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OLTRE LA PIETRIFICAZIONE DEL DENARO: RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA* In tempi recenti gli storici economici hanno iniziato a prestare maggiore atten- zione all’edilizia ovviando così ad una situazione paradossale, vale a dire la presenza di un settore dall’evidentissimo rilievo economico che era stato ben poco studiato, quando non sbrigativamente liquidato. Un esito che si era verificato a partire da valutazioni facilmente contestabili, come quella della possibile coincidenza tra boom edilizio e ripiegamento dell’economia, oppure palesemente fuorvianti, come la pre- sunta «pietrificazione del denaro», o il ritenere l’edilizia un’attività improduttiva 1 . * Pur essendo il frutto di una comune riflessione, la prima parte del presente contributo è stata re- datta da Luca Mocarelli, la seconda (intitolata Edilizia e congiuntura economica. Qualche riflessione sullo stato della questione) da Jean-François Chauvard. 1 Nel primo caso è sufficiente riferirsi a lavori ormai classici di R. LOPEZ-H.A. MISKIMIN, The eco- nomic depression of the Renaissance, «Economic History Review», XIV, 1962, 3, pp. 408-426 e F. BRAU- DEL, L’identità della Francia. Gli uomini e le cose, Milano, Il Saggiatore, II, 1986, p. 226, evidenziando come, per quanto attendibili, siano pur sempre riferiti a case studies e in quanto tali affiancabili da altri, anche più numerosi, in cui lo sviluppo dell’edilizia ha sostenuto e trainato la crescita economica come nella Russia del basso medioevo, nella Roma del XVI secolo, nella Milano del secondo Settecento, nella Trieste del Sette-Ottocento (il riferimento è rispettivamente a D.B. MILLER, Monumental building as an indicator of economic trends in northern rus’ in the late kievan and mongol periods, 1138-1462, «The American Historical Review», 94, 1989, 2, pp. 360-390; M. VAQUERO PIÑEIRO, Crescite incrociate: le piene del Tevere e lo sviluppo edilizio a Roma tra i secoli XVI e XVII, in I rischi del Tevere. Modelli del comportamento del fiume di Roma nella storia, a cura di P. Buonora, Roma, CNR Gruppo nazionale per la difesa delle catastrofi idrogeologiche, 2001, pp. 75-81; L. MOCARELLI, Costruire la città. Edilizia e vita economica nella Milano del secondo Settecento, Bologna, Il Mulino, 2008 e A. PANJEK, Chi costruì Trieste. Edilizia, infrastrutture, mercato immobiliare e servizi tra pubblico e privato (1719-1918), in Sto- ria economica e sociale di Trieste, II, La città dei traffici 1719-1918, a cura di R. Finzi-L. Panariti-G. Panjek, Trieste, Lint, 2003, pp. 643-758). Inoltre, anche con riferimento alla Firenze rinascimentale o a Cracovia, è poi vero che gli investimenti edilizi hanno rappresentato una concausa della crisi o non, piuttosto, un modo per cercare di tamponarla? Quanto alla «pietrificazione del denaro» è sufficiente ri- levare come si tratti di una categoria dagli evidenti connotati moralistici piuttosto che storici che finisce per cancellare la complessità, e in particolare il problema delle molteplici logiche che guidano le scelte d’investimento, in nome di un’aspirazione – avrebbero potuto investire in modo più produttivo – che va di pari passo con un altro grande mito storiografico, quello del «tradimento della borghesia». La realtà in «Città e Storia», IV, 2009, 1, pp. 65-88 ©2009 Università Roma Tre-CROMA

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OLTRE LA PIETRIFICAZIONE DEL DENARO: RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA*

In tempi recenti gli storici economici hanno iniziato a prestare maggiore atten-zione all’edilizia ovviando così ad una situazione paradossale, vale a dire la presenza di un settore dall’evidentissimo rilievo economico che era stato ben poco studiato, quando non sbrigativamente liquidato. Un esito che si era verificato a partire da valutazioni facilmente contestabili, come quella della possibile coincidenza tra boom edilizio e ripiegamento dell’economia, oppure palesemente fuorvianti, come la pre-sunta «pietrificazione del denaro», o il ritenere l’edilizia un’attività improduttiva1.

* Pur essendo il frutto di una comune riflessione, la prima parte del presente contributo è stata re-datta da Luca Mocarelli, la seconda (intitolata Edilizia e congiuntura economica. Qualche riflessione sullo stato della questione) da Jean-François Chauvard.

1 Nel primo caso è sufficiente riferirsi a lavori ormai classici di R. Lopez-H.A. MiskiMin, The eco-nomic depression of the Renaissance, «Economic History Review», XIV, 1962, 3, pp. 408-426 e F. BRAu-deL, L’identità della Francia. Gli uomini e le cose, Milano, Il Saggiatore, II, 1986, p. 226, evidenziando come, per quanto attendibili, siano pur sempre riferiti a case studies e in quanto tali affiancabili da altri, anche più numerosi, in cui lo sviluppo dell’edilizia ha sostenuto e trainato la crescita economica come nella Russia del basso medioevo, nella Roma del XVI secolo, nella Milano del secondo Settecento, nella Trieste del Sette-Ottocento (il riferimento è rispettivamente a d.B. MiLLeR, Monumental building as an indicator of economic trends in northern rus’ in the late kievan and mongol periods, 1138-1462, «The American Historical Review», 94, 1989, 2, pp. 360-390; M. VAqueRo piñeiRo, Crescite incrociate: le piene del Tevere e lo sviluppo edilizio a Roma tra i secoli XVI e XVII, in I rischi del Tevere. Modelli del comportamento del fiume di Roma nella storia, a cura di P. Buonora, Roma, CNR Gruppo nazionale per la difesa delle catastrofi idrogeologiche, 2001, pp. 75-81; L. MocAReLLi, Costruire la città. Edilizia e vita economica nella Milano del secondo Settecento, Bologna, Il Mulino, 2008 e A. pAnjek, Chi costruì Trieste. Edilizia, infrastrutture, mercato immobiliare e servizi tra pubblico e privato (1719-1918), in Sto-ria economica e sociale di Trieste, II, La città dei traffici 1719-1918, a cura di R. Finzi-L. Panariti-G. Panjek, Trieste, Lint, 2003, pp. 643-758). Inoltre, anche con riferimento alla Firenze rinascimentale o a Cracovia, è poi vero che gli investimenti edilizi hanno rappresentato una concausa della crisi o non, piuttosto, un modo per cercare di tamponarla? Quanto alla «pietrificazione del denaro» è sufficiente ri-levare come si tratti di una categoria dagli evidenti connotati moralistici piuttosto che storici che finisce per cancellare la complessità, e in particolare il problema delle molteplici logiche che guidano le scelte d’investimento, in nome di un’aspirazione – avrebbero potuto investire in modo più produttivo – che va di pari passo con un altro grande mito storiografico, quello del «tradimento della borghesia». La realtà in

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Temi che qui ci si limita a richiamare, perché verranno trattati con la consue-ta chiarezza e finezza intellettuale da Jean François Chauvard nella seconda parte di questo contributo, dedicata precisamente all’evoluzione del dibattito in merito al rapporto tra andamento del settore delle costruzioni e congiuntura generale. In questa prima parte del nostro lavoro, si metteranno invece in evidenza le direzioni principali, in aggiunta al tema cruciale approfondito da Chauvard, in cui lo studio dell’edilizia può contribuire al progresso della ricerca storico-economica e come si sia operato in tal senso negli ultimi anni, superando così uno stato degli studi ben poco soddisfacente e chiaramente delineato da Alberto Grohmann quando osservava che «gli storici economici italiani hanno pressoché completamente non considerato la produzione edilizia, essendo stati per decenni interessati, per ciò che concerneva l’età medievale, ai problemi del mercato, della produzione tessile, della banca, della moneta, della contabilità… per l’età moderna alle tematiche relative alla finanza, alla fiscalità, all’agricoltura, alla protoindustria», aggiungendo che «l’investimento nell’edilizia, come nei beni di lusso, particolarmente a partire dalla fase rinascimen-tale, è stato letto, in genere, come una forma di cristallizzazione del capitale»2.

Studiare in modo approfondito il settore edilizio, come si è iniziato a fare3, offre in effetti, non solo l’opportunità di creare occasioni di contatto con altre discipli-ne, ma rappresenta in primo luogo un modo per arricchire la storia economica in diverse direzioni. Penso anzitutto alla storia delle attività produttive, dominata, per quanto riguarda l’età preindustriale, dagli studi sul settore tessile e sulla lavorazione dei metalli, con gli inevitabili effetti distorsivi che ne sono derivati. In effetti la tesi, ormai ampiamente posta in discussione, della crisi più o meno irreparabile delle principali città manifatturiere italiane a partire dal XVII secolo è stata costruita proprio guardando quasi esclusivamente al settore tessile, con una evidente sempli-ficazione della complessità delle economie urbane interessate. Puntare i riflettori, come è stato in genere fatto, sulla incontestabile picchiata della produzione di pan-ni lana, tessuti auroserici e fustagni destinati all’esportazione ha finito per lasciare nell’ombra tutto il resto.

effetti è esattamente opposta: le costruzioni sono un modo di convertire la rendita in domanda di beni di produzione e in salari e svolgono una fondamentale funzione redistributiva.

2 Cfr. A. GRoHMAnn, L’edilizia e la città. Storiografia e fonti, in L’edilizia prima della Rivoluzione industriale, secc. XIII-XVIII, Atti della XXXVI Settimana di studi dell’Istituto Internazionale di Storia Economica «F. Datini» di Prato, a cura di S. Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier, 2005, pp. 111-112. Per convincersi della verità di queste affermazioni, basti guardare al convegno del Datini sull’edilizia in cui egli le ha formulate, dove gli interventi di carattere storico-economico sono stati ben pochi, oppure al fatto che il lavoro da lui ritenuto esemplare in proposito, quello di Goldthwaite sulla Firenze rinas-cimentale non sia opera di uno storico economico tout court (R.A. GoLdtHwAite, La costruzione della Firenze rinascimentale. Una storia economica e sociale, Bologna, Il Mulino, 1984).

3 In proposito mi sia consentito di rinviare alla bibliografia raccolta in L. MocAReLLi, Costruire la città, cit.

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All’interno di questo ampio cono d’ombra a risultare particolarmente poco con-siderata è stata proprio la realizzazione dei materiali da costruzione, a cominciare dai laterizi e dalla calce. È vero che si tratta di beni dal basso valore aggiunto, com-mercializzati in genere in ambito locale e realizzati per secoli utilizzando tecnologie molto semplici, ma lo è altrettanto che già in età preindustriale tali prodotti potevano essere prodotti in quantitativi molto cospicui4. Inoltre, al di là del mero dato quanti-tativo, lo studio di questo settore di attività è in grado di chiarire molto bene, come dimostrano in particolare i molti lavori di Manuel Vaquero, le logiche operative del mercante imprenditore5. Al tempo stesso, va sottolineato come proprio il control-lo dell’approvvigionamento, se non della produzione, dei materiali da costruzione abbia rappresentato una componente fondamentale nella costruzione delle fortune dei grandi appaltatori di opere edilizie, si tratti di quel Giuliano Leni «curatore» della fabbrica di S. Pietro, oppure dei ticinesi Fé, incontrastati domini dell’edilizia pubblica milanese del secondo Settecento6. Se si passa poi a considerare l’età contem-poranea, non si può fare a meno di evidenziare come i cambiamenti di scala prodot-ti dall’industrializzazione anche per quanto riguarda i materiali da costruzione e la presenza di innovazioni epocali nel settore, come il cemento armato e la prefabbri-cazione, abbiano portato all’affermarsi di imprese multinazionali di successo, come l’Italcementi, di recente studiata in modo esemplare da Vera Zamagni7.

