Nomadismo e Postmoderno in letteratura

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Transcript of Nomadismo e Postmoderno in letteratura

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in copertina: Joan Miró. Galathée, 1976.

Collana di critica

«VISIONI»

IRLP, 2015

www.inrealtalapoesia.com

[email protected]

Vol. 2

Stefano Guglielmin

NOMADISMO E

POSTMODERNO

IN LETTERATURA

antologia di scritti critici

IRLP

2015

A Tiziano Salari

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Nota introduttiva

Questa antologia racchiude le mie riflessioni

intorno al tema della Caducità e della Finitezza in

relazione alla possibilità di pensare i modi in cui la

letteratura si dà nell’epoca contemporanea. Il primo

termine va inteso quale condizione più

propriamente emotiva, esperienziale dell’esistenza;

il secondo riferisce alla gettatezza ontologica

dell’uomo, con tutto il suo carico di

inappropriabilità.

Tutti i miei saggi si sono occupati di questo

argomento. Del primo, Scritti nomadi. Spaesamento e

erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, Verona

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2001), riporto – senza le note a piè pagina, come

nell’originale – i capp.1-2 (il labirinto quale

condizione gnoseologica ordinaria) e il cap. 8 (sul

postmoderno). Del secondo saggio, Senza riparo.

Poesia e finitezza (La Vita Felice, Milano 2009) ho

scelto quei capitoli che approfondivano la stessa

tematica, ma rispetto alla poesia anziché alla

narrativa e al teatro come in Scritti nomadi. Del libro

nato dal mio blog e dal titolo Blanc de ta nuque, uno

sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana contemporanea (Le

Voci della Luna, Sasso Marconi 2011) ho

estrapolato i saggi sulla pratica in rete della poesia e

un dialogo con Marco Giovenale nato intorno

all’antologia Prosa in prosa (Le Lettere, Firenze 2010).

Del mio ultimo libro, Le vie del ritorno. Letteratura,

pensiero, caducità (Moretti&Vitali, Bergamo 2014),

non ho incluso nulla perché i saggi sono troppo

specifici (sull’Orestea e su alcuni illuministi) per

essere inclusi in questo e-book. Come tuttavia ben

si evince dal titolo, anche questo lavoro tiene ferme

le convinzioni dei precedenti, approfondendole

rispetto alla tragedia greca e alla filosofia.

Da Scritti nomadi. Spaesamento e erranza

nella letteratura del Novecento (Anterem, Verona 2001, pp.149)

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La responsabilità nell’erranza

1. La presenza ed il libro

La perdita del centro è una condizione della

presenza nella modernità che Nietzsche intuisce con

grande chiarezza; ce l’addita come destino

ineluttabile, ma non come disgrazia: Zarathustra

intende appunto mostrarci il fuoco della salvezza,

far parola del caos che agita l’Essere alla radice, per

condurci di là della presenza lacerata che

contraddistingue l’uomo moderno. Se quest’ultima

si caratterizza infatti per la sua costante attesa di

novità, di cambiamento, di insoddisfazione verso il

presente, sempre imperfetto, sempre inadeguato alle

aspettative, lo Zarathustra nietzscheano abita la

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presenza nella pienezza del volere e da lì guarda

fuori, senza nostalgia per il passato, senza speranza

per il futuro. Egli va verso l’altrove, ma ogni passo,

realizzando tutto il tempo che lo costituisce, è

sempre qui, perfettamente a proprio agio, presente

e vigile. Zarathustra, in questo senso, è un pellegrino

che cammina sui propri passi, che cammina in

cerchio, ricreando l’origine della presenza ad ogni

istante. Non ha dunque bisogno d’orientarsi, poiché

egli è l’orientamento.

Nietzsche ci mostra che l’identità è possibile,

anche quando la Storia, Dio e l’uomo, in quanto

figlio di Dio e della Storia, non sono più credibili; e

ciò a partire da un nuovo modo di considerare la

presenza, in cui trova collocazione la figura del

nomade, del viandante, di colui che ha assunto su di

sé la responsabilità dell’erranza.

Qualcosa di simile accade anche in Jorge Luis

Borges. Nella Biblioteca di Babele (1941), è vero, egli

ci parla del gran labirinto dell’Essere, cui la

Biblioteca è corpo e parola, possibilità d’inesauribile

attraversamento; ma essa è anche garanzia

d’immaginare l’altrove giacché, pur essendo

tendenzialmente infinita, non è astratta, bensì luogo

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concreto, costellazione di percorsi possibili a partire

da una collocazione particolare, odore e peso in cui

l’uomo sente e vede e riconosce, per alcun tempo,

una prospettiva.

È dunque la finitezza, nel progetto borgesiano, a

garantire un orientamento, sia pure sempre parziale:

l’essere qui per un certo tempo, l’essere qui non in

eterno. È lei a regolare gli snodi del labirinto; lei ad

obbligarci ad un punto di vista, a rendere fratelli

verità e punto di vista.

Detto altrimenti: la Biblioteca infinita borgesiana

contiene il labirinto nel quale il viandante cerca un

senso alla propria collocazione; ma Biblioteca,

labirinto e viandante stanno l’uno dentro l’altro, in

una prospettiva plurima il cui enigma, ci spiega

l’argentino, forse qualcuno un giorno riuscirà a

svelare. Se ciò accadesse, continua, egli diverrebbe

“simile a dio” (La Biblioteca di Babele, in J. L. Borges,

Tutte le opere, vol. I, Mondadori, 1984, p.686). Ma

esisterà mai quest’uomo? Per intanto, egli ci

suggerisce, impariamo ad accettare il fatto che ogni

rappresentazione è soltanto, ma necessariamente,

un punto di vista. Un punto di vista, tuttavia,

essenzialmente legato all’universale: l’occhio infatti

vede il labirinto attraverso la lente del labirinto

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stesso. Come dire: l’occhio riconosce un paesaggio

in forma d’iride nel quale si specchia. Se cambia

occhio, cambia paesaggio. Però ciò che ciascun

occhio vede non è illusorio: il mondo davvero gli

vive dentro, fra la pupilla e la retina. E gli vive fuori,

essendo il corpo vivo nel quale esso stesso ha la

possibilità di vedere. Ciascun uomo vive dunque

nella rete di una figura circolare complessivamente

indefinibile, e con essa interagisce, modificandola.

Scrive in tal senso Borges, vinto quasi dalla

commozione: “Presi un pugno di sabbia, lo lasciai

cadere silenziosamente un po’ più lontano e dissi a

bassa voce: Sto modificando il Sahara” (Deserto,

annotazioni d’Atlante [1984] in Tutte le opere, vol. II,

cit., p.1411).

Nel 1935 uscì Auto da fé di Elias Canetti, la storia

tragicomica di un sinologo viennese, Peter Kien, le

cui due inesauribili risorse sono la memoria e la

mania per i libri. In questo suo abitare spaesato,

donchisciottesco, egli vede ciò che immagina, crede

in ciò che vede e soprattutto va, esattamente come

l’hidalgo spagnolo, là dove lo porta la testa ingombra

di libri. Peter Kien, in effetti, è “l’uomo dei libri” in

tre sensi: appartiene ai libri, è loro servitore; egli

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inoltre vive passionalmente per i libri e – come

racconta l’ultima pagina del romanzo – muore con

loro; il nome stesso, infine, ne segna il destino: la

parola cinese che più s’avvicina a Kien, infatti, è Ken;

letteralmente: “fare ricerche sui libri”.

Il primo nome del protagonista doveva essere B.,

il “Buchermensch”, l’uomo del libri, appunto (La

coscienza delle parole [1975], in E. Canetti, Opere,

Boringhieri, 1993, vol.II, p.311). Com’è noto,

durante l’elaborazione del romanzo altri nomi si

sono succeduti a quello originario: Brand, Kant;

infine Peter Kien. Anche il titolo ha subito

metamorfosi: Kant va a fuoco diventa L’abbagliamento

o L’accecamento (a seconda della traduzione) che

diventano La torre di Babele nella versione americana,

e Auto da fé in quella italiana. Di volta in volta, si dà

peso al fuoco, al delirio, alla lingua, al libro; facce

tutte del medesimo romanzo, chiavi possibili di

lettura ma anche, prese singolarmente, visioni del

mondo in cerca di sistemazione. Ma è col rogo finale

che si compie l’ultima, definitiva, metamorfosi:

scompaiono i nomi, i luoghi, i personaggi, i libri;

termina Auto da fé; al lettore rimane, per alcun tempo

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nella memoria, l’odore del fumo, il terrore della

morte e, chiuso in mano, il libro che stava leggendo.

La memoria e la mano, come il titolo di una silloge

poetica di Edmond Jabès, autore egiziano che, al

pari di Borges e Canetti, comprende la presenza a

partire dall’allegoria del libro: “Camminerai dentro

il libro: ogni parola è un abisso dove l’ala riluce con

il nome” scrive ne Il libro delle interrogazioni (Marietti,

1995, III ed., p.13). Un solo e immenso libro il suo,

un libro di sabbia, sul quale il popolo ebraico

rintraccia la verità del proprio destino nomadico.

Verità che è alterità senza conciliazione, che è

l’essere straniero in ogni luogo.

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2. Lo straniero e l’esilio

L’essere straniero in ogni luogo: la propria randagia

presenza, ma anche l’Essere che è sempre altrove; il

libro di sabbia di cui riferisce Jabès contiene appunto

questo: l’assenza, la presenza e la parola che si sa

incapace di riconciliarle. Parola che non per questo

rimane inerte; essa invece interroga chi la pronuncia,

accompagna chi l’accompagna: in questo recinto

circolare di terra e cielo, di domanda e di risposta

mai soddisfacente, la scrittura jabèsiana muove i

propri passi. Dice l’erranza. Mostra la realtà

dell’erranza. Ma lo fa senza nostalgia, con la gioia di

chi conosce la grazia d’essere qui, sul foglio bianco,

con lo sguardo incantato dall’abisso.

Anche l’uomo, come la scrittura, va lasciando

tracce, testimone gioioso della verità di Colui che

sempre passa: del Dio assente. Per questo l’essere

qui, in Jabès, è già, sempre, un essere altrove.

L’identità migra, si fa, sin dapprincipio, straniera a

se stessa. Ella è in esilio, sorella dell’Alterità

maggiore: “L’erranza è il nostro luogo” egli ci

insegna nel Libro dell’ospitalità (Cortina, 1991, p.49)

20

C’è tuttavia un esilio in terra che è condanna e

lacerazione, ferita partorita dalla violenza umana: ce

lo mostrano Sarah, l’amorosa fanciulla del Libro delle

interrogazioni (1963), impazzita dopo l’orrore della

deportazione nazista, e Yukel, il suo compagno

suicida. In loro, l’erranza si fa oblio, insensatezza,

solitudine, additandoci un destino di sofferenza

continuamente incarnato nella Storia, luogo della

sopraffazione di chi pretende di conquistare il

centro e che identifica la forza con il dominio.

Di contro a questa miseria, Jabès e Borges –

ancor più di Canetti – accettando lo spaesamento,

consentono al viandante la libertà della debolezza e

dell’ospitalità; tracciano una possibilità della

presenza, che non sia prevaricatrice; indicano nella

parola il giardino di nessuno in cui condividere la

propria erranza; ci mostrano che l’essere stranieri è

la condizione di partenza e d’arrivo, e che questa

non può essere tolta senza rinnovare la violenza.

Jabès rende esplicito quest’ultimo aspetto in Uno

straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato

(1989). Qui egli nomina altri due fanciulli, il cui

passaggio segnò la soglia tra due culture opposte:

quella stanziale e quella nomadica. E s’interroga,

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parafrasando la Genesi: perché Caino, proprietario di

una terra coltivata con il sudore della fronte,

avrebbe dovuto prendersi cura “del nomade Abele

che ha scelto l’erranza e la rinuncia ai beni della

terra”?

La risposta che egli ci offre rimane sospesa,

chiede ulteriori interrogazioni. Ma di sicuro

ribadisce il significato profondo dell’omicidio del

nomade, in quanto segna miticamente l’inizio della

storia della civiltà stanziale; una storia, ci suggerisce,

inaugurata tuttavia non dalla conciliazione, bensì dal

dolore della fuga e dell’esilio: “Spaventato, Caino da

allora cercò di fuggire a Caino” (SE ed., 1991, pp.53-

54).

Caino, in questo senso, è il prototipo del

fuggitivo, di colui che sopravvive colpevole, lontano

tanto dalla leggerezza di Zarathustra quanto

dall’erranza suggerita da Borges e da Jabès. Il suo, è

un abitare la terra che assomiglia piuttosto a quello

di Meursault, il protagonista dello Straniero (1942) di

Albert Camus.

Entrambi infatti patiscono un immedicabile

esilio; e tuttavia, mentre il fratricida conosce vittima,

giudice e movente, Meursault diventa assassino

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senza una ragione necessaria. Egli insomma pare

assassino per gratuità, a meno di non riconoscerne

l’impulso originario nel senso di colpa che segna

nascostamente Lo straniero (e ne determina, come in

Caino, l’esilio).

Approfondiamo la questione, partendo da un

breve riassunto orientativo. Prima parte: Meursault

presenzia il funerale della propria madre, si bagna al

mare con l’amante, frequenta un vicino di casa,

uccide un uomo; seconda parte: l’omicida viene

arrestato, processato e condannato a morte. Ad

inquietare il lettore, non è tanto la vicenda in sé

(povera di meccanismi ad effetto e schematica nella

costruzione dei personaggi), quanto il distacco

emotivo del protagonista, l’estraneità del suo

sguardo, la cui quasi impercettibile mutevolezza

s’incarna, amplificandosi, nelle tonalità cromatiche

del cielo: cielo giallo, verde, “biondo”, cielo come

cappa sopra la testa. E quando, alla fine della prima

parte del romanzo, esso biblicamente si dischiude,

“per lasciar piovere fuoco”, per farsi segno, ecco che

Meursault trova il coraggio per agire malvagiamente,

per dare sostanza ad una colpa di cui prima pativa il

fio senza consapevolezza.

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Proprio a questo serve l’omicidio dell’arabo: a

ridare senso all’esilio in cui Meursault da sempre si

trova, esilio altrimenti insopportabile e niente

affatto differente da quello di Clamence,

monologante camusiano nella Caduta (1956), il quale

dice di sé, con rammarico: “Dimenticavo tutto, e in

primo luogo le mie risoluzioni. In fondo, non v’era

niente che contasse. Guerra, suicidio, amore,

miseria: costretto dalle circostanze, vi prestavo

attenzione, certo, ma in modo cortese e superficiale.

A volte facevo mostra di appassionarmi per una

causa estranea alla mia vita quotidiana... Come

potrei dire? Tutto scivolava, sì, su di me scivolava”

(in A.Camus, Opere, Bompiani, 1988, p.1149).

Questo, in effetti, è anche il ritratto di Meursault, un

uomo che, come Clamence, acquista la memoria

appena riesce a dare un nome alla propria colpa. A

quella che crede la propria colpa. Perché invero

Meursault (e così Clamence) è straniero anzitutto ad

essa. Ciò di cui egli è colpevole – potremmo dire,

paradossalmente – è di aver dimenticato la colpa

originaria. Ma essa, come abbiamo accennato,

inesorabilmente scava, lo provoca, gli chiede

udienza, fino a dominarlo, ad obbligarlo a

commettere un omicidio. Quest’atto orrendo

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potrebbe essere la fine coerente, distruttiva, di un

uomo senza qualità, di un inetto che precipita nella

propria imperizia. Invece esso si rivela ricco di

prospettiva: se infatti, fino a quel momento, il

destino di Meursault sembrava incerto, vago, in

balia delle circostanze più effimere,

successivamente esso prende fisionomia

intelligibile, acquista un senso necessario. E ciò,

appunto, grazie alla sequenza “morale” che

l’omicidio scatena: la colpevolezza pretende un

giudice, vuole una sentenza, esige un’espiazione. In

questo percorso, lo straniero smette d’essere

estraneo ad ogni accadimento, per iniziare un

viaggio sì necessario, ma non più spaesante. Egli

ritrova le ragioni del proprio particolare essere nel

mondo, quello di colui che abita il proprio esilio

colpevole, vivendolo in una continua, e

paradossalmente felice, espiazione.

Nei racconti dell’Esilio e il regno (1957) – e nella

Caduta, racconto autonomo, ma che

originariamente avrebbe dovuto far parte della

raccolta in questione – questa condizione appare

massimamente evidente. Due esempi. L’adultera,

nel primo ed omonimo dei sei racconti di cui si

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compone l’opera, si concede all’incanto tenero della

notte, in un amplesso mistico e voluttuoso con essa.

Espierà questa colpevole intimità, questo esilio

volontario, tornando moglie fedele e remissiva; ma

oramai l’abbraccio celeste le ha indicato un nuovo

regno, al quale d’ora in avanti fare affidamento per

ritrovarsi. Di tanto in tanto. In segreto.

Il protagonista dell’Ospite ha scelto invece l’esilio

della montagna, la lontananza dagli uomini. E anche

quando la Storia – attraverso il suo emblema più

potente: la legge – vorrà farne strumento della

giustizia umana, egli preferirà disobbedire, per

rivendicare la propria, originaria, indipendenza.

Tutto questo ha un costo: l’incomprensione e la

minaccia mortale di chi lo vuole a servizio di una

causa. Ma questi pericoli sono appunto la sostanza

dell’espiazione, in cambio della quale egli può

godere d’un regno che si concretizza nella libertà

d’essere se stesso. E non può esserci l’uno senza

l’altra.

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3. Sul nomadismo degli autori

La biografia ricostruisce un’erranza entro lo

spazio condivisibile della parola, rispettando i luoghi

in cui la vita s’è accampata. Ma la biografia affiora

anche là dove nessuno la chiama; ce lo conferma

Borges nell’epilogo dell’Artefice (1960): “Un uomo si

propone il compito di disegnare il mondo.

Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con

immagini di province, di regni, di montagne, di baie,

di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di

astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire,

scopre che quel paziente labirinto di linee traccia

l’immagine del suo volto” (in Tutte le opere, vol. I, cit.,

p.1267).

Borges bruciò l’infanzia, l’adolescenza e la

giovinezza, in un crogiolo di lingue e di città:

portoghese, inglese, spagnolo, francese, tedesco,

latino ed arabo; Buenos Aires, Adrougué, Ginevra,

Lugano, Majorca, Siviglia, Madrid, Londra, Parigi.

Venticinque anni a dorso d’una famiglia randagia e

carica di frutti, dalla quale imparò che sempre il

cammino “ciecamente si biforca in due /...

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ciecamente si biforca in due” (Elogio dell’Ombra, in

Tutte le opere, vol. II, cit., p.279).

Come nello Steinof – la cittadella manicomiale

viennese – si muovono seimila folli, l’uno differente

dall’altro, così lo scrittore, sostiene Elias Canetti,

deve anzitutto inventare dei personaggi originali che

siano la lacerazione in atto, la molteplicità dell’essere

tenuta insieme da una mania specifica. Peter Kien,

l’uomo del libri, è appunto questo: un’incarnazione

particolare del mondo “andato in pezzi”, una sua

maschera parlante. Ma la molteplicità non

appartiene soltanto alla malattia o alla letteratura; nel

frutto del fuoco (1980), Canetti confessa: “Dall’età di

dieci anni, sempre avevo avuto la sensazione di

essere costituito da molti personaggi diversi... Era

una corrente multiforme, che... non si esauriva mai”

(in Opere, vol. II, cit., p.957).

Veza, la sua compagna, fra gli altri ebbe questo

gran pregio: gli insegnò a costruire la “propria

molteplicità”, a considerarla un punto d’appoggio,

per diventare vero scrittore. Io sono molti pare dire

l’ebreo Canetti; di ognuno porto le stigmate, ma

anche la consapevolezza della presenza che sa dire

“noi”.

