Normatività nella Decisione Pubblica - Intervento al Convegno nazionale della Società Italiana...

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1 Normatività nella decisione pubblica Giovanni Cogliandro 1. Virtù e conseguenze I decisori pubblici agiscono facendo riferimento a principi di diversa natura. Quando un giudice svolge il suo ruolo istituzionale e sistemico di interprete del diritto egli non dovrebbe fare appello solo ai principi della moralità politica riguardo a diritti e doveri che si avrebbero in un modello di società giusta, ma, almeno a parere di Kyristis 1 , dovrebbe anche considerare i principi che governano la ripartizione del potere effettivo tra i partecipanti al più generale progetto di governo, includendo in questa sua considerazione anche se stesso e il proprio potere. Tali principi consentirebbero al giudice di dare la giusta considerazione prospettica agli effetti delle sue decisioni sulla vita futura delle persone oggetto dei suoi pronunciamenti, includendo in questa visione ragionevole dei futuri assetti anche le decisioni di ciascuna delle altre istituzioni che partecipa al disegno complessivo del governo. Questa sarebbe una conseguenza pratica della consapevolezza che le decisioni giudiziarie sono parte di un progetto di governo, affermazione che oggi appare vieppiù pericolosa, poichè la loro forza normativa è indipendente da quella dei principi di giustizia sostanziale. I principi che in una teoria politica comprensiva governano la ripartizione dei poteri potrebbero dare al giudice ragioni adeguate per favorire una decisione che tenga conto di parametri sempre ulteriori rispetto alla sua visione comprensiva della giustizia sostanziale. Di conseguenza una teoria ideale della decisione giudiziaria potrebbe essere considerata come derivante da una combinazione dei principi di giustizia, considerati all’interno del più ampio disegno istituzionale, in cui da alcuni principi morali e da una cosiderazione oggettiva delle loro conseguenze concrete viene determinato un obbligo giuridico. Sarebbe opportuno provare ad adottare un punto di vista consequenzialista oggettivo 2 che identifica come virtù dei decisori politici la 1 DIMITRIOS KYRISTIS, Shared Authority. Courts and Legislatures in Legal Theory, Hart Publishing 2015. 2 Per un’influente analisi del conseguenzialismo oggettivo in filosofia morale rimando a JULIA DRIVER, Uneasy Virtue, Cambridge University Press, 2001, in particolare sulla definizione che ne offre: ‚A subjective

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Normatività nella decisione pubblica

Giovanni Cogliandro

1. Virtù e conseguenze

I decisori pubblici agiscono facendo riferimento a principi di diversa natura. Quando un

giudice svolge il suo ruolo istituzionale e sistemico di interprete del diritto egli non

dovrebbe fare appello solo ai principi della moralità politica riguardo a diritti e doveri che

si avrebbero in un modello di società giusta, ma, almeno a parere di Kyristis1, dovrebbe

anche considerare i principi che governano la ripartizione del potere effettivo tra i

partecipanti al più generale progetto di governo, includendo in questa sua considerazione

anche se stesso e il proprio potere. Tali principi consentirebbero al giudice di dare la giusta

considerazione prospettica agli effetti delle sue decisioni sulla vita futura delle persone

oggetto dei suoi pronunciamenti, includendo in questa visione ragionevole dei futuri

assetti anche le decisioni di ciascuna delle altre istituzioni che partecipa al disegno

complessivo del governo. Questa sarebbe una conseguenza pratica della consapevolezza

che le decisioni giudiziarie sono parte di un progetto di governo, affermazione che oggi

appare vieppiù pericolosa, poichè la loro forza normativa è indipendente da quella dei

principi di giustizia sostanziale. I principi che in una teoria politica comprensiva

governano la ripartizione dei poteri potrebbero dare al giudice ragioni adeguate per

favorire una decisione che tenga conto di parametri sempre ulteriori rispetto alla sua

visione comprensiva della giustizia sostanziale. Di conseguenza una teoria ideale della

decisione giudiziaria potrebbe essere considerata come derivante da una combinazione dei

principi di giustizia, considerati all’interno del più ampio disegno istituzionale, in cui da

alcuni principi morali e da una cosiderazione oggettiva delle loro conseguenze concrete

viene determinato un obbligo giuridico. Sarebbe opportuno provare ad adottare un punto

di vista consequenzialista oggettivo2 che identifica come virtù dei decisori politici la

1 DIMITRIOS KYRISTIS, Shared Authority. Courts and Legislatures in Legal Theory, Hart Publishing 2015. 2 Per un’influente analisi del conseguenzialismo oggettivo in filosofia morale rimando a JULIA DRIVER, Uneasy

Virtue, Cambridge University Press, 2001, in particolare sulla definizione che ne offre: ‚A subjective

2

riconoscibile efficacia nel produrre sistematicamente conseguenze migliorative a favore

dei più svantaggiati, senza frustrare le eccellenze.

