Nomadismo e Postmoderno in letteratura
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Collana di critica
«VISIONI»
IRLP, 2015
www.inrealtalapoesia.com
Vol. 2
Stefano Guglielmin
NOMADISMO E
POSTMODERNO
IN LETTERATURA
antologia di scritti critici
IRLP
2015
9
Nota introduttiva
Questa antologia racchiude le mie riflessioni
intorno al tema della Caducità e della Finitezza in
relazione alla possibilità di pensare i modi in cui la
letteratura si dà nell’epoca contemporanea. Il primo
termine va inteso quale condizione più
propriamente emotiva, esperienziale dell’esistenza;
il secondo riferisce alla gettatezza ontologica
dell’uomo, con tutto il suo carico di
inappropriabilità.
Tutti i miei saggi si sono occupati di questo
argomento. Del primo, Scritti nomadi. Spaesamento e
erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, Verona
10
2001), riporto – senza le note a piè pagina, come
nell’originale – i capp.1-2 (il labirinto quale
condizione gnoseologica ordinaria) e il cap. 8 (sul
postmoderno). Del secondo saggio, Senza riparo.
Poesia e finitezza (La Vita Felice, Milano 2009) ho
scelto quei capitoli che approfondivano la stessa
tematica, ma rispetto alla poesia anziché alla
narrativa e al teatro come in Scritti nomadi. Del libro
nato dal mio blog e dal titolo Blanc de ta nuque, uno
sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana contemporanea (Le
Voci della Luna, Sasso Marconi 2011) ho
estrapolato i saggi sulla pratica in rete della poesia e
un dialogo con Marco Giovenale nato intorno
all’antologia Prosa in prosa (Le Lettere, Firenze 2010).
Del mio ultimo libro, Le vie del ritorno. Letteratura,
pensiero, caducità (Moretti&Vitali, Bergamo 2014),
non ho incluso nulla perché i saggi sono troppo
specifici (sull’Orestea e su alcuni illuministi) per
essere inclusi in questo e-book. Come tuttavia ben
si evince dal titolo, anche questo lavoro tiene ferme
le convinzioni dei precedenti, approfondendole
rispetto alla tragedia greca e alla filosofia.
Da Scritti nomadi. Spaesamento e erranza
nella letteratura del Novecento (Anterem, Verona 2001, pp.149)
13
La responsabilità nell’erranza
1. La presenza ed il libro
La perdita del centro è una condizione della
presenza nella modernità che Nietzsche intuisce con
grande chiarezza; ce l’addita come destino
ineluttabile, ma non come disgrazia: Zarathustra
intende appunto mostrarci il fuoco della salvezza,
far parola del caos che agita l’Essere alla radice, per
condurci di là della presenza lacerata che
contraddistingue l’uomo moderno. Se quest’ultima
si caratterizza infatti per la sua costante attesa di
novità, di cambiamento, di insoddisfazione verso il
presente, sempre imperfetto, sempre inadeguato alle
aspettative, lo Zarathustra nietzscheano abita la
14
presenza nella pienezza del volere e da lì guarda
fuori, senza nostalgia per il passato, senza speranza
per il futuro. Egli va verso l’altrove, ma ogni passo,
realizzando tutto il tempo che lo costituisce, è
sempre qui, perfettamente a proprio agio, presente
e vigile. Zarathustra, in questo senso, è un pellegrino
che cammina sui propri passi, che cammina in
cerchio, ricreando l’origine della presenza ad ogni
istante. Non ha dunque bisogno d’orientarsi, poiché
egli è l’orientamento.
Nietzsche ci mostra che l’identità è possibile,
anche quando la Storia, Dio e l’uomo, in quanto
figlio di Dio e della Storia, non sono più credibili; e
ciò a partire da un nuovo modo di considerare la
presenza, in cui trova collocazione la figura del
nomade, del viandante, di colui che ha assunto su di
sé la responsabilità dell’erranza.
Qualcosa di simile accade anche in Jorge Luis
Borges. Nella Biblioteca di Babele (1941), è vero, egli
ci parla del gran labirinto dell’Essere, cui la
Biblioteca è corpo e parola, possibilità d’inesauribile
attraversamento; ma essa è anche garanzia
d’immaginare l’altrove giacché, pur essendo
tendenzialmente infinita, non è astratta, bensì luogo
15
concreto, costellazione di percorsi possibili a partire
da una collocazione particolare, odore e peso in cui
l’uomo sente e vede e riconosce, per alcun tempo,
una prospettiva.
È dunque la finitezza, nel progetto borgesiano, a
garantire un orientamento, sia pure sempre parziale:
l’essere qui per un certo tempo, l’essere qui non in
eterno. È lei a regolare gli snodi del labirinto; lei ad
obbligarci ad un punto di vista, a rendere fratelli
verità e punto di vista.
Detto altrimenti: la Biblioteca infinita borgesiana
contiene il labirinto nel quale il viandante cerca un
senso alla propria collocazione; ma Biblioteca,
labirinto e viandante stanno l’uno dentro l’altro, in
una prospettiva plurima il cui enigma, ci spiega
l’argentino, forse qualcuno un giorno riuscirà a
svelare. Se ciò accadesse, continua, egli diverrebbe
“simile a dio” (La Biblioteca di Babele, in J. L. Borges,
Tutte le opere, vol. I, Mondadori, 1984, p.686). Ma
esisterà mai quest’uomo? Per intanto, egli ci
suggerisce, impariamo ad accettare il fatto che ogni
rappresentazione è soltanto, ma necessariamente,
un punto di vista. Un punto di vista, tuttavia,
essenzialmente legato all’universale: l’occhio infatti
vede il labirinto attraverso la lente del labirinto
16
stesso. Come dire: l’occhio riconosce un paesaggio
in forma d’iride nel quale si specchia. Se cambia
occhio, cambia paesaggio. Però ciò che ciascun
occhio vede non è illusorio: il mondo davvero gli
vive dentro, fra la pupilla e la retina. E gli vive fuori,
essendo il corpo vivo nel quale esso stesso ha la
possibilità di vedere. Ciascun uomo vive dunque
nella rete di una figura circolare complessivamente
indefinibile, e con essa interagisce, modificandola.
Scrive in tal senso Borges, vinto quasi dalla
commozione: “Presi un pugno di sabbia, lo lasciai
cadere silenziosamente un po’ più lontano e dissi a
bassa voce: Sto modificando il Sahara” (Deserto,
annotazioni d’Atlante [1984] in Tutte le opere, vol. II,
cit., p.1411).
Nel 1935 uscì Auto da fé di Elias Canetti, la storia
tragicomica di un sinologo viennese, Peter Kien, le
cui due inesauribili risorse sono la memoria e la
mania per i libri. In questo suo abitare spaesato,
donchisciottesco, egli vede ciò che immagina, crede
in ciò che vede e soprattutto va, esattamente come
l’hidalgo spagnolo, là dove lo porta la testa ingombra
di libri. Peter Kien, in effetti, è “l’uomo dei libri” in
tre sensi: appartiene ai libri, è loro servitore; egli
17
inoltre vive passionalmente per i libri e – come
racconta l’ultima pagina del romanzo – muore con
loro; il nome stesso, infine, ne segna il destino: la
parola cinese che più s’avvicina a Kien, infatti, è Ken;
letteralmente: “fare ricerche sui libri”.
Il primo nome del protagonista doveva essere B.,
il “Buchermensch”, l’uomo del libri, appunto (La
coscienza delle parole [1975], in E. Canetti, Opere,
Boringhieri, 1993, vol.II, p.311). Com’è noto,
durante l’elaborazione del romanzo altri nomi si
sono succeduti a quello originario: Brand, Kant;
infine Peter Kien. Anche il titolo ha subito
metamorfosi: Kant va a fuoco diventa L’abbagliamento
o L’accecamento (a seconda della traduzione) che
diventano La torre di Babele nella versione americana,
e Auto da fé in quella italiana. Di volta in volta, si dà
peso al fuoco, al delirio, alla lingua, al libro; facce
tutte del medesimo romanzo, chiavi possibili di
lettura ma anche, prese singolarmente, visioni del
mondo in cerca di sistemazione. Ma è col rogo finale
che si compie l’ultima, definitiva, metamorfosi:
scompaiono i nomi, i luoghi, i personaggi, i libri;
termina Auto da fé; al lettore rimane, per alcun tempo
18
nella memoria, l’odore del fumo, il terrore della
morte e, chiuso in mano, il libro che stava leggendo.
La memoria e la mano, come il titolo di una silloge
poetica di Edmond Jabès, autore egiziano che, al
pari di Borges e Canetti, comprende la presenza a
partire dall’allegoria del libro: “Camminerai dentro
il libro: ogni parola è un abisso dove l’ala riluce con
il nome” scrive ne Il libro delle interrogazioni (Marietti,
1995, III ed., p.13). Un solo e immenso libro il suo,
un libro di sabbia, sul quale il popolo ebraico
rintraccia la verità del proprio destino nomadico.
Verità che è alterità senza conciliazione, che è
l’essere straniero in ogni luogo.
19
2. Lo straniero e l’esilio
L’essere straniero in ogni luogo: la propria randagia
presenza, ma anche l’Essere che è sempre altrove; il
libro di sabbia di cui riferisce Jabès contiene appunto
questo: l’assenza, la presenza e la parola che si sa
incapace di riconciliarle. Parola che non per questo
rimane inerte; essa invece interroga chi la pronuncia,
accompagna chi l’accompagna: in questo recinto
circolare di terra e cielo, di domanda e di risposta
mai soddisfacente, la scrittura jabèsiana muove i
propri passi. Dice l’erranza. Mostra la realtà
dell’erranza. Ma lo fa senza nostalgia, con la gioia di
chi conosce la grazia d’essere qui, sul foglio bianco,
con lo sguardo incantato dall’abisso.
Anche l’uomo, come la scrittura, va lasciando
tracce, testimone gioioso della verità di Colui che
sempre passa: del Dio assente. Per questo l’essere
qui, in Jabès, è già, sempre, un essere altrove.
L’identità migra, si fa, sin dapprincipio, straniera a
se stessa. Ella è in esilio, sorella dell’Alterità
maggiore: “L’erranza è il nostro luogo” egli ci
insegna nel Libro dell’ospitalità (Cortina, 1991, p.49)
20
C’è tuttavia un esilio in terra che è condanna e
lacerazione, ferita partorita dalla violenza umana: ce
lo mostrano Sarah, l’amorosa fanciulla del Libro delle
interrogazioni (1963), impazzita dopo l’orrore della
deportazione nazista, e Yukel, il suo compagno
suicida. In loro, l’erranza si fa oblio, insensatezza,
solitudine, additandoci un destino di sofferenza
continuamente incarnato nella Storia, luogo della
sopraffazione di chi pretende di conquistare il
centro e che identifica la forza con il dominio.
Di contro a questa miseria, Jabès e Borges –
ancor più di Canetti – accettando lo spaesamento,
consentono al viandante la libertà della debolezza e
dell’ospitalità; tracciano una possibilità della
presenza, che non sia prevaricatrice; indicano nella
parola il giardino di nessuno in cui condividere la
propria erranza; ci mostrano che l’essere stranieri è
la condizione di partenza e d’arrivo, e che questa
non può essere tolta senza rinnovare la violenza.
Jabès rende esplicito quest’ultimo aspetto in Uno
straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato
(1989). Qui egli nomina altri due fanciulli, il cui
passaggio segnò la soglia tra due culture opposte:
quella stanziale e quella nomadica. E s’interroga,
21
parafrasando la Genesi: perché Caino, proprietario di
una terra coltivata con il sudore della fronte,
avrebbe dovuto prendersi cura “del nomade Abele
che ha scelto l’erranza e la rinuncia ai beni della
terra”?
La risposta che egli ci offre rimane sospesa,
chiede ulteriori interrogazioni. Ma di sicuro
ribadisce il significato profondo dell’omicidio del
nomade, in quanto segna miticamente l’inizio della
storia della civiltà stanziale; una storia, ci suggerisce,
inaugurata tuttavia non dalla conciliazione, bensì dal
dolore della fuga e dell’esilio: “Spaventato, Caino da
allora cercò di fuggire a Caino” (SE ed., 1991, pp.53-
54).
Caino, in questo senso, è il prototipo del
fuggitivo, di colui che sopravvive colpevole, lontano
tanto dalla leggerezza di Zarathustra quanto
dall’erranza suggerita da Borges e da Jabès. Il suo, è
un abitare la terra che assomiglia piuttosto a quello
di Meursault, il protagonista dello Straniero (1942) di
Albert Camus.
Entrambi infatti patiscono un immedicabile
esilio; e tuttavia, mentre il fratricida conosce vittima,
giudice e movente, Meursault diventa assassino
22
senza una ragione necessaria. Egli insomma pare
assassino per gratuità, a meno di non riconoscerne
l’impulso originario nel senso di colpa che segna
nascostamente Lo straniero (e ne determina, come in
Caino, l’esilio).
Approfondiamo la questione, partendo da un
breve riassunto orientativo. Prima parte: Meursault
presenzia il funerale della propria madre, si bagna al
mare con l’amante, frequenta un vicino di casa,
uccide un uomo; seconda parte: l’omicida viene
arrestato, processato e condannato a morte. Ad
inquietare il lettore, non è tanto la vicenda in sé
(povera di meccanismi ad effetto e schematica nella
costruzione dei personaggi), quanto il distacco
emotivo del protagonista, l’estraneità del suo
sguardo, la cui quasi impercettibile mutevolezza
s’incarna, amplificandosi, nelle tonalità cromatiche
del cielo: cielo giallo, verde, “biondo”, cielo come
cappa sopra la testa. E quando, alla fine della prima
parte del romanzo, esso biblicamente si dischiude,
“per lasciar piovere fuoco”, per farsi segno, ecco che
Meursault trova il coraggio per agire malvagiamente,
per dare sostanza ad una colpa di cui prima pativa il
fio senza consapevolezza.
23
Proprio a questo serve l’omicidio dell’arabo: a
ridare senso all’esilio in cui Meursault da sempre si
trova, esilio altrimenti insopportabile e niente
affatto differente da quello di Clamence,
monologante camusiano nella Caduta (1956), il quale
dice di sé, con rammarico: “Dimenticavo tutto, e in
primo luogo le mie risoluzioni. In fondo, non v’era
niente che contasse. Guerra, suicidio, amore,
miseria: costretto dalle circostanze, vi prestavo
attenzione, certo, ma in modo cortese e superficiale.
A volte facevo mostra di appassionarmi per una
causa estranea alla mia vita quotidiana... Come
potrei dire? Tutto scivolava, sì, su di me scivolava”
(in A.Camus, Opere, Bompiani, 1988, p.1149).
Questo, in effetti, è anche il ritratto di Meursault, un
uomo che, come Clamence, acquista la memoria
appena riesce a dare un nome alla propria colpa. A
quella che crede la propria colpa. Perché invero
Meursault (e così Clamence) è straniero anzitutto ad
essa. Ciò di cui egli è colpevole – potremmo dire,
paradossalmente – è di aver dimenticato la colpa
originaria. Ma essa, come abbiamo accennato,
inesorabilmente scava, lo provoca, gli chiede
udienza, fino a dominarlo, ad obbligarlo a
commettere un omicidio. Quest’atto orrendo
24
potrebbe essere la fine coerente, distruttiva, di un
uomo senza qualità, di un inetto che precipita nella
propria imperizia. Invece esso si rivela ricco di
prospettiva: se infatti, fino a quel momento, il
destino di Meursault sembrava incerto, vago, in
balia delle circostanze più effimere,
successivamente esso prende fisionomia
intelligibile, acquista un senso necessario. E ciò,
appunto, grazie alla sequenza “morale” che
l’omicidio scatena: la colpevolezza pretende un
giudice, vuole una sentenza, esige un’espiazione. In
questo percorso, lo straniero smette d’essere
estraneo ad ogni accadimento, per iniziare un
viaggio sì necessario, ma non più spaesante. Egli
ritrova le ragioni del proprio particolare essere nel
mondo, quello di colui che abita il proprio esilio
colpevole, vivendolo in una continua, e
paradossalmente felice, espiazione.
Nei racconti dell’Esilio e il regno (1957) – e nella
Caduta, racconto autonomo, ma che
originariamente avrebbe dovuto far parte della
raccolta in questione – questa condizione appare
massimamente evidente. Due esempi. L’adultera,
nel primo ed omonimo dei sei racconti di cui si
25
compone l’opera, si concede all’incanto tenero della
notte, in un amplesso mistico e voluttuoso con essa.
Espierà questa colpevole intimità, questo esilio
volontario, tornando moglie fedele e remissiva; ma
oramai l’abbraccio celeste le ha indicato un nuovo
regno, al quale d’ora in avanti fare affidamento per
ritrovarsi. Di tanto in tanto. In segreto.
Il protagonista dell’Ospite ha scelto invece l’esilio
della montagna, la lontananza dagli uomini. E anche
quando la Storia – attraverso il suo emblema più
potente: la legge – vorrà farne strumento della
giustizia umana, egli preferirà disobbedire, per
rivendicare la propria, originaria, indipendenza.
Tutto questo ha un costo: l’incomprensione e la
minaccia mortale di chi lo vuole a servizio di una
causa. Ma questi pericoli sono appunto la sostanza
dell’espiazione, in cambio della quale egli può
godere d’un regno che si concretizza nella libertà
d’essere se stesso. E non può esserci l’uno senza
l’altra.
26
3. Sul nomadismo degli autori
La biografia ricostruisce un’erranza entro lo
spazio condivisibile della parola, rispettando i luoghi
in cui la vita s’è accampata. Ma la biografia affiora
anche là dove nessuno la chiama; ce lo conferma
Borges nell’epilogo dell’Artefice (1960): “Un uomo si
propone il compito di disegnare il mondo.
Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con
immagini di province, di regni, di montagne, di baie,
di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di
astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire,
scopre che quel paziente labirinto di linee traccia
l’immagine del suo volto” (in Tutte le opere, vol. I, cit.,
p.1267).
Borges bruciò l’infanzia, l’adolescenza e la
giovinezza, in un crogiolo di lingue e di città:
portoghese, inglese, spagnolo, francese, tedesco,
latino ed arabo; Buenos Aires, Adrougué, Ginevra,
Lugano, Majorca, Siviglia, Madrid, Londra, Parigi.
Venticinque anni a dorso d’una famiglia randagia e
carica di frutti, dalla quale imparò che sempre il
cammino “ciecamente si biforca in due /...
27
ciecamente si biforca in due” (Elogio dell’Ombra, in
Tutte le opere, vol. II, cit., p.279).
Come nello Steinof – la cittadella manicomiale
viennese – si muovono seimila folli, l’uno differente
dall’altro, così lo scrittore, sostiene Elias Canetti,
deve anzitutto inventare dei personaggi originali che
siano la lacerazione in atto, la molteplicità dell’essere
tenuta insieme da una mania specifica. Peter Kien,
l’uomo del libri, è appunto questo: un’incarnazione
particolare del mondo “andato in pezzi”, una sua
maschera parlante. Ma la molteplicità non
appartiene soltanto alla malattia o alla letteratura; nel
frutto del fuoco (1980), Canetti confessa: “Dall’età di
dieci anni, sempre avevo avuto la sensazione di
essere costituito da molti personaggi diversi... Era
una corrente multiforme, che... non si esauriva mai”
(in Opere, vol. II, cit., p.957).
Veza, la sua compagna, fra gli altri ebbe questo
gran pregio: gli insegnò a costruire la “propria
molteplicità”, a considerarla un punto d’appoggio,
per diventare vero scrittore. Io sono molti pare dire
l’ebreo Canetti; di ognuno porto le stigmate, ma
anche la consapevolezza della presenza che sa dire
“noi”.
28
Ne La missione dello scrittore, discorso tenuto a
Monaco di Baviera nel gennaio 1976 (ora ne La
coscienza delle parole, in Opere, cit.), Canetti ribadisce la
necessità secondo la quale lo scrittore, pur
accettando il molteplice e riconoscendo al caos
statuto fondativo del reale, non rinunci tuttavia “alla
speranza di poterlo dominare per gli altri e dunque
per sé” (Ivi, p.372). In questo senso, lo scrittore si
fa sciamano, così com’egli lo tratteggia in Massa e
potere (1960): “Lo sciamano mediante le sue
metamorfosi chiama a sé gli spiriti aiutanti che gli
obbediscono. Egli stesso li afferra e li costringe
mediante le sue pratiche ad aiutarlo. Lo sciamano è
attivo... egli penetra entro i più remoti mondi celesti
e sotterranei... Vola e sale... Cala, affonda... E
sempre ritorna al centro, ove coloro che lo
circondano attendono ansiosamente il suo
messaggio” (in Opere, vol. I, cit., p.1399).
Riposa in quest’assunzione di responsabilità -
che non è politica bensì, piuttosto, antropologica -
il compito primo dello scrittore, il quale si
concretizza poi, come Canetti scrive nella Missione
dello scrittore, nell’insegnare agli uomini a “resistere
alla morte” (ed. cit., p.373), e nell’additare loro
29
mappe abitabili che consentano di uscire dal
labirinto: “Si indaghi sul nulla con l’unico intento di
trovare la strada per uscirne, e questa strada la si
mostri ad ognuno” (Ivi, p.375).
La prospettiva in cui Elias Canetti affronta le
tematiche di Massa e potere possiede la stessa
improbabile distanza nella quale Peter Kien
sperimenta la vita: un ‘troppo vicino’ che si traduce
in un procedere vagantivo, scorniciato, ai margini
della Storia. Lo prova, per esempio, l’incoerenza tra
il progetto d’avvio e l’effettiva realizzazione
dell’opera: scritta per comprendere il fenomeno
della massificazione negli anni Venti in Europa
(dunque per studiare un fenomeno storico
circoscrivibile), essa approfondirà invece - quasi
esclusivamente - le strutture astoriche, mitiche, che
regolano il rapporto tra la massa, il potere e
l’individuo.
In tal modo, Canetti opera un’inversione di rotta
mossa dal desiderio d’ottenere un frutto che
attraversasse le epoche, che ne superasse la
relatività. Come se dentro la polpa del divenire, della
linea che lega l’istante precedente all’istante
successivo, ci fossero delle costanti non ancora
30
disvelate: non tuttavia la ciclicità vichiana, né la
dialettica hegeliana o il determinismo storicistico
novecentesco; qualcosa d’altro, da indagare con
l’occhio del cane in usta o del pignolissimo bibliofilo
Peter Kein. Un lavoro ai margini della Storia,
appunto, ai margini della civilizzazione.
Massa e potere fu un sogno d’esaustività e di
completezza che rubò a Canetti trent’anni di vita,
costringendolo ad immergersi in sconfinate letture.
Ma anche quest’onnivora, incontrollabile,
asistematica cultura mai, però, suffragata da
verifiche sul campo, attesta l’originalità del suo
modo d’intendere il viaggio: quasi che, per Canetti,
l’immenso archivio scritto del sapere universale,
tramandatosi nel chiuso delle biblioteche, bastasse
alla comprensione della verità sul mondo e sugli
uomini. Come se la vita si potesse decifrare
leggendo il racconto d’altre vite, senza l’obbligo di
correrle appresso, fuori dal libro. Un nomadismo
nella terra del libro, dunque, nella convinzione che
la parola scritta tramandi, più dell’esperienza
concreta, ciò che conta.
Ma a ben vedere Canetti, come Borges, è
scrittore nomadico sin dapprincipio. Prima ancora
31
d’avviarsi nel labirinto del Libro, egli cresce infatti
in un coagulo di etnie, di lingue e di culture che
diventeranno emblema concreto d’una condizione
futura dello spirito: “Rustschuk – ricorda lo
scrittore ne La lingua salvata (1977) – sul basso
Danubio, dove sono venuto al mondo... in un solo
giorno si potevano sentire sette o otto lingue. Oltre
ai bulgari... c’erano molti turchi... greci, albanesi,
armeni, zingari... rumeni... russi” ed ebrei sefarditi.
E aggiunge: “Tutto ciò che ho provato e vissuto in
seguito era sempre già accaduto a Rustschuk”, a
sottolineare sì l’importanza di quei primi anni di vita
per l’avvenire della propria opera, ma anche la
consapevolezza che la terra dei libri dovesse
necessariamente completare quell’esperienza, per
renderla davvero universale (in Opere, vol. II, cit., pp.
386-387).
Da Rustschuk, cittadina portuale ai confini
dell’Europa, Canetti e famiglia si trasferiranno a
Manchester, poi a Vienna, Zurigo, Francoforte,
Berlino e ancora a Vienna: a venticinque anni,
Canetti ha già visitato il paradiso e l’inferno,
conosce il mondo-caos ed intravede la lingua
abilitata a decifrarne l’enigma.
32
Questo apprendistato – e quello di poco
successivo, conclusosi con l’ultima, definitiva,
migrazione a Londra, nel 1937 – egli lo ricostuì in
tarda età, fissandolo in un’autobiografia che lega il
lettore per quasi 1200 pagine e lo obbliga, di libro in
libro, di metamorfosi in metamorfosi, a seguirne le
tappe. Alla fine di questo percorso iniziatico,
conclusosi con la morte della madre (il padre lo
perse in giovanissima età), lo scrittore si mostra
pronto ad assumersi la propria, precipua,
responsabilità, quella di farsi sciamano, appunto,
alchimista in grado di trasformare il piombo mortale
dell’esperienza in verbo capace d’orientare.
A differenza di Borges e di Canetti, la
fanciullezza di Albert Camus non conosce geografie
straniere. Soltanto un minuscolo spostamento da
Mondovi, in Algeria, alla capitale. E però, la miseria
in cui sta crescendo, la madre analfabeta, la morte
prematura del padre, una malattia precoce ai
polmoni lasceranno comunque un segno, daranno
ferita ad un futuro che sarà, ad un tempo, di grazia
e di condanna. Vengono poi, in successione, il
trasferimento a Parigi, nel 1940, e il sentimento
d’essere lontano, irrimediabilmente lontano da ciò
33
che sta cercando. È la guerra, certo, ma anche la
percezione di scivolare verso una morte infelice, tra
l’incomprensione degli intellettuali engagé ed un
clima continentale mal sopportato. Che bella l’Italia,
la Grecia, il Mediterraneo! Lo scriverà spesso, ma
soltanto di rado riuscirà a goderne i frutti. Morirà
d’incidente stradale a 46 anni, nel 1960. Ora riposa
a Lourmarin, in Provenza, nel paese pieno di sole in
cui aveva acquistato una casa due anni prima. Tra
Mondovi e Lourmarin, ci sono Algeri, Parigi,
Clermont-Ferrand, Lione, Orano e di nuovo Parigi:
una piccola odissea, che però non riconosce in Itaca
il ritorno.
Il Nobel costituì l’opportunità, per Camus, di
gridare al mondo il proprio bisogno d’appartenenza,
ma anche di ribadire la volontà di espiazione, la
stessa provata dai suoi personaggi. L’appartenenza,
nel Discorso pronunciato in occasione del premio, il
10 dicembre del 1957, è quella dello scrittore alla
comunità che lo mantiene, alla quale vorrebbe
rendere, con la propria opera e in contraccambio,
servigio: “Lo scrittore – egli disse – può ritrovare il
sentimento di una comunità vivente che lo
giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché
34
può, i due impegni che fanno la grandezza della sua
missione: essere al servizio della verità e della
libertà” (in Opere, cit., p.1241).
L’espiazione traspare invece quando ammette,
rispetto alla necessità appena annunciata: “Quanto
a me devo dire una volta di più che non sono niente
di tutto questo. Non ho mai potuto rinunciare alla
luce, alla felicità di esistere, alla vita libera in cui sono
cresciuto” (Ivi, p.1243). Non credo che questa
conclusione sia malcelata modestia: la luce, la
felicità, la vita libera non si piegano all’accademia
polverosa di Svezia; semmai la fuggono. Penso
invece che a parlare, qui, non sia Camus, bensì, sotto
mentite spoglie, Meursault, per cercare un nuovo
giudice, una nuova condanna: non più questa volta
in un’aula di tribunale, come nello Straniero, bensì di
fronte al mondo, a quella comunità che lo celebra
ed onora: di fronte ad essa, Camus-Meursault
dichiara una colpa falsa, sente il bisogno
irrefrenabile di accusarsi di un delitto che non ha
commesso (l’aver tradito la missione dello scrittore)
per espiare una colpa vera, quella originaria, che
rimase sempre in lui (ed in noi, suoi lettori) senza
nome.
35
Se in Camus, più che della condizione nomadica,
conviene parlare di quella d’esiliato, la cui felicità
coincide con l’espiazione senza requie, non bisogna
tuttavia dimenticare il fascino che esercitò su di lui
un uomo che fece dell’erranza virtuosa principio di
vita. Mi riferisco a Pascal Pia, scrittore che sposò le
cause più disparate, influenzando la crema
dell’intelligencija francese degli anni Trenta e
Quaranta, per poi prendere da loro le distanze,
scegliendo per sé la purezza dello sradicamento. Di
lui, nei Taccuini Camus scrisse: “Pia e i documenti
che scompariranno. Lo sminuzzamento volontario.
Davanti al nulla, l’edonismo e il continuo spostarsi.
Lo spirito storico diventa così spirito geografico”
(passo citato da R. Grenier in Introduzione a A.
Camus, Opere, cit., p. XII).
Di Pia, troviamo una trasfigurazione ne “l’uomo
assurdo”, capitolo centrale del Mito di Sisifo: “Sicuro
della sua libertà a termine, della sua rivolta senza
avvenire e della sua coscienza peritura, l’uomo
assurdo corre la sua avventura per tutto il tempo
della vita. Là è il suo campo, là è l’azione che egli
sottrae ad ogni giudizio che non sia il proprio” (in
Opere, cit., p.261).
36
Anche Edmond Jabès, in fondo, non ha patria:
L’israelita - ribadisce nel Libro dell’ospitalità - ha
perduto la sua radice nomadica, la sua vocazione al
dialogo, per darsi ad una difesa acritica della propria
identità statuaria. E si chiede: “Se dentro di me
penso che... [l’identità] politica è per quello Stato
pericolosa, nefasta, detestabile, devo forse tacere?”
(ed. cit., p.38). E altrove, per contrasto: “La salvezza
del popolo ebreo è nella rottura, nella solidarietà in
seno alla rottura” (Il libro delle interrogazioni, cit., p.89).
La solidarietà cui egli riferisce non appartiene
all’identità nazionale, al recinto che accomuna il
gregge: essa nasce piuttosto dalla ferita, dal grido di
Sarah e di Yukel, dal sentirsi perennemente in un
cammino interrogante, dal darsi all’altro senza
annullarne l’alterità, dalla condivisione dell’origine
mai rivelatasi e, con valore ancora più
fondamentale, dal sapere che il libro dell’ebraismo
inizia con l’assenza del Principio.
La differenza tra l’ebreo e il non ebreo sta
appunto in questa finale, cabalistica,
consapevolezza, e in null’altro: In principio –
“Bereshit”, in ebraico – con il quale comincia la
Torah, manca della prima lettera alfabetica, l’Aleph.
37
Per la mistica ebraica, è come se al Libro mancasse
l’origine, come se su di essa fosse caduto l’oblio. Da
questa assenza insanabile, da questo silenzio del
Principio dal quale scaturisce il principio della
parola sacra, comincia per Jabès l’erranza
interrogante dell’ebreo. Erranza che è condivisione,
ospitalità, non-violenza, offerta di sé ad ogni essere
vivente che lo chieda: “Ho, dell’Ebreo, la ferita. –
scrive nel libro delle interrogazioni, a p. 53 – Sono stato
come te circonciso l’ottavo giorno della mia nascita.
Sono Ebreo, come te, per ciascuna mia ferita. Ma
un uomo non vale forse un uomo?”
Sotto questo profilo, l’ebreo jabèsiano, lungi dal
riconoscersi in una patria, altro non è che l’allegoria
dell’errante, la personificazione dell’interrogare
inesausto, come giustamente sospetta Jacques
Derrida ne La scrittura e la differenza (1967). Facile
comprendere allora perché la comunità israelitica –
orgogliosa nel rivendicare la propria originale
identità, soprattutto dopo l’orrore dei lager e la
fondazione d’Israele – abbia vissuto la posizione
straniante di Jabès come un tradimento. Ne fa
parola con dolore egli stesso, più volte.
38
Una considerazione, infine, sui libri, le
fotografie, i disegni di amici conservati nel suo
studio parigino e sopravvissuti all’esilio: sono tracce
d’un passaggio, presenze custodite, consacrate alla
memoria. A quella sua, ma anche alla nostra,
testimoni di quanto Antonio Prete ci racconta nella
bella post-fazione al Libro dell’ospitalità.
In un continuo rimando di suggestioni,
immaginiamo l’emozione dello studioso
leopardiano di fronte allo scrittoio di Jabès “nel
cuore di Parigi”, il vecchio saggio egiziano che si fa
piccolo, le parole rare, il silenzio, la risonanza del
grido, la prossimità che è anche distanza, che è
solitudine di ciascuno di fronte alla morte: tutto
questo parla di noi, del tempo in cui anche noi
decideremo d’attraversare il deserto, per
riconoscerci finalmente stranieri. Per ritrovarci
stranieri.
39
La lacerazione nel labirinto
1. Introduzione
Elias Canetti, Jorge Luis Borges, Edmond Jabès
e Albert Camus sono stati chiamati in causa come
testimoni, poiché a loro (e a pochi altri vagantivi) va
attribuita la costanza dello sguardo che ha saputo
indagare, fino in fondo ma senza disperazione, la
perdita di centralità del soggetto nel Novecento. A
tale deriva spaesante, essi hanno contrapposto,
ciascuno dalla propria soglia, l’erranza consapevole,
l’assunzione di responsabilità, la pietas verso i viventi
e la convinzione che la parola possa dire la ferita,
mostrarla nel suo fondamento ontologico. Vi sono
stati tuttavia altri scrittori i quali, rinunciando
40
esplicitamente ad additare una presenza capace di
collocazione nel labirinto, ne hanno invece
evidenziato la lacerazione; fra questi, Samuel
Beckett ed Eugène Ionesco.
41
2. La matrice gnostica del pessimismo di
Samuel Beckett
In una formula (e in via ancora sommaria)
potremmo affermare che, quanto i personaggi
beckettiani attendono non è, genericamente, un
evento qualsiasi bensì, più profondamente, quel
tempo capace di inaugurare la novità, di ridare senso
(e dunque direzione, orientamento) all’esistenza. Va
letta in quest’accezione l’immobilità di Estragone e
Vladimiro, in Aspettando Godot (1953): essi aspettano
quel tempo autenticamente in grado di avviare i loro
destini, di farli uscire dalla ripetizione fine a se
stessa, dall’abitare in un luogo ricco sì d’azioni, ma
tutte senza conseguenze; allacciare le scarpe,
slacciarle, muoversi sulla scena, incontrare
qualcuno, persino parlare: situazioni, tutte, che
bruciano accadendo, che esauriscono la loro spinta
causale nell’attimo stesso in cui si verificano. Ci
vorrebbe Godot per dar loro una motivazione, ma
lui, il Salvatore, non giunge, si fa attendere
inutilmente, manda suoi servi a scusarsi del mancato
arrivo. Vero tuttavia che egli, come ammettono gli
stessi due vagabondi, forse ha le sue buone ragioni
42
a tardare, visto che deve, prima di partire,
“consultarsi con la famiglia, coi suoi amici, i suoi
agenti, i suoi corrispondenti, i suoi registri, il suo
conto in banca” (Aspettando Godot, in Teatro di Samuel
Beckett, Mondadori, 1981 [IV rist.], p.37).
Godot ci appare, in questo contesto, come
quell’uno temporale che darà via al molteplice, ma
anche come colui che, dal molteplice (famiglia,
amici, denaro ecc.), già sempre dipende. Non
soltanto dipende, ma con esso dovrà,
inevitabilmente, compromettersi, stare al gioco,
barattare questo con quello secondo il principio
dell’utile. In questo senso Godot è una figura
doppia, salvifica e mendace, Cristo liberatore ma
anche Satana del legame interessato.
Del resto, che il tempo destinato ai mortali
avesse questa duplice connotazione ce lo aveva
confermato altrove lo stesso Beckett: esso – scrisse
in un breve saggio del 1931 – è un “mostro a due
teste che dà la dannazione e la salvezza” (Proust,
Sugarco, 1994, p.25).
Anche Godot, pur presente in scena soltanto in
quanto tempo effimero, riesce a realizzare entrambi
i momenti: egli è dannazione poiché, in quanto dio
dell’evanescenza, riduce il presente ad unica
43
dimensione della vita, segnata perciò dalla
ripetizione; ma appunto perché cancella nella
memoria dei personaggi ogni traccia delle ferite
passate, esso infonde involontariamente speranza,
un’attesa del nuovo bastevole a salvare i mortali dal
suicidio.
Rimane precluso ai terrestri del dramma il tempo
altro, autenticamente innovatore, del quale Godot,
dio minore di un olimpo tutto da decifrare,
s’ingegna pallido imitatore. Sotto questo profilo egli
assomiglia ad Akhamoth, quel dio-femmina dello
gnosticismo che, per avere voluto rivaleggiare con il
Principio increato, fu punito e messo in una sorta di
purgatorio. La pena cui Godot è soggetto potrebbe
essere appunto questa: poter essere presente fra i
mortali soltanto in quanto tempo effimero.
Le conseguenze sui terrestri sono disastrose:
l’erranza si fa deriva, l’esilio è in nessun luogo e le
parole perdono spessore, si svuotano, quasi che
nessuna di loro possa indicare il senso di
quest’abitare spaesato, in un deserto che è sabbia,
sete e null’altro.
44
Per approfondire la condizione degli umani
nell’universo beckettiano, conviene passare
attraverso un altro personaggio che vive, come
Godot, in una condizione duale e inappagata; si
tratta dell’Innominabile, nell’omonimo romanzo
uscito anch’esso nel 1953.
Anzitutto, l’Innominabile incarna la dualità del
discorso pre-logico, quella in atto prima d’ogni
cominciamento di senso univoco. Il suo vociare
monologante, che caratterizza l’intero testo, può
infatti essere pensato come il tentativo del discorso
in fieri di giungere fin sul limitare della propria
dicibilità. Per venire alla luce, tuttavia, per darsi alla
comprensione secondo il principio d’identità, esso
dovrebbe prima ricomporre il dualismo originario.
Ma è proprio questo che Beckett considera
l’inganno della logica: l’identità è figura lacerata,
incompleta, che mai potrà nominare la verità nella
sua interezza. L’Innominabile vuole invece attestare
una presenza che preveda la contraddizione, che la
metta in essere attraverso la parola. A tal fine
l’autore costruisce, come con Godot, un
personaggio essenzialmente temporale.
L’Innominabile infatti è figura pre-logica proprio
perché in esso agiscono, simultaneamente, il tempo
45
circolare ed il tempo lineare. Il suo dis-correre è
pervaso da questo intersecarsi, dall’essere in balìa
dell’uno e dell’altro, in un giogo che lo rende libero
di contraddirsi.
Accade già all’inizio del romanzo: “E dove, ora?
Quando, ora? Chi, ora? Senza domandarmelo. Dire
io. Senza pensarlo. Chiamarlo domande, ipotesi.
Andare avanti, chiamarlo andare, chiamarlo
avanti.”: fino a qua il cerchio, l’impossibilità del
discorso d’avventurarsi nel progetto. Ma subito
dopo: “Può darsi che un giorno, ecco un primo
passo...” (L’Innominabile, in Trilogia, Einaudi, 1996,
p.323). Finalmente, il tempo lineare entra in scena,
obbliga la voce a continuare; ma è un istante, perché
poi, senza soluzione di continuità, la storia torna su
di sé, si avvolge, ricomincia da capo, per poi fare di
nuovo un balzo in avanti, in un procedere, appunto,
duplice: lineare e circolare, in un intreccio che non
è sommativo, bensì generativo, capace di tenere unito
l’Innominabile, di farlo essere tondo e informe, qui
e altrove, colui che parla e colui che è parlato.
L’Innominabile è questa stessa unità, che ha in
sé l’uno e il molteplice, l’identico e il differente, la
caducità e l’eternità. Eppure, vista l’insoddisfazione
di quest’essere proteiforme e la sua voglia di
46
ritrovarsi in un’unità superiore, dovremmo
ammettere che nemmeno una lingua contraddittoria
può tenere fra le proprie labbra il Vero, dargli
finalmente dimora. A meno che – e qui si gioca la
radice gnostica del discorso beckettiano – il Vero
stesso non sia duplice e insoddisfatto. Allo stesso
modo dell’Innominabile e di Godot.
Il fatto è che, come Godot, anche l’Innominabile
è figura intermedia, un dio minore in stato di ferma,
tenuto d’occhio da alcuni guardiani, a loro volta
dipendenti da un padrone. Della prigionia di Godot
non sappiamo nulla; l’abbiamo ipotizzata
immaginandolo parente di Akhamoth, di un dio
decaduto e presuntuoso della cosmogonia gnostica.
Quasi che, come Akhamoth, anche Godot avesse
trasgredito una funzione, una gerarchia e, per
questo, fosse stato condannato a vivere lacerato,
diviso, solo. A vivere in una transizione dolorosa su
maleficio di un dio superiore, custode d’ogni cosa.
Ad illuminarci su questa entità ci pensa invece
l’Innominabile. Ad un certo momento delle sue
evoluzioni-involuzioni, egli sospetta infatti di non
essere l’unica vittima della faccenda, ma che tutti,
padroni e guardiani compresi, siano dipendenti da
una causa ancora più alta, “l’eterno terzo” che
47
impone a ciascuno una singolare condanna: esaurire
tutte le parole di cui dispone (Ivi, p.420). Parole –
afferma altrove l’Innominabile – che sono rumore,
fastidio nell’orecchio, vomito dalle labbra, scorze; i
divini in particolare, ci dice quest’essere
proteiforme, sono talmente sovraccarichi di parole,
da costringere i mortali a smaltirle per loro (Ivi,
p.358).
La natura di quest’entità suprema, che costringe
i divini e i mortali al rumore della parola, assomiglia
molto - in effetti, ed a conferma dell’ipotesi di
partenza - al Principio Primo dello gnosticismo.
Scrive J. Doresse ne La Gnosi: “All’origine di tutto...
c’è un eone perfetto, inconcepibile, eterno... È un
Pro-padre che risiede in uno stato di riposo
(immutabilità e assenza di movimento), in cui
contempla la propria immagine in se stesso come in
uno specchio. Con lui coesiste il suo Pensiero, che
è assoluto Silenzio” (in Gnosticismo e Manicheismo, a
cura di H. Ch. Puech, Laterza, 1988, p.23).
Anche l’essere supremo chiamato in causa
dall’Innominabile è silenzio. Silenzio insopportabile
per chi - come lui - si sente condannato a cercarlo
attraversando l’inferno delle parole. Si tratta di un
attraversamento infinito, nel quale la speranza di
48
completarlo fa parte della condanna. Essa infatti lo
spinge avanti, lo incita a cercare l’ultima parola,
quella definitiva, in grado di porre fine al discorso.
A differenza dei mortali, l’Innominabile conosce
tuttavia almeno questo: che l’obiettivo è smettere di
parlare, dato che le parole sono la prova
dell’allontanamento dal Principio. Conoscenza che
gli deriva da partecipare alla dualità che compete
soltanto alle figure non terrestri.