Al tempo stesso, l’edilizia è stata in grado di manifestare tutto il suo rilievo econo-mico alimentando un’attività, quella delle costruzioni, caratterizzata dalla presenza di fortissime interdipendenze settoriali8 e giocando un ruolo di assoluto rilievo, ma in

4 A evidenziarlo con grande chiarezza è stato j. LucAssen, Brickmakers in Western Europe (1700-1900) and Northern India (1800-2000): some comparisons, in Global labour history. A state of the art, edited by J. Lucassen, Bern, Peter Lang, 2006, pp. 671-715.

5 Si vedano, in particolare, M. VAqueRo piñeiRo, L’università dei fornaciai a Roma tra la fine del ’500 e la metà del ’700, «Roma moderna e contemporanea», IV, 1996, 2, pp. 471-494; id., Per la storia di un gruppo imprenditoriale romano in età moderna: la produzione della calce, «Roma moderna e contempo-ranea», VI, 1998, 3, pp. 291-309: id., La gabella dei calcarari. Note sulla produzione di calce e laterizi a Roma nel Quattrocento, in Maestranze e cantieri edili a Roma e nel Lazio. Lavoro, tecniche, materiali nei secoli XIII-XV, a cura di A. Lanconelli-I. Ait, Roma, Vecchiarelli editore, 2002, pp. 137-154; id.-i. Ait, Costruire a Roma tra XVI e XVII secolo, in L’edilizia prima della rivoluzione industriale, cit., pp. 229-284; M. VAqueRo piñeiRo, Manifatture romane del XVIII secolo. Le fornaci della congregazione dell’oratorio, «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», 120, 2008, 1, pp. 169-187.

6 Cfr. in proposito i. Ait-M. VAqueRo piñeiRo, Dai casali alla fabbrica di san Pietro. I Leni: uomini d’affari del rinascimento, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, 2000, pp. 147-220; s. BoBBi, Nascita della speculazione edilizia moderna e ruolo dei materiali da costruzione nella Milano riformista del secondo Settecento, in L’économie de la construction dans l’Italie moderne, a cura di J.-F. Chauvard-L. Mocarelli, «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», 119, 2007, 2, pp. 235-247 e L. MocAReLLi, Costruire la città, cit., pp. 173-190.

7 Cfr. V. zAMAGni, Italcementi: dalla leadership nazionale all’internazionalizzazione, Bologna, Il Mulino, 2006.

8 Le tavole input-output, che misurano il peso dei rapporti di reciproca dipendenza dei vari settori dell’economia, evidenziano, con riferimento agli anni ’70 del Novecento, come il settore delle cos-

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genere ben poco sottolineato, nel sostenere lo sviluppo economico italiano nei decenni del «miracolo economico». Lo dimostrano i dati relativi alla manodopera tra 1951 e 1962, che evidenziano una crescita tripla rispetto a quella verificatasi nell’industria, un esito prevedibile in relazione al basso contenuto tecnologico del settore, e soprattutto il saggio medio annuo di variazione del valore aggiunto, oltre il 9% per il settore delle costruzioni, che ha lasciato a un punto percentuale l’industria in senso stretto9.

Un secondo ambito di ricerca molto rilevante per la storia economica a cui lo studio dell’edilizia è in grado di dare un contributo importante è quello relativo alle infrastrutture, in particolare acque e strade, dal momento che il settore è stato cor-rettamente definito come «l’insieme delle attività che concorrono alla realizzazione di edifici, strade e ponti»10. Si tratta di un’attività legata in modo biunivoco al settore delle costruzioni poiché, se è vero che questo crea strade, canali, fabbriche, porti, lo è altrettanto che per sfruttare a pieno le sue potenzialità necessita di una rete di comu-nicazioni particolarmente efficiente, in relazione al peso e all’ingombro dei materiali da costruzione. Esemplare, in proposito, è il caso della cattedrale di Milano, la cui costruzione sarebbe stata impossibile senza la precedente realizzazione del Naviglio Grande. Infatti solo la presenza di questa fondamentale via d’acqua ha consentito di trasportare a Milano in tempi e con costi ragionevoli i marmi necessari, che venivano estratti dalle cave di proprietà della fabbrica del Duomo a Candoglia, località sul Lago Maggiore distante circa cento km da Milano.

Inoltre se, come sembra difficilmente contestabile, la Rivoluzione Industriale è un processo che consiste in primo luogo nella creazione di capitale fisso, non si può fare a meno di rilevare che questo fondamentale ingrediente per lo sviluppo è stato creato proprio dall’edilizia. Come ha evidenziato con la consueta lucidità Paolo Frascani: «il

truzioni avesse una fortissima integrazione, essendo collegato con 28 delle 44 branche produttive allora rilevate dall’Istat (cfr. G. siMoneLLi, Rapporti economici e produttivi tra i settori industriali che producono materiali da costruzione e l’industria delle costruzioni: il caso della branca 15 («Lavorazione dei minerali non metalliferi»), in Produzione edilizia e tecnologia dei materiali, a cura di A. Seassaro-C. Macchia, Milano, Clup, 1989, p. 261.

9 Inoltre tra 1951 e 1963 l’edilizia in senso stretto ha visto il suo valore aggiunto passare da 100 a 285, l’incremento più alto dopo quello dell’industria estrattiva, un settore che comunque, con riferi-mento ai minerali non metalliferi vendeva circa il 50% della produzione al settore edilizio e riceveva un terzo degli acquisti dell’edilizia (cfr. R. petRi, Storia economica d’Italia. Dalla grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 189 e 208-209 con G. siMoneLLi, Rapporti economici e produttivi, cit., pp. 259-260).

10 La citazione è tratta dall’enciclopedia Rizzoli-Larousse, Milano, 1964, ad vocem. Del resto anche chi ha optato per una definizione più ristretta, ritenendo l’edilizia una attività concernente «la proget-tazione, la costruzione, la ricostruzione, l’ampliamento, la sopraelevazione, la demolizione di qualsiasi tipo di fabbricato, urbano e rurale», non ha potuto fare a meno di rilevare come l’Istat inserisca l’edili-zia nell’industria delle costruzioni che comprende anche «opere pubbliche e di pubblica utilità, opere marittime, idrauliche, igienico sanitarie ecc.» (cfr. M. tALAMonA, Fluttuazioni edilizie e cicli economici. Ricerche sul comportamento degli investimenti in abitazioni in Italia, Roma, Istituto nazionale per lo studio della congiuntura, 1958, p. 24).

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corso della trasformazione economica nazionale tra il XIX e il XX secolo sarebbe inim-maginabile senza l’involucro di infrastrutture e manufatti urbani e industriali che fanno da sfondo al suo svolgimento»11. Ciò nonostante, da questo punto di vista la strada da percorrere appare ancora molta, con riferimento sia all’età moderna che ad anni a noi più vicini, perché in genere si è considerato l’impatto economico delle opere infrastrut-turali a valle, evidenziando i benefici che il loro utilizzo ha prodotto per l’economia, e non a monte, indagando la ricaduta economica della loro realizzazione.

Un terzo filone di ricerca a cui l’edilizia può dare un contributo fondamentale è quello della storia del lavoro, sia con riferimento al grande tema del mercato del lavoro che a quello dei salari. In tempi recenti, in effetti, i mercati sono tornati al cen-tro dell’attenzione degli storici economici, pronti a raccogliere i rilievi critici forniti dai molti studiosi, in particolare sociologi e antropologi, ma anche economisti for-temente insoddisfatti dall’immagine di mercato delineata dalla teoria neoclassica12. Una reazione critica suscitata non tanto dalla constatazione che l’unità decisionale nel modello neoclassico è costituita dall’individuo, quanto invece dal modo in cui «tale unità decisionale è sottratta a qualsiasi influenza di natura macroeconomica e sistemica»13 e che ha avuto il merito di dimostrare proprio la insostenibilità di una se-parazione tra sfera economica e politica, il carattere sociale insito anche nei rapporti di scambio, la rilevanza di una sfera informale in buona parte al di fuori del merca-to14. L’abbandono di una prospettiva eccessivamente formalizzata ha fatto risaltare il carattere del mercato come una realtà storicamente costruita e storicamente condi-zionata15 ed ha aperto spazi per lo svolgimento di ricerche in questa prospettiva più

11 p. FRAscAni, Costruttori e imprenditori a Napoli tra Otto e Novecento: il farsi di un’identità, «Annali di storia dell’impresa», 18, 2007, pp. 576: 366.

12 Vale a dire quella di un mercato astratto, depersonalizzato, privo di spessore sociale e ben dif-ficilmente riscontrabile nella realtà. Si tratta, in verità, di un moto di insoddisfazione di carattere più generale prodotto dalla deriva iperformalizzata del mainstream economico che ha portato spesso a pro-durre modelli artificiali, involuti, autoreferenziali, basati su ipotesi irreali. Non è certo un caso che gli stessi economisti, oltre a rendere più complesso il modello di concorrenza perfetta formulando ipotesi alternative sulla struttura del mercato, abbiano iniziato a ricercare chiavi di lettura più attente alla realtà. Un esempio significativo al riguardo è la revisione critica del concetto di razionalità, che rappresenta la pietra angolare della teoria neoclassica, e la decisa valorizzazione delle istituzioni compiuta da d.c. noRtH, Institutions, Institutional Change and Economic Performance, Cambridge, Cambridge Univer-sity Press, 1990. Del resto già Hayek aveva dimostrato in modo convincente che «il comportamento razionale non è una premessa dell’economia, anche se spesso viene presentato in questo modo» (F.A. HAyek, Law, Legislation and Liberty. The Political Order of a Free People, London, Routledge & Kegan, 1979, p. 75 e sgg.).

13 Cfr. k. BHARAdwAj, Processi di produzione e scambio e formazione dei mercati, in Istituzioni e mer-cato nello sviluppo economico. Saggi in onore di Paolo Sylos Labini, Bari, Laterza, 1990, p. 16.

14 Una stimolante rassegna critica delle posizioni di chi ha messo in evidenza, su diversi versanti, i limiti del modello di mercato autoregolato fornito dalla teoria neoclassica è fornita da M. MAGAtti, Mercato e forze sociali. Due distretti tessili: Lancashire e Ticino lona 1950-1980, Bologna, Il Mulino, 1991, in particolare pp. 21-31.

15 Per un recente dibattito su questo tema, a partire da un confronto con il pensiero di Polanyi, si

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convincente. Ciò vale, a maggior ragione, per un mercato molto particolare come quello del lavoro, che rappresenta un contesto molto lontano dai criteri che tradi-zionalmente definiscono il mercato competitivo di concorrenza perfetta come luogo dello scambio dove domanda e offerta si incontrano e si forma il prezzo delle merci e dei fattori16. Di particolare interesse tra gli approcci che hanno preso in considera-zione il mercato del lavoro v’è senza dubbio quello della dual labour market theory, la quale postula un mercato separato in due settori con regole di comportamento e caratteristiche diverse. Mentre il settore primario appare contraddistinto da alti sala-ri, stabilità d’impiego e buone condizioni di lavoro, quello secondario è caratterizzato invece da bassi salari, incertezza dell’occupazione con un elevato turnover, cattive condizioni di lavoro17.