Per far questo può aver senso avere un atteggiamento ispirato dalla teoria

dell’uguaglianza di Dworkin ma non è necessario condividere la sua teoria che pone al

centro dell’operatività del diritto l’attività delle Corti. Dworkin non accetta fino in fondo la

posizione di Rawls e considera il rapporto tra morale e politica uno dei capisaldi del

liberalismo, che deve avere, a suo modo di vedere, una fondazione etica, come ha ribadito

da Virtù sovrana3 fino a Giustizia per i ricci4. Dworkin contesta l’affermazione di Berlin (dal

quale riprende il titolo del suo ultimo libro) che libertà ed eguaglianza siano due posizioni

inconciliabili, e si rivolge contro Nozick, il primo tra i critici della teoria rawlsiana della

giustizia e dell’uguaglianza. Secondo Dworkin lo stato non può avere una posizione

neutrale nei confronti del mercato e non può assolvere solo al ruolo di custode della libertà

negativa.

Egli parte da una concezione forte di egualitarismo e sostiene che il contenuto della legge

sia l'insieme dei diritti morali giudizialmente applicabili, con la conseguenza che

l’esecutività giudiziaria di un diritto è per Dworkin il vero segno della legalità efficace nel

migliorare l’equità sociale. Waldron ha condotto una critica approfondita di questa

visione, che accomuna filosofi del diritto analitici di tendenze molto diverse tra di loro: la

sua preoccupazione può essere condensata nella diagnosi che la contemporanea filosofia

del diritto si sia troppo concentrata sui giudici trascurando le procedure della legislazione.

Waldron si vuole differenziare da Dworkin, anche se ne condivide alcune tesi

sull’interpretazione e sul ruolo dei diritti: egli sostiene che le Assemblee legislative

svolgono una funzione strettamente connessa con la determinazione del contenuto morale

del diritto, con la loro capacità di risolvere le controversie sociali su ciò che dovrebbe

essere fatto5. Secondo Waldron il potere legislativo è stato trascurato dalla filosofia del

consequentialist defines the rightness of an action in terms of the subjective states of the agent. An example

of a subjective consequentialist theory is expectabilism, which holds that an action is right if and only if the

agent expects that the consequences of the action will be good. An objective consequentialist, on the other

hand, defines a right action as that which produces good actual consequences – thus, what the agent expects

to be produced is irrelevant in determining rightness – though it will certainly be relevant in terms of

apportioning praise and blame.‛ (DRIVER, cit., p xiv). 3 R. DWORKIN, Virtù sovrana. Teoria dell'uguaglianza, Feltrinelli 2002. 4 R. DWORKIN, Giustizia per i ricci, Feltrinelli 2013. 5 J. WALDRON, The Dignity of Legislation, Cambridge University Press, 1999; tale testo è stato concepito come il

completamento dell’influente monografia pubblicata nello stesso anno J. WALDRON, Law and Disagreement,

Oxford University Press 1999: mentre la prima analizza e valuta le diverse dottrine della legislazione che si

sono succedute nei secoli, la seconda tenta un’interpretazione sistematica e inclusiva del disaccordo e della

legittimazione.

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diritto, che in questo può ricevere fecondi spunti da una sempre più intensa intersezione

con la filosofia politica, ed anche in questo si trova d’accordo con Dworkin.

Il legislatore si distingue dalle Corti e dagli esecutivi in primo luogo per l’ambizione alla

massima rappresentanza intesa come espediente per esibire una garanzia della bontà del

suo operato. La composizione delle Assemblee legislative impressionano per l’imponenza

dei loro numeri: dai più di 500 negli Stati Uniti, ai quasi 3000 della Cina, passando per le

centinaia di membri della House of Lords che (nominati e non eletti) affiancano i membri

della House of Commons nel Regno Unito. Al paragone di tali numeri impallidiscono le

composizioni dei governi, che oscillano tra i venti e i cinquanta membri nella maggior

parte delle nazioni occidentali, a prescindere dalla forma di Stato6. Questa riverenza quasi

sacrale per la rappresentanza potrebbe affondare le sue radici in un profondo disagio della

civiltà, un confronto rimosso con la mitologia dei legislatori dell’antichità. All’antichità fa

riferimento Dworkin per inventare la figura del giudice sapiente Ercole, da lui

contrapposto al Rex di Hart e Fuller. ma proprio l’antichità ci offre invece le figure dei

monarchi legislatori o della normazione ancestrale e sacra, da Mosè a Solone7, da Licurgo a

Numa Pompilio8. Il legislatore oggi e negli ultimi secoli si vuole garantire con la più ampia

rappresentanza possibile la possibilità di essere più vicino alla verità, anche se il Teorema

di Condorcet sembra mostrare come il numero dei componenti di un’Assemblea sia

inversamente proporzionale alla sua capacità di conseguire una efficace competenza

capace di influire in meglio sul bilanciamento dei diritti e dei doveri che si va a modificare.