Ben peggiore la condizione dei mortali i quali,
scissi e inconsapevoli dell’Origine, si muovono nel
terrore paradossale d’esaurire le parole.
Dice Winnie, con l’angoscia rivolta al giorno “in
cui le parole mancheranno”: “Eh sì, così poco da
dire, così poco da fare, e una tal paura, certi giorni,
di trovarsi... con delle ore davanti a sé, prima del
campanello del sonno, e più niente da dire, più
niente da fare” (Giorni felici [1963], in S. Beckett,
Teatro ecc. cit., p.206 e p.208).
È questa la condizione assurda dei mortali, dalla
quale i divini sono esenti: desiderano il frutto del
proprio castigo, cercano quelle parole che, in realtà,
sono il rumore stesso cui sono stati condannati, allo
stesso modo delle ombre sulla riva dell’Acheronte,
nel III canto dell’Inferno dantesco, alle quali la
49
volontà di Dio tramuta la paura in desiderio (vv.
124-126).
Se in Aristotele Dio, il pensiero che pensa se
stesso pensante, “è sempre” in uno “stato di
beatitudine” alla quale anche l’uomo partecipa ogni
volta che fa uso dell’intelletto (Metafisica, XII, 7,
1072 b, 20-25), il Dio di Beckett, come il Pro-padre
gnostico, è inavvicinabile sotto ogni aspetto dai
mortali.
Nello gnosticismo infatti, il creato, essendo
l’effetto manchevole della presunzione di
Akhamoth, porta le stigmate della cesura, del taglio
ombelicale dalla perfezione celeste; ogni creatura, di
conseguenza, patisce di continuo lo smacco,
custodendo fra le sue pieghe il dolore
dell’inadeguatezza.
I personaggi terrestri di Beckett, per far fronte
ad essa, si muovono in coppie, mimando
inconsapevolmente le coppie celesti (le sigizie
gnostiche): Vladimiro ed Estragone, Winnie e
Willie, Clov e Hamm, Krapp giovane e Krapp
vecchio, non fanno altro infatti che polarizzarsi in
uno spazio inavvicinabile agli altri e capace, in parte,
di compensare la penuria di prospettiva individuale.
50
Ma questo ancora non basta. Ognuno di loro, allora,
cerca la riconciliazione altrove, in un paradiso
terrestre, che poco ha a che fare con la felicità dei
celesti.
Si pensi a Winnie, la cui memoria,
proustianamente intermittente, la spedisce fra le
ginocchia di un suo antico amore, “nel giardinetto a
Borough Green” (Giorni felici, cit., p.195); oppure si
rifletta su quanto ricorda il protagonista dell’Ultimo
nastro di Krapp (1958): “Mi sono disteso su di lei -
confessa la voce del giovane Krapp incisa su nastro
ad un Krapp-klown ormai vecchio, riferendosi
all’amata fanciulla che lo accompagnava in barca - la
faccia sul suo petto, la mano su di lei. Stavamo là,
sdraiati, senza muovere. Ma sotto di noi tutto si
muoveva e ci muoveva, dolcemente su e giù, da un
lato all’altro” (in Teatro, cit., p.183).
E ancora, nella reminiscenza d’Estragone, in
Aspettando Godot: “Mi ricordo le carte geografiche
della Terra Santa. A colori. Erano bellissime. Il Mar
Morto era celeste. Mi metteva sete solo a guardarlo.
Pensavo sempre: è là che voglio passare la luna di
miele. Nuoteremo. Saremo felici” (in Teatro, cit.
p.30). Si noti, per inciso, quanto assomigli
l’immaginario d’Estragone (e di Beckett),
51
all’osservazione di J.Doresse ricavata dall’apocrifo
Libro di Enouch: “Il grande Seth avrebbe fatto
scaturire, sulla riva del Mar Morto, sorgenti termali
salvifiche” (La Gnosi, cit., p.31).
Non è difficile fa coincidere queste nostalgie con
quella, psicologica anziché mitica, del grembo
materno: luogo della riconciliazione, principio
terreno perduto per sempre, ma che la memoria –
sorprendentemente (e temporaneamente) ritrovata
– può in parte ricreare: le calde ginocchia di un
amante, il guscio a culla di una barca, l’acqua tiepida
del mare; oppure la stanza-bunker di Clov ed
Hamm in Finale di partita (1957), l’audiocassetta che
custodisce la voce del giovane Krapp... Tutti rifugi
che danno all’esiliato cognizione di patria, d’origine
non lacerata. Questi, tuttavia, sono irraggiungibili
rifugi nel passato; nel presente invece, a supportare
la solitudine dei personaggi, sono le parole, quella
scorta di parole che permette a ciascuno di loro di
traghettare la giornata. Parole che diventano gesti
rituali, esorcismi per tenere a bada il vuoto che
d’improvviso pare possa ingoiarsi il mondo. È
questo infatti che, paradossalmente, accade al
silenzio originario, al sacro silenzio del Principio, al
quale i divini vorrebbero riconciliarsi: fra i mortali,
52
esso diventa il nulla, il vuoto. Un vuoto abissale da
riempire con le parole. Fino a che c’è vita.
Nello gnosticismo, il sacro silenzio attesta
l’esistenza di un altrove celeste, al quale tornare
dopo il pellegrinaggio in terra. Almeno questa è la
sorte che spetta agli eletti i quali, avendo ricevuto in
dono la luce divina, si salveranno. Ma i personaggi
di Beckett non appartengono a questa élite; piuttosto
essi assomigliano agli “ilici”, a quegli “esseri
sprovvisti di spirito e di anima... unicamente
costituiti da elementi carnali destinati alla
distruzione” (J. Doresse, La Gnosi, cit., p.19).
Condannati ad estinguersi nel tempo effimero,
gli ilici beckettiani non hanno alcuna memoria
dell’aldilà; e se qualcosa dicono a tal proposito, esso
appare irrelato, frammentario, lacunoso, frutto non
certo innato. Accade per esempio in Aspettando
Godot, quando Lucky, davanti al suo padrone ed ai
due vagabondi, dichiara: “Considerata l’esistenza
così come traspare dai recenti lavori pubblici di
Poincon e Wattman di un dio personale
quaquaquaqua dalla barba bianca quaqua fuori del
tempo dello spazio il quale dall’alto della sua divina
apatia sua divina atampia sua divina afasia ci vuole
53
tanto bene salvo le debite eccezioni”... (in Teatro, cit.,
p.65); e accade nei Giorni felici, dove Winnie sostiene,
irriverente: “Non c’è miglior modo per glorificare
l’Onnipotente che ridacchiare con lui dei suoi
scherzetti, specialmente quelli meno riusciti” (ed.
cit., p.205).
Anche qui, comunque, ci troviamo di fronte
all’affermazione d’esistenza di un dio minore,
“personale”, che ride da buon compagno di scherzi,
ma che nulla ha a che fare con l’imperturbabilità ed
il distacco del Ur-Padre originario, di quest’essere
duale – la cui natura, ci avverte J. Doresse ne La
Gnosi (p.23), è “esclusivamente temporale” – in
verità essi non sanno niente. Nemmeno del potere
salvifico del suo Silenzio, che confondono con il
silenzio banale della vita, un silenzio penoso come
il buio, la solitudine, l’insensatezza ed il naufragio,
da riempire con pietre in forma di parola, con gesti
che occupano il tempo inautentico dell’effimero,
che fanno passare la giornata. Poi c’è il sonno,
l’oblio di sé, la piccola morte quotidiana che dà
pausa e ristoro.
54
3. Mirlitonnades o del silenzio che suona
Abbiamo detto, quasi in principio della presente
riflessione, che in Beckett l’erranza dei mortali non
ha destinazione né, di conseguenza, per loro è
possibile l’esilio. Le parole stesse, anziché decifrare
l’enigma, servono come terra in un buco: a
riempirlo, a toglierne l’orribile presenza. Eppure ci
sono momenti in cui esse si offrono in una nudità
nuova, pervasa da una forza che pare attingere
direttamente dal fondo, da quel sacro che feconda
gli orizzonti agli dei e forse, un giorno, ai mortali.
Non più antagoniste ad esso, le parole così ritrovate
gli offrono ospitalità; un’accoglienza che rimette in
gioco, da parte dei mortali, la possibilità sia pur
minima di orientarsi. Mi sto riferendo ai versi di
Poesie (1978); in particolare, alla sua sezione
conclusiva, intitolata Mirlitonnades.
In essa, Beckett mostra lo spaesamento doloroso
degli umani, ma non lo grida, non scarica parole per
esorcizzarlo, non inventa immagini per
terrorizzarci. Asciutto, il suo verso brucia ravvivato
dal fondo abissale dal quale proviene, ne custodisce
l’enigma ed il silenzio che lo costituisce.
55
andare
assente
assente
sostare
(Einaudi, 1980; p.55);
oppure:
passo passo
in nessun posto
nessuno solo
sa come
piccoli passi
in nessun posto
ostinatamente
(Ivi, p.57)
ancora:
a pié fermo
pur non aspettando più
si sorpassa
andando senza meta
(Ivi, p.59).
56
Qui – come negli altri testi della sezione – parola
e silenzio sono fatti della stessa sostanza e l’una non
soffoca l’altro, bensì ne porta in grembo la vastità.
In questo modo, la parola si rivela, del silenzio, sua
incarnazione particolare, porta piena di vento nella
quale il senso, mai esauribile del tutto, dimora.
Il poeta di tutto ciò si fa carico, specie d’Ermes
dannato, che responsabilmente porta l’insensatezza
del vivere ai mortali come verità definitiva. Ma il
mezzo che usa per traghettare il dono malefico – la
parola – viene a negare il dono stesso, mostrandosi
come il luogo in cui si può attuare una pur minima
liberazione dal vincolo, un piccolo lasco, sul quale
giocarsi un destino autentico.
Potrebbe essere questo, nella prospettiva appena
annunciata, l’unico picchetto d’orientamento
possibile ai mortali: abitare la parola che scelga per
sé la vicinanza con il sacro, con il silenzio, con
l’abisso, con quel soffio impalpabile che è il suono
dello zufolo cui allude etimologicamente
Mirlitonnades. Non dunque la parola-pietra che
riempia un vuoto, bensì la parola-fuoco che ravvivi
l’origine, assumendosi per intero il dolore dello
spaesamento; in questo senso, Beckett si rivela
fratello di ogni altro pensatore dell’erranza.
57
4. Le temporalità possibili nella Cantatrice
calva di Eugène Ionesco
Nell’ “anti-commedia” dello scrittore rumeno, il
tempo lineare è un tempo fra gli altri e nemmeno il
più importante. Verifichiamolo, puntualizzando, di
ciascun momento significativo, le condizioni
temporali di esistenza.
a) La pendola. Essa – assicura il signor Smith al pompiere – “funziona male. Ha lo spirito di contraddizione. Indica sempre il contrario dell’ora che è” (E. Ionesco, La cantatrice calva [1950], Einaudi, 1982, p.44). Forse il signor Smith crede in quanto afferma, tuttavia nemmeno questa è la logica che regola i rintocchi del non-orologio. Esso invece, come suggerisce lo stesso Ionesco, “sottolinea le battute [dei personaggi], con maggiore o minor forza a seconda del caso” (Ivi, p.28). La pendola segna dunque un’intensità, una tonalità affettiva, non una quantità, come invece converrebbe ad un misuratore oggettivo del tempo lineare.
58
b) Metamorfosi del signor Watson. Di Bobby Watson si afferma, nella medesima circostanza:
1) Egli è morto due anni fa; 2) I funerali si sono svolti due anni e mezzo fa; 3) “Sono già tre anni che si è parlato del suo
decesso”; 4) “Erano quattro anni che era morto”; 5) “La primavera prossima” Bobby Watson si
sposerà con sua moglie (Ivi, pp.18-19). Ciascuna di queste affermazioni appartiene
ad una linea temporale originale che, nel
dialogo in questione, viene ad intersecarsi
con le altre quattro. La naturalezza con cui
Ionesco le mette in gioco disorienta, spiazza
ogni tentativo di trovarne sistemazione
argomentativa unitaria. A meno che, come
del resto affermò lo stesso scrittore (cfr. E.
Ionesco, Note e contronote, Einaudi, 1965,
p.257), non si consideri La cantatrice calva un
luogo in cui l’accadere segue regole proprie,
secondo una temporalità nata per
l’occasione.
Il tempo scenico diventa così altro dal tempo
quotidiano, gli si contrappone in tutta la sua
proteiforme creatività.
59
c) Il campanello. Questa alterità la verifichiamo anche nella sequenza del campanello (scene settima e ottava), nella quale, su quattro circostanze in cui esso suona, soltanto nella terza e nella quarta viene rispettato il principio di causalità; terza: “SIGNORA MARTIN Ma la terza volta... non è stato lei a suonare?
POMPIERE Sì, sono stato io.
SIGNORA MARTIN Ma quando ho aperto, non l’ho vista.
POMPIERE Mi ero nascosto... per scherzo” (La cantatrice calva, cit., p.36);
quarta: suona il campanello; il signor Smith apre la porta e, dopo averlo riconosciuto, dice: “C’è il capitano dei pompieri!” (Ivi, p.34).
60
Le prime due volte accadono invece in un tempo scenico non consequenziale: “SIGNORA MARTIN Quando suonò la prima volta, era lei?
POMPIERE No, non ero io.
SIGNORA MARTIN Vedete? [il campanello] suonava e non c’era nessuno.
SIGNOR MARTIN Forse c’era qualcun altro.
SIGNOR SMITH Era alla porta da molto tempo?
POMPIERE Tre quarti d’ora.
SIGNOR SMITH E non ha visto nessuno?
POMPIERE Nessuno. Ne sono certo.
SIGNORA SMITH E la seconda volta ha sentito suonare? POMPIERE Sì, ma neppure quella volta ero io. E continuava a non esserci nessuno.
SIGNORA SMITH
61
Vittoria! Avevo ragione io [a dire che “quando si sente suonare alla porta è segno che non c’è mai nessuno” (Ivi, p.33)]
SIGNOR SMITH (alla moglie) Piano, piano. (Al pompiere) E che cosa faceva lei alla porta?
POMPIERE Niente. Ero là. Pensavo a tante cose”
(Ivi, p.36).
La logica che regola queste ultime sequenze risulterà più chiara, se la mettiamo in relazione con quella che regola la scena seguente. Relazione che le giustifica reciprocamente.
d) L’incendio. A pagina 46, il pompiere afferma di conoscere l’ora esatta in cui accadrà “un incendio all’altro capo della città”. Poca cosa, in verità: “Un fuoco di paglia e un piccolo bruciore di stomaco” (Ivi, p.47); ma che sia metaforico oppure sostanziale, il dubbio rimane: se il pompiere conosce gli incendi futuri, perché mai visita in missione gli Smith ed i Martin, riuniti tranquillamente per prendere il tè delle cinque? Essi, tra l’altro, negano che vi sia del fuoco in casa; ha forse torto il pompiere? Oppure non ha veduto il
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futuro con chiarezza? Appunto per trovare una risposta adeguata, dobbiamo tornare alla scena del campanello. Abbiamo visto che, quando esso suona le prime due volte, dietro alla porta non c’è “nessuno”; nel frattempo però la discussione nella stanza si è accesa, i presenti - i signori contro le signore - s’infervorano a ribadire la propria tesi; di conseguenza, il clima si scalda: la terza volta, il pompiere c’è, ma il calore della discussione evidentemente non ha ancora raggiunto i gradi sufficienti alla combustione. Finalmente, al quarto suono, la signora Smith fa scintille: l’incendio (metaforico) scoppia ed il pompiere, puntuale, entra per spegnerlo. Lo fa con il buon senso, conciliando le posizioni dei due schieramenti. Se l’uno infatti sosteneva che “quando si sente suonare alla porta, è segno che c’è qualcuno” (Ivi, p.32), l’altro (le signore) ribadiva che, come già rilevato, “quando si sente suonare alla porta è segno che non c’è mai nessuno” (Ivi, p.33). Il pompiere, combinando le esperienze degli uni e degli altri, proclama “Avete un po’ di ragione tutti e due. Quando suonano alla porta, talvolta c’è qualcuno, talaltra non c’è nessuno” (Ivi, p.36).
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Il pompiere dunque non giunge fuori tempo: si fa vedere nel momento esatto in cui l’incendio comincia. Giungere prima non gli è consentito, giacché egli esiste nell’opera soltanto in quanto ‘spegnitore di fuochi’. Per questa ragione, chi va ad aprire la porta non lo vede le prime due volte: proprio perché, al di fuori della sua funzione egli è “nessuno”, un essere invisibile, destinato a prendere forma soltanto quando l’opera non può farne a meno. Il suo tempo (e la sua dignità), in questo senso, coincidono esattamente con quello stabilito da chi regola le trame.
e) Ci siamo già conosciuti? L’intera quarta scena della Cantatrice calva è occupata dai coniugi Martin, memori di tutto fuorché del loro stato di parentela. ‘Io non me ne ricordo’ è la condizione di principio, che consente al tempo della successione di entrare in scena. La cancellazione del passato, il nulla che sta dietro le loro spalle obbligherà infatti i due coniugi ad una ricostruzione minuziosa e cronologicamente ordinata degli spostamenti recentemente effettuati: Manchester, treno, vagone, sedile, nuovo alloggio londinese, numero dell’appartamento, e poi l’arredamento della camera da letto, e Alice, la figlia bionda di due anni... Tutti gli elementi
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(successivi alla smemoratezza del principio) sono riconosciuti da entrambi, e dunque – come afferma soddisfatto il signor Martin mettendo insieme i pezzi – i ruoli possono ora essere definiti senza equivoci: “Cara signora, io credo che non vi siano più dubbi, noi ci siamo già visti e lei è la mia legittima sposa” (Ivi, p.26). Parrebbe tutto risolto, ma la verità, apparentemente lapalissiana, trova invece confutazione nella scena successiva; se ne incarica Mary, la cameriera, puntualizzando un particolare che nel dialogo dei due coniugi era rimasto implicito: l’occhio bianco della figlia Alice è il destro o il sinistro? Rispondendo al quesito, ella dimostrerà - sorprendentemente - che la figlia di Donald Martin non è la figlia di Elisabeth Martin. E se ci fosse un ulteriore colpo di scena? Il tempo lineare vuole questo: la concatenazione causale dei fatti e la possibilità di riordinare il percorso ogni volta che s’introduce una variabile. È un procedere che annulla le ipotesi confutate e pretende l’autorevolezza della più convincente; ma l’ipotesi più convincente è la più vera? Ionesco si chiama fuori da questo gioco al massacro ed afferma, per bocca della cameriera: “Io non ne so nulla. Non
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sforziamoci di saperlo. Lasciamo le cose come stanno” (Ivi, p.27). Non è una resa politica; si tratta piuttosto di una rinuncia al dominio sul reale che ogni logica fondata sul principio d’identità implicitamente accetta. Una rinuncia, ma anche un invito a non prendere troppo sul serio la nostra pretesa d’aver ragione ad ogni costo.
f) La circolarità dell’opera. In conclusione della Cantatrice calva, accadono due eventi straordinari: 1) l’inversione dei ruoli (i coniugi Martin prendono il posto dei coniugi Smith); 2) un nuovo inizio della rappresentazione. Scrive Ionesco: “La commedia ricomincia con i Martin, che dicono esattamente le battute degli Smith, nella prima scena” (Ivi, p.52). Con questa scelta, l’autore ci propone la circolarità, quale modo interno al tempo della successione. Alla fine dell’opera, infatti, il tempo si piega, ma non torna al principio, visto che, ad ogni giro s’invertono i ruoli, ma non le battute e le scene; ogni due giri, invece, la vicenda si ripete identica. Lo spunto polemico verso l’interscambiabilità dei ruoli (e dei luoghi comuni) nella civiltà borghese, che costituisce uno dei motivi centrali del
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dramma, viene così integrato con il tema della ripetizione e con quello, a questo collegato, dell’alienazione. La ciclicità cui allude la Cantatrice calva non assomiglia perciò al fluire naturale delle stagioni, al tempo buono (e mitico) della civiltà delle origini, ma semmai mima gli effetti, psicologicamente deleteri, dell’organizzazione del lavoro capitalistica. È una circolarità che ha perduto il suo legame con la natura, per diventare essenza di un sistema che rende strumento ogni essere che gli appartiene.
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5. La Storia e Dio nell’ultimo Ionesco
La prospettiva appena analizzata, senz’altro
critica nei confronti della civiltà postindustriale,
tenderà presto a disancorarsi dalla contingenza
epocale. Di conseguenza, il male, la sofferenza,
l’ingiustizia ed ogni altro fattore dell’umano operare,
assumeranno – già da Le sedie (1952) – una
dimensione metastorica, nella quale la vita, da
sempre e senza una ragione ultima, altro non
sarebbe che “nutrizione, riproduzione,
combattimento e massacro” (E. Ionesco, L’assurdo e
la speranza, Guaraldi, 1994, p.21).
Confessa a tal proposito lo scrittore, in
un’intervista realizzata per la Televisione della
Svizzera italiana, alla fine degli anni Ottanta:
“L’assurdo è dato dall’incomprensione che provavo
di fronte a un mondo che vedevo, che cercavo di
seguire e non capivo” (E. Ionesco, La ricerca di Dio,
Ed. Casagrande SA, 1990, pp.17-18).
Sarà questo stupore gonfio d’angoscia – e che
succede alla fase gioiosa, dissacrante della Cantatrice
– a segnare la nuova stagione dell’autore, della quale
troviamo completa realizzazione nel 1962, con Il re
muore.
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In questo dramma, Ionesco mette in scena un
ipotetico regno in cui Dio non ha luogo. Creatore
del Cielo e della Terra diventa allora il potere stesso,
attraverso il suo più autorevole emissario:
“Ordino che gli alberi spuntino dal pavimento...
– sentenzia re Bérenger I, investendosi forse
d’autorità olimpica – Ordino che il tetto scompaia...
Ordino alla pioggia di cadere... Al lampo di
comparire e che io l’afferri con la mano” (Il re muore,
Einaudi, 1982, p.32).
Quest’opera ci mostra in effetti che cosa
accadrebbe ad un’umanità che, avendo perduto il
concetto stesso di trascendenza, si fosse costruita
un dominio sull’essere coincidente con la propria
immanenza. Al di fuori della Storia, in tale disegno,
c’è un vuoto spaventevole, un’insensatezza totale,
che minaccia di portare con sé ogni traccia dei
mortali: “Ciò che deve finire è già finito” sentenzia
il re, rammaricato di non durare in eterno (Ivi, p.46).
Ma questo sentimento della caducità non genera
affatto, in uomini come lui, un agire all’insegna della
pietas: il potere diventa, al contrario, l’unico Dio,
esercitato spesso orrendamente per fissare in eterno
il loro passaggio in terra, per lasciarne memoria
indelebile ai posteri.
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Tale convincimento non abbandonerà mai il
drammaturgo; si pensi al Macbeth (1972), parodia del
potere che diventa paranoia, ossessione; oppure si
presti attenzione allo scambio di battute che segue,
nel quale, perduto l’altrove, tutte le scelte si
equivalgono:
PRIMO BORGHESE
Non sono egoista, a patto che non mi si chieda
troppo. In tempi normali non nego il mio aiuto.
Nelle circostanze eccezionali in cui viviamo è un
diritto e un dovere essere prudenti e diffidenti. È
un diritto e un dovere essere, provvisoriamente,
egoisti nei momenti gravi.
SECONDO BORGHESE
È una tesi. Una morale come un’altra
(Il gioco dell’epidemia in E. Ionesco, Teatro completo,
Einaudi-Gallimard, 1993, p.362).
Se la Storia resterà sempre il luogo “tragico della
condizione umana senza trascendenza” (La ricerca di
Dio, cit. p.19), nondimeno il drammaturgo rumeno
tenterà – almeno a partire dai primi anni Ottanta (ed
ecco la sua ultima stagione) – di scavalcarne
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l’assurdità, recuperando un valore che pare
inesistente nel suo teatro, quello della speranza:
speranza che esista un senso a quanto accade; che
Dio sia l’autore buono del gran teatro dell’universo
e che quindi, lo stupore dolente verso la vita, non
sia che il frutto d’un sapere approssimativo.
Carezzata nel segreto dell’anima, la speranza
pare tuttavia sempre sul punto di svanire, d’essere
sogno o illusione, sia perché l’orrore quotidiano gli
si fa costantemente presente, lo incalza, offrendogli
continue prove del fatto “che tutta la storia è
apocalittica”, e sia per l’insostenibile fede che lo
pervade, tale da fargli scrivere, nell’imminenza della
morte: “Non posso vivere né con Dio, né senza
Dio” (L’assurdo e la speranza, cit. rispett. p.66 e p.87).
L’assurdo e la speranza, pubblicato postumo a cura
della figlia Marie France, testimonia appunto di
quanto spaesante sia questa condizione,
spaesamento che si traduce in un continuo
interrogare, umile e stupito, Dio stesso, quel Dio
che – come insegnò Maestro Eckhart (l’allusione è
a p.48) – ciascuno di noi è. Un Dio, questo
paventato da Ionesco, che soltanto l’amore può
avvicinare, un amore assoluto, quale quello che
71
compenetra il personaggio (allora sconfitto) di
Maria, la seconda moglie del re Bérenger I: “Se tu
mi ami follemente – ella gli spiega – se ami
svisceratamente, se mi ami assolutamente, la morte
si allontana. Se tu ami me, se tu ami tutto, la paura
si dissolve. L’amore ti trascina, ti abbandoni e la
paura ti abbandona. L’universo intero, tutto rivive,
il vuoto diventa pienezza” (Il re muore, cit. p.57).
Questo amore – come egli ci dice ne La ricerca di
Dio (ed. cit., pp.36-37) – altro non è che fede
massima nell’assoluto, disponibilità senza residui “a
fondersi con Dio”, ma si concretizza anche
nell’agire pratico, considerando i “beni della terra”
non in quanto proprietà, bensì amandoli per la loro
“bellezza”, con il distacco dei saggi.
Prima di giungere a queste conclusioni, il
drammaturgo rumeno aveva sperimentato
l’impegno; ma già allora (e siamo negli anni
Cinquanta) quest’ultimo non aveva nessun rapporto
con le ideologie, anzi: proprio contro di esse e
contro chi voleva fare della sua arte uno strumento
di propaganda, egli indirizzò gran parte dei propri
spunti polemici. Come ben ci rammenta Emanuel
Jacquart nella Prefazione a Tutto il teatro, “le sue
dispute con i critici, sia francesi che inglesi,
72
contribuiranno ... a persuaderlo che l’ideologia è
parte integrante della dimensione tragicomica
dell’esistenza, allo stesso titolo della condizione
metafisica” (ed. cit., p. LIX). Rispetto alla questione
della trascendenza tuttavia, come abbiamo visto,
Ionesco maturò nel tempo differente cognizione,
pur sorretta da una fede mai adeguatamente
sedimentata. In questo senso (e in conclusione),
credo non sia scorretto affermare che l’ultimo
Ionesco abbia scritto e vissuto sempre in bilico tra
due tensioni (l’orrore verso la storia, la speranza
fragilissima d’un senso altro e salvifico che l’uomo,
graziato da Dio, possa disvelare), senza mai riuscire
a conciliarle, nutrendosi dell’amore familiare e della
pietas verso i deboli quali uniche vie laiche di abitare
l’inconoscibile. Un pensiero, il suo, povero di
concetti per scelta e gonfio invece di meraviglia sia
verso un creato in perenne conflitto, e sia nei
confronti del suo Creatore il quale, pur non
concedendo al senso ultimo delle cose d’acquisire
leggibilità, infonde – a chi si senta naufrago davvero
– la speranza, il desiderio di farsi fanciullo
interrogante, preda euforica di una deriva della quale
cercare la necessità.
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Per una ridefinizione del Postmoderno
1. Il Postmoderno: una questione controversa
Che il neo-orfismo sia stato il seme
fondamentale dell’albero postmoderno in Italia –
almeno per quanto riguarda la poesia – lo attestano
tanto i detrattori quanto i suoi più entusiasti
sostenitori. Lo rilevano, per esempio, Giulio
Ferroni (Storia della letteratura italiana. Il Novecento,
Einaudi, 1991, pp.717-721) e, con differenti
entusiasmi, Franco Cordelli il quale, nella prefazione
a Notturna, di Enzo di Mauro, ravvisa nel
movimento neo-orfico il pregio di avere anticipato,
“nella dizione di un gusto, e di un nuovo modo di
intendere e percepire”, altri ambiti disciplinari, tutti
74
segnati da “una logica postmoderna” (Campanotto,
1987, pp.6-7). Il senso di questa anticipazione –
evidentemente positiva, in Cordelli – non si discosta
tuttavia dalle critiche velate di Ferroni in Novecento:
entrambi infatti riconoscono alla postmodernità del
neo-orfismo un’indole sensuale, seduttiva, panica e
politicamente disimpegnata; una posizione, questa,
che viene sostanzialmente a confortare quanto la
storiografia letteraria ha poi più volte ribadito in
merito alla cultura postmoderna tout court, fino a
darne certificazione definitiva (e debitamente
articolata) nei testi antologici compilati per le scuole
medie superiori. Cito, a titolo esemplare, La
letteratura e i suoi classici (AA.VV., Archimede, 1997,
vol.7) la quale, in conformità con le tesi condivise
“dalla maggioranza degli studiosi”, afferma che il
postmoderno opera “un confronto aperto con la
cultura massificata... da utilizzare come materiale
narrativo, spesso in funzione di parodia; in secondo
luogo [assume] una teoria letteraria” interna ai testi,
“di riflessione sui caratteri e i modi della narrazione;
infine, [attua] una rivisitazione ironica della storia e
più in generale del passato, dei suoi modi di
comportamento, dei suoi usi stilistici, delle sue
soluzioni linguistiche” (ed. cit., p.366).
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La problematicità ed i rischi di questa posizione
nei confronti della storicità, li avevano in effetti già
messi in risalto, polemicamente e con differenti
presupposti ideologici, fra gli altri: Umberto Eco
nelle Postille a “Il nome della rosa” (in “Alfabeta” n.49,
giugno 1983), Italo Calvino nelle Lezioni americane
(ed.cit., p.95), Alfonso Berardinelli ne Tra il libro e la
vita (Bollati Boringhieri, 1990, p.40 e ss.), Angelo
Guglielmi in Trent’anni di intolleranza (mia) (Rizzoli,
1995, pp.183-184) e lo stesso Ferroni, ribadendo in
altra sede che, nel postmoderno, “tutto si riconduce
al dominio dell’apparenza, dell’effetto,
dell’ornamento, dell’artificio: l’essere ‘dopo’ si dà
come definitiva perdita di peso di tutta la tradizione
culturale, sua neutralizzazione... mirante a uno
svuotamento e a una rarefazione della stessa
esperienza del presente, all’utopia di una vita senza
spessore” (Dopo la fine. Sulla condizione postuma della
letteratura, Einaudi, 1996, p.148).
La preoccupazione è condivisibile; eppure sono
convinto – e questo capitolo vorrebbe dimostrarlo
– che sia possibile legittimare una visione
postmoderna dell’epoca in cui viviamo, senza per
questo squalificare l’etica a semplice esercizio
estetico, come lascia per esempio ad intendere
76
Pietro Cataldi ne Le idee della letteratura (La Nuova
Italia Scientifica, 1994, pp.181 e ss.), né tantomeno
ridurre la Storia a mero magazzino di maschere (F.
Jameson, Il postmoderno, o la logica del tardo capitalismo,
Garzanti, 1989, p.38) o a luogo dell’inautenticità,
com’è costretta a fare ogni interpretazione che
riconduca l’Essere, sia esso pienezza o lacerazione,
ad un’origine metastorica. Credo invece che la
postmodernità, così come si configura
nell’ontologia ermeneutica d’impianto
heideggeriano, offra l’occasione, per la prima volta
realizzabile, di rimettere in discussione – nel senso di
ricollocare nel gioco della comunicazione
interpretante – il passato, svelandolo scrigno d’una
comunità di mortali nostri fratelli nella finitezza e
nello spaesamento, ai quali affidarsi dialogicamente
con affettuosa cura. D’altro canto, proprio da due
orfici come Roberto Carifi e Roberto Mussapi parte
l’appello ad un recupero rilkiano-heideggeriano del
sacro, in cui ci sia posto tanto per la pietas e la
condivisione, quanto per una prassi che porti a
compimento il passaggio epocale cui stiamo
assistendo (cfr. i loro due saggi in AA.VV., La poesia
e il sacro alla fine del secondo millennio, San Paolo ed.,
1996). Passaggio che, sia detto sin da ora, non è
77
affatto pacifico nemmeno sotto il profilo teorico,
essendo semanticamente attivo in ambiti spesso
contigui con il postmoderno filosofico, quali il
pacifismo, la New e la Next Ege, il femminismo,
l’animalismo, l’ecologismo ecc., movimenti spesso
attraversati da una progettualità conflittuale,
antagonista, in sintonia dunque con i caratteri
‘fondativi’ della modernità. Ma tale contraddizione
opera nell’alveo stesso della critica postmoderna
laddove, per interpretare la postmodernità, essa usa
categorie del moderno, parlando di fasi, di evoluzione,
di superamento, di rapporto causale fra struttura e
sovrastruttura. L’urgenza della presente analisi nasce
anche dal fatto che tale contraddizione, maturata
nella sinistra statunitense, pervade la stessa nozione
italiana di postmoderno (almeno in quella
perfezionata da studiosi di formazione dialettica): lo
si evince con chiarezza nelle tesi sostenute da
Margherita Ganeri nel Postmodernismo (Ed.
Bibliografica, 1998), la quale legge la storia del
concetto riconoscendone un’evoluzione, a partire
da uno stadio “archeologico” in cui trovano posto
“la linea Nietzsche-Heidegger-Gadamer”, passando
per uno stadio intermedio inaugurato dal
neocapitalismo e dal decostruzionismo anni
78
Sessanta-Settanta, e finendo con “i ‘cattivi ragazzi’
degli anni Novanta” (Brizzi, Ballestra, Santacroce,
Nove, ecc.).
Per cercare un’altra via alla postmodernità, che
si distingua anzitutto da quella che legittima il
disimpegno postmoderno fondandolo su una deriva
storica irrimediabile e senza scampo, credo dunque
sia necessario riprendere le fila del discorso
heideggeriano, seguirne passo passo i momenti più
significativi, così da avvicinare la questione dal suo
nodo “archeologico”, dal principio cioè che la
regola e la informa.
79
2. Del mostrarsi e del celarsi
Partiamo dal saggio, già citato, Sull’origine
dell’opera d’arte (1935-36), e cerchiamo di
evidenziarne, sia pure schematicamente,
l’argomentare.
La questione affrontata dal filosofo tedesco
riguarda “l’essenza dell’arte” allorché la si pensi
nella concretezza dell’opera (ed. cit., p.4). L’analisi
mira a sottolineare il fatto che quest’ultima non è un
oggetto, bensì qualcosa che “rende noto
qualcos’altro” (Ivi, p.6). L’approfondimento di tale
assunto, lo porterà a riconoscere nel “Mondo” ciò
che dell’opera d’arte vediamo, ciò che in essa si dà
da comprendere: “il Mondo”, scrive, è il luogo del
mostrarsi in cui “ogni cosa acquista il ritmo del suo
sostare e del suo muoversi, la sua lontananza e la sua
vicinanza, la sua ampiezza e il suo limite” (Ivi, p.30).
Ogni opera d’arte, in questa prospettiva, “espone”
un “Mondo”, mostra cioè una rete visibile di
rimandi nella quale le singole cose in essa
organizzate acquisiscono un senso; ma la verità
dell’opera d’arte, come accennato, non coincide
tutta ed esclusivamente in questo apparire
80
mondano; più profondamente, l’autore riconosce al
“Mondo” un essenziale provenire dal nascosto, da
un’oscurità carica d’annunci, che egli chiama
“Terra”. La “Terra” dunque è quel grembo
inesauribile dal quale viene il “Mondo” (e non
invece, come sostiene Jameson, “materialità priva di
significato”; in Il postmoderno ecc., cit., p.21).
La verità dell’opera d’arte riguarda, appunto,
questo gioco serissimo “di illuminazione e
nascondimento” che si dà nel conflitto in atto fra
ciò che si mostra e ciò che, in quel mostrare, si
sottrae: “Mondo e Terra sono sempre, e in virtù
della loro essenza, in contrapposizione e in lotta”
(Ivi, p.40).
L’eterna lotta del visibile con l’invisibile, del dire
con il silenzio, del mostrare con il nascondere, è
fondamentale non soltanto per la verità dell’opera
d’arte, ma anche per l’uomo stesso poiché,
interrogando quel conflitto, egli mette in gioco il
proprio modo consueto di stare presso gli enti, la
cui inautenticità deietta Heidegger aveva raccontato
in Essere e tempo (1927). Qui tuttavia l’uomo
(l’Esserci) assumeva l’autenticità della propria
esistenza a partire dalla decisione anticipatrice della
morte: fondava dunque sul proprio “essere per la
81
morte” ogni successivo atto mondano. L’ambiguità
che ne deriva, e della quale Heidegger fu subito
consapevole, consiste nel porre l’Esserci come
aprente, come colui che pone in essere l’apertura
autentica, con ciò riproponendo l’idea centrale della
metafisica, ossia quella del Principio primo,
dell’Ente supremo, in una parola: del fondamento.
La riflessione heideggeriana, che matura proprio a
partire dai Sentieri interrotti, vuole invece rileggere in
modo inaudito il discorso metafisico occidentale:
quanto succede di fronte ad un’opera d’arte, lo
spaesamento in cui l’Esserci è ricondotto,
dimorando presso quel mondo e quella terra
perennemente in conflitto, è appunto il primo passo
verso un discorso che si liberi dalla supremazia della
soggettività fondante (caratteristica basilare della
modernità e di cui l’Umanesimo è la più dignitosa
forma di pensiero), per offrire la voce ad un’età in
cui la verità sia pensata in modo originario.
Lo storicizzarsi della verità è dunque un primo
passo per poter pensare all’Essere senza
confonderlo con l’ente. D’altro canto, anche Hegel
e Nietzsche temporalizzano la verità, il primo
strutturandola nella dialettica, il secondo
82
identificandola con la volontà che vuole se stessa, in un
circolo che tende al proprio accrescimento
mediante la propria conservazione; in entrambi i
casi, nella lettura heideggeriana, si dà alla verità un
valore fondante, la si pensa come struttura
eternamente presente che giustifica il processo
diveniente.
Uscire da questa catena fondante significa, per il
filosofo dei Sentieri, pensare il rapporto Essere-
Tempo-Esserci come ad un accadere epocale, ad un
evento (Ereignis) nella cui bocca abissale il mondo e
le cose s’adunino. Le pagine finali del saggio su
L’origine dell’opera d’arte e la conferenza su Hölderlin e
l’essenza della poesia (1937) approfondiranno questa
nozione, orientandola in senso linguistico: le altre
arti – scrive Heidegger nel primo dei due saggi citati
– pur essendo conflittualità in atto tra mondo e terra,
“hanno sempre luogo solo nell’Aperto del dire e del
nominare” dai quali “sono rette e guidate” (Sentieri
interrotti, cit., p.58). Ma è soprattutto ne In cammino
verso il linguaggio (1959) che egli chiarirà il modo in
cui l’Essere, pur non identificandosi con il
linguaggio, si dà nel linguaggio. L’impegno è,
finalmente, quello di raccontare l’eventualizzarsi
dell’Essere, lasciandolo dimorare nel linguaggio,
83
dandogli ascolto, ma senza pretendere di sradicarlo
dall’oscurità in cui, donandosi, si ritrae. Obiettivo
annunciato già nella Lettera sull’ “umanismo” (1947),
laddove sostiene che il pensiero è dell’Essere nel
duplice senso che “appartiene” all’Essere e, in
quanto tale, gli dà ascolto (Adelphi, 1995, p.35).
Per comprendere meglio questo assunto,
soffermiamoci sul modo in cui Vattimo traduce il
titolo Unterwegs zur Sprache: al tradizionale In cammino
verso il linguaggio dell’edizione mursiana curata da A.
Caracciolo, egli preferisce Sulla via del linguaggio (in
G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, 1982,
III ed., p.121), sottolineando così il fatto che
l’Esserci non raggiunge l’essenza del linguaggio (e
dunque la propria più autentica collocazione) dopo
un cammino, bensì è già sempre nel e per il
linguaggio, e, di conseguenza, già sempre dimora
nell’Ereignis (in quell’Evento cioè che – dopo la fine
della metafisica – qualifica la reciproca familiarità
espropriante di Uomo ed Essere). Così concepito, il
linguaggio si dà in custodia all’Esserci affinché
quest’ultimo ne preservi quella natura appellante
che l’Essere stesso possiede nell’attuale apertura
epocale. In questo senso, l’Esserci abita il linguaggio
al modo del cor-rispondere a quel dire originario il
84
quale – come scrive Heidegger in La fine della filosofia
e il compito del pensiero (1966) – “in ogni tempo,
ascoltato o no, si fa parola nel destino non ancora
deciso dell’uomo” (in Id., Tempo ed Essere, Guida,
1980, p.168). Si tratta di un ‘farsi parola’ che tuttavia
esula da qualsiasi determinazione assertiva, giacché
si configura, in coerenza con il suo non-essere-
fondante, nel modo del da pensare, di un appello cioè
che, nel succedersi delle apertura epocali, si è
tramandato come “il medesimo” (das Selbe).
In questa prospettiva, l’Essere heideggeriano ‘è
presente’ nella Storia al modo del perdurare che,
nell’accadere epocale, si conserva e si tramanda
come appello mai esauribile in una risposta. Ne
consegue che l’aprirsi epocale dell’Essere è ogni
volta finito, ma in questa finitezza si custodisce il
Selbe che si fa appello alle generazioni future,
affinché la loro risposta ne tramandi l’inestinguibile
segreto. “Storia autentica – scrive Heidegger – è
Presente. Presente è Av-venire in quanto richiesta
dell’Iniziale, cioè di ciò che perdura, di ciò che già è
e del suo nascosto essere-raccolto” (I principi
fondamentali del pensiero [1958], in “Il pensiero / Il
tempo”, n.1, ed. il melangolo, 1979; p.13). E altrove,
chiarendo con una similitudine: “C’è una tradizione
85
da epoca a epoca. Ma essa non corre tra le epoche
come un legame che le stringe l’una all’altra, bensì
viene di volta in volta dal nascosto del Geschick [dal
destino dell’Essere], così come da una sorgente
nascono diversi ruscelli, che alimentano un fiume, il
quale è ovunque e in nessun luogo” (Der Satz vom
Grund, passo citato da Vattimo in Essere, storia e
linguaggio in Heidegger, ed di “Filosofia”, 1963, p.171).
86
3. Utopia, collocazione, tradizione
Una prima considerazione: se l’utopia non ha
luogo, non significa che essa non possa dar luogo;
riflettere sull’utopia, come a quel luogo da pensare cui
Heidegger riconduce il senso dell’Essere, è uno dei
modi possibili di riprendere il discorso sul
postmoderno. E questo perché Heidegger ci offre
la possibilità di pensare all’utopia non più come al
fondamento umano dell’agire storico insoddisfatto,
bensì come a colei che, chiamandoci, ci colloca nella
sua possibilità av-veniente.