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Ne La missione dello scrittore, discorso tenuto a

Monaco di Baviera nel gennaio 1976 (ora ne La

coscienza delle parole, in Opere, cit.), Canetti ribadisce la

necessità secondo la quale lo scrittore, pur

accettando il molteplice e riconoscendo al caos

statuto fondativo del reale, non rinunci tuttavia “alla

speranza di poterlo dominare per gli altri e dunque

per sé” (Ivi, p.372). In questo senso, lo scrittore si

fa sciamano, così com’egli lo tratteggia in Massa e

potere (1960): “Lo sciamano mediante le sue

metamorfosi chiama a sé gli spiriti aiutanti che gli

obbediscono. Egli stesso li afferra e li costringe

mediante le sue pratiche ad aiutarlo. Lo sciamano è

attivo... egli penetra entro i più remoti mondi celesti

e sotterranei... Vola e sale... Cala, affonda... E

sempre ritorna al centro, ove coloro che lo

circondano attendono ansiosamente il suo

messaggio” (in Opere, vol. I, cit., p.1399).

Riposa in quest’assunzione di responsabilità -

che non è politica bensì, piuttosto, antropologica -

il compito primo dello scrittore, il quale si

concretizza poi, come Canetti scrive nella Missione

dello scrittore, nell’insegnare agli uomini a “resistere

alla morte” (ed. cit., p.373), e nell’additare loro

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mappe abitabili che consentano di uscire dal

labirinto: “Si indaghi sul nulla con l’unico intento di

trovare la strada per uscirne, e questa strada la si

mostri ad ognuno” (Ivi, p.375).

La prospettiva in cui Elias Canetti affronta le

tematiche di Massa e potere possiede la stessa

improbabile distanza nella quale Peter Kien

sperimenta la vita: un ‘troppo vicino’ che si traduce

in un procedere vagantivo, scorniciato, ai margini

della Storia. Lo prova, per esempio, l’incoerenza tra

il progetto d’avvio e l’effettiva realizzazione

dell’opera: scritta per comprendere il fenomeno

della massificazione negli anni Venti in Europa

(dunque per studiare un fenomeno storico

circoscrivibile), essa approfondirà invece - quasi

esclusivamente - le strutture astoriche, mitiche, che

regolano il rapporto tra la massa, il potere e

l’individuo.

In tal modo, Canetti opera un’inversione di rotta

mossa dal desiderio d’ottenere un frutto che

attraversasse le epoche, che ne superasse la

relatività. Come se dentro la polpa del divenire, della

linea che lega l’istante precedente all’istante

successivo, ci fossero delle costanti non ancora

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disvelate: non tuttavia la ciclicità vichiana, né la

dialettica hegeliana o il determinismo storicistico

novecentesco; qualcosa d’altro, da indagare con

l’occhio del cane in usta o del pignolissimo bibliofilo

Peter Kein. Un lavoro ai margini della Storia,

appunto, ai margini della civilizzazione.

Massa e potere fu un sogno d’esaustività e di

completezza che rubò a Canetti trent’anni di vita,

costringendolo ad immergersi in sconfinate letture.

Ma anche quest’onnivora, incontrollabile,

asistematica cultura mai, però, suffragata da

verifiche sul campo, attesta l’originalità del suo

modo d’intendere il viaggio: quasi che, per Canetti,

l’immenso archivio scritto del sapere universale,

tramandatosi nel chiuso delle biblioteche, bastasse

alla comprensione della verità sul mondo e sugli

uomini. Come se la vita si potesse decifrare

leggendo il racconto d’altre vite, senza l’obbligo di

correrle appresso, fuori dal libro. Un nomadismo

nella terra del libro, dunque, nella convinzione che

la parola scritta tramandi, più dell’esperienza

concreta, ciò che conta.

Ma a ben vedere Canetti, come Borges, è

scrittore nomadico sin dapprincipio. Prima ancora

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d’avviarsi nel labirinto del Libro, egli cresce infatti

in un coagulo di etnie, di lingue e di culture che

diventeranno emblema concreto d’una condizione

futura dello spirito: “Rustschuk – ricorda lo

scrittore ne La lingua salvata (1977) – sul basso

Danubio, dove sono venuto al mondo... in un solo

giorno si potevano sentire sette o otto lingue. Oltre

ai bulgari... c’erano molti turchi... greci, albanesi,

armeni, zingari... rumeni... russi” ed ebrei sefarditi.

E aggiunge: “Tutto ciò che ho provato e vissuto in

seguito era sempre già accaduto a Rustschuk”, a

sottolineare sì l’importanza di quei primi anni di vita

per l’avvenire della propria opera, ma anche la

consapevolezza che la terra dei libri dovesse

necessariamente completare quell’esperienza, per

renderla davvero universale (in Opere, vol. II, cit., pp.

386-387).

Da Rustschuk, cittadina portuale ai confini

dell’Europa, Canetti e famiglia si trasferiranno a

Manchester, poi a Vienna, Zurigo, Francoforte,

Berlino e ancora a Vienna: a venticinque anni,

Canetti ha già visitato il paradiso e l’inferno,

conosce il mondo-caos ed intravede la lingua

abilitata a decifrarne l’enigma.

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Questo apprendistato – e quello di poco

successivo, conclusosi con l’ultima, definitiva,

migrazione a Londra, nel 1937 – egli lo ricostuì in

tarda età, fissandolo in un’autobiografia che lega il

lettore per quasi 1200 pagine e lo obbliga, di libro in

libro, di metamorfosi in metamorfosi, a seguirne le

tappe. Alla fine di questo percorso iniziatico,

conclusosi con la morte della madre (il padre lo

perse in giovanissima età), lo scrittore si mostra

pronto ad assumersi la propria, precipua,

responsabilità, quella di farsi sciamano, appunto,

alchimista in grado di trasformare il piombo mortale

dell’esperienza in verbo capace d’orientare.

A differenza di Borges e di Canetti, la

fanciullezza di Albert Camus non conosce geografie

straniere. Soltanto un minuscolo spostamento da

Mondovi, in Algeria, alla capitale. E però, la miseria

in cui sta crescendo, la madre analfabeta, la morte

prematura del padre, una malattia precoce ai

polmoni lasceranno comunque un segno, daranno

ferita ad un futuro che sarà, ad un tempo, di grazia

e di condanna. Vengono poi, in successione, il

trasferimento a Parigi, nel 1940, e il sentimento

d’essere lontano, irrimediabilmente lontano da ciò

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che sta cercando. È la guerra, certo, ma anche la

percezione di scivolare verso una morte infelice, tra

l’incomprensione degli intellettuali engagé ed un

clima continentale mal sopportato. Che bella l’Italia,

la Grecia, il Mediterraneo! Lo scriverà spesso, ma

soltanto di rado riuscirà a goderne i frutti. Morirà

d’incidente stradale a 46 anni, nel 1960. Ora riposa

a Lourmarin, in Provenza, nel paese pieno di sole in

cui aveva acquistato una casa due anni prima. Tra

Mondovi e Lourmarin, ci sono Algeri, Parigi,

Clermont-Ferrand, Lione, Orano e di nuovo Parigi:

una piccola odissea, che però non riconosce in Itaca

il ritorno.

Il Nobel costituì l’opportunità, per Camus, di

gridare al mondo il proprio bisogno d’appartenenza,

ma anche di ribadire la volontà di espiazione, la

stessa provata dai suoi personaggi. L’appartenenza,

nel Discorso pronunciato in occasione del premio, il

10 dicembre del 1957, è quella dello scrittore alla

comunità che lo mantiene, alla quale vorrebbe

rendere, con la propria opera e in contraccambio,

servigio: “Lo scrittore – egli disse – può ritrovare il

sentimento di una comunità vivente che lo

giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché

34

può, i due impegni che fanno la grandezza della sua

missione: essere al servizio della verità e della

libertà” (in Opere, cit., p.1241).

L’espiazione traspare invece quando ammette,

rispetto alla necessità appena annunciata: “Quanto

a me devo dire una volta di più che non sono niente

di tutto questo. Non ho mai potuto rinunciare alla

luce, alla felicità di esistere, alla vita libera in cui sono

cresciuto” (Ivi, p.1243). Non credo che questa

conclusione sia malcelata modestia: la luce, la

felicità, la vita libera non si piegano all’accademia

polverosa di Svezia; semmai la fuggono. Penso

invece che a parlare, qui, non sia Camus, bensì, sotto

mentite spoglie, Meursault, per cercare un nuovo

giudice, una nuova condanna: non più questa volta

in un’aula di tribunale, come nello Straniero, bensì di

fronte al mondo, a quella comunità che lo celebra

ed onora: di fronte ad essa, Camus-Meursault

dichiara una colpa falsa, sente il bisogno

irrefrenabile di accusarsi di un delitto che non ha

commesso (l’aver tradito la missione dello scrittore)

per espiare una colpa vera, quella originaria, che

rimase sempre in lui (ed in noi, suoi lettori) senza

nome.

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Se in Camus, più che della condizione nomadica,

conviene parlare di quella d’esiliato, la cui felicità

coincide con l’espiazione senza requie, non bisogna

tuttavia dimenticare il fascino che esercitò su di lui

un uomo che fece dell’erranza virtuosa principio di

vita. Mi riferisco a Pascal Pia, scrittore che sposò le

cause più disparate, influenzando la crema

dell’intelligencija francese degli anni Trenta e

Quaranta, per poi prendere da loro le distanze,

scegliendo per sé la purezza dello sradicamento. Di

lui, nei Taccuini Camus scrisse: “Pia e i documenti

che scompariranno. Lo sminuzzamento volontario.

Davanti al nulla, l’edonismo e il continuo spostarsi.

Lo spirito storico diventa così spirito geografico”

(passo citato da R. Grenier in Introduzione a A.

Camus, Opere, cit., p. XII).

Di Pia, troviamo una trasfigurazione ne “l’uomo

assurdo”, capitolo centrale del Mito di Sisifo: “Sicuro

della sua libertà a termine, della sua rivolta senza

avvenire e della sua coscienza peritura, l’uomo

assurdo corre la sua avventura per tutto il tempo

della vita. Là è il suo campo, là è l’azione che egli

sottrae ad ogni giudizio che non sia il proprio” (in

Opere, cit., p.261).

36

Anche Edmond Jabès, in fondo, non ha patria:

L’israelita - ribadisce nel Libro dell’ospitalità - ha

perduto la sua radice nomadica, la sua vocazione al

dialogo, per darsi ad una difesa acritica della propria

identità statuaria. E si chiede: “Se dentro di me

penso che... [l’identità] politica è per quello Stato

pericolosa, nefasta, detestabile, devo forse tacere?”

(ed. cit., p.38). E altrove, per contrasto: “La salvezza

del popolo ebreo è nella rottura, nella solidarietà in

seno alla rottura” (Il libro delle interrogazioni, cit., p.89).

La solidarietà cui egli riferisce non appartiene

all’identità nazionale, al recinto che accomuna il

gregge: essa nasce piuttosto dalla ferita, dal grido di

Sarah e di Yukel, dal sentirsi perennemente in un

cammino interrogante, dal darsi all’altro senza

annullarne l’alterità, dalla condivisione dell’origine

mai rivelatasi e, con valore ancora più

fondamentale, dal sapere che il libro dell’ebraismo

inizia con l’assenza del Principio.

La differenza tra l’ebreo e il non ebreo sta

appunto in questa finale, cabalistica,

consapevolezza, e in null’altro: In principio –

“Bereshit”, in ebraico – con il quale comincia la

Torah, manca della prima lettera alfabetica, l’Aleph.

37

Per la mistica ebraica, è come se al Libro mancasse

l’origine, come se su di essa fosse caduto l’oblio. Da

questa assenza insanabile, da questo silenzio del

Principio dal quale scaturisce il principio della

parola sacra, comincia per Jabès l’erranza

interrogante dell’ebreo. Erranza che è condivisione,

ospitalità, non-violenza, offerta di sé ad ogni essere

vivente che lo chieda: “Ho, dell’Ebreo, la ferita. –

scrive nel libro delle interrogazioni, a p. 53 – Sono stato

come te circonciso l’ottavo giorno della mia nascita.

Sono Ebreo, come te, per ciascuna mia ferita. Ma

un uomo non vale forse un uomo?”

Sotto questo profilo, l’ebreo jabèsiano, lungi dal

riconoscersi in una patria, altro non è che l’allegoria

dell’errante, la personificazione dell’interrogare

inesausto, come giustamente sospetta Jacques

Derrida ne La scrittura e la differenza (1967). Facile

comprendere allora perché la comunità israelitica –

orgogliosa nel rivendicare la propria originale

identità, soprattutto dopo l’orrore dei lager e la

fondazione d’Israele – abbia vissuto la posizione

straniante di Jabès come un tradimento. Ne fa

parola con dolore egli stesso, più volte.

38

Una considerazione, infine, sui libri, le

fotografie, i disegni di amici conservati nel suo

studio parigino e sopravvissuti all’esilio: sono tracce

d’un passaggio, presenze custodite, consacrate alla

memoria. A quella sua, ma anche alla nostra,

testimoni di quanto Antonio Prete ci racconta nella

bella post-fazione al Libro dell’ospitalità.

In un continuo rimando di suggestioni,

immaginiamo l’emozione dello studioso

leopardiano di fronte allo scrittoio di Jabès “nel

cuore di Parigi”, il vecchio saggio egiziano che si fa

piccolo, le parole rare, il silenzio, la risonanza del

grido, la prossimità che è anche distanza, che è

solitudine di ciascuno di fronte alla morte: tutto

questo parla di noi, del tempo in cui anche noi

decideremo d’attraversare il deserto, per

riconoscerci finalmente stranieri. Per ritrovarci

stranieri.

39

La lacerazione nel labirinto

1. Introduzione

Elias Canetti, Jorge Luis Borges, Edmond Jabès

e Albert Camus sono stati chiamati in causa come

testimoni, poiché a loro (e a pochi altri vagantivi) va

attribuita la costanza dello sguardo che ha saputo

indagare, fino in fondo ma senza disperazione, la

perdita di centralità del soggetto nel Novecento. A

tale deriva spaesante, essi hanno contrapposto,

ciascuno dalla propria soglia, l’erranza consapevole,

l’assunzione di responsabilità, la pietas verso i viventi

e la convinzione che la parola possa dire la ferita,

mostrarla nel suo fondamento ontologico. Vi sono

stati tuttavia altri scrittori i quali, rinunciando

40

esplicitamente ad additare una presenza capace di

collocazione nel labirinto, ne hanno invece

evidenziato la lacerazione; fra questi, Samuel

Beckett ed Eugène Ionesco.

41

2. La matrice gnostica del pessimismo di

Samuel Beckett

In una formula (e in via ancora sommaria)

potremmo affermare che, quanto i personaggi

beckettiani attendono non è, genericamente, un

evento qualsiasi bensì, più profondamente, quel

tempo capace di inaugurare la novità, di ridare senso

(e dunque direzione, orientamento) all’esistenza. Va

letta in quest’accezione l’immobilità di Estragone e

Vladimiro, in Aspettando Godot (1953): essi aspettano

quel tempo autenticamente in grado di avviare i loro

destini, di farli uscire dalla ripetizione fine a se

stessa, dall’abitare in un luogo ricco sì d’azioni, ma

tutte senza conseguenze; allacciare le scarpe,

slacciarle, muoversi sulla scena, incontrare

qualcuno, persino parlare: situazioni, tutte, che

bruciano accadendo, che esauriscono la loro spinta

causale nell’attimo stesso in cui si verificano. Ci

vorrebbe Godot per dar loro una motivazione, ma

lui, il Salvatore, non giunge, si fa attendere

inutilmente, manda suoi servi a scusarsi del mancato

arrivo. Vero tuttavia che egli, come ammettono gli

stessi due vagabondi, forse ha le sue buone ragioni

42

a tardare, visto che deve, prima di partire,

“consultarsi con la famiglia, coi suoi amici, i suoi

agenti, i suoi corrispondenti, i suoi registri, il suo

conto in banca” (Aspettando Godot, in Teatro di Samuel

Beckett, Mondadori, 1981 [IV rist.], p.37).

Godot ci appare, in questo contesto, come

quell’uno temporale che darà via al molteplice, ma

anche come colui che, dal molteplice (famiglia,

amici, denaro ecc.), già sempre dipende. Non

soltanto dipende, ma con esso dovrà,

inevitabilmente, compromettersi, stare al gioco,

barattare questo con quello secondo il principio

dell’utile. In questo senso Godot è una figura

doppia, salvifica e mendace, Cristo liberatore ma

anche Satana del legame interessato.

Del resto, che il tempo destinato ai mortali

avesse questa duplice connotazione ce lo aveva

confermato altrove lo stesso Beckett: esso – scrisse

in un breve saggio del 1931 – è un “mostro a due

teste che dà la dannazione e la salvezza” (Proust,

Sugarco, 1994, p.25).

Anche Godot, pur presente in scena soltanto in

quanto tempo effimero, riesce a realizzare entrambi

i momenti: egli è dannazione poiché, in quanto dio

dell’evanescenza, riduce il presente ad unica

43

dimensione della vita, segnata perciò dalla

ripetizione; ma appunto perché cancella nella

memoria dei personaggi ogni traccia delle ferite

passate, esso infonde involontariamente speranza,

un’attesa del nuovo bastevole a salvare i mortali dal

suicidio.

Rimane precluso ai terrestri del dramma il tempo

altro, autenticamente innovatore, del quale Godot,

dio minore di un olimpo tutto da decifrare,

s’ingegna pallido imitatore. Sotto questo profilo egli

assomiglia ad Akhamoth, quel dio-femmina dello

gnosticismo che, per avere voluto rivaleggiare con il

Principio increato, fu punito e messo in una sorta di

purgatorio. La pena cui Godot è soggetto potrebbe

essere appunto questa: poter essere presente fra i

mortali soltanto in quanto tempo effimero.

Le conseguenze sui terrestri sono disastrose:

l’erranza si fa deriva, l’esilio è in nessun luogo e le

parole perdono spessore, si svuotano, quasi che

nessuna di loro possa indicare il senso di

quest’abitare spaesato, in un deserto che è sabbia,

sete e null’altro.

44

Per approfondire la condizione degli umani

nell’universo beckettiano, conviene passare

attraverso un altro personaggio che vive, come

Godot, in una condizione duale e inappagata; si

tratta dell’Innominabile, nell’omonimo romanzo

uscito anch’esso nel 1953.

Anzitutto, l’Innominabile incarna la dualità del

discorso pre-logico, quella in atto prima d’ogni

cominciamento di senso univoco. Il suo vociare

monologante, che caratterizza l’intero testo, può

infatti essere pensato come il tentativo del discorso

in fieri di giungere fin sul limitare della propria

dicibilità. Per venire alla luce, tuttavia, per darsi alla

comprensione secondo il principio d’identità, esso

dovrebbe prima ricomporre il dualismo originario.

Ma è proprio questo che Beckett considera

l’inganno della logica: l’identità è figura lacerata,

incompleta, che mai potrà nominare la verità nella

sua interezza. L’Innominabile vuole invece attestare

una presenza che preveda la contraddizione, che la

metta in essere attraverso la parola. A tal fine

l’autore costruisce, come con Godot, un

personaggio essenzialmente temporale.

L’Innominabile infatti è figura pre-logica proprio

perché in esso agiscono, simultaneamente, il tempo

45

circolare ed il tempo lineare. Il suo dis-correre è

pervaso da questo intersecarsi, dall’essere in balìa

dell’uno e dell’altro, in un giogo che lo rende libero

di contraddirsi.

Accade già all’inizio del romanzo: “E dove, ora?

Quando, ora? Chi, ora? Senza domandarmelo. Dire

io. Senza pensarlo. Chiamarlo domande, ipotesi.

Andare avanti, chiamarlo andare, chiamarlo

avanti.”: fino a qua il cerchio, l’impossibilità del

discorso d’avventurarsi nel progetto. Ma subito

dopo: “Può darsi che un giorno, ecco un primo

passo...” (L’Innominabile, in Trilogia, Einaudi, 1996,

p.323). Finalmente, il tempo lineare entra in scena,

obbliga la voce a continuare; ma è un istante, perché

poi, senza soluzione di continuità, la storia torna su

di sé, si avvolge, ricomincia da capo, per poi fare di

nuovo un balzo in avanti, in un procedere, appunto,

duplice: lineare e circolare, in un intreccio che non

è sommativo, bensì generativo, capace di tenere unito

l’Innominabile, di farlo essere tondo e informe, qui

e altrove, colui che parla e colui che è parlato.