Condorcet ha sostenuto che non vi è alcuna garanzia che i rappresentanti eleggibili

abbiano una probabilità maggiore di 0,5 di giungere a un più giusto risultato: «Una

assemblea molto numerosa non può essere composta di uomini molto illuminati. E’ inoltre

probabile che in coloro che siedono in questa assemblea su molte questioni si combinino

6 Waldron si diffonde su queste rilevazioni numeriche nelle prime pagine di Law and Disagreement. 7 Vi fa riferimento tra gli altri V. E. Orlando per concedersi un’ironia durante i lavori dell’Assemblea

Costituente svolge il suo ordine del giorno il 23 aprile 1947: "E perché, allora, dobbiamo noi assumere la

veste di legislatori mitici, di semidei, come dei Mosè o dei Soloni, per pregiudicare la competenza dei

legislatori futuri?". Questa ironia è tuttavia un profondo cortocircuito che attraversa il legislatore costituente

ma anche il legislatore ordinario. 8 Plutarco nelle Vite parallele trattando di Licurgo e Numa Pompilio sottolinea come entrambi i legislatori

sacri abbiano agito in vista dell’obiettivo di conseguire la saggia temperanza nel governo del popolo.

Licurgo fu il legislatore che con la sua riforma dell'ordinamento politico e dei costumi sociali ha plasmato la

struttura dello Stato spartano e ha posto le basi per un'egemonia plurisecolare sulla Grecia. Numa Pompilio,

il successore di Romolo che secondo la leggenda fu anche discepolo di Pitagora, delineò le principali

istituzioni religiose di Roma e, con le sue iniziative in ambito civile, donò alla città uno dei suoi rari periodi

di pace.

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grande ignoranza con molti pregiudizi . Quindi ci sarà un gran numero di questioni sulle

quali la probabilità della verità conseguita da ogni elettore sarà inferiore a ½»9.

Punto di partenza del ragionamento politico di Waldron è ciò che egli chiama "le

circostanze della politica"10. La prima tra queste è la costatazione che, anche dopo aver

condotto un’ampia riflessione collegiale, ispirata ai principi della Ragione pubblica esposti

da Rawls, i cittadini e i loro rappresentanti non saranno d'accordo su questioni

fondamentali concernenti la politica, i principi, la giustizia e il diritto, sulle quali sarà già

tanta se si sarà convenuto di considerare reciprocamente ragionevoli le opposte posizioni

(o teorie comprensive) della fazione opposta. La seconda è che, nonostante questo

disaccordo, i cittadini hanno e percepiscono il bisogno di decisioni e linee d'azione comuni

per quanto riguarda queste stesse indecidibili fondamentali questioni. Fondamentale per

l’intera filosofia politica di Waldron è la sua assunzione che vi sia (e sempre vi sarà?) un

diffuso disaccordo su tutte le questioni rilevanti per la politica, disaccordo che persiste

anche dopo una deliberazione condotta con la massima buona fede.

2. Sovranità e Supplenza

Il legislatore assembleare delibera tenendo conto dei diversi interessi e delle prospettive di

tutta la società, introducendo una legge intesa come vincolante per tutti i cittadini e

riconosciuta come tale da funzionari e giudici: la sovranità dovrebbe essere essenzialmente

temperata dalla deliberazione in un’aula di rappresentanti e questa evidenza si comprende

solo esaminando la struttura fondamentale della sovranità quale è stata modificata dal

parlamentarismo, come si tende a rilevare in particolare nelle situazioni di crisi o di

squilibrio sistematico11.

Waldron accusa i filosofi del diritto contemporanei proprio di questa carenza, di avere

quindi una eccessiva sfiducia (o fiducia) nel concetto di deliberazione legislativa perché

non hanno compenetrato il parlamentarismo e i suoi arcani in misura analoga a quanto

invece realizzato dalla filosofia politica12. Infatti, anche se molteplici versioni del

9 CONDORCET, Trattato sull'Applicazione dell'Analisi alla Probabilità delle Decisioni a Maggioranza (1785), in

CONDORCET, Selected Writings, Keith Michael Baker ed. & trans. (1976), p 49, cit. in J. WALDRON, Five to Four,

in 123 Yale Law Journal 1692 (2014), alla nota 77. 10 J. WALDRON, Law and Disagreement, cit., p 102. 11 Si veda al riguardo J. GOLDSWORTHY, Parliamentary Sovereignty: Contemporary Debates (Cambridge Studies

in Constitutional Law), Cambridge University Press 2010. 12 Waldron in questo probabilmente fa anche una apologia del suo metodo interdisciplinare che da diversi

decenni interseca le due discipline. Probabilmente la sua critica vale più per la tradizione di Common Law che

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positivismo definiscono la legge in termini di fonti, nella analisi di Waldron la proprietà di

essere fonte della legge è per il positivista la cosa più interessante che si possa dire di

un’istituzione e tutte le altre caratteristiche che può possedere diventano insignificanti,

compresa la caratteristica essenziale di avere la capacità di generare il diritto.