Questo della collocazione è un tema centrale anche
nella riflessione di Vattimo, ma, mentre in
Heidegger esso si articola in relazione all’autenticità
dell’Esserci nell’Ereignis, nel filosofo torinese il
problema si sposta sul piano della storicità. Vattimo,
in altre parole, sposta la domanda heideggeriana sul
senso dell’Essere a quella sul senso della Storia,
poiché concepisce il “prendere congedo”
dell’Essere come un “essere-già-accaduto”, un
ritrarsi all’infinito verso il passato. In questo senso,
l’Essere vattimiano diventa ciò-che-trapassa, che
matura e invecchia, un Essere diveniente-
87
declinante, che in ciascuna apertura epocale si offre
alla comprensione in quanto ritraentesi-caducità,
mai riconducibile, in ogni caso, alla semplice presenza
della metafisica occidentale (G. Vattimo, Le avventure
della differenza. cit., pp.200-201).
Da quanto appena osservato, risulta evidente
che il filosofo torinese, spostando l’attenzione dal
senso dell’Essere a quello della Storia, viene a
distorcere il pensiero heideggeriano in altri due punti:
il primo è che la questione della collocazione si
trasferisce dalla gettatezza ontologica alla gettatezza
storica; il secondo distorcimento consiste nello
spostare l’ascolto del da pensare nel passato, anziché
nell’avvenire, riconoscendo alla tradizione lo scrigno
in cui l’essente-stato ha preso congedo. Se dunque
in Heidegger – rispetto a quest’ultimo elemento – il
da pensare, in quanto annuncio, è sempre da-venire
(in questo senso è utopico), in Vattimo la
monumentalità del passato, come terra che
custodisce il segreto dell’estinzione mai esauribile
dell’Essere, viene in primo piano, in una vicinanza
non casuale con l’ermeneutica di Hans Georg
Gadamer. E tuttavia, dal filosofo di Verità e metodo,
Vattimo prende le distanze, svelando la matrice
metafisica del suo pensiero. In Gadamer, in effetti,
88
l’essere di una cosa è la somma delle interpretazioni
in cui è stata coinvolta nel corso della sua storia; una
struttura dunque, quest’ultima (e la storia nella sua
universalità), permanente e lineare, la quale tende
infinitamente alla realizzazione della libertà. (H. G.
Gadamer, La ragione nell’età della scienza, il melangolo,
1982, p.26). A quest’idea dell’ermeneutica, Vattimo
contrappone l’istanza ontologica heideggeriana,
letta con la Verwindung (la distorsione) che abbiamo
prima rilevato: pensare la differenza dall’ente sarà
dunque l’unica possibilità che hanno i mortali di
trovare autentica collocazione storica,
rammemorando quanto si dà da pensare in ciò che
è già stato detto; da pensare che, appunto, non è né il
Selbe heideggeriano né il logos gadameriano, ma un
appello governato dal “silenzio” e dalla “quiete” e
che “lascia essere la storia come presentarsi di
nuove risposte a nuovi appelli” (G. Vattimo, Essere,
storia e linguaggio in Heidegger, cit. p.141). Un chiamare,
ancora, “che ha come suo limite e come suo
fondamento costitutivo la morte”, nel senso
appunto che si dà in quanto voce silenziosa della
sfinitezza caduca dell’Essere (G. Vattimo, Al di là del
soggetto, Feltrinelli 1981, p.90).
89
Da questa prospettiva, l’utopia non è parola
dell’uomo-mortale che risponde all’appello,
custodendo-annunciando-distorcendo il medesimo;
essa è, invece, approfondimento della caducità,
assunzione - quasi come nella decisione anticipatrice
di Essere e tempo - del proprio essere-per-la-morte, in
modo tale da togliere alla realtà quella “maschera di
necessità che la metafisica gli ha imposto”, così da
consentire all’Esserci di vivere “il possibile come
possibile” (G. Vattimo, Le avventure della differenza,
cit., p.138). Utopia, in questo senso, è togliere al
divenire storico la necessità della struttura, per
pensarlo come una malattia dalla quale possiamo
rimetterci soltanto sprofondando in essa. È quanto
Vattimo si propone di attestare nel saggio Dialettica,
differenza, pensiero debole, mostrando la necessità
storico-destinale del “pensiero debole”, che attua un
superamento-distorsione di quanto dialettica e
differenza hanno tramandato, lasciandolo da pensare:
“È probabile – scrive egli a proposito – che la
Verwindung, la declinazione della differenza in
pensiero debole, si possa pensare soltanto se si
assume anche l’eredità della dialettica” (in Il pensiero
debole, a cura di P. A. Rovatti, Feltrinelli, 1983).
90
Una seconda considerazione: nominando
Heidegger e Vattimo ho messo in gioco due
possibilità di pensare al postmoderno come al luogo
della disponibilità dell’uomo-mortale alla sua più
autentica vocazione: quella di abbandonarsi
all’ascolto di quanto nelle epoche si tramanda, sia
esso un da pensare che si slancia nell’avvenire
appellandoci come fosse un amico aurorale, sia esso
un da pensare mortalmente segnato dalla debolezza,
“dalla caducità e dalla mortalità”, che si offre
silenziosamente alla rete dialogico-distorcente dei
parlanti. In entrambi i casi, ma con conseguenze
diverse, mi sembra sia possibile riproporre il tema
della postmodernità – e dunque del venir meno della
credibilità del fondamento – senza per questo
ridurre la Storia ad un magazzino di maschere o ad
un luogo svuotato di senso o, ancora, senza la
pretesa di pensare alla “condizione postmoderna”
come a quell’atteggiamento critico che “ha
rovesciato come un guanto l’impalcatura teorica
della cosiddetta modernità” (P. Portoghesi,
Postmodern. L’architettura nella società postindustriale,
Electa, 1982, p.13).
Per evitare le ambiguità delle varie posizioni
postmoderne, le quali, come già osservato, spesso
91
adottano acriticamente il lessico della modernità, in
primo luogo quello di superamento (e con ciò
riassumendo nel proprio argomentare una categoria
forte della filosofia della storia proprio della
metafisica occidentale), occorre confermare con
chiarezza quanto segue: le posizioni di Heidegger e
di Vattimo hanno in comune il fatto di considerare
il succedersi delle epoche come un eventualizzarsi
di un Essere che non può più essere pensato come
fondante; al tempo stesso, però, l’aprirsi del
possibile e del molteplice che, in
quell’eventualizzarsi, viene alla presenza, non nega
valore al passato, anzi: ne recupera la dignità in
quanto tradizione; in Heidegger quest’ultima
custodisce l’annuncio e lo tramanda nel segreto
dell’attesa; in Vattimo essa diventa il luogo delle
tracce del vivente, le quali rammentano al mortale il
suo inevitabile trapassare. In quest’ultima
prospettiva, la collocazione di ogni singolo mortale
fa quel legame differentemente, cosicché soltanto
da quel luogo particolare, dal qui della propria
gettatezza, l’uomo-mortale si rimette al liberante
legame che lo appropria traspropriandolo alla
tradizione: ogni dire, in altri termini, è un cor-
rispondere situato, un punto di vista che disvela la
92
traccia caduca in cui l’Essere si dà; un punto di vista
che – disvelando – cela, appunto perché l’aprirsi è
già sempre un nascondere, un ritrarsi. Così
concepita, la verità dell’apertura epocale consiste in
tutto quanto il linguaggio di ciascun mortale situato
porta alla luce ma anche in quanto in quel dire si
congeda, obbligando i parlanti a riproporre la
parola, a metterla in gioco nella rete di rimandi a cui
ciascun dire rinvia. Ma questo orizzonte storico-
linguistico (al quale diamo voce) trova radice
destinale, come detto, nell’ascolto del “quieto” invio
che proviene dalla tradizione, per cui verso di essa
ciascuno deve porre il massimo rispetto, pur nella
consapevolezza che qualsiasi risposta è
ontologicamente insufficiente tanto a legittimare (o
a criticare) il presente, quanto a svelare totalmente il
destino caduco dell’Essere.
All’uomo-mortale vattimiano non spetta perciò
il compito di superare questa condizione; se
intendesse uscire dalla malattia dell’erranza destinale
e della convalescenza mai sanabile del tutto, egli
rifonderebbe le categorie metafisiche della semplice
presenza, con ciò dimenticando di nuovo l’Essere a
favore dell’ente (G.Vattimo, La fine della modernità.
Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna,
93
Garzanti, 1985, pp.172-189). Quest’arbitrio – il
fatto cioè che, volendo, l’uomo potrebbe
ridimenticare l’Essere – lascia intendere come
Vattimo, facendo leva sulla “filosofia del mattino”
nietzscheana (Ivi, pp.177-179), non sia persuaso
fino in fondo del da pensare heideggeriano, al suo
darsi in quanto evento destinale che è già sempre
unità di appello e di risposta e al quale, dunque,
l’Esserci non può sottrarsi (cfr. M. Heidegger,
L’abbandono [1959], il melangolo, 1983, p.61. È
comunque possibile che il “ritorno” al cristianesimo
proposto da Vattimo in Credere di credere sia, in
questo senso, un ripensamento decisivo).
94
4. La fine della storia e la pietas postmoderna
La questione dell’età in cui la modernità si fa
postuma a se stessa trova motivo d’interesse in
Vattimo più che in Heidegger. Come abbiamo visto,
in quest’ultimo il problema del senso dell’Essere è
infatti prioritario rispetto a quello della Storia; di
conseguenza, la collocazione in lui ha valore
ontologico, laddove nel filosofo torinese trova
specifica rilevanza biografica. Per questa ragione, un
approfondimento del postmoderno in direzione
della possibilità che la Storia sia giunta alla fine,
trova in Vattimo migliore referente; seguiamo le sue
osservazioni, elaborate ne La fine della modernità.
Riprendendo la tesi di Karl Loewith presente in
Significato e fine della storia (1949), Vattimo comincia
la sua riflessione sulla modernità considerandola
l’erede del pensiero ebraico-cristiano, un’erede che
si è costituita in base ad una progressiva
secolarizzazione della visone biblica della storia. In
questo senso, la modernità concepisce lo sviluppo
della storia secondo l’idea di un tempo lineare, tutto
teso ad un superamento (Ueberwindung) storico che
annienta il passato o, nella migliore delle ipotesi
95
(quella storicistica), ne disconosce il valore
appellante. La postmodernità invece, nell’accezione
vattimiana – come abbiamo visto alla fine del
paragrafo precedente – vorrebbe prendere
“congedo dalla modernità” ma senza superarla, bensì
rimettendosi ad essa come al proprio più autentico
destino: “uscire dalla metafisica” – scrive il filosofo
torinese nel testo citato (p.189) – significa seguire
“la via di una accettazione-convalescenza-
distorsione [di essa] che non ha più nulla
dell’oltrepassamento critico caratteristico della
modernità”.
In questa prospettiva, il divenire (quale
succedersi epocale necessario) perde consistenza
ontologica, palesandosi invece quale mero risultato
di un dominio; Vattimo, a tal proposito, chiama in
causa uno dei testi fondamentali della critica
francofortese, quelle Tesi di filosofia della storia (1940)
di Walter Benjamin che tanto hanno contribuito alla
dissoluzione della dialettica. Nelle Tesi, infatti, il
filosofo tedesco svela “la storia” – nella sua veste di
processo lineare, unico ed omogeneo – quale
espressione della volontà realizzata dei vincitori (in
W.Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, 1976, pp.72-
83). Ciò significa, commenta Vattimo ne Il pensiero
96
debole, che l’idea “di un corso progressivo del
tempo... si costituisce a prezzo dell’esclusione,
prima nella pratica e poi nella memoria, di una
moltitudine di possibilità, valori, immagini” (ed cit.,
pp.15-16). Tuttavia anche in Benjamin sopravvive
l’istanza metafisica poiché, scrive altrove Vattimo,
“il progressismo, nella sua forma messianica
(distinto... dalla fede nel progresso proprio della
borghesia...) si accompagna necessariamente” con
“l’idea di redenzione”, una redenzione proiettata nel
futuro che vorrebbe recuperare una ipotetica
“essenza” umana (La “parte maledetta”. Sinistra e
nichilismo, in AA.VV. Il concetto di sinistra, Sonsogno,
1982, p.79).
Per uscire dall’ontologizzazione della
soggettività operata dai pensatori della dissoluzione
della dialettica (Benjamin, Adorno e Sartre, in primo
luogo), Vattimo si appoggia alla prospettiva
nietzscheana del mondo diventato favola in
conseguenza della “morte di Dio”. In essa, non
soltanto si dissolve l’idea forte di verità, di
fondamento ultimo che giustifichi gli enti, ma vi è
anche il fatto, assolutamente decisivo per il destino
dell’Occidente, che possiamo vivere senza la sua
presenza.
97
Questa condizione, che per Vattimo inaugura la
“postmodernità in filosofia” (La fine della modernità,
cit. p.175), si traduce – empiricamente – nel
moltiplicarsi delle “potenze capaci di raccogliere e
trasmettere le informazioni, in base a una visione
unitaria” ma dipendente dall’insieme di pre-giudizi
di cui il parlante si fa voce e che lo costituisce nel
suo “essere gettato”. L’effetto è una molteplicità di
interpretazioni del medesimo fatto, che privano
l’ascoltatore della certezza dell’unicità del medesimo
(Ivi, p.18). Ed è proprio questo che “caratterizza...
la fine della storia nell’esperienza post-moderna”: il
fatto cioè “che... nella pratica storiografica e nella
sua autoconsapevolezza metodologica l’idea di una
storia come processo unitario si dissolve” (Ivi,
p.13). Al suo posto si concretizza una complessità
storica prodotta dall’incrociarsi, dal ‘contaminarsi’
“delle molteplici immagini, interpretazioni, ri-
costruzioni che, in concorrenza tra loro o
comunque senza alcuna coordinazione ‘centrale’ i
media distribuiscono” (G. Vattimo, La società
trasparente, Garzanti, 1989, p.15). In questo senso,
anche l’idea della “fine della storia” è un racconto
fra gli altri, un’ulteriore verità messa in circolo, a
minare nelle fondamenta la lettura monolitica ed
98
autoritaria del processo diveniente. Se questo è vero,
chiaro allora che a finire non è il tempo reale degli
accadimenti, bensì il modo moderno di leggere la
loro concatenazione, quell’allineamento dei fatti
operato dai “vincitori” già messo in crisi dalle Tesi
benjaminiane ed ora liquidato nel moltiplicarsi
indefinito dei punti di vista, nella rete dialogico-
retorica delle agenzie informative, tutte egualmente
legittimate a sostenere un interesse di parte. In
questo senso, la verità di ciascuna interpretazione
coincide con la sua capacità persuasiva (G. Vattimo,
Il pensiero debole, cit., p.25), in una leggerezza che le
deriva dal sapersi incapace d’essere totalità
interpretativa e fondante, e dunque dalla
consapevolezza d’essere il frutto d’un progetto
finito, gettato in una precisa apertura storico-
destinale, quella del Ge-stell, dell’im-posizione
tecnica, in cui “il vero e la finzione, l’informazione,
l’immagine” non sono mai nettamente scissi (La fine
della modernità, cit., p.189).
L’apertura epocale presente (inaugurata dalla
morte di Dio nietzscheana e giunta a compimento
nell’ultimo scorcio del XX secolo) si configura così
come una rete dialogico-interpretante, che mette
finalmente l’uomo nelle condizioni di realizzare il
99
progetto nietzscheano del “nichilista compiuto...
che ha capito che il nichilismo è la sua (unica) chance”
(Ivi, p.27). L’Uebermensch nietzscheano (e quello
vattimiano, di conseguenza) non sarà tuttavia il
Superuomo delle dittature novecentesche bensì,
come sottolinea l’autore in Al di là del soggetto,
“l’oltreuomo... capace di apprezzare la molteplicità
delle apparenze come tale” (Feltrinelli, 1984, p.49),
senza nostalgia delle strutture fondanti, ma anche
senza intenzioni di dominio.
È in questo contesto che trova spazio la
formulazione di un’eticità modulata sulla pietas, che
affonda la propria radice nel congedo dell’Essere,
nel tramontare di quell’Essere heideggeriano che,
letto nella distorsione vattimiana, tramanda i propri
appelli nel modo del “monumento”, come memoria
d’un essenteci-stato che ‘fa in modo’ di non essere
dimenticato.
Pietas è appunto, per Vattimo, l’atteggiamento
pratico con cui l’uomo-mortale della postmodernità
si “ri-mette” al passato, all’appello debole
dell’Essere, provando per esso rispetto, amore,
tenerezza, indulgenza, bontà, simpatia, ma anche
compassione e affanno, poiché la tradizione – come
100
già osservato – non si supera, bensì la si pensa come
malattia inevitabile. Provare pietas verso ciò che ci
ricorda la caducità è, appunto, una prassi segnata dal
sentirsi legati (ma non fondati) all’invio della
tradizione; è dunque un rimettersi ad essa come a
quanto ci costituisce destinalmente. Su questo
punto, Vattimo è rimasto sempre coerente; si veda
a riguardo La società trasparente, dove la pietas deriva
dal riuscire a vivere “esplicitamente” la “pluralità”,
la “molteplicità dei modelli” considerandoli tutti
degni d’ascolto e nessuno capace di esaurire la
chiamata dell’Essere (ed. cit., p.95).
La pietas viene sostenuta anche in Oltre
l’interpretazione; qui l’autore la definisce come la
capacità di “collocare le singole esperienze entro
una rete di connessioni... orientata nel senso della
dissoluzione dell’essere, e cioè della riduzione
dell’imponenza della presenza” (Laterza, 1994,
p.50). In questo testo, la pietas svela tutta la sua
valenza pratica, d’attività non contemplativa, ma
immediatamente operativa: essa infatti diventa
“carità”, luogo solidale in cui l’Esserci realizza il
proprio destino nella comunità con gli altri mortali
(Ivi, p.52).
101
Con quest’ultima apertura, Vattimo riprende il
dialogo con la tradizione cristiano-cattolica,
leggendola in una continuità con la storia dell’ac-
cadere dell’Essere. Nel saggio Credere di credere, egli
porta alle estreme conseguenze questo progetto, che
vuol essere una testimonianza di una ricerca segnata
dalla propria, irripetibile, collocazione: “Sono
cresciuto come cattolico praticante, militante, per lo
più anche fervente e impegnato nello sforzo di
corrispondere agli insegnamenti di Gesù Cristo”
(Garzanti, 1996, pp.24-25)
Pur non potendo seguire fino in fondo
quest’ultima direzione, la cui problematicità
meriterebbe uno spazio ben più adeguato, mi
sembra comunque chiaro che molte obiezioni sul
postmoderno, qualora quest’ultimo trovi nella pietas
un atteggiamento etico caratterizzante, vengono
meno, giacché la tradizione, lungi dall’essere negata
o “rivisitata” ironicamente, diventa invece orizzonte
il cui appello insegna e mette allerta,
rammemorando agli uomini la loro infondatezza
destinale, ma anche la necessità della loro parola.
102
5. Conclusioni (e note sulla sensibilità
postmoderna nella scrittura italiana
contemporanea)
Il fatto che Heidegger ponga l’attenzione sul
senso dell’Essere anziché sul senso della Storia, e,
ragione ancora più decisiva, che concepisca il Selbe
come l’unità di appello e risposta che apre
all’avvenire, se da un verso gli impedisce di spostare
la riflessione sul piano etico, gli apre dall’altro una
possibilità preclusa invece a Vattimo: quella di
annunciare un aldilà della metafisica, di cui “nessuno
sa quando e come” accadrà (M. Heidegger, In
cammino verso il linguaggio, cit., p.208), e tuttavia
praticabile storicamente sin da ora, cominciando a
pensare – come spiegò il filosofo in un’intervista
allo “Spiegel” (23/9/66) – partendo “dai tratti non
ancora pensati dell’età attuale verso il tempo futuro
senza pretese profetiche” (M. Heidegger, Ormai solo
un dio ci può salvare, Guanda, 1987, p.144). Un fare,
questo, che, nell’atto del compiersi, colloca
finalmente l’Esserci – essenzialmente “mortale” –
nella sua posizione ontologica, in un angolo di quel
“quadrato” (Geviert) che lo aduna e trattiene in
103
“un’unità originaria” con i divini, la terra e il cielo
(In cammino verso il linguaggio, cit., p.35). Collocato
l’Esserci in tal modo, viene meno uno dei tratti
caratteristici della modernità: quello che attribuisce
all’io la presunzione fondativa. Nell’Ereignis, infatti,
l’io viene consegnato dall’apertura stessa ad un
reciproco gioco espropriante con gli altri angoli del
“quadrato”, tale da renderlo nomade in un circolo
spazio-temporale che lo accoglie ma anche lo
disorienta, “straniero” al modo dell’Uebermensch
trakliano. Così dimorando – spaesato eppure, nel
contempo, essenzialmente a casa – egli farà parola
dell’accadere dell’Essere, un Essere libero
finalmente di essere nominato nella sua differenza
dall’ente.
Indebolimento dell’io e possibilità di lasciar
essere nel linguaggio “i tratti non ancora pensati”
del presente, così che il passaggio epocale si compia:
è questa dunque l’unità fortemente postmoderna del
pensiero heideggeriano che è stata accolta di recente
da alcuni poeti italiani. Penso a Roberto Carifi il
quale, ne I Venturi dell’ultimo Dio, riconosce
esplicitamente “una profonda affinità tra i poeti e i
Venturi”, quegli uomini cioè che “procedono verso
104
il compimento epocale” (in AA.VV., La poesia e il
sacro, cit., p.53-54); affinità che consiste – come si
ricava altrove – nella capacità, sia degli uni che degli
altri, di “liberarsi dalla prigione dell’io, dalla follia del
suo attaccamento ai contenuti finiti, [per] realizzare
dentro di sé il vuoto necessario affinché il divino vi
possa penetrare” (in “Poesia” n.139, maggio 2000,
p.31). Certo anche Carifi legge a modo suo
Heidegger, coniugandone l’istanza av-veniente con
il pensiero dell’erranza jabesiano, con l’orfismo
rilkiano e, soprattutto, con il Dio
“incondizionatamente disposto all’amore” di
matrice cristiana (R. Carifi, L’infanzia e il dono, in La
parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, a
cura di M. I. Gaeta e G. Sica, Marsilio, 1995, p.58).
Ma il cristianesimo, Heidegger, Jabès, Rilke (e
Levinas, e Celan, citati parimenti negli scritti di
Carifi) hanno effettivamente in comune una visione,
al tempo stesso, caduca dell’uomo e appellante
dell’Essere; e dunque, c’è coerenza in questo suo
procedere, in questo suo cercare collocazione che si
realizzi nella disponibilità all’ascolto del dolore e
dell’autenticità della scrittura, senza preclusioni di
sorta (si veda, in tal senso, la pazienza e l’affetto con
105
i quali egli gestisce da anni la rubrica “per
competenza” su “Poesia”).
Posizioni analoghe – forse più sibilline, meno
venate da quella pietas che, invece, contraddistingue
l’etica carifiana – mostra Marco Guzzi, quando
rileva che la “transizione antropologica in atto” è
caratterizzata dal “passaggio dall’Io egocentrico a un
nuovo Io” (M. Guzzi, “io è un altro”: l’esperienza
spirituale nella poesia contemporanea, in AA.VV., La
poesia e il sacro, cit., p.40 e p.45), il quale – ci spiega
altrove – si sta configurando “come Io in ascolto, Io
in dialogo, Io naturalmente mondiale, plurale,
corale, condiviso”. Si tratta, continua il critico
romano, di un passaggio certamente difficile e
tuttavia necessario. (M. Guzzi, Per una poetica della
trans-figurazione, in La parola ritrovata, cit., p.55).
I segnali che nella poesia italiana sia cominciata
l’età della “trans-figurazione” (per dirla con Guzzi)
sono molti altri, e presenti già dalla fine degli anni
Settanta. Basti pensare agli interventi contenuti ne Il
movimento della poesia negli anni ’70 (cit.), dove si
ribadisce la “disseminazione dell’io” quale
condizione normalizzata dell’essere-nel-mondo (cfr.
gli interventi dei due curatori) e si addita nel circolo
ermeneutico costituito da Blanchot, Heidegger,
106
Nietzsche, Leopardi ed Hölderlin il fertile terreno di
molta poesia contemporanea (A. Prete). Fra questa,
un forte ruolo di catalizzazione lo sta svolgendo il
gruppo di Anterem, anch’esso attivo dagli anni
Settanta e già da allora impegnato a pensare e a
mettere in parola tanto la crisi del soggetto quanto
l’urgenza di un orizzonte altro, di un luogo
originario nel quale, come scrive Gio Ferri,
dominano il delirio (nel senso deleuziano di “uscire
dal solco”, tracimando oltre/sul bordo del noto e
dell’utile) e il conseguente, liminare, nomadismo
(Id., Per una parola liminare, in AA.VV.,Verso l’inizio,
cit., p.288).
Non possiamo infine dimenticare la scrittura
portiana degli anni Ottanta, sempre segnata dalla
caducità, dalla consapevolezza d’essere presso una
verità dimorante nella lingua, ma radicalmente
imprendibile, e che si tradusse, nel poeta milanese,
in un atteggiamento di pietas assai somigliante a
quello proposto da Vattimo.
Che sia inserita in questa tradizione la sensibilità
postmoderna (nell’accezione sopra annunciata)
della poesia italiana credo che non ci siano dubbi;
tutti in gran parte da decifrare rimangono invece i
singoli modi in cui i poeti traducono-tradiscono tale
107
sensibilità. Ma per tentare un quadro esauriente di
essi, per non ridurre quel quadro ad un elenco di
possibilità in concorrenza fra loro, conviene
aspettare che il passaggio epocale si definisca
ulteriormente, in modo tale che sia l’apertura stessa
– attraverso le parole offerte da ciascun mortale
dalla propria, irripetibile, soglia – a donarsi nella sua,
per ora ancora confusa, evidenza.
Ciò non significa, ovviamente, tacere sui poeti
contemporanei; vuol dire, piuttosto, sapere che
poesia e critica – insieme – acconsentendo all’aprirsi
dell’apertura, le appartengono essenzialmente, si
danno cioè all’interno di un Ereignis che,
chiamandole alla loro radice disvelante, le colloca in
una libera vastità dialogica, autenticamente orientata
all’avvenire. E significa anche, di conseguenza,
rinunciare ad ogni decodificazione definitoria, ad
ogni pretesa esaustiva, a qualsiasi aggressività nei
confronti di altre linee interpretative, essendo esse
tutte contemporanee, e tutte dunque soggette alla
“provocazione” del Ge-stell.
Per aggiungere ulteriore chiarezza a queste
affermazioni, potremmo partire dalla seguente
domanda: esiste, nella modernità, una tradizione
che, sull’infondatezza del Principio primo, ha
108
costruito il proprio discorso? Hölderlin, Nietzsche,
Trakl, Rilke ed Heidegger sono stati scelti quali
picchetti orientativi, al fine di poter rispondere con
sicurezza: questa tradizione esiste ed è su di essa che
bisogna porre l’attenzione, per formulare un
discorso non contraddittorio sul postmoderno. Ma
fare un discorso sul postmoderno diventa una
contraddizione in termini allorché si pretenda di
oggettivarne le caratteristiche, di im-porlo quale
oggetto di una riflessione che possa
circumnavigarne il perimetro. Tale pretesa, infatti,
implicherebbe la presunzione moderna di sradicare
l’inconoscibile, di pensare la verità non come
aletheia, bensì nella sua artificialità sintattica, quale
ratio che, come scrive Cacciari, riduce “la cosa in
oggetto e l’oggetto in struttura... sempre più
formalizzata e complessa” (Dallo Steinof. Prospettive
viennesi del primo Novecento, Adelphi, 1980, p.52).
Il pensiero postmoderno d’impostazione
heideggeriana-vattimiana invece, l’abbiamo visto, sa
di non poter uscire dal pregiudizio, dalla gettatezza
di quel ci dell’Esser-ci, che gli impone di mettersi in
ascolto e di nominare quanto nel mostrasi si cela,
sapendo che mai potrà sradicarlo del tutto. E
tuttavia, se un discorso sul postmoderno non è
109
possibile, massimamente necessario sarà
riconoscere nel discorso dei mortali contemporanei
una frequenza rammemorante mai ascoltata
precedentemente. Questo sì che lo possiamo fare:
testimoniare una condizione della contemporaneità
la quale presenta dei tratti che, pur non
combaciando con quelli moderni, convivono e si
intrecciano con essi, dando un senso differente
all’abitare la terra.
Il tratto fondamentale, estraneo alla modernità,
lo abbiamo riconosciuto in principio: esiste una
tradizione che opera senza bisogno di un centro, di
un luogo privilegiato e fortemente orientato; una
tradizione che attraversa anche la poesia italiana,
dandosi un volto che nasce dall’infondatezza
d’essere qui ed ora, in ascolto di una tradizione
rivolante in mille direzioni, ognuna egualmente
possibile, egualmente abitabile. Ecco allora la poesia
carifiana, che coniuga l’annuncio dell’Essere
heideggeriano con la distanza irraggiungibile di un
Dio forse più ebraico che cattolico; oppure,
all’opposto, l’erranza in “quello stato
complicatissimo che è l’oscillazione tra nulla ed
essere”, come scrive Ermini a proposito dei “poeti
di ‘Anterem’” (Dell’inizio, cit. p.10), ma che si
110
potrebbe ritenere pertinente, pur con le dovute
precisazioni, anche con l’esperienza liminare di
Zanzotto. Tale infondatezza e capacità di
sopportare lo s-centramento vale, mi sembra, anche
per la parola-offrentesi di Cesare Viviani, la quale
sin da Piumana (Guanda, 1977) cerca l’accoglienza
d’un Padre che possa ricomporre, ma senza
eliminarla, la deriva cui inevitabilmente è soggetta;
simile condizione patisce, ancora, il disarticolato
racconto di Milo De Angelis in Biografia sommaria
(Mondadori, 1999), scevro da qualsiasi pretesa di
possedere “la parola che squadri da ogni lato” il
vissuto, intenzionato invece a testimoniare la vita in
ogni suo coccio, così da farne luogo esemplare,
irripetibile, nel quale un io franto ma
metodicamente testardo sceglie d’abitarvi da
straniero. E la feconda debolezza dell’orfismo
contiano, tesa a preparare l’avvento d’un tempo
pervaso dal sacro? Non è anch’essa figlia di questa
tradizione, filtrata dalla gettatezza irripetibile del
poeta ligure?
Un discorso analogo potremmo proporlo per la
narrativa italiana degli ultimi decenni: là dove il
labirinto è una condizione normalizzata
dell’esistenza e le mappe per seguirlo diventano,
111
seppur inadeguate, esse stesse abitabili; là dove
l’orizzonte storico, anziché fare da sfondo oppure
determinare l’azione, rende quest’ultima
mortalmente segnata dalla finitezza, luogo del
custodire, che serba, senza sviscerarne il segreto,
l’intreccio poliedrico del desiderio; là dove, infine,
prevale la frammentazione della struttura
sintagmatica, la rarefazione degli snodi esplicativi tra
sequenze, il plurilinguismo (non per gioco, né per
realismo, bensì quale segno di rispetto verso una
possibilità altra di comunicazione), là dove insomma
troviamo la traccia d’un sentire difforme dal
‘sistema-romanzo’ della modernità, possiamo dire
di muoverci all’interno di una sensibilità
postmoderna. Un sentire che accomuna differenti
prospettive, che tiene insieme differenti scritture
della contemporaneità, ma che sarebbe tuttavia un
errore madornale ricondurre ad un’unica linea fra le
altre: si darebbe infatti ragione a chi considera il
postmoderno una scuola, un atteggiamento, uno
stile, anziché la condizione stessa in cui la
modernità, piano piano, sta coniugandosi:
un’apertura epocale che dunque tiene insieme –
regolandoli eppure dipendendone – tutti i modi del
dire e del tacere contemporanei. Ciò significa fra
112
l’altro il fatto che, vivendo oggi la metamorfosi in
atto, nessuno può dirsi, con perfetta onestà,
assolutamente moderno o assolutamente
postmoderno: ad essere meticciata, prima che la
cultura, è infatti l’apertura stessa, che ci impone la
ricerca di un fondamento suggerendoci, nel
contempo, la necessità di liberarcene, che ci mostra
quanto necessaria sia la violenza per sopravvivere e
ci addita, insieme, un pensiero capace di farne a
meno. Per ciascuno di noi, l’essere moderni (dunque
irosi, contraddittori, ipocriti, ma anche intelligenti,
abili, responsabili) e l’essere postmoderni
(caritatevoli, ingenui, consapevolmente deboli,
grintosi ma non violenti, ragionevoli ma non
testardi, eticamente orientati eppure liberi dai
principi) si danno dunque insieme, si fondono in
ogni singola risposta che azzardiamo, contribuendo
tuttavia al trapasso complessivo dell’epoca che ci
accoglie, al momento ancora notte senza dèi, eppure
meno dolorosamente spaesante, già attraversata da
una lingua straniera al dominio, alla presunzione
d’assolutezza.
115
Poesia e finitezza
1. A che cosa serve la poesia
A che cosa serve la poesia? Il cannone spara, la
forchetta infilza, il secchio contiene, la penna scrive;
e ad essa quale azione compete? Scrive Osip
Mandel’štam: «La poesia è un vomere che ara e
rivolge il tempo portando alla superficie i suoi strati
profondi più fertili».1 «Fertili», qui, significa ricchi di
futuro, significa non ancora declinati
nell’immobilità del dato. La poesia li porta in
superficie, tra le sue maglie più esposte, in quel
1 Osip Mandel’štam, La parola e la cultura, in Id., Sulla poesia, trad. it. Maria Olsoufieva, Bompiani, Miilano 2003, p.48.
116
ruvido che è il testo, con tutte le sue pieghe visibili
e invisibili. Essa, in questo senso, non soltanto ara e
rivolta il tempo, bensì è il tempo stesso nella sua
feconda imprevedibilità. È il tempo presente che,
spazializzandosi nel testo, si mostra estaticamente
aperto al passato e al futuro. La poesia è perciò il
nostro tempo più vero perché, toccandoci con la sua
pelle, ci lascia sospesi nel suo eccomi.
A che cosa serve la poesia? Serve dunque a
spazializzare il tempo e, così facendo, aiuta a
declinare il nostro essere-esposti nell’inesorabilità
della presenza, che è già sempre incontro
indecidibile con l’altro, con il tu.2 In questo senso, il
2 Numerosi i filosofi novecenteschi che sostengono la tesi ‘esistenza = relazione’. Oltre al già citato Nancy, che ne L’essere abbandonato propone una rilettura del «con-esserci» heideggeriano (e dunque della relazione) che prenda sul serio il «mondo del Sì» descritto in Essere e tempo, considerandolo il luogo imprescindibile dell’esistere, dello stare esposti nel proprio esser-già-sempre-decisi (trad. it. Pietro Chiodi, Longanesi, Milano 1976, pp.55-90), si pensi a Martin Heidegger, che ne In cammino verso il linguaggio mette in opera la dimensione dialogica, strutturandola in un «colloquio» segnato dall’abbandono (dell’esserci all’essere, dell’essere all’esserci, in una coappartenenza che aduna il mondo e che presuppone il tu); e si vedano le riflessioni di Martin Buber, per il quale la «relazione» io-tu costituisce l’esperienza originaria dell’essere al mondo (Id., Io e Tu, in M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, trad. it. Anna Maria Pastore, San Paolo, Milano 1993, p.72), al punto che, come egli afferma altrove, «l’individuo è un fatto dell’esistenza nella misura in cui [...] entra in una relazione di vita con altri individui» (M.Buber, Il problema dell’uomo, trad. it. Armido Rizzo, Editrice Elledici, Torino 1983, p.122). Ma si tengano presenti anche gli assunti della psicologia
117
problema della relazione fra poesia e presente viene
superato dall’opera stessa, nella misura in cui
quest’ultima ha la forza di portare in superficie le
certezze dell’ordinario, facendole vacillare,
sospendendone la perentorietà, rivoltandole come
zolle cui soffiare nuovo ossigeno; e tuttavia, la
condizione perché questo avvenga dipende dal fatto
che all’opera è preclusa qualsiasi ‘operatività’ ossia
la capacità di essere utilizzata per trasformare
l’esistente, come invece capita agli strumenti. La
poesia, infatti, non è un cannone, una forchetta, un
secchio o una penna proprio perché non è a
disposizione di alcuna volontà, nemmeno quella del
poeta,3 il quale si misura edificandola, ma, così
sistemico-relazionale, la quale ribadisce l’imprescindibilità della comunicazione interpersonale, riconoscendo alla «disconferma», ossia all’essere completamente ignorati all’interno di una possibile relazione, un grave pericolo per l’identità: «mentre il rifiuto equivale al messaggio “Hai torto”, la disconferma in realtà dice “Tu non esisti”» (P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, trad. it. Massimo Ferretti, Astrolabio, Roma 1971, p.78). Per quanto riguarda la poesia, celebre è l’assunto di Paul Celan: «Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando, e vi si dedica» (cfr. Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua. Einaudi, Torino 1993, p.16). 3 Qualcosa di analogo intende Nanni Cagnone, quando scrive che «un poeta dovrebbe smarrire la propria consapevolezza e sminuire la propria competenza. Diversamente, il testo non sarà che l’effetto di un progetto. In tal caso [...] tra il progetto e l’esito [...] non sarà successo
118
facendo, si dis-loca, la patisce e ad essa si rimette
come ci si rimette con ottimismo da una malattia.
La poesia insomma, lungi dall’essere un mero
strumento utilizzabile, aprendosi, dispone (e
indispone) affinché il senso del presente non si
chiuda, ma lo fa senza volerlo e senza saperlo. Sotto
questo profilo, essa «rivitalizza» il presente, come già
notava Leopardi nello Zibaldone (1 febbraio 1829),
ma non lo fonda, non lo trattiene, lo rilascia invece
nelle pieghe della sua superficie, in tutta la sua
complessità.
Tutto ciò, fra l'altro, impone alla critica
contemporanea di cercare una nuova definizione di
poesia civile, che tenga conto della morte delle
ideologie e del fatto che, come scrive Jean-Luc
Nancy ne La comunità inoperosa, l’essere-in-comune
della singolarità è coessenziale al suo essere esposto
nel finito della presenza, per cui qualsiasi suo atto
chiama in causa la comunità, la fa essere, senza
residui, in quell’atto, la tiene inevitabilmente esposta
nelle maglie dell’agire e dello scrivere. Civile, in
questo senso, non è qualcosa che fa da sfondo alle
nulla – non si darà alcuna apparizione». Nanni Cagnone, Andatura, Società di Poesia, Milano 1979, p.63. Ora in Id, L’oro guarda l’argento. Opere scelte, Anterem, Verona 2003, p.10.
119
singolarità (e non corrisponde perciò ad un ambito
determinato, che esige un preciso modo del
poetico), bensì viene a coincidere con la rete
comunicativa aperta dalla singolarità nel suo stesso
esistere. Se questo è vero, allora anche la poesia
lirica è essenzialmente civile, giacché mette in gioco,
nei modi del canto, il tremore dell’esserci dis-locato
e perciò stesso in ascolto del proprio essere-in-
luogo, che è uno stare-in-posizione sempre
eccedente, mai pacifico o astratto, bensì
affettivamente gettato e aperto al futuro. Ciò non va
confuso con quanto affermano Lukács e Adorno a
proposito del rispecchiamento, nell’arte, delle
contraddizioni della società capitalistica; piuttosto
occorre pensare alla continua provocazione che è
l’esistenza stessa, capace d’esercitare instabilità e
spostamento continui all’esserci e alla parola in egli
cui si pronuncia, indipendentemente dal suo ruolo
sociale e dalla sua quota di potere. Non si tratta
dunque – marxianamente – di pensare alla forza
critica della poesia lirica, misurando la resistenza che
essa esercita rispetto ai valori (o disvalori) del
capitalismo, e nemmeno di sparare sulla lirica per
uscire finalmente dalla museificazione della polpa
individuale, in favore della relazione poesia e
120
conoscenza,4 bensì, da parte del critico, di cogliere
l’inevitabile attrito di ciascuna singolarità nei
confronti del proprio essere-esposta, quel
particolare sentire della gettatezza, che invero è
sempre racconto comunitario, frutto del dire e del
4 Il riferimento è a Mario Fresa, Tiziano Salari, Le tentazioni di Marsia. Quel che resta da fare ai poeti e ai loro critici (Nuova frontiera, Salerno 2007), dove hanno raccolto in 17 punti-manifesto la loro posizione in merito al canone, alla lirica e alla poesia civile. Il testo contiene anche gli interventi di alcuni critici sulle questioni proposte. Scrivono a pp. 10-11: «Qualche volta – per ammantare di vaga utilità o di falsa generosità il proprio piccolo interesse personale – il poeta “coscienzioso” ricorre a quell’utopia retoricissima, falsissima, che vorrebbe far dialogare la Parola e la Storia, attraverso la cosiddetta poesia civile. Si tenta, così, di “liricizzare” la mostruosa, terribile, cieca ruota dell’Eterno ritorno trasformandone la tragica sua ripetizione in burletta, in finzione letteraria, in ipocrita angustia, in commediuccia rimata e ritmata: orrore che dà certo un gran piacere ai “poeti laureati” che cianciano di guerre dalla loro comodissima poltrona». E a p.13: «Quello che resta da fare, ai critici e ai poeti, che si sommano il più delle volte in una stessa figura, è: ridefinire il concetto di canone poetico per sottrarlo alla logica giornalistica delle antologie poetiche sul Novecento e sull'attualità poetica; mostrare come la linea che generalmente si afferma come dominante destituisce la poesia da qualsiasi valenza conoscitiva a favore del morto, irrigidito brano poetico museificato; come il visitatore di un museo davanti ai quadri di una mostra, il lettore di un'antologia è ridotto a passivo contemplatore di un certo numero di brani che, secondo il critico di turno, sono i migliori di quel determinato poeta; compito di una lettura poetica seria è risvegliare quel lettore riconducendolo alle opere da cui sono tratte le singole poesie e bastonare (metaforicamente) chi si è assunto la responsabilità della selezione e di una lettura unilaterale (Plausi e botte intitolava i suoi pezzi critici Giovanni Boine quando la critica era ancora una cosa seria); rivelare, attraverso la poesia (quando è ricerca della bellezza attraverso il dolore e la verità per giungere alla saggezza) lo "stato dell'arte" nel secolo in cui viviamo».
121
tacere del luogo, che si scandisce, si scuote nella
lingua del poeta, mostrandosi nella successione
melodico-ritmica e nella costruzione semantica.