L’Innominabile è questa stessa unità, che ha in

sé l’uno e il molteplice, l’identico e il differente, la

caducità e l’eternità. Eppure, vista l’insoddisfazione

di quest’essere proteiforme e la sua voglia di

46

ritrovarsi in un’unità superiore, dovremmo

ammettere che nemmeno una lingua contraddittoria

può tenere fra le proprie labbra il Vero, dargli

finalmente dimora. A meno che – e qui si gioca la

radice gnostica del discorso beckettiano – il Vero

stesso non sia duplice e insoddisfatto. Allo stesso

modo dell’Innominabile e di Godot.

Il fatto è che, come Godot, anche l’Innominabile

è figura intermedia, un dio minore in stato di ferma,

tenuto d’occhio da alcuni guardiani, a loro volta

dipendenti da un padrone. Della prigionia di Godot

non sappiamo nulla; l’abbiamo ipotizzata

immaginandolo parente di Akhamoth, di un dio

decaduto e presuntuoso della cosmogonia gnostica.

Quasi che, come Akhamoth, anche Godot avesse

trasgredito una funzione, una gerarchia e, per

questo, fosse stato condannato a vivere lacerato,

diviso, solo. A vivere in una transizione dolorosa su

maleficio di un dio superiore, custode d’ogni cosa.

Ad illuminarci su questa entità ci pensa invece

l’Innominabile. Ad un certo momento delle sue

evoluzioni-involuzioni, egli sospetta infatti di non

essere l’unica vittima della faccenda, ma che tutti,

padroni e guardiani compresi, siano dipendenti da

una causa ancora più alta, “l’eterno terzo” che

47

impone a ciascuno una singolare condanna: esaurire

tutte le parole di cui dispone (Ivi, p.420). Parole –

afferma altrove l’Innominabile – che sono rumore,

fastidio nell’orecchio, vomito dalle labbra, scorze; i

divini in particolare, ci dice quest’essere

proteiforme, sono talmente sovraccarichi di parole,

da costringere i mortali a smaltirle per loro (Ivi,

p.358).

La natura di quest’entità suprema, che costringe

i divini e i mortali al rumore della parola, assomiglia

molto - in effetti, ed a conferma dell’ipotesi di

partenza - al Principio Primo dello gnosticismo.

Scrive J. Doresse ne La Gnosi: “All’origine di tutto...

c’è un eone perfetto, inconcepibile, eterno... È un

Pro-padre che risiede in uno stato di riposo

(immutabilità e assenza di movimento), in cui

contempla la propria immagine in se stesso come in

uno specchio. Con lui coesiste il suo Pensiero, che

è assoluto Silenzio” (in Gnosticismo e Manicheismo, a

cura di H. Ch. Puech, Laterza, 1988, p.23).

Anche l’essere supremo chiamato in causa

dall’Innominabile è silenzio. Silenzio insopportabile

per chi - come lui - si sente condannato a cercarlo

attraversando l’inferno delle parole. Si tratta di un

attraversamento infinito, nel quale la speranza di

48

completarlo fa parte della condanna. Essa infatti lo

spinge avanti, lo incita a cercare l’ultima parola,

quella definitiva, in grado di porre fine al discorso.

A differenza dei mortali, l’Innominabile conosce

tuttavia almeno questo: che l’obiettivo è smettere di

parlare, dato che le parole sono la prova

dell’allontanamento dal Principio. Conoscenza che

gli deriva da partecipare alla dualità che compete

soltanto alle figure non terrestri.

Ben peggiore la condizione dei mortali i quali,

scissi e inconsapevoli dell’Origine, si muovono nel

terrore paradossale d’esaurire le parole.

Dice Winnie, con l’angoscia rivolta al giorno “in

cui le parole mancheranno”: “Eh sì, così poco da

dire, così poco da fare, e una tal paura, certi giorni,

di trovarsi... con delle ore davanti a sé, prima del

campanello del sonno, e più niente da dire, più

niente da fare” (Giorni felici [1963], in S. Beckett,

Teatro ecc. cit., p.206 e p.208).

È questa la condizione assurda dei mortali, dalla

quale i divini sono esenti: desiderano il frutto del

proprio castigo, cercano quelle parole che, in realtà,

sono il rumore stesso cui sono stati condannati, allo

stesso modo delle ombre sulla riva dell’Acheronte,

nel III canto dell’Inferno dantesco, alle quali la

49

volontà di Dio tramuta la paura in desiderio (vv.

124-126).

Se in Aristotele Dio, il pensiero che pensa se

stesso pensante, “è sempre” in uno “stato di

beatitudine” alla quale anche l’uomo partecipa ogni

volta che fa uso dell’intelletto (Metafisica, XII, 7,

1072 b, 20-25), il Dio di Beckett, come il Pro-padre

gnostico, è inavvicinabile sotto ogni aspetto dai

mortali.

Nello gnosticismo infatti, il creato, essendo

l’effetto manchevole della presunzione di

Akhamoth, porta le stigmate della cesura, del taglio

ombelicale dalla perfezione celeste; ogni creatura, di

conseguenza, patisce di continuo lo smacco,

custodendo fra le sue pieghe il dolore

dell’inadeguatezza.

I personaggi terrestri di Beckett, per far fronte

ad essa, si muovono in coppie, mimando

inconsapevolmente le coppie celesti (le sigizie

gnostiche): Vladimiro ed Estragone, Winnie e

Willie, Clov e Hamm, Krapp giovane e Krapp

vecchio, non fanno altro infatti che polarizzarsi in

uno spazio inavvicinabile agli altri e capace, in parte,

di compensare la penuria di prospettiva individuale.

50

Ma questo ancora non basta. Ognuno di loro, allora,

cerca la riconciliazione altrove, in un paradiso

terrestre, che poco ha a che fare con la felicità dei

celesti.

Si pensi a Winnie, la cui memoria,

proustianamente intermittente, la spedisce fra le

ginocchia di un suo antico amore, “nel giardinetto a

Borough Green” (Giorni felici, cit., p.195); oppure si

rifletta su quanto ricorda il protagonista dell’Ultimo

nastro di Krapp (1958): “Mi sono disteso su di lei -

confessa la voce del giovane Krapp incisa su nastro

ad un Krapp-klown ormai vecchio, riferendosi

all’amata fanciulla che lo accompagnava in barca - la

faccia sul suo petto, la mano su di lei. Stavamo là,

sdraiati, senza muovere. Ma sotto di noi tutto si

muoveva e ci muoveva, dolcemente su e giù, da un

lato all’altro” (in Teatro, cit., p.183).

E ancora, nella reminiscenza d’Estragone, in

Aspettando Godot: “Mi ricordo le carte geografiche

della Terra Santa. A colori. Erano bellissime. Il Mar

Morto era celeste. Mi metteva sete solo a guardarlo.

Pensavo sempre: è là che voglio passare la luna di

miele. Nuoteremo. Saremo felici” (in Teatro, cit.

p.30). Si noti, per inciso, quanto assomigli

l’immaginario d’Estragone (e di Beckett),

51

all’osservazione di J.Doresse ricavata dall’apocrifo

Libro di Enouch: “Il grande Seth avrebbe fatto

scaturire, sulla riva del Mar Morto, sorgenti termali

salvifiche” (La Gnosi, cit., p.31).

Non è difficile fa coincidere queste nostalgie con

quella, psicologica anziché mitica, del grembo

materno: luogo della riconciliazione, principio

terreno perduto per sempre, ma che la memoria –

sorprendentemente (e temporaneamente) ritrovata

– può in parte ricreare: le calde ginocchia di un

amante, il guscio a culla di una barca, l’acqua tiepida

del mare; oppure la stanza-bunker di Clov ed

Hamm in Finale di partita (1957), l’audiocassetta che

custodisce la voce del giovane Krapp... Tutti rifugi

che danno all’esiliato cognizione di patria, d’origine

non lacerata. Questi, tuttavia, sono irraggiungibili

rifugi nel passato; nel presente invece, a supportare

la solitudine dei personaggi, sono le parole, quella

scorta di parole che permette a ciascuno di loro di

traghettare la giornata. Parole che diventano gesti

rituali, esorcismi per tenere a bada il vuoto che

d’improvviso pare possa ingoiarsi il mondo. È

questo infatti che, paradossalmente, accade al

silenzio originario, al sacro silenzio del Principio, al

quale i divini vorrebbero riconciliarsi: fra i mortali,

52

esso diventa il nulla, il vuoto. Un vuoto abissale da

riempire con le parole. Fino a che c’è vita.

Nello gnosticismo, il sacro silenzio attesta

l’esistenza di un altrove celeste, al quale tornare

dopo il pellegrinaggio in terra. Almeno questa è la

sorte che spetta agli eletti i quali, avendo ricevuto in

dono la luce divina, si salveranno. Ma i personaggi

di Beckett non appartengono a questa élite; piuttosto

essi assomigliano agli “ilici”, a quegli “esseri

sprovvisti di spirito e di anima... unicamente

costituiti da elementi carnali destinati alla

distruzione” (J. Doresse, La Gnosi, cit., p.19).

Condannati ad estinguersi nel tempo effimero,

gli ilici beckettiani non hanno alcuna memoria

dell’aldilà; e se qualcosa dicono a tal proposito, esso

appare irrelato, frammentario, lacunoso, frutto non

certo innato. Accade per esempio in Aspettando

Godot, quando Lucky, davanti al suo padrone ed ai

due vagabondi, dichiara: “Considerata l’esistenza

così come traspare dai recenti lavori pubblici di

Poincon e Wattman di un dio personale

quaquaquaqua dalla barba bianca quaqua fuori del

tempo dello spazio il quale dall’alto della sua divina

apatia sua divina atampia sua divina afasia ci vuole

53

tanto bene salvo le debite eccezioni”... (in Teatro, cit.,

p.65); e accade nei Giorni felici, dove Winnie sostiene,

irriverente: “Non c’è miglior modo per glorificare

l’Onnipotente che ridacchiare con lui dei suoi

scherzetti, specialmente quelli meno riusciti” (ed.

cit., p.205).

Anche qui, comunque, ci troviamo di fronte

all’affermazione d’esistenza di un dio minore,

“personale”, che ride da buon compagno di scherzi,

ma che nulla ha a che fare con l’imperturbabilità ed

il distacco del Ur-Padre originario, di quest’essere

duale – la cui natura, ci avverte J. Doresse ne La

Gnosi (p.23), è “esclusivamente temporale” – in

verità essi non sanno niente. Nemmeno del potere

salvifico del suo Silenzio, che confondono con il

silenzio banale della vita, un silenzio penoso come

il buio, la solitudine, l’insensatezza ed il naufragio,

da riempire con pietre in forma di parola, con gesti

che occupano il tempo inautentico dell’effimero,

che fanno passare la giornata. Poi c’è il sonno,

l’oblio di sé, la piccola morte quotidiana che dà

pausa e ristoro.

54

3. Mirlitonnades o del silenzio che suona

Abbiamo detto, quasi in principio della presente

riflessione, che in Beckett l’erranza dei mortali non

ha destinazione né, di conseguenza, per loro è

possibile l’esilio. Le parole stesse, anziché decifrare

l’enigma, servono come terra in un buco: a

riempirlo, a toglierne l’orribile presenza. Eppure ci

sono momenti in cui esse si offrono in una nudità

nuova, pervasa da una forza che pare attingere

direttamente dal fondo, da quel sacro che feconda

gli orizzonti agli dei e forse, un giorno, ai mortali.

Non più antagoniste ad esso, le parole così ritrovate

gli offrono ospitalità; un’accoglienza che rimette in

gioco, da parte dei mortali, la possibilità sia pur

minima di orientarsi. Mi sto riferendo ai versi di

Poesie (1978); in particolare, alla sua sezione

conclusiva, intitolata Mirlitonnades.

In essa, Beckett mostra lo spaesamento doloroso

degli umani, ma non lo grida, non scarica parole per

esorcizzarlo, non inventa immagini per

terrorizzarci. Asciutto, il suo verso brucia ravvivato

dal fondo abissale dal quale proviene, ne custodisce

l’enigma ed il silenzio che lo costituisce.

55

andare

assente

assente

sostare

(Einaudi, 1980; p.55);

oppure:

passo passo

in nessun posto

nessuno solo

sa come

piccoli passi

in nessun posto

ostinatamente

(Ivi, p.57)

ancora:

a pié fermo

pur non aspettando più

si sorpassa

andando senza meta

(Ivi, p.59).

56

Qui – come negli altri testi della sezione – parola

e silenzio sono fatti della stessa sostanza e l’una non

soffoca l’altro, bensì ne porta in grembo la vastità.

In questo modo, la parola si rivela, del silenzio, sua

incarnazione particolare, porta piena di vento nella

quale il senso, mai esauribile del tutto, dimora.

Il poeta di tutto ciò si fa carico, specie d’Ermes

dannato, che responsabilmente porta l’insensatezza

del vivere ai mortali come verità definitiva. Ma il

mezzo che usa per traghettare il dono malefico – la

parola – viene a negare il dono stesso, mostrandosi

come il luogo in cui si può attuare una pur minima

liberazione dal vincolo, un piccolo lasco, sul quale

giocarsi un destino autentico.

Potrebbe essere questo, nella prospettiva appena

annunciata, l’unico picchetto d’orientamento

possibile ai mortali: abitare la parola che scelga per

sé la vicinanza con il sacro, con il silenzio, con

l’abisso, con quel soffio impalpabile che è il suono

dello zufolo cui allude etimologicamente

Mirlitonnades. Non dunque la parola-pietra che

riempia un vuoto, bensì la parola-fuoco che ravvivi

l’origine, assumendosi per intero il dolore dello

spaesamento; in questo senso, Beckett si rivela

fratello di ogni altro pensatore dell’erranza.

57

4. Le temporalità possibili nella Cantatrice

calva di Eugène Ionesco

Nell’ “anti-commedia” dello scrittore rumeno, il

tempo lineare è un tempo fra gli altri e nemmeno il

più importante. Verifichiamolo, puntualizzando, di

ciascun momento significativo, le condizioni

temporali di esistenza.

a) La pendola. Essa – assicura il signor Smith al pompiere – “funziona male. Ha lo spirito di contraddizione. Indica sempre il contrario dell’ora che è” (E. Ionesco, La cantatrice calva [1950], Einaudi, 1982, p.44). Forse il signor Smith crede in quanto afferma, tuttavia nemmeno questa è la logica che regola i rintocchi del non-orologio. Esso invece, come suggerisce lo stesso Ionesco, “sottolinea le battute [dei personaggi], con maggiore o minor forza a seconda del caso” (Ivi, p.28). La pendola segna dunque un’intensità, una tonalità affettiva, non una quantità, come invece converrebbe ad un misuratore oggettivo del tempo lineare.

58

b) Metamorfosi del signor Watson. Di Bobby Watson si afferma, nella medesima circostanza:

1) Egli è morto due anni fa; 2) I funerali si sono svolti due anni e mezzo fa; 3) “Sono già tre anni che si è parlato del suo

decesso”; 4) “Erano quattro anni che era morto”; 5) “La primavera prossima” Bobby Watson si

sposerà con sua moglie (Ivi, pp.18-19). Ciascuna di queste affermazioni appartiene

ad una linea temporale originale che, nel

dialogo in questione, viene ad intersecarsi

con le altre quattro. La naturalezza con cui

Ionesco le mette in gioco disorienta, spiazza

ogni tentativo di trovarne sistemazione

argomentativa unitaria. A meno che, come

del resto affermò lo stesso scrittore (cfr. E.

Ionesco, Note e contronote, Einaudi, 1965,

p.257), non si consideri La cantatrice calva un

luogo in cui l’accadere segue regole proprie,

secondo una temporalità nata per

l’occasione.

Il tempo scenico diventa così altro dal tempo

quotidiano, gli si contrappone in tutta la sua

proteiforme creatività.

59

c) Il campanello. Questa alterità la verifichiamo anche nella sequenza del campanello (scene settima e ottava), nella quale, su quattro circostanze in cui esso suona, soltanto nella terza e nella quarta viene rispettato il principio di causalità; terza: “SIGNORA MARTIN Ma la terza volta... non è stato lei a suonare?

POMPIERE Sì, sono stato io.

SIGNORA MARTIN Ma quando ho aperto, non l’ho vista.

POMPIERE Mi ero nascosto... per scherzo” (La cantatrice calva, cit., p.36);

quarta: suona il campanello; il signor Smith apre la porta e, dopo averlo riconosciuto, dice: “C’è il capitano dei pompieri!” (Ivi, p.34).

60

Le prime due volte accadono invece in un tempo scenico non consequenziale: “SIGNORA MARTIN Quando suonò la prima volta, era lei?

POMPIERE No, non ero io.

SIGNORA MARTIN Vedete? [il campanello] suonava e non c’era nessuno.

SIGNOR MARTIN Forse c’era qualcun altro.

SIGNOR SMITH Era alla porta da molto tempo?

POMPIERE Tre quarti d’ora.

SIGNOR SMITH E non ha visto nessuno?

POMPIERE Nessuno. Ne sono certo.

SIGNORA SMITH E la seconda volta ha sentito suonare? POMPIERE Sì, ma neppure quella volta ero io. E continuava a non esserci nessuno.

SIGNORA SMITH

61

Vittoria! Avevo ragione io [a dire che “quando si sente suonare alla porta è segno che non c’è mai nessuno” (Ivi, p.33)]

SIGNOR SMITH (alla moglie) Piano, piano. (Al pompiere) E che cosa faceva lei alla porta?

POMPIERE Niente. Ero là. Pensavo a tante cose”

(Ivi, p.36).

La logica che regola queste ultime sequenze risulterà più chiara, se la mettiamo in relazione con quella che regola la scena seguente. Relazione che le giustifica reciprocamente.

d) L’incendio. A pagina 46, il pompiere afferma di conoscere l’ora esatta in cui accadrà “un incendio all’altro capo della città”. Poca cosa, in verità: “Un fuoco di paglia e un piccolo bruciore di stomaco” (Ivi, p.47); ma che sia metaforico oppure sostanziale, il dubbio rimane: se il pompiere conosce gli incendi futuri, perché mai visita in missione gli Smith ed i Martin, riuniti tranquillamente per prendere il tè delle cinque? Essi, tra l’altro, negano che vi sia del fuoco in casa; ha forse torto il pompiere? Oppure non ha veduto il

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futuro con chiarezza? Appunto per trovare una risposta adeguata, dobbiamo tornare alla scena del campanello. Abbiamo visto che, quando esso suona le prime due volte, dietro alla porta non c’è “nessuno”; nel frattempo però la discussione nella stanza si è accesa, i presenti - i signori contro le signore - s’infervorano a ribadire la propria tesi; di conseguenza, il clima si scalda: la terza volta, il pompiere c’è, ma il calore della discussione evidentemente non ha ancora raggiunto i gradi sufficienti alla combustione. Finalmente, al quarto suono, la signora Smith fa scintille: l’incendio (metaforico) scoppia ed il pompiere, puntuale, entra per spegnerlo. Lo fa con il buon senso, conciliando le posizioni dei due schieramenti. Se l’uno infatti sosteneva che “quando si sente suonare alla porta, è segno che c’è qualcuno” (Ivi, p.32), l’altro (le signore) ribadiva che, come già rilevato, “quando si sente suonare alla porta è segno che non c’è mai nessuno” (Ivi, p.33). Il pompiere, combinando le esperienze degli uni e degli altri, proclama “Avete un po’ di ragione tutti e due. Quando suonano alla porta, talvolta c’è qualcuno, talaltra non c’è nessuno” (Ivi, p.36).