L’ermeneutica di Dworkin invece non trascura le caratteristiche che in realtà permettono a

un'istituzione di avere questa qualità generativa, anche se Dworkin commette l’errore di

restringere il campo di applicazione delle sue considerazioni alla sola teoria del diritto. A

nostro parere al riguardo è possibile generalizzare l'intuizione critica di Waldron,

giungendo a sostenere che il centralismo della figura del giudice in Dworkin offra una

concezione riduttiva della stessa legalità, proprio perché muove da un artificio originario,

funzionale all’espansione dei diritti, quindi alla teoria normativa dell’uguaglianza politica:

la nostra tesi è che questo slancio normativo non sia sviluppato nelle sue potenzialità in

quanto risente delle contingenze degli anni ‘60 e ‘70 del XX secolo. In quegli anni negli

Stati Uniti (ma anche in Europa) la magistratura aveva una autocomprensione proattiva

nel rendere più efficaci le tutele dei diritti dinanzi al ritardo della sensibilità del legislatore.

Oggi a volte questo si verifica ma senza alcuna riflessione organizzativa, ad esempio in

Italia si assiste a una schizofrenia dei giudicati in particolare su materie eticamente

sensibili. Forse alla luce di questo deficit di ragione pubblica la teoria andrebbe aggiornata,

giovandosi di un ripensamento della teoria dell’uguaglianza di Dworkin, delle emergenti

teorie liberali antiperfezioniste (come quella di Quong) e del percorso di Waldron come si

tratteggia a partire dalle due monografie del 199913, poi con costanza nei molteplici articoli

sul tema del Rule of Law14, come anche nell’ultimo saggio sulle maggioranze semplici del

201415. Nella sua dimensione sistemica la legalità richiede che il governo della legge nel

suo complesso sia strutturato in modo da garantire che il potere pubblico sia esercitato

correttamente, quindi con una considerazione rafforzata del ruolo dei funzionari (officials)

per quella europea, e non è un caso che autori di estrazione diversa si trovino a rivalutare la riflessione

tedesca e italiana su queste tematiche quale si è svolta negli ultimi anni (penso in particolare a Dyzenhaus e a

Bellamy). Si vedano ad esempio D. DYZENHAUS, The Constitution of Law: Legality in a Time of Emergency,

Cambridge University Press 2006; R. BELLAMY, Political Constitutionalism: A Republican Defence of the

Constitutionality of Democracy, Cambridge University Press 2007; da ultimo L. VINX, The Guardian of the

Constitution. Hans Kelsen and Carl Schmitt on the Limits of Constitutional Law, Cambridge University Press 2015. 13 J. WALDRON, The Dignity of Legislation, Cambridge University Press, 1999; tale testo è stato concepito come

il completamento dell’influente monografia pubblicata nello stesso anno J. WALDRON, Law and Disagreement,

Oxford University Press 1999: mentre la prima analizza e valuta le diverse dottrine della legislazione che si

sono succedute nei secoli, la seconda tenta un’interpretazione sistematica e inclusiva del disaccordo e della

legittimazione. 14 Tra questi il più noto è The Concept and the Rule of Law in 43 Georgia Law Review 1 (2008-2009); si vedano

anche J. WALDRON, The Rule of Law and the Importance of Procedure in Nomos numero 50: Getting to the Rule of

Law, ed. James Fleming, New York University Press 2011, disponibile sul sito SSRN:

http://ssrn.com/abstract=1688491 (consultato il giorno 30 luglio 2015); J. WALDRON, Thoughtfulness and the

Rule of Law, disponibile sul sito SSRN: http://ssrn.com/abstract=1759550 (consultato il giorno 30 luglio 2015); 15 J. WALDRON, Five to Four: Why Do Bare Majorities Rule on Courts?, cit.

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oltre che di quello dei giudici. I funzionari saranno sempre soggetti alla valutazione dei

giudici, come anche gli altri cittadini, nel circolo virtuoso di una continua evoluzione in

corso che porta a una sempre maggiore contrazione dei privilegi derivanti dalla passata

supremazia dell’amministrazione e dal regime speciale proprio del diritto amministrativo.

Non appare sufficiente che i giudici svolgano una azione di supplenza politica

indirizzando tramite il loro operato la coercizione statale, ma il progetto comune di

governare dovrebbe chiaramente orientarsi verso la giustizia e l’uguaglianza sostanziale.

