formano la parola viaggiare non ren-dono l’idea dell’enormità della parola stessa, innumerevoli sono i viaggi da fare, innumerevoli le modalità con cui af-frontarli. Viaggiare per conoscere, viaggiare per incontrare qualcuno, viaggiare dentro se stessi, viaggiare in auto, in tre-no, in aereo, viaggiare con la fantasia, non ho viaggiato tan-to ma ho girato il mondo e ho attraversato epoche, perché il mio viaggio è la lettura. Ho attraversato l’America insieme a Kerouac, siamo partiti da New York e siamo arrivati a Città del Messico, abbiamo viaggiato in macchina, in treno, ab-biamo dormito per strada, abbiamo affrontato la pioggia in-cessante e il caldo torrido ma non ci siamo fermati, eravamo sempre lì, io e Kerouac, “on the road”, sulla strada. Ho visto la Parigi degli anni ’30, insieme a Henry Miller il suo “tropi-co del cancro”, ho condiviso i suoi contesti, ho conosciuto le sue amiche prostitute, ci siamo ubriacati di vino, di poesia e di vita, poi ci siamo salutati, lui ha continuato il suo viaggio, io il mio. Sono stato scaraventato nella giungla del Vietnam,

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nascosto nelle trincee per non essere colpito dalle raffiche di mitra dei vietcong, lì con l’esercito americano ho visto l’or-rore della guerra, ho sentito la puzza della morte, ho visto il sangue sgorgare da ferite mortali, lì ho conosciuto la pau-ra e la voglia matta di tornare a casa ma Michael Herr mi tratteneva, “Dispacci” non ti lascia andare. Viaggiare mi ha arricchito, la lettura mi ha arricchito, ogni viaggio è diverso dal precedente, ti regala emozioni nuove a volte contrastan-ti, ogni libro che si inizia è un nuovo viaggio da affrontare, una nuova realtà con cui confrontarsi, una piccola parte di noi da conoscere. Viaggiare attraverso i libri e il mio modo di viaggiare, è il mio incedere perpetuo verso la conoscenza allontanandomi dall’orrore, perché come sosteneva Truffaut “il vero orrore è quello di un mondo in cui è proibito legge-re” e quindi viaggiare.

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Oltre la Strada

Maggio 2013

MenteSuggeSostanza Edizionihttp://mentesuggesostanza.blogspot.it/https://www.facebook.com/MenteSuggeSostanza

in copertina:Tana Libera Tutti - Installazione di Fabio Eracle DartizioFoto di Anna Turina

Disegni in “Otto Gessi” ad opera di Fabio Eracle Dartizio

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