Questo modello esplicativo si adatta particolarmente bene all’edilizia, un settore in cui la natura del prodotto, le tecnologie in uso, la struttura organizzativa e le forme del mercato postulano da un lato la presenza di una manodopera numerosa, poco qualifi-cata e flessibile e dall’altro quella di una ridotta quota di lavoro skilled. Il principale pro-blema degli imprenditori del settore è, allora, quello di assicurare in un mercato insta-bile, dove gran parte della manodopera è riconducibile a un mercato del lavoro di tipo secondario, il segmento di forza lavoro qualificata indispensabile per sovrintendere ai lavori18. È il carattere stesso dell’edilizia in mattoni a richiedere una struttura del lavoro

rinvia a Karl Polanyi, a cura di A. Salsano, Milano, Bruno Mondadori, 2003 e in particolare ai con-tributi di A. cAiLLé, L’origine del mercato e i suoi rapporti con la democrazia, pp. 207-222, e s. LAtoucHe, Società mercantili e società di mercato, pp. 223-235.

16 Il mercato del lavoro, infatti, non può essere ritenuto un mercato competitivo perché non v’è libero scambio, dal momento che dal versante dei lavoratori non esiste la possibilità di scegliere libera-mente se lavorare o no; perché la relazione tra domanda e offerta, ovvero fra imprenditori e lavoratori, è di natura sociale molto più che economica, e infine perché il prezzo associato al bene trattato, la forza lavoro, non è in grado di svolgere funzioni che rendano trasparente il mercato perché le variazioni nei salari non possono eliminare la disoccupazione: cfr. p. ViLLA, The Structuring of Labour Markets: a Com-parative Analysis of the Steel and Construction industries in Italy, Oxford, Clarendon Press, 1986, pp. 5-8, ma si veda anche, per un discorso più complessivo, R.M. soLow, Il mercato del lavoro come istituzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1994.

17 Il riferimento è, in particolare, al fondativo contributo di p. doeRinGeR-M.j. pioRe, Internal La-bor Markets and Manpower Analysis, Lexington (Mass.), Heath and Company, 1971, che acquisiscono e rielaborano le variabili messe in evidenza dai lavori di c. keRR, Labor markets: their character and consequences, «The American economic review», 40, 1950, 2, e j.t. dunLop, Job vacancy measures and economic analysis, NBER, The Measurement and Interpretation of Job Vacancies, New York, Columbia University Press, 1966, pp. 27-47.

18 La grande instabilità del mercato del lavoro in edilizia è stata sottolineata da molti economisti. Pigou, ad esempio, evidenzia come nell’edilizia le variazioni della domanda si ripercuotano sul livello dell’occupazione proprio a causa della facilità con cui nel settore si licenziano gli operai che vanno a costituire una frangia fluttuante di disoccupati (A.c. piGou, The economics of welfare, London, Macmillan & Co., 1952, p. 523), mentre Hicks osserva, a sua volta, che la struttura tecnologica del settore edilizio e le fluttuazioni della domanda non «forniscono alcun incentivo a costituire una forza lavoro di carattere permanente» (j.R. Hicks, The theory of wages, New York, Macmillan & Co., 1963, p. 47). Fatta salva, è ovvio, proprio la piccola quota di lavoratori qualificati che deve dirigere e organizzare il lavoro.

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di questo tipo poiché comporta un processo di costruzione continuo e sequenziale, dal-le fondamenta al tetto, che utilizza tecniche in gran parte manuali e comporta modalità produttive labour intensive in cui tutti, dal capomastro qualificato ai semplici manovali, partecipano al lavoro19. Proprio il basso tasso di meccanizzazione rende particolarmen-te necessario il lavoro dequalificato, organizzato in piccole squadre, e fa emergere una struttura duale del mercato del lavoro con pochi lavoratori permanenti protagonisti di un apprendistato lungo e complesso e numerosi lavoratori poco qualificati e fluttuanti, in gran parte ancora legati al mondo rurale e semplici erogatori di forza fisica. Inoltre l’attività risulta affidata soprattutto a piccole imprese molto flessibili e dall’elevata mo-bilità spaziale che rappresentano la soluzione organizzativa migliore per fronteggiare con il minimo costo la grande variabilità della domanda che caratterizza il settore. Questi caratteri del settore edilizio (piccole imprese con modeste capacità operative) rappresentano un dato strutturale di lungo periodo del comparto delle costruzioni che, come è stato di recente rilevato, appare caratterizzato proprio «da una limitata aper-tura internazionale, da bassa produttività e da bassissima concentrazione, con pochi grandi protagonisti e una miriade di piccole imprese: per esempio su 620.000 imprese di costruzioni censite in Italia [nel 2007] solo 220.000 sono società di capitale»20. Ed è proprio la persistenza di lungo periodo di questi caratteri organizzativi dell’edilizia, che inizia a cambiare dal punto di vista tecnologico con un crescente impiego della meccanizzazione solo a Ottocento inoltrato, a rendere di particolare interesse l’esame delle modalità di svolgimento di tale attività nell’età preindustriale, come è avvenuto in diversi contributi recenti.

Da un lato, infatti, si sono svolte numerose ricerche sul carattere della manodope-ra edile, sulla sua elevata mobilità, sulle accentuate differenziazioni interne21, dall’al-tro si sono approfonditi gli assetti organizzativi del cantiere e le modalità operative di quei grandi appaltatori e capimastri che dovevano cercare di risolvere in modo ottimale il principale problema operativo del settore edilizio: mobilitare e smobi-litare velocemente una manodopera poco qualificata e molto numerosa e garantire al tempo stesso la presenza di una ridotta quota di lavoratori skilled che sorvegliasse

19 Resta da vedere se il basso livello tecnologico dell’edilizia in Italia fino a tempi molto recenti sia dipeso dal tipo di domanda, caratterizzato da non concentrazione e non standardizzazione, o non piuttosto, come sembra più probabile, dalle condizioni del mercato del lavoro che, ancora nel secondo Dopoguerra, metteva a disposizione degli operatori del settore una forza lavoro abbondante e a buon mercato in quanto scarsamente qualificata e di origine contadina. Una forza lavoro che per la sua qualità non poteva trovare occupazione nei settori industriali e per cui l’edilizia ha rappresentato spesso il set-tore di avviamento al lavoro.

20 Cfr. R. GARRuccio, Alzate l’architrave, carpentieri. Testimonianze per una storia e una comprensione del costruire, in Dove va a finire la fatica. Storie di vita e di lavoro in CMB cooperativa muratori e braccianti di Carpi, a cura di M. Canella-R. Garruccio, Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. XI.

21 Una stimolante riflessione critica al riguardo, condotta a partire dall’esame della storiografia più recente, è quella compiuta da L. LoRenzetti, La manodopera dell’industria edile: migrazione, strutture pro-fessionali e mercati (secc. XVI-XIX), in L’économie de la construction dans l’Italie moderne, cit., pp. 275-283.

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e coordinasse i lavori22. Sono state quindi ricostruite e valorizzate le ampie e diver-sificate strategie adottate da questi soggetti al vertice dell’articolata piramide gerar-chica dei lavori edilizi: dai legami con i soggetti erogatori di credito, alle società con capimastri conterranei, al ricorso al subappalto, alla gestione delle scorte23. Spazio crescente è stato dedicato anche a un altro tema molto rilevante, quello dei salari che, oltre a rappresentare un’eccellente cartina di tornasole per comprendere le ca-ratteristiche e le dinamiche del mercato del lavoro in edilizia, riveste un’importanza storiografica più generale in quanto la storia dei prezzi del lavoro è stata costruita riferendosi quasi esclusivamente alle retribuzioni degli occupati nel settore delle co-struzioni. Indubbiamente in passato si è assistito a forti semplificazioni al riguardo, e in proposito non si può che essere d’accordo con Guido Guerzoni laddove osserva come la storia dei salari in edilizia sia nata come una sezione staccata della storia dei prezzi, soffrendo dei medesimi vizi congeniti che hanno «frustrato l’analisi della for-mazione dei saggi salariali e delle loro varianze interne, delle modalità di fissazione e negoziazione dei salari giornalieri, delle variazioni quotidiane e stagionali, del potere contrattuale di individui e gruppi professionali»24.

In effetti gli studi più recenti, sia italiani che stranieri25, hanno messo in evidenza proprio la forte segmentazione del mercato del lavoro nel settore edilizio e la presenza di una spiccata variabilità salariale, al punto che sembra prospettarsi una vera e pro-pria personalizzazione del salario, vale a dire l’esatto contrario di quanto si è in molti casi sostenuto riferendosi alle retribuzioni in età preindustriale. Inoltre i riscontri quantitativi relativi alle retribuzioni degli occupati in edilizia vanno presi con grande cautela, evitando di farne discendere indebite generalizzazioni sulla consistenza dei redditi e del relativo potere d’acquisto, perché le cifre di cui disponiamo presentano comunque molti elementi di criticità: dalla variabilità stagionale delle retribuzioni, al persistente conferimento di una quota più o meno ampia del salario in natura, all’impossibilità di stabilire i giorni effettivamente retribuiti in un anno e così via26.

22 In proposito, mi sia consentito di rinviare a L. MocAReLLi, Costruire la città, cit., pp. 170-208 e ai contributi della sezione L’organisation des chantiers, nel più volte citato L’économie de la construction dans l’Italie moderne, pp. 299-426.

23 Cfr. in proposito il bel libro di s. BoBBi, La Milano dei Fé. Appalti e opere pubbliche nel Settecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.

24 G. GueRzoni, Apollo e Vulcano. I mercati artistici in Italia (1400-1700), Venezia, Marsilio, 2006, p. 191.

25 Si vedano in particolare d. woodwARd, Men at work. Labourers and building craftsmen in the towns of northern England 1450-1750, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 169-190; R.G. wiLson-A.L. MAckLey, How much did the English country house cost to build, 1660-1880?, «The economic history review», LII, 1999, 3, in particolare pp. 443-446; M. VAqueRo piñeiRo, Ricerche sui salari nell’edilizia romana (1500-1650), «Rivista storica del Lazio», V, 1996, 1, in particolare pp. 136-138, e F. tRiVeLLAto, Salaires et justice dans les corporations vénitiennes au 17e siècle. Le cas des manufac-tures de verre, «Annales. Histoire, Sciences sociales», LIV, 1, 1999, in particolare pp. 271-273.