Non basta che le teorie del diritto si concentrino sui determinanti dei diritti e doveri che

sono giuridicamente applicabili, perdendo così la dimensione sistemica della legalità, ma i

cittadini devono essere rispettati come uguali tra di loro nel modo in cui anche tutti gli

stakeholders di una decisione di competenza del potere esecutivo-amministrativo vanno

rispettati come uguali; trattare un cittadino come meno che uguale è agire come se non

avesse una partecipazione in quello che sta succedendo. I cittadini come anche i funzionari

devono essere governati nella nostra condotta e rimandano il controllo della loro condotta

ai giudici in quanto esperti della legge in modo tra loro uguale. Anche se in realtà possono

differire nella loro competenza, e anche se questo gap di competenze si allarga sempre più

in virtù della sempre maggiore parcellizzazione delle competenze tecniche, le Corti

applicano sempre la fictio dell’eguaglianza, analoga alla rappresenztazione della neutralità

per la quale ogni giudice rappresenta la legge e la rappresenta in maniera uguale a tutti i

suoi colleghi.

L’espediente di affidare le decisioni più delicate alle Corti costituisce un modo di

neutralizzare le responsabilità delle decisioni affidandosi a un criterio ibrido tra

competenza e rappresentanza, cercando di oltrepassare con strategia argomentative

diverse l’incompletezza della deliberazione nel contesto della ragione pubblica, concetto

chiave della filosofia politica contemporanea, in particolare a partire dall’opera di Rawls16.

La ragione pubblica è costitutivamente incompleta: in primo luogo, la ragione pubblica è

indeterminata, non è in grado di fornire conclusioni chiare su una questione particolare. In

questi casi la ragione pubblica si esaurisce, in quanto i suoi contenuti sono insufficienti per

produrre una risposta condivisa17. In secondo luogo, la ragione pubblica potrebbe essere

inconcludente per quanto riguarda una certa questione, cioè, si avrebbero una pluralità di

risposte diverse che tutte in maniera equivalente potrebbero essere apparentemente

16 Sia Liberalismo politico, come anche Il Diritto dei popoli presentano in appendice alla loro edizione italiana lo

scritto di Rawls ‚Un riesame dell’idea di ragione pubblica‛ del 1997, ed. orig. J. RAWLS, The Idea of Public

Reason Revisited, in Chicago Law Review (1997), 64 (3) pp. 765-807. 17 Si veda al riguardo M. SCHWARTZMAN, The Completeness of Public Reason, in Politics, Philosophy, &

Economics, 3, 2004, pp. 191–220.

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giustificate dall’appello alla ragione pubblica, e la ragione pubblica da sola non può dire

quale risposta è corretta o l'alternativa più ragionevole18.

L’indeterminatezza è l’accusa più grave dal punto di vista della filosofia politica, in

quanto, anche se la ragione pubblica è inconcludente solo per quanto riguarda alcune

questioni, questa constatazione sarebbe forse fatale per la possibilità di riferirsi in generale

alla ragione pubblica come cornice di ogni situazione deliberativa. Alcuni degli argomenti

rispetto ai quali la ragione pubblica è inconcludente o indeterminata includono oggi

questioni ad elevatissimo tasso di conflittualità come l’aborto, la ricerca sulle cellule

staminali, il matrimonio tra omosessuali, la prostituzione, la giustizia per le generazioni

future, il trattamento degli animali, e altre questioni in cui per ottenere una risposta

morale o politica si deve far riferimento a opposte considerazioni metafisiche su che cosa

sia una persona. Sono praticamente tutte le interrogazioni che costituiscono il dibattito

accademico in filosofia politica. Non è un caso che oggi si assista a una rinnovata

considerazione della centralità dell’antropologia, già delineata da Kant due secoli e mezzo

addietro. Praticamente tutte le questioni morali o politiche dipendono dalla nozione di

verità circa la persona, o sullo sviluppo umano: da qui si manifesta l’ineludibile carica di

incompletezza che costituisce sempre un problema profondo e pervasivo per la ragione

pubblica. Del resto Waldron in Law and Disagreement esplicitava, sin dalle prime pagine,

come la filosofia del diritto fosse una categoria del più vasto insieme della filosofia politica

e come i due compiti precipui della filosofia politica fossero l’analisi dell’idea di giustizia e

la considerazione della ineluttabilità del disaccordo tra uomini e corpi politici.

3. Ragione pubblica e status normativi

Quali risposte sono a disposizione di un filosofo che, nel quadro del parlamentarismo

democrativo, si voglia analista e sostenitore di una teoria normativa della ragione pubblica

e di un ragionevole perfezionismo? La maggior parte dei sostenitori liberali delle diverse

concezione della ragione pubblica sono inclini ad accettare l’accusa che essa possa essere

una procedura inconcludente, ma negano che questa sia davvero un’obiezione al suo

impiego come struttura di sfondo della deliberazione19. Se in merito a una questione

morale o politica la ragione pubblica sembra produrre un numero di risposte egualmente

18 G. GAUS, Justificatory Liberalism: An Essay on Epistemology and Political Theory, Oxford University Press 1996. 19 Si veda ad esempio quanto affermato in: J. RAWLS, Political Liberalism, Columbia University Press 1996, pp.

240-241; G. GAUSS, The Order of Public Reason: A Theory of Freedom and Morality in a Diverse and Bounded World,

Cambridge University Press 2011, pp. 303-333; J. QUONG, Liberalism Without Perfection, Oxford University

Press 2011, pp. 204-212.