A fianco di questa nozione ontologica, occorre
sottolinearne un’altra, di carattere sociologico: la
poesia è sempre civile nel senso che nasce e muore
in un contesto socio-politico, del quale dobbiamo
chiedere cognizione al poeta stesso. Scrive Franco
Fortini nella Verifica dei poteri: ‹‹La partecipazione
sociale e politica dell’opera letteraria avviene nei
momenti della sua genesi o della sua funzione,
dunque prima o dopo la creazione››.5 Prima o dopo,
anzi: prima e dopo la creazione, a sottolineare sia
l’impasto di inventiva e risposta, di mestiere e
condizionamento esterno che agiscono insieme nel
laboratorio del poeta, e sia le strumentalizzazioni
dell’opera da parte dei poteri e dei contropoteri; di
fronte a tutto ciò l’autore deve prendere posizione,
diventando anzitutto consapevole del mondo
rappresentato nell’opera, dei valori che essa mette in
scena e degli interessi reali che muove.
Consapevolezza che nasce nell’agone dialogico fra
autore e critica, autore e pubblico, autore e industria
5 Franco Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Einaudi, Torino 1989, p.30.
122
culturale, entro un margine d’infondatezza e fertile
fraintendimento, che trasforma il poeta in
viandante, in colui che incessantemente cerca la
propria collocazione storico-linguistica e, dunque,
civile. Anche perché la poesia, (e la letteratura in
genere), è una presenza reale che fa comunque la sua
strada, indipendentemente dal suo autore; una
presenza che, mettendo in gioco pratiche differenti
(linguaggi, libri, riviste, letture, interpretazioni,
convegni, amicizie e inimicizie, concorsi ecc.)
muove corpi ed idee, arricchisce l’immaginario,
tesse relazioni, rompe legami, aiuta insomma la
storicità ad aprirsi ad un senso mai definitivamente
concluso, ma mobile, dialogico, av-veniente.
Non chiediamoci, dunque, che cosa possa fare la
poesia per la società attuale,6 ma piuttosto: che cosa
può fare la società attuale per lasciare la poesia
6 La domanda è resa, da alcuni grandi autori novecenteschi, attraverso la funzione dello «scriba», sul modello dello scriba Dei dantesco, nel X canto del Paradiso (v.27): si pensi a Mario Luzi, che da quel «Tu non sei dei nostri» di Presso il Bisenzio (in Magma) giunge, in Auctor, alla decisione di ricambiare «in parola» il suo «debito con il mondo» (in Frasi e incisi di un canto salutare) oppure al Sereni di Un posto di vacanza, incerto se cantare il suo poco eroico soggiorno balneare oppure, pur con qualche anno di ritardo, la guerra di Corea (vv.34-39). Più recentemente, ne fanno parola Biagio Cepollaro, Scribeide (in Poesia italiana della contraddizione, a cura di Franco Cavallo e Mario Lunetta, Newton Compton, Roma 1989) e Guido Garufi, Lo scriba e l'angelo (Archinto, Milano 2003).
123
liberamente fuori dai recinti e per portare uomini
donne e bambini da essa? La risposta ci chiama in
causa come soggetti politici, tutti: autori e lettori a
rivendicare lo spazio della libertà come luogo in cui
la poesia ha senso, proprio perché ci consente di
incontrarci senza steccati. Con l’accortezza,
naturalmente, di non organizzare riviste come
fossero fortezze militarizzate, bensì creando una
rete di relazioni autorevoli, in cui lo specifico della
poesia crei occasioni per disseminarsi nel territorio
e per dialogare con le istituzioni.7 Il poeta, infatti,
come qualsiasi altro essere vivente, non può
delegare nessuno in sua vece. Attenzione critica nei
confronti del reale credo significhi allora assunzione
della responsabilità di ex-sistere, di stare allo scoperto
nel mondo, rispondendo alla chiamata del dolore e
della gioia nell’unico modo che spetta agli uomini:
agendo di volta in volta al meglio delle proprie
7 Positivo, in questo senso, il convegno svoltosi a Firenze il 4 e 5 marzo 2005, dove 19 riviste di poesia si sono confrontate sullo specifico letterario, facendo emergere «le plurali visioni critiche e teoriche oggi presenti sul campo”, dando a ciascuno «la consapevolezza di essere parte attiva» nell’organizzazione e nella gestione del fare poetico italiano (cfr. Lelio Scanavini, Riviste a confronto, in “Il Segnale” n.71, giugno 2005, pp.7-8). Gli atti del convegno sono ora pubblicati in Alberto Caramella (a cura di), Poesia: il futuro cerca il futuro. Quali poeti, quali poetiche oggi?, Quaderno della Fondazione il Fiore, Lietocolle, Faloppio 2006.
124
possibilità (e dunque anche scrivendo), sapendosi
non individuo monadico, bensì relazione, comunità
aperta al differire-differirsi continuo. Di
conseguenza, la domanda «a che cosa serve la
poesia», va correttamente declinarla in «chi serve la
poesia» rispondendo che essa non serve nessuno e che,
appunto per ciò, ci addita un modello di relazione
senza padroni e senza schiavi. Non mi sembra poco.
125
2. Quale lingua, quale esperienza?
I rilievi sinora avanzati impediscono di pensare
alla realtà come ad una sostanza unica e omogenea,
che trova nell’eccellenza di una lingua (di uno stile,
di una poetica eccetera) la chiave di volta del
disvelamento, per considerarla, invece, plurale,
stratificata, conflittuale, e dunque riconoscibile negli
infiniti modi della pronuncia singolare, anche in
quella più banale. Anzi, in questa, l’apertura mostra
meglio che altrove la propria superficie, la propria
forza omologante. Poesia, allora, non dice
semplicemente l’apertura, ma mette a dimora il
nocciolo della nostra/non-nostra singolarità.
Perché ciò accada, occorre che il poeta cerchi la
propria declinazione, la voce che meglio coniughi la
sua complessità, in un canto unico eppure
attraversato dalle fibre dell’esperienza comune. Ad
ogni buon conto, sarebbe sbagliato credere che
questa voce si conficchi, meglio delle altre, al centro
di un bersaglio già dato, e sia dunque, fra tutte, la
più vicina alla profondità del presente. Io credo che
non ci sia un presente che primeggi ante litteram, un
presente preliminare o unico (a renderlo tale è il
126
pensiero dominante e la macchina del consenso),
ma semmai che esso si dia, anche, come effetto di
una costellazione dialogica e, come detto, della
spazializzazione testuale, a patto che la poesia sia
«onesta», per dirla con Saba, ossia sgorghi da un
progetto abbracciato con passione, verso il quale ci
si rimette con il metro dell’intelligenza e
dell’impegno. Fare il meglio che si può, con la lingua
che ci appartiene e alla quale apparteniamo, senza
mai essere soddisfatti, con umiltà, convinti che il
testo così forgiato sia degno di rispetto, ma senza
idolatrie: è questa, credo, sotto il profilo
dell'impegno, la via "manzoniana" da seguire. E
quando dico «con la lingua che ci appartiene e alla
quale apparteniamo» intendo sottolineare l’infinità
delle strade percorribili, perché, se preferisco la
poesia della Bishop a quella di Charles Olson, il
cinema di Lynch a quello di Rossellini, la pittura di
Warhol a quella di Morandi, ma anche se vivo in un
dato modo oppure in un altro, la lingua in fieri (quella
che de Saussure chiama «Langue») sboccerà
diversamente, si farà «parola» nuova e imprevedibile
anche per lo stesso poeta. Sarà un linguaggio, quello
nato dall’incontro di differenti radici con la
creatività dell’autore, che arricchirà l’esperienza,
127
tanto più quanto la poesia (e la scienza e la filosofia
e il senso comune) districheranno un significato
credibile dalla muta verticalità delle cose.
Dovremo tuttavia chiederci di quale forma
d’esperienza stiamo parlando, considerato il fatto
che quella dominante, oggi, è di tipo intellettivo,
d’impianto logico-formale, che scavalca sia il piacere
dei sensi («i profumi, i colori e i suoni» delle
corrispondances baudelairiane) e sia l’operatività delle
mani, per radicarsi nevroticamente nell’uomo ad una
dimensione, che ora vive – ancor più di quello
marcusiano – un eterno presente sovraccarico di
stimoli senza altrove, un presente dai saperi
omologanti e costantemente aggiornati, privi di
teleologia. Se è questa l’esperienza comune (e
castrante) nei Paesi del tardo capitalismo, allora
interrogarsi su quale linguaggio sia più salutare alla
contemporaneità, significa anzitutto riconoscere
che esiste un’abbondanza di codici settoriali, tali da
saturare le esperienze legate al sapere calcolante,
mentre va sempre più inaridendosi quella lingua
degli affetti e del profondo che certa poesia,
appunto, coltiva con maniacale ostinazione: dare a
queste due esperienze lacunose una lingua e una
sintassi – plurali e votate alla metamorfosi, al farsi e
128
disfarsi continuo del presente – mi pare sia l’azione
spettante al poeta e che costituisce, dunque (e ciò è
fondamentale), la sua eticità.
129
3. Il dis-appunto della poesia
La poesia dunque risponde alle voci che nel
presente risuonano e si disperdono, alle voci che
restano, alle voci che nel presente fanno città e
campagna, guerra e nascita, canto, silenzio e
rumore. Quando nasce una poesia, tutto questo si
aduna, si muove in essa, la fa essere in quanto
eccedenza. La poesia, infatti, come già detto, non può
essere che eccedenza, presente che tracima,
portando con sé la pietra e la fionda, ma anche il
futuro incerto che è già qui. Così facendo, essa lascia
oscillare tutti i tempi nel suo minuscolo spazio, li
tiene saldi nella singola cosa che nomina,
staccandola dal tempo ordinario, e mostrandola
nella sua esemplarità. Questo star fuori della cosa è
tuttavia già sempre dentro il discorso imbastito dal
testo, che tesse ogni volta l’intero e non sopporta
nulla al di fuori di sé. Sotto questo profilo, ciascuna
poesia è l’esatto contrario dell’appunto, la cui ragion
d’essere sta nell’avere accanto il prima e il poi di
padre Kronos. Se infatti l’a-punto è tassello d’un
insieme in progress, di un fuoco che chiede altri fuochi
per raccontare l’incendio, la poesia è invece tutto
130
l’inferno nella capocchia d’un verso, un inferno
singolare che vorrebbe testimoniare, a nome di tutti,
gli altri inferni.
In latino, ci sono due parole per dire
«testimone»: tertis e superstes. L’appunto incarna
spesso la prima accezione, non essendo questi altro
che voce terza e giornalistica in una contesa a due;
poesia invece – almeno a partire dal Romanticismo
– è ciò che ha attraversato fino in fondo un evento,
così a fondo da custodirlo nella carne. Non più
descrizione, come nel tertis, bensì passione e croce,
visione che tiene sul costato le piaghe del superstite.
Poesia infatti è superstes, nella misura in cui vorrebbe
essere l’unica vera voce, la più autentica proprio
perché l'unica supravvissuta. La poesia dunque non
accetta altri testimoni o li sopporta malvolentieri,
suo malgrado. E ciò perché essa mette in opera tutta
la verità del vivente, l’universale che respira in quella
piega esposta che si chiama Esserci, il cui mondo,
portato alla luce nell’opera, è tutto il mondo.
L’appunto invece ha bisogno di altri punti, di altre
voci particolari su cui poggiare, così che il discorso
sul presente si strutturi: ciò che conta, qui, è il
tessuto connettivo, la serie indefinita di rimandi dal
procedere rizomatico, che dà vita alla complessità
131
policentrica della superficie, nel cui brulichio
luminoso s’intravede l’ombra. Anche la poesia
espone l’ombra, ma agisce patendo l’ombra degli
altri. Per questa ragione poesia e poeta sono due
verità differenti. Se potesse, tuttavia, ogni poeta
diverrebbe poesia, perfetta coincidenza di io e
mondo nella voce del testimone che parla «per
conto di un Altro».8
Nessun appunto può, invece, testimoniare per
noi; esso per natura ci chiede la parola, ci spinge a
dare voce al nostro esser-presenti. Questo accade
ancor più quando l’appunto si assume la
responsabilità della civis, diventandone portavoce, e
mostrando in tal modo le ferite del superstite, che
ha bisogno di stare a fianco di altre voci, per
diventare discursus, linea continua e orientata, che
metta in forma il progetto collettivo. È quest’ultimo
infatti a dare ordine ai tasselli, ad organizzarli nel
sistema libro; vero che la medesima questione si
presenta nel libro di poesia (e in qualsiasi altra
contestualizzazione dell’opera), ma ciò accade per
così dire in "secondo grado", mentre l’appunto nasce
con l’esplicita consapevolezza di arricchirsi entro un
8 P. Celan, La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, ed. cit., p.14.
133
4. A che cosa pensa la poesia
A questo punto, mi pare necessario
approfondire il rapporto tra poesia e conoscenza,
confrontandolo con gli assunti dell'epistemologia
post-positivistica, in particolare quelli espressi da
Karl R. Popper, proprio perché egli tiene aperta la
relazione fra verità e linguaggio, ma in un'accezione
assai differente da come la istituisce il poeta
moderno.
Acquisita l'evenienza popperiana che
l’oggettività sia espressione della democrazia (della
«società aperta», che difende la libertà di scelta
individuale dalle chiusure totalitarie),9 bisogna ora
9 Scrive K.R. Popper, a proposito dell'oggettività della scienza, che essa «non è una faccenda individuale» bensì riguarda l'«amichevole-ostile divisione del lavoro» degli scienziati, «e quindi dipende, in parte, da tutta una serie di condizioni sociali e politiche, che rendono possibile questa critica».Id., La logica delle scienze sociali, In AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia. Dieci interventi nella discussione, trad. it. Anna Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1972, p.114. Si confronti inoltre K.R. Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, trad. it. Arcangelo Rossi, Armando ed., Roma 1975, p.186: «L'oggettività, anche della matematica intuizionista, si basa, così come l'oggettività di ogni altra scienza, sulla criticabilità delle sue argomentazioni. Ma ciò significa che il linguaggio diventa indispensabile come medium dell'argomentazione, della discussione critica». Invero, la scienza contemporanea ha abbandonato lo stesso paradigma di "oggettività conoscitiva". Si pensi alle acquisizioni sulla complessità, in particolare le riflessioni di
134
chiarire quale logica la giustifichi, così da
confrontarla con la ratio della parola poetica. L’unica
valida – scrive il filosofo austriaco, capovolgendo la
procedura induttiva che fonda il criterio di
verificabilità – è la «logica deduttiva», nella quale «se
le premesse di una deduzione valida sono vere, deve
essere vera anche la conclusione».10 La confutazione
mira a mostrare la contraddittorietà delle
conseguenze. E cioè: se le conseguenze sono false
(inaccettabili dal punto di vista logico) vuol dire che
false sono anche le premesse. In questo senso,
l’esperienza (il vedere, il toccare ecc.) non è il punto
di partenza della conoscenza scientifica, bensì il
punto d’arrivo. L’avvio è sempre proposizionale,
attraverso un procedere per enunciati elementari,
W.Heisenberg, J. Monod, I. Prigogine, E. Morin, e F. Capra relative al rapporto ordine/disordine, caso/necessità, scienza/arte/filosofia. Ancora più radicale è il pensiero di Paul K. Feyerabend, che riconosce la possibilità della scoperta scientifica proprio nella trasgressione dai metodi codificati, con ciò negando «l'idea di un metodo fisso o di una teoria fissa della razionalità», compresa quella popperiana. Scrive infatti il filosofo che la conoscenza «non è una serie di teorie in sé coerenti che convergono verso una concezione ideale, non è un approccio ideale, non è un approccio graduale alla verità. È piuttosto un oceano sempre crescente, di alternative reciprocamente incompatibili (e forse anche incommensurabili)». Id., Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, trad. it. Libero Sosio, Feltrinelli, Milano 1979, pp.21 – 29. 10 K.R. Popper, La logica delle scienze sociali, in AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia, ed. cit., p.116.
135
aventi la forma di «asserzioni singolari non
autocontraddittorie» (es: in via x abita y; il treno è
partito alle 10,40; ecc.).11
Il principio di falsificazione popperiano, tuttavia,
non si limita ad affermare che «una teoria è
falsificata soltanto se abbiamo accettato asserzioni-
base che la contraddicano»,12 bensì ribadisce la
necessità di scoprire «un effetto riproducibile che
confuti la teoria». Insomma: se esiste un evento
falsificante rispetto ad una teoria e se abbiamo
individuato asserzioni-base che contraddicono
l'ipotesi di partenza, allora la teoria è scientifica, e
questa costituirà un passo ulteriore delle
conoscenze umane verso una verità oggettiva mai
raggiungibile completamente (per questo egli
preferisce parlare di «verisimiglianza»).13 Quanto
11 K.R.Popper, Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, trad. it. Mario Trinchero, Einaudi, Torino 1995, p.74. 12 Ibidem, pp.76 – 77. 13 K.R.Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, ed. cit., pp.84 – 85: «Lo scopo della scienza è la verità nel senso di migliore approssimazione alla verità, di maggior verisimiglianza. [...] La ricerca della verisimiglianza è uno scopo più chiaro e più realistico della ricerca della verità», per questa ragione «possiamo spiegare il metodo della scienza ... come il procedimento razionale per avvicinarsi maggiormente alla verità»; e a p.66: «Le nostre teorie congetturali tendono progressivamente ad avvicinarsi alla verità; cioè a descrizioni vere di certi fatti o aspetti della realtà»; e ancora, con piglio quasi romantico: «Noi siamo cercatori di verità, ma non siamo suoi possessori» (p.73).
136
invece non rientra in questa procedura non è
scientifico, bensì appartiene alle verità dogmatiche
o metafisiche: verità certamente sensate (cioè che
noi possiamo comprendere perché logicamente
ineccepibili), ma che non possiamo confutare e,
dunque, definire scientifiche. È per questa ragione
che Popper nega lo statuto di scienza sia al
marxismo e sia alla psicoanalisi, essendo appunto
apparati proposizionali che hanno un'impostazione
di tipo teologico o, quantomeno, «teistico», e ciò
impedisce di individuare un evento o un'asserzione-
base – un «falsificatore potenziale» – capace di
confutarle.14
La questione, per la poesia, è sostanzialmente
differente: essa infatti – almeno per come la intende
una certa tradizione giunta a compimento nel
Novecento e che qui si vuole sostenere – non
risolve né pone problemi, non decostruisce
14 Si tratta del celebre «criterio di demarcazione», il quale non è «netto», ma ha «esso stesso dei gradi. Vi saranno – continua Popper in Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica (trad. it. Giuliano Pancaldi, Il Mulino, Bologna 1972, p.437) – teorie ben controllabili, altre difficilmente controllabili, ed altre non controllabili affatto. Quelle non controllabili non rivestono alcun interesse per gli scienziati empirici. Possono essere ritenute metafisiche». Si veda inoltre K.R.Popper, Il mito della cornice. Difesa della razionalità a della scienza, trad. it. Paola Palminiello, Il Mulino, Bologna 1995, pp.115 – 122.
137
fenomeni e nemmeno li ricompone logicamente. La
poesia dunque non ragiona (cioè non lega elementi
noti per produrre l’ignoto, che pure era presupposto
nella formulazione del problema), ma pensa
direttamente l’infondato, che è l’uomo stesso nel
suo essere qui, davanti al foglio bianco, in una
tonalità affettiva imprescindibile, ma anche
imprendibile nella sua radice e che il linguaggio
trattiene nella rete multipla delle sue regole. Ciò che
il poeta conosce è la vertigine di quel trattenere
senza proprietà, che è pensiero ossia dialogo
sguarnito di protezioni con la parola che avanza, che
chiama alla responsabilità dello stile. E dunque
scrivere poesie non significa additare qualcosa che
si ritiene vero, conoscendolo attraverso il doppio
cappio della nominazione e del metodo, bensì si
concretizza nel lasciar-essere ciò che siamo nella
sorpresa che questa esposizione comporta, uno
stare dis-locati eppure adesso e qui (qui nella mia
città, con l’acqua che manca, oppure che abbonda,
con mia moglie o senza mia moglie, con un libro in
mano oppure nel bosco, con la paura del nucleare o
con l’entusiasmo per la sua possibilità complessiva).
La poesia pensa nel senso che mette al mondo questo
incontrarsi multiplo di possibilità, mosso e patito dal
138
poeta, sorta di «apparecchio sensibilissimo» che,
come scrisse Antonio Porta, percepisce «il
movimento nel suo stato nascente».15 In quanto
auctor, tuttavia, egli conosce una tecnica per
conservare tale complessità; ed è a questo livello che
la conoscenza strumentale incontra il pensiero
poetante, giacché lo stile altro non è che la
formalizzazione rigorosa di una sostanza
mobilissima, di una nuvola linguistico-retorica il cui
impasto tiene corpo e mondo, affettività e ragione,
passività e desiderio, ma anche il tramandarsi delle
tradizioni entro il cui orizzonte (plurale) noi
operiamo. In questo senso, non si tratta di superare
i padri o di rinnegarli, giacché loro non ci privano di
nulla: io, infatti, sono qui, adesso. Non mi manca
antropologicamente nulla, se non il senso definitivo
per cui sono qui, adesso. E allora scrivo e magari
leggo i padri, per sentire il loro tremore, la loro
stessa fiducia o sfiducia nella parola. Così facendo
scelgo una tradizione e poi necessariamente (con
fatica, ci ricorda Harold Bloom ne L'angoscia
dell'influenza) cerco di liberarmene, per sopravvivere
in quanto autore. Sotto questo aspetto, la
15 Antonio Porta, Il progetto infinito, a cura di Giovanni Raboni, Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma 1991, p.14.
139
conoscenza, in poesia, viene a coincidere con la
ricerca della propria voce e della sua radice, a partire
dalla consapevolezza che questa cresce nel ceppo di
una tradizione mai definitiva, e sguscia sulla pagina
attraverso il corpo e la tecnica, le cose fatte e da fare,
gli amici e i nemici vivi e morti. Dunque, e in
conclusione, quando scrivo un testo mi devo
chiedere: in che senso la mia scelta è vincente,
rispetto a quella dei padri? Quale instabilità
dell’ovvio mette in gioco? Che forza ha nel presente
e come lo apre, come gli consente insomma di
essere ciò che è? Credo che poesia sia conoscenza
nella misura in cui rilancia queste domande, le gioca
nel singolo testo, si gioca in quanto possibilità che
non incancrenisce, estasi diveniente che si
spazializza in differenti dimensioni (grammaticale,
retorico-stilistica, semantica, immaginativa,
simbolica ed etica), adunandole in un corpo testuale,
che «non trova riparo», direbbe la Szymborksa, un
corpo che, come scrive Franco Rella, è «limite e
oltranza [...] confine e sconfinamemento».16
16 Franco Rella Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano 2000, p.80. Anche il verso della Szymborksa, tratto dalla terzina «Ora certa, ora incerta della propria esistenza, / mentre il corpo c'è, e c'è, e c'è / e non trova riparo»), è citato da Rella nel medesimo libro (p.203).
140
5. «Perché scrivi?»
Respiro, il che significa direzione e destino.17 Quando
mi si chiede perché scrivo, io rispondo, con Celan:
perché respiro. Dico: respiro, e scrivo. Scrivo del
verso che si contrae e si dilata, del verso-mantice che
dà fiato al mio 20 gennaio. Così facendo, il verso
traduce in canto «lo scandalo insostenibile della
storia»,18 lo muta in direzione e destino. E tuttavia nel
canto, nel mio canto, direzione è destino. Per me
scrivere è andare incontro, andare verso, tornare.
Verso, ossia volgere, girarsi, così che andare lungo la
direzione sia, anche, tornare nei pressi di dov'ero già
stato. E, da qui, parlare. Fato ha la medesima
etimologia; phatos: detto, sentenza, oracolo. E sorte:
annodare, legare insieme. Dico: respiro, e annodo la
17 Quest'ultimo paragrafo vuole esemplificare quanto sostenuto teoricamente in quelli precedenti. Spero non sia letto come atto di vanità o presunzione. Ciascun incipit in corsivo è una citazione tratta da Il meridiano di Paul Celan. La data riferisce alla «soluzione finale della questione ebraica» decisa nella conferenza di Wannsee, a Berlino, il 20 gennaio 1942. 18 Giuseppe Bevilacqua, Introduzione a P. Celan, Il meridiano ecc., ed cit. p.XIV: «La cosa nuova delle poesie che oggi si scrivono [...] è che in esse si tenta [...] di rimanere ben consapevoli delle "proprie date" ossia del proprio 20 gennaio, del modo in cui a ognuno di noi si è rivelato lo scandalo insostenibile della storia».
141
lingua al presente, indicando una direzione, facendo
il verso alla direzione. Guardo indietro, come
l'angelo di Paul Klee. Riconosco nelle macerie il mio
destino. Inorridisco, in loro vedo intero il mio 20
gennaio, la mia «soluzione finale». Eppure destino è
bifronte. Il futuro è già qui, aperto. Direzione è
destino nell'aperto della lingua.
Qui, dove tutto volge alla fine. L'aperto è tutto ciò
che volge alla fine. Volge, in verità, custodisce il
segreto di direzione e destino, del loro essere
siamesi, come ringraziare e pensare, danken e denken.
La lingua si volge indietro, si fa verso e, così
facendo, versa la fine nel corpo del testo, la tiene
nell'aperto. Tiene nell'aperto quel tutto che volge
alla fine. Null'altro. Perché scrivo? Per tenere vivo
altro, ciò che, non essendo qui, volge all'inizio. Ed è
minuscolo, come il corpo del testo, come il respiro
del corpo quando scrive. Null'altro soffia in tutto ciò
che volge alla fine, lo lascia essere. Null'altro non è
meridiano, non consiste, dalla mia soglia, in «tutto
ciò che unisce»,19 bensì è ciò che lascia nella
disseminazione, null'altro che questo dissiparsi delle
19 P. Celan, Il meridiano ecc., p.21: «Trovo quello che unisce, quello che può avviare il poema all'incontro [...] trovo [...] un Meridiano».
142
esistenze nell'aperto del mondo. La poesia che
scrivo dissipa l'aperto nello spazio del testo,
lasciandogli tuttavia il tempo dell'incontro. Giusto il
tempo di un respiro.
La pausa del respiro – questo sperare e pensare –. Tra
l'inspirazione e l'espirazione, l'istante diventa
attimo, un passaggio dove quel tutto che volge alla
fine mostra il null'altro da cui viene. Null'altro spera,
null'altro pensa, mentre tutto volge alla fine. La
poesia asseconda questo destino caduco, nella
pienezza della luce del pensiero e della grazia. Essa
lascia al respiro il canto del proprio 20 gennaio,
dandogli in dono speranza e pensiero. Dico: respiro,
e già ringrazio il creato di stare tutto nella sua fine.
Scrivo per raccontare questo dono, che mi fa essere
qui, null'altro che qui, a cantare le macerie della
storia e i passi che verranno, nell'aperto del pensiero
della speranza. Scrivo questo dono, che è racconto
degli olocausti ed è parola del signore. Minuscolo
perché, al mio signore, l'increato non appartiene.
Signore è questa creatura, sono io-tu, in equilibro su
null'altro.
143
Arte crea lontananza dall'io. Arte opera per la
lontananza dell'io. Che fa olocausti, come ci
racconta Zygmunt Bauman.20 Io erge steccati,
impone scadenze, erige città. Io redige liste di
proscrizione, compila elenchi per gli obitori. L'arte
invece crea salvezza, allontanando l'io; ecco la lista
di Schindler, il quale dice, disperato: potevo salvare
altri ebrei vendendo la mia auto, perché non l'ho
fatto? Schindler, perdendo se stesso, trova
l'umanità. Allo stesso modo, poesia, la mia poesia,
non è tutta mia. Non la controllo pienamente, non
ne dispongo come fosse uno strumento. Piuttosto,
la verso sul foglio e le vado incontro, ne cerco
l'orma per acquietarmi in essa ed ascoltare la pausa
del respiro: speranza e pensiero. Io sceglie l'ascolto,
20 Zygmunt Bauman, Modernità e olocausto, trad. it. Massimo Baldini, il Mulino, Bologna 1992. Bauman parla di razionalità e burocrazia, di pianificazione, tutti processi legati all'affermazione dell'identità moderna, e, come ci ricorda Max Horkheimer, della ragione strumentale quale leva per l'autoconservazione del soggetto. Scrive infatti il filosofo francofortese in Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale: «Alla ragione soggettiva interessa soprattutto il rapporto fra mezzi e fini, l'idoneità dei procedimenti adottati per raggiungere scopi». Essa «è la facoltà di classificare, la facoltà di induzione e di deduzione, cioè il funzionamento astratto del meccanismo di pensiero, sempre identico quale che sia il contenuto specifico» (trad. it. Elena Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino 1978, p.11). Che l'olocausto sia inscritto nell'organizzazione sociale moderna, e dunque nell'affermazione dell'identico a scapito del differente, lo dice anche Hannah Arendt sia ne Le origini del totalitarismo e sia ne La banalità del male.
144
vuole ciò che deve, in nome di altro: «Parlare per
conto di un Altro – chissà, magari di tutt'Altro», scrive
Celan. Vivere poeticamente è assunzione di questa
responsabilità: io nella quiete canta la morte di Dio,
canta speranza e pensiero, e si libera per la propria
fine, scegliendo altro. Scrivo per preparami a
scegliere, in piena libertà di pensiero, ciò che apre
direzione e destino. Se nella mia poesia direzione è
destino, la prassi vuole invece solco e memoria,
passo e meta. Entrambi separatamente perché poeta
è uomo che cammina fra gli uomini. Non dice io,
ma noi. E ama la festa. Eppure poeta, in generale, è
modello astratto, prigione. Poeta, in verità, si
dissemina in questo e quello. E festa talvolta sta chiusa
nella teca per troppa luce oppure rinuncia al canto
perché il poeta, questo poeta, abita da sempre la
mezzanotte dell'olocausto. Non c'è luna lì e il
mondo dimentica. In questo autunno, Celan scelse
l'aprile della Senna. Il suo viaggio crudele non andrà
a capo: giù, nell'ebbrezza del gorgo, per oltrepassare
la notte. Arte crea lontananza dall'io. Vita offesa,
annienta.
145
Lettere a Tiziano (dialogando con Tiziano Salari)
1. La scrittura della finitezza
Carissimo Tiziano, ho finalmente trovato il
tempo per scrivere qualcosa intorno al tuo bel
saggio,1 che coniuga sia il lutto e sia l’attesa
nell’abitare gioioso del mondo, in quella quadratura
di cielo, terra, divini e mortali che, nel mondo
(Geviert) heideggeriano, si custodisce e felicemente
s’irradia attraverso il linguaggio. Mi è piaciuta, in
particolare, la tua declinazione terrestre della poesia
di Hölderlin, in grazia di Bruno, Vanini e Spinoza,
che certo prelude alla domanda se sia ancora
necessario attendere il ritorno degli dei fuggiti,
1 Tiziano Salari, poeta, filosofo e critico letterario, è nato a Verbania nel 1938 [scomparso nel 2014]. Il riferimento è al saggio Poesia, gioia e lutto dell’abitare?, in “Anterem”, n.67, II semestre 2003, pp.41-45.
146
oppure se basti a se stesso e a noi il luogo in cui
stiamo, privato appunto di quella sacralità cui
Hölderlin, amico di Herder,2 gli attribuisce.
Come sai, del «luogo» in questa accezione parla
Alfonso Cariolato in un densissimo saggio,
additandolo quale coessenziale all’essere presente
dell’ente: «Il luogo, per così dire, trascina la cosa di
cui è luogo fuori di sé e là la mantiene, nell’aldilà di
sé che è la presenza stessa». Nessuna metafisica,
dunque, bensì l’eccedersi della presenza nel suo
essere esposta dal e nel luogo: «Il luogo del finito –
continua il filosofo – [...] è anche il luogo di una
dislocazione originaria, di un’eccedenza, di un oltre,
di una trascendenza lontanissima da quella della
vulgata platonica (non vi è qui alcun Altro) e che
costituisce il carattere proprio del venire alla
presenza, del presentarsi in quanto tale».3 Io credo,
appunto, che la scrittura della finitezza comporti
2 Scrive Luca Crescenzi, nella nota alla lirica Vanini, tre quartine di Hölderlin dedicate al filosofo morto sul rogo nel 1619: «Il richiamo a Vanini è un’implicita dichiarazione di fede panteista nello spirito dello spinozismo e in particolare di Herder, che nel suo scritto Dio. Alcuni dialoghi del 1787 aveva citato l’ode Deo dall’Amphitheatrum vaniniano»; in Friedrich Hölderlin, Poesie, a cura di L. Crescenzi, Rizzoli, Milano 2001, p.118n. 3 Alfonso Cariolato, Il luogo del finito. Ventitre studi, prefazione di Jean-Luc Nancy, Il Poligrafo, Padova 2003, p.19.
147
l’abbandono di qualsiasi modello, di qualsiasi Altro
predeterminato, se davvero lo spazio nomadico, di
cui parla Deleuze in Differenza e ripetizione, non è
nulla fino a quando non viene fatto esistere dalle
presenze in transito. E sono queste ultime, nella loro
singolarità già sempre aperta all’altro, ad eccedere il
senso determinato da ogni precedente topografia,
spazializzandosi indefinitivamente.
A questo punto, c’è da chiedersi: che cos’è (che
cosa scrive) una poesia capace di lasciarsi andare a
questo abbandono, senza piantare radici in esso?
Una poesia insomma che ripartisca il proprio spazio
poetico senza verticalizzare, bensì lasciandosi essere
nella superficie del mondo in quanto presenza, in
quanto voce e corpo assoluti, assoluti proprio
perché senza legami di causalità con l’origine?
Origine in senso metafisico, naturalmente, giacché,
essendo la finitezza già sempre gettata, come ben ci
spiegò Heidegger in Essere e Tempo, sarà la tonalità
affettiva dell’autore a diventare l’Eigen, il proprio
singolare, a marcare insomma la sua parola in un
senso o in un altro, prima di ogni controllo razionale
e di ogni progetto preliminare: l’autenticità
(Eigentlichkeit) di un verso sta, infatti, anche in
148
questo scarto immisurabile tra progetto e opera, tra
concetto e corpo finito del testo.
In effetti, esiste un legame viscerale fra autore ed
opera, nel senso che quest’ultima conserva,
deformandola, la carne stessa dell’autore: nei ritmi,
nei sintagmi, nei suoni, nelle cose che la poesia
nomina o tace, pulsa uno sfondo, un’ombra reale,
palpabile, che dice il proprio dell’autore nonostante
l’autore.4 In questo senso, l’opera è l’esercizio stesso
dell’esistenza quando si scopre finita, esercizio che
trattiene, non soltanto l’indicibile e l’inconfessabile
dell’autore, ma anche quanto egli stesso non può
conoscere, mostrandoli tutti in un mascheramento
(effetto della «resistenza», della «rimozione» e delle
«proiezioni» per usare una terminologia
psicoanalitica) che non può essere evitato e che dà
4 Sull'intera questione poesia e caducità, mi piace ricordare la posizione di un poeta di cui non parlerò in questo libro, ma che è di assoluto valore: Mi riferisco a Andrea Ponso, la cui poesia, come ho scritto altrove, «svolge funzione di levatrice (porta alla luce, rilkianamente, "il bicchiere", "il tavolo", "la mano", "l'ossido dei recinti") ma anche di attrice, di colei che mette in scena un dettato che le viene suggerito da un 'nascosto' la cui natura pulsionale, volitiva, archetipica (come la chiama Francesco Marotta) tiene massimamente mobile il dettato stesso, quel visibile, sempre colto allo stato nascente (e incandescente), che lega il lettore al suo gorgo». Cfr. Stefano Guglielmin, Lo scarto debordante della poesia di A.P., in AA.VV., Leggere variazioni di rotta. 20 poeti dal blog LiberInVersi, Le Voci della Luna, Sasso Marconi 2008, pp.127-128.
149
luogo a un proficuo fraintendimento, sul quale si
giocano la complessità e la pluralità
dell’interpretazione.
A tale questione, se ne collega immediatamente
un’altra; riguarda la funzione sociale della poesia, di
cui oggi si ricomincia a parlare. Io credo che essa, in
fondo, non ne abbia; ma ne copra una più radicale,
che oserei definire antropologica (e che Pasolini
aveva intuito): la poesia non serve né a denunciare
l’ingiustizia né ad alimentare il mistero del poeta o,
viceversa, la sua perdita d’aureola, bensì a mettere in
opera le forze esplicite che hanno mosso e
muovono l’uomo sin dapprincipio: la paura
dell’altrove ma anche, nel contempo, il tentativo di
esorcizzarla; il desiderio del centro, quale luogo del
sacro per eccellenza e la consapevolezza che ciò
costi sovrumane miserie; il bisogno di rifondare il
tempo profano, ritualizzandolo, e il sospetto che
nulla possa sottrarci alla deriva della caducità.
Questioni insomma che mettono in luce la
coappartenenza di luogo e scrittura, segnata dai
sentimenti di esilio e di morte.
Se hai pazienza, vorrei aggiungere altre due
parole sull’esilio, che Nancy fa coincidere, per un
150
certo aspetto, con la morte.5 Da parte mia sono
convinto che, in genere e per lo più, il sentimento
d’esilio cominci nell’adolescenza, quando,
completato il distacco dall’origine tramite
l’esperienza dell’infanzia, l’uomo avverte il peso
della propria gettatezza, quel suo essere qui e ora
carico di responsabilità, ma non scelto fino in
fondo, bensì, appunto, sentito come una lontananza
dall’età dell’oro, sia essa l’infanzia oppure un’età a
venire. Mi vengono in mente due esempi, tratti dal
canone consolidato, in cui il legame esilio e infanzia
è evidente: quelli di Giovanni Pascoli e di Cesare
Pavese.
Pensiamo anzitutto alla vicenda del fanciullino
pascoliano, il cui «stupor leggero», lungi dal fondarsi
in una generica ingenuità primitivistica (che pur
compare nel testo omonimo), ha radice nella
scoperta angosciosa della finitezza, così come la
descrive Cebete tebano nel Fedone platonico: «forse
c’è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore
5 «L’immemorabile è per eccellenza ciò che precede la nascita: l’assente di ogni ricordo verso cui risale senza fine una memoria infinita, ipermemoria o piuttosto immemoria. Al di qua o al di là del memoriale, ossia al di là o al di qua del sé e del soggettivabile: l’oltre mondo (la morte, in questo senso), non fuori dal mondo ma presente proprio qui», Jean-Luc Nancy, Visitazione (della pittura cristiana), a cura di Alfonso Cariolato e Federico Ferrari, Abscondita, Milano 2002, p12.
151
di siffatte cose: costui dunque proviamoci a
persuadere a non avere paura della morte come di
visacci d’orco». A differenza del timoroso Cebete,
Pascoli, a cui dobbiamo la traduzione sopra citata,
non intende tuttavia ammaestrare il fanciullino,
legarne l’intuizione con i lacci del corretto
argomentare – cosa per altro impossibile, come
ammette lo stesso Socrate: «Bisognerebbe fargli
ogni giorno gli incantesimi… per liberarlo da questi
timori»6 – bensì sceglie di lasciarlo parlare nella
pienezza delle sue facoltà, preda dunque delle
«lagrime» improvvise, ma libero anche di gioire di
fronte all’aprirsi delle cose che salvano. In questo
modo, egli colloca poeta ed infanzia in una
prossimità originaria che allevia e consola anzitutto
dalla minaccia della morte, quale altrove imminente
capace di scollare tale intimità in nome del destino
finito di ogni cosa. Ciò accade non soltanto per
questioni di contingenza biografica (l’assassinio del
padre e gli altri precoci lutti familiari, il carcere,
l’ingiustizia del diritto, l’incomprensione di cui
Pascoli sentiva circondati i suoi scritti, sia poetici
che critici), bensì per la forza che la finitezza (e in
6 Platone, Fedone, trad. it, Nino Marziano, Vallardi ed., Milano 1997, p.109.
152
Pascoli la si intenda anche quale beato confine)
viene a giocare nell’intero suo sistema: ecco allora il
nido, la campagna, le parole talvolta umili, talaltra
preziose, tutti recinti in cui l’esilio si fa più
sopportabile e meno doloroso, ma ecco anche quel
sentimento d’impotenza che pervade la ricerca del
vero, preda di un senso della totalità imperscrutabile
ai mortali, appunto perché troppo vasto, di là d’ogni
possibile comprensione. Finito sarà allora il
benevolo recinto domestico, ma tristemente
limitato risulterà altresì l’agire ed il comprendere
umano, comunque sempre proteso ad interrogare il
mistero, in una dialettica che Pasolini, vagliando i
risultati della questione sotto il profilo psicologico-
stilistico, così definisce: «nel Pascoli coesistono, con
apparente contraddizione di termini, una
ossessione, tendente patologicamente a mantenerlo
sempre identico a se stesso, immobile, monotono e
spesso stucchevole, e uno sperimentalismo che,
quasi a compenso di quella ipoteca psicologica,
tende a variarlo e a rinnovarlo incessantemente».7
Nella prospettiva da me annunciata, immobilità
e movimento perdono tuttavia ogni tentazione
7 Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, ed. cit., pp.269-270.
153
contraddittoria, rivelandosi invece aspetti del
medesimo sentimento di finitezza che pervade il
poeta e che troviamo ossessivamente ribadito
specialmente in Myricae, secondo una serialità
modale che già tu avevi riconosciuto: esiste in
Pascoli, scrivi ne Il grande nulla, il «ciclo che
potremmo definire dei morti-viventi» con
«Margherita,/ la pia fanciulla che sotterra, al verno,/
si risvegliò al sogno della vita»; il «ciclo del padre
assassinato», e infine «quello dei bambini morti», il
cui compendio è già presente nel canto d’apertura
del libro, in quel Giorno dei morti la cui chiusa recita:
«I figli morti saranno avvinti al padre/ Invendicato.
Siede in una tomba/ (io vedo, io vedo), in mezzo a
loro, mia madre».8 Temi, questi, che ritroveremo
intatti dodici anni dopo, nella prefazione ai Canti di
Castelvecchio, laddove Pascoli afferma che «la vita,
senza il pensier della morte, senza, cioè [...] quello
che ci distingue dalle bestie, è un delirio»; ed
aggiunge, a buon auspicio, rivendicando alla poesia
il diritto d’essere anzitutto l’espressione più
profonda della finitezza umana: «crescano e
8 T. Salari, Il grande nulla. Percorsi tra Otto e Novecento, Tirrenia stampatori, Torino 1998, pp.43-44.
154
fioriscano intorno all’antica tomba della mia
giovane madre queste myricae [...] autunnali».9
Mentre in Pascoli l’infanzia è una condizione
primeva dello spirito, sopravvissuta al rumore della
civilizzazione e, in quanto tale, esperibile ancora
oggi grazie ad uno «studio» che immetta nel
«giardino dell’innocenza»,10 quella di Cesare Pavese
vive di là della soglia, fuori del tempo e dello spazio,
in un luogo in cui la memoria non ha accesso:
mitizzandosi, essa si sottrae a qualsiasi à rebours,
giacché costituisce ‘la purezza iniziale’, quella
condizione originaria cui ci si può mettere in
contatto soltanto operando uno scarto decisivo
nella temporalità cronologica, un salto faticoso che
trova nell’istintività la sua via: il ricordo ordinario,
scrive infatti Pavese, è già l’effetto di un incontro
con il mondo, la conseguenza pratica di
un’esperienza della quale conserviamo un’immagine
sensibile; per questa ragione, aggiunge, tornare
all’infanzia, quale costellazione di «simboli che
ciascuno di noi porta con sé» prima di ogni
riconoscibile accadimento, non significherà «tanto
risalire il fiume della memoria, quanto rimettersi con
9 Giovanni Pascoli, Poesie, Mondatori, Milano 1997, vol.II, p.167. 10 G. Pascoli, Il fanciullino, in Prose, Mondatori, Milano 1946, p.40.