26 In proposito mi sia consentito di rinviare a L. MocAReLLi, Costruire la città, cit., pp. 208-242.

RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA 73

Studiare in una nuova prospettiva la manodopera e i salari in edilizia ha offerto anche l’occasione per tornare sulla grande ricaduta del settore in termini occupazio-nali. In effetti, la presenza di un quadro degli studi concentrato sul settore tessile e la lavorazione dei metalli non può indurre a ignorare l’evidenza che il grande rilievo economico dell’edilizia – basti ricordare che in Francia il settore tessile sarebbe riusci-to a superarla soltanto tra 1880 e 189027 – dipendeva in primo luogo dal suo impatto occupazionale. Di ciò si era ben consapevoli già in età moderna quando venivano formulate considerazioni di questo tenore:

l’edilizia è la fonte principale dell’industria. Essa impiega un maggior numero di gente e di me-stieri dell’industria alimentare e di quella dell’abbigliamento; molta manodopera trova lavoro nelle attività artigianali del settore edilizio come muratori, carpentieri, imbianchini ecc., anco-ra maggiore è il numero di coloro che preparano i materiali da costruzione come mattoni, cal-ce, tegole e aggiungendovi coloro che arredano la casa come tappezzieri, fabbricanti di oggetti di peltro ecc. il numero di coloro che trovano impiego in edilizia diviene quasi infinito28.

Proprio questa incontestabile rilevanza economica e occupazionale chiama in causa il tema dei rapporti dell’edilizia con l’andamento economico generale, a co-minciare dalla sua importante funzione in chiave anticongiunturale (già ben chiara in età moderna, quando per fronteggiare situazioni di crisi si varavano importanti la-vori edilizi proprio perché erano in grado di occupare quantitativi molto consistenti di manodopera), aspetti che verranno ora trattati da Jean François Chauvard.

Edilizia e congiuntura economica. Qualche riflessione sullo stato della questioneLo studio del rapporto tra il settore della costruzione e i cicli economici ha ac-

quisito piena legittimità nel campo della storia delle città e dell’economia29. Questa evoluzione è recente, ed autorizza le riflessioni di lavori che hanno contribuito a ricordare quanto questo ambito di ricerca sia stato a lungo trascurato sia dagli storici dell’architettura30, più preoccupati delle realizzazioni concrete che delle condizioni della loro messa in opera, sia da quelli dell’economia, inclini ad accordare un pri-mato allo studio degli scambi commerciali, dell’agricoltura o della proto-industria e che, di fatto, hanno avuto la tendenza ad interpretare in termini negativi il legame

27 In Inghilterra, invece, il sorpasso sarebbe avvenuto qualche decennio prima in relazione alla precoce trasformazione in senso industriale dell’economia locale (tali stime si devono a p. cHAunu, Le bâtiment dans l’économie traditionnelle, in Le bâtiment: enquête d’histoire économique 14e-19e siècles, I, Maisons rurales et urbaine dans la France traditionelle, édités par J.P. Bardet-P. Chaunu-G. Désert-P. Gouhier-H. Neveux, Paris-La Haye, Mouton, 1971, p. 19).

28 Queste considerazioni erano svolte dallo speculatore Nicholas Barbon che scriveva dopo il grande incendio di Londra del 1666 (cit. da d. seLLA, Le industrie europee 1500-1700, in Storia economica d’Europa, II, I secoli XVI e XVII, a cura di C.M. Cipolla, Torino, UTET, 1979, p. 302).

29 L. MocAReLLi, Costruire la città, cit.; L’économie de la construction dans l’Italie moderne, cit.; M. VAqueRo piñeiRo-i. Ait, Costruire a Roma tra XVI e XVII secolo, cit.; Edilizia privata nella Verona rina-scimentale, a cura di P. Lanaro-P. Marini-G.M. Varanini, Milano, Electa, 2000.

30 A. GRoHMAnn, L’edilizia e la città. Storiografia e fonti, cit.

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tra investimento nelle costruzioni e sviluppo economico. Le loro argomentazioni si accompagnano ad una attenzione alle sfumature – qualità rara in un campo in cui il dibattito è stato fortemente polarizzato – che si traduce nella presa in carico della diversità dei giudizi che gli economisti31, gli storici e, prima di loro, i moralisti e i letterati hanno formulato sui motivi e le finalità degli investimenti in edilizia. Riconoscendo il giusto ruolo all’edilizia nello sviluppo dell’economia urbana e mo-strando a che punto essa costituisse una delle più importanti attività cittadine dopo l’alimentazione e, in alcuni casi, prima ancora della produzione tessile32, i recenti stu-di hanno insistito sul fatto che tali studi avessero dei precedenti33 e che le interpreta-zioni non sono mai state tanto risolute quanto si poteva pensare ad un esame troppo rapido. È inoltre interessante constatare che essi non sono giunti ad abbandonare l’idea che l’interpretazione storiografica dominante non sia più quella dei sostenitori di una visione negativa del settore dell’edilizia, bensì la loro, grazie alla qualità della riflessione e dei metodi che hanno saputo mettere in atto34. Quest’impostazione, frutto sicuramente di uno strumento retorico, richiama a sua volta l’opposizione tra una storia delle città «all’italiana», basata sulle forme, ed una storia «alla francese», che assegna il ruolo preminente alla società, mentre, di fatto, esse si sono ispirate l’una dall’altra per comprendere in cosa differissero. Le pagine che seguono hanno la modesta finalità di esporre il cammino percorso fin qui35.

Il dibattito è stato anzitutto condotto sugli effetti delle circostanze economiche sul settore dell’edilizia. Una serie di proposte antinomiche ha analizzato l’edilizia sia come risultato di un importante accumulo di capitali in un contesto di prosperità, sia come il sintomo del declino commerciale e industriale italiano durante la prima modernità. La prima proposta interpretativa si basa sull’evidenza: in primo luogo, perché una città non è altro che l’immobilizzo duraturo dei capitali nel mattone; secondariamente, per-ché la prosperità economica va spesso di pari passo con la crescita urbana e lo sviluppo dell’edificato36. Questa regola generale trova applicazione nelle città medievali dell’Ita-lia centrale e settentrionale, dove le autorità comunali, la borghesia cittadina e i principi hanno esibito le ricchezze da loro acquisite erigendo chiese, edifici pubblici, muraglie,

31 La relazione tra cicli economici e congiuntura edilizia è trattata nel suo complesso da J.B.d. deRsken, Long Cycle in Residential Building: an Explanation, «Econometrica», 1940, 8, pp. 97-116; e M. tALAMonA, Fluttuazioni edilizie e cicli economici, Roma, ISCO, 1958.

32 p. cHAunu, Le bâtiment dans l’économie traditionnelle, cit., pp. 24-27.33 R.A. GoLdtHwAite, La costruzione della Firenze rinascimentale, cit.; d. seLLA, Le industrie europee, cit.34 Penso, in particolare, al modo in cui si è tenuto conto dei lavori che la Settimana Datini 2004

ha dedicato all’argomento: se ne vedano gli atti in L’edilizia prima della rivoluzione industriale, cit. in particolare alle pp. 11-17.

35 Esse devono molto ai lavori di L. Mocarelli, all’articolo di L. pezzoLo, La pietrificazione del capi-tale: ipotesi e problemi, in Edilizia privata, cit., pp. 53-60.

36 La correlazione positiva fra prosperità economica e sviluppo edilizio è stata osservara anche in aree extraeuropee: d.B. MiLLeR, Monumental building, cit.

RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA 75

palazzi, in segno di prosperità e indipendenza37. Ovunque, in Europa, la prosperità economica è andata di pari passo con il dinamismo edilizio: così nelle città fiamminghe a fine Medioevo, ad Amsterdam nel Seicento, a Londra e nei centri della costa atlantica stimolato dal commercio a lunga distanza nel XVIII secolo.

Gli storici, dunque, concordano su un punto: all’origine dell’immobilizzo di ca-pitali nel mattone v’è un accumulo impressionante di ricchezze generate dalla lunga fase di prosperità dell’economia italiana. Nondimeno, la periodica assenza di coinci-denza tra periodo di dinamismo economico e sviluppo edilizio ha indotto taluni ad esprimere riserve su questa correlazione. Mezzo secolo fa, Carlo Maria Cipolla ha po-sto i termini della questione chiedendosi se il dispendio ostentato che caratterizzava la civiltà rinascimentale e barocca rappresentasse un fenomeno culturale e/o il risul-tato della contraddizione delle opportunità economiche38. Allora era comunemente ammesso che gli investimenti cittadini, e più in generale l’economia della rendita, avessero trionfato grazie ai cambiamenti intercorsi nei comportamenti delle élites mercantili delle grandi città italiane. I termini di quest’evoluzione erano ben noti: i mercanti patrizi, che fino alla fine del Medioevo avevano investito la maggior parte dei loro capitali nel commercio marittimo, nelle attività manifatturiere, nelle flotte navali e nella finanza, in seguito li avevano investiti, in preferenza, in settori ritenuti più sicuri: la terra, il mattone, la rendita pubblica, i prestiti privati39. Di certo, gli acquisti di proprietà fondiarie e immobiliari avevano luogo già nel Medioevo, ma nei tempi floridi dei commerci essi erano il segno tangibile di una ricchezza acquisita sui mari e nelle fiere ed un investimento sicuro per premunirsi contro i rischi di imprese lontane. In età moderna la natura della proprietà fondiaria è mutata, diventando la componente essenziale dei patrimoni, a diversi livelli secondo le famiglie. Nell’arco di due o tre generazioni, il mercante si è trasformato in possidente seguendo il percorso diventato emblematico, dei Barbarigo studiati da Frederic C. Lane40, o di Alberto Gozzi, ricco negoziante della prima metà del XVII secolo, rivoltosi agli investimenti

37 Per Richard Goldthwaite, l’intensa attività edilizia nella Firenze del XV secolo dipende tanto dall’accumulo straordinario di ricchezza, quanto dalla sua spartizione fra molti: R.A. GoLdtHwAite, La costruzione della Firenze rinascimentale, cit.

38 c.M. cipoLLA, Introduzione, in id., Storia dell’economia italiana. Saggi di storia economica, I, Secoli settimo-diciasettesimo, Torino, Einaudi, 1959, p. 19.

39 Sull’interpretazione della crisi e della riconversione italiana, si veda L. BuLFeRetti, L’oro, la terra e la società. Un’interpretazione del nostro Seicento, «Archivio storico lombardo», 1953, pp. 20-22 e M. AyMARd, La fragilità di un’economia avanzata, in Storia dell’economia italiana, 2, L’età moderna: verso la crisi, Torino, Einaudi, 1991, pp. 9-13. Sul caso veneziano, B. puLLAn, The Occupations and Investments on the Venetian Nobility in the Middle and Late Sixteenth-Century, in Renaissance Venice, edited by J.E. Hale, London, Faber and Faber, 1973, pp. 379-408.

40 F.c. LAne, Andrea Barbarigo, mercante di Venezia, 1418-49, in id., I mercanti di Venezia, Torino, Einaudi, 1996, pp. 3-121. Da citare anche, tra molti altri, l’esempio della famiglia comasca degli Odes-calchi, che cerca di investire in «beni stabili»: G. MiRA, Vicende economiche di una famiglia italiana dal XIV al XVII secolo, Milano, Società editrice “Vita e pensiero”, 1940, p. 230.

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immobiliari e finanziari nella misura in cui il rendimento della sua attività commer-ciale calava41. Se la marginalizzazione delle attività commerciali e industriali da parte delle grandi dinastie mercantili a vantaggio di investimenti più sicuri, in particolare fondiari, risulta indiscutibile, la cronologia e le modalità che caratterizzarono il pro-cesso richiedono tuttavia di essere meglio precisate.