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ragionevoli, la sfida è allora quella di trovare un modo sempre più condivisibile e

appropriato per scegliere tra queste risposte concorrenti. Questa comprensione riflessiva

della ragione pubblica potrebbe quindi richiedere nella prassi un procedimento di

approssimazione, un rinnovamento dei criteri e postulare delle procedure di intesa con

forme sempre nuove, tuttavia, anche se qualunque metodo si scelga sarà sempre

perfettibile, in tal modo l'idea alla base della ragione pubblica sarà confermata piuttosto

che compromessa. Da questo punto di vista credo che sbaglino alcuni critici del concetto di

ragione pubblica come Sandel20, Horton21 o Reidy22 quando suppongono che il fondamento

e lo scopo della ragione pubblica sia quello di fornire una risposta unica per ogni

questione che si pone dinanzi al legislatore. Ritengo che invece si abbia di fronte il

problema ben più difficile e stimolante di tentare di mostrare che il fondamento della

ragione pubblica sia garantire che le regole o principi che si possono adottare possano

essere ragionevolmente giustificate a tutti gli interlocutori coinvolti del discorso

istituzionale. Del resto non solo la teoria della democrazia di Dworkin, Shapiro23 o

Christiano24 ma anche le cosiddette concezioni agonistiche della democrazia, quali esposte

a partire dagli anni novanta da Laclau e Mouffe25, come anche le diverse concezioni

deliberative della democrazia sono posizioni antitetiche che mostrano come la

conflittualità sia ineludibile dall’esistenza collettiva di esseri umani con visioni

incompatibili del bene e del giusto. Il primato dell’agonismo compreso come fondamento

della democrazia deliberativa consente di rimouvere la legittimità di concezioni

radicalmente antagonistiche che si ripresentano pericolosamente e trovano nuove forme di

rappresentanza. Anche solo limitare a questo la normatività della decisione democratica

mi sembra unod ei compiti dell’elaborazione teorica contemporanea.

Si fa spesso riferimento alla necessità di ampliare i riferimenti esperienziali o l’evidenza

empirica delle quali la riflessione politica normativa difetterebbe: tuttavia l’esperienza non

determina a sufficienza le teorie e la stessa evidenza empirica è compatibile con diverse

teorie, con diversi modi di spiegarla. E’ interessante notare come questa constatazione,

unita alla non plausibilità della interpretazione del giuspositivismo come teoria empirica

20 M. SANDEL, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press 1998. 21 J. HORTON, Rawls, Public Reason, and the Limits of Liberal Justification, in Contemporary Political Theory,

2003, pp. 5–23. 22 D. REIDY, Rawls's Wide View of Public Reason: Not Wide Enough, in Res Publica, 2000, pp. 49–72. 23 I. SHAPIRO, Democratic Justice,Yale University Press 2001; ID., The State of Democratic Theory, Princeton

University Press 2003. 24 Th. CHRISTIANO, The Constitution of Equality. Democratic Authority and Its Limits, Oxford University Press

2008. 25 CH. MOUFFE, Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Bruno Mondadori 2007; E. LACLAU e CH.

MOUFFE, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, il Melangolo 2011.

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del diritto, aveva indotto Uberto Scarpelli26 e altri autori a considerare il giuspositivismo

non una teoria conoscitiva empirica, ma piuttosto una dottrina normativa del diritto.

Secondo questo orientamento, oggi sempre più diffuso, anche il giuspositivismo come

teoria empirica dipenderebbe in realtà da una previa valutazione normativa: la

valutazione favorevole al diritto prodotto dallo Stato moderno e in particolare al diritto

codificato, maggiormente apprezzato di qualsiasi altro tipo storico di diritto per la sua

maggiore razionalità e certezza. I giuspositivisti, secondo questa interpretazione, sono

sostenitori incondizionati della datità della legge, sono degli apostles of the made law

secondo l’espressione coniata da un antigiuspositivista come Fuller, ma fatta propria

anche da un giuspositivista normativo come Scarpelli. Sulla scia del realismo e del

positivismo giuridico esclusivista da Hobbes a Austin e oggi a Shapiro la legge è tale in

quanto promana da una autorità riconosciuta come tale, e in quanto tale va difesa senza

riferimenti a possibili contenuti concettuali moralmente valutabili. Questa valutazione

(originariamente intesa come un giudizio favorevole) è stata in seguito criticata da più

parti ed etichettata come legalismo etico o giuspositivismo ideologico: questo è avvenuto

soprattutto dopo i terribili eventi resi possibili da sistemi giuridici internamente coerenti

che ha dato nuovo slancio alla tradizione del diritto naturale27. Tale critica sembra oggi

superata da un’intera famiglia di dottrine giuspositiviste, definite giuspositivismo etico o

normativo, e rappresentata da autori come Waldron, Campbell28, Coleman e in Italia lo

stesso Scarpelli e – per certi aspetti – Ferrajoli. Per tali autori l’opzione per la filosofia

giuspositivista dipende anche da valutazioni normative favorevoli allo Stato moderno e in

particolare alle forme di Stato riconducibili alle caratteristiche proprie dello Stato di

diritto. Questa valutazione sembra effettivamente pregiudiziale all’adozione dello stesso

metodo conoscitivo giuspositivista: il giuspositivismo metodologico, in altri termini,

sembra davvero presupporre il giuspositivismo ideologico e informare a questo le

strutture e le gerarchie tra norme presunte neutrali ma che sono e devono essere

(parafrasando con ironia lo Hume della ragione che «è e deve essere» schiava delle

passioni29) faziose, in quanto faziosa è la natura umana.