155
abnegazione nello stato istintivo, o in ciò che ne
resta».11 Una disciplina che in Pavese, come
dimostrano moltissime pagine del Mestiere di vivere,
sfiorò l’ascetismo, configurandosi quale titanico
sforzo di ricerca interiore teso alla conquista della
sorgente, di quella fonte – monocorde ed ossessiva
per tutti, com’egli ribadì in Raccontare è monotono
(manoscritto datato 6-12 agosto 1949) – che, in
quanto mitica, si costituisce quale «interiore
immagine estatica embrionale, gravida di sviluppi
possibili, che è all'origine di qualunque creazione
poetica».12
Impossibilitata sin da subito ad avverare tale
compito, la scrittura pavesiana metterà in opera
invece esilio ed infanzia, come tu stesso ribadisci in
Sotto il vulcano,13 quali emblemi duplicantesi
nell’antitesi ombra-luce, città-campagna, ragione-
istinto, maschile-femminile, inferno-paradiso, tutti
11 Cesare Pavese, L’adolescenza, in Saggi letterari, ed. cit., p.277 e pp.285-286. Già in Feria d’agosto, Einaudi, Torino 1946, pp.226-231. 12 C. Pavese, Il mito, in ID., Saggi letterari, ed. cit., p.315. «Ciascuno ha il suo gorgo» scrive in Raccontare è monotono, ibidem, p.308. 13 T. Salari, Sotto il vulcano. Studi su Leopardi e altro, Rubbettino editore, Soveria Mannelli 2005, pp.251 – 268. In questo saggio, oltre che ribadire la valenza mitica, whitmaniana, del progetto pavesiano, Salari riconduce il concetto di "origine" alla sua valenza atemporale attraverso il mito platonico di Er e Il codice dell'anima di James Hillman (cfr. pp.258 – 261).
156
vissuti quali concrezioni nominabili e
massimamente vicine alla morte, concepita nella sua
valenza simmetrica con il mito, in quanto motrici
entrambi della scrittura: «che cos’è che può
inquietarci, esasperarci, impegnarci fino in fondo
per farsi violare, rischiarare, conoscere, se non
l’inviolato, il presentito, l’ignoto?».14
Tirando qualche somma da questo mio
argomentare vagantivo, se ne ricava, mi sembra, che
pensare la finitezza significhi non soltanto sapere
che l’esilio è la condizione ordinaria del vivere, ma
anche togliere l’inganno che l’origine sia qualcosa di
praticabile; il ché comporta vivere l’erranza senza
nostalgia per il ritorno. Se c’è origine, infatti, essa è
già da sempre perduta (Nancy) e, comunque,
anch’essa – se davvero, come scrive Martin Buber,
la relazione originaria è io-tu – non è identità, bensì
porta con sé il proprio essere-differenza,
l’inconciliabilità e l’incomprensibilità dell’accadere
rispetto alla coscienza che vorrebbe fissarlo
univocamente. In altre parole, io credo che noi
siamo già sempre nella verità della presenza, in un
qui la cui temporalità custodisce il disagio della
14 Ibidem, p.319.
157
smemoratezza dell’Inizio e l’ottimismo del
muoversi-verso il luogo in cui già siamo. Un
ritornare che non ha le caratteristiche dell’uscire
dall’inautentico, come molta scrittura
contemporanea lascia intendere, bensì la forza
dell’approfondire il proprio luogo, quell’io
singolare/plurale che è già sempre comunità.15 In
questo senso, è verissimo che, come scrive Flavio
Ermini, «rispondere all’appello dell’origine significa
sospendere il tessuto della continuità storica»,16 ma
non possiamo dimenticare che la gettatezza di cui
sopra ci impedisce di sradicarci da quella continuità:
si tratta di una lotta i cui esiti rendono concreti non
soltanto i differenti stili, ma le stesse ragioni
ideologiche. Chiaro che se l’io abbandona la
presunzione d’essere giudice del divenire, il bene e
il male perdono di assolutezza, diventando quel
bene, quel male, sui quali prendere posizione; e così
capita anche alla salvezza: ci si salva nel senso che si
esce da un luogo per entrare in un altro: la salvezza
è quel passare, quell’esser-capaci-di-scelta, pur
15 Sulla questione, cfr. nota 2 del saggio precedente. 16 Flavio Ermini, Il bozzolo del grande fiore, in AA.VV., La bi-logica, fra mito e letteratura, a cura di Pietro Bria e Fiorangela Oneroso, Franco Angeli Editore, Milano 2004, p.132.
158
sapendo che dal labirinto non si esce.17 Insomma:
non ci si salva per sempre (che è una categoria che
non appartiene ai mortali), bensì temporaneamente,
in quel tempo opportuno (kairos) dove scegliamo la
relazione, l’incontro, la parola, anziché la guerra, la
contrapposizione e il silenzio risentito.
17 Secondo la celebre definizione di Italo Calvino nel saggio La sfida al labirinto, in ID., Una pietra sopra, ed. cit., p.116.
159
2. Bellezza e verità dopo Baudelaire
Caro Tiziano, mi chiedi un’opinione su Il grido del
vetraio;18 credo che, per meglio riconoscerne la
natura, convenga anzitutto indagare la specificità del
dialogo che esso inscena, giacché si scosta sia dalla
dialettica platonica, in cui il discorso ipotetico si
gioca nella relazione fra universale e sua
declinazione particolare, e sia dallo "stare in
posizione", tipico del confronto generazionale. È
pur vero che Mario Fresa (classe 1973) assume un
ruolo interlocutorio, ma ciò accade soltanto di
sguincio, poiché l’intenzione che lo guida non è
tanto la soddisfazione di una lacuna personale o
l’imposizione di un punto di vista, bensì la conferma
e l’approfondimento di un assunto di fondo,
condiviso a priori da te. Il dialogo dunque diventa
l’occasione per sviscerare una complessità, i cui
presupposti si sostanziano nell’evidenza di una
correlazione tra forma, bellezza e verità, a partire
dalla coincidenza, affatto nietzscheana, dell’essere
con il divenire e della sostanza con l’apparenza. Se
18 Mario Fresa, Tiziano Salari, Il grido del vetraio. Dialogo sulla poesia. Nuova frontiera, Salerno 2005.
160
Fresa, chiamando in causa l’esperienza di Juan de la
Cruz e la nozione di sacro avanzata da Walter Otto
ne Il volto degli dei, discorre sul misticismo,
enfatizzando la perdita dell’io quale condizione
dell’incontro con la Verità, tu gli riporti l’attenzione
alla specificità dei moderni, che, con i romantici e
Baudelaire, hanno dato vita alla figura del poeta
‹‹straniero senza famiglia né patria, che spasima per
la bellezza›› ed è alla ‹‹ricerca di un senso all’accadere
di qualsiasi evento nel mondo, una volta rescisso il
legame con una totalità metafisica››.19
Su questa base – che certo presta il fianco, per
esempio, tanto ad una tradizione poetica cattolica
(che ha nei valori evangelici il proprio fondamento)
quanto al poetare d’impianto marxista (il cui
materialismo dialettico sfiora la fede nelle ragioni
conflittuali della Storia) – il dialogo sviluppa alcune
tematiche di assoluto rilievo, anzitutto quella
relativa al rapporto tra scrittura critica e scrittura
poetica, accomunate qui dal concetto di ‹‹creatività››,
laddove la s’intenda un andare avventuroso e senza
ripari, che trasforma i margini del mondo
19 Ibidem, p.13 e p.15.
161
conosciuto ‹‹in transiti››,20 in crocevia aperti al
pensiero mosso dalla ‹‹passione per la Verità››.21 Lo
stampatello maiuscolo rischia tuttavia di ingannare
il lettore: poesia e critica – secondo quanto
premesso – germogliano infatti dallo sfondamento
dell’Universale, per darsi, come sorgive, nel farsi
della scrittura, giacché essere e nulla, dio e uomo, si
toccano nella concretezza della singolarità, che
agisce ‹‹come Saul, il quale era partito per cercare le
asine di suo padre e trovò un regno››: citazione che
tu riprendi da L’anima e le forme di Lukács e che
rivendica appunto l’agire pratico (e dunque etico)
dell’uomo che, nell’allegoria della scrittura, incontra
i propri confini ontologici e dialoga fecondamente
con essi.22 Verità de-teologizzata, quindi, e mai data
20 F. Ermini, Ritratto di poeta come cavaliere con la spada, postfazione a M. Fresa, T. Salari, Il grido del vetraio, cit., p.36. 21 Ibidem, p.26. 22 T. Salari, Le asine di Saul. Per una ripartizione dello spazio poetico, Anterem, Verona 2004, p.50. Il libro organizza la propria materia a scansioni cronologicamente lineari e per piccoli nuclei concettuali tesi a promuovere il ripensamento del canone moderno, a partire da una prospettiva ontologica, capace di coniugare poesia e filosofia. Scelta vincente in ordine alla chiarezza e all’univocità, che si fa intrigante e fecondamente frastagliata quando sfocia nel Novecento. Qui il piglio tendenzialmente divulgativo lascia il passo ad un procedere che, come nel ‹‹nomos… senza proprietà›› di Deleuze o nelle ‹‹Asine di Saul›› raccontate da Lukacs ne L’anima e le forme, crea uno spazio originale, delimitato dallo stesso avanzare del pensiero, alla ricerca di una tradizione italiana, che si sia fatta carico del problema dell’essere e del suo senso. Ecco allora Arturo Graf e Angelo Conti, Enrico
162
per sempre, proprio perché si incarna ogni volta da
capo nello stile singolare dell’autore, che pure, alla
Rimbaud, è pensato, è scritto, quasi che l’auctoritas
gli venisse dal suo essere in ascolto vigile della
propria finitezza, da quel suo farsi orecchio
appassionato del mormorio abissale, di quel
mormorio in cui l’essere, oggi, si lascia pensare.
Secondo la prospettiva del Vetraio, il fatto che
l’essere depotenziato si muova e sia mosso nella e
dalla scrittura, toglie qualsiasi pretesa mistica
all’incontro con il vero, spostando invece
l’attenzione alla ‹‹forma›› (questione che Fresa
Thovez e i vociani (tra i quali spicca Carlo Michelstaedter), e il filosofo Giuseppe Rensi, forse il primo a sdoganare Leopardi dal crocianesimo. Il secondo Novecento è attraversato con rapidità da Salari, il quale si ferma al momento in cui l’interpretazione moderna della letteratura italiana va in crisi, sul finire degli anni Settanta, quando la celebre antologia portiana inaugura la possibilità dialogica della poesia, di contro alla canonizzazione rigida di un modello, com’è stato fino ai Poeti di Mengaldo (ma non mancano passaggi in cui il ritorno all’ordine dell’industria culturale contemporanea viene amaramente commentato dall’autore, leggendolo come ‹‹la morte della poesia››). Il fatto è che Salari da sempre scrive contro l’incubo della storia e l’angoscia di saperci sospesi tra due vuoti: una navigazione babelica, la sua, che assomiglia a quella di Odisseo, un andar per mare spinto da un’ansia tutta interiore, verso la propaggine di una terra che si chiama autobiografia. Anche quest’ultimo saggio (‹‹Introduzione [...] di una più ampia ricerca che porta il titolo Poesia e senso dell’essere››) costituisce un temporaneo approdo, una messa in forma provvisoria della presenza dell’autore nel mondo, come lo fu, per Leopardi, ogni pensiero dello Zibaldone. In questo senso, l’aver ripercorso due secoli di storia letteraria europea in parte già consolidata, non si scopre mera erudizione, bensì viaggio emozionato assieme ai fratelli maggiori, a quegli uomini che hanno saputo sopportare, prima degli altri, la ‹‹solitudine del poeta›› nella civiltà moderna.
163
affronta magistralmente), forma che è il finito del
testo, il suo bordo sintagmatico e paradigmatico,
che tende a tracimare nella misura in cui, pur
conservandosi in quanto modello, lascia essere la
pluralità del senso, tenendo heideggerianamente
vicini, poetare, pensare e ringraziare.23 Tali esercizi
creativi (continua il Vetraio) – che, attraverso la
forma e la bellezza, danno figura all’apparire del
vero, appunto perché legati alla prassi – conducono
aristotelicamente alla felicità, ‹‹che è l’aspirazione
ultima dell’uomo››.24 Conclusione, questa, che
supera d’un colpo uno dei miti (da sfatare) della
modernità, e che già Franco Rella aveva rilevato in
Miti e figure del moderno, ossia l’idea che la malattia sia
l’altrove capace di liberare il soggetto dal tempo
della storia, isolandolo in un luogo di maledetta
beatitudine – sia esso la Castalia o l’Oriente
23 Concetto poi ripreso da Paul Celan in Allocuzione al premio letterario "Città anseatica di Brema" (1958): «Denken (pensare) e Danken (ringraziare) hanno nella nostra lingua la stessa identica origine. Chi ricerca il loro significato si porta nel campo semantico di: gedenken (richiamare alla memoria), eingedenk sein (essere memori), Andenken (pio ricordo), Andacht (devozione)», in Id., La verità delal poesia. Il meridiano e altre prose, trad. it. Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p.34. In Heidegger, del resto, la tensione-torsione tra Dichten (il poetare), Denken, Danken e Andenken emergono già nella Lettera sull'Umanesimo (1946) e si approfondiranno ne In cammino verso il linguaggio (1959). 24 M. Fresa, T. Salari, Il grido del vetraio, cit., p.16.
164
hessiani, la casa di cura della Montagna incantata,
l’epilessia del Principe Myskin o la nevrosi di
Flaubert – dove votarsi ad una mistica della
profondità che già Nietzsche, nei Frammenti
postumi 1888-1889, aveva criticato.25 Giustamente
t’interroghi, a questo proposito: ‹‹Non si tratta più
di trovare l’espressione giusta per il grido del
vetraio, ma di far risuonare (sentire) nelle parole il
disincanto del mondo? O forse questo è il passato
(l’incubo) da cui ci dobbiamo risvegliare?››.26
Che cosa significa, tuttavia, risvegliarsi dal
‹‹disincanto del mondo›› (e dall’idea che il dolore sia
la condizione sine qua non per accedere allo scrigno
sepolto del vero), sganciandosi di conseguenza da
una tradizione che ha infettato particolarmente la
cultura europea degli ultimi due secoli? Te lo chiedo
perché, se è vero che l’angoscia della perdita del
centro va superata dal di dentro, assumendola
nietzscheanamente fino in fondo, occorre anche –
per la cultura italiana – un ripensamento della logica
di Leopardi, padre del nichilismo moderno, un
rimettersi ad essa che consenta lo scarto di lato, così
25 Franco Rella, Miti e figure del moderno. Letteratura, arte e filosofia, Feltrinelli, sec. ed. ampliata, Milano 2003, pp.46-52. 26 M. Fresa, T. Salari, Il grido ecc., cit. p.23.
165
che il nulla fondante (malgrado l’apertura al
consorzio civile della Ginestra) non sia buco nero
che assorbe l’avvenire, bensì terra fertile, solco sul
quale scommettere un destino; in questo,
l’immagine di Nelly Sachs – ripresa da Ermini e,
altrove, da Galaverni,27 del poeta cavaliere con la
spada che, scrivendo, assalta la vita (‹‹un cavaliere
appiedato con la divisa lacera››28 precisa Ermini, per
toglierle connotazioni romantico-apocalittiche
presenti nella stessa Sachs) – è assai appropriata,
appunto perché recupera la figura del soggetto ma
nell’accezione postmoderna, ossia di colui che si
orienta parzialmente nella realtà rizomatica, e
gode/patisce del proprio essere comunità, punto di
vista dialogico, snodo e antenna che mette in forma
le voci sue e non sue in sequenze verbali in cui la
tecnica passa in secondo piano, cosicché la forma
sia, appunto, forma di vita, quel dischiudersi
dell’essere, la cui verità e bellezza risiede nel suo
essere qui, sparpagliato nell’esistenza.
27 Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. Una difesa della poesia, Fazi, Roma 2006. 28 F. Ermini, Ritratto di poeta come cavaliere con la spada, cit. p.35.
167
Canone e finitezza
1. Letteratura, storicità, ontologia
La riflessione che segue pensa il legame tra
letteratura e ontologia a partire dalla rinuncia
dell’essere impronunciabile, così come suggerisce
Jean-Luc Nancy ne L’essere abbandonato, al fine di
lasciarlo essere, appunto, in quanto fioritura
singolare ed in sé mancante di nulla, che ha luogo
ogni volta daccapo nelle cose che sono. Per quanto
ci riguarda, questo significa che, in ogni opera
letteraria, la finitezza si gioca interamente, venendo
a coincidere con l’aver-luogo, nel linguaggio, della
singolarità dell’esserci, la quale è già sempre gettata
168
in una rete di comunicazioni significative, in
un’apertura storico-linguistica dove gli altri «non
sono coloro che restano dopo che io mi sono tolto
[…] [bensì] quelli dai quali per lo più non ci si
distingue e fra i quali, quindi, si è».1
Affermare che la finitezza si affida alla
letteratura, al modo di un’unità sorgiva che feconda
diversamente ciascuna scrittura,
nell’inconsapevolezza parziale dell’autore,
comporta il disconoscere alla letteratura familiarità
essenziale sia con la poiesis sia con la praxis e
dunque con tutta quella serie di fatti, vincolati
all’intenzionalità, che appartengono alla
progettualità storica. E nondimeno la letteratura è,
anche, una téchne, con il suo armamentario di
competenze settoriali ed il suo laboratorio, così
com’è il frutto pratico della volontà degli uomini,
nella misura in cui consiste in una scelta (linguistica,
stilistica, ideologica, filosofica ecc.). In tale reticolo
– dove òntos, praxis e téchne, incontrandosi,
sostanziano la letteratura – ad essere oggetto di
riflessione storiografica non può essere la finitezza,
bensì la sua espressione ontica, transitoria,
1 Martin Heidegger, Essere e Tempo, ed. cit., p.153.
169
quell’insieme di cose letterarie (cui la tecnica e la
prassi rinviano), le quali incontrandosi, alleandosi,
scontrandosi, danno vita (prima di estinguersi)
all’intreccio sommamente complesso e plurale che
si chiama storia della letteratura.
L’essere così dell’Esserci, d’altro canto, si trova
in una relazione essenziale, attiva e niente affatto
pacifica con l’apertura storica in cui è, una relazione
di coappartenenza, resa effettiva – nei suoi attriti e
nelle sue concordanze – dal linguaggio. In questo
senso, l’opera, che sia capace di lasciar essere fra le
proprie maglie l’irripetibile alterità dell’io
singolare/plurale, rischiara non un aspetto qualsiasi
del movimento storico cui quest’ultimo appartiene,
bensì la problematicità essenziale (colta da una
specifica prospettiva) che ciascuna apertura storico-
linguistica implicitamente possiede, quel fondo
indescrivibile ma reale, quella linea d’ombra esposta
sul nulla che costituisce l’orizzonte insuperabile ed
inquieto della coappartenenza stessa.2 Ciò avviene,
come detto, a patto che l’autore sia riuscito davvero
2 Un concetto analogo è espresso da Giorgio Agamben in Che cos'è contemporaneo (Nottetempo, Roma 2008, p.9): la contemporaneità, scrive, è «quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo» (in corsivo nel testo).
170
a scrivere in prossimità del proprio margine; in
prossimità, si badi bene, non sul bordo estremo,
giacché questo è irraggiungibile, essendo la parola
personale già sempre compresa entro un orizzonte
linguisticamente dato, sia quest’ultimo identificabile
nella «langue» saussuriana, oppure nella sommatoria
di giochi linguistici fra loro familiarmente uniti,
come nel Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, o sia
esso invece, heideggerianamente, il luogo in cui il
«Dire originario» resta custodito.
Senza entrare in merito alle specifiche posizioni
e dando invece per acquisito il concetto cui tutte
rinviano (e cioè che nessun parlante inventa ex novo
un linguaggio e che, anzi, il linguaggio ordinario
mette in forma la realtà del parlante; ma anche – e
questo è decisivo – che ciascuno ha un margine di
libertà, uno scarto, entro cui giocarsi la propria
collocazione), possiamo affermare, per contrasto,
quanto segue: qualora il lasco dal bordo estremo
non sia avvicinato e frequentato dall’autore, l’opera
e la stessa finitezza che in essa respira risulteranno
sempre meno singolari, fino ad annullarsi quasi
completamente entro l’apertura epocale cui
appartengono, come afferma, pur con altri
presupposti, l’«estetica della ricezione» di Hans
171
Robert Jauss, allorché riconosce all’opera di valore
la capacità di creare una distanza fra se stessa e
«l’orizzonte di attesa» del pubblico, aggiungendo
che, «nella misura in cui questa distanza diminuisce,
e alla coscienza del ricettore non viene chiesto
nessuno spostamento sull’orizzonte di
un’esperienza ancora ignota, l’opera si avvicina
all’ambito dell’arte dozzinale o di intrattenimento».3
3 Hans Robert Jauss, Perché la storia della letteratura?, a cura di Alberto Varvaro, Guida, Napoli 1969, pp.44-45. Si veda anche l’analoga prospettiva di Harald Weinrich nella sintetica ricostruzione che ne fanno Andrea Battistini e Ezio Raimondi ne Le figure della retorica, Einaudi, Torino 1984 e 1990, pp.499-500. Anche Agamben, nel saggio citato nella nota precedente, ribadisce: «Coloro che coincidono troppo pienamente con l'epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa» (pp.9-10).
172
2. L’eversione della finitezza ed il canone
fisiologico
Esistono dunque differenti gradi in cui opera e
finitezza si incontrano, fino a quello minimo, dove,
per parafrasare Saussure, la «parola» dell’opera è
tutta compresa e dispiegata nella «lingua» della
civiltà d’appartenenza, senza scarti se non quelli –
aggiungiamo noi – minuscoli ma essenziali, prodotti
dall’irriducibilità dell’Esserci singolare/plurale. E
quanto più profondamente la parola attinge
dall’infondatezza esposta che ciascun Esserci è,
tanto più l’opera sarà potenzialmente
destabilizzante per l’apertura storico-linguistica in
cui essa s’insemina, appunto perché ne svela, anche
senza volerlo, l’instabilità di fondo.4
Per confermare tale assunto e per sottolinearne
le conseguenze, pensiamo alla Commedìa dantesca,
alla sua feconda resistenza alla realtà del Trecento,
4 Lo stesso concetto, ma con un’intenzione neutrale, è affermato da Roland Barthes nel breve saggio Storia o letteratura?: «L’opera è essenzialmente paradossale, è segno della storia e insieme resistenza ad essa. [...] Tutti sentono chiaramente che l’opera sfugge, che è altro dalla sua storia, dalla somma delle sue fonti, delle sue influenze o dei suoi modelli». In Giuseppe Petronio, Teoria e realtà della storiografia letteraria. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1981, p.114.
173
sia esso concepito sotto il segno della croce
cristiana, oppure rispetto alla cognizione di patria
guelfa o ghibellina, in Firenze, oppure, ancora, nei
confronti del modo ordinario di intendere il
‘comico’ ed il ‘sublime’ nella retorica coeva.
Resistenza che – proprio per la sua forza eversiva
rispetto ai fattori stabili del suo presente – si
tradusse in marginalità, almeno fino a quando
l’epoca non trovò il farmaco in grado di rifondarne
il valore, secondo l’utile che le convenne. Nello
specifico, tutto questo significò un immediato
sfruttamento ecclesiastico finalizzato a dominare i
fedeli con immagini forti dell’aldilà, ma comportò
anche la difficoltà, da parte delle epoche successive,
di ricavarne un’ideologia funzionale; obiettivo che
fu infine raggiunto – per quanto riguarda l’Italia –
nel Romanticismo risorgimentale, età in cui il
toscano colto risultò linguisticamente perfetto,
nell’insieme dei valori trasmessi, al liberalismo
moderato ottocentesco (si pensi al Manzoni), e
Dante divenne l’eroe dell’amor patrio (da Alfieri a
Foscolo, da Mazzini, Giusti fino a Carducci, senza
dimenticare il Leopardi delle canzoni Sopra il
monumento di Dante e Ad Angelo Mai) oppure, negli
scrittori cattolici, il primo fautore della coscienza
174
religiosa quale fondamento della libertà individuale
(cfr. il Tommaseo).
Ad ogni modo, ciascuna apertura storico-
linguistica economizza queste tensioni conflittuali,
per esempio sfruttando le possibilità che esse
offrono, sia rispetto agli autori viventi (per la
rimessa in discussione degli equilibri di potere: a
livello di distribuzione delle cattedre universitarie e
della politica culturale, o di formazione di un
mercato di nicchia o, ancora, di equa distribuzione
dei premi letterari) e sia rispetto al passato, per una
più solida genealogia. Questa seconda prospettiva
spiega, a distanza secolare, la necessità fisiologica di
un canone letterario che riconosca una linea
maggiore d’autori e di opere, adeguatamente
contestualizzate in una periodizzazione credibile,
capaci di supportare ideologicamente la forma
acquisita da una civiltà, secondo il modello a suo
tempo riconosciuto criticamente da Nietzsche (e qui
invece pensato come fisiologico – ossia necessario
– alla modernità), quando parla di «storia antiquaria»
quale conseguenza della «felicità di non sapersi del
tutto dispotici e casuali, ma di saper di svilupparsi
da un passato quali eredi, fiori e frutti, e di essere
perciò perdonati, anzi legittimati della propria
175
esistenza».5 In questo senso sarà inevitabile, per noi
europei occidentali, riconoscere ad Eschilo, la cui
opera complessivamente fonda la necessità dello
stato di diritto, maggiore autorevolezza rispetto a
Cecco Angiolieri (che potremmo definire:
catastrofista anarchico) al quale, altrettanto
inevitabilmente, preferiremo sia Dante che Petrarca,
il cui Canzoniere fu modello di stile per i letterati
successivi, ma non certo per l’intraprendente
borghesia comunale, dalla quale pur assimilò uno
spiccato individualismo, e nemmeno per la Chiesa,
preoccupata com’era ad insegnare il disvalore del
corpo e ad affermare la regula fidei tomista.
Autori destabilizzanti nell’epoca in cui vissero,
Dante e Petrarca furono tuttavia utilissimi in
seguito, per giustificare lo spirito avventuroso
eppure posato della modernità e la temperata
solitudine non ancora diventata alienazione che la
contraddistingue. Più difficile sarà, per la civiltà
platonico-cristiana cui apparteniamo (pensata qui
nella secolarizzazione liberal-capitalistica)
trasformare in classici – e dunque in pilastri fondanti
5 Friedrich W. Nietzsche, Sulla storia. Utilità e danno della storia per la vita, a cura di Angelo G.Sabatini, Club del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1981, p.108.
176
il presente, con tutta quella carica didattico-
pedagogica che una storiografia letteraria comporta
– quelle opere in cui si mostrano la nuda alienazione
o il «male di vivere», l’assurdo o la «schizofrenia
universale», quali condizioni ordinarie dell’esistere.
Il fatto che, nonostante tutto, molti scrittori
occidentali dell’Otto-Novecento – pur
evidenziando nelle loro opere, inequivocabilmente
e sotto diversi aspetti, il disagio della civiltà (da
Leopardi a Nerval, da Rimbaud a Joyce, da
Lautrémont a Mann, da Pirandello a Svevo da Eliot
a Beckett, da Kafka a Borges) – stiano acquisendo
(o abbiano acquisito) lo statuto di classici, significa
semplicemente che il rapporto fra storiografia
letteraria e civiltà occidentale non è lineare né
pacifico. Se infatti la prima, al suo nascere, ha
cercato di diventare funzionale allo sviluppo del
principiante capitalismo (si vedano, per tutti, la
Storia della letteratura antica e moderna di Friedrich
Schlegel e la Storia della letteratura italiana di
Francesco De Sanctis), complicherà in seguito il
proprio rapporto con quest’ultimo, secondo almeno
cinque linee di sviluppo: 1) rivendicando il diritto di
autonomia di giudizio nell’ambito estetico (fino alla
posizione estrema di Benedetto Croce il quale,
177
riconoscendo alla monografia il compito precipuo
della critica, nega la possibilità stessa di una storia
letteraria); 2) costruendo un anti-canone, sul
modello della critica engelsiana, in cui gli autori
sono scelti in base alla loro capacità, magari
inconsapevole, di esprimere tendenze sociali
oggettive o di anticipare una possibile forma di vita
sociale alternativa a quella reificata, come ribadisce
l’estetica francofortese;6 3) coniugando lo specifico
letterario con l’avalutatività, l’oggettività, la
sistematicità e la verificabilità del metodo
scientifico. Pretese avanzate dallo strutturalismo e
dalla semiologia, da un lato, e dalla filologia
dall’altro, tutte discipline generalmente poco
interessate alla storiografia; 4) riconoscendo, con
Giacomo Debenedetti e Italo Calvino, una
coincidenza analogica (ma non metodologica) fra lo
sviluppo della ricerca scientifica ed il fare della
letteratura; 5) affermando l’impossibilità di costruire
un modello epistemologico valido per l’intera
apertura epocale, in seguito alla parcellizzazione dei
6 Sulla questione, si veda anche il saggio di Fausto Curi, Canone e anticanone. Viatico per una ricognizione, in “Intersezioni”, XVII, dicembre 1997, pp.495-511.
178
punti di vista sulla Storia, come per esempio
sostiene Remo Ceserani.
Tutte queste posizioni, delle quali ho dato per
brevità di spazio una sommaria e certamente
inadeguata sistematizzazione, hanno un aspetto in
comune: pur sostenendo – fra gli altri – autori poco
consoni alla fisiologica sopravvivenza
dell’ottimismo moderno, premono egualmente
sull’apertura storico-linguistica affinché i risultati
delle loro ricerche siano condivisi. E lo fanno,
inevitabilmente, entrando in relazione con i nuclei
forti della stessa: anzitutto con l’Università, che
detiene in pratica l’esclusività dei ‘discorsi sulla
letteratura’, e, in secondo luogo, con l’industria
culturale, case editrici e riviste letterarie in testa,
tutte a sostenere, in armonia con l’accademia
oppure in conflitto con essa, canoni militanti.
In definitiva, canone fisiologico significa proprio
questo: la necessità pratica, pertinente dunque alla
decisione politica ed economica, di fondare il
proprio modello di sviluppo su di una tradizione
culturale autorevole; ma anche l’inevitabilità
dell’incontro/scontro fra questo bisogno fisiologico
e l’ingegno della critica storiografica, pioniera nello
scandagliare possibili, e dunque memorabili,
179
soluzioni. In base poi al potere acquisito da una
determinata corporazione letteraria, il canone
proposto migliorerà in durata, andando a rinforzare
(salvo leggeri aggiustamenti, altrettanto fisiologici)
quello al momento dominante.7 Un chiaro esempio
di tutto ciò, lo troviamo nel dibattito maturato negli
Stati Uniti tra gli anni Ottanta e Novanta, tra la
posizione che, come scrisse David Demby, pensa
alla letteratura quale «corpo di nobili (e statici) valori
che dovrebbero essere inoculati a ogni generazione
di studenti americani» e, dall’altro, quella prodotta
dalle spinte femministe e radicali (da Donna
Haraway ad Harold Bloom) verso l’apertura
canonica alle minoranze etniche e alla letteratura
della differenza sessuale.8
7 Analoga la posizione di Guido Mazzoni: «Il giudizio del tempo non è altro che la santificazione postuma di un arbitrio, il tentativo di attribuire un ingiustificato valore universale a testi, immagini del mondo, valori che hanno trionfato al termine di uno scontro combattuto in nome della pura volontà di potenza: la lotta di uno scrittore per sovrastare gli scrittori rivali; la lotta di una cordata letteraria per acquisire visibilità a scapito di altre cordate; la lotta di un gruppo sociale contro i gruppi concorrenti per trasformare i propri gusti in gusti di tutti. [...] In questa ottica, il vincitore della battaglia per la memoria non incarna lo Zeitgeist, ma il trionfo di un interesse contingente su un altro interesse contingente, di un egoismo su un altro egoismo». In Id., Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna 2005, p.18. 8 David Denby, Grandi libri, trad. it., Lucia Olivieri, Fazi, Roma 1999. Citato da Massimo Onofri, Il canone letterario, Laterza, Bari 2001, p.23.
180
3. Canone fisiologico e storiografia letteraria
Nel paragrafo precedente s’è affermato che
esiste un margine entro cui la singolarità gioca la
propria irripetibile collocazione, una soglia dalla
quale la scrittura, liberandosi parzialmente del già
detto, dona al lettore una porzione d’inaudito.9
Nella storiografia letteraria, questa convinzione
viene generalmente fatta coincidere con il concetto
di ‘originalità’. Ad essa, quale che sia la sua forza
condizionante, i differenti indirizzi poetici danno
comunque valore, anche quelli che impongono
strette griglie retorico-stilistiche cui attenersi: i canti
trobadorici, per esempio, oppure il petrarchismo
cinquecentesco, dove lo stereotipo viene appunto
superato attraverso l’uso ‘creativo’ dell’imitazione,
oppure, ancora, la poesia pastorale dell’Arcadia, i cui
9 La certezza che l’opera non si esaurisca nella sommatoria delle tensioni interne ad un’apertura storico-linguistica, bensì possegga una qualità sua propria, tale da renderla irriducibile a qualsiasi genotipo intertestuale, appartiene da decenni anche al bagaglio della critica marxista: si pensi agli studi sulla musica beethoveniana di Hanns Eisler e allo strutturalismo di Louis Althusser, dove l’autonomia del «materiale artistico» è relativamente garantita. Sull’argomento cfr. Helga Gallas, Teorie marxiste della letteratura, trad. it. Giorgio Backhaus, Laterza, Roma-Bari 1974, pp.227-229.
181
moduli tematici e formali trovano ragione nella
capacità soggettiva di ricombinarli in soluzioni
nuove. In questo senso, l’originalità – diventando
sinonimo di forza innovativa – viene riconosciuta
quale discriminante soggettiva della discontinuità, di
ciò che costituisce la portata individuale e tutta
interna del divenire letterario, in correlazione con il
processo, anch’esso molteplice e discontinuo, della
Storia tout court. Le maggiori opere già canonizzate
da una tradizione altro non sono, in tal senso, che la
risultante dell’incontro/scontro dei due momenti,
secondo una modulazione assai problematica e
risolta differentemente dai singoli indirizzi storico-
letterari. Questo significa, in altri termini, che il
canone fisiologico, se sotto il profilo didattico-
pedagogico e ideologico contribuisce a creare una
genealogia autorevole ad una specifica civiltà,
rispetto invece alla discontinuità, altro non è che la
sommatoria – accuratamente registrata e
organizzata dalle diverse scuole storiografiche
secondo il proprio modello ermeneutico – delle
forme assunte dall’attività letteraria nei secoli, a
partire dai ruoli giocati dai molteplici attanti, primi
fra i quali l’autore, il sistema socio-economico e i
lettori. Autore che diventa protagonista della
182
triangolazione nella misura in cui riesce ad imporre,
attraverso il testo e la prassi biografica, il proprio
modello estetico su quelli esistenti e ad influenzare i
successivi, in un intreccio con gli altri attanti la cui
complessità ci è poi raccontata, appunto, dalla
storiografia letteraria.
L’insistenza sulla terminologia narratologica non
è casuale; fa invece riferimento all’idea, non nuova,10
secondo cui la storiografia usi con tale frequenza
strategie narrative, per mettere a fuoco la verità del
discorso, da confondersi pienamente con la
letteratura a tutto tondo. Esasperando questa
prospettiva, potremmo affermare che gli storici
della letteratura, ciascuno secondo i meriti e gli
interessi propri, contribuiscano a riscrivere – con
minuscoli aggiustamenti sulla versione fornita loro
dalle scritture precedenti, dovuti al diverso accento
posto sugli autori, sul testo, sul sistema socio-
economico, oppure, ancora, sul lettore – il grande
romanzo della letteratura (per esempio italiana) in
una mobile mescolanza di generi e di ruoli degli
10 Cfr. Gianni Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Garzanti, MI 1985, pp.16-17, Remo Ceserani, Raccontare la letteratura, Bollati Boringhieri, TO 1990, pp.17-32; Jerome Bruner, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, trad. it. Mario Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2002, pp.3-69.
183
attanti, tesa comunque a confermare, pur con
differenti orientamenti ideologici, quell’indole
didattico-pedagogica già riferita in precedenza. Ma
ciò che più conta riposa nel fatto che questo
lunghissimo romanzo borghese,
inconsapevolmente progettato da Girolamo
Tiraboschi nel secondo Settecento e cominciato
effettivamente dallo Schlegel, ha ormai consolidato
i nomi dei protagonisti, per cui da essi non è più
possibile prescindere, almeno fino a quando
rimarranno invariate le strutture storico-linguistiche
dell’Occidente. Ma se davvero lo storico della
letteratura non può prescindere dal canone
impostosi tradizionalmente (giacché egli appartiene
alla medesima tradizione e non ha dunque appigli
esterni alla trasmissione dei saperi ereditati, che gli
consenta di produrre una scala di valori
assolutamente altra, a meno di non aprire
geograficamente il canone alle letterature del
mondo, globalizzandole, con il rischio tuttavia di
disconoscere la specificità dei singoli orizzonti
storico-linguistici e geografici), allora il margine di
libertà che gli spetta s’identifica con la possibilità di
rimettere in discussione o di scalzare gli scrittori (i
personaggi) che la tradizione ha riconosciuto come
184
meno significativi e di rileggere con sempre nuovi
parametri quelli già consolidati.11
11 Si pensi, per quanto riguarda il primo caso, alla fortuna aleatoria dell’Angiolieri fra Otto e Novecento, dopo secoli di oblio e, rispetto alla seconda eventualità, alle infinite letture dell’opera dantesca, mai venute meno – per quanto riguarda la nostra apertura epocale - a partire almeno dal De Sanctis.
185
4. La critica e il valore di verità dell’opera
Il concetto di originalità (quantitativamente
intesa) non esaurisce invero la questione, anzi risulta
fuorviante; esso infatti premia qualsiasi
innovazione, sia questa frutto della razionalità,
come nell’arguzia barocca, oppure dipenda
dall’eroica disposizione al sublime dello scrittore
romantico: in entrambi i casi, la storiografia registra
la discontinuità delle opere rispetto all’esistente e le
cataloga quali espressioni degne di caratterizzare un
canone. E ciò necessariamente, dovendo essa
anzitutto descrivere un processo storicamente
accaduto e soltanto secondariamente interpretarlo.
Il fatto, poi, che anche la descrizione appartenga ad
una tipologia narrativa, rende semplicemente più
interessante e convincente il lavoro storiografico,
ma nulla aggiunge in ordine ai contenuti. A ragione,
dunque, Remo Ceserani sostiene che «il criterio
dell’innovazione, utile forse sul piano della
ricostruzione storica, non può funzionare nella
ricostruzione critica». Qui, infatti, entra in gioco il
giudizio di valore estetico, il quale a sua volta non
può prescindere dal sistema sociale di riferimento in
186
cui agiscono e acquistano significato modi, generi e
forme retoriche.12 In questo senso, qualsiasi giudizio
sul valore estetico di un’opera, dovendo misurarsi
con le gerarchizzazioni dell’immaginario e del
simbolico vigenti nel sistema di riferimento,
risulterà subordinato all’individuazione dettagliata
della gerarchia stessa, obiettivo che a sua volta
implica un’analisi precisa del sistema nel suo
complesso, con un evidente sforzo interdisciplinare;
ma il lavoro davvero improbo comincia quando,
avuto a disposizione un congruo numero di dati, si
deve cercare una sintesi che tenga coerentemente
insieme il tutto e che infine sia capace di mettere in
risalto inequivocabilmente il valore dell’opera. Fra
l’altro, occorre rilevare che qualsiasi posizione che
intenda determinare il valore (estetico, filosofico,
sociale, etico, monumentale ecc.) di un’opera è
costretta a considerare l’opera stessa quale segno di
qualcos’altro, il quale diventa il vero oggetto del
discorso, a cui risalire appunto attraverso l’esegesi
del testo (anche il valore estetico, infatti, rinvia
all’ideale di bellezza di una civiltà, ed è di questo
ideale che l’opera si fa segno).
12 R. Ceserani, Raccontare la letteratura, cit., rispett., p.14 e p.148.
187
La via d’uscita a tale mastodontico impiego di
forze, potrebbe essere quella che, scartando il
criterio quantitativo dell’originalità e accettando la
relatività di qualsiasi giudizio di valore estetico,
sceglie di considerare il valore di verità dell’opera,
quest’ultima intesa quale segno «che non si lascia
consumare nel rinvio»,13 luogo dell’accadere in cui
la finitezza dell’Esserci si mette completamente in
gioco e, cosi facendo, mette in gioco le fondamenta
stesse dell’apertura storico-linguistica cui
appartiene.
In che senso, tuttavia, l’esserci mette in gioco le
fondamenta di un’apertura cui è coessenziale,
un’apertura che non fonda nulla se non se stessa in
quanto sfondo continuamente ri-detto dai parlanti?
In via preliminare si può rispondere a questa
domanda, ricordando quanto già affermato in
precedenza: la coappartenenza esserci-apertura
avviene sotto il segno dell’alterità, della differenza,
della non adesione completa dell’uno sull’altra (e
viceversa). L’Esserci non è, senza margine di scarto,
l’apertura; l’apertura non è, senza margine di scarto,
l’Esserci; e comunque l’uno e l’altra sono
13 G. Vattimo, La fine della modernità, cit., p.81.
188
conflittualmente presenti in quanto messi in gioco
nel linguaggio. In questo senso, anche le strutture
della storicità (politica, economia, religione, cultura,
scienza, costume ecc.) sono in quanto organizzate
sintatticamente e semanticamente dal linguaggio, il
quale va inteso quale sommatoria conflittuale e/o
armoniosa dei singoli codici verbali e non verbali
agenti in un determinato orizzonte storico-
geografico. Si tratta, com’è evidente, di una
circolarità ermeneutica, che non si discosta di molto
dalla posizione espressa dell’antropologo
Alessandro Duranti allorché, riprendendo la tesi
dall’Husserl de La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale e verificandola per analogia
con la «visione samoana» e con quella del "secondo"
Wittgenstein, afferma che «il linguaggio non crea il
mondo, ma lo "costituisce", lo rende possibile, lo
spiega, lo aiuta ad essere in un certo modo per dei
soggetti pensanti e agenti in esso».14
Per quanto ci riguarda, avendo riconosciuto alla
coappartenenza Esserci-Apertura la non
omologazione, è chiaro che, qualora l’Esserci riesca
a parlare dalla propria irripetibile soglia, la parola
14 Alessandro Duranti, Etnografia del parlare quotidiano, La Nuova Italia Scientifica, Milano 1992, p.143.
189
metterà in essere quell’attrito che costituisce
l’effettività dell’incontro con l’apertura stessa. In
questo senso, la scrittura dalla soglia non fa altro che
lasciar essere l’irripetibile attrito che l’esistenza
singolare/plurale genera entro la propria
collocazione storico-linguistica. Un attrito
fondamentale, potremmo dire, in quanto deriva
dalla gettatezza ontologica dell’Esserci e la cui
verità, appunto per questo, sfugge in gran parte
all’Esserci stesso. Riposa in questa non disponibilità
alla coscienza dell’attrito fondamentale, il valore di
verità dell’opera. Quando infatti quest’ultima è
costruita a tavolino, costituendosi quale frutto
consapevole di un sapere poietico (secondo il
modello hobbesiano e poi vichiano del ‘conosco
soltanto ciò che ho prodotto’), l’attrito
fondamentale presente in essa si deforma,
cristallizzandosi nella coscienza sotto forma di
schieramento esistenziale, politico, ideologico,
oppure di militanza letteraria, in qualcosa insomma
di legato all’intenzionalità e alla competenza tecnica.