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Il pompiere dunque non giunge fuori tempo: si fa vedere nel momento esatto in cui l’incendio comincia. Giungere prima non gli è consentito, giacché egli esiste nell’opera soltanto in quanto ‘spegnitore di fuochi’. Per questa ragione, chi va ad aprire la porta non lo vede le prime due volte: proprio perché, al di fuori della sua funzione egli è “nessuno”, un essere invisibile, destinato a prendere forma soltanto quando l’opera non può farne a meno. Il suo tempo (e la sua dignità), in questo senso, coincidono esattamente con quello stabilito da chi regola le trame.

e) Ci siamo già conosciuti? L’intera quarta scena della Cantatrice calva è occupata dai coniugi Martin, memori di tutto fuorché del loro stato di parentela. ‘Io non me ne ricordo’ è la condizione di principio, che consente al tempo della successione di entrare in scena. La cancellazione del passato, il nulla che sta dietro le loro spalle obbligherà infatti i due coniugi ad una ricostruzione minuziosa e cronologicamente ordinata degli spostamenti recentemente effettuati: Manchester, treno, vagone, sedile, nuovo alloggio londinese, numero dell’appartamento, e poi l’arredamento della camera da letto, e Alice, la figlia bionda di due anni... Tutti gli elementi

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(successivi alla smemoratezza del principio) sono riconosciuti da entrambi, e dunque – come afferma soddisfatto il signor Martin mettendo insieme i pezzi – i ruoli possono ora essere definiti senza equivoci: “Cara signora, io credo che non vi siano più dubbi, noi ci siamo già visti e lei è la mia legittima sposa” (Ivi, p.26). Parrebbe tutto risolto, ma la verità, apparentemente lapalissiana, trova invece confutazione nella scena successiva; se ne incarica Mary, la cameriera, puntualizzando un particolare che nel dialogo dei due coniugi era rimasto implicito: l’occhio bianco della figlia Alice è il destro o il sinistro? Rispondendo al quesito, ella dimostrerà - sorprendentemente - che la figlia di Donald Martin non è la figlia di Elisabeth Martin. E se ci fosse un ulteriore colpo di scena? Il tempo lineare vuole questo: la concatenazione causale dei fatti e la possibilità di riordinare il percorso ogni volta che s’introduce una variabile. È un procedere che annulla le ipotesi confutate e pretende l’autorevolezza della più convincente; ma l’ipotesi più convincente è la più vera? Ionesco si chiama fuori da questo gioco al massacro ed afferma, per bocca della cameriera: “Io non ne so nulla. Non

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sforziamoci di saperlo. Lasciamo le cose come stanno” (Ivi, p.27). Non è una resa politica; si tratta piuttosto di una rinuncia al dominio sul reale che ogni logica fondata sul principio d’identità implicitamente accetta. Una rinuncia, ma anche un invito a non prendere troppo sul serio la nostra pretesa d’aver ragione ad ogni costo.

f) La circolarità dell’opera. In conclusione della Cantatrice calva, accadono due eventi straordinari: 1) l’inversione dei ruoli (i coniugi Martin prendono il posto dei coniugi Smith); 2) un nuovo inizio della rappresentazione. Scrive Ionesco: “La commedia ricomincia con i Martin, che dicono esattamente le battute degli Smith, nella prima scena” (Ivi, p.52). Con questa scelta, l’autore ci propone la circolarità, quale modo interno al tempo della successione. Alla fine dell’opera, infatti, il tempo si piega, ma non torna al principio, visto che, ad ogni giro s’invertono i ruoli, ma non le battute e le scene; ogni due giri, invece, la vicenda si ripete identica. Lo spunto polemico verso l’interscambiabilità dei ruoli (e dei luoghi comuni) nella civiltà borghese, che costituisce uno dei motivi centrali del

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dramma, viene così integrato con il tema della ripetizione e con quello, a questo collegato, dell’alienazione. La ciclicità cui allude la Cantatrice calva non assomiglia perciò al fluire naturale delle stagioni, al tempo buono (e mitico) della civiltà delle origini, ma semmai mima gli effetti, psicologicamente deleteri, dell’organizzazione del lavoro capitalistica. È una circolarità che ha perduto il suo legame con la natura, per diventare essenza di un sistema che rende strumento ogni essere che gli appartiene.

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5. La Storia e Dio nell’ultimo Ionesco

La prospettiva appena analizzata, senz’altro

critica nei confronti della civiltà postindustriale,

tenderà presto a disancorarsi dalla contingenza

epocale. Di conseguenza, il male, la sofferenza,

l’ingiustizia ed ogni altro fattore dell’umano operare,

assumeranno – già da Le sedie (1952) – una

dimensione metastorica, nella quale la vita, da

sempre e senza una ragione ultima, altro non

sarebbe che “nutrizione, riproduzione,

combattimento e massacro” (E. Ionesco, L’assurdo e

la speranza, Guaraldi, 1994, p.21).

Confessa a tal proposito lo scrittore, in

un’intervista realizzata per la Televisione della

Svizzera italiana, alla fine degli anni Ottanta:

“L’assurdo è dato dall’incomprensione che provavo

di fronte a un mondo che vedevo, che cercavo di

seguire e non capivo” (E. Ionesco, La ricerca di Dio,

Ed. Casagrande SA, 1990, pp.17-18).

Sarà questo stupore gonfio d’angoscia – e che

succede alla fase gioiosa, dissacrante della Cantatrice

– a segnare la nuova stagione dell’autore, della quale

troviamo completa realizzazione nel 1962, con Il re

muore.

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In questo dramma, Ionesco mette in scena un

ipotetico regno in cui Dio non ha luogo. Creatore

del Cielo e della Terra diventa allora il potere stesso,

attraverso il suo più autorevole emissario:

“Ordino che gli alberi spuntino dal pavimento...

– sentenzia re Bérenger I, investendosi forse

d’autorità olimpica – Ordino che il tetto scompaia...

Ordino alla pioggia di cadere... Al lampo di

comparire e che io l’afferri con la mano” (Il re muore,

Einaudi, 1982, p.32).

Quest’opera ci mostra in effetti che cosa

accadrebbe ad un’umanità che, avendo perduto il

concetto stesso di trascendenza, si fosse costruita

un dominio sull’essere coincidente con la propria

immanenza. Al di fuori della Storia, in tale disegno,

c’è un vuoto spaventevole, un’insensatezza totale,

che minaccia di portare con sé ogni traccia dei

mortali: “Ciò che deve finire è già finito” sentenzia

il re, rammaricato di non durare in eterno (Ivi, p.46).

Ma questo sentimento della caducità non genera

affatto, in uomini come lui, un agire all’insegna della

pietas: il potere diventa, al contrario, l’unico Dio,

esercitato spesso orrendamente per fissare in eterno

il loro passaggio in terra, per lasciarne memoria

indelebile ai posteri.

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Tale convincimento non abbandonerà mai il

drammaturgo; si pensi al Macbeth (1972), parodia del

potere che diventa paranoia, ossessione; oppure si

presti attenzione allo scambio di battute che segue,

nel quale, perduto l’altrove, tutte le scelte si

equivalgono:

PRIMO BORGHESE

Non sono egoista, a patto che non mi si chieda

troppo. In tempi normali non nego il mio aiuto.

Nelle circostanze eccezionali in cui viviamo è un

diritto e un dovere essere prudenti e diffidenti. È

un diritto e un dovere essere, provvisoriamente,

egoisti nei momenti gravi.

SECONDO BORGHESE

È una tesi. Una morale come un’altra

(Il gioco dell’epidemia in E. Ionesco, Teatro completo,

Einaudi-Gallimard, 1993, p.362).

Se la Storia resterà sempre il luogo “tragico della

condizione umana senza trascendenza” (La ricerca di

Dio, cit. p.19), nondimeno il drammaturgo rumeno

tenterà – almeno a partire dai primi anni Ottanta (ed

ecco la sua ultima stagione) – di scavalcarne

70

l’assurdità, recuperando un valore che pare

inesistente nel suo teatro, quello della speranza:

speranza che esista un senso a quanto accade; che

Dio sia l’autore buono del gran teatro dell’universo

e che quindi, lo stupore dolente verso la vita, non

sia che il frutto d’un sapere approssimativo.

Carezzata nel segreto dell’anima, la speranza

pare tuttavia sempre sul punto di svanire, d’essere

sogno o illusione, sia perché l’orrore quotidiano gli

si fa costantemente presente, lo incalza, offrendogli

continue prove del fatto “che tutta la storia è

apocalittica”, e sia per l’insostenibile fede che lo

pervade, tale da fargli scrivere, nell’imminenza della

morte: “Non posso vivere né con Dio, né senza

Dio” (L’assurdo e la speranza, cit. rispett. p.66 e p.87).

L’assurdo e la speranza, pubblicato postumo a cura

della figlia Marie France, testimonia appunto di

quanto spaesante sia questa condizione,

spaesamento che si traduce in un continuo

interrogare, umile e stupito, Dio stesso, quel Dio

che – come insegnò Maestro Eckhart (l’allusione è

a p.48) – ciascuno di noi è. Un Dio, questo

paventato da Ionesco, che soltanto l’amore può

avvicinare, un amore assoluto, quale quello che

71

compenetra il personaggio (allora sconfitto) di

Maria, la seconda moglie del re Bérenger I: “Se tu

mi ami follemente – ella gli spiega – se ami

svisceratamente, se mi ami assolutamente, la morte

si allontana. Se tu ami me, se tu ami tutto, la paura

si dissolve. L’amore ti trascina, ti abbandoni e la

paura ti abbandona. L’universo intero, tutto rivive,

il vuoto diventa pienezza” (Il re muore, cit. p.57).

Questo amore – come egli ci dice ne La ricerca di

Dio (ed. cit., pp.36-37) – altro non è che fede

massima nell’assoluto, disponibilità senza residui “a

fondersi con Dio”, ma si concretizza anche

nell’agire pratico, considerando i “beni della terra”

non in quanto proprietà, bensì amandoli per la loro

“bellezza”, con il distacco dei saggi.

Prima di giungere a queste conclusioni, il

drammaturgo rumeno aveva sperimentato

l’impegno; ma già allora (e siamo negli anni

Cinquanta) quest’ultimo non aveva nessun rapporto

con le ideologie, anzi: proprio contro di esse e

contro chi voleva fare della sua arte uno strumento

di propaganda, egli indirizzò gran parte dei propri

spunti polemici. Come ben ci rammenta Emanuel

Jacquart nella Prefazione a Tutto il teatro, “le sue

dispute con i critici, sia francesi che inglesi,

72

contribuiranno ... a persuaderlo che l’ideologia è

parte integrante della dimensione tragicomica

dell’esistenza, allo stesso titolo della condizione

metafisica” (ed. cit., p. LIX). Rispetto alla questione

della trascendenza tuttavia, come abbiamo visto,

Ionesco maturò nel tempo differente cognizione,

pur sorretta da una fede mai adeguatamente

sedimentata. In questo senso (e in conclusione),

credo non sia scorretto affermare che l’ultimo

Ionesco abbia scritto e vissuto sempre in bilico tra

due tensioni (l’orrore verso la storia, la speranza

fragilissima d’un senso altro e salvifico che l’uomo,

graziato da Dio, possa disvelare), senza mai riuscire

a conciliarle, nutrendosi dell’amore familiare e della

pietas verso i deboli quali uniche vie laiche di abitare

l’inconoscibile. Un pensiero, il suo, povero di

concetti per scelta e gonfio invece di meraviglia sia

verso un creato in perenne conflitto, e sia nei

confronti del suo Creatore il quale, pur non

concedendo al senso ultimo delle cose d’acquisire

leggibilità, infonde – a chi si senta naufrago davvero

– la speranza, il desiderio di farsi fanciullo

interrogante, preda euforica di una deriva della quale

cercare la necessità.

73

Per una ridefinizione del Postmoderno

1. Il Postmoderno: una questione controversa

Che il neo-orfismo sia stato il seme

fondamentale dell’albero postmoderno in Italia –

almeno per quanto riguarda la poesia – lo attestano

tanto i detrattori quanto i suoi più entusiasti

sostenitori. Lo rilevano, per esempio, Giulio

Ferroni (Storia della letteratura italiana. Il Novecento,

Einaudi, 1991, pp.717-721) e, con differenti

entusiasmi, Franco Cordelli il quale, nella prefazione

a Notturna, di Enzo di Mauro, ravvisa nel

movimento neo-orfico il pregio di avere anticipato,

“nella dizione di un gusto, e di un nuovo modo di

intendere e percepire”, altri ambiti disciplinari, tutti

74

segnati da “una logica postmoderna” (Campanotto,

1987, pp.6-7). Il senso di questa anticipazione –

evidentemente positiva, in Cordelli – non si discosta

tuttavia dalle critiche velate di Ferroni in Novecento:

entrambi infatti riconoscono alla postmodernità del

neo-orfismo un’indole sensuale, seduttiva, panica e

politicamente disimpegnata; una posizione, questa,

che viene sostanzialmente a confortare quanto la

storiografia letteraria ha poi più volte ribadito in

merito alla cultura postmoderna tout court, fino a

darne certificazione definitiva (e debitamente

articolata) nei testi antologici compilati per le scuole

medie superiori. Cito, a titolo esemplare, La

letteratura e i suoi classici (AA.VV., Archimede, 1997,

vol.7) la quale, in conformità con le tesi condivise

“dalla maggioranza degli studiosi”, afferma che il

postmoderno opera “un confronto aperto con la

cultura massificata... da utilizzare come materiale

narrativo, spesso in funzione di parodia; in secondo

luogo [assume] una teoria letteraria” interna ai testi,

“di riflessione sui caratteri e i modi della narrazione;

infine, [attua] una rivisitazione ironica della storia e

più in generale del passato, dei suoi modi di

comportamento, dei suoi usi stilistici, delle sue

soluzioni linguistiche” (ed. cit., p.366).

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La problematicità ed i rischi di questa posizione

nei confronti della storicità, li avevano in effetti già

messi in risalto, polemicamente e con differenti

presupposti ideologici, fra gli altri: Umberto Eco

nelle Postille a “Il nome della rosa” (in “Alfabeta” n.49,

giugno 1983), Italo Calvino nelle Lezioni americane

(ed.cit., p.95), Alfonso Berardinelli ne Tra il libro e la

vita (Bollati Boringhieri, 1990, p.40 e ss.), Angelo

Guglielmi in Trent’anni di intolleranza (mia) (Rizzoli,

1995, pp.183-184) e lo stesso Ferroni, ribadendo in

altra sede che, nel postmoderno, “tutto si riconduce

al dominio dell’apparenza, dell’effetto,

dell’ornamento, dell’artificio: l’essere ‘dopo’ si dà

come definitiva perdita di peso di tutta la tradizione

culturale, sua neutralizzazione... mirante a uno

svuotamento e a una rarefazione della stessa

esperienza del presente, all’utopia di una vita senza

spessore” (Dopo la fine. Sulla condizione postuma della

letteratura, Einaudi, 1996, p.148).

La preoccupazione è condivisibile; eppure sono

convinto – e questo capitolo vorrebbe dimostrarlo

– che sia possibile legittimare una visione

postmoderna dell’epoca in cui viviamo, senza per

questo squalificare l’etica a semplice esercizio

estetico, come lascia per esempio ad intendere

76

Pietro Cataldi ne Le idee della letteratura (La Nuova

Italia Scientifica, 1994, pp.181 e ss.), né tantomeno

ridurre la Storia a mero magazzino di maschere (F.

Jameson, Il postmoderno, o la logica del tardo capitalismo,

Garzanti, 1989, p.38) o a luogo dell’inautenticità,

com’è costretta a fare ogni interpretazione che

riconduca l’Essere, sia esso pienezza o lacerazione,

ad un’origine metastorica. Credo invece che la

postmodernità, così come si configura

nell’ontologia ermeneutica d’impianto

heideggeriano, offra l’occasione, per la prima volta

realizzabile, di rimettere in discussione – nel senso di

ricollocare nel gioco della comunicazione

interpretante – il passato, svelandolo scrigno d’una

comunità di mortali nostri fratelli nella finitezza e

nello spaesamento, ai quali affidarsi dialogicamente

con affettuosa cura. D’altro canto, proprio da due

orfici come Roberto Carifi e Roberto Mussapi parte

l’appello ad un recupero rilkiano-heideggeriano del

sacro, in cui ci sia posto tanto per la pietas e la

condivisione, quanto per una prassi che porti a

compimento il passaggio epocale cui stiamo

assistendo (cfr. i loro due saggi in AA.VV., La poesia

e il sacro alla fine del secondo millennio, San Paolo ed.,

1996). Passaggio che, sia detto sin da ora, non è

77

affatto pacifico nemmeno sotto il profilo teorico,

essendo semanticamente attivo in ambiti spesso

contigui con il postmoderno filosofico, quali il

pacifismo, la New e la Next Ege, il femminismo,

l’animalismo, l’ecologismo ecc., movimenti spesso

attraversati da una progettualità conflittuale,

antagonista, in sintonia dunque con i caratteri

‘fondativi’ della modernità. Ma tale contraddizione

opera nell’alveo stesso della critica postmoderna

laddove, per interpretare la postmodernità, essa usa

categorie del moderno, parlando di fasi, di evoluzione,

di superamento, di rapporto causale fra struttura e

sovrastruttura. L’urgenza della presente analisi nasce

anche dal fatto che tale contraddizione, maturata

nella sinistra statunitense, pervade la stessa nozione

italiana di postmoderno (almeno in quella

perfezionata da studiosi di formazione dialettica): lo

si evince con chiarezza nelle tesi sostenute da

Margherita Ganeri nel Postmodernismo (Ed.

Bibliografica, 1998), la quale legge la storia del

concetto riconoscendone un’evoluzione, a partire

da uno stadio “archeologico” in cui trovano posto

“la linea Nietzsche-Heidegger-Gadamer”, passando

per uno stadio intermedio inaugurato dal

neocapitalismo e dal decostruzionismo anni

78

Sessanta-Settanta, e finendo con “i ‘cattivi ragazzi’

degli anni Novanta” (Brizzi, Ballestra, Santacroce,

Nove, ecc.).

Per cercare un’altra via alla postmodernità, che

si distingua anzitutto da quella che legittima il

disimpegno postmoderno fondandolo su una deriva

storica irrimediabile e senza scampo, credo dunque

sia necessario riprendere le fila del discorso

heideggeriano, seguirne passo passo i momenti più

significativi, così da avvicinare la questione dal suo

nodo “archeologico”, dal principio cioè che la

regola e la informa.

79

2. Del mostrarsi e del celarsi

Partiamo dal saggio, già citato, Sull’origine

dell’opera d’arte (1935-36), e cerchiamo di

evidenziarne, sia pure schematicamente,

l’argomentare.

La questione affrontata dal filosofo tedesco

riguarda “l’essenza dell’arte” allorché la si pensi

nella concretezza dell’opera (ed. cit., p.4). L’analisi

mira a sottolineare il fatto che quest’ultima non è un

oggetto, bensì qualcosa che “rende noto

qualcos’altro” (Ivi, p.6). L’approfondimento di tale

assunto, lo porterà a riconoscere nel “Mondo” ciò

che dell’opera d’arte vediamo, ciò che in essa si dà

da comprendere: “il Mondo”, scrive, è il luogo del

mostrarsi in cui “ogni cosa acquista il ritmo del suo

sostare e del suo muoversi, la sua lontananza e la sua

vicinanza, la sua ampiezza e il suo limite” (Ivi, p.30).

Ogni opera d’arte, in questa prospettiva, “espone”

un “Mondo”, mostra cioè una rete visibile di

rimandi nella quale le singole cose in essa

organizzate acquisiscono un senso; ma la verità

dell’opera d’arte, come accennato, non coincide

tutta ed esclusivamente in questo apparire

80

mondano; più profondamente, l’autore riconosce al

“Mondo” un essenziale provenire dal nascosto, da

un’oscurità carica d’annunci, che egli chiama

“Terra”. La “Terra” dunque è quel grembo

inesauribile dal quale viene il “Mondo” (e non

invece, come sostiene Jameson, “materialità priva di

significato”; in Il postmoderno ecc., cit., p.21).