26 U. SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico, ed. di Comunità 1965. 27 Si veda al riguardo l’influente testo di H. A. ROMMEN, L' eterno ritorno del diritto naturale, Editrice Studium

1965. 28 T. CAMPBELL, Prescriptive Legal Positivism: Law, Rights and Democracy, Routledge-Cavendish, 2004. 29 La ragione è un’attività che, articolando solo relazioni tra idee, sembra incapace a Hume di guidare la

condotta: i Ingiustificata gli appare quindi com’è noto la prescrizione di origine platonica che prescrive agli

esseri umani di dominare le loro passioni con la ragione: per questo Hume nel Trattato sulla natura umana

(1740) afferma: ‚la ragione è, e deve essere, schiava delle passioni‛ (II.3.3). Hart e dopo di lui Raz e la

filosofia analitica del diritto contemporanea si continuano a confrontare tuttavia sulla pretesa ragionevole

della legge di guidare la condotta, una legge razionalmente interagente con diverse tipologie di ragioni.

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Scarpelli affermava essere compito dei giudici costituzionali «farsi elemento centrale e

portante, matrice razionalizzante dell’intero sistema»30: la soluzione del controllo di

conformità alla Costituzione, quale metodo per conseguire una comprensione unificata

per principi delle norme giuridiche appare tuttavia problematica. Infatti nell’operare della

Corte Costituzionale si vede in modo chiaro il limite della tecnica giuridica e il suo

compenetrarsi cone l’argomentazione politica o ispirata da una visione normativa; ogni

decisione della Corte suscita dibattiti sulle conseguenze non solo giuridiche, ma anche

sulla struttra amministrativa e sulle conseguenti decisioni politiche che produce; inoltre le

norme costituzionali sono inclusive e di conseguenza ancipiti per loro nautra. Norme

risultanti da compromessi sempre più ampi e sovranamente quelle di rango

costituzionale, non rappresentano quasi mai un criterio adeguato per il controllo

dell’attività interpretativa, la quale può pervenire sulla loro base a decisioni anche

divergenti, tutte giustificabili attraverso la disposizione interpretata.

Di recente Brandom si è dedicato31 a un confronto approfondito con la problematica della

normatività nella dinamica della decisione giudiziaria e del suo inserimento nel sempre

delicato legame di queste decisioni con le decisioni precedenti e con il contesto di

riferimento e quindi della loro prescrittività per le future decisioni analoghe. Egli parte

dalla ricostruzione metaforica della chain novel articolata da Dworkin in Law’s Empire

(1986) e muove alcune critiche al modello del giudice Ercole, a partire da una strategia

inferenziale non rappresentazionale della verità. Brandom critica come troppo generico il

pur suggestivo riferimento letterario di Dworkin e la prescrizione normativa implicita che

l’attività giudiziaria sia analoga all’attività degli scrittori che si cimentano nell’attività

della scrittura seriale. Potremmo aggiungere riprendendo le analogie alla grecità di

Dworkin che quest’attività era in parte tipica anche degli aedi dell’antichità greca che,

almeno nell’interpretazione datane da Vico nella Scienza Nuova, ereditavano un testo che si

stratificava diventando sempre più complesso e diventava patrimonio di una corporazione

ma di un intero popolo che lo riascoltava e rielaborava di generazione in generazione32.

30 U. SCARPELLI, Dalla legge al codice, dal codice ai principi, in Rivista di filosofia, 1987.

31 R. BRANDOM, A Hegelian Model of Legal Concept Determination: The Normative Fine Structure of the Judges'

Chain Novel, in Graham Hubbs, Douglas Lind, Pragmatism, Law, and Language, Routledge 2013, pp. 19-39,

disponibile su internet sul sito personale dell’autore http://www.pitt.edu/~brandom/currentwork.html

(consultato il 30 luglio 2015). 32 Riporto per intero il denso passo di Brandom: ‚Ronald Dworkin famously suggested modeling the

development of laws and the legal concepts that articulate them to the writing of a ‚chain novel.‛ Each judge

inherits a more or less settled textual corpus comprising earlier applications and interpretations of some set

of concepts and principles, and is obliged to extend it. Here is how Dworkin puts what he sees as common to

the task of the judge and of the author of the chain novel in medias res: ‚Your assignment is to make of the

text the best it can be, and you will therefore choose the interpretation you believe makes the work more

significant or otherwise better.‛ It is clear that this model is getting at something important about case law