Prima di tutto è necessario ricordare che, fra Cinque e Seicento, affari commerciali e investimenti fondiari non erano più alternativi come nel Medioevo. L’acquisto di beni immobili, infatti, restò un uso diffuso tra le dinastie mercantili che cercavano di conso-lidare la ricchezza accumulata e di assicurare la loro ascesa sociale. La politica dei Fugger in Souabe ne è l’esempio migliore42. Essa conferma la tesi di Fernand Braudel secondo la quale i grandi mercanti si rifiutavano di specializzarsi in un solo tipo di investimen-to, giacché nessun settore era sufficiente ad assorbire tutta la loro attività43. Ciò vale anche per i grandi investitori che ripartivano i loro investimenti fra la terra, il settore commerciale e l’industria, prefiggendosi come scopo la ricerca di profitti e garanzie per accrescere il loro credito. L’acquisto di terre fu un’autentica azione capitalistica suscetti-bile di dar luogo a bonifiche, riassemblamenti, nuove condizioni contrattuali o nuove colture. L’oligarchia fiorentina, che a fronte del trionfo del principato mediceo si tra-sformò in nobiltà di corte, si allontanò dagli affari solo a partire dalla seconda metà del Seicento, se non addirittura nel secolo successivo: in precedenza essa aveva mantenuto i suoi interessi commerciali e industriali, senza nemmeno diversificare le proprie attività approfittando della creazione di nuovi feudi44.

In aggiunta a ciò, è necessario ribadire un aspetto all’apparenza scontato: l’edilizia non era condizionata dallo sviluppo delle attività commerciali, ma dall’economia del-la rendita nel suo insieme. Nelle fasi di espansione urbana, i capitali impiegati nella costruzione degli edifici potevano generare grandi profitti grazie alla pressione demo-grafica. È quanto accadde, ad esempio, nella Venezia cinquecentesca o a Roma45, ove il rendimento del patrimonio immobiliare della chiesa di San Giacomo degli Spagnoli conobbe una crescita del 50% tra il 1556 e il 1599, per poi aumentare solo del 22%

41 R.t. RApp, Real Estate and Rational Investment in Early Modern Venice, «Journal of European Economic History», 1979, 8, pp. 269-290.

42 R. MAndRou, Les Fugger, propriétaires fonciers en Souabe, 1560-1618, Paris, Plon, 1969.43 F. BRAudeL, La dynamique du capitalisme, Paris, Arthaud, 1985, p. 64.44 s. BeRneR (The Florentine Patriciate in the Transition from Republic to Principato, 1530-1609,

«Studies in Medieval and Renaissance History», 1972, pp. 3-15) e p. MALAniMA (I Riccardi di Firenze. Una famiglia e un patrimonio nella Toscana dei Medici, Firenze, Olsckhi, 1977, p. 77), ricordano che alcune grandi famiglie (Corsini, Torrigiani, Galluzzi) nel XVII secolo continuavano a investire nelle società industriali e commerciali.

45 Sull’aumento degli affitti nel XVI secolo, si veda H.H. kAMen, Il secolo di ferro 1550-1660, Bari, Laterza, 1975, pp. 95-96; su Bologna, R. FReGnA, La pietrificazione del denaro. Studi sulla proprietà ur-bana tra XVI e XVII secolo, Bologna, Clueb, 1990, pp. 77-79 e p. 192; su Roma, M. VAqueRo piñeiRo, A proposito del reddito immobiliare urbano a Roma (1500-1527). Alcune considerazioni sulle fonti e primi approcci, «Archivio della società romana di storia patria», 1990, 113, p. 204.

RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA 77

tra il 1600 e il 1625, in concomitanza con una flessione della curva demografica46. Quando il territorio urbano non poté più espandersi, l’investimento nel mattone fu rivolto all’acquisto di immobili già esistenti ma rimase comunque redditizio, come accadde a Venezia nel XVII secolo: fino al 1630 il settore immobiliare produsse un rendimento del 3%, inferiore sia alle rendite pubbliche e che ai profitti agricoli, per poi però offrire possibilità di profitto pari al prestito privato (dal 4 al 5%)47. L’andamento delle costruzioni ex novo di edifici, insensibile all’andamento della congiuntura com-merciale, poteva quindi dipendere dalle variazioni del livello della rendita fondiaria. Quanto detto vale dal XVI secolo per Napoli, ove le residenze cittadine della nobiltà furono precisamente finanziate da capitali derivati dalla rendita fondiaria. Allo stesso modo, ciò è vero per l’Italia centro-settentrionale del Seicento, quando la riconversio-ne delle vecchie famiglie mercantili era ormai completata. L’esempio napoletano resta comunque il più eloquente, poiché nella città partenopea la fonte dei finanziamenti rimase sempre la stessa, favorendo l’inurbamento della nobiltà tra il 1530 e il 1570, per poi esaurirsi dopo il 1650, non permettendo più la costruzione di nuovi edifici né il mantenimento dei vecchi; diventò, infine, di nuovo abbondante nel XVIII secolo consentendo l’esplicarsi di un ultimo ciclo di costruzioni48.

Se è lecito chiedersi come il settore immobiliare sia andato strutturandosi intorno ad investimenti concorrenti, mettendo a confronto l’evoluzione dei diversi tassi di profitto e ponendo in luce i cambiamenti dei secoli XVI e XVII, non bisogna, tut-tavia, aspettarsi da questa comparazione più di quanto è in grado di apportare49. In sé, essa non saprebbe spiegare le correnti d’investimento, poiché le speculazioni non erano fondate solo su criteri di profitto o su una disamina della congiuntura della rendita, ma anche su elementi di natura sociale o psicologica, tali da rendere più variabile la frontiera fra investimenti a rischio e investimenti sicuri. A conferma di quanto detto, nel Seicento si registrò il proseguimento della tendenza dei patrizi ve-neziani ad acquistare terre nell’entroterra, nonostante la rendita fondiaria fosse meno allettante che nel secolo precedente50.

46 M. VAqueRo piñeiRo, La renta y las casas. El patrimonio immobiliario de Santiago de los Espanoles de Roma entre los siglos XV y XVII, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1999.

47 j.-F. cHAuVARd, La circulation des biens à Venise. Stratégies patrimoniales et marché immobilier (1600-1750), Roma, École française de Rome, 2005, pp. 229-241.

48 G. LABRot, Palazzi napoletani. Storie di nobili e cortigiani 1520-1750, Napoli, Electa, 1993; G. siMoncini, Le capitali italiane dal Rinascimento all’Unità. Urbanistica, politica, economia, Milano, Clup, 1982, pp. 36-37.

49 Il fatto che gli scarti del tasso di profitto non rendano sempre conto delle ripartizioni degli investi-menti fra l’edilizia ed altri settori è messo in evidenza nel dibattito tra j.-p. BARdet-M. RoncAyoLo-j.-c. peRRot-d. RocHe, Une nouvelle histoire des villes, «Annales E.S.C.», 1977, 6, p. 1240, sul libro di j.-c. peRRot, Genèse d’une ville moderne: Caen au XVIIIe siècle, Paris-La Haye, Mouton, 1975.

50 d. BeLtRAMi, La penetrazione economica dei Veneziani in Terraferma. Forze di lavoro e proprietà fondiaria nelle campagne venete dei secoli XVII e XVIII, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1956, pp. 77-78. L’attrazione per la rendita, in particolare per la rendita fondiaria, era il segnale di un’evoluzione delle mentalità, di un’urgenza di nuovi valori, di un cambiamento di ordine

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Se l’edilizia può legittimamente apparire, a seconda dei casi, come un segno di prosperità o come conseguenza di un cambio d’orientamento negli investimenti, è proprio perché il settore era soggetto ad una serie di congiunture che obbedivano ognuna a tempistiche differenti. Nessuna di loro, presa isolatamente, costituiva una chiave esplicativa sufficiente.

A dare un impulso decisivo all’avvio di un ciclo di costruzione erano essenzial-mente fattori politici51. Ciò è vero soprattutto per i principati, ove il ciclo dinastico imponeva un ritmo scandito dai cambi di regnanti, da eventi familiari, dai gusti architettonici dei principi. Ma è vero anche il comportamento edilizio delle élites cittadine. A Napoli52, il movimento d’inurbamento della nobiltà feudale si avviò tra il 1532 e il 1553 sotto il viceré Pietro di Toledo, che ne incoraggiò l’insediamento nella capitale con lo scopo di isolarla dalle basi locali del suo potere, inducendola a spese capaci di porla alle sue dipendenze53. I valori che si affermarono nella seconda metà del XVI secolo a favore dell’aristocratizzazione del patriziato cittadino e della chiusura della società54 condussero ad un riavvicinamento delle nobiltà senza con-flitti aperti o rivalità che, non esprimendosi violentemente, trovarono nel consumo di lusso e nell’edilizia di prestigio un terreno d’espressione privilegiato55. A Genova l’ondata di costruzioni rappresentata dalla lottizzazione della Strada Nuova e della via del Guastato ebbe luogo in un periodo di prosperità finanziaria, ma la nobiltà si decise a sposare i gusti estetici di altre capitali italiane, a modificare il suo stile di vita e a erigere sontuosi edifici per la propria gloria nel momento stesso in cui essa acqui-siva una definitiva supremazia istituzionale sul resto della società56. Quando inoltre, nel 1550 circa, l’elargizione delle assise sociali della classe dirigente aprì la strada ad una viva competizione tra nuove famiglie e antiche dinastie, queste ultime si misero in gioco per conservare il loro primato. A Firenze, fu il Granduca Cosimo de’ Medici a porre termine alla pausa edilizia che la città aveva conosciuto dopo l’inizio del XVI secolo, incoraggiando la nobiltà a seguire il suo esempio e ad edificare opere sontuo-

«psicologico», per riprendere la terminologia utilizzata da L. Stone per l’aristocrazia inglese. L. stone, Family and Fortune. Studies in Aristocratic Finance in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, Oxford, Oxford University Press, 1973, pp. 62-91.

51 p. BuRke, The historical anthropology of early modern Italy: essays on perception and communications, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. 147-148.

52 G. LABRot, Baroni in città. Residenze e comportamenti dell’aristocrazia napoletana. 1530-1734, Napoli, Società editrice napoletana, 1979.

53 Questo aspetto è stato sottolineato con insistenza da M. BeRenGo, La città di antico regime, in Dalla città preindustriale alla città del capitalismo, a cura di A. Caracciolo, Bologna, Il Mulino, 1975, pp. 25-54.

54 c. donAti, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 93-136.55 Ferdinando Leopoldo Del Migliore, in Firenze Città Nobilissima (Firenze, 1684, p. 464), parlava

di «la gara onoratissima nata fra Nobili et Nobili». Allo stesso modo, Giovanni Botero, in Delle cause della grandezza delle città (Venezia, 1589, vol. 2, cap. 10), incoraggiava l’emulazione fra i nobili.

56 R. sAVeLLi, La repubblica oligarchica. Legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano, Giuffrè, 1981.

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se. Il controllo meticoloso del principe sull’approvvigionamento dei materiali e sui lavori di edificazione ebbe, dunque, un effetto negativo sul dinamismo dei cantieri pubblici. A Venezia, il ritorno alla costruzione di palazzi a metà Cinquecento fu lega-to all’ammissione di nuove famiglie, in particolare di origine mercantile, all’interno del patriziato57. Quest’esempio ha il merito di mostrare che il flusso di investimenti immobiliari e la costruzione di palazzi potevano dipendere più dal grado di mobilità sociale nella classe dirigente che non dalle condizioni economiche, quantunque que-ste fossero indispensabili sia per entrare nel patriziato sia per edificare.