Quando invece l’autore accetta il parziale naufragio
che ogni scrittura sulla soglia impone (in verità può
non farlo soltanto limitatamente: pena
l’omologazione e dunque la negazione di sé in
190
quanto autore), allora a mostrarsi davvero,
nell’opera, sarà l’esistenza stessa, quel suo
particolare attrito con l’apertura. E tuttavia, proprio
perché l’atto creativo presuppone un non sapere
radicale, tale riconoscimento spetta alla critica,15
attraverso l’analisi testuale: non è forse suo compito
quello di verificare la tenuta di un testo letterario
sotto il profilo linguistico, retorico-stilistico,
tematico, eccetera? Il concetto di "tenuta", seppur
generico, bene chiarisce la natura demistificante
dell’atto critico, teso com’è a smascherare
l’apparenza, al fine di mettere in risalto quanto di
memorabile l’opera contiene. E ciò accade sempre,
indipendentemente dai presupposti teoretici: si
studia un’opera non per certificarne l’esistenza,
bensì per verificarne la necessità. E quanto più ci
sembra che questa sia confermata, tanto più la
consideriamo importante, degna di entrare nel
15 Lo stesso Blanchot, pur negando valore alla critica, mantiene viva l’opera attraverso il proprio esercizio ermeneutico, che consiste nel lasciare emergere il conflitto fra essere e nulla all’interno della scrittura, fino a pensare al testo quale spazio paradossale e autosufficiente, che annienta qualsiasi pretesa esterna, sia essa del lettore, del critico, ma anche dell’autore, via via che l’opera si compie. Cfr. Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, trad. it., Gabriella Zanobetti, Einaudi, Torino 1967 e Id., L’infinito intrattenimento, trad. it. Roberta Ferrara, Einaudi, Torino 1977.
191
canone. Ma verificare la tenuta di un testo letterario
altro non è che riconoscerne il valore di verità e
dunque lo specifico attrito da esso prodotto entro
un orizzonte di senso (quello critico in prima
istanza) che vorrebbe negarglielo. Di conseguenza,
la scrittura sulla soglia – così come qui è intesa – non
implica la condivisione di una specifica poetica, ma
è la condizione di possibilità affinché un testo possa
sopportare l’analisi critica senza sfaldarsi nel nulla.16
E quanto più resiste alle verifiche approntate da
differenti scuole di pensiero, tanto più quel testo
sarà di valore rispetto alla verità che lo costituisce.
È chiaro, allora, che il valore (estetico, filosofico,
etico, ecc.) delle opere letterarie tramandateci dalla
tradizione non è frutto semplicemente dell’interesse
dell’ideologia dominante, e nemmeno di un
racconto narratologicamente codificato e portato
avanti dalla storiografia letteraria, ma è l’effetto di
un tentativo non riuscito di nullificazione dell’opera
stessa da parte della critica. Ciò significa che il valore
16 Benjamin è ben consapevole di questo allorché, ne Il dramma barocco tedesco, scrive che lo scopo della critica è la «mortificazione delle opere». Come rileva Habermas commentando questo passo, egli vuole in tal modo «trasferire ciò che è degno di conoscenza dall’elemento del bello in quello del vero, per salvarlo». In Jurgen Habermas, Cultura e società. Riflessioni sul concetto di partecipazione politica e altri saggi, trad. it. Nicola Paoli, Einaudi, Torino 1980, p.243.
192
di verità non consegue al giudizio, bensì si
costituisce quale condizione sine qua non affinché
l’opera possa essere giudicata e cioè pensata quale
segno di qualcos’altro, entrando in tal modo nel
circuito della comunità interpretante, che appoggerà
poi questo o quell’autore secondo il modello
ermeneutico di riferimento e l’interesse pratico.
Così facendo tuttavia, la critica non metterà
semplicemente in gioco la credibilità di un orizzonte
interpretativo, bensì creerà le condizioni perché
l’opera si conservi e possa entrare di diritto nel
canone.
Quanto finora affermato, ci porta al seguente
epilogo: la soglia dalla quale l’autore mette in opera
la propria finitezza non è misurabile direttamente,
non è una quantità oggettivabile secondo i crismi
scientifici, e nondimeno essa dice ed esaurisce se
stessa nella resistenza che il singolo testo,
spazializzando la temporalità, oppone al tentativo
dell’apertura storico-linguistica di negarlo. Fra tutti
gli elementi che costituiscono l’apertura, il sapere
critico è quello che più minaccia l’opera ma è anche
quello che, rimanendo sconfitto, ne certifica il
valore di verità e, di conseguenza, l’innegabile
giudizio positivo (estetico, filosofico ecc.). Una
193
sconfitta, sia chiaro, che non possiede l’amaro di
una battaglia fra nemici, bensì che alimenta nuovi
incontri futuri, più simili all’amore che alla guerra.
Anche l’autore entra in gioco nella sfida alla
resistenza del testo: succede quando, nel silenzio del
proprio studio, seleziona i propri; ma si tratta di
un’attività per certi versi paradossale, assomigliando
all’atteggiamento del fruitore di quei disegni di
Escher dove l’interno e l’esterno, il principio e la
fine, l’alto e il basso, l’azione e la passione, il
soggetto e l’oggetto, s’incontrano e si scontrano
nell’economia iconica complessiva. Come ci ricorda
Adriano Fabris – mettendo in luce, per analogia, le
difficoltà dell’ermeneutica quale «prospettiva
universale» – l’autore, nel tentativo di comprenderli,
è obbligato a scegliere il particolare, il dettaglio, lo
scorcio, al fine di individuare un senso che sia
«perfettamente comprensibile», rinunciando
tuttavia al giudizio sulla totalità, che si dà invece
come contraddittoria.17 Collocando il problema
entro le nostre coordinate, possiamo affermare
quanto segue: nella selezione compositiva, alcuni
17 Adriano Fabris, Aporie dell’ermeneutica filosofica contemporanea, in La filosofia italiana in discussione, a cura di Francesco Paolo Firrao, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp.440-441.
194
testi saranno talmente anonimi, che l’autore non
faticherà a metterli da parte; altri dovranno invece
aspettare settimane o mesi prima di essere colti nella
loro natura essenzialmente stereotipata; ma già in
queste occasioni, l’autore avrà avuto bisogno del
supporto esterno, di un attrito con il testo realizzato
assieme alla comunità interpretante. E in ogni caso
sarà quest’ultima a determinare, nel corso del
tempo, il valore di verità dell’opera, riconoscendola
nella sua nuda e ineliminabile presenza.
Quanto scritto finora certifica inoltre
l’inevitabilità del canone esistente, e ciò per tre
ragioni: 1) esso è fisiologico alla sopravvivenza
dell’apertura storico-linguistica che lo conferma,
secondo la prospettiva del ceto dominante; 2) esso
è il prodotto letterario di un romanzo scritto dagli
stessi storici della letteratura, i quali non possono
prescindere dai capitoli già scritti prima della loro
comparsa, ma devono invece – come nel genere
poliziesco – smascherare eventuali falsi indizi,
approfondire le tracce più probanti, indagare i
"colpevoli" (gli autori di valore) già indicati dai
testimoni (i critici) più autorevoli, allo scopo di
assicurarli alla giustizia del canone; 3) il canone
esistente è inevitabile, perché i testi sopravvissuti
195
all’indagine riferita al punto due sono resistiti al
tentativo di nullificazione da parte della critica:
questo fatto conferma il loro valore di verità, o,
detto altrimenti, la loro non omologazione
all’apertura storico-linguistica in cui sono nati.
Come poi indicato al punto uno, a quest’ultima
conviene rimettere in circolo quei testi del passato
capaci di avvalorare il presente; operazione che –
almeno nell'Italia moderna – ha significato
confermare gli autori settecenteschi e, qualora il
canone fisiologico si sia spinto poco più in là, a
recuperare il Foscolo dei Sepolcri e delle Grazie, il
Leopardi delle Canzoni, il Manzoni cattolico e
risorgimentale, l’epica nazionalista del Carducci e di
certo Pascoli, il D’Annunzio esteta. Per quanto
invece riguarda la letteratura del disagio (cui
Leopardi ‘ateo’ è l’indiscusso archetipo moderno),
l’apertura contemporanea non è ancora riuscita a
renderla fisiologica ai propri progetti, diventando
perciò oggetto quasi esclusivo del discorso
specialistico storiografico e critico, nell’abbandono
interessato delle istituzioni e nell’inconsapevolezza
generale del pubblico, vinto sempre più dal mercato
internazionale della letteratura, la cui qualità non
compensa l’allontanamento del lettore dall’apertura
196
italiana, con i suoi specifici attriti, la sua specifica
verità. Sopravvive per fortuna in tutto questo, fra la
critica professionale e un pubblico reificato, una
piccola percentuale di lettori onnivori ed
appassionati, i quali comunque sanno – come scrive
Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, e come,
in una certa misura, ho cercato di mostrare nel
presente saggio – che «il senso ultimo a cui
rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità
della vita, l’inevitabilità della morte».
197
Canone e singolarità: due esempi
1. Gnosticismo ed ebraismo nel Canone di
Harold Bloom
Esasperando l’indole didattico-pedagogica della
storiografia letteraria (già rilevata a suo tempo da
Benjamin)1 e recuperando il modello-uomo
rinascimentale, Harold Bloom altro non fa che
tradurre in termini laici la visione gnostico-
americana di «libertà religiosa», che consiste, come
egli stesso ammette ne La Religione Americana, nel
1 Walter Benjamin, Storia della letteratura e scienza della letteratura, in Id., Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, trad. it.Anna Marietti, Einaudi, Torino 1979, pp.138-139: «La storia della letteratura ha perso interamente di vista il suo compito più importante [...] e cioè quello didattico».
198
sentirsi «soli con Dio: un Dio che è a sua volta
isolato e solitario, un Dio libero» al quale rivolgersi
personalmente.2 Simile a questa prospettiva mi
sembra infatti l’intenzione espressa in Come si legge un
libro (e perché), consistente appunto nell’attribuire al
critico il compito/privilegio di «rivolgersi al lettore
solitario», indicandogli i libri da leggere (che
diventano in tal modo magnificamente autorevoli
nella loro solitaria imperturbabilità), al fine di
rafforzargli “lo spirito” antifaustiano, uno spirito
disinteressato al potere e tutto proteso invece
all’autoedificazione virtuosa.3
In questi due testi divulgativi, Harold Bloom
ribadisce invero la natura didattica ed il progetto di
restaurazione neoumanistica del discorso critico che
già pervadeva il celeberrimo Canone occidentale, libro
che, concependo la storia della letteratura quale
naturale conseguenza diacronica dell’imporsi
2 Harold Bloom, La Religione Americana: l’avvento della nazione post-cristiana, trad. it. Silvia Luzi, Garzanti, Milano 1994, pp. 11-13. 3 H. Bloom, Come si legge un libro (e perché), trad. it. Roberta Zuppet, Rizzoli, Milano 2000, rispett. p. 16 e p. 241. Questa vocazione è ribadita anche nel suo ultimo libro, il cui scopo è, appunto, aiutare a «conoscere noi stessi in relazione agli altri», Id., Il genio. Il senso dell’eccellenza attraverso le vite di cento individui non comuni, trad. vari, Rizzoli, Milano 2002, p. 29.
199
agonico-edipico delle opere dotate di «grande stile»,4
secondo una dinamica individuata già nei primi
Anni Settanta (cfr. L’angoscia dell’influenza), suggeriva
implicitamente all’Occidente di far proprio un
canone già in parte fisiologicamente assimilato: che
cosa altro significa infatti dichiarare l’equivalenza fra
il canone e quanto «il mondo non è disposto a
lasciar morire»,5 se non riconoscere, alla cultura di
quel mondo, il valore di un processo ineluttabile in
quanto naturale, secondo una prospettiva che era
già stata del Vico e, pur con altre coordinate, di Walt
Whitman, allorché, come rilevò in tempi non
sospetti Cesare Pavese, cercò di leggere «la storia del
mondo vista soltanto attraverso le sue supreme
manifestazioni letterarie»?6 E la tripartizione
vichiana delle «Età» («aristocratica», «democratica»,
«caotica») che contraddistingue il Canone, non
coincide forse con le «magnifiche sorti e
progressive» della civiltà americana, diabolicamente
capace, rispetto alle opere «apocalittiche» che
potrebbero metterne in crisi gli statuti (per esempio
4 H. Bloom, Il canone occidentale: i libri e le scuole delle ere, trad. it. Francesco Saba Sardi, Bompiani, Milano 1996, p. 464. 5 Ibidem, p. 16. 6 Cesare Pavese, Poesia del far poesia (1933), in Id., Saggi letterari, Einaudi, Torino 1982, pp. 130-131.
200
quelle di Melville o di Faulkner), di riconoscerne la
forza catartica e l’effetto di rinvigorimento
sull’individuo, al punto da consentire loro la libera
circolazione nelle sale di lettura e nelle librerie? Il
Canone condivide a tal punto le radici etico-politiche
della modernità, da dovere escludere (o collocare ai
margini) dalla «età democratica [...] tutti coloro che,
in qualche modo, in un secolo democratico e
progressista [come l’Ottocento], introducevano il
germe di una visione critica e dissolutrice (da
Leopardi a Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, da
Flaubert a Dostoevskij)».7 Soltanto l’ultimo di questi
scrittori viene recuperato in Come si legge un libro, ma
per ricondurlo subito al vortice attorno al quale
ruota lo stesso Canone occidentale,
quell’inesauribile risorsa creativa che è stato
Shakespeare, le cui «nobili tragedie di sangue [...]
(Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth) gettano senza
dubbio le basi per i grandi [personaggi] nichilisti di
Dostoevskij», il quale, continua Bloom, con Delitto e
castigo ha scritto «la migliore tra le storie poliziesche»
degli ultimi «centotrent’anni».8 Affermazione
7 Tiziano Salari, Il grande Nulla. Percorsi tra Otto e Novecento, Tirrenia Stampatori, Torino 1998, p. 9. 8 H. Bloom, Come si legge un libro (e perché), op. cit., p. 206.
201
certamente connaturata all’umorismo ebraico
(«Sono un ebreo non credente con forti tendenze
gnostiche» dice di sé nella Religione americana), ma
anche inequivocabilmente conservatrice nella
misura in cui, riconducendo l’imponderabile
dostoevskijano ad uno stratagemma narrativo, lo
svuota di quella carica eversiva che ha avuto nei
confronti dell’Occidente, civiltà della
programmazione, del ‘ponderabile’ in quanto
soggetto alla misurabilità e, dunque, al controllo
tecnico-scientifico.
L’ebraismo, in effetti, costituisce non soltanto
l’interesse prevalente degli studi storico-religiosi
bloomiani, ma rappresenta un perno fondamentale
anche delle sue opere di critica letteraria; lo lascia
intendere esplicitamente l’autore, allorché organizza
strutturalmente il suo ultimo libro seguendo le sefirot
della Cabala; ma lo si era già profondamente
compreso, leggendo L’angoscia dell’influenza,
nell’impostazione sapienziale del discorso, per
esempio, e nella presenza/assenza del Luogo
raccontata nelle «riflessioni sul Sentiero» poste in
«epilogo» del libro; ma soprattutto era evidente nel
concetto di «fraintendimento», che segna la nascita
del nuovo poeta canonico, il momento in cui egli,
202
operando uno scarto dal maestro, se ne allontana,
dando il via ad un’erranza solitaria, ma sempre
sorretta dalla silenziosa passione per la verità del
proprio cammino. Immediata si scorge la vicinanza
di questo viaggio con la natura dolorosamente
nomade dell’essere ebrei e con quella «libertà di
interpretazione» che costituisce, secondo Bloom, il
concetto stesso di «libertà ebraica».9
E tuttavia, come si è detto, il critico è
essenzialmente un ebreo americano, aggettivo
fortemente caratterizzante10 che si traduce nella
credenza dell’irriducibilità dell’io, inteso quale
nucleo originario, precedente alla creazione, «antico
quanto Dio» e capace perciò di profondissimo
9 H. Bloom, Kafka, Freud e Scholem, trad. it. Alessandro Atti, Milano, Spirali/Vel 1989, p. 51. Anche lo "scarto dal maestro” può essere ricondotto entro lo schema domanda-risposta del giudaismo: come infatti rileva lo studioso americano, «la risposta» alla chiamata costituisce l’idea stessa di storicità del popolo ebraico, il quale agisce nella convinzione di rendere effettivo l’intervento divino (ibidem, p. 44). Ed entro questa logica, nella quale contemporaneamente il soggetto si sente un tutto e un niente (ibidem, p. 45), si ribadisce un altro principio dell’ebraismo, quello secondo cui «l’autorità risiede sempre in figure del passato dell’individuo» (ibidem, p. 60), nel padre, per esempio, che, ne L’angoscia dell’influenza, diventa lo scrittore del passato la cui autorità massimamente attrae e pesa. 10 «In quanto americani siamo tutti in qualche misura compartecipi della Religione Americana, per inconsapevole o involontaria che sia tale condizione», scrive Bloom nella Religione Americana, op. cit., p. 26.
203
dialogo con Esso11, concezione questa che lo stesso
Bloom, spostando l’accento altrove, riconosce
d’ascendenza gnostica: nello gnosticismo, egli
spiega, «l’umanità porta dentro di sé la scintilla
ovvero il soffio del non-creato da Dio, e questa
scintilla può ritrovare il suo cammino a ritroso verso
il non-creato, il non caduto, attraverso un atto di
conoscenza che si compie nella solitudine
individuale».12 L’irriducibilità dell’io a qualsiasi
contestualizzazione – che pervade dunque, secondo
Bloom, l’intera religiosità americana grazie
all’incontro di misticismo ebraico, gnosticismo e
trascendentalismo emersoniano – fonda non
soltanto l’orizzonte culturale entro cui il critico si
muove, ma ne indirizza lo stesso metodo, sia
riguardo al convincimento di ragionare sul canone
in modo preideologico13 e sia in relazione alla
11 Ibidem, p. 11. 12 H. Bloom, Il canone occidentale, op. cit., p. .24. Questa verità diventa americana grazie a Ralph Waldo Emerson: «L’essere dell’uomo, in Emerson, non è [...] costituito dalla storia, dalla società, dal linguaggio. È originario» (Id., Il genio, op. cit., p. 32). 13 Scrive Bloom: «Non riesco a individuare nessuna connessione interiore tra qualsivoglia gruppo sociale e le modalità specifiche con le quali ho trascorso la vita a leggere, ricordare, giudicare e interpretare» la letteratura, e ciò – aggiunge - in quanto «l’io individuale è l’unico metodo e l’intero metro di misura» che ho usato per la mia ricerca (Il canone occidentale, op. cit., pp. 19-20).
204
pretesa «irriducibilità» dell’«estetico» (nel Canone) e
dello «spirituale» (nella Religione Americana),
irriducibilità che trovano appunto ragione
nell’irriducibile per eccellenza, in quell’io profondo
che «si definisce solo di contro alla società».14
Quest’ultima prospettiva – non certo distante
dall’esaltazione rousseauiana del «buon selvaggio» e
alla critica del filosofo francese allo Stato di diritto
presenti nel Discorso sull’origine e i fondamenti della
disuguaglianza; e in perfetta sintonia, inoltre, con «il
dualismo ebraico», che si rende effettivo
agonicamente «entro l’io» nella contrapposizione
esteriorità vs interiorità15 – ritorna in un passo della
Religione Americana, allorché propone un’idea di
soggettività divisa, riconoscibile in Song of Myself di
Whitman, là dove il poeta, pur accettando di essere
«l’uomo nudo che perennemente si fonde con il
gruppo», resiste alla tentazione di annullamento
totale, lasciando così intravedere un io più ‘vero’,
più profondo del primo, un io «assolutamente
fragile, sempre in latenza», e, appunto per ciò,
irriducibile a qualsiasi mediazione storica.16 È a
14 Ibidem, p. 20. 15 H. Bloom, Kafka, Freud, Scholem, op. cit., rispett. p. 61 e p. 63. 16 H. Bloom, La Religione Americana, op. cit., p. 23.
205
quest’ultimo che Bloom si rivolge quando,
additando ai lettori i libri da salvare dall’oblio, in
verità promette loro il farmaco di un nuovo vigore,
che agisca dall’interno, alimentando «la scintilla»
divina che è in ciascuno di noi.17
Una prima sintesi del pensiero bloomiano
potrebbe essere la seguente: sotto il profilo
ideologico-esistenziale riconosciamo, allo spirito
ribelle di quest’uomo – che ha dichiarato guerra alla
«Scuola del Risentimento: femministi, marxisti,
lacaniani, neostorici, decostruzionisti, semioticisti» e
alla civiltà di massa americana, accusata di amare più
Batman e Spiderman di Shakespeare – il fatto di
essersi inconsapevolmente conciliato con l’anima
integralista della civiltà statunitense, protesa alla
guerra santa contro «tutto ciò che mette in
discussione l’essenza e le prerogative del sé, inteso
come criterio universale di giudizio dell’essere e del
suo valore», come egli ebbe a dire a proposito della
«guerra di religione» intentata da George Bush
senior nei confronti dell’Iraq.18 E d’altro canto è
17 In totale accordo con Emerson e con la dottrina gnostica (che nella Religione Americana riconduce, non a caso, ad una matrice ebraica; cfr. p. 24). 18 Ibidem, pp.11-12.
206
altresì evidente, da quanto scritto finora, che
qualsiasi canone proposto da un critico di
professione, fondandosi sulle risorse che il pubblico
e il privato mettono a sua disposizione, non può che
essere espressione di una società letteraria in stretto
dialogo con il sistema socio-economico che la
sostiene: dialogo il cui peso si misura in termini di
potere editoriale, successo di uditorio, amicizie
importanti, spazio mass-mediale. In questo senso,
possiamo parafrasare, relativamente al canone,
quanto egli riferisce alle opere letterarie: qualsiasi
canone, che riesca a sopravvivere all’oblio, ha
legittimità storica per essere considerato di valore,19
con l’ovvia aggiunta secondo la quale la civiltà che
lo conserva e lo divulga, non agisce in nome della
salvaguardia dell’estetico, bensì per il rafforzamento
politico della propria esistenza.
19 In questo senso, e riprendendo un assunto del capitolo precedente, il canone tramandatoci dalla tradizione – quale frutto, sempre provvisorio, dell’incontro / scontro fra l’esigenza del ceto dominante di un’autorevole genealogia e la molteplicità delle proposte storiografiche – è, più profondamente, l’effetto di un tentativo non riuscito di nullificazione dell’opera da parte della critica, che così fallendo pone la condizione sine qua non affinché l’opera sia mantenuta nel circuito della comunità interpretante e, dunque, in un agone dagli esiti potenzialmente canonici.
207
Differente appare invece la questione se la
osserviamo dal versante della finitezza, concependo
il canone non quale risultante di un compromesso
con la civilizzazione, bensì quale espressione
ontologica della singolarità: in questo caso infatti,
costruire una tradizione in cui riconoscersi, significa
mettere il proprio esser-già-sempre-comunità in un
dialogo essenziale con l’apertura in cui ci si trova ad
essere e con la memoria che essa ha custodito. Ecco,
io credo che sia a partire da questo transito finito,
messo in gioco sino in fondo dall’opera, che la
domanda sul canone debba essere posta, se
vogliamo pensarlo svincolato tanto dall’indole
didattico-pedagogica e ideologica, quanto dalla
vocazione evoluzionista implicite in qualsiasi
canone che sia ‘racconto dei vincitori’, che
giustifichi insomma la propria necessità quale fiore
e frutto di un percorso storico univoco. Ciò significa
– per non capovolgere semplicemente la
prospettiva, costruendo degli anticanoni sofferenti
della medesima ineluttabilità dei precedenti –
rinunciare alla pretesa di mettere ordine assiologico
alla molteplicità delle voci, per lasciarle
fecondamente libere di partecipare alla
disseminazione dialogico-conflittuale che ciascuna
208
apertura sostiene, e semmai porgere maggiore
attenzione a quelli che potremmo definire i canoni
personali, ossia quei tentativi della singolarità (in
gran parte inconsapevoli) di sanare il proprio
immemorabile esilio originario, rimettendosi ad una
rosa di nomi memorabili. Naturalmente a patto che
tale rosa sia espressione di ricerca assidua e
dedizione, di scommessa che copre una vita intera,
come appunto nel caso del professore americano, o
di scelta di campo per vocazione letteraria, come in
Gertrude Stein. Per questa ragione i canoni
personali, più che confutarli, mostrarne i limiti, le
influenze e gli interessi (inevitabilmente presenti),
conviene anzitutto studiarli, nella convinzione che
questo contribuisca a fornire ulteriore chiarezza
intorno al rapporto scrittura e ontologia in una
specifica singolarità.
Nella fattispecie, ciò significa comprendere
l’urgenza che esercita su Harold Bloom l’Inizio
fondato da Shakespeare, il primo autore moderno,
a suo dire, davvero consapevole che «poesia è
angoscia dell’angoscia» e che, a muovere la
letteratura, è la ribellione «contro la coscienza della
209
necessità della morte»,20 un’urgenza che gli fa
ricondurre l’autorevolezza del Canone a quegli autori
che non hanno scritto spinti dal desiderio di
liberarci dalla verità dell’essere mortali, bensì dal
bisogno di dare «forma e coerenza» ad essa:21
compito perfettamente realizzato da Shakespeare, il
cui merito fondamentale, ci racconta Bloom, allievo
modello del «dottor Samuel Johnson», consiste
nell’aver tradotto in linguaggio la complessa
sfaccettatura dell’io fragile e profondo di ciascuno,
di aver creato insomma uomini fatti «di parole»,
l’uno differente dall’altro, ma tutti emblemi della
«mutabilità» umana, di quella particolare facoltà che
ci consente di diventare altro da ciò che eravamo,
attraverso l’ascolto delle nostre paure e dei nostri
desideri, come accade ad Amleto, «il massimo auto-
origliatore di tutta la letteratura».22 E proprio per
questa ragione Amleto diventa il modello di uomo
dell’Occidente, l’unico «ambasciatore di morte [...]
che non ci menta circa il nostro inevitabile
rapporto» con essa, rapporto che «è affatto solitario,
20 H. Bloom, L’angoscia dell’influenza, trad. it. Mario Diacono, Torino, Feltrinelli 1983, rispett. p.99 e p. 18. 21 H. Bloom, Il canone occidentale, op. cit., p.467. 22 Ibidem, pp. 41-42.
210
nonostante tutti gli osceni tentativi della tradizione
di socializzarlo».23
Interessante sarebbe a questo punto, per
approfondire ulteriormente la questione,
confrontare questo convincimento con la certezza,
espressa più volte dal critico, che comunque un
punto immutabile ed eterno esiste ed è quel Dio
americano (invero ebraico/gnostico e, in seconda
istanza, americano), che «ama, uomini e donne, in
modo assolutamente personale e diretto».24
In questa doppia circolarità, che vede nella
finitezza le ragioni della scrittura e che invita a stare
in prossimità con l’Origine attraverso un dialogo
solitario e mai esaustivo con Essa, si gioca
probabilmente il canone personale bloomiano:
origine che è Dio, ma anche, per quanto riguarda la
cultura occidentale, Shakespeare, il quale ci insegna
sia «a prestare orecchio a noi stessi quando con noi
stessi parliamo» e sia «ad accettare il cambiamento»,
compreso quello definitivo, cui Amleto è
«ambasciatore». In questo senso, Shakespeare stesso
23 Ibidem, p. 27. Si vedano i medesimi concetti espressi in H. Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, trad. it. Roberta Zuppet, Milano, Rizzoli 2001, pp. 19-36 e pp. 267-321, e Il genio, op. cit., pp. 38-55. 24 H. Bloom, La religione americana, op. cit., p. 13.
211
diventa l’ambasciatore di Dio, il suo angelo
annunciante, colui che, creando personaggi
memorabili, predispone i mortali all’ascolto della
voce silenziosa dell’Assoluto.
Anche il paradigma dell’angoscia d’influenza,
che pure esiste nella pratica quotidiana di qualsiasi
autore, mi sembra nasca da un’esigenza interiore
dello stesso Bloom, quella di spogliarsi di tutte le
voci derivate, dal loro rumore assordante, di cui
evidentemente sente l’angoscia d’influenza (penso
ad Emerson, a Whitman, a Nietzsche, a Freud, a
Samuel Johnson, ma soprattutto a Shakespeare), per
abitare finalmente nella quiete dell’io profondo, là
dove la Parola di Dio risuona nel suo massimo
splendore. E questa Parola altro non dice, appunto,
che la finitezza dell’esserci, che il critico del Canone
ritrova nella grande tradizione occidentale, senza
tuttavia rendersene conto pienamente (ché,
altrimenti, non avrebbe escluso da esso nomi
eccellenti: Leopardi, per esempio, puntualmente
inserito nel Genio, quale poeta che «vede la vita come
un abisso nel quale oscilliamo continuamente tra il
nulla e la noia»).25
25 H. Bloom, Il genio, ed. cit., p.472
212
Che sia la finitezza a muovere alla scrittura (e che
dunque la scrittura altro non sia che l’estrema risposta
e sfida ad essa) credo che appartenga alle verità già da
sempre acquisite da Bloom nell’immediatezza del suo
dialogo con Dio, di quel Dio ebraico la cui verità
antico-testamentaria – come nel Canone ci precisa,
mutuando l’idea dall’amico Jack Miles – è nata dalla
parola ironica di una «donna ittita», quella Betsabea
madre di re Salomone, che Lo ritrae «geloso e
vendicativo» nonché affetto da una «notevole dose di
ansia nevrotica»,26 Un’ipotesi questa del «Redattore J»
femmina certamente in odor d’eresia (che nel Genio,
con grande azzardo ermeneutico, cerca persino di
fondare) e che Bloom comunque ci propone con il
sorriso sulle labbra, in un gioco ironico e autoironico
che rientra, mi sembra, nelle regole dialogiche
personalmente istituite con Dio, al pari dell’altro ebreo
newyorkese, quel magnifico irriverente verso tutto e
tutti che è Woody Allen, anch’egli, non a caso, figlio
ispirato del grande umorista ebreo-americano
Groucho Marx.27
26 Ibidem, p. 4. 27 Scrive Harold Bloom a pagina 462 del Canone, a mezzo tra la mossa scacchistica che vuole sorprendere e la confessione disarmata di un vizio assurdo: «Io sono un vero critico marxista, seguace di Groucho più che di Karl».
213
2. Il canone generazionale di Gertrude Stein
La prosa steiniana, che poggia su quella
jamesiana come su di un piedistallo dal quale
forgiare l’inaudito, avverte in generale l’obbligo di
pensarsi conseguente alle strutture grammaticali,
sintattiche e storiche della lingua inglese, secondo
una prospettiva filosofica che ha radice tuttavia
nell’idealismo tedesco: assumendo implicitamente la
tesi innovativa delle lezioni berlinesi di Hegel, in Che
cos’è la letteratura inglese? la Stein riconosce infatti la
stretta relazione fra sviluppo storico e dimensione
geografica, in un disegno che procede da Oriente ad
Occidente e che esclude dal processo intere parti
della terra; dalla Fenomenologia, filtrata dal
trascendentalismo di Emerson e Whitman, muta
invece la convinzione che il discorso sullo Spirito
sia, in qualche misura, il discorso dello Spirito, tanto
da rivendicare il superamento del «paragrafo»
jamesiano quale necessità ineluttabile a cui ella non
può sottrarsi;28 ma poi, contraddittoriamente, si
28 In Che cos’è la letteratura inglese?, Gertrude Stein riconosce infatti, alla propria opera, il merito di aver detto l’ultima parola sulla (e della) letteratura anglo-americana, il cui penultimo maestro era stato Henry
214
dimostra lontanissima dal riconoscere la
coincidenza, nel presente, di ideale e reale, di storia
e ragione, aprendo invece la scrittura ad una
contemporaneità frantumata in mille rivoli
governati dall’interesse, a cui contrapporre,
adialetticamente, l’autenticità dell’ispirazione:
bisogna «servire dio», non «mammone», scrive alla
fine della conferenza citata. Tale intendimento si
concretizza, in C’era una volta gli americani, nel
mostrare la realtà così com’è (vera nella sua
schiumosa irritabilità), e soprattutto nel descrivere,
come già aveva fatto Whitman in Foglie d’erba, gli
uomini e le donne che in essa amano, camminano,
mangiano, pensano, ridono, fanno famiglia; uomini
e donne americani, nel cui spirito vagantivo la stessa
Stein si riconosce pienamente: «Sentivo questa cosa,
sono americana e sentivo questa cosa [...] E questa
è la ragione per cui dopo tutto questo libro è un
libro americano un libro essenzialmente americano,
perché questa cosa è essenzialmente americana
questo senso di uno spazio di tempo e ciò che va
James, genio del paragrafo «fluttuante»; dopo di lui - afferma - «arrivai io e dovetti fare con il paragrafo più di quanto fosse mai stato fatto». In Gertrude Stein, Conferenze americane, trad. it. Caterina Ricciardi e Grazia Trabattoni, Lucarini, Roma 1990, p.40.
215
fatto all’interno di questo spazio di tempo non in un
modo qualunque eccetto che nel modo che è
inevitabile che ci sia questo spazio di tempo e
chiunque che sia un americano sente ciò che [gli
uomini e le donne] fanno all’interno di questo
spazio di tempo».29
La provocazione linguistica steiniana – presente
nelle prose (a partire dal racconto Melanctha Herbert),
nelle poesie ed anche nelle Conferenze – non è
dunque premessa formale al cambiamento
sostanziale del sistema, e soltanto apparentemente
gioca il proprio senso nella «registrazione e
disvelamento della paranoia», come scrive Barbara
Lanati a proposito di A Saint in Seven;30 anche tale
acquisizione, infatti, mi pare si giustifichi nella
ripetizione mimetica dei tic linguistici dei suoi
conterranei, tic considerati vere e proprie aperture
dell’essere nella contemporaneità. Aperture
spontanee, «composizioni» in cui la storicità
dell’essere si mostra senza sforzo, e che la scrittura
steiniana si incarica di riprodurre-ricreare nella
29 G. Stein, Il fare graduale di The Making of Americans, in Id., Conferenze ecc., ed. cit., p.81. 30 Barbara Lanati, L’avanguardia americana, tre esperimenti: Falkner, Stein, W.C.Williams, Einaudi, Torino 1977, p.101.
216
pagina, nella sua irresistibile modulazione ritmica e
fonosimbolica: «Iniziai [...] a pensare alla natura di
fondo nelle persone, iniziai ad essere enormemente
interessata a udire come ognuno diceva la stessa
cosa più volte con infinite variazioni ma più volte
finché alla fine se ascoltavi con grande intensità
potevi udire che si alzava e cadeva e raccontava
tutto ciò che c’era dentro di loro, non tanto
attraverso le effettive parole che dicevano o i
pensieri che avevano ma attraverso i movimenti dei
loro pensieri e delle loro parole infinitamente gli
stessi e infinitamente diversi».31
La verità dell’equivalenza: tic linguistici /
apertura dell’essere nella contemporaneità, e il
conseguente consenso della Stein alla middle class32
americana, acquistano maggiore evidenza allorché
teniamo conto del ruolo che ella attribuisce alla
prospettiva generazionale e, più complessivamente,
al rapporto realtà-parola. Scrive a tal proposito in
Composizione come spiegazione, che «ogni generazione
ha qualcosa di diverso da guardare» ed è per questa
31 G. Stein, Il fare graduale di The Making of Americans, in ID., Conferenze ecc., ed. cit., p.69. 32 Sull’argomento cfr. Barbara Lanati, Introduzione a G. Stein, C’era una volta gli americani, Einaudi, Torino 1979, p.XII.
217
ragione che la «composizione» cambia; eppure,
aggiunge subito dopo, le cose sono più complesse
giacché: 1) soltanto nella composizione il proprio
tempo si lascia conoscere; 2) la generazione,
componendo, si conosce, e cioè conosce il proprio
modo di guardare le cose che cambiano.33
Questa circolarità senza punto di inizio e senza
via di uscite – che ha il suo fuoco nella
«composizione» orale e scritta, già spontaneamente
presente nelle relazioni linguistiche di una data
apertura storica – definisce ed organizza i modi di
concepire l’individuo, la generazione, l’epoca,
costituendo in tal senso la verità dell’essere in un
determinato punto della sua avventura spazio-
temporale. In questa prospettiva – che fa coincidere
la verità dell’essere con il punto di vista
generazionale e, quest’ultimo, con l’ottica della
classe media americana – il consenso verso
l’esistente non può che essere inevitabile. Un
consenso, tuttavia, eticamente vincolato allo
scrivere dal margine buono del reale, da quello che
non è disposto a compromessi né con il potere né
33 G. Stein, Composizione come spiegazione. In Id., Conferenze americane, ed. cit., p.4. Ma si veda anche, nell’edizione lucariniana, Ritratti e ripetizione, pp.83-108.
218
con la propria ispirazione: «servire dio», appunto,
non «mammone».
In questa coerenza con se stessi e con un certo
modo puritano di pensare il rapporto fra autenticità,
scrittura e sottomissione individuale, la Stein legge il
proprio canone necessario, la propria sorellanza con
il destino della scrittura anglo-americana, il cui
presente lei è, appunto, convinta di «comporre». È
a questo livello che il canone, da potenzialmente
fisiologico, diventa personale, espressione della
singolarità, la quale finalmente si realizza in esso e
nella geografia che esso descrive, senza nostalgie per
l’altrove. Nella Stein, la smemoratezza dell’Inizio
che procura ontologicamente l’esilio della
singolarità, viene infatti compensata (e parzialmente
sanata) dalla certezza di essere al centro del processo
reale, ricostruito rammemorando una tradizione
considerata necessaria, capace di giustificare il suo
essere qui-ora, in un presente, quello americano, dal
valore sacrale, ri-detto verbalmente nel present
continuous anglosassone. Tale forma, infatti, traduce
grammaticalmente la certezza della Stein d’essere al
«centro del mondo», in quell’America baciata dal
destino in cui il tempo della vita esula dalla
misurabilità ordinaria (gli americani, scrive in Che
219
cos’è la Letteratura inglese?, «non vivono ogni giorno.
E siccome non vivono ogni giorno non hanno il
vivere quotidiano»),34 offrendosi invece quale
spazio-tempo, geografia e storia che si fondono in
una dimensione altra (sacra, direbbe Eliade) che
soltanto il «paragrafo fatto a pezzi» può ri-creare.
Poco importa se, biograficamente, la scrittrice opera
a Parigi, a fianco a fianco con i migliori artisti della
sua generazione; la terra che le respira dentro, con
la quale sente d’essere impastata e che parla
attraverso la sua scrittura, è, e rimane, l’America,
ovunque lei sia: di questo ne è fieramente convinta,
prima di qualsiasi scelta avanguardistica. A ragione
Pavese, nelle note all’Autobiografia di Alice Toklas,
ricondusse tale debito alla lezione di Walt Whitman,
fermo sostenitore «di una mistica realtà incarnata e
imprigionata nella parola».35 Realtà e parola che
tuttavia nella Stein non fondano alcunché,
dipendendo a loro volta da quell’io
singolare/plurale, la cui duplicità non ha gerarchie:
un io in comunione con tutti – fortissimo in C’era
34 G. Stein, Che cos’è la letteratura inglese, ed. cit., p.37. 35 Cesare Pavese, note a Autobiografia di Alice Toklas, trad. it. C. Pavese, Einaudi, Torino 1938. Poi in Id., Saggi letterari, Einaudi, Torino 1951, 1982, p.154.
220
una volta gli americani, romanzo progettato quale
storia di tutti quanti e, al tempo stesso, «storia di
ognuno»36 – ed un io solitario, che in Whitman
assume le vesti femminee «di notte, morte, madre,
mare» (H. Bloom, Il canone occidentale) e che viceversa
nella Stein si configura quale principio maschile, un
io distruttore e creatore insieme, che adegua la
scrittura, frantumandola, ad un reale
frastagliatissimo e mobile, per poi ricomporla e
ancora scomporla, in un perpetuo cominciamento,
che allude al farsi stesso dell’essere, colto nel suo
inarrestabile fiorire spazio-temporale. Un’evidenza,
questa, che affonda le radici non soltanto nella
grande tradizione inglese (si pensi al Tristram Shandy
sterniano), ma anche, appunto, nella singolarità della
scrittrice, in quel suo essere in un certo modo, che
al tempo stesso è già-sempre-comunità (quell’essere
«ognuno» prima nominato) e unicità irripetibile, che
si concretizza nel sentirsi al vertice di un processo
inaugurato da Geoffrey Chaucer, preumanista figlio
di commercianti inglesi, uomo dunque della classe
media nella quale, l’abbiamo detto, la Stein si
riconosce, giacché per lei classe media significa
36 G. Stein, Il fare graduale di The Making of Americans, in Id., Conferenze ecc., ed. cit., p.72.
221
«popolo», gente comune di cui fidarsi, come già, in
Italia, avevano scritto sia il Denina che il Berchet
agli albori della civiltà borghese.
Da Blanc de ta nuque. Uno sguardo
(dalla rete) sulla poesia italiana
contemporanea. 2006-2011
(Le Voci della Luna, Sasso Marconi 2011, pp.270)
225
Poesia e Blog
1. Canone e autorevolezza della rete
Questo saggio nasce dalle ceneri di un gossip
letterario, nato su autorevoli quotidiani nell’agosto
2006, per l’intrattenimento marinaro dei lettori
annoiati sotto gli ombrelloni. La questione è nota
(ma forse già dimenticata); così la riassume, a caldo,
Claudio di Scalzo su TELLUSfolio: «Tutto parte da
un’intervista, registrata da Florinda Fusco, dove
Nanni Balestrini afferma che “Per fortuna c’è
Internet che permette di far circolare ovunque, e
rapidamente ed economicamente, le poesie di tutti”.
Prosegue rilevando il magma che compare sul web,
la pazienza che ci vuole per trovare gli autori validi
226
ma anche la possibilità di dialogo con chi scrive
usando siti personali e blog e mail e così via. [...]