La verità dell’opera d’arte riguarda, appunto,

questo gioco serissimo “di illuminazione e

nascondimento” che si dà nel conflitto in atto fra

ciò che si mostra e ciò che, in quel mostrare, si

sottrae: “Mondo e Terra sono sempre, e in virtù

della loro essenza, in contrapposizione e in lotta”

(Ivi, p.40).

L’eterna lotta del visibile con l’invisibile, del dire

con il silenzio, del mostrare con il nascondere, è

fondamentale non soltanto per la verità dell’opera

d’arte, ma anche per l’uomo stesso poiché,

interrogando quel conflitto, egli mette in gioco il

proprio modo consueto di stare presso gli enti, la

cui inautenticità deietta Heidegger aveva raccontato

in Essere e tempo (1927). Qui tuttavia l’uomo

(l’Esserci) assumeva l’autenticità della propria

esistenza a partire dalla decisione anticipatrice della

morte: fondava dunque sul proprio “essere per la

81

morte” ogni successivo atto mondano. L’ambiguità

che ne deriva, e della quale Heidegger fu subito

consapevole, consiste nel porre l’Esserci come

aprente, come colui che pone in essere l’apertura

autentica, con ciò riproponendo l’idea centrale della

metafisica, ossia quella del Principio primo,

dell’Ente supremo, in una parola: del fondamento.

La riflessione heideggeriana, che matura proprio a

partire dai Sentieri interrotti, vuole invece rileggere in

modo inaudito il discorso metafisico occidentale:

quanto succede di fronte ad un’opera d’arte, lo

spaesamento in cui l’Esserci è ricondotto,

dimorando presso quel mondo e quella terra

perennemente in conflitto, è appunto il primo passo

verso un discorso che si liberi dalla supremazia della

soggettività fondante (caratteristica basilare della

modernità e di cui l’Umanesimo è la più dignitosa

forma di pensiero), per offrire la voce ad un’età in

cui la verità sia pensata in modo originario.

Lo storicizzarsi della verità è dunque un primo

passo per poter pensare all’Essere senza

confonderlo con l’ente. D’altro canto, anche Hegel

e Nietzsche temporalizzano la verità, il primo

strutturandola nella dialettica, il secondo

82

identificandola con la volontà che vuole se stessa, in un

circolo che tende al proprio accrescimento

mediante la propria conservazione; in entrambi i

casi, nella lettura heideggeriana, si dà alla verità un

valore fondante, la si pensa come struttura

eternamente presente che giustifica il processo

diveniente.

Uscire da questa catena fondante significa, per il

filosofo dei Sentieri, pensare il rapporto Essere-

Tempo-Esserci come ad un accadere epocale, ad un

evento (Ereignis) nella cui bocca abissale il mondo e

le cose s’adunino. Le pagine finali del saggio su

L’origine dell’opera d’arte e la conferenza su Hölderlin e

l’essenza della poesia (1937) approfondiranno questa

nozione, orientandola in senso linguistico: le altre

arti – scrive Heidegger nel primo dei due saggi citati

– pur essendo conflittualità in atto tra mondo e terra,

“hanno sempre luogo solo nell’Aperto del dire e del

nominare” dai quali “sono rette e guidate” (Sentieri

interrotti, cit., p.58). Ma è soprattutto ne In cammino

verso il linguaggio (1959) che egli chiarirà il modo in

cui l’Essere, pur non identificandosi con il

linguaggio, si dà nel linguaggio. L’impegno è,

finalmente, quello di raccontare l’eventualizzarsi

dell’Essere, lasciandolo dimorare nel linguaggio,

83

dandogli ascolto, ma senza pretendere di sradicarlo

dall’oscurità in cui, donandosi, si ritrae. Obiettivo

annunciato già nella Lettera sull’ “umanismo” (1947),

laddove sostiene che il pensiero è dell’Essere nel

duplice senso che “appartiene” all’Essere e, in

quanto tale, gli dà ascolto (Adelphi, 1995, p.35).

Per comprendere meglio questo assunto,

soffermiamoci sul modo in cui Vattimo traduce il

titolo Unterwegs zur Sprache: al tradizionale In cammino

verso il linguaggio dell’edizione mursiana curata da A.

Caracciolo, egli preferisce Sulla via del linguaggio (in

G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, 1982,

III ed., p.121), sottolineando così il fatto che

l’Esserci non raggiunge l’essenza del linguaggio (e

dunque la propria più autentica collocazione) dopo

un cammino, bensì è già sempre nel e per il

linguaggio, e, di conseguenza, già sempre dimora

nell’Ereignis (in quell’Evento cioè che – dopo la fine

della metafisica – qualifica la reciproca familiarità

espropriante di Uomo ed Essere). Così concepito, il

linguaggio si dà in custodia all’Esserci affinché

quest’ultimo ne preservi quella natura appellante

che l’Essere stesso possiede nell’attuale apertura

epocale. In questo senso, l’Esserci abita il linguaggio

al modo del cor-rispondere a quel dire originario il

84

quale – come scrive Heidegger in La fine della filosofia

e il compito del pensiero (1966) – “in ogni tempo,

ascoltato o no, si fa parola nel destino non ancora

deciso dell’uomo” (in Id., Tempo ed Essere, Guida,

1980, p.168). Si tratta di un ‘farsi parola’ che tuttavia

esula da qualsiasi determinazione assertiva, giacché

si configura, in coerenza con il suo non-essere-

fondante, nel modo del da pensare, di un appello cioè

che, nel succedersi delle apertura epocali, si è

tramandato come “il medesimo” (das Selbe).

In questa prospettiva, l’Essere heideggeriano ‘è

presente’ nella Storia al modo del perdurare che,

nell’accadere epocale, si conserva e si tramanda

come appello mai esauribile in una risposta. Ne

consegue che l’aprirsi epocale dell’Essere è ogni

volta finito, ma in questa finitezza si custodisce il

Selbe che si fa appello alle generazioni future,

affinché la loro risposta ne tramandi l’inestinguibile

segreto. “Storia autentica – scrive Heidegger – è

Presente. Presente è Av-venire in quanto richiesta

dell’Iniziale, cioè di ciò che perdura, di ciò che già è

e del suo nascosto essere-raccolto” (I principi

fondamentali del pensiero [1958], in “Il pensiero / Il

tempo”, n.1, ed. il melangolo, 1979; p.13). E altrove,

chiarendo con una similitudine: “C’è una tradizione

85

da epoca a epoca. Ma essa non corre tra le epoche

come un legame che le stringe l’una all’altra, bensì

viene di volta in volta dal nascosto del Geschick [dal

destino dell’Essere], così come da una sorgente

nascono diversi ruscelli, che alimentano un fiume, il

quale è ovunque e in nessun luogo” (Der Satz vom

Grund, passo citato da Vattimo in Essere, storia e

linguaggio in Heidegger, ed di “Filosofia”, 1963, p.171).

86

3. Utopia, collocazione, tradizione

Una prima considerazione: se l’utopia non ha

luogo, non significa che essa non possa dar luogo;

riflettere sull’utopia, come a quel luogo da pensare cui

Heidegger riconduce il senso dell’Essere, è uno dei

modi possibili di riprendere il discorso sul

postmoderno. E questo perché Heidegger ci offre

la possibilità di pensare all’utopia non più come al

fondamento umano dell’agire storico insoddisfatto,

bensì come a colei che, chiamandoci, ci colloca nella

sua possibilità av-veniente.

Questo della collocazione è un tema centrale anche

nella riflessione di Vattimo, ma, mentre in

Heidegger esso si articola in relazione all’autenticità

dell’Esserci nell’Ereignis, nel filosofo torinese il

problema si sposta sul piano della storicità. Vattimo,

in altre parole, sposta la domanda heideggeriana sul

senso dell’Essere a quella sul senso della Storia,

poiché concepisce il “prendere congedo”

dell’Essere come un “essere-già-accaduto”, un

ritrarsi all’infinito verso il passato. In questo senso,

l’Essere vattimiano diventa ciò-che-trapassa, che

matura e invecchia, un Essere diveniente-

87

declinante, che in ciascuna apertura epocale si offre

alla comprensione in quanto ritraentesi-caducità,

mai riconducibile, in ogni caso, alla semplice presenza

della metafisica occidentale (G. Vattimo, Le avventure

della differenza. cit., pp.200-201).

Da quanto appena osservato, risulta evidente

che il filosofo torinese, spostando l’attenzione dal

senso dell’Essere a quello della Storia, viene a

distorcere il pensiero heideggeriano in altri due punti:

il primo è che la questione della collocazione si

trasferisce dalla gettatezza ontologica alla gettatezza

storica; il secondo distorcimento consiste nello

spostare l’ascolto del da pensare nel passato, anziché

nell’avvenire, riconoscendo alla tradizione lo scrigno

in cui l’essente-stato ha preso congedo. Se dunque

in Heidegger – rispetto a quest’ultimo elemento – il

da pensare, in quanto annuncio, è sempre da-venire

(in questo senso è utopico), in Vattimo la

monumentalità del passato, come terra che

custodisce il segreto dell’estinzione mai esauribile

dell’Essere, viene in primo piano, in una vicinanza

non casuale con l’ermeneutica di Hans Georg

Gadamer. E tuttavia, dal filosofo di Verità e metodo,

Vattimo prende le distanze, svelando la matrice

metafisica del suo pensiero. In Gadamer, in effetti,

88

l’essere di una cosa è la somma delle interpretazioni

in cui è stata coinvolta nel corso della sua storia; una

struttura dunque, quest’ultima (e la storia nella sua

universalità), permanente e lineare, la quale tende

infinitamente alla realizzazione della libertà. (H. G.

Gadamer, La ragione nell’età della scienza, il melangolo,

1982, p.26). A quest’idea dell’ermeneutica, Vattimo

contrappone l’istanza ontologica heideggeriana,

letta con la Verwindung (la distorsione) che abbiamo

prima rilevato: pensare la differenza dall’ente sarà

dunque l’unica possibilità che hanno i mortali di

trovare autentica collocazione storica,

rammemorando quanto si dà da pensare in ciò che

è già stato detto; da pensare che, appunto, non è né il

Selbe heideggeriano né il logos gadameriano, ma un

appello governato dal “silenzio” e dalla “quiete” e

che “lascia essere la storia come presentarsi di

nuove risposte a nuovi appelli” (G. Vattimo, Essere,

storia e linguaggio in Heidegger, cit. p.141). Un chiamare,

ancora, “che ha come suo limite e come suo

fondamento costitutivo la morte”, nel senso

appunto che si dà in quanto voce silenziosa della

sfinitezza caduca dell’Essere (G. Vattimo, Al di là del

soggetto, Feltrinelli 1981, p.90).

89

Da questa prospettiva, l’utopia non è parola

dell’uomo-mortale che risponde all’appello,

custodendo-annunciando-distorcendo il medesimo;

essa è, invece, approfondimento della caducità,

assunzione - quasi come nella decisione anticipatrice

di Essere e tempo - del proprio essere-per-la-morte, in

modo tale da togliere alla realtà quella “maschera di

necessità che la metafisica gli ha imposto”, così da

consentire all’Esserci di vivere “il possibile come

possibile” (G. Vattimo, Le avventure della differenza,

cit., p.138). Utopia, in questo senso, è togliere al

divenire storico la necessità della struttura, per

pensarlo come una malattia dalla quale possiamo

rimetterci soltanto sprofondando in essa. È quanto

Vattimo si propone di attestare nel saggio Dialettica,

differenza, pensiero debole, mostrando la necessità

storico-destinale del “pensiero debole”, che attua un

superamento-distorsione di quanto dialettica e

differenza hanno tramandato, lasciandolo da pensare:

“È probabile – scrive egli a proposito – che la

Verwindung, la declinazione della differenza in

pensiero debole, si possa pensare soltanto se si

assume anche l’eredità della dialettica” (in Il pensiero

debole, a cura di P. A. Rovatti, Feltrinelli, 1983).

90

Una seconda considerazione: nominando

Heidegger e Vattimo ho messo in gioco due

possibilità di pensare al postmoderno come al luogo

della disponibilità dell’uomo-mortale alla sua più

autentica vocazione: quella di abbandonarsi

all’ascolto di quanto nelle epoche si tramanda, sia

esso un da pensare che si slancia nell’avvenire

appellandoci come fosse un amico aurorale, sia esso

un da pensare mortalmente segnato dalla debolezza,

“dalla caducità e dalla mortalità”, che si offre

silenziosamente alla rete dialogico-distorcente dei

parlanti. In entrambi i casi, ma con conseguenze

diverse, mi sembra sia possibile riproporre il tema

della postmodernità – e dunque del venir meno della

credibilità del fondamento – senza per questo

ridurre la Storia ad un magazzino di maschere o ad

un luogo svuotato di senso o, ancora, senza la

pretesa di pensare alla “condizione postmoderna”

come a quell’atteggiamento critico che “ha

rovesciato come un guanto l’impalcatura teorica

della cosiddetta modernità” (P. Portoghesi,

Postmodern. L’architettura nella società postindustriale,

Electa, 1982, p.13).

Per evitare le ambiguità delle varie posizioni

postmoderne, le quali, come già osservato, spesso

91

adottano acriticamente il lessico della modernità, in

primo luogo quello di superamento (e con ciò

riassumendo nel proprio argomentare una categoria

forte della filosofia della storia proprio della

metafisica occidentale), occorre confermare con

chiarezza quanto segue: le posizioni di Heidegger e

di Vattimo hanno in comune il fatto di considerare

il succedersi delle epoche come un eventualizzarsi

di un Essere che non può più essere pensato come

fondante; al tempo stesso, però, l’aprirsi del

possibile e del molteplice che, in

quell’eventualizzarsi, viene alla presenza, non nega

valore al passato, anzi: ne recupera la dignità in

quanto tradizione; in Heidegger quest’ultima

custodisce l’annuncio e lo tramanda nel segreto

dell’attesa; in Vattimo essa diventa il luogo delle

tracce del vivente, le quali rammentano al mortale il

suo inevitabile trapassare. In quest’ultima

prospettiva, la collocazione di ogni singolo mortale

fa quel legame differentemente, cosicché soltanto

da quel luogo particolare, dal qui della propria

gettatezza, l’uomo-mortale si rimette al liberante

legame che lo appropria traspropriandolo alla

tradizione: ogni dire, in altri termini, è un cor-

rispondere situato, un punto di vista che disvela la

92

traccia caduca in cui l’Essere si dà; un punto di vista

che – disvelando – cela, appunto perché l’aprirsi è

già sempre un nascondere, un ritrarsi. Così

concepita, la verità dell’apertura epocale consiste in

tutto quanto il linguaggio di ciascun mortale situato

porta alla luce ma anche in quanto in quel dire si

congeda, obbligando i parlanti a riproporre la

parola, a metterla in gioco nella rete di rimandi a cui

ciascun dire rinvia. Ma questo orizzonte storico-

linguistico (al quale diamo voce) trova radice

destinale, come detto, nell’ascolto del “quieto” invio

che proviene dalla tradizione, per cui verso di essa

ciascuno deve porre il massimo rispetto, pur nella

consapevolezza che qualsiasi risposta è

ontologicamente insufficiente tanto a legittimare (o

a criticare) il presente, quanto a svelare totalmente il

destino caduco dell’Essere.

All’uomo-mortale vattimiano non spetta perciò

il compito di superare questa condizione; se

intendesse uscire dalla malattia dell’erranza destinale

e della convalescenza mai sanabile del tutto, egli

rifonderebbe le categorie metafisiche della semplice

presenza, con ciò dimenticando di nuovo l’Essere a

favore dell’ente (G.Vattimo, La fine della modernità.

Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna,

93

Garzanti, 1985, pp.172-189). Quest’arbitrio – il

fatto cioè che, volendo, l’uomo potrebbe

ridimenticare l’Essere – lascia intendere come

Vattimo, facendo leva sulla “filosofia del mattino”

nietzscheana (Ivi, pp.177-179), non sia persuaso

fino in fondo del da pensare heideggeriano, al suo

darsi in quanto evento destinale che è già sempre

unità di appello e di risposta e al quale, dunque,

l’Esserci non può sottrarsi (cfr. M. Heidegger,

L’abbandono [1959], il melangolo, 1983, p.61. È

comunque possibile che il “ritorno” al cristianesimo

proposto da Vattimo in Credere di credere sia, in

questo senso, un ripensamento decisivo).

94

4. La fine della storia e la pietas postmoderna

La questione dell’età in cui la modernità si fa

postuma a se stessa trova motivo d’interesse in

Vattimo più che in Heidegger. Come abbiamo visto,

in quest’ultimo il problema del senso dell’Essere è

infatti prioritario rispetto a quello della Storia; di

conseguenza, la collocazione in lui ha valore

ontologico, laddove nel filosofo torinese trova

specifica rilevanza biografica. Per questa ragione, un

approfondimento del postmoderno in direzione

della possibilità che la Storia sia giunta alla fine,

trova in Vattimo migliore referente; seguiamo le sue

osservazioni, elaborate ne La fine della modernità.

Riprendendo la tesi di Karl Loewith presente in

Significato e fine della storia (1949), Vattimo comincia

la sua riflessione sulla modernità considerandola

l’erede del pensiero ebraico-cristiano, un’erede che

si è costituita in base ad una progressiva

secolarizzazione della visone biblica della storia. In

questo senso, la modernità concepisce lo sviluppo

della storia secondo l’idea di un tempo lineare, tutto

teso ad un superamento (Ueberwindung) storico che

annienta il passato o, nella migliore delle ipotesi

95

(quella storicistica), ne disconosce il valore

appellante. La postmodernità invece, nell’accezione

vattimiana – come abbiamo visto alla fine del

paragrafo precedente – vorrebbe prendere

“congedo dalla modernità” ma senza superarla, bensì

rimettendosi ad essa come al proprio più autentico

destino: “uscire dalla metafisica” – scrive il filosofo

torinese nel testo citato (p.189) – significa seguire

“la via di una accettazione-convalescenza-

distorsione [di essa] che non ha più nulla

dell’oltrepassamento critico caratteristico della

modernità”.

In questa prospettiva, il divenire (quale

succedersi epocale necessario) perde consistenza

ontologica, palesandosi invece quale mero risultato

di un dominio; Vattimo, a tal proposito, chiama in

causa uno dei testi fondamentali della critica

francofortese, quelle Tesi di filosofia della storia (1940)

di Walter Benjamin che tanto hanno contribuito alla

dissoluzione della dialettica. Nelle Tesi, infatti, il

filosofo tedesco svela “la storia” – nella sua veste di

processo lineare, unico ed omogeneo – quale

espressione della volontà realizzata dei vincitori (in

W.Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, 1976, pp.72-

83). Ciò significa, commenta Vattimo ne Il pensiero

96

debole, che l’idea “di un corso progressivo del

tempo... si costituisce a prezzo dell’esclusione,

prima nella pratica e poi nella memoria, di una

moltitudine di possibilità, valori, immagini” (ed cit.,

pp.15-16). Tuttavia anche in Benjamin sopravvive

l’istanza metafisica poiché, scrive altrove Vattimo,

“il progressismo, nella sua forma messianica

(distinto... dalla fede nel progresso proprio della

borghesia...) si accompagna necessariamente” con

“l’idea di redenzione”, una redenzione proiettata nel

futuro che vorrebbe recuperare una ipotetica

“essenza” umana (La “parte maledetta”. Sinistra e

nichilismo, in AA.VV. Il concetto di sinistra, Sonsogno,

1982, p.79).

Per uscire dall’ontologizzazione della

soggettività operata dai pensatori della dissoluzione

della dialettica (Benjamin, Adorno e Sartre, in primo

luogo), Vattimo si appoggia alla prospettiva

nietzscheana del mondo diventato favola in

conseguenza della “morte di Dio”. In essa, non

soltanto si dissolve l’idea forte di verità, di

fondamento ultimo che giustifichi gli enti, ma vi è

anche il fatto, assolutamente decisivo per il destino

dell’Occidente, che possiamo vivere senza la sua

presenza.