L’attenzione ai comportamenti familiari mostra, allo stesso modo, che le funzioni simboliche associate al possesso e alla costruzione di un palazzo rivestivano un’im-portanza diversa a seconda delle famiglie. Le casate di più recente annessione, in particolare, sembravano essere le più sensibili all’edificazione di dimore. Quando fu investita di un marchesato nel 1629, la famiglia Riccardi riorientò il suo patrimonio verso i possedimenti fondiari e trent’anni dopo acquistò il palazzo Medici. La sua ascesa sociale comportò un aumento dei suoi consumi, al punto che i redditi sem-brarono presto insufficienti per affrontare le spese. Si pose allora la questione d’in-crementare le entrate familiari mediante il ricorso al credito. Quest’idea, sviluppata a suo tempo da Thomas Malthus, e poi da Werner Sombart e da Laurence Stone, trova conferma piena tanto nell’indebitamento della famiglia Riccardi a fine Cinquecento quanto in quello di buona parte del patriziato veneziano nel secolo successivo.

Il dinamismo del settore edilizio dipendeva anche dalla diversità degli attori in gio-co. Più i potenziali committenti – istituzioni ecclesiastiche, ospedali58, uffici pubblici, confraternite59, principi, nobili, mercanti – erano coinvolti nelle operazioni di lottiz-zazione, più la ricchezza era ripartita tra numerose persone accomunate dall’emulazio-ne, e più le condizioni di un ritmo costruttivo sostenuto erano presenti.

Bisogna, infine, ricordare il ruolo decisivo giocato dalle autorità pubbliche nel de-finire quadri giuridici propizi alle espropriazioni e all’edilizia, nel praticare una politica fiscale più o meno favorevole ai proprietari e nell’esercitare forme di tutela sull’organiz-zazione del lavoro. Nel caso di Roma, Claudia Conforti ha mostrato quanto il potere

57 L. MeGnA, Compartamenti abitativi del patriziato veneziano (1582-1740), «Studi veneziani», XXII, 1991, pp. 253-323; R. sABBAdini, L’acquisto delle tradizione. Tradizione aristocratica e nuova no-biltà a Venezia, Udine, Gaspari Editore, 1995; F. HAskeLL, Mécènes et peintres. L’art et la société au temps du baroque italien, Paris, Gallimard, 1991, pp. 451-491.

58 Se la costruzione di un palazzo necessitava di grandi disponibilità di fondi ed era riservata alla no-biltà e ai grandi commercianti, gli edifici più modesti erano appannaggio di magistrati, notai, mercanti che cercavano parimenti di esprimere la loro condizione sociale.

59 Sul vasto argomento della proprietà ecclesiastica e della sua gestione, cfr. e. stuMpo, Il consolidamento della grande proprietà ecclesiastica nell’età della Controriforma, in Storia d’Italia, Annali, vol. IX, La chiesa e il potere politico, a cura di G. Chittolini-G. Miccoli, Torino, Einaudi, 1986, pp. 263-289; L’uso del denaro. Patrimoni e amministrazione nei luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia (secoli XV-XVIII), a cura di A. Pastore-M. Garbel-loti, Bologna, Il Mulino, 2001. Sulle confraternite laiche, d.e. BoRnstein, Corporazioni spirituali: proprietà delle confraternite e pietà dei laici, «Ricerche di storia sociale e religiosa», n. s., XXIV, 1995, pp. 77-90.

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della Fabbrica di San Pietro e l’autonomia lasciata alle professioni edili abbiano favorito il dinamismo di un settore stimolato da abbondanti finanziamenti60.

L’elenco dei fattori che influivano sul settore potrebbe allungarsi ulteriormente, ma la sfida è soprattutto quella di comprendere la loro gerarchia ed il loro evolvere nel tempo. In questa direzione, il grande merito del lavoro di Aleksander Panjek61 è stato quello di proporre un’analisi globale dell’andamento dell’edilizio a Trieste nel XVIII secolo, mostrando l’interazione e l’eventuale correlazione tra lo sviluppo com-merciale, la macchina legislativa, la pianificazione pubblica dei lavori infrastrutturali, la forte crescita demografica e l’impulso rappresentato, in un’economia prettamente mercantile, da investimenti immobiliari finalizzati a ottenere credito ed avere accesso ai capitali delle compagnie assicurative. L’insieme di questi fattori componeva un sistema che giocava ora a favore, ora a spese del dinamismo del settore. L’ambizione a tenere insieme tutti i fili e proporre una interpretazione globale nel lungo periodo consente di sfuggire alla cecità a cui lo studio di un singolo cantiere può condurre, autorizzando paragoni con altre realtà.

Bisogna poi sottolineare che la polarizzazione che ha segnato il dibattito sulle cause dello sviluppo dell’edilizia ha investito, in termini analoghi, anche l’interpretazione del suo impatto economico. Il giudizio degli storici sull’immobilizzo del capitale nel mat-tone è stato a lungo severo. Dopo la tesi del medievista Robertino Sabatino Lopez62, molti studiosi hanno visto nell’espansione del settore edilizio una delle cause del decli-no dell’economia italiana seicentesca, nella misura in cui gli investimenti immobiliari e fondiari avrebbero sottratto dei capitali ai settori produttivi. A sostegno di quest’im-putazione potevano esser invocati anche i giudizi severi di quanti, in età moderna, avevano criticato aspramente le spese ostentate e il gusto smodato per il mattone, come avevano fatto Carlo Borromeo o il genovese Andrea Spinola, il quale proclamò che «un cittadino prudente non dovrebbe mai fabbricare delle case che oltrepassino una certa mediocrità [...]»63. Per parte sua, Guarino Guarini, nel suo trattato di Architettura civile, alla fine del XVII secolo denunciò l’inadeguatezza tra il costo di un palazzo e le risorse che potevano essere realmente mobilitate64. Queste critiche riprendevano gli argomenti

60 c. conFoRti, L’organizzazione dei cantieri a Roma e Firenze nel Cinquecento, in Grands chantiers de la renovation urbaine: les experiences italiennes dans leur contexte europeen (XV-XVI siècles), édités par P. Boucheron-M. Folin, Roma, École française de Rome, in corso di pubblicazione.

61 A. pAnjek, Edilizia e sviluppo. La città e porto franco di Trieste nel Settecento, in L’edilizia prima della rivoluzione industriale, cit., pp. 723-735.

62 R.s. Lopez, Economie et architecture médiévale. Cela aurait-il tué ceci?, «Annales ESC», 1952, 7, pp. 433-438.

63 Citato da e. poLeGGi, Strada Nuova. Una lottizzazione del Cinquecento a Genova, Genova, Sagep, 1972, p. 378.

64 GuARino GuARini, Architettura civile. Opera postuma dedicata a Sua Sacra Maestà, Milano, 1968 (I ed. 1680), p. 69: «Però l’architetto deve non tanto desiderare la pubblica magnificenza, quanto aver riguardo alle private forze, né tanto il farsi onore nelle belle intraprese, quanto non danneggiar il com-

RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA 81

di Leon Battista Alberti a condanna della dissolutezza, della superbia, dell’eccesso di decorazione nell’edilizia65. Ma laddove Alberti definiva un ideale condiviso a inizio del XVI secolo, un secolo più tardi i detrattori del barocco avevano, invece, ben poca presa sui comportamenti dei loro contemporanei66.

Sollevando le critiche avanzate contro una classe dirigente che avrebbe abban-donato il commercio per il profitto della rendita e manifestato un gusto nefasto per la spesa ostentata, si avvalorava l’idea secondo la quale tali cambiamenti erano responsabili del declino dell’economia italiana o quanto meno, del suo minor dina-mismo cinquecentesco. Benedetto Croce si spinse ancora più lontano, deplorando la decadenza morale delle élites italiane sotto l’influsso spagnolo67. Altri studiosi, come Giorgio Doria, si sono chiesti se l’enorme quantità di denaro immobilizzato in forma di palazzi e ville non avesse limitato la disponibilità di liquidi necessari ad affrontare la difficile congiuntura del secondo quarto del XVII secolo68. Il denaro investito in un palazzo genovese, ossia all’incirca 30.000 scudi, avrebbe permesso di acquistare un terreno agricolo di 1.000 ettari, di far costruire due o tre galere o, ancora, di attrezzare da 8 a 10 fabbriche di seta. In un contesto di flessione durevole dell’atti-vità economica, il denaro «pietrificato» sarebbe stato sottratto al rilancio dei settori produttivi. Il dibattito non è chiuso ed è ben lontano dall’esserlo, poiché, secon-do Maurice Aymard, la «ristrutturazione complessa [dell’economia] lascia alle città dell’Italia del Nord un’enorme ricchezza accumulata, non completamente reinvestita né nella terra né nelle pietre preziose»69. E fornisce come esempi gli investimenti veneziani fatti sulla piazza di Amsterdam nel XVII secolo o il ruolo preminente man-tenuto da Genova fra le piazze finanziarie europee70.

pagno col metterlo in impossibili impegni»: citato da G. siMoncini, Le capitali italiane dal Rinascimento all’Unità, cit., p. 40.

65 Leon BAttistA ALBeRti, I libri della Famiglia, Torino, Einaudi, 1969 (I ed. 1432-1434), pp. 197-237.66 Nel 1600, il lucchese Bartolomeo Cenami constatava che i Fiorentini avevano «abbandonato la

parsimonia tradizionale della loro vita privata» e adottato «la condotta di vita dei cortigiani» (citato da p. BuRke, The historical anthropology of early modern Italy, cit., p. 145). Nel 1606, a Venezia, il Senatore Angelo Badoer se la prese con quel che definiva «la nostra insopportabile lussuria, arroganza e osten-tazione, tanto lontane dai costumi dei nostri antenati» (A. BAdoeR, Rengo di Senatore, in Paolo V e la Repubblica Veneziana, a cura di E. Cornet, Venezia, 1859, p. 313: citato da p. BuRke, The historical anthropology of early modern Italy, cit., p.143). Sul Gran Ducato di Toscana, R. Galluzzi scrisse nel 1781: «il commercio [...] cessò, alcuni feudi furono acquistati nel Regno e altri furono creati nel Gran Ducato e si vide sorgere tra i cittadini una nuova classe opposta allo spirito della costituzione, inutile e nociva per lo Stato, e odiosa per tutti» (id., Storia del Granducato di Toscana, III, Firenze, 1781, p. 496-497, citato da p. MALAniMA, I Riccardi di Firenze, cit., p. 43).

67 B. cRoce, Disegno storico della civiltà, Roma, 1970, II, p. 194.68 G. doRiA, Investimenti della nobiltà genovese nell’edilizia di prestigio (1530-1630), «Studi storici»,

XXVII, 1986, pp. 24-27.69 M. AyMARd, La fragilità di un’economia avanzata, cit., p. 15.70 G. FeLLoni, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Milano,

Giuffrè, 1971.