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Questa strategia si sostanzia filosoficamente a partire dal presupposto che il significato di

un pronunciamento risieda nell’uso che i diversi attori sociali ne fanno e sul loro

riconoscimento reciproco. Hegel a parere di Brandom introduce un modello non riduttivo

per superare da un lato la retorica humiana della fallacia naturalistica e più in generale

offre una risposta allo scetticismo sulla giustificazione della normatività legale. Si tratta di

una struttura in cui gli status normativi sono istituiti da una costellazione adeguata di

atteggiamenti normativi. Questa struttura di autorità e responsabilità reciproca fonda lo

status normativo sulla reciprocità del riconoscimento (Anerkennung), riprese e rielaborata

in questi anni da Honneth33. Hegel introduce l'idea di essere un soggetto di status

normativo, che può intraprendere l’esercizio di responsabilità e autorità a partire

dall'atteggiamento fondamentale normativo del riconoscimento. Riconoscere qualcuno è

trattare tale persona come un soggetto normativo, in grado tanto di assumere

responsabilità che di esercitare l'autorità, capace di dare giudizi e di agire

intenzionalmente.

L'idea di base è che gli stati normativi sono stati sociali. Brandom deduce dal sistema di

Hegel l’idea che gli stati normativi quali la responsabilità e l'autorità sono prodotti

dell'attività umana. In questo vi è una interessante rivisitazione della teoria dell’autorità di

Raz34: gli status normativi non sono presenti nel mondo, ma affinché l'altro possa essere

efficacemente responsabile ed autorevole, è necessario che i cittadini lo trattino e lo

considerino come responsabile e autorevole. Per essere un soggetto normativo è al tempo

stesso necessario e sufficiente essere riconosciuto come tale da quanti egli riconosce come

tali. Quando in questo modo sussistono atteggiamenti riconoscitivi reciproci, si può

istituire un patto di riconoscimento che può fondare lo status autoritativo e normativo,

status che fonda in generale la soggettività. Essere se stesso è essere considerato tale da

coloro che lo sono, come riconoscere gli altri è attribuire loro un certo tipo di autorità,

l'autorità di riconoscere costitutivamente gli altri.

Secondo Waldron, nonostante ci sia sempre il rischio di una soluzione insoddisfacente o di

una finzione di soluzione, giungere a patti rappresenta la condizione ineludibile per

convivere pacificamente in una società ben ordinata, ovvero in una società in cui esiste

(and about common law, which is case law all the way down). In the 25 years since its original

promulgation, I think we have also come to see some of its drawbacks. For one thing, it is not clear how

helpful it is to understand the fixed end of the analogy with the development of law in terms of a chain

novel. The dimensions along which it is appropriate to assess literary works and legal traditions are too

disparate and divergent. More significantly with respect to our concerns, such formulations as the one just

cited are hard to argue with precisely because of their extreme generality.‛ R. BRANDOM, A Hegelian Model of

Legal Concept Determination, cit., p 31. 33 A. HONNETH, La lotta per il riconoscimento, Il Saggiatore 2002. 34 J. RAZ, The Morality of Freedom, Oxford University Press 1986.

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una struttura giuridica che si esplica nella forma della legge positiva. Il compromesso

normativo tra concept e rule of law consente di stabilire principi equi per il governo di

individui appartenenti a gruppi culturali differenti, sulla base di principi di libertà basati

sul rispetto della proprietà privata. Se, al contrario, non fosse possibile giungere a patti,

l’impossibilità di stabilire principi di libertà e principi regolanti la proprietà privata

rappresenterebbe allo stesso tempo l’impossibilità di realizzare una base comune,

mutuamente riconosciuta e quindi sicura su cui gli individui possano basarsi per vivere la

propria vita e far uso delle risorse necessarie alla loro sussistenza.

Qualsiasi istituzione abilitata a tutelare i diritti può commettere errori, ed è meglio che

questi errori siano effettuati da un’istituzione che rappresenta e rispetta le differenze di

opinione tra la popolazione in generale, rispetto a una che non lo fa: non possiamo sapere,

ai fini della progettazione delle istituzioni politiche, se le Corti sono sempre efficaci nel

loro controllo su decisioni politiche prese secondo il criterio della maggioranza, perché

non siamo mai in grado di affermare che il giudice è nel giusto mentre il Parlamento ha

sbagliato.

Pensare forme di armonia e riconoscimento in società sempre più conflittuali, come appare

oggi necessario in maniera sempre più evidente che negli anni scorsi, rimane quindi un

compito urgente per la filosofia politica e per consentire la stessa esistenza di strutture che

garantiscano la giustizia sociale, come anche il discernimento sulle diverse forme di

normatività all’interno del quadro sempre fragile della ragione pubblica.