97

Questa condizione, che per Vattimo inaugura la

“postmodernità in filosofia” (La fine della modernità,

cit. p.175), si traduce – empiricamente – nel

moltiplicarsi delle “potenze capaci di raccogliere e

trasmettere le informazioni, in base a una visione

unitaria” ma dipendente dall’insieme di pre-giudizi

di cui il parlante si fa voce e che lo costituisce nel

suo “essere gettato”. L’effetto è una molteplicità di

interpretazioni del medesimo fatto, che privano

l’ascoltatore della certezza dell’unicità del medesimo

(Ivi, p.18). Ed è proprio questo che “caratterizza...

la fine della storia nell’esperienza post-moderna”: il

fatto cioè “che... nella pratica storiografica e nella

sua autoconsapevolezza metodologica l’idea di una

storia come processo unitario si dissolve” (Ivi,

p.13). Al suo posto si concretizza una complessità

storica prodotta dall’incrociarsi, dal ‘contaminarsi’

“delle molteplici immagini, interpretazioni, ri-

costruzioni che, in concorrenza tra loro o

comunque senza alcuna coordinazione ‘centrale’ i

media distribuiscono” (G. Vattimo, La società

trasparente, Garzanti, 1989, p.15). In questo senso,

anche l’idea della “fine della storia” è un racconto

fra gli altri, un’ulteriore verità messa in circolo, a

minare nelle fondamenta la lettura monolitica ed

98

autoritaria del processo diveniente. Se questo è vero,

chiaro allora che a finire non è il tempo reale degli

accadimenti, bensì il modo moderno di leggere la

loro concatenazione, quell’allineamento dei fatti

operato dai “vincitori” già messo in crisi dalle Tesi

benjaminiane ed ora liquidato nel moltiplicarsi

indefinito dei punti di vista, nella rete dialogico-

retorica delle agenzie informative, tutte egualmente

legittimate a sostenere un interesse di parte. In

questo senso, la verità di ciascuna interpretazione

coincide con la sua capacità persuasiva (G. Vattimo,

Il pensiero debole, cit., p.25), in una leggerezza che le

deriva dal sapersi incapace d’essere totalità

interpretativa e fondante, e dunque dalla

consapevolezza d’essere il frutto d’un progetto

finito, gettato in una precisa apertura storico-

destinale, quella del Ge-stell, dell’im-posizione

tecnica, in cui “il vero e la finzione, l’informazione,

l’immagine” non sono mai nettamente scissi (La fine

della modernità, cit., p.189).

L’apertura epocale presente (inaugurata dalla

morte di Dio nietzscheana e giunta a compimento

nell’ultimo scorcio del XX secolo) si configura così

come una rete dialogico-interpretante, che mette

finalmente l’uomo nelle condizioni di realizzare il

99

progetto nietzscheano del “nichilista compiuto...

che ha capito che il nichilismo è la sua (unica) chance”

(Ivi, p.27). L’Uebermensch nietzscheano (e quello

vattimiano, di conseguenza) non sarà tuttavia il

Superuomo delle dittature novecentesche bensì,

come sottolinea l’autore in Al di là del soggetto,

“l’oltreuomo... capace di apprezzare la molteplicità

delle apparenze come tale” (Feltrinelli, 1984, p.49),

senza nostalgia delle strutture fondanti, ma anche

senza intenzioni di dominio.

È in questo contesto che trova spazio la

formulazione di un’eticità modulata sulla pietas, che

affonda la propria radice nel congedo dell’Essere,

nel tramontare di quell’Essere heideggeriano che,

letto nella distorsione vattimiana, tramanda i propri

appelli nel modo del “monumento”, come memoria

d’un essenteci-stato che ‘fa in modo’ di non essere

dimenticato.

Pietas è appunto, per Vattimo, l’atteggiamento

pratico con cui l’uomo-mortale della postmodernità

si “ri-mette” al passato, all’appello debole

dell’Essere, provando per esso rispetto, amore,

tenerezza, indulgenza, bontà, simpatia, ma anche

compassione e affanno, poiché la tradizione – come

100

già osservato – non si supera, bensì la si pensa come

malattia inevitabile. Provare pietas verso ciò che ci

ricorda la caducità è, appunto, una prassi segnata dal

sentirsi legati (ma non fondati) all’invio della

tradizione; è dunque un rimettersi ad essa come a

quanto ci costituisce destinalmente. Su questo

punto, Vattimo è rimasto sempre coerente; si veda

a riguardo La società trasparente, dove la pietas deriva

dal riuscire a vivere “esplicitamente” la “pluralità”,

la “molteplicità dei modelli” considerandoli tutti

degni d’ascolto e nessuno capace di esaurire la

chiamata dell’Essere (ed. cit., p.95).

La pietas viene sostenuta anche in Oltre

l’interpretazione; qui l’autore la definisce come la

capacità di “collocare le singole esperienze entro

una rete di connessioni... orientata nel senso della

dissoluzione dell’essere, e cioè della riduzione

dell’imponenza della presenza” (Laterza, 1994,

p.50). In questo testo, la pietas svela tutta la sua

valenza pratica, d’attività non contemplativa, ma

immediatamente operativa: essa infatti diventa

“carità”, luogo solidale in cui l’Esserci realizza il

proprio destino nella comunità con gli altri mortali

(Ivi, p.52).

101

Con quest’ultima apertura, Vattimo riprende il

dialogo con la tradizione cristiano-cattolica,

leggendola in una continuità con la storia dell’ac-

cadere dell’Essere. Nel saggio Credere di credere, egli

porta alle estreme conseguenze questo progetto, che

vuol essere una testimonianza di una ricerca segnata

dalla propria, irripetibile, collocazione: “Sono

cresciuto come cattolico praticante, militante, per lo

più anche fervente e impegnato nello sforzo di

corrispondere agli insegnamenti di Gesù Cristo”

(Garzanti, 1996, pp.24-25)

Pur non potendo seguire fino in fondo

quest’ultima direzione, la cui problematicità

meriterebbe uno spazio ben più adeguato, mi

sembra comunque chiaro che molte obiezioni sul

postmoderno, qualora quest’ultimo trovi nella pietas

un atteggiamento etico caratterizzante, vengono

meno, giacché la tradizione, lungi dall’essere negata

o “rivisitata” ironicamente, diventa invece orizzonte

il cui appello insegna e mette allerta,

rammemorando agli uomini la loro infondatezza

destinale, ma anche la necessità della loro parola.

102

5. Conclusioni (e note sulla sensibilità

postmoderna nella scrittura italiana

contemporanea)

Il fatto che Heidegger ponga l’attenzione sul

senso dell’Essere anziché sul senso della Storia, e,

ragione ancora più decisiva, che concepisca il Selbe

come l’unità di appello e risposta che apre

all’avvenire, se da un verso gli impedisce di spostare

la riflessione sul piano etico, gli apre dall’altro una

possibilità preclusa invece a Vattimo: quella di

annunciare un aldilà della metafisica, di cui “nessuno

sa quando e come” accadrà (M. Heidegger, In

cammino verso il linguaggio, cit., p.208), e tuttavia

praticabile storicamente sin da ora, cominciando a

pensare – come spiegò il filosofo in un’intervista

allo “Spiegel” (23/9/66) – partendo “dai tratti non

ancora pensati dell’età attuale verso il tempo futuro

senza pretese profetiche” (M. Heidegger, Ormai solo

un dio ci può salvare, Guanda, 1987, p.144). Un fare,

questo, che, nell’atto del compiersi, colloca

finalmente l’Esserci – essenzialmente “mortale” –

nella sua posizione ontologica, in un angolo di quel

“quadrato” (Geviert) che lo aduna e trattiene in

103

“un’unità originaria” con i divini, la terra e il cielo

(In cammino verso il linguaggio, cit., p.35). Collocato

l’Esserci in tal modo, viene meno uno dei tratti

caratteristici della modernità: quello che attribuisce

all’io la presunzione fondativa. Nell’Ereignis, infatti,

l’io viene consegnato dall’apertura stessa ad un

reciproco gioco espropriante con gli altri angoli del

“quadrato”, tale da renderlo nomade in un circolo

spazio-temporale che lo accoglie ma anche lo

disorienta, “straniero” al modo dell’Uebermensch

trakliano. Così dimorando – spaesato eppure, nel

contempo, essenzialmente a casa – egli farà parola

dell’accadere dell’Essere, un Essere libero

finalmente di essere nominato nella sua differenza

dall’ente.

Indebolimento dell’io e possibilità di lasciar

essere nel linguaggio “i tratti non ancora pensati”

del presente, così che il passaggio epocale si compia:

è questa dunque l’unità fortemente postmoderna del

pensiero heideggeriano che è stata accolta di recente

da alcuni poeti italiani. Penso a Roberto Carifi il

quale, ne I Venturi dell’ultimo Dio, riconosce

esplicitamente “una profonda affinità tra i poeti e i

Venturi”, quegli uomini cioè che “procedono verso

104

il compimento epocale” (in AA.VV., La poesia e il

sacro, cit., p.53-54); affinità che consiste – come si

ricava altrove – nella capacità, sia degli uni che degli

altri, di “liberarsi dalla prigione dell’io, dalla follia del

suo attaccamento ai contenuti finiti, [per] realizzare

dentro di sé il vuoto necessario affinché il divino vi

possa penetrare” (in “Poesia” n.139, maggio 2000,

p.31). Certo anche Carifi legge a modo suo

Heidegger, coniugandone l’istanza av-veniente con

il pensiero dell’erranza jabesiano, con l’orfismo

rilkiano e, soprattutto, con il Dio

“incondizionatamente disposto all’amore” di

matrice cristiana (R. Carifi, L’infanzia e il dono, in La

parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, a

cura di M. I. Gaeta e G. Sica, Marsilio, 1995, p.58).

Ma il cristianesimo, Heidegger, Jabès, Rilke (e

Levinas, e Celan, citati parimenti negli scritti di

Carifi) hanno effettivamente in comune una visione,

al tempo stesso, caduca dell’uomo e appellante

dell’Essere; e dunque, c’è coerenza in questo suo

procedere, in questo suo cercare collocazione che si

realizzi nella disponibilità all’ascolto del dolore e

dell’autenticità della scrittura, senza preclusioni di

sorta (si veda, in tal senso, la pazienza e l’affetto con

105

i quali egli gestisce da anni la rubrica “per

competenza” su “Poesia”).

Posizioni analoghe – forse più sibilline, meno

venate da quella pietas che, invece, contraddistingue

l’etica carifiana – mostra Marco Guzzi, quando

rileva che la “transizione antropologica in atto” è

caratterizzata dal “passaggio dall’Io egocentrico a un

nuovo Io” (M. Guzzi, “io è un altro”: l’esperienza

spirituale nella poesia contemporanea, in AA.VV., La

poesia e il sacro, cit., p.40 e p.45), il quale – ci spiega

altrove – si sta configurando “come Io in ascolto, Io

in dialogo, Io naturalmente mondiale, plurale,

corale, condiviso”. Si tratta, continua il critico

romano, di un passaggio certamente difficile e

tuttavia necessario. (M. Guzzi, Per una poetica della

trans-figurazione, in La parola ritrovata, cit., p.55).

I segnali che nella poesia italiana sia cominciata

l’età della “trans-figurazione” (per dirla con Guzzi)

sono molti altri, e presenti già dalla fine degli anni

Settanta. Basti pensare agli interventi contenuti ne Il

movimento della poesia negli anni ’70 (cit.), dove si

ribadisce la “disseminazione dell’io” quale

condizione normalizzata dell’essere-nel-mondo (cfr.

gli interventi dei due curatori) e si addita nel circolo

ermeneutico costituito da Blanchot, Heidegger,

106

Nietzsche, Leopardi ed Hölderlin il fertile terreno di

molta poesia contemporanea (A. Prete). Fra questa,

un forte ruolo di catalizzazione lo sta svolgendo il

gruppo di Anterem, anch’esso attivo dagli anni

Settanta e già da allora impegnato a pensare e a

mettere in parola tanto la crisi del soggetto quanto

l’urgenza di un orizzonte altro, di un luogo

originario nel quale, come scrive Gio Ferri,

dominano il delirio (nel senso deleuziano di “uscire

dal solco”, tracimando oltre/sul bordo del noto e

dell’utile) e il conseguente, liminare, nomadismo

(Id., Per una parola liminare, in AA.VV.,Verso l’inizio,

cit., p.288).

Non possiamo infine dimenticare la scrittura

portiana degli anni Ottanta, sempre segnata dalla

caducità, dalla consapevolezza d’essere presso una

verità dimorante nella lingua, ma radicalmente

imprendibile, e che si tradusse, nel poeta milanese,

in un atteggiamento di pietas assai somigliante a

quello proposto da Vattimo.

Che sia inserita in questa tradizione la sensibilità

postmoderna (nell’accezione sopra annunciata)

della poesia italiana credo che non ci siano dubbi;

tutti in gran parte da decifrare rimangono invece i

singoli modi in cui i poeti traducono-tradiscono tale

107

sensibilità. Ma per tentare un quadro esauriente di

essi, per non ridurre quel quadro ad un elenco di

possibilità in concorrenza fra loro, conviene

aspettare che il passaggio epocale si definisca

ulteriormente, in modo tale che sia l’apertura stessa

– attraverso le parole offerte da ciascun mortale

dalla propria, irripetibile, soglia – a donarsi nella sua,

per ora ancora confusa, evidenza.

Ciò non significa, ovviamente, tacere sui poeti

contemporanei; vuol dire, piuttosto, sapere che

poesia e critica – insieme – acconsentendo all’aprirsi

dell’apertura, le appartengono essenzialmente, si

danno cioè all’interno di un Ereignis che,

chiamandole alla loro radice disvelante, le colloca in

una libera vastità dialogica, autenticamente orientata

all’avvenire. E significa anche, di conseguenza,

rinunciare ad ogni decodificazione definitoria, ad

ogni pretesa esaustiva, a qualsiasi aggressività nei

confronti di altre linee interpretative, essendo esse

tutte contemporanee, e tutte dunque soggette alla

“provocazione” del Ge-stell.

Per aggiungere ulteriore chiarezza a queste

affermazioni, potremmo partire dalla seguente

domanda: esiste, nella modernità, una tradizione

che, sull’infondatezza del Principio primo, ha

108

costruito il proprio discorso? Hölderlin, Nietzsche,

Trakl, Rilke ed Heidegger sono stati scelti quali

picchetti orientativi, al fine di poter rispondere con

sicurezza: questa tradizione esiste ed è su di essa che

bisogna porre l’attenzione, per formulare un

discorso non contraddittorio sul postmoderno. Ma

fare un discorso sul postmoderno diventa una

contraddizione in termini allorché si pretenda di

oggettivarne le caratteristiche, di im-porlo quale

oggetto di una riflessione che possa

circumnavigarne il perimetro. Tale pretesa, infatti,

implicherebbe la presunzione moderna di sradicare

l’inconoscibile, di pensare la verità non come

aletheia, bensì nella sua artificialità sintattica, quale

ratio che, come scrive Cacciari, riduce “la cosa in

oggetto e l’oggetto in struttura... sempre più

formalizzata e complessa” (Dallo Steinof. Prospettive

viennesi del primo Novecento, Adelphi, 1980, p.52).

Il pensiero postmoderno d’impostazione

heideggeriana-vattimiana invece, l’abbiamo visto, sa

di non poter uscire dal pregiudizio, dalla gettatezza

di quel ci dell’Esser-ci, che gli impone di mettersi in

ascolto e di nominare quanto nel mostrasi si cela,

sapendo che mai potrà sradicarlo del tutto. E

tuttavia, se un discorso sul postmoderno non è

109

possibile, massimamente necessario sarà

riconoscere nel discorso dei mortali contemporanei

una frequenza rammemorante mai ascoltata

precedentemente. Questo sì che lo possiamo fare:

testimoniare una condizione della contemporaneità

la quale presenta dei tratti che, pur non

combaciando con quelli moderni, convivono e si

intrecciano con essi, dando un senso differente

all’abitare la terra.

Il tratto fondamentale, estraneo alla modernità,

lo abbiamo riconosciuto in principio: esiste una

tradizione che opera senza bisogno di un centro, di

un luogo privilegiato e fortemente orientato; una

tradizione che attraversa anche la poesia italiana,

dandosi un volto che nasce dall’infondatezza

d’essere qui ed ora, in ascolto di una tradizione

rivolante in mille direzioni, ognuna egualmente

possibile, egualmente abitabile. Ecco allora la poesia

carifiana, che coniuga l’annuncio dell’Essere

heideggeriano con la distanza irraggiungibile di un

Dio forse più ebraico che cattolico; oppure,

all’opposto, l’erranza in “quello stato

complicatissimo che è l’oscillazione tra nulla ed

essere”, come scrive Ermini a proposito dei “poeti

di ‘Anterem’” (Dell’inizio, cit. p.10), ma che si

110

potrebbe ritenere pertinente, pur con le dovute

precisazioni, anche con l’esperienza liminare di

Zanzotto. Tale infondatezza e capacità di

sopportare lo s-centramento vale, mi sembra, anche

per la parola-offrentesi di Cesare Viviani, la quale

sin da Piumana (Guanda, 1977) cerca l’accoglienza

d’un Padre che possa ricomporre, ma senza

eliminarla, la deriva cui inevitabilmente è soggetta;

simile condizione patisce, ancora, il disarticolato

racconto di Milo De Angelis in Biografia sommaria

(Mondadori, 1999), scevro da qualsiasi pretesa di

possedere “la parola che squadri da ogni lato” il

vissuto, intenzionato invece a testimoniare la vita in

ogni suo coccio, così da farne luogo esemplare,

irripetibile, nel quale un io franto ma

metodicamente testardo sceglie d’abitarvi da

straniero. E la feconda debolezza dell’orfismo

contiano, tesa a preparare l’avvento d’un tempo

pervaso dal sacro? Non è anch’essa figlia di questa

tradizione, filtrata dalla gettatezza irripetibile del

poeta ligure?

Un discorso analogo potremmo proporlo per la

narrativa italiana degli ultimi decenni: là dove il

labirinto è una condizione normalizzata

dell’esistenza e le mappe per seguirlo diventano,

111

seppur inadeguate, esse stesse abitabili; là dove

l’orizzonte storico, anziché fare da sfondo oppure

determinare l’azione, rende quest’ultima

mortalmente segnata dalla finitezza, luogo del

custodire, che serba, senza sviscerarne il segreto,

l’intreccio poliedrico del desiderio; là dove, infine,

prevale la frammentazione della struttura

sintagmatica, la rarefazione degli snodi esplicativi tra

sequenze, il plurilinguismo (non per gioco, né per

realismo, bensì quale segno di rispetto verso una

possibilità altra di comunicazione), là dove insomma

troviamo la traccia d’un sentire difforme dal

‘sistema-romanzo’ della modernità, possiamo dire

di muoverci all’interno di una sensibilità

postmoderna. Un sentire che accomuna differenti

prospettive, che tiene insieme differenti scritture

della contemporaneità, ma che sarebbe tuttavia un

errore madornale ricondurre ad un’unica linea fra le

altre: si darebbe infatti ragione a chi considera il

postmoderno una scuola, un atteggiamento, uno

stile, anziché la condizione stessa in cui la

modernità, piano piano, sta coniugandosi:

un’apertura epocale che dunque tiene insieme –

regolandoli eppure dipendendone – tutti i modi del

dire e del tacere contemporanei. Ciò significa fra

112

l’altro il fatto che, vivendo oggi la metamorfosi in

atto, nessuno può dirsi, con perfetta onestà,

assolutamente moderno o assolutamente

postmoderno: ad essere meticciata, prima che la

cultura, è infatti l’apertura stessa, che ci impone la

ricerca di un fondamento suggerendoci, nel

contempo, la necessità di liberarcene, che ci mostra

quanto necessaria sia la violenza per sopravvivere e

ci addita, insieme, un pensiero capace di farne a

meno. Per ciascuno di noi, l’essere moderni (dunque

irosi, contraddittori, ipocriti, ma anche intelligenti,

abili, responsabili) e l’essere postmoderni

(caritatevoli, ingenui, consapevolmente deboli,

grintosi ma non violenti, ragionevoli ma non

testardi, eticamente orientati eppure liberi dai

principi) si danno dunque insieme, si fondono in

ogni singola risposta che azzardiamo, contribuendo

tuttavia al trapasso complessivo dell’epoca che ci

accoglie, al momento ancora notte senza dèi, eppure

meno dolorosamente spaesante, già attraversata da

una lingua straniera al dominio, alla presunzione

d’assolutezza.