Successivamente Paolo di Stefano, sul Corriere della
Sera [...] ha chiesto l’opinione sulla questione al
poeta Giuseppe Conte che orficamente ha tagliato
la testa al ragionamento di Balestrini ravvisando nei
poeti da web degli “esibizionisti” conditi con
“materiale inerte”. [...] Da queste lamentele di
individui ben nutriti e allattati dall’editoria prende il
via Umberto Eco sull’Espresso (17 agosto, 2006:
"Dove mandare i poeti") [...] il quale afferma –
chiosando i conti di Conte sulla residua nobiltà di
Madama Poesia – che il corpo della meschina sul
web è composto da dilettanti senza arte né parte e
che neppure può essere selezionata non esistendo la
severità di riviste di settore atte a farlo – come un
tempo la gloriosa Fiera letteraria – e dunque che
forse è il caso di non dare troppo spazio a questo
oceano nelle stanze della cultura».
Sul tavolo, dunque, una questione complessa,
giacché coinvolge la neoalfabetizzazione
informatica, l’utilizzo di internet quale via per
l’apprendimento e l’aggiornamento continui,
l’identificazione generica di poesia lirica e interiorità,
227
il proliferare incontrollato della poesia in rete.
Proliferare che spesso ignora tradizione e
convenzioni fornite dalla società letteraria, la quale
perde così d’autorevolezza e dunque di potere sulle
magnifiche sorti e progressive della poesia. Ma non di
questo si vuol discutere qui: non della necessità di
controllare la poesia in rete; non del sarcasmo dei
poeti e dei critici laureati (e neanche dei disarmanti
limoni poetici che si possono leggere navigando); e
nemmeno si intende verificare per quale singolare
sorte, la poesia (epica, didascalica, satirica, burlesca,
epigrammatica eccetera) sia diventata (quasi
esclusivamente), nella modernità, poesia lirica. Qui
piuttosto si cercherà di informare intorno al
fenomeno poesia italiana nei blog e di interrogarsi
sulla relazione fra il canone tout court e alcuni poeti
particolarmente seguiti in rete.
Come molti sanno, il termine anglosassone
«blog» deriva dalla contrazione di «web» con «log»
(quest’ultimo rinvia alla forma-diario, il logbook,
appunto). Si tratta di una pagina infinitamente
lunga, fornita spesso gratuitamente da un hosting
(Splinder, Blogger, Wordpress, Blogitalia etc.) nella
quale ciascuno può inserire, oltre a collegamenti con
228
altri siti (links), testi, foto e, se tecnicamente esperto,
audio e video. La particolarità del blog, a differenza
dei siti genericamente intesi, sta nella possibilità data
a chiunque di commentare il testo pubblicato, con
tutti i rischi e i vantaggi che ciò comporta: sabotaggi
linguistici da un lato, occasione di incontro e
confronto dall’altro.
Pare che – in generale – ci siano più di 60 milioni
di blog nel mondo e che, negli ultimi 12 mesi, siano
state pubblicate circa 5 milioni di poesie (non
sempre inedite, e talvolta le stesse in differenti siti).
In Italia, sono almeno 1000 i blog che mettono la
poesia in primo piano. Per dare le giuste
proporzioni al fenomeno, è necessario tuttavia
riprendere un dato riferito da Vincenzo della Mea al
Workshop “Internet e poesia” di Bazzano (28 aprile
2007): analizzato il traffico del maggio 2006 in otto
blog qualificati, risulta che, su un totale di 2761
commenti, ben 2256 sono opera di soli 37 soggetti.
Vero d’altro canto che i puri lettori sono molti in
rete; nel mio blog, per esempio, commenta meno
del 15% dell’utenza giornaliera, che si aggira sul
centinaio di unità (dei passaggi senza commento,
almeno la metà sono fatti da navigatori occasionali
o capitati accidentalmente nel blog). Quei 15 utenti,
229
assidui frequentatori di Blanc de ta nuque, fanno
invece parte di un gruppo abbastanza omogeneo di
soggetti attivi nei maggiori blog poetici, che
probabilmente non supera il centinaio di persone,
dall’età media superiore ai trenta, di cultura medio-
alta e equamente spartite fra maschi e femmine.
Per quasi tutti questi navigatori, un sicuro punto
di riferimento lo forniscono AbsolutePoeGATOR
(che assembla anche blog internazionali e legati alla
narrativa) e PoEcast, un sito aggregatore
specializzato nella poesia, nato nel luglio 2006 e
ideato da Vincenzo Della Mea (poeta e ricercatore
informatico presso l’Università di Udine - facoltà di
Medicina e Chirurgia), che va progressivamente
infoltendo gli indirizzi di riviste on line e soprattutto
blog (nel complesso, al maggio 2007, una
quarantina). Senza entrare nel dettaglio, fra questi
possiamo trovare il grande vivaio della poesia
lineare del XXI secolo, ma anche accese discussioni
di poetica, di critica e di letteratura comparata; in
alcuni blog è possibile ascoltare la voce dei poeti
(poco esiste, invece, riguardo alla poesia
performativa), in altri esaminare pagine ormai
introvabili del cartaceo (per esempio articoli di
riviste degli anni Settanta-Ottanta) o leggere poeti
230
che, per diverse ragioni, non sono riusciti a rimanere
a galla nell’editoria cartacea. Ma la vera novità
rispetto agli spazi tradizionali è, come detto, il
dialogo sostenuto nei commenti, un dialogo nel quale,
come relaziona lo psicoanalista Marco Longo al
Convegno World Psychiatric Association “Mass-
media e salute mentale” svoltosi a Firenze il 4 - 5
Ottobre 2001, a proposito delle dinamiche di
gruppo in rete, «si assiste al costituirsi di una
"scena", in cui ben presto si riconoscono gli attori
principali, le comparse, il coro, il pubblico (lurkers);
oppure si assiste alla "messa in scena" di aspetti della
personalità dei singoli partecipanti, cosa
evidentemente di volta in volta favorita dal
particolare contesto dinamico che si viene a creare
in ogni gruppo mediatico».
Tenendo conto dei dati sinora espressi,
possiamo dunque concludere che in Italia, negli
ultimi due anni, si è formata una blogsfera poetica
molto vivace, composta di 30-35 blog militanti e
frequentata assiduamente da un centinaio di
persone, alle quali si devono aggiungere altri 80 -
100 lettori occasionali altrettanto competenti, ma
che raramente commentano.
231
Entro questa cornice, ho voluto verificare quali
autori fossero più spesso postati, recensiti,
commentati, così da individuare una possibile
corrispondenza con il canone contemporaneo,
inteso quale rosa di nomi eccellenti
imposti/proposti dalla società letteraria a cui è stata
riconosciuta autorità. A tal fine, ho contattato 27
bloggers interni all’aggregatore di PoEcast,
chiedendo loro di indicarmi gli autori viventi sui
quali, tra il febbraio 2006 e il febbraio 2007, hanno
scritto in rete e/o sul cartaceo con maggior
convinzione. Hanno risposto in diciassette,
fornendomi un ventaglio di 189 nomi: fra questi, ci
sono autori canonizzati dai grandi editori (A.
Anedda, P.L. Bacchini, F. Buffoni, A. Ceni, M. De
Angelis, G. D’Elia, L. Erba, V. Magrelli, G.
Majorino, E. Pagliarani, G. Pontiggia, A. Riccardi,
A. Zanzotto); nomi presenti in antologie di piccoli
editori e/o “militanti” (C. Annino, M. G.
Calandrone, B. Cepollaro, F. Davoli, P. Di Palmo,
F. Ermini, G. Fantato, A. M. Farabbi, M. Ferrari, N.
Gambula, M. Giovenale, E. Grasso, M. Gualtieri, R.
Lo Russo, G. R. Manzoni, G. Mesa, M.P.
Quintavalla, R. Teti, I. Travi), e giovani autori noti
ormai al pubblico della poesia tout court (T. Cera
232
Rusco, M. Desiati, P. Fichera, M. Fantuzzi, F.
Fusco, F. Matteoni, D. Nota, A. Ponso, M. Sannelli,
F. Santi, F. Serragnoli, S. Ventroni, M. Zattoni).
Moltissimi di questi tuttavia non frequentano la
rete o lo fanno saltuariamente; circostanza che, nella
blogsfera, diventa discriminante: se infatti
verifichiamo chi ha ricevuto almeno 3 voti, a
rimanere a galla sono soltanto Milo De Angelis e
Massimo Sannelli (blogger esso stesso),
accompagnati da autori meno noti altrove, ma
attivissimi in rete ossia interni a quel centinaio di
lettori-commentatori prima indicati. Oltre al mio
nome (scelta prevedibile perché nata nell’alveo di
un’amicizia che ha mosso, fra l’altro, questa ricerca)
sono stati indicati: L. Ariano, C. Babino, F.
Centofanti, F. Cerrai, V. della Mea, G. Pepe, D.
Raimondi, C. Sinicco, S. Aglieco, F. Alborghetti, G.
Fabbri, F. Marotta, S. Massari, A. Padua e A. Pizzo.
La prevedibile non corrispondenza fra Canoni
ufficiali e poeti premiati dai blog offre lo spunto ad
alcune considerazioni di merito, a cominciare da
quella riguardante la differente natura dei due
sistemi. Il criterio d’eccellenza determina infatti
l’indole selettiva ed elitaria del canone, mentre i
blog, essenzialmente inclusivi e senza proprietà,
233
sono spazi colonizzabili dal basso, attraverso la
libera iniziativa e la cooptazione amicale
(l’organizzazione delle antologie segue invece regole
più complesse, legate al do ut des editoriale,
accademico e ideologico, oltre che a scelte
d’appartenenza poetica). Anche le finalità sono
differenti: non sarebbe difficile dimostrare come le
società del capitalismo avanzato, attraverso il
canone nazionale dominante, si sforzino di
consegnare un’immagine affidabile di sé ai posteri e
cerchino in esso un rispecchiamento che sia
tendenzialmente edificante, appunto perché
gerarchizzato e ordinato, mentre i blog sono un
arcipelago che agisce orizzontalmente e si espande
per via centrifuga, un arcipelago anarchico che
rivendica autorevolezza senza chiedere deleghe alla
società letteraria, la quale, dal canto suo, non ha
interesse ad intervenire nella questione perché
ritiene il cartaceo una tappa più prestigiosa del
virtuale e sa che questo è il sentire anche della
maggior parte degli internauti. Per questa ragione,
fra l’altro, gli autori canonici non muovono un dito
per essere inclusi nei blog, con ciò amplificando la
sensazione che questo spazio libero ed autogestito
si stia sempre più rivelando incapace di interagire
234
con le istituzioni territoriali (che hanno un ruolo
evidente nella selezione autorevole), mentre la
spinta alla verticalizzazione, alla gerarchia
meritocratica – nella misura in cui consente di far
emergere i valori in campo – pare appunto
un’esigenza degli stessi poeti in rete. Questi
differenti aspetti mantengono dunque separati i due
ambiti, quello che persegue il modello di tradizione
autorevole e la spartizione del potere attraverso
l’emblema letterario, e la blogsfera, che sponsorizza
se stessa e i propri autori, in una circuitazione
autoreferenziale assai frustrante. Un aiuto, in questo
senso, potrebbero darlo le grandi case editrici, se
gestissero, ciascuna per proprio conto, uno spazio
virtuale, che facesse da interfaccia tra il libro e il
dattiloscritto, tra il riconoscimento pubblico di
valore e il laboratorio di autori in fieri. Ciò
consentirebbe maggiore visibilità ai poeti stimati in
rete perché obbligherebbe gli editori a frequentare i
blog, così da poter selezionare un ventaglio
maggiore di autori appetibili. L’autorevolezza e,
paradossalmente, la visibilità sono infatti gli anelli
deboli della blogsfera, se, come pare, i blog
catalogati da PoEcast e da AbsolutePoegator sono
qualificati soltanto per l’utenza internauta e se, come
235
detto, questa non arriva complessivamente alle 200
unità, laddove il pubblico della poesia in cartaceo è
perlomeno dieci volte tanto. Vero del resto che gli
autori premiati nei blog non stanno a guardare,
avendo ognuno pubblicato più di un libro (anche
grazie alla piccola editoria di qualità, che promuove
autori spesso formatisi nelle palestre-blog) e
collaborando attivamente con le riviste in cartaceo.
È proprio a questi due livelli che le obiezioni
avanzate da Conte e Eco s’indeboliscono.
L’esibizionismo lamentato dal poeta ligure, infatti,
che pure esiste in rete, viene smentito dalla qualità
dei libri pubblicati e dalla personalità degli autori
citati, che bene emerge nei blog; così come la
mancanza di una “Fiera letteraria”, che orienti i
lettori, viene in parte superata dall’autorevolezza
degli aggregatori e dal tam tam messo in moto dai
meeting recentemente svolti. Qualcuno potrebbe
rimarcare il divario tra l’eccellenza dei nomi che
parteciparono alla Fiera e il parziale anonimato dei
poeti e dei critici che alimentano la discussione e
l’arte nei blog. Difficile contestare; tuttavia si
leggano alcune intense discussioni avvenute in Poesia
da fare o in Absolutepoetry o in LiberInVersi e la
distanza s’accorcerà, ne sono sicuro.
236
2. Meeting
Da qualche tempo la comunità nomadica dei
bloggers si sta muovendo alla ricerca del sacro Graal
che faccia finalmente fiorire la desolata terra
editoriale, devitalizzata dall’accademia e dalle
corporazioni. Si sono mosse per prime Macerata
(luglio 2006) e Foggia (dicembre 2006), per
verificare lo stato delle cose nella blogsfera. Matteo
Fantuzzi, ospitato dagli atti foggiani (al momento
ancora inediti) descrive il variegato mondo della
poesia in rete, mettendo in rilievo le differenti
finalità dei singoli blogger e la specificità anche
geografica di alcuni indirizzi (vedi i poeti
marchigiani legati all'esperienza de La Gru),
giungendo alla medesima conclusione dell’incontro
di Macerata, ossia alla necessità «di reindirizzare alla
carta» il lettore e la poesia. Gli interventi di Macerata
hanno infatti visto l’esperienza-blog come
«immagine e tappa di un nuovo sviluppo
collaborativo, non proselitistico, che poi si andrà a
concretizzare in una diffusione più ampia, cartacea
e di presenza in corpore, cioè di conoscenza e di
relazioni de visu, al fine di varare un organo
237
divulgativo concreto e di organizzare sempre più
incontri, festival e attività di matrice letterario-
artistica” (Orgiazzi – Manzoni).
Recentissimamente, a Monfalcone, entro la cornice
dei Cantieri internazionali di Poesia (a cura di Lello
Voce), si è svolto l’Absolute BlogMeeting, il cui
verbale, redatto da Massimo Orgiazzi, si può leggere
su L'Attenzione, che fra l’altro ha impostato l’intero
numero 7 (aprile 2007) sul «rapporto tra letteratura
e internet».
Preso atto dei tre momenti, all’ultimo dei quali
ho partecipato, ecco le mie considerazioni:
1) Tenendo conto che gli inviti a Foggia e a Macerata sono stati assai selettivi e che all’incontro di Monfalcone sono mancati circa il 40% dei bloggers che avevano dato l'adesione, mi sembra inevitabile supporre quanto ancora ci sia da costruire, tra gli operatori, in merito ai concetti di relazione e confronto;
2) A Monfalcone, i relatori sono comunque riusciti a far convergere le aspettative attorno ad un’idea che, pur faticando a concretizzarsi, mi sembra interessante: quella di creare un
238
luogo virtuale autorevole (per esempio una newsletter) nel quale compaia il meglio dei blog, così da orientare il lettore medio. La cosa non è tapina anche se, come rileva Alessandro Ansuini in un commento alla relazione di Orgiazzi, si rischia di ripetere il modello canonico della tradizione cartacea, quando invece – a suo dire e, come abbiamo visto, anche nelle aspettative foggiane e marchigiane – il vero problema è quello di «convogliare chi frequenta la rete in punti di incontro sempre più numerosi, come questo blogMeeting, come le letture, i reading, i festival e quant’altro»;
3) In effetti, trasformare lo spazio virtuale in incontro reale è decisivo: la cosa che in generale manca (e che è mancata anche al BlogMeeting di Monfalcone) è proprio il pubblico. La scommessa, a mio avviso, dev’essere quella di appassionare il lettore in rete sino a portarlo nelle sale, nelle piazze, nelle librerie, mantenendo aperto il dialogo e il confronto con la pluralità delle voci poetiche esistenti;
4) In questo senso, una rete di bloggers che non riesce ad interessare il pubblico è inutile
239
perché amplifica la natura autoreferenziale che già la caratterizza;
5) Per far ciò, servono almeno tre condizioni: visibilità, continuità e un supporto finanziario adeguato, il che implica l’incontro dei bloggers con le varie istituzioni territoriali e uno spazio maggiore nei media. Non mi pare, infatti, che l’autonomia, la multimedialità, la rapidità della pubblicazione in rete e la gratuità implicita nella proposta-web siano sufficienti ad incoraggiare la nuova utenza e nemmeno i vecchi appassionati di poesia, la maggioranza dei quali ama, per ovvie ragioni, l’incontro live;
6) La gestione di una rete-blog, che non sia di semplice (anche se utilissima) aggregazione, bensì uno snodo propositivo e autorevole, necessita di una equipe competente con una precisa divisione del lavoro, così che sia l’ideazione, la produzione e la distribuzione dei contenuti e sia la gestione della relazione con il territorio (sia esso reale che virtuale) seguano il principio economico (massimo profitto, minima spesa). Il pericolo di tale organizzazione è che essa diventi nuova accademia oppure una corporazione che censura altre vie.
240
3. Vita di un blog
Ci si prepara per un aprile assai crudele, in cui
fioriranno due lillà: l'uno a Vimercate, il 17 (2010),
con un vivaio sopraffino di piante rare e men rare
(titolo: La poesia nella rete), l'altro a Verona, la cui
corolla s'interrogherà sull'evenienza che «la poesia –
come scriveva ieri Alessandro Assiri in
Universopoesia, il blog di Matteo Fantuzzi –
rappresenti ancora un’educazione intellettuale e si
possa continuare ad esprimere come forma della
conoscenza» (C'era una volta la poesia online). Cercherò
di essere presente in entrambi e magari di
relazionare gli eventi in un blog collettivo che sta
per nascere e di cui farò prossimamente parola. Da
questa triplice evenienza, difficile dire che la deriva
dei blog di poesia imperi (cfr. Fantuzzi), che il suo
requiem sia da scrivere subitamente. Semmai, è da
osservare che l'infante, le petit blog, non è stato
ancora battezzato, messo seriamente in piazza dalla
polis. È quest'ultima, piuttosto, la moritura, la cagna
che vagola tra le fabbriche-tombe del nord-est, nei
parlatoi televisivi, nei bar dove stazionano i
senzalavoro, ad upupare insomma nelle terre morte
241
nostrane, in cerca di spettacolo e consenso, mentre
nella rete – non ovunque, certo – il discorso sulla
poesia è attivo, stimolante, tanto da diventare reale,
appunto, nei due prossimi appuntamenti. Non si
vuole, qui, discutere sulla natura dell'ideal-Blog,
quale sia la sua essenza; semmai, parafrasando
Aristotele, s'intende partire dai modi in cui quell'uno
si mostra, anzi – restringendo ancor più – dal modo
in cui Blanc si coniuga e vive, evitando
sbrodolamenti autoincensori. Dunque: sono
convinto che un blog sia l'effetto di una scelta; esso
infatti non prende la parola da solo e non la cede; se
si spegne o se invece continua a dare frutti, dipende
dalla dedizione dell'autore, dalla fiducia che egli
ripone in questo mezzo, dato un obiettivo. Se uso il
blog per far conoscere la mia poesia (funzione
vetrina), difficilmente arriverò al bersaglio. L'editoria
che conta, infatti, disistima la rete perché non la
conosce; e la critica, per suo conto, ci passa
saltuariamente, spesso solo per sponsorizzarsi. Le
mani le lava fuori, là dove può far carriera. Se
invece uso il blog per farmi conoscere, per farmi
ammirare, rischio di perpetuare l'assunto
foscoliano: «tu sarai altamente lodato, ma spento
poscia dal pugnale notturno della calunnia». Per
242
farla breve: la via scelta da Blanc de ta nuque ha come
fine la didattica della poesia in generale e la sua
divulgazione, in special modo se italiana e
contemporanea. Obiettivo chiaro quest'ultimo, ma
che andrebbe meglio definito, giacché dove cominci
il contemporaneo è questione assai dibattuta. Diciamo
allora che qui si fa incontrare storia e cronaca, nella
misura in cui è il brusio delle voci che si susseguono
nel presente ad essere la vera sostanza di Blanc, quel
brulichio di testi che mensilmente si affacciano sul
mercato e che hanno bisogno di una prima
scrematura, di una lettura sintetica ma non
grossolana in grado di orientare il lettore e lo stesso
autore. Quei testi che forse, fra qualche anno,
entreranno nel dialogo critico più importante,
oppure che saranno dimenticati. Lascio
appositamente fuori dai post i poeti canonizzati, che
meriterebbero un discorso critico più articolato e
che comunque hanno già garantiti i loro spazi
pubblici importanti (ma neanche tanti, invero, visto
che nemmeno i quotidiani più noti dedicano alla
poesia più di uno o due articoli l'anno).
Che il lavoro svolto su Blanc abbia un senso, lo
ricavo per esempio dai risultati del verbale del
Concorso "Beppe Manfredi per la Poesia Edita
243
Opera Prima" (Edizione 2009), la cui giuria
(Giorgio Bàrberi Squarotti, Elio Gioanola, Valter
Boggione, Beppe Mariano, Gian Piero Casagrande,
Gianni Menardi, Ada Firino) non conosco
personalmente e quindi non posso dire di averla
influenzata in alcun modo (vero che qui c'è un
cappello sull'ultimo libro di Bàrberi Squarotti, ma
credo che lui nemmeno lo sappia). Insomma,
quanto si evince dalla graduatoria è che molti dei
premiati sono in relazione con Blanc o con me:
Patrizia Puleio ha vinto con Prove di sorriso,
dell'editrice puntoacapo, di cui mi pregio di essere,
con Mauro Ferrari e Massimo Morasso, direttore
della collana "Format"; la terza classificata è
Alessandra Conte, con Breviario di novembre (Raffaelli
2009), libro al quale ho scritto la prefazione e che ha
già vinto il premio Gozzano; quarta è Anna Ruotolo
(vincitrice del premio speciale "Silvia Raimondi"), il
cui testo sarà recensito su Blanc fra qualche
settimana, secondo palinsesto deciso mesi fa;
settima è arrivata Stefania Crozzoletti, recensita
nell'aprile 2009. Infine, al nono posto è giunto
Spaccasangue di Iole Toini, uscito per Le Voci della
Luna, nella collana "segni" da me diretta. Chiamo
dunque vivo un blog che s'intrecci con la realtà, che
244
dialoghi con essa, che sia causa di eventi non
virtuali; un blog che abbia dei lettori che pensano
reale l'incontro con la poesia; un blog attento a
quanto accade in rete, che non si sottrae al
confronto. Ed è ben noto agli internauti che non
guardano il dito bensì la luna, che Blanc non è l'unico
a respirare bene di questi tempi. Certo si potrebbe
fare meglio, sfruttando di più le opportunità
tecnologiche offerte dalla piattaforma. Ben vengano
blog dove video e sonoro sono attivi, dove i link
tengono aperti canali con editori e quotidiani
importanti. Da parte mia, faccio quello che posso,
con le mie elementari competenze informatiche,
con i miei limiti intellettivi e i sempre troppo pochi
libri letti.
245
4. Vimercate, poesia a caldo
Due parole a caldo sull'incontro di Vimercate,
Poesia nella rete. Gli interventi si sono polarizzati su
due domande: sono vivi e a che cosa servono i blog
di poesia? E: perché non esiste un pubblico della
poesia? La mia impressione è che siano morti i blog
degli ex giovani, quelli che hanno incontrato la
poesia anzitutto in rete e che si sono autoproclamati
innovatori della comunicazione letteraria. Quei
giovani che ci credevano in questa missione, in
questa rivoluzione offerta dalla rete. Il pubblico
però non è arrivato ai loro appuntamenti sul
territorio (mai visto uno spettatore, nei 4 anni che
frequento l'ambiente, che non fosse un blogger-
poeta). La colpa è comunque relativa, visto che,
anche alle letture predisposte dai più grandi, il
pubblico si conta a colpo d'occhio. Il pubblico-non-
poeta non c'è, punto. E anche il poeta, quando si
affaccia in sala, spesso sta lì solo per leggere i propri
versi. A Vimercate non era prevista lettura e infatti
c'eravamo solo noi, come direbbe Vasco, una
ventina di operatori preoccupati per il destino della
poesia dentro e fuori della rete. Le ragioni di questa
246
scomparsa le ha spiegate bene Francesco Marotta:
manca un'educazione permanente alla poesia; la
poesia insegna a pensare e ciò disturba il potere; la
scuola toglie ai ragazzi ogni entusiasmo rispetto alla
libertà e alla gioia offerta dalle parole finalmente da
fare. Invero, era sottointeso, mai c'è stato un
pubblico. Dante lo dice qui e là (ma allora l'Italia era
un sogno); dall'Unità, politica e scienze varie hanno
relegato la poesia nell'orto dell'estetico che, ben
presto, è diventato dell'anestetico. Ecco allora "Il
Politecnico" e "Officina" che cercarono un
pubblico di sinistra (trovando invece resistenza
proprio nel PCI, schiacciato da un super-io gigante)
e la neoavanguardia, che riportò l'anestetico
all'estetico, riconoscendo quest'ultimo quale luogo
allegorico del conflitto reale, con buona pace degli
operai che, negli anni Sessanta, parteciparono in
massa agli impoetici scioperi per il contratto. Dalla
metà degli anni Settanta cominciò la poesia
contemporanea: milioni di poeti, zero spettatori,
pochi lettori. Perché è questa l'altra questione
emersa ieri, e nota a tutti: nemmeno i poeti leggono
gli altri, dunque i blog di poesia sono eroici almeno
in questo (lo dicono Ottavio Rossani e Giacomo
Cerrai): per recensire i libri bisogna leggerli, capirli
247
e, ovviamente, scriverne. Grande fatica e grande
soddisfazione quando il poeta ringrazia (questo non
è stato detto, ma lo dico io adesso). Inoltre i libri
non si comprano, se non l'autore all'editore. Triste
realtà, necessaria tuttavia in un sistema editoriale
dove altrimenti leggeremmo 5-6 poeti l'anno,
laddove almeno 30 valgono, ogni anno, Einaudi,
Mondadori, Garzanti.
I blog vivi sono dunque quelli in cui ci si spende
senza risparmio e senza aspettare il padrino che ti
tolga dal mucchio per pubblicarti gratis. Guardando
i visi dei presenti, gli "anta" sono di casa; rari i più
giovani: Matteo Fantuzzi, che ancora non ha
digerito l'antologia di Liberinversi (e, sinceramente,
non ho ancora capito perché), ma che ha il merito
di portare avanti un sogno sulla triangolazione
poesia-rete-pubblico, che tuttavia fatica a diventare
un progetto reale, strutturato. Questione, questa
della progettualità in genere, affrontato di punta da
Dome Bulfaro (classe 1971), che lamenta la
mancanza di coraggio ideativo in gran parte degli
operatori culturali, che si muovono «come dei
paralitici», anziché pensare in grande, presentando
agli assessori, agli enti, ecc., progetti d'ampio
respiro, gestiti sulla divisione del lavoro, come fa,
248
per esempio, il sito Poesia presente e A briglia sciolta. Io
credo ci sia spazio per tutti: per i blog individuali,
limitati nelle risorse, e per quelli collettivi, dove un
regista, un poeta, un video maker costruiscono
percorsi audiovisivi e/o interni a realtà complesse,
come il carcere, gli ospedali, le scuole. Se già succede
questo, chiaro che i blog di poesia non sono morti,
bensì gestiti da gente di mezza età abituata a lottare
per sopravvivere oppure da giovani rimasti fuori
dagli entusiasmi antologici passati (cfr. Santagostini,
Ladolfi, Cucchi), critici per altro felici nel
riconoscere poeti davvero promettenti (Ponso,
Pugno, Cattaneo, Biagini, Serragnoli, Zattoni e
altri), lasciando magari fuori uno come Fantuzzi,
che pur merita riconoscimento ufficiale, come in
effetti sta accadendo. Un contributo interessante è
venuto da due poeti d'antica militanza, Maria Pia
Quintavalla e Luigi Cannillo, quando hanno parlato
di «comunità di poeti», di «popolo di poeti» che
discutono nella rete come accadeva un tempo nelle
redazioni delle riviste o nelle case private. Si pensi
alla Roma della Morante che vede Pasolini e
Moravia e Pecora e Bellezza oppure, 10 anni dopo,
al sodalizio Sica, Salvia, Tripodo, Scartaghiande,
Damiani, Magrelli, Lodoli ecc.; o alla Milano dei
249
Porta, Loi, Majorino, Raboni, Fortini (a sentire i due
poeti milanesi, ora le cose non stanno più così,
malgrado a me sembri, da esterno, che l'attività di
"Milanocosa" e quella legata alla "Casa della Poesia"
siano realtà molto attive sul territorio). Vero tuttavia
che nei blog la discussione è ultimamente calata (su
questo in gran parte si basa la sentenza di morte cui
sopra riferivo) anche se la comunità di poeti, che
partecipa senza rancori alla vita di rete, mi pare
esista sul serio, così come, appunto, quella sul
territorio: vedi Milano, l'area marchigiana, il nord-
est (con i nuclei Verona, Vicenza, Trieste, Gorizia),
Bologna (sul centro sud ditemi voi, qui nei
commenti).
250
5. I commenti nei poeblog e loro destino
I poeblog si sono rivelati sin dapprincipio
un'ottima vetrina per tutti coloro che si occupavano
di poesia, ma non avevano ancora avuto le occasioni
migliori per mettersi in luce, vuoi per questioni
generazionali, per collocazione periferica rispetto
alle grandi città oppure semplicemente perché non
avevano i numeri per guadagnarsi il Parnaso. I
"commenti" ben scritti hanno infatti permesso a
molti poeti di farsi conoscere, di far sedimentare il
proprio nome e le proprie idee in rete, entro una
comunità circoscritta ma vivace. Tra il 2003 e il
2007, quando sono nati i principali poeblog italiani,
si è riso e pianto e ragionato sul far poesia e
sull'importanza del medium, citando questo e
quello, facendo in modo che tutti capissero che non
eravamo gli sprovveduti di turno, bensì studiosi,
intelligenti e, se possibile, anche simpatici. Talvolta,
i più birboni hanno giocato al gatto e al topo con
l'autore o con il gestore del blog, cercando di
buttarla in vacca, forse per invidia forse perché
l'anonimato porta naturalmente al conflitto.
Quest'aspetto, vissuto dai più seri come distorsione o
251
patologia, è diventato fisiologico in certi siti o
cancerogeno in altri. In Blanc non ha mai avuto
molto successo, per fortuna, prevalendo invece la
pacatezza e concentrazione sull'oggetto dei 100, 150
lettori, nessuno dei quali tuttavia è un poeta o un
critico di fama (non si offendano quei pochi che lo
sono eppur passano di qui). È questo il punto, che
non riguarda soltanto Blanc: la rete non è amata da
chi è poeta pubblico, riconosciuto. Non lo era prima
e non lo è adesso. La rete ha risposto evitando il
confronto, postando autori emergenti e/o giovani,
rimescolando il canone, accusando l'accademia,
rassegnandosi a questo dato, sociologicamente
sensibile.
Lo si è detto più volte: tra i poeblog da un lato e
l'editoria che conta, l'università, gli autori importanti
dall'altro, c'è uno iato evidente e, al momento,
insanabile. Lo sarà fintanto che il medium sarà visto
con diffidenza, ma sopratutto perché la rete e, in
particolare, lo spazio dei commenti, tolgono i filtri
relazionali, mettendo sullo stesso piano autore e
lettore. Ciò spaventa parecchi poeti, non abituati al
confronto, ma soltanto alla riverenza con piroetta.
Ma spaventa anche chi conosce la natura dei
252
messaggi in rete, spesso connotati emotivamente e,
per questa ragione, carichi di fraintendimento.
Difficile dunque che la qualità dei commenti sia
salvata da loro e improbabile che i veterani dei
poeblog investano ancora molte energie a
commentare autori nuovi. Restano i giovani, nati
negli anni ottanta e novanta, poeti molto
interessanti ma poco inclini, se non in rari casi, a
spendersi per i più maturi o ad investire in rete per
nuovi progetti, avendola trovata già pronta,
strutturata, da sfruttare anziché da arricchire. E
semmai qualcuno intendesse farlo, dubito che
accadrebbe attraverso commenti che richiedano un
forte impegno di tempo e di riflessione. Per tutte
queste ragioni credo che dovremo rassegnarci ad un
sistema di poeblog in cui il testo sarà sempre più
centrale (e, perciò stesso, dovrà essere di valore),
mentre i commenti tenderanno a zero, tranne quelli
leggeri, quei cenni d'affetto la cui importanza è
comunque vitale per tutti.
253
6. La natura della rete: tra pesciolini di plastica
e ossi di seppia
Da alcuni anni seguo e segno quotidianamente
alcuni quartieri della rete, ne marco gli angoli, come
un cane di strada. Ho anche una mia cuccia, bianca,
dove deposito gli ossi. Talvolta sono di seppia,
talaltra di gallina, ma l'intenzione è sempre la stessa:
offrire un catalogo di bontà ad un pubblico presente
e futuro.
Girando per la città virtuale, incontro di tutto,
essendo questa un luogo liberamente accessibile,
costruito da chiunque per ogni cosa. Anche la poesia,
lasciata libera di brucare bellezza e verità dalla
blogsfera, rischia di crescere stereotipata. Non
dobbiamo gridare allo scandalo, come leggo qui e là,
navigando; trovo invece in tutto ciò un ennesimo
emblema della povertà dei tempi in cui viviamo. Se
la poesia che si sente in giro è quella recitata sulla
sedia dal bambino ben educato la domenica di
Pasqua, quella banalmente intelligente di "Zelig",
quella imparata al liceo, se tutto ciò che vogliamo
dalla poesia è che sia un contenitore del nostro
magnifico ego, allora è normale che anche la rete
254
pulluli di pesciolini di plastica. Obiettare che in
quest'ultima manca una docimologia condivisa sulla
qualità dei testi non ci porta da nessuna parte. Tale
evidenza, infatti, è un dato epocale, conseguente alla
crisi delle ideologie e al moltiplicarsi dei centri di
potere sul territorio; questa condizione semmai,
appunto per le due ragioni storiche appena espresse,
andrebbe riconosciuta nella sua novità, in quanto
finalmente capace di accogliere nella discussione –
prima accademica, elitaria o di corporazione –
interlocutori altrimenti esclusi o emarginati. Non
ultimi i bloggers, il cui background plurale allarga
senz'altro, anche se inevitabilmente in chiave pop,
la materia del contendere. Fra l'altro, la mancanza di
un vertice, di un'oligarchia di comando, sostanzia la
natura stessa del web: esso infatti altro non è che un
labirintico pullulare di arcipelaghi, spesso
indifferenti l'uno all'altro o, alla peggio, in reciproca
tensione. La rete è infatti una selva, piuttosto che
una società organizzata democraticamente, uno
spazio babelico agguerrito, dove la libertà estrema
diventa spesso arroganza.
Talvolta capita, tuttavia, che l'arcipelago sia
fondato su altro: rispetto reciproco, curiosità di
conoscere, amore per la professione, dedizione.
255
Posti così ce ne sono a bizzeffe in rete, in tutti i
settori. Chi, malgrado questo, si ostina a buttare il
bambino con l'acqua sporca, è un sabotatore o un
malizioso. E comunque il bambino, dentro e fuori,
continua il suo serio lavoro lo stesso, giocando con
il suo lego. Nel mio caso, costruisco via Blanc de ta
nuque, dando spazio alle poetiche più diverse,
sostenendo non soltanto il merito e i piccoli editori,
ma anche i lettori che vogliono capire che cosa
accade nella poesia, specialmente italiana. Lo faccio
tessendo relazioni, non erigendo steccati; portando
il mondo reale nel web, non edificando un mondo
virtuale, chiuso al confronto con chicchessia.
Al di là di quanto si legge in giro, dove giornali e
accademia si rubano il pane di bocca per
sputacchiarlo con maggior livore sulla testa del web,
e dunque scavando e mirando di là da questa
assiepata masnada, in rete si trova un onesto e
talvolta lodevole lavoro. Penso in particolare ai siti
poetici di cui Poecast ogni giorno attesta l'operato, ai
poeti e ai lettori che frequentano Blanc, alle riviste in
rete, ai siti dedicati ad un poeta d'antologia. Certo,
dopo anni di onorato servizio, credo sia ormai finita
la fase di mappatura generalizzata, di ostentata
esibizione di creatività; tuttavia, l'autorevolezza per
256
cominciare una selezione ulteriore, che metta in luce
alcune linee forti della poesia contemporanea, la si
guadagna sul campo, scrivendo critiche autorevoli,
anzitutto, e postando poeti su cui ci si gioca la
reputazione. Tale scrematura non può essere infatti
decisa a priori, né da un cenacolo di mandarini né
dall'agenzia bloggers riuniti. Occorre, invece,
contemporaneamente al lavoro in rete, tenere vivo
il dialogo fra ogni parte del sistema (studiosi, autori
e riviste interessate alla discussione), organizzando
incontri pubblici in cui si parli non tanto di come
vincere la battaglia del virtuale o su chi debba
decidere le regole per tutti, bensì di poetica, di
politica culturale, del rapporto fra tradizione e
avanguardia, fra poesia e scuola, della tecnologia
applicata alla divulgazione della poesia. Si
producano insomma idee e si materializzino
progetti, anziché i soliti lamenti, che dalla rete,
occorre dirlo, faticano a dissolversi.
259
Puntare l'attenzione critica sul bordo del verso,
sulla terra di confine dove poesia diventa prosa e
viceversa, è un esercizio salutare non tanto alla
storiografia letteraria, bensì alla scrittura creativa in
quanto tale. Essa infatti è sempre, al di là dei
modelli, sconfinamento perpetuo dai codici dati,
pensiero che scarta il dato, che lo rigenera grazie alla
fertile lingua di ciascuno. Pur dandolo per
presupposto, la strada intrapresa da Prosa in prosa (Le
Lettere 2010) non parte da questo assunto generale;
essa piuttosto cerca fondamento in una precisa
matrice ideologica, pensandosi quale conseguenza
della crisi dei codici, tanto quelli alti, del ‹‹poetico»,
quanto quelli denotativi, referenziali.
260
L'idea, che diventa prospettiva di militanza
critica nei confronti di una tradizione poetica, in
specie italiana, si sostanzia in questi due elementi:
negare ogni ‹‹trascendenza» alla parola e contestarle
l'orizzonte retorico-simbolico, così da produrre,
come scrive Paolo Giovannetti nella dottissima
prefazione, ‹‹un testo che non suona e gioca tutte le
sue possibilità in un bianco/nero integralmente,
disperatamente gutemberghiano». Della
definizione, mutuata anzitutto da J.M. Geize,
colpisce l'avverbio esistenzialista ‹‹disperatamente»,
che riporta l'esercizio intellettivo degli autori
antologizzati (Inglese, Bortolotti, Broggi,
Giovenale, Zaffarano, Raos) a farmaco freddo
contro l'angoscia, ossia a quel sentimento prodotto
dal non senso dell'esserci, tematizzato a suo tempo
da Kierkegaard e Heidegger, che costituisce fra
l'altro una delle fonti per comprendere la relazione
fra parola poetica e finitezza. Il venir meno della
‹‹trascendenza» consiste nel pensare il particolare
nella sua funzione fondante, mancante di nulla, e
che qui si traduce nell'indipendenza dal ‹‹genere»,
modo invece dell'Universale. In questa prospettiva,
la scrittura concreta, singolare, viene prima del
261
cappello che distingue la poesia dalla prosa e da
qualsiasi altra verticalità esterna a tale pratica.
Ciò che mi convince di meno, e che comunque
non è nuovo nemmeno in Italia, è l'impoverimento
programmatico della lingua, il suo appiattimento alla
forma di comunicazione ordinaria, desublimata, cui
l'unica funzione critica consiste nel disvelare il caos
contemporaneo (dei codici etici, grammaticali e
politici) tramite lacerti metonimici, capaci di
produrre cortocircuiti nel tessuto della
comunicazione sociale. L'operazione, che in fondo
altro non chiede al lettore se non ‹‹di confrontarsi
con una pura sintagmaticità combinatoria"
(Giacometti), pur avendo il merito di riportare al
centro del dibattito la questione semiologica del
rapporto fra senso e significato, fra tecnica ed etica,
fra sapere scientifico e quello umanistico, letta con
la terminologia di de Saussure, appiattisce la parole
sulla langue, ossia il tracimare linguistico della
caducità singolare nel codice fisso della comunità
parlante e ciò, anzitutto, per la persuasione che il
genere lirico abbia esaurito le proprie possibilità
espressive. Tale assunto si combina con la
convinzione che la stessa langue è in frantumi,
consegnandosi dunque alla parole non come tessuto
262
fondante, bensì quale magazzino di maschere,
arcipelago di detriti incapaci di riconsegnarci un
senso univoco del reale. Dando per acquisita questa
seconda istanza e seguendo l'indicazione di
Giacometti, mi chiedo quale sia la necessità
intrinseca dell'impoverimento della parole, quale
l'evidenza che davvero non ci sia alcun lasco fra
omologazione e creatività individuale, che non sia
intesa quale catena destabilizzante operante
all'interno dell'omologazione stessa. Leggendo
tuttavia gli autori, come lo stesso prefatore
ammette, è evidente lo scarto operativo dal
presupposto teorico. Strategie differenti delimitano
infatti poetiche conciliabili soltanto nella cornice, in
un orizzonte pre-testuale che è tradizione
semiotico-strutturalista (soprattutto francese e
statunitense) e militanza avanguardistica, giacché
pensa al postmoderno non come modo
dell'apertura storico linguistica contemporanea (che
pervade anche la lirica, dunque), ma quale preciso
schieramento di campo, con annessa
sprovincializzazione della cultura letteraria italiana,
troppo chiusa nei propri modelli di radice
simbolista, e poco propensa ad interagire con
scienza e tecnologia. Questione invero già posta
263
dalle neoavanguardie degli anni Sessanta. In questo
senso, credo sarebbe utile al dibattito una maggiore
chiarezza critica verso la tradizione italiana (dai
Vociani a Campana, da Pavese a Savinio, da
Zanzotto a Rosselli, da Villa a Spatola, da Pizzuto a
Manganelli, per non dire dei Novissimi, dei Gruppi
'63 e '70, e dei poeti di "Anterem"), così da
rintracciare una linea autorevole legata anche alla
nostra storia novecentesca e alla storia della nostra
lingua. E' quanto intende fare il controcanto in
postfazione di A. Loreto, che, dopo aver ripercorso
la storia della tautologia ‹‹arte è arte» (inutile dunque
dire ‹‹prosa» ma intendere ‹‹poesia»), cava dai sei
autori, con pertinenza, lacerti cinematografici,
plastici, pittorici e letterari che danno ai loro testi
una vitalità straordinaria, che certo merita
attenzione.