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Se si considera l’investimento edilizio in funzione della sua capacità di stimolare le attività produttive, ed in particolare quelle rivolte all’esportazione, non c’è modo di confutare il parere di Jean Delumeau, per cui «non v’è che una grande attività industriale a Roma alla fine del XVI secolo: quella dell’edilizia, attività estremamente interessante, ma economicamente pericolosa, perché dilapida grosse somme di dena-ro, ma non apporta nulla. Questa politica del prestigio porta a investimenti impro-duttivi e a un sotterramento del capitale»71. Se, in compenso, si cerca di circoscrivere gli effetti dell’edilizia sull’economia urbana, tralasciando i risultati ipoteticamente realizzabili mediante usi alternativi dello stesso denaro, ecco che vi è il modo di atte-nuare la loro incidenza nefasta.

I lavori più recenti se ne sono occupati interpretando l’edilizia come strumento di ammortamento e risposta prekeynesiana alla crisi. A sostegno della loro dimostrazio-ne, tali lavori chiamano in causa anche le opinioni di alcuni contemporanei attenti alla funzione ridistributiva degli investimenti edilizi: Jean Bodin, Giovanni Botero e, nel XVII secolo, il cardinal Sforza Pallavicini, il quale vedeva nella costruzione di pa-lazzi il mezzo per impedire che il denaro «fugisse dalla città»72. Carlo Maria Cipolla73, uno fra i promotori del dibattito, formulò una risposta che accreditava fortemente la tesi del contributo degli investimenti immobiliari alla redistribuzione di una parte della ricchezza e al sostegno di ampie porzioni dell’economia urbana74.

Nei periodi ordinari, l’attività edilizia occupava all’incirca il 10-20% della ma-nodopera maschile, percentuale ancor più elevata se si aggiunge ad essa il lavoro occasionale e stagionale75. Il tasso d’occupazione era evidentemente subordinato a variazioni dettate dai ritmi della crescita urbana, e non riguardava che una parte di quanti afferivano al settore. In queste condizioni, la cifra del 3% proposta da Paolo Malanima per soppesare il contributo dell’industria edile al prodotto globale dell’Ita-lia centro-settentrionale intorno al 1570 è decisamente una stima bassa, per quanto sia paragonabile al settore della lana e della seta, i più dinamici dell’economia italia-na76. A scala urbana, su 5.600 botteghe artigianali censite a Roma nel 1620, 1.785

71 j. deLuMeAu, Vie économique et sociale à Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, 2 voll., Paris, Boccard, 1957, I, p. 382.

72 Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, Cors. 173, Vita, azioni e operazioni di Alessandro VII, c. 373v, citato da G. siMoncini, Le capitali italiane dal Rinascimento all’Unità, cit., p. 49.

73 c.M. cipoLLA, Economic Fluctuations, The Poor, and Public Politicy (Italy, 16th and 17th Centu-ries), in Aspects of poverty in Early Modern Europe, edited by T. Riis, Stuttgart, Alphen aan den Rijn, 1981, pp. 65-77, p. 74: «examples of public works started in order to counteract bouts of unemploy-ment are so abundant that there is only the difficulty of choice».

74 L’osservazione vale anche per gli effetti dell’edilizia sull’economia rurale: L. pezzoLo, La pietrifi-cazione del capitale: ipotesi e problemi, in Edilizia privata nella Verona rinascimentale, cit., pp. 56-57.

75 Queste proposte sono avanzate anche da d. woodwARd, Men at work. Labourers and building, cit., p. 25.

76 p. MALAniMA, La fine del primato. Crisi e riconversione nell’Italia del Seicento, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p. 71.

RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA 83

concernevano il settore dell’edilizia e delle attività ad esso correlate, 1.736 riguar-davano il settore alimentare e 1.582 quello tessile77. Gli effetti benefici dell’edilizia non erano limitati alla sola fase di costruzione. L’edificazione non era che il primo atto di una lunga sequela di spese generate dai continui interventi di manutenzione e restauro, in un’epoca in cui si privilegiava la sostituzione degli elementi deteriorati o passati di moda ai grandi lavori strutturali.

Nei periodi di espansione urbana, le spese per l’edilizia funsero da impulso ad un’ampia gamma di attività. In un contesto di stagnazione, vi è ragione di credere che esse ebbero un effetto di ammortamento. Lungi dal produrre esiti parassitari, le spese dei più ricchi contribuirono a sostenere la domanda interna e ad assicurare lavoro a persone modeste, in un contesto di crisi delle attività produttive o di debolezza dei set-tori alternativi. Non v’è alcun dubbio che i cantieri pubblici ebbero un impatto ancora superiore sull’impiego della manodopera e sulla redistribuzione delle spese78.

I lavori più recenti hanno consentito di andare oltre a mere considerazioni im-pressionistiche, apportando argomenti tangibili a favore di una presa di coscienza reale del rovescio economico o della funzione anticongiunturale degli investimenti edilizi ed infrastruttutali, e proponendo una metodologia fondata sulla scelta di una sequenza temporale di osservazioni pertinenti. La lunga durata privilegiata in questi lavori espone a conclusioni inevitabilmente vaghe. Nella Venezia dei secoli XVI e XVII, ad esempio, non si osserva in alcun modo una netta correlazione fra il ritmo delle costruzioni di palazzi e l’avvio di una fase espansiva: 40 palazzi furono eretti tra il 1485 e il 1521, 70 tra il 1521 e il 1605 e un centinaio durante il XVII secolo79. Tuttavia, si può avanzare l’ipotesi che un’osservazione più scrupolosa della cronologia delle costruzioni e dei cicli brevi sia passibile di invalidare questa constatazione. A Genova, l’età dell’oro della costruzione di palazzi coincise con il «secolo dei genove-si», ovvero col lungo periodo di prosperità (1530-1630) che rese i banchieri liguri i protagonisti della finanza europea e degli scambi monetari80. I 170 palazzi che sorsero tra la metà del XVI secolo e gli anni Trenta del Seicento furono finanziati coi fiorenti proventi bancari81. Il ciclo di costruzione terminò nel momento stesso in cui la finanza genovese fu coinvolta nella bancarotta della monarchia spagnola e nel de-clino della sua influenza in Italia. Se si presta più attenzione alla cronologia, si osserva la concomitanza fra la fine delle guerre (1539-1540), la crisi degli anni 1580-1590

77 A. cARAccioLo, Da Sisto V a Pio X, in Storia d’Italia, vol. XIX: Lo Stato Pontifio da Martino V a Pio IX, a cura di M. Caravale-A. Caracciolo, Torino, Einaudi, 1978, p. 381.

78 G. GueRzoni, Apollo e Vulcano, cit., pp. 199-209.79 e. BAssi, Palazzi di Venezia. Admiranda Urbis Venetae, Venezia, Stamperia di Venezia, 1980 e u.

FRAnzoi, Palazzi e chiese lungo il Canal Grande a Venezia, Venezia, Storti, 1987.80 L. GRossi BiAncHi-e. poLeGGi, Una città portuale del Medioevo. Genova nei secoli X-XVI, Genova,

Sagep, 1979, pp. 243-250.81 G. doRiA, Investimenti della nobiltà genovese, cit., pp. 10-11.

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e il boom dell’edilizia. La principale virtù degli investimenti edilizi fu la correzione dell’impatto negativo esercitato di un rovesciamento congiunturale mediante l’im-piego di una parte della manodopera inoccupata. Dopo il 1570, la crisi dell’industria tessile e dei cantieri navali genovesi avrebbe potuto produrre forti tensioni sociali, se non fosse stata attenuata dalle capacità occupazionali mostrate dal settore edilizio82.

A differenza dei lavori che hanno privilegiato il lungo periodo e/o un cantiere particolare, nei suoi studi su Ferrara Guido Guerzoni si è concentrato su un arco cro-nologico breve (1551-1555), caratterizzato da una brutale recessione economica83. Passando in rassegna la totalità delle spese in manodopera degli uffici ducali, egli pone in evidenza l’esistenza di centinaia di pagamenti e di forti rotazioni di perso-nale, unite ad una grande regolarità dei cantieri e ad una grande variabilità nei livelli salariali dei gruppi e dei singoli. Guerzoni conclude che il duca cercava di far lavorare il maggior numero di persone, pagandole regolarmente e modulando le retribuzioni in funzione delle necessità, così da evitare che ritardi o riduzioni salariali avessero effetti dannosi sulla capacità anticongiunturale dei cantieri. Da un punto di vista prettamente economico, sarebbe stato più redditizio ricorrere a prestazioni gratuite o fare affari con pochi fornitori ai fini di ottenere prezzi più bassi, ma l’obiettivo ducale principale era quello di far lavorare tutti. La sua inattaccabile dimostrazione, sup-portata da una lunga serie di cifre, concorda con le analisi di Claudia Conforti sulla politica edilizia di Gregorio XIII e Sisto V (che avevano privilegiato la quantità e la rapidità dei lavori favorendo «la parcellizzazione dei ruoli»84 e un’animata concorren-za), con quelle di Giuseppe Papagno e di Marzio Romani sulla costruzione della cit-tadella di Parma (intrapresa nel 1591, all’alba di un decennio di cattivi raccolti)85 o, ancora, con quelle di Luca Mocarelli, che collega il cantiere del Naviglio di Paderno nel 1773 alla necessità di dare lavoro alle braccia disoccupate delle campagne86.

L’attenzione dedicata al funzionamento del mercato del lavoro, alle modalità di pagamento e all’ampiezza del reclutamento della manodopera lascia intendere che ad uguali investimenti non corrispondessero necessariamente uguali effetti moltiplica-tori «diretti», come a suo tempo aveva intuito anche Jean-Pierre Sosson87. Se i magi-

82 Il numero di mastri muratori iscritti alla corporazione passa da 125 nel 1530 a 370 nel 1630: G. doRiA, Investimenti della nobiltà genovese, cit., p. 22, nota 83.

83 G. GueRzoni, «E cosa da Principe far chiari gli splendori dell’opre eccelse & illustri di animo gen-eroso»: politica edilizia e congiuntura economica negli Stati estensi del Cinquecento, in L’économie de la construction dans l’Italie moderne, cit., pp. 507-529.

84 c. conFoRti, Architteti, committenti, cantieri, in Storia dell’archittettura italiana. Il secondo Cin-quecento, a cura di C. Conforti-R.J. Tuttle, Milano, Electa, 2001, pp. 9-22.

85 G. pAGAGno-M.A. RoMAni, Una cittadella e una città (Il Castello Nuovo farnesiano di Parma 1589-1597): tensioni sociali e strategie politiche attorno alla costruzione di una fortezza urbana, «Annali dell’Istituto italo-germanico di Trento», 1982, 8, pp. 141-209.

86 L. MocAReLLi, Costruire la città, cit., p. 256.87 j.-p. sosson, Le bâtiment, cit., p. 103; id., A propos des “travaux publics” de quelques villes de Flandre

RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA 85

strati incrementavano la concorrenza per far abbassare i prezzi, gli appalti potevano anche essere vinti da imprenditori esterni alla città. Qualora questi si appoggiassero su imprenditori locali o una manodopera abbondante, allora gran parte delle spese era nuovamente introdotta sulla piazza urbana.