Da Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, Milano 2009, pp.246)

115

Poesia e finitezza

1. A che cosa serve la poesia

A che cosa serve la poesia? Il cannone spara, la

forchetta infilza, il secchio contiene, la penna scrive;

e ad essa quale azione compete? Scrive Osip

Mandel’štam: «La poesia è un vomere che ara e

rivolge il tempo portando alla superficie i suoi strati

profondi più fertili».1 «Fertili», qui, significa ricchi di

futuro, significa non ancora declinati

nell’immobilità del dato. La poesia li porta in

superficie, tra le sue maglie più esposte, in quel

1 Osip Mandel’štam, La parola e la cultura, in Id., Sulla poesia, trad. it. Maria Olsoufieva, Bompiani, Miilano 2003, p.48.

116

ruvido che è il testo, con tutte le sue pieghe visibili

e invisibili. Essa, in questo senso, non soltanto ara e

rivolta il tempo, bensì è il tempo stesso nella sua

feconda imprevedibilità. È il tempo presente che,

spazializzandosi nel testo, si mostra estaticamente

aperto al passato e al futuro. La poesia è perciò il

nostro tempo più vero perché, toccandoci con la sua

pelle, ci lascia sospesi nel suo eccomi.

A che cosa serve la poesia? Serve dunque a

spazializzare il tempo e, così facendo, aiuta a

declinare il nostro essere-esposti nell’inesorabilità

della presenza, che è già sempre incontro

indecidibile con l’altro, con il tu.2 In questo senso, il

2 Numerosi i filosofi novecenteschi che sostengono la tesi ‘esistenza = relazione’. Oltre al già citato Nancy, che ne L’essere abbandonato propone una rilettura del «con-esserci» heideggeriano (e dunque della relazione) che prenda sul serio il «mondo del Sì» descritto in Essere e tempo, considerandolo il luogo imprescindibile dell’esistere, dello stare esposti nel proprio esser-già-sempre-decisi (trad. it. Pietro Chiodi, Longanesi, Milano 1976, pp.55-90), si pensi a Martin Heidegger, che ne In cammino verso il linguaggio mette in opera la dimensione dialogica, strutturandola in un «colloquio» segnato dall’abbandono (dell’esserci all’essere, dell’essere all’esserci, in una coappartenenza che aduna il mondo e che presuppone il tu); e si vedano le riflessioni di Martin Buber, per il quale la «relazione» io-tu costituisce l’esperienza originaria dell’essere al mondo (Id., Io e Tu, in M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, trad. it. Anna Maria Pastore, San Paolo, Milano 1993, p.72), al punto che, come egli afferma altrove, «l’individuo è un fatto dell’esistenza nella misura in cui [...] entra in una relazione di vita con altri individui» (M.Buber, Il problema dell’uomo, trad. it. Armido Rizzo, Editrice Elledici, Torino 1983, p.122). Ma si tengano presenti anche gli assunti della psicologia

117

problema della relazione fra poesia e presente viene

superato dall’opera stessa, nella misura in cui

quest’ultima ha la forza di portare in superficie le

certezze dell’ordinario, facendole vacillare,

sospendendone la perentorietà, rivoltandole come

zolle cui soffiare nuovo ossigeno; e tuttavia, la

condizione perché questo avvenga dipende dal fatto

che all’opera è preclusa qualsiasi ‘operatività’ ossia

la capacità di essere utilizzata per trasformare

l’esistente, come invece capita agli strumenti. La

poesia, infatti, non è un cannone, una forchetta, un

secchio o una penna proprio perché non è a

disposizione di alcuna volontà, nemmeno quella del

poeta,3 il quale si misura edificandola, ma, così

sistemico-relazionale, la quale ribadisce l’imprescindibilità della comunicazione interpersonale, riconoscendo alla «disconferma», ossia all’essere completamente ignorati all’interno di una possibile relazione, un grave pericolo per l’identità: «mentre il rifiuto equivale al messaggio “Hai torto”, la disconferma in realtà dice “Tu non esisti”» (P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, trad. it. Massimo Ferretti, Astrolabio, Roma 1971, p.78). Per quanto riguarda la poesia, celebre è l’assunto di Paul Celan: «Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando, e vi si dedica» (cfr. Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua. Einaudi, Torino 1993, p.16). 3 Qualcosa di analogo intende Nanni Cagnone, quando scrive che «un poeta dovrebbe smarrire la propria consapevolezza e sminuire la propria competenza. Diversamente, il testo non sarà che l’effetto di un progetto. In tal caso [...] tra il progetto e l’esito [...] non sarà successo

118

facendo, si dis-loca, la patisce e ad essa si rimette

come ci si rimette con ottimismo da una malattia.

La poesia insomma, lungi dall’essere un mero

strumento utilizzabile, aprendosi, dispone (e

indispone) affinché il senso del presente non si

chiuda, ma lo fa senza volerlo e senza saperlo. Sotto

questo profilo, essa «rivitalizza» il presente, come già

notava Leopardi nello Zibaldone (1 febbraio 1829),

ma non lo fonda, non lo trattiene, lo rilascia invece

nelle pieghe della sua superficie, in tutta la sua

complessità.

Tutto ciò, fra l'altro, impone alla critica

contemporanea di cercare una nuova definizione di

poesia civile, che tenga conto della morte delle

ideologie e del fatto che, come scrive Jean-Luc

Nancy ne La comunità inoperosa, l’essere-in-comune

della singolarità è coessenziale al suo essere esposto

nel finito della presenza, per cui qualsiasi suo atto

chiama in causa la comunità, la fa essere, senza

residui, in quell’atto, la tiene inevitabilmente esposta

nelle maglie dell’agire e dello scrivere. Civile, in

questo senso, non è qualcosa che fa da sfondo alle

nulla – non si darà alcuna apparizione». Nanni Cagnone, Andatura, Società di Poesia, Milano 1979, p.63. Ora in Id, L’oro guarda l’argento. Opere scelte, Anterem, Verona 2003, p.10.

119

singolarità (e non corrisponde perciò ad un ambito

determinato, che esige un preciso modo del

poetico), bensì viene a coincidere con la rete

comunicativa aperta dalla singolarità nel suo stesso

esistere. Se questo è vero, allora anche la poesia

lirica è essenzialmente civile, giacché mette in gioco,

nei modi del canto, il tremore dell’esserci dis-locato

e perciò stesso in ascolto del proprio essere-in-

luogo, che è uno stare-in-posizione sempre

eccedente, mai pacifico o astratto, bensì

affettivamente gettato e aperto al futuro. Ciò non va

confuso con quanto affermano Lukács e Adorno a

proposito del rispecchiamento, nell’arte, delle

contraddizioni della società capitalistica; piuttosto

occorre pensare alla continua provocazione che è

l’esistenza stessa, capace d’esercitare instabilità e

spostamento continui all’esserci e alla parola in egli

cui si pronuncia, indipendentemente dal suo ruolo

sociale e dalla sua quota di potere. Non si tratta

dunque – marxianamente – di pensare alla forza

critica della poesia lirica, misurando la resistenza che

essa esercita rispetto ai valori (o disvalori) del

capitalismo, e nemmeno di sparare sulla lirica per

uscire finalmente dalla museificazione della polpa

individuale, in favore della relazione poesia e

120

conoscenza,4 bensì, da parte del critico, di cogliere

l’inevitabile attrito di ciascuna singolarità nei

confronti del proprio essere-esposta, quel

particolare sentire della gettatezza, che invero è

sempre racconto comunitario, frutto del dire e del

4 Il riferimento è a Mario Fresa, Tiziano Salari, Le tentazioni di Marsia. Quel che resta da fare ai poeti e ai loro critici (Nuova frontiera, Salerno 2007), dove hanno raccolto in 17 punti-manifesto la loro posizione in merito al canone, alla lirica e alla poesia civile. Il testo contiene anche gli interventi di alcuni critici sulle questioni proposte. Scrivono a pp. 10-11: «Qualche volta – per ammantare di vaga utilità o di falsa generosità il proprio piccolo interesse personale – il poeta “coscienzioso” ricorre a quell’utopia retoricissima, falsissima, che vorrebbe far dialogare la Parola e la Storia, attraverso la cosiddetta poesia civile. Si tenta, così, di “liricizzare” la mostruosa, terribile, cieca ruota dell’Eterno ritorno trasformandone la tragica sua ripetizione in burletta, in finzione letteraria, in ipocrita angustia, in commediuccia rimata e ritmata: orrore che dà certo un gran piacere ai “poeti laureati” che cianciano di guerre dalla loro comodissima poltrona». E a p.13: «Quello che resta da fare, ai critici e ai poeti, che si sommano il più delle volte in una stessa figura, è: ridefinire il concetto di canone poetico per sottrarlo alla logica giornalistica delle antologie poetiche sul Novecento e sull'attualità poetica; mostrare come la linea che generalmente si afferma come dominante destituisce la poesia da qualsiasi valenza conoscitiva a favore del morto, irrigidito brano poetico museificato; come il visitatore di un museo davanti ai quadri di una mostra, il lettore di un'antologia è ridotto a passivo contemplatore di un certo numero di brani che, secondo il critico di turno, sono i migliori di quel determinato poeta; compito di una lettura poetica seria è risvegliare quel lettore riconducendolo alle opere da cui sono tratte le singole poesie e bastonare (metaforicamente) chi si è assunto la responsabilità della selezione e di una lettura unilaterale (Plausi e botte intitolava i suoi pezzi critici Giovanni Boine quando la critica era ancora una cosa seria); rivelare, attraverso la poesia (quando è ricerca della bellezza attraverso il dolore e la verità per giungere alla saggezza) lo "stato dell'arte" nel secolo in cui viviamo».

121

tacere del luogo, che si scandisce, si scuote nella

lingua del poeta, mostrandosi nella successione

melodico-ritmica e nella costruzione semantica.

A fianco di questa nozione ontologica, occorre

sottolinearne un’altra, di carattere sociologico: la

poesia è sempre civile nel senso che nasce e muore

in un contesto socio-politico, del quale dobbiamo

chiedere cognizione al poeta stesso. Scrive Franco

Fortini nella Verifica dei poteri: ‹‹La partecipazione

sociale e politica dell’opera letteraria avviene nei

momenti della sua genesi o della sua funzione,

dunque prima o dopo la creazione››.5 Prima o dopo,

anzi: prima e dopo la creazione, a sottolineare sia

l’impasto di inventiva e risposta, di mestiere e

condizionamento esterno che agiscono insieme nel

laboratorio del poeta, e sia le strumentalizzazioni

dell’opera da parte dei poteri e dei contropoteri; di

fronte a tutto ciò l’autore deve prendere posizione,

diventando anzitutto consapevole del mondo

rappresentato nell’opera, dei valori che essa mette in

scena e degli interessi reali che muove.

Consapevolezza che nasce nell’agone dialogico fra

autore e critica, autore e pubblico, autore e industria

5 Franco Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Einaudi, Torino 1989, p.30.

122

culturale, entro un margine d’infondatezza e fertile

fraintendimento, che trasforma il poeta in

viandante, in colui che incessantemente cerca la

propria collocazione storico-linguistica e, dunque,

civile. Anche perché la poesia, (e la letteratura in

genere), è una presenza reale che fa comunque la sua

strada, indipendentemente dal suo autore; una

presenza che, mettendo in gioco pratiche differenti

(linguaggi, libri, riviste, letture, interpretazioni,

convegni, amicizie e inimicizie, concorsi ecc.)

muove corpi ed idee, arricchisce l’immaginario,

tesse relazioni, rompe legami, aiuta insomma la

storicità ad aprirsi ad un senso mai definitivamente

concluso, ma mobile, dialogico, av-veniente.

Non chiediamoci, dunque, che cosa possa fare la

poesia per la società attuale,6 ma piuttosto: che cosa

può fare la società attuale per lasciare la poesia

6 La domanda è resa, da alcuni grandi autori novecenteschi, attraverso la funzione dello «scriba», sul modello dello scriba Dei dantesco, nel X canto del Paradiso (v.27): si pensi a Mario Luzi, che da quel «Tu non sei dei nostri» di Presso il Bisenzio (in Magma) giunge, in Auctor, alla decisione di ricambiare «in parola» il suo «debito con il mondo» (in Frasi e incisi di un canto salutare) oppure al Sereni di Un posto di vacanza, incerto se cantare il suo poco eroico soggiorno balneare oppure, pur con qualche anno di ritardo, la guerra di Corea (vv.34-39). Più recentemente, ne fanno parola Biagio Cepollaro, Scribeide (in Poesia italiana della contraddizione, a cura di Franco Cavallo e Mario Lunetta, Newton Compton, Roma 1989) e Guido Garufi, Lo scriba e l'angelo (Archinto, Milano 2003).

123

liberamente fuori dai recinti e per portare uomini

donne e bambini da essa? La risposta ci chiama in

causa come soggetti politici, tutti: autori e lettori a

rivendicare lo spazio della libertà come luogo in cui

la poesia ha senso, proprio perché ci consente di

incontrarci senza steccati. Con l’accortezza,

naturalmente, di non organizzare riviste come

fossero fortezze militarizzate, bensì creando una

rete di relazioni autorevoli, in cui lo specifico della

poesia crei occasioni per disseminarsi nel territorio

e per dialogare con le istituzioni.7 Il poeta, infatti,

come qualsiasi altro essere vivente, non può

delegare nessuno in sua vece. Attenzione critica nei

confronti del reale credo significhi allora assunzione

della responsabilità di ex-sistere, di stare allo scoperto

nel mondo, rispondendo alla chiamata del dolore e

della gioia nell’unico modo che spetta agli uomini:

agendo di volta in volta al meglio delle proprie

7 Positivo, in questo senso, il convegno svoltosi a Firenze il 4 e 5 marzo 2005, dove 19 riviste di poesia si sono confrontate sullo specifico letterario, facendo emergere «le plurali visioni critiche e teoriche oggi presenti sul campo”, dando a ciascuno «la consapevolezza di essere parte attiva» nell’organizzazione e nella gestione del fare poetico italiano (cfr. Lelio Scanavini, Riviste a confronto, in “Il Segnale” n.71, giugno 2005, pp.7-8). Gli atti del convegno sono ora pubblicati in Alberto Caramella (a cura di), Poesia: il futuro cerca il futuro. Quali poeti, quali poetiche oggi?, Quaderno della Fondazione il Fiore, Lietocolle, Faloppio 2006.

124

possibilità (e dunque anche scrivendo), sapendosi

non individuo monadico, bensì relazione, comunità

aperta al differire-differirsi continuo. Di

conseguenza, la domanda «a che cosa serve la

poesia», va correttamente declinarla in «chi serve la

poesia» rispondendo che essa non serve nessuno e che,

appunto per ciò, ci addita un modello di relazione

senza padroni e senza schiavi. Non mi sembra poco.

125

2. Quale lingua, quale esperienza?

I rilievi sinora avanzati impediscono di pensare

alla realtà come ad una sostanza unica e omogenea,

che trova nell’eccellenza di una lingua (di uno stile,

di una poetica eccetera) la chiave di volta del

disvelamento, per considerarla, invece, plurale,

stratificata, conflittuale, e dunque riconoscibile negli

infiniti modi della pronuncia singolare, anche in

quella più banale. Anzi, in questa, l’apertura mostra

meglio che altrove la propria superficie, la propria

forza omologante. Poesia, allora, non dice

semplicemente l’apertura, ma mette a dimora il

nocciolo della nostra/non-nostra singolarità.

Perché ciò accada, occorre che il poeta cerchi la

propria declinazione, la voce che meglio coniughi la

sua complessità, in un canto unico eppure

attraversato dalle fibre dell’esperienza comune. Ad

ogni buon conto, sarebbe sbagliato credere che

questa voce si conficchi, meglio delle altre, al centro

di un bersaglio già dato, e sia dunque, fra tutte, la

più vicina alla profondità del presente. Io credo che

non ci sia un presente che primeggi ante litteram, un

presente preliminare o unico (a renderlo tale è il

126

pensiero dominante e la macchina del consenso),

ma semmai che esso si dia, anche, come effetto di

una costellazione dialogica e, come detto, della

spazializzazione testuale, a patto che la poesia sia

«onesta», per dirla con Saba, ossia sgorghi da un

progetto abbracciato con passione, verso il quale ci

si rimette con il metro dell’intelligenza e

dell’impegno. Fare il meglio che si può, con la lingua

che ci appartiene e alla quale apparteniamo, senza

mai essere soddisfatti, con umiltà, convinti che il

testo così forgiato sia degno di rispetto, ma senza

idolatrie: è questa, credo, sotto il profilo

dell'impegno, la via "manzoniana" da seguire. E

quando dico «con la lingua che ci appartiene e alla

quale apparteniamo» intendo sottolineare l’infinità

delle strade percorribili, perché, se preferisco la

poesia della Bishop a quella di Charles Olson, il

cinema di Lynch a quello di Rossellini, la pittura di

Warhol a quella di Morandi, ma anche se vivo in un

dato modo oppure in un altro, la lingua in fieri (quella

che de Saussure chiama «Langue») sboccerà

diversamente, si farà «parola» nuova e imprevedibile

anche per lo stesso poeta. Sarà un linguaggio, quello

nato dall’incontro di differenti radici con la

creatività dell’autore, che arricchirà l’esperienza,

127

tanto più quanto la poesia (e la scienza e la filosofia

e il senso comune) districheranno un significato

credibile dalla muta verticalità delle cose.

Dovremo tuttavia chiederci di quale forma

d’esperienza stiamo parlando, considerato il fatto

che quella dominante, oggi, è di tipo intellettivo,

d’impianto logico-formale, che scavalca sia il piacere

dei sensi («i profumi, i colori e i suoni» delle

corrispondances baudelairiane) e sia l’operatività delle

mani, per radicarsi nevroticamente nell’uomo ad una

dimensione, che ora vive – ancor più di quello

marcusiano – un eterno presente sovraccarico di

stimoli senza altrove, un presente dai saperi

omologanti e costantemente aggiornati, privi di

teleologia. Se è questa l’esperienza comune (e

castrante) nei Paesi del tardo capitalismo, allora

interrogarsi su quale linguaggio sia più salutare alla

contemporaneità, significa anzitutto riconoscere

che esiste un’abbondanza di codici settoriali, tali da

saturare le esperienze legate al sapere calcolante,

mentre va sempre più inaridendosi quella lingua

degli affetti e del profondo che certa poesia,

appunto, coltiva con maniacale ostinazione: dare a

queste due esperienze lacunose una lingua e una

sintassi – plurali e votate alla metamorfosi, al farsi e

128

disfarsi continuo del presente – mi pare sia l’azione

spettante al poeta e che costituisce, dunque (e ciò è

fondamentale), la sua eticità.

129

3. Il dis-appunto della poesia

La poesia dunque risponde alle voci che nel

presente risuonano e si disperdono, alle voci che

restano, alle voci che nel presente fanno città e

campagna, guerra e nascita, canto, silenzio e

rumore. Quando nasce una poesia, tutto questo si

aduna, si muove in essa, la fa essere in quanto

eccedenza. La poesia, infatti, come già detto, non può

essere che eccedenza, presente che tracima,

portando con sé la pietra e la fionda, ma anche il

futuro incerto che è già qui. Così facendo, essa lascia

oscillare tutti i tempi nel suo minuscolo spazio, li

tiene saldi nella singola cosa che nomina,

staccandola dal tempo ordinario, e mostrandola

nella sua esemplarità. Questo star fuori della cosa è

tuttavia già sempre dentro il discorso imbastito dal

testo, che tesse ogni volta l’intero e non sopporta

nulla al di fuori di sé. Sotto questo profilo, ciascuna

poesia è l’esatto contrario dell’appunto, la cui ragion

d’essere sta nell’avere accanto il prima e il poi di

padre Kronos. Se infatti l’a-punto è tassello d’un

insieme in progress, di un fuoco che chiede altri fuochi

per raccontare l’incendio, la poesia è invece tutto

130

l’inferno nella capocchia d’un verso, un inferno

singolare che vorrebbe testimoniare, a nome di tutti,

gli altri inferni.