A questa recensione, seguì presto una risposta di
Marco Giovenale, pubblicata in Slow Forward, il suo
sito, che riporto perché ricca di spunti:
Seleziono alcuni estratti dalla recensione che
Stefano ha dedicato – e lo ringrazio – a Prosa in prosa
(Le Lettere, 2009):
264
(1) «Ciò che mi convince di meno è
l’impoverimento programmatico della lingua, il suo
appiattimento alla forma di comunicazione
ordinaria»
(2) «appiattisce la parole sulla langue»
(3) [Prosa in prosa nutre la] «persuasione che il
genere lirico abbia esaurito le proprie possibilità
espressive»
(4) [Quelle dei sei autori sono] «poetiche
conciliabili soltanto nella cornice, in un orizzonte
pre-testuale di tradizione semiotico-strutturalista e
di militanza avanguardistica»
(5) «credo sarebbe utile al dibattito una maggiore
chiarezza critica verso la tradizione antisimbolista
italiana (da Zanzotto a Rosselli, da Villa a Spatola,
da Pizzuto a Manganelli, per non dire dei Novissimi,
dei Gruppi ’63 e ’70, e dei poeti di Anterem)»
E propongo alcune contro-osservazioni:
(1) + (2) Queste intenzionali «bidimensionalità»,
in certi aspetti linguistici, a mio avviso, sono
riferibili solo ad alcuni degli autori di Prosa in prosa.
Inoltre, dar loro il nome di «appiattimenti» è scelta
che rischia di avere i connotati di un giudizio
265
svalutativo, lecito ovviamente, ma esatto? Quelle
scelte sono o comportano un appiattimento? (Sempre
ammettendo la bidimensionalità, come scena del
denotativo). In alcuni degli autori dell’antologia, per
altro, specie Raos, Inglese e Zaffarano, la verticalità
o meglio ancora molteplicità lessicale – e dunque uno
scarto parole/langue – è in numerosi passi fin
troppo percettibile. Tuttavia la cosa fondamentale,
in Prosa in prosa, è che anche quando tale verticalità
è data, non viene offerta come palestra del connotativo
(pur, incidentalmente, essendo tale), bensì come
ricchezza peculiare della denotazione.
(3) «Che il genere lirico abbia esaurito le proprie
possibilità espressive».
Si tratta di una persuasione a cui forse non
aderirebbero che assai limitatamente – e tra
un’infinità di annotazioni e distinguo – Inglese,
Giovenale, Raos (ne danno conto libri usciti o
imminenti); e di cui non sentono nemmeno la
necessità gli altri tre. In tutti i sei casi, aggiungerei,
non è troppo importante il tema della lirica (pur
presente, come sfondo tra i molti possibili). Questo,
per la «prosa in prosa». Dire che chi fa prosa in
prosa è (sempre/comunque) avverso alla lirica
266
(tutta) è un po’ come dire che se uno va in vacanza
«sullo Ionio» è contrario alla vacanza «in montagna».
Si dovrebbe semmai dire che è contrario alle
Dolomiti, al Caucaso, alle steppe siberiane, al Mar
Morto, a New York, al Polo Nord, al sushi, ai
marsupiali, alle viti a croce, a piroettare perdendo
l’equilibrio, al minibasket, alle adenoidi, alla bibbia.
Insomma: non tutto quello che non si fa viene – da
quello che di fatto si fa – condannato in qualche
modo. Se uno non fa Y, farà X. Se poi facendo X è
'anche' contro Y, proprio con la sua prassi x-oriented,
allora fa militanza. È in effetti davvero il caso, per
Prosa in prosa, di parlare di militanza? Sì e no.
Sì, se lo si vede come tomo isolato dal contesto
dei libri degli altri o di alcuni degli altri autori. No,
stando alla maggiore complessità delle strade (e
degli strati delle strade) da ciascuno di loro
intraprese.
(4) Quale sostanza semiotico-strutturalista regge le
prose limpidissime di Broggi, o le schegge di
Bortolotti? Il libro parla abbondantemente, e gli
autori abbondantissimamente in rete e su riviste e
da anni, di autori di riferimento non italiani. Non
parlano quasi mai di strutturalismo, e raramente di
267
militanza, di avanguardia. Anche se fanno certo e
spesso riferimento ad autori di (ex) avanguardia. Ma
– e contrario – se per certe prose di Bortolotti e
Broggi io potrei pensare a (per dire) Robert Walser,
e alla sua sovraesposta ironica limpidezza, direi che
a nessuno verrebbe in mente di definire questi due
autori «walseriani».
Il fatto di non aderire o non riaderire a una
postura autoriale più o meno ‘dittante’, assertiva, il
fatto di sposare il denotativo, il fatto di abbondare
in ironia, il fatto di praticare googlism, sono
automaticamente «militanza avanguardistica»?
Ecco, da parte mia non sarà ingeneroso e
improprio allargare le braccia con un mesto «in Italia
finisce sempre così!». Se non sei Pavese allora sei o
Ungaretti o Montale. Se non sei uno di quei due,
devi per forza essere Marinetti. Le figure nel mazzo
di carte sono quelle. Ma i punti (1) e (2) non
parlavano di un «appiattimento alla forma di
comunicazione ordinaria»? Allora a quale «militanza
avanguardistica» fanno riferimento i sei di Prosa in
prosa? Giocoforza a Balestrini, perché tutto
sommato nessuno degli spericolati altri bricoleurs
del 1963, e tantomeno quelli che negli anni Novanta
ne han ripreso (criticamente) alcuni passi,
268
scrivevano testi come quelli di Broggi e Bortolotti,
o brani come Ammi (di Giovenale). E che dire di
Inglese, assolutamente lineare nei suoi racconti? (Che
però non sono racconti, ma – appunto – prosa in
prosa). (E… se per Inglese a qualcuno venisse la
tentazione di richiamare il Balestrini di Vogliamo
tutto, ebbene, conti fino a dieci, prenda un respiro
profondo, e faccia invece click, non meno
felicemente, sul nome di Christophe Tarkos).
(5) Se, come la recensione ammette, nel libro si parla
(anche) di esperienze NON ITALIANE, perché
riportare il discorso al confronto con «la tradizione
antisimbolista italiana»? Se si parla (se, conoscendo
i sei autori di Prosa in prosa, si può parlare) giusto di
Tarkos, e di Silliman, Bernstein, Mohammad,
Hejinian, Derksen, Cadiot, Espitallier, Hocquard,
Sondheim, Leftwich, Kervinen, Ganick, Goodland,
Bergvall, Blau DuPlessis, Palmer, Moriarty, perché
non si prova a usare o avvicinare precisamente questi
filtri interpretativi, fonti, modi e mood? Sono questi
– con tanti altri qui omessi per brevità – i nomi che
da qualche decennio (o meno, o più) reggono molte
delle sorti della scrittura di ricerca fuori d’Italia. E
sono sempre questi gli autori che non paiono
269
conosciuti e riconosciuti in Italia, tutt’ora. Tranne
eccezioni, tranne traduzioni che (caso fortunato!) si
debbono a Zaffarano, Raos, Inglese, Bortolotti.
Come mi è capitato di scrivere altrove, ormai
scrittori come David Markson o Leslie Scalapino
fanno in tempo a morire, prima di vedere una
traduzione di opere loro in italiano. Si può forse dire
che da quasi trent’anni ormai la letteratura italiana è
fuori sincrono rispetto a molte ricerche in corso in
altre parti del mondo.
Se il confronto è sempre e soltanto entro l’area
linguistica italiana, è facile facilissimo non trovare –
in riferimento a bizzarrie come Prosa in prosa – altro
che ponti interrotti, ritorni carsici, parziali
corrispondenze. Di fatto non è (del tutto) italiana la
tradizione di riferimento.
Il titolo Prosa in prosa viene da Gleize. Lo
rammenta Guglielmin stesso in incipit di
recensione. È allora pienamente 'in area' Zanzotto?
Possiamo (certo! avec plaisir) confrontarci con
Zanzotto e con tutti gli altri nomi fatti. Ma partendo
dall’assunto che i punti di riferimento non sono
(esclusivamente) italiani. Anzi sono sostanzialmente
non italiani. (E non sono Maulpoix, Nöel, Bonnefoy,
Jaccottet; forse nemmeno Ashbery, aggiungiamo).
270
Finché non troverò altri nomi nelle note che
leggo, non sentirò che il discorso specifico del libro
Prosa in prosa sarà stato recepito/affrontato. Ma sarò
sempre pronto a cogliere il senso delle critiche che
all’antologia vengono rivolte. Solo, al momento
trovo si tratti di un senso che non parte dai
riferimenti che pure ormai intorno alla prosa in
prosa sono imprescindibili.
E dico questo con tutta la stima – nella
perdurante distanza – che nutro per chi non
condivide il percorso della prosa in prosa, ma con
onestà e generosità, come Stefano nella sua
recensione, vi si accosta.
Il 26/10/10, su Blanc, uscì la mia replica dal titolo
una parola sul "fondamento"
Partendo in medias res (e con un impeto che spero
non sia irritante), dico: se, come ha scritto Tarkos,
«to tell the truth, uh oh, that'll cause the revolution»,
allora voglio capire da ciascuno di voi che cosa
intende per «verità» e per «nuovo» (implicito nel
richiamo alla «revolution», ma anche caro a tutta la
modernità, che lo pensa quale 'superamento con
271
scarto positivo', e quindi riconoscendolo auspicabile
a prescindere come sinonimo di progresso,
avanzamento, crescita). Resi espliciti questi due
fondamenti, posso distinguerli da quelli, per
esempio, di Platone, Aristotele, Sant'Agostino,
Spinoza, Kant, Hegel, Marx, Darwin, Wittgenstein,
De Saussure, Heidegger, Popper, Deleuze, Derrida,
e decidere con maggiore serenità se la posizione di
GAMMM ha o meno una radice positivista.
Ancora, e cito Juliana Spathr quando afferma, a
proposito di The fatalist della Hejinian, che in esso
c'è la dimostrazione «how poetry is a way of
thinking a way of encountering and constructing the
world, one endless utopian moment even as it is full
of failures»; a parte l'evidenza che sono molte le
tradizioni culturali che trovano una forte relazione
fra poesia e pensiero, vorrei sapere, parafrasando
Heidegger: ma che cosa significa, per ciascuno di
voi, pensare? Lo chiedo anche per poter affermare
che, quando si recensisce un libro collettivo, si
pensa sempre in termini generali, sacrificando, per
ragioni di spazio, il particolare: penso 6 e così tolgo
le singole unità, che troveranno inevitabilmente
ingiustizia in quel numero impersonale, che li
rappresenta solo parzialmente (ma su Broggi e
272
Giovenale ho già scritto altrove e spero di poterlo
fare anche sugli altri, prima o poi).
En passant: pretendere dal lettore di conoscere
l'opera dei padri per giustificare i figli, non è leale
nei confronti di nessuno, e rischia di assomigliare
proprio a quello che hanno fatto gli epigoni di tutti
le poetiche del XX secolo. Se vogliamo misurarci
con «la degradazione dei significati e l'instabilità
fisiognomica del mondo» (Giuliani) oltre che con
quanto di buono ci ha insegnato la grande tradizione
neoavanguardista, che ha in Italia i più eccellenti
pensatori (per esempio, senza Banfi e Paci non ci
sarebbe l'Anceschi del "Verri"), la prima cosa da fare
è «pensare», appunto, ossia confrontarci senza
riparo con il naufragio che ogni azzardo porta con
sé, con l'utopia della scrittura, che non è il senza luogo,
bensì il luogo altro, da rifondare continuamente
nell'adesso, da fare essere in quanto s-fondamento,
rimando continuo al possibile, dialogo con un vero
che è lo stesso inquieto oscillare del senso quando
pensiamo, quando scriviamo poesia. Per me il
dialogo fra «parole» e «langue» si istituisce quanto
più siamo consapevoli di questo. Chiedo dunque a
Marco: «la molteplicità lessicale», se attinta
273
dall'infinito trattenimento che è l'archivio
contemporaneo dei saperi, è davvero atto creativo
del soggetto che si sa plurale, o rischia di essere
attività poietica del soggetto che opera sulla natura
del linguaggio così come il soggetto borghese agisce
sul paesaggio, saccheggiandolo? Il ready made non
ha questa ferita narcisistica dentro sé? Vero che tu
distingui, nel denso commento espresso oggi su
Poesia 2.0 a proposito del saggio di Carlucci, tra
ready made e sought object, considerando
quest'ultimo quale voluntas, atto/scarto/scatto
creativo; tuttavia, non è questa un'azione che
compete a tutti i poeti degni di essere chiamati tali?
Certo nel sought object non si pesca nell'indistinto
o nell'«ignoto», come nella linea rimbaudiana, ma le
due operazioni hanno uno scarto/salto/azzardo
simile. Giusto poi ragionare sulle differenze, come
tu affermi nel medesimo commento.
A proposito della semiotica e dello
strutturalismo, non c'è polemica alcuna. Dico
soltanto che è proprio di tali discipline concentrare
l'attenzione su costanti e variabili testuali,
focalizzando la verità del testo sulla natura
misurabile dello stesso (il Nuovo paesaggio italiano di
Broggi e Tracce di Bortolotti sono così lontani?).
274
Aggiungo: il modello greimasiano è splendido,
anche se, per ragioni di scientificità, è costretto a
prescindere dalla massa oscura dell'identità autoriale
e dall'imponderabile della ricettività nel fruitore,
quell'opaco che, con grande ingegno, ci hanno fatto
finalmente incontrare Barthes, la Kristeva, Lotman,
sul versante sociologico e antropologico. Autori che
amiamo tutti, ne sono certo.
Infine: se dico che Prosa in prosa ha come
referente critico la dominante lirica della tradizione
italiana, non opero un accostamento arbitrario: 1)
«prosa» è l'esatto contrario di «canto» (prosastico è
aggettivo evidentemente antilirico pur se
spregiativo, e canto, nella sua massima espressione
– non solo etimologica - è lirico); 2) Prosa in prosa esce
in Italia: non può dunque esimersi da un confronto
con un dibattito che attraversa la nazione da almeno
un secolo (dai Crepuscolari e dal futurismo?) e che
ha proprio nell'elaborazione antilirica legata al
Gruppo 63 e al Gruppo 70 un referente autorevole.
Sto parlando a dei fratelli, sia chiaro. Non dico:
qui c'è qualcuno che ha torto; ma piuttosto: la
ragione calcolante (e la dimostrazione, quale evidenza
del torto altrui, ne porta il segno più dolente)
produce guerra, nemici, silenzio rancoroso; pensare,
275
che non è ragionare, implica invece il sentirsi parte
di una rete di relazioni in cui ci muoviamo, nella
quale il fraintendimento non è difetto, ma sano
esercizio del prendere la parola, esercizio vitale che
esemplifica il nostro essere gettati in un mormorio
di voci che ci attraversano, con tutta la violenza che
il 'prendere la parola' comporta. Una violenza,
tuttavia, che strappa senso dalla verità in gioco e non
dalla carne dei dialoganti. Sono convinto che anche
su quest'ultimo assunto voi siate d'accordo.
Ad una seconda lettera, amabilissima, dello scrittore
romano, seguì questa mia (4 nov. 2010): Una parola su
finito e sulla Neoavanguardia
Caro Marco, anzitutto voglio ringraziarti per la
qualità dei tuoi interventi e per il tono pacato, così
raro in rete. La tua lettera di ieri, invece, e anche
quella di oggi, restano in posizione, puntualizzano
con precisione, non attaccano l'interlocutore, ma
approfondiscono l'oggetto, ossia la qualità della
prosa che pratichi, anzi l'assenza di qualità della
prosa, il suo essere senza qualità, come l'uomo
musiliano. E' assolutamente legittimo che tu dica:
«sono veramente ed effettivamente prosa in prosa,
276
non versi in prosa, non poème en prose, non prosa
lirica, non narrazione, non epica, non prosa
filosofica, non prosa d’arte, non prosa assertiva-
artaudiana (Noël), non frammenti/aforismi che
segmentano un pensiero (Bousquet, Cioran), non
voyage/onirismo (Michaux)». Ciò garantisce la via
nuova, che è anche un marchio estetico, così come
la dialettica hegeliana o l'idea platonica lo sono per
la filosofia. Ancora più importante è che tu stia
facendo uno sforzo sovrumano per fondare il
concetto di «prosa in prosa» (dei 6, mi pare tu sia
l'unico interessato a farlo o convinto che sia
necessario farlo) di fronte ad una platea che fatica
ad avvicinarne l'originalità, secondo me fondata sul
recupero dell'oggetto (linguistico, fisico, iconico,
simbolico etc) quale stare in posizione del finito,
secondo una linea che deve molto proprio a quegli
autori che prosa in prosa vorrebbe tenere in margine.
Viene infatti dalla linea Bacone-Spinoza-
Kierkegaard-Heidegger-Derrida-Deleuze-Nancy il
pensiero moderno del finito, il pensare quest'ultimo
come mancante di nulla, libero nel suo tremore
ontico, differente dalla semplice-presenza, ed invece
– e qui cito un filosofo che tu conosci, ma che
ancora non ha avuto la giusta considerazione
277
accademica – in una relazione espropriante con il
luogo in cui il finito accade-eccede, ossia un'area «in
cui il finito può situarsi in quanto finito, in cui può
rivelarsi come tale e di conseguenza aprirsi al senso:
non ad un senso che sarebbe quello della sua
finitezza (come se un qualche Infinito Trascendente
glielo concedesse), ma al senso che la sua finitezza
è. [...] Il senso del finito è l'eccedenza della presenza:
in quanto finita essa si apre su un al di là di essa che
non è un'altra presenza, né finita né infinita, ma che
è un nulla di senso in cui si dispiega tuttavia un nulla
come senso, ma come senso inappropriabile»
(Alfonso Cariolato, Il luogo del finito, il Poligrafico,
p.11). Quando tu scrivi: «Io sento la mia riflessione,
per quanto esercitata proprio su questi oggetti
spesse volte, come sento me stesso: decisamente
dislocato e spiazzato e sfidato e infine sconfitto dal
debordare segnico e filosofico del puro e semplice
mezzo fotografico», affermi esattamente quel
tremore cui accennavo sopra. «Dislocazione" è
infatti spaesamento ed erranza quale condizione
ordinaria della contemporaneità, come cercavo di
dimostrare in Scritti nomadi (Anterem 2001), saggio
in cui, fra l'altro, leggevo i Novissimi proprio a partire
da quella dislocazione, che è ontologica, ossia
278
imprescindibile, ma che va scelta, “decisa” direbbe
Heidegger. Il mio lavoro degli ultimi 10 anni,
poetico e saggistico, cerca di approfondire questa
consapevolezza, che, a mio avviso, è un cambio di
paradigma (quello che fondava sull'identità
forte l'ordine del mondo, e sull'idea di superamento la
storia delle idee). Senti quanto si assomigliano
queste mie, alle tue precedenti parole, e a quest'altre,
quando dici: «A mio avviso è proprio per un
distacco dal narcisismo del ritratto, che l’oggetto
non esibito ma mutato di campo (dall’utile all’estetico)
acquista e si fa vettore di segni del senso. È proprio
staccando l’ombra dal corpo – dunque rischiandola –
che abbiamo un modo inedito e non garantito di
rapportarci alla nostra “anima”, a quello che
sentiamo (poter) essere il “senso” (sempre “portato
in segni”, reso tracce, ossia già spostato di un grado
o più gradi di differenza/différance altrove,
lateralmente, rispetto al “punctum” dove il
linguaggio starebbe già, ossia rispetto al dato e al
movimento in corso, che parla e articola quel
punctum e già sta tacendo, proprio per una
differenza che non “è”, non “risiede”, ma si
esaurisce nel nostro percepirla non appena ci ha
gettato un rapido lampo, un’occasione)». Anche tu,
279
oltretutto, poni l'accento sulla relazione identità-
spazio, intesa quale co-appartenenza in cui l'evento
è «l'aver luogo» dell'essere «singolare plurale» nei
modi cari a Nancy, e citi Derrida (la «differance»)
per pensare lo scarto tra nominabile e innominabile,
e Deleuze (le «tracce»), oltre che essere profondo
conoscitore del pensiero di Merleau Ponty e
dell'importanza che egli attribuisce non soltanto al
«non detto», ma anche alla percezione, quale attività
di radice fenomenologica, attività che fonda a mio
avviso, per le ragioni appena espresse, la tua stessa
idea di «sought object». Inoltre, pensare quest'ultima
azione amplificata in un soggetto transcoscienziale
e cibernetico, dove il sistema-coscienza interagisce
sinergicamente con il sistema-mondo, con l'Aleph
borgesiana, a me pare comporti una dislocazione del
sé non dissimile a quanto intende Heidegger nel cap.
V di Essere e Tempo, quando parla di «gettatezza», di
quel «ci» dell'Esser-ci che apre «comprensione» ed
«interpretazione».
Un'ultima nota relativa alla storia della
Neoavanguardia, che tu poni all'inizio della lettera.
Credo sia importante cercare di capire perché «una
certa possibile linea di scritture (anche verbovisive)»
sia stata «interrotta» in Italia, a partire dal
280
riconoscimento – e non lo dico a te, ma ad una
koinè contemporanea, specie nella giovane
generazione, che tende a sminuire il lavoro
complesso della Neoavanguardia – delle ragioni
storiche che hanno portato alla nascita e al
compiersi di un processo che ha messo la cultura
europea e americana al centro dell'attenzione
nostrana, che ha sprovincializzato un dibattito,
spostandolo dalla questione «neorealismo» a quella,
inglobante la prima, del rapporto fra industria
culturale e neocapitalismo. Non entro in merito al
contenzioso perché libri capaci di esplicitarlo sono
molti, primo fra tutti quelli di Lucio Vetri, Letteratura
e caos (Mursia 1992) e di Renato Barilli, La
neoavanguardia italiana (Il Mulino, 1995). In sintesi, io
dico: se l'esperienza di "Quindici" testimonia la fine
di un progetto di rivoluzione culturale a favore di
una prassi più prettamente politica (quella operaia e
studentesca) dove la militanza estetica della
borghesia colta della sinistra italiana, radunata a
ranghi larghi nel poliedrico gruppo 63, ha scelto di
assecondare l'emergenza progettuale in atto,
dialogando in modo radicale sul Vietnam e il Medio
Oriente (e così scaricando, fra l'altro, il
moderatismo del PCI) anziché sul rapporto,
281
sanguinetiano, fra ideologia e linguaggio; se da questa
deriva identitaria, sopravvive comunque
l'esperienza di TAM TAM e di altra ricerca verbo-
visiva legata al Gruppo 70; se la poesia lineare degli
anni Settanta nasce all'insegna di una nuova
generazione che ha di nuovo bisogno di ricostuire
lo smarrimento attraverso il canto e la radice tragica
o orfica dell'esistenza, anche se le generazioni
precedenti, al contrario, scelgono il verso opaco
(Montale), il verso ideologico (Pasolini), il verso
schizodomestico (Sanguineti) – tutti debitori nei
confronti della prosa, nelle sue infinite forme – e il
poemetto (penso a Un posto di vacanza, di Sereni, alla
Signorina Richmond di Balestrini, alla Camera da letto di
Bertolocci, ma anche al travaglio compositivo de La
ballata di Rudi di Pagliarani) o continuano il loro
viaggio originale, come Luzi; se i protagonisti
dell'Avanguardia si sono integrati nelle istituzioni
che contano (Università, RAI, Giornali di potere,
editori); se tutto questo è verificabile, occorrerà un
ulteriore approfondimento della specificità italiana,
in modo da descrivere meglio il destino povero
dello sperimentalismo postneoavanguardista, così
come sarà da studiare la proposta di prosa in prosa -
non tanto quale nuovo conflitto di paradigmi
282
(appunto per quanto detto sopra, ossia che il nuovo
paradigma è in atto non soltanto nelle ricerche cui
tu fai riferimento, bensì in ogni poetica del finito)
quanto piuttosto sotto il profilo storico-letterario e
sociologico – dopo il sopimento degli anni Settanta-
Ottanta e il fuoco, certo interessante, del Gruppo
93. Sono passati circa vent'anni da quella proposta
legata a Poesia italiana della contraddizione (Cavalli,
Lunetta, Newton Compton, 1989), ad una versione
italiana del Postmoderno, alle riflessioni sull'allegoria
di Romano Luperini, ad un materialismo che la
cultura moderata e cattolica ha sempre digerito
male; ben vengano dunque una pratica e una
teorizzazione in cui autonomia e eteronomia dell'arte (per
citare Anceschi) siano di nuovo messe a centro del
dibattito, con consapevolezza, come stai facendo tu.
Ancora una parola sulle cose e sul mondo (7/11/10)
Caro Marco, volevo esprimere un paio di
considerazioni a proposito delle «fotografie
dell’artista finlandese Katharina Bosse, dedicate ad
ambienti e spazi vuoti: stanze [...] generalmente
affittate per fare sesso e/o girare film porno», che,
283
nell'ultimo post di Slow Forward leggi così: «La loro
riconnotazione, sovrascrittura, da parte del nostro
sguardo, avviene dunque nella e grazie alla coscienza
del fatto che sono luoghi in cui l’essenziale —
crudo/crudele o meno — è temporalmente
dislocato: c’è già stato o deve ancora accadere. Se in
generale la fotografia è la traccia di un “è così”,
particolari fotografie come queste (e molte altre foto
di ambienti vuoti, certo: ma in questo caso il vuoto
è caricato di un non detto erotico) addizionano un
“sarà altro” o un “è stato differente”, che echeggia
in qualche modo nell’osservatore. O che (meglio)
sarà l’osservatore a far echeggiare nell’immagine.
Non si tratta di riconoscere – trovare familiare —
collocare in una enciclopedia di luoghi e dati — una
banalità d’ambientazione, mobilio sciatto, luce
ambigua, un momento di attesa, ma — anche — di
spingere tanto la banalità quanto l’aria atemporale
nell’inconsistenza del “set” iperconnotato. Dunque
nell’imprimere attivamente con lo sguardo una sorta
di spostamento — di variata percezione — di quei
colori o identità e banalità, sciatteria, eccettera».
Quanto tu rilevi con pertinenza, credo
appartenga ad ogni linguaggio capace di tenere
insieme, senza confonderle, le tre dimensioni del
284
tempo e la complessità dell'essere cosa della cosa
nella sua correlazione con l'esser mondo del mondo.
Heidegger tale relazione la spiega così, rispetto ad
una quartina di Trakl tratta dalla lirica Una sera
d'inverno:
Quando la neve cade alla finestra
A lungo risuona la campana della sera.
Per molti la tavola è pronta
E la casa è tutta in ordine.
Scrive Heidegger ne In cammino verso il linguaggio,
dopo aver precisato l'è così della scena, costituto,
appunto, da: neve che cade, finestra, suono della
campana, sera invernale, tavola apparecchiata, casa
in ordine: «Questo parlare nomina la neve che, sul
tardi, allo svanire del giorno, mentre risuona la
campana della sera, batte senza rumore alla finestra.
Tutto ciò che dura, dura più a lungo, quando la neve
cade: per questo la campana della sera, che ogni
giorno risuona per un tempo strettamente
circoscritto, suona a lungo. Il parlare nomina la sera
d'inverno. Che è questo nominare? [...] Il nominare
non distribuisce nomi, non applica parole, bensì
chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il
285
chiamare avvicina ciò che chiama. [...] Il chiamare è
un invitare. È l'invito alle cose ad essere veramente
tali per gli uomini. La caduta della neve porta gli
uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella
notte. Il suonare della campana della sera li porta
come mortali di fronte al Divino. Casa e tavola
vincolano i mortali alla terra. Le cose che la poesia
nomina, in tal modo chiamate, adunano presso di sé
cielo e terra, i mortali e i divini. I quattro
costituiscono, nel loro relazionarsi, un'unità
originaria. Le cose trattengono presso di sé il
quadrato dei quattro. In questo adunare e trattenere
consiste l'esser cosa delle cose. L'unitario quadrato
di cielo e terra, mortali e divini, immanente
all'essenza delle cose in quanto cose, noi lo
chiamiamo: il mondo. La poesia, nominando le
cose, le chiama in tale loro essenza. Queste, nel loro
essere e operare come cose, dispiegano il mondo:
nel mondo esse stanno, e in questo loro stare nel
mondo è la loro realtà e la loro durata. Le cose, in
quanto sono e operano come tali, portano a
compimento il mondo».
Stare in prossimità della differenza fra cose e
mondo, abitare quella linea che differisce e ci
chiama a rispondere (dare un senso al visibile dalla
286
nostra finitezza, prendere la parola dalla
collocazione in cui incontriamo quella differenza) è
esattamente ciò che sa fare il linguaggio (e quello
delle arti in modo particolare) quando lo si pensi
fondante, ma nel modo di un sottrarsi, ossia tale che
la «differenza» in quanto tale non diventi mai ente,
ma permanga nel suo essere-differente dalla semplice
presenza (il dato, l'oggetto): per esempio, differente
dalle stanze reali che le foto di Katharina Bosse
ritrae. Ritrae, ossia tira fuori dall'ordine muto dello
spazio abitativo, per dislocarlo e rimetterlo al centro
di un'attenzione sopita, rinominandolo attraverso la
finestra della foto, che si fa cornice di un ritratto, di
un tratto nuovo e tutto ancora da pensare, che
provoca l'osservatore, scatenando, appunto, lo
«spostamento» e la «riconnotazione». Qualcosa di
simile emerge anche in Sentieri interrotti, un altro
famoso scritto di Heidegger, nel quale le scarpe
ritratte da Van Gogh, proprio perché esposte
nell'unità espropriante dell'opera, manifestano la
quadratura originaria: «Nell'orificio oscuro
dall'interno logoro si palesa la fatica del cammino
percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della
calzatura è concentrata la durezza del lento
procedere lungo i distesi e uniformi solchi del
287
campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è
impregnato dell'umidore e dal turgore del terreno.
Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero
campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il
silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di
messe mature e il suo oscuro rifiuto nell'abbandono
invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore
per la sicurezza del pane, la tacita gioia della
sopravvivenza al bisogno, il tremore dell'annuncio
della nascita, l'angoscia della prossimità della morte.
Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della
contadina lo custodisce. Da questo appartenere
custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare
in se stesso».
Caro Marco, è proprio in quanto pensi (lasci
essere) la differenza, che sei in grado di esperire
quanto sopra affermi; non perché il paradigma della
Bosse abbia un posto privilegiato nell'ordine del
disvelare. Tanto è vero che Heidegger fa lo stesso
avvicinando la poesia di Trakl (o il dipinto di Van
Gogh), riconoscendoli entrambi capaci di far
interagire l'emotività, l'intelletto e le tre dimensioni
temporali, nucleo invero che ci costituisce
essenzialmente proprio perché l'esperienza (che è
sempre emotivamente situata) dialoga
288
costantemente con la presenza, attraverso memoria
e aspettazione (passato e futuro) e in quanto
domanda di senso (presente) che giustifichi il
significato, sempre parziale, di quanto mi si offre
alla percezione. Ciò accade anche rispetto a
fenomeni non estetici, giacché noi siamo al mondo
in modo essenzialmente ermeneutico. Dunque, non è il
cambio di paradigma che rende tutto ciò possibile,
ma la forza che il linguaggio intrinsecamente
possiede, nella misura in cui si svincola dalla
reificazione generale, dai luoghi comuni, dal mondo
del «Sì» direbbe l'Heidegger di Essere e Tempo. Si
svincola, qui significa: diverge, si mantiene in
un'oscillazione di senso capace di dislocare il lettore,
di ricollocarlo nel dialogo essenziale che lo
costituisce in quanto mortale, in quanto elemento
del «quadrato dei quattro», dove la bussola non
porta fuori di lì, bensì a stare in posizione dialogica
con ciò che temiamo o desideriamo: il cielo e i
divini, quali metafore dell'aperto destinale, la terra,
con le sue quattro direzioni e dunque con la scelta
che ogni via umana comporta, e i mortali, fratelli
consapevoli (si vorrebbe) del fatto che non si esce
dalla caverna (dal labirinto terrestre) perché la luce -
il cielo e i divini - è già perfettamente dentro
289
l'ombra, ed entrambi sono nel differire continuo del
linguaggio, che colloca me e te in cammini differenti
proprio perché differenti sono le nostre finite
presenze. A tenerle in prossimità, tuttavia (qui sta la
bellezza del nostro dialogo), è la disposizione
all'ascolto, al confronto, alla rinuncia a piegare
l'altro, e, semmai, al desiderio di arricchirne
l'esperienza.
293
Vorrei costruire un piccolo canone personale,
formato dagli autori italiani del secondo Novecento
che hanno in qualche modo alimentato la mia
passione per la poesia; si tratta di un gioco,
naturalmente, con tutta la serietà del caso, dove a
vincere, spero, è la poesia stessa, con i suoi percorsi
sotterranei e le sue uscite allo scoperto, improvvise
e lucenti.
Di sicuro (avevo circa vent'anni) l'incontro con
l'antologia dei Novissimi fu decisiva, anzitutto per
«l'idea della poesia quale mimesi critica della
schizofrenia universale, rispecchiamento e
contestazione di uno stato sociale e immaginativo
disgregato» e poi perché mi aiutò a prendere le
distanze da un'io eccessivamente lirico, forgiatesi
294
sulla schiera, per altro dignitosissima, del
cantautorato degli anni Settanta. In particolare, di
Alfredo Giuliani mi colpì la capacità di fondere
dinamicamente il surrealismo visionario con il
sentimento della finitezza, tipico della cultura
romantica, ma depurato dalle implicazioni
idealistiche di stampo neohegeliano, e vicino invece
al 'tragico' di Michelstaedter. Dal canto suo
Pagliarani, con La ragazza Carla, mi diede un
modello irripetibile di poemetto storico-esistenziale,
attraversato dalla contaminazione dei codici, che
permetteva di inserire il prosastico nel lirico senza
comprometterne l'unità. La sua poesia, in effetti,
come quella di Giuliani, rimise in circolo l'antico e il
moderno, la spinta neoavanguardista della
«riduzione dell'io» con l'impossibilità di farlo,
innescando così un gorgo assai fecondo (e non
ancora del tutto esplorato). Anche Gli strumenti
umani di Sereni, in questo senso, furono capaci di
unire la storicità dell'io con le «storte sillabe»
montaliane, dando nuovo ossigeno a quei poeti che
non scelsero la linea schizomorfa; quel Sereni che,
con Un posto di vacanza, riuscì a rendere credibile una
forma-poemetto, al pari della Ragazza di Pagliarani,
295
in cui caducità, viandanza e conoscenza
s'incontravano.
Per quanto mi riguarda, devo dire che a colpirmi
maggiormente, negli stessi anni in cui scoprii i
Novissimi, furono i poeti della generazione nata con
Il pubblico della poesia: fra tutti, leggo ancora oggi
assiduamente Milo De Angelis, che è riuscito a
portare a compimento la tensione mitica di Pavese,
coniugandola con la poesia civile di Fortini, il tutto
mediato da un'esperienza di vita, in specie giovanile,
esposta e senza rete; ma certo ebbe grande effetto
su di me anche l'acquisto di Piumana, di Cesare
Viviani, che venne a coincidere con le mie prime
letture freudiane e con il convincimento –
scolasticamente germogliato, leggendo Bergson e
Pirandello – che la parola non appartenesse
all'autore, bensì alla vita quale flusso di energia
costantemente in fieri.
Fra i libri 'canonici' al femminile, forte fascino
esercitarono le Variazioni belliche e Serie ospedaliera di
Amelia Rosselli, straordinaria artefice di un verso
libero «post-tonale" capace di parlare lucidamente
d'amore, nonché La terra santa di Alda Merini, che
piega la funzione poetica alla piaga allucinata della
sua degenza manicomiale, anche lei trasformando
296
l'immobilità in vortice amoroso, come recita la
chiusa di Laggiù dove morivano i dannati: «e il tuo
corpo andava in briciole, / delle tue briciole bionde
e odorose / che scendevano a devastare / sciami di
rondini improvvise».
Un'altra poetessa per me significativa, che
adopera la lingua come un martello, è Jolanda
Insana: la scoprii nell'antologia di Mario Lunetta,
Poesia italiana oggi, ricchissima fonte sulla scrittura
poetica della fine degli anni Settanta, nella quale ebbi
modo di conoscere anche Gianni Toti, poeta dagli
«sfavillanti deliri lessical / sintattici / semantici»
come scrisse Lunetta, ma anche capace di un
versificare asciutto, distaccato, sulla scia di Corrado
Costa, dove lo sguardo fermo sa vedere – e poi
raccontare – lo spazio in apparenza garantito, ed
invece alienato, della quotidianità, come saprà fare,
più tardi, Valerio Magrelli. Certo ci sono tanti altri
poeti italiani, la cui scrittura riesce a toccarmi;
Zanzotto, per esempio, anche se il suo grimaldello
Lacan agisce a volte troppo scopertamente,
trasformando la polpa della lingua in un rivo
senz'acqua o in uno schedario; mania, quest'ultima,
cara anche a Sanguineti, la cui forza desiderante
comunque sempre mi sorprende. Antonio Porta
297
cominciai invece ad apprezzarlo più tardi, via via
che mi allontanavo dall'avanguardia: II progetto
infinito, in questo senso, con tutta la sua attenzione
alla caducità, fu una lettura decisiva, che mi fece
riconsiderare la scrittura portiana, anche quella degli
anni Sessanta, alla luce della pietas verso i mortali.
E poi ci sono i poeti della mia generazione e
quelli più giovani, la cosiddetta «generazione di
mezzo» e quella 'rampante', quest'ultima già
canonizzata ad uso e consumo di un pubblico under
trenta, poco incline a rimettersi ad una tradizione
forte ed esposta invece al vento del presente, con le
sue mode e i suoi miti. Entro questo orizzonte,
leggo con assiduità moltissimi autori. Con alcuni
tengo vivace corrispondenza, anche attraverso saggi
o articoli pubblicati in riviste, che sono il vero
presente della poesia, il luogo del suo farsi e disfarsi,
in una tensione ricca di futuro.
Fare i nomi è difficile, naturalmente. Fra gli
autori di cui ho scritto nell'ultimo anno, mi piace
ricordare Paola F. Febbraro - che, con La rivoluzione
è solo della terra, ha composto un canto «della specie
femminile che piange», ma al modo della terra che
s'apre e butta fuori l'incandescenza - e Giorgio
Bonacini, la cui opera è tutta rivolta, come scrisse
298
Giovanni Infelise citando Roland Barthes, a
«comunicare l'interiorità senza concedere l'intimità».
Autrice che sento un po' 'sorella' sia sotto il profilo
poetico sia intellettuale è Gabriela Fantato, il cui
ultimo libro, Il tempo dovuto, mette in scena dieci anni
di scrittura d'area lombarda, ma filtrata dalla
passione per le grandi scrittici novecentesche (dalla
Pozzi alla Campo, dalla Rosselli alla Spaziani) e dalla
ricerca delle proprie radici, in linea con quel senso
di spaesamento ed erranza che contraddistingue la
migliore scrittura contemporanea. Vorrei
sottolineare, ancora, la ricerca di due giovani autori,
serissimi e competenti; si tratta di Marco Giovenale
e Massimo Sannelli, impegnati a portare avanti,
ciascuno secondo la propria sensibilità, la ricerca di
Giuliano Mesa, poeta decisivo della mia generazione
e certo letto non ancora abbastanza. Infine, desidero
nominare Andrea Ponso, abilissimo, come scrive
Santagostini, ad «inoltrarsi nelle zone incerte,
ambigue e primigenie della natura».
Per concludere, vorrei spendere due parole sulla
saggistica. La mia scrittura, infatti, si è sempre
nutrita di letture eterogenee. Fra gli autori che più
hanno influenzato il mio pensiero, ci sono anzitutto
Heidegger (la mia tesi di laurea aveva per oggetto il
299
pensiero debole di Gianni Vattimo, riletto a partire
dal filosofo tedesco) e Jabès, la cui opera dà corpo
ad un'erranza senza posa e senza proprietà, dove
ogni passo migrante descrive le ragioni dell'intero
migrare, in un procedere orizzontale che si
abbandona al deserto della scrittura. A questi, vorrei
aggiungere Jean-Luc Nancy, forse il più rigoroso nel
pensare l'essere slegandolo dalla fondatività e, per la
capacità di entusiasmarmi, Bruce Chatwin, il cui
zibaldone sull'alternativa nomade costituisce un vero
manuale di sopravvivenza all'interno di una società
che ha perduto i concetti di qui e altrove o li ha
surrogati nell'artificio delle agenzie turistiche.
Decisivi, per comprendere questo, sono stati anche
Mircea Eliade e J. G. Frazer, con i loro studi sulle
civiltà arcaiche. Fra gli italiani, due filosofi che seguo
con interesse sono Franco Rella e Giorgio
Agamben; e poi c'è Alfonso Cariolato, amico di
vecchia data e allievo di Nancy, che mi ha fatto
conoscere molti dei pensatori qui citati.
Ringraziamenti
Un sincero ringraziamento agli amici di “In realtà la
poesia”, in particolare Davide Castiglione e Luigi Bosco,
che conosco e stimo da parecchi anni. E grazie agli editori
che hanno consentito gratuitamente la riproduzione di
queste pagine.
Stefano Guglielmin è nato nel 1961 a Schio (VI),
dove vive e lavora come insegnante di lettere. Laureato
in filosofia nel 1986 con una testi sul "pensiero debole"
di G. Vattimo (110 e lode). Membro della Società
filosofica Italiana.
Ha pubblicato le sillogi Fascinose estroversioni (Quaderni
del Gruppo Fara, 1985, premio “poesia giovane”),
Logoshima (Firenze Libri, 1988), come a beato confine (Book
Editore, 2003, primo premio "Lorenzo Montano"), La
distanza immedicata / The immedicate rift (Le Voci della Luna,
2006, finalista al premio "Montano" Verona, segnalato ai
premi "Campagnola" di Padova e al "Gozzano" di Terzo,
prov. Alessandria), C'è bufera dentro la madre (L'arcolaio,
2010, 2° class. al "Città di Adelfia", Bari; 3° class. al
Premio "Anna Osti" di Costa di Rovigo), Le volpi gridano
in giardino (CFR Edizioni, 2013, 2° class. all' "A. Osti"),
Maybe it’s raining. Selected poemes (1985-2014) (Chelsea
Editions, 2014) e i saggi Scritti nomadi. Spaesamento ed
erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, 2001), Senza
riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, 2009), Blanc de ta
nuque. Uno sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana
contemporanea (Le Voci della Luna, 2011) e Le vie del ritorno.
Letteratura, pensiero, caducità (Moretti&Vitali, 2014).
È inserito in alcune antologie, fra le quali Il presente
della poesia italiana, curata da C. Dentali e S. Salvi
(LietoColle, 2006) e Caminos del agua. Antologia de poetas
italianos del segundo Novecientos, a cura di E. Reginato
(Monte Avila, 2008). Suoi saggi e poesie sono usciti su
numerose riviste italiane ed estere e su siti web.
Ha pubblicato anche racconti; l’ultimo in L. Liberale
(a cura di), Père-Lachiase. Racconti dalle tombe di Parigi, Ratio
et Rivelatio, Oradea (Romania), 2014.
Dirige le collane di poesia "Laboratorio" per le
edizioni "L'Arcolaio", "Segni" per conto de "Le Voci
della Luna" e, assieme a M. Ferrari e M. Morasso,
"Format" della "Puntoacapo Editrice". Gestisce il blog di
poesia Blanc de ta nuque.