Una volta stabilito che gli investimenti nell’edilizia pubblica e privata permette-vano di sostenere la domanda degli strati più deboli della popolazione nei momenti di recessione degli altri settori, la difficoltà diviene quella di misurare la portata della ridistribuzione delle risorse e calcolare globalmente i flussi di trasferimenti immessi nell’economia urbana. Un possibile metodo88 è quello di fornire ordini di grandezza passibili di essere oggetto di paragone: si stima l’ammontare totale delle spese, si cal-cola la parte destinata al pagamento della manodopera (40-45%), si converte questa cifra in giornate di salario di un mastro carpentiere o muratore, ed infine si divide la somma per il numero dei giorni lavorativi (circa 180). I risultati così ottenuti possono anche essere riferiti ad un solo tipo di edificio: è questo il caso, ad esempio, dei lavori di Giorgio Doria89 e di Richard Goldthwaite, i quali hanno calcolato che la costruzione di un palazzo equivalesse al costo del lavoro annuale di un insieme di 200-400 persone90. Guido Guerzoni, per parte sua, ci dice che, su 1.000 lire di spesa, 350 erano utilizzate per pagare mercanti, intermediari e rivenditori, e 650 servivano a retribuire 1.560 giornate di lavoro, come a dire l’equivalente del lavoro a tempo pieno di un anno di 8 mastri con apprendisti. Se nel 1552 lavoravano a tempo pieno 130 mastri, nel 1580 la stessa quantità era pari a 1.460, ossia 6 persone su 7.000 (1/5 della popolazione)91. Luca Mocarelli, infine, stima in 920.000 lire l’ammontare delle spese edilizie milanesi sostenute tra il 1751 e il 1796. Esse consentirono di dare lavo-ro a 4.000 persone, pari al 15-18% degli abitanti della città92. Una giusta valutazione dell’impatto anticongiunturale di questo tipo di spese richiede anche un ampliamen-to delle attività considerate (ad esempio la decorazione interna e il guardaroba)93 ed un allargamento dell’area di osservazione, poiché il costo dei materiali integrava la remunerazione degli operai che lavoravano sul luogo di produzione e che ne assicu-ravano il trasporto.

aux XIVe et XVe siècles: impact budgétaire, importance relative des investissements, technostructures, politiques économiques, in L’initiative publique des communes en Belgique (Ancien Régime), Actes du 11e Colloque international (Spa, 1-4 sept. 1982), Bruxelles, Crédit Communal de Belgique, 1984, pp. 379-400.

88 J.-p. sosson, A propos des «travaux publics, cit., p. 385.89 G. doRiA, Investimenti della nobiltà genovese, cit., p. 23. La cifra proposta da G. Doria si conforma

alle stime di R.A. GoLdtHwAite (La costruzione della Firenze rinascimentale, cit., p. 190) e di d. seLLA (id., Salari e lavoro nell’edilizia lombarda durante il secolo XVII, Pavia, Fusi, 1968, p. 59).

90 R.A. GoLdtHwAite, La costruzione della Firenze rinascimentale, cit., p. 53.91 G. GueRzoni, Politica edilizia e congiuntura economica, cit., p. 527.92 L. MocAReLLi, Costruire la città, cit., pp. 251-52.93 M.A. VisceGLiA, I consumi in Italia in età moderna, in Storia dell’economia italiana, a cura di R.

Romano, Torino, Einaudi, 1991, p. 20.

86 JEAN-FRANçOIS CHAUVARD-LUCA MOCARELLI

Dagli studi dedicati al rapporto fra edilizia e congiuntura, risulta che il settore immobiliare obbedisse ad una doppia logica: una ordinaria, scandita dalle successio-ni dinastiche, dai cicli familiari e dalla manutenzione quotidiana degli edifici; l’altra straordinaria, con funzione anticiclica, innescata dai grandi progetti civili o militari. La capacità della seconda di protrarsi nel tempo e di sostenere il peso di una crisi merita senza dubbio indagini più ampie. Erano essenzialmente le entrate ordinarie94, la fiscalità indiretta ed il ricorso al prestito95 a permettere di far fronte alla crisi: si trattava di risorse ripartite in modo disomogeneo tra le città e gli Stati96, ed erano tali da impedire di scorgervi altro che una risposta immediata, incapace di attenuare a lungo il declino economico.

Anche le intenzioni dei committenti privati esigono di essere osservate da vici-no. È lecito considerarle capaci di attenuare gli effetti delle crisi allo stesso titolo dei principi o dei poteri pubblici? Il settore pubblico e quello privato condivide-vano senza dubbio un universo di valori comuni, dominato dalle parole d’ordine della gloria e della magnificenza97. Assurte a ideali nel XV secolo, malgrado la persistenza dei valori di semplicità e di modestia incarnati dai mercanti delle città dell’Italia centro-settentrionale, gloria e magnificenza divennero due preoccupa-zioni centrali dei principi e delle élites, entrambi protesi a imitare gli Antichi in seno a un processo di aristocratizzazione della società, di affermazione dello Stato principesco, di trionfo della Controriforma cattolica. Questi valori divennero uno strumento senza pari di affermazione e competizione sociale. Costruire materializ-zava la reputazione di una stirpe, proclamava la sua vocazione politica, celebrava la sua vocazione a perpetuarsi nell’eternità.

La magnificenza faceva del potere edilizio un atto sociale, destinato a ricordare l’ordine gerarchico della società e la dignità di una posizione che non ammette-va alcun cedimento verso la volgarità. Nel Della Economia, pubblicato nel 1560, Giacomo Lanteri riteneva indegno per un nobile vivere in affitto, ed elevava ad ob-bligo morale il possesso in proprietà della propria residenza. Il giurista napoletano Francesco d’Andrea associava al dovere di vivere fastosamente l’ambizione a superare i nobili per nascita98.

94 Patrick Boucheron ha mostrato che un’imposta poteva essere temporaneamente adibita al finan-ziamento di grandi lavori: al riguardo si veda il suo saggio in questo volume.

95 j.-p. sosson, Travaux publics et politiques économiques. L’exemple de quelques villes des anciens Pays-Bas (XIVe-XVe siècle), in Studia historica oeconomica. Liber amicorum H. Van der Wee, edited by E. Aerts-B. Henau-P. Janssens-R. Van Uytven, Louvain, Université de Louvain, 1993, pp. 239-258.

96 p. stABeL, ‘Les dépenses à l’aune des moyens’? Degré d’urbanisation et ressources publiques. Les petites villes en Flandre (du XIVe au XVIe siècle), «Bulletin trimestriel du Crédit communal de Belgique», 1990, 172, pp. 53-64.

97 R.A. GoLdtHwAite, La costruzione della Firenze rinascimentale, cit., pp. 77-98.98 F. d’AndReA, Ricordi, a cura di N. Cortese, Napoli, 1923, pp. 168 e 208, citato da p. BuRke, The

historical anthropology of early modern Italy, cit., p. 134.

RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA 87

L’ideologia principesca e nobiliare dell’autocelebrazione non deve tuttavia far dimenticare un altro principio altrettanto condiviso: l’obbligo morale verso la co-munità, obbligo che non si limitava alla carità, ma che poteva incarnarsi in altre forme di liberalità ed esprimersi nell’edilizia privata e pubblica. Così, rinunciare ad abbellire il tessuto urbano significava privare se stessi e la comunità del benefi-cio visivo, se non pratico, di un bene; significava abdicare ai doveri imposti dalle proprie fortune, e negare la controparte che il dono di ricchezza esigeva indietro. Non procurare lavoro significava essere insensibili ai mali del tempo. Nei secoli XVI e XVII non si smise mai di valorizzare moralmente la spesa. Nel 1734, nel suo Testamento politico, Lione Pascoli scriveva che «Chi ha dunque convien che spen-da […] E questo è l’obligo positivo che corre all’uomo onesto; che in qualunque modo che’egli abbia denaro, considerar deve che viene sempre da Iddio; e che egli qual depositario fedele restituir lo deve ai bisognosi»99.

Se è vero che l’etica aveva un costo, essa non era però priva di interessi. Ciò vale soprattutto per il periodo in cui lo spostamento, sempre più importante dal XVII se-colo, di una parte del reddito verso le costruzioni di prestigio ed consumo dispendio-so prese ad alimentarsi della differenza fra la rendita e l’aumento della «redditività» sociale delle spese suntuarie. Al riguardo Giorgio Doria ebbe modo di scrivere: «nella Genova del Cinquecento era stata compresa fino in fondo l’utilità pubblicitaria della conspicuous consumption e l’efficacia di ostentare la propria capacità di spendere come indice della propria potenza e solidità economica e, quindi, della propria capacità di prestare»100. La classe dirigente, preoccupata di mantenere la stabilità sociale, diede assistenza ai poveri e fornì lavoro a frange disoccupate della popolazione ponendole sotto la sua dipendenza economica101.

Che i principi e le élites nobiliari condividessero gli stessi valori culturali non desta eccessiva sorpresa. Questa constatazione sta oggi portando ad una considerazione più equilibrata delle motivazioni che inducevano a costruire, e ciò nonostante una storiografia recente, sotto l’influenza della storia culturale e politica, abbia ancora la tendenza a ridurre tali motivazioni a una volontà di rappresentazione, di propagan-da, di affermazione di rapporti di forza. Costruire poteva essere uno strumento di auto-celebrazione, ma poteva anche obbedire a ragioni pratiche: alloggiare la propria famiglia102 e i propri domestici103, disporre di una riserva finanziaria ai fini di ottenere

99 L. pAscoLi, Testamento politico d’un accademico fiorentino, in cui si fanno diversi progetti per ista-bilire un ben regolato commerzio nello Stato della Chiesa e per aumentare le rendite della camera, Colonia (Perugia, Italy) per gli eredi di C. d’Egmond, 1733, p. 9, citato da G. siMoncini, Le capitali italiane dal Rinascimento all’Unità, cit., p. 31.

100 G. doRiA, Investimenti della nobiltà genovese, cit., p. 9.101 R. sAVeLLi, La repubblica oligarchica, cit., pp. 114-115.102 L’alloggio di più parenti sotto lo stesso tetto è un mezzo per limitare le spese: j.c. dAVis, Una famiglia

veneziana e la conservazione della ricchezza. I Donà dal ’500 al ’900, Roma, Jouvence, 1980, p. 30.103 A partire dal censimento del 1526-1527, J. Delumeau ha contato 306 domestici nel palazzo Far-

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un prestito, ecc.104. Costruire era certamente anche uno strumento politico, poiché la concessione di lavoro creava equilibri, consolidava legami verticali, istituiva relazioni di dipendenza e suscitava un’adesione reale, non solo ideologica o simbolica105.

I lavori più innovativi dedicati all’economia dell’edilizia ci insegnano che giocare sull’opposizione tra rendita e benefici, produttività e improduttività, utilità e futilità è un esercizio vano, poiché l’investimento nel mattone, obbedendo a molteplici livel-li di razionalità, «poteva essere utilizzato su più fronti e quindi rendere più volte»106.

Jean-François Chauvard-Luca Mocarelli

nese, 275 nel palazzo Cesarini, 200 nel palazzo Orsini e Del Monte, e tra 200 e 100 in 13 altri palazzi: j. deLuMeAu, Vie économique et sociale à Rome, cit., p. 434.

104 Questo aspetto è illustrato da G. LABRot, Baroni in città, cit., pp. 119-120.105 G. GueRzoni, Politica edilizia e congiuntura economica, cit., p. 529.106 A. pAnjek, Edilizia e sviluppo, cit., p. 734.