In latino, ci sono due parole per dire

«testimone»: tertis e superstes. L’appunto incarna

spesso la prima accezione, non essendo questi altro

che voce terza e giornalistica in una contesa a due;

poesia invece – almeno a partire dal Romanticismo

– è ciò che ha attraversato fino in fondo un evento,

così a fondo da custodirlo nella carne. Non più

descrizione, come nel tertis, bensì passione e croce,

visione che tiene sul costato le piaghe del superstite.

Poesia infatti è superstes, nella misura in cui vorrebbe

essere l’unica vera voce, la più autentica proprio

perché l'unica supravvissuta. La poesia dunque non

accetta altri testimoni o li sopporta malvolentieri,

suo malgrado. E ciò perché essa mette in opera tutta

la verità del vivente, l’universale che respira in quella

piega esposta che si chiama Esserci, il cui mondo,

portato alla luce nell’opera, è tutto il mondo.

L’appunto invece ha bisogno di altri punti, di altre

voci particolari su cui poggiare, così che il discorso

sul presente si strutturi: ciò che conta, qui, è il

tessuto connettivo, la serie indefinita di rimandi dal

procedere rizomatico, che dà vita alla complessità

131

policentrica della superficie, nel cui brulichio

luminoso s’intravede l’ombra. Anche la poesia

espone l’ombra, ma agisce patendo l’ombra degli

altri. Per questa ragione poesia e poeta sono due

verità differenti. Se potesse, tuttavia, ogni poeta

diverrebbe poesia, perfetta coincidenza di io e

mondo nella voce del testimone che parla «per

conto di un Altro».8

Nessun appunto può, invece, testimoniare per

noi; esso per natura ci chiede la parola, ci spinge a

dare voce al nostro esser-presenti. Questo accade

ancor più quando l’appunto si assume la

responsabilità della civis, diventandone portavoce, e

mostrando in tal modo le ferite del superstite, che

ha bisogno di stare a fianco di altre voci, per

diventare discursus, linea continua e orientata, che

metta in forma il progetto collettivo. È quest’ultimo

infatti a dare ordine ai tasselli, ad organizzarli nel

sistema libro; vero che la medesima questione si

presenta nel libro di poesia (e in qualsiasi altra

contestualizzazione dell’opera), ma ciò accade per

così dire in "secondo grado", mentre l’appunto nasce

con l’esplicita consapevolezza di arricchirsi entro un

8 P. Celan, La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, ed. cit., p.14.

132

mosaico condiviso da altri, tutti testimoni autorevoli

e perciò stesso degni d’attenzione.

133

4. A che cosa pensa la poesia

A questo punto, mi pare necessario

approfondire il rapporto tra poesia e conoscenza,

confrontandolo con gli assunti dell'epistemologia

post-positivistica, in particolare quelli espressi da

Karl R. Popper, proprio perché egli tiene aperta la

relazione fra verità e linguaggio, ma in un'accezione

assai differente da come la istituisce il poeta

moderno.

Acquisita l'evenienza popperiana che

l’oggettività sia espressione della democrazia (della

«società aperta», che difende la libertà di scelta

individuale dalle chiusure totalitarie),9 bisogna ora

9 Scrive K.R. Popper, a proposito dell'oggettività della scienza, che essa «non è una faccenda individuale» bensì riguarda l'«amichevole-ostile divisione del lavoro» degli scienziati, «e quindi dipende, in parte, da tutta una serie di condizioni sociali e politiche, che rendono possibile questa critica».Id., La logica delle scienze sociali, In AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia. Dieci interventi nella discussione, trad. it. Anna Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1972, p.114. Si confronti inoltre K.R. Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, trad. it. Arcangelo Rossi, Armando ed., Roma 1975, p.186: «L'oggettività, anche della matematica intuizionista, si basa, così come l'oggettività di ogni altra scienza, sulla criticabilità delle sue argomentazioni. Ma ciò significa che il linguaggio diventa indispensabile come medium dell'argomentazione, della discussione critica». Invero, la scienza contemporanea ha abbandonato lo stesso paradigma di "oggettività conoscitiva". Si pensi alle acquisizioni sulla complessità, in particolare le riflessioni di

134

chiarire quale logica la giustifichi, così da

confrontarla con la ratio della parola poetica. L’unica

valida – scrive il filosofo austriaco, capovolgendo la

procedura induttiva che fonda il criterio di

verificabilità – è la «logica deduttiva», nella quale «se

le premesse di una deduzione valida sono vere, deve

essere vera anche la conclusione».10 La confutazione

mira a mostrare la contraddittorietà delle

conseguenze. E cioè: se le conseguenze sono false

(inaccettabili dal punto di vista logico) vuol dire che

false sono anche le premesse. In questo senso,

l’esperienza (il vedere, il toccare ecc.) non è il punto

di partenza della conoscenza scientifica, bensì il

punto d’arrivo. L’avvio è sempre proposizionale,

attraverso un procedere per enunciati elementari,

W.Heisenberg, J. Monod, I. Prigogine, E. Morin, e F. Capra relative al rapporto ordine/disordine, caso/necessità, scienza/arte/filosofia. Ancora più radicale è il pensiero di Paul K. Feyerabend, che riconosce la possibilità della scoperta scientifica proprio nella trasgressione dai metodi codificati, con ciò negando «l'idea di un metodo fisso o di una teoria fissa della razionalità», compresa quella popperiana. Scrive infatti il filosofo che la conoscenza «non è una serie di teorie in sé coerenti che convergono verso una concezione ideale, non è un approccio ideale, non è un approccio graduale alla verità. È piuttosto un oceano sempre crescente, di alternative reciprocamente incompatibili (e forse anche incommensurabili)». Id., Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, trad. it. Libero Sosio, Feltrinelli, Milano 1979, pp.21 – 29. 10 K.R. Popper, La logica delle scienze sociali, in AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia, ed. cit., p.116.

135

aventi la forma di «asserzioni singolari non

autocontraddittorie» (es: in via x abita y; il treno è

partito alle 10,40; ecc.).11

Il principio di falsificazione popperiano, tuttavia,

non si limita ad affermare che «una teoria è

falsificata soltanto se abbiamo accettato asserzioni-

base che la contraddicano»,12 bensì ribadisce la

necessità di scoprire «un effetto riproducibile che

confuti la teoria». Insomma: se esiste un evento

falsificante rispetto ad una teoria e se abbiamo

individuato asserzioni-base che contraddicono

l'ipotesi di partenza, allora la teoria è scientifica, e

questa costituirà un passo ulteriore delle

conoscenze umane verso una verità oggettiva mai

raggiungibile completamente (per questo egli

preferisce parlare di «verisimiglianza»).13 Quanto

11 K.R.Popper, Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, trad. it. Mario Trinchero, Einaudi, Torino 1995, p.74. 12 Ibidem, pp.76 – 77. 13 K.R.Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, ed. cit., pp.84 – 85: «Lo scopo della scienza è la verità nel senso di migliore approssimazione alla verità, di maggior verisimiglianza. [...] La ricerca della verisimiglianza è uno scopo più chiaro e più realistico della ricerca della verità», per questa ragione «possiamo spiegare il metodo della scienza ... come il procedimento razionale per avvicinarsi maggiormente alla verità»; e a p.66: «Le nostre teorie congetturali tendono progressivamente ad avvicinarsi alla verità; cioè a descrizioni vere di certi fatti o aspetti della realtà»; e ancora, con piglio quasi romantico: «Noi siamo cercatori di verità, ma non siamo suoi possessori» (p.73).

136

invece non rientra in questa procedura non è

scientifico, bensì appartiene alle verità dogmatiche

o metafisiche: verità certamente sensate (cioè che

noi possiamo comprendere perché logicamente

ineccepibili), ma che non possiamo confutare e,

dunque, definire scientifiche. È per questa ragione

che Popper nega lo statuto di scienza sia al

marxismo e sia alla psicoanalisi, essendo appunto

apparati proposizionali che hanno un'impostazione

di tipo teologico o, quantomeno, «teistico», e ciò

impedisce di individuare un evento o un'asserzione-

base – un «falsificatore potenziale» – capace di

confutarle.14

La questione, per la poesia, è sostanzialmente

differente: essa infatti – almeno per come la intende

una certa tradizione giunta a compimento nel

Novecento e che qui si vuole sostenere – non

risolve né pone problemi, non decostruisce

14 Si tratta del celebre «criterio di demarcazione», il quale non è «netto», ma ha «esso stesso dei gradi. Vi saranno – continua Popper in Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica (trad. it. Giuliano Pancaldi, Il Mulino, Bologna 1972, p.437) – teorie ben controllabili, altre difficilmente controllabili, ed altre non controllabili affatto. Quelle non controllabili non rivestono alcun interesse per gli scienziati empirici. Possono essere ritenute metafisiche». Si veda inoltre K.R.Popper, Il mito della cornice. Difesa della razionalità a della scienza, trad. it. Paola Palminiello, Il Mulino, Bologna 1995, pp.115 – 122.

137

fenomeni e nemmeno li ricompone logicamente. La

poesia dunque non ragiona (cioè non lega elementi

noti per produrre l’ignoto, che pure era presupposto

nella formulazione del problema), ma pensa

direttamente l’infondato, che è l’uomo stesso nel

suo essere qui, davanti al foglio bianco, in una

tonalità affettiva imprescindibile, ma anche

imprendibile nella sua radice e che il linguaggio

trattiene nella rete multipla delle sue regole. Ciò che

il poeta conosce è la vertigine di quel trattenere

senza proprietà, che è pensiero ossia dialogo

sguarnito di protezioni con la parola che avanza, che

chiama alla responsabilità dello stile. E dunque

scrivere poesie non significa additare qualcosa che

si ritiene vero, conoscendolo attraverso il doppio

cappio della nominazione e del metodo, bensì si

concretizza nel lasciar-essere ciò che siamo nella

sorpresa che questa esposizione comporta, uno

stare dis-locati eppure adesso e qui (qui nella mia

città, con l’acqua che manca, oppure che abbonda,

con mia moglie o senza mia moglie, con un libro in

mano oppure nel bosco, con la paura del nucleare o

con l’entusiasmo per la sua possibilità complessiva).

La poesia pensa nel senso che mette al mondo questo

incontrarsi multiplo di possibilità, mosso e patito dal

138

poeta, sorta di «apparecchio sensibilissimo» che,

come scrisse Antonio Porta, percepisce «il

movimento nel suo stato nascente».15 In quanto

auctor, tuttavia, egli conosce una tecnica per

conservare tale complessità; ed è a questo livello che

la conoscenza strumentale incontra il pensiero

poetante, giacché lo stile altro non è che la

formalizzazione rigorosa di una sostanza

mobilissima, di una nuvola linguistico-retorica il cui

impasto tiene corpo e mondo, affettività e ragione,

passività e desiderio, ma anche il tramandarsi delle

tradizioni entro il cui orizzonte (plurale) noi

operiamo. In questo senso, non si tratta di superare

i padri o di rinnegarli, giacché loro non ci privano di

nulla: io, infatti, sono qui, adesso. Non mi manca

antropologicamente nulla, se non il senso definitivo

per cui sono qui, adesso. E allora scrivo e magari

leggo i padri, per sentire il loro tremore, la loro

stessa fiducia o sfiducia nella parola. Così facendo

scelgo una tradizione e poi necessariamente (con

fatica, ci ricorda Harold Bloom ne L'angoscia

dell'influenza) cerco di liberarmene, per sopravvivere

in quanto autore. Sotto questo aspetto, la

15 Antonio Porta, Il progetto infinito, a cura di Giovanni Raboni, Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma 1991, p.14.

139

conoscenza, in poesia, viene a coincidere con la

ricerca della propria voce e della sua radice, a partire

dalla consapevolezza che questa cresce nel ceppo di

una tradizione mai definitiva, e sguscia sulla pagina

attraverso il corpo e la tecnica, le cose fatte e da fare,

gli amici e i nemici vivi e morti. Dunque, e in

conclusione, quando scrivo un testo mi devo

chiedere: in che senso la mia scelta è vincente,

rispetto a quella dei padri? Quale instabilità

dell’ovvio mette in gioco? Che forza ha nel presente

e come lo apre, come gli consente insomma di

essere ciò che è? Credo che poesia sia conoscenza

nella misura in cui rilancia queste domande, le gioca

nel singolo testo, si gioca in quanto possibilità che

non incancrenisce, estasi diveniente che si

spazializza in differenti dimensioni (grammaticale,

retorico-stilistica, semantica, immaginativa,

simbolica ed etica), adunandole in un corpo testuale,

che «non trova riparo», direbbe la Szymborksa, un

corpo che, come scrive Franco Rella, è «limite e

oltranza [...] confine e sconfinamemento».16

16 Franco Rella Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano 2000, p.80. Anche il verso della Szymborksa, tratto dalla terzina «Ora certa, ora incerta della propria esistenza, / mentre il corpo c'è, e c'è, e c'è / e non trova riparo»), è citato da Rella nel medesimo libro (p.203).

140

5. «Perché scrivi?»

Respiro, il che significa direzione e destino.17 Quando

mi si chiede perché scrivo, io rispondo, con Celan:

perché respiro. Dico: respiro, e scrivo. Scrivo del

verso che si contrae e si dilata, del verso-mantice che

dà fiato al mio 20 gennaio. Così facendo, il verso

traduce in canto «lo scandalo insostenibile della

storia»,18 lo muta in direzione e destino. E tuttavia nel

canto, nel mio canto, direzione è destino. Per me

scrivere è andare incontro, andare verso, tornare.

Verso, ossia volgere, girarsi, così che andare lungo la

direzione sia, anche, tornare nei pressi di dov'ero già

stato. E, da qui, parlare. Fato ha la medesima

etimologia; phatos: detto, sentenza, oracolo. E sorte:

annodare, legare insieme. Dico: respiro, e annodo la

17 Quest'ultimo paragrafo vuole esemplificare quanto sostenuto teoricamente in quelli precedenti. Spero non sia letto come atto di vanità o presunzione. Ciascun incipit in corsivo è una citazione tratta da Il meridiano di Paul Celan. La data riferisce alla «soluzione finale della questione ebraica» decisa nella conferenza di Wannsee, a Berlino, il 20 gennaio 1942. 18 Giuseppe Bevilacqua, Introduzione a P. Celan, Il meridiano ecc., ed cit. p.XIV: «La cosa nuova delle poesie che oggi si scrivono [...] è che in esse si tenta [...] di rimanere ben consapevoli delle "proprie date" ossia del proprio 20 gennaio, del modo in cui a ognuno di noi si è rivelato lo scandalo insostenibile della storia».

141

lingua al presente, indicando una direzione, facendo

il verso alla direzione. Guardo indietro, come

l'angelo di Paul Klee. Riconosco nelle macerie il mio

destino. Inorridisco, in loro vedo intero il mio 20

gennaio, la mia «soluzione finale». Eppure destino è

bifronte. Il futuro è già qui, aperto. Direzione è

destino nell'aperto della lingua.

Qui, dove tutto volge alla fine. L'aperto è tutto ciò

che volge alla fine. Volge, in verità, custodisce il

segreto di direzione e destino, del loro essere

siamesi, come ringraziare e pensare, danken e denken.

La lingua si volge indietro, si fa verso e, così

facendo, versa la fine nel corpo del testo, la tiene

nell'aperto. Tiene nell'aperto quel tutto che volge

alla fine. Null'altro. Perché scrivo? Per tenere vivo

altro, ciò che, non essendo qui, volge all'inizio. Ed è

minuscolo, come il corpo del testo, come il respiro

del corpo quando scrive. Null'altro soffia in tutto ciò

che volge alla fine, lo lascia essere. Null'altro non è

meridiano, non consiste, dalla mia soglia, in «tutto

ciò che unisce»,19 bensì è ciò che lascia nella

disseminazione, null'altro che questo dissiparsi delle

19 P. Celan, Il meridiano ecc., p.21: «Trovo quello che unisce, quello che può avviare il poema all'incontro [...] trovo [...] un Meridiano».

142

esistenze nell'aperto del mondo. La poesia che

scrivo dissipa l'aperto nello spazio del testo,

lasciandogli tuttavia il tempo dell'incontro. Giusto il

tempo di un respiro.

La pausa del respiro – questo sperare e pensare –. Tra

l'inspirazione e l'espirazione, l'istante diventa

attimo, un passaggio dove quel tutto che volge alla

fine mostra il null'altro da cui viene. Null'altro spera,

null'altro pensa, mentre tutto volge alla fine. La

poesia asseconda questo destino caduco, nella

pienezza della luce del pensiero e della grazia. Essa

lascia al respiro il canto del proprio 20 gennaio,

dandogli in dono speranza e pensiero. Dico: respiro,

e già ringrazio il creato di stare tutto nella sua fine.

Scrivo per raccontare questo dono, che mi fa essere

qui, null'altro che qui, a cantare le macerie della

storia e i passi che verranno, nell'aperto del pensiero

della speranza. Scrivo questo dono, che è racconto

degli olocausti ed è parola del signore. Minuscolo

perché, al mio signore, l'increato non appartiene.

Signore è questa creatura, sono io-tu, in equilibro su

null'altro.

143

Arte crea lontananza dall'io. Arte opera per la

lontananza dell'io. Che fa olocausti, come ci

racconta Zygmunt Bauman.20 Io erge steccati,

impone scadenze, erige città. Io redige liste di

proscrizione, compila elenchi per gli obitori. L'arte

invece crea salvezza, allontanando l'io; ecco la lista

di Schindler, il quale dice, disperato: potevo salvare

altri ebrei vendendo la mia auto, perché non l'ho

fatto? Schindler, perdendo se stesso, trova

l'umanità. Allo stesso modo, poesia, la mia poesia,

non è tutta mia. Non la controllo pienamente, non

ne dispongo come fosse uno strumento. Piuttosto,

la verso sul foglio e le vado incontro, ne cerco

l'orma per acquietarmi in essa ed ascoltare la pausa

del respiro: speranza e pensiero. Io sceglie l'ascolto,

20 Zygmunt Bauman, Modernità e olocausto, trad. it. Massimo Baldini, il Mulino, Bologna 1992. Bauman parla di razionalità e burocrazia, di pianificazione, tutti processi legati all'affermazione dell'identità moderna, e, come ci ricorda Max Horkheimer, della ragione strumentale quale leva per l'autoconservazione del soggetto. Scrive infatti il filosofo francofortese in Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale: «Alla ragione soggettiva interessa soprattutto il rapporto fra mezzi e fini, l'idoneità dei procedimenti adottati per raggiungere scopi». Essa «è la facoltà di classificare, la facoltà di induzione e di deduzione, cioè il funzionamento astratto del meccanismo di pensiero, sempre identico quale che sia il contenuto specifico» (trad. it. Elena Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino 1978, p.11). Che l'olocausto sia inscritto nell'organizzazione sociale moderna, e dunque nell'affermazione dell'identico a scapito del differente, lo dice anche Hannah Arendt sia ne Le origini del totalitarismo e sia ne La banalità del male.

144

vuole ciò che deve, in nome di altro: «Parlare per

conto di un Altro – chissà, magari di tutt'Altro», scrive

Celan. Vivere poeticamente è assunzione di questa

responsabilità: io nella quiete canta la morte di Dio,

canta speranza e pensiero, e si libera per la propria

fine, scegliendo altro. Scrivo per preparami a

scegliere, in piena libertà di pensiero, ciò che apre

direzione e destino. Se nella mia poesia direzione è

destino, la prassi vuole invece solco e memoria,

passo e meta. Entrambi separatamente perché poeta

è uomo che cammina fra gli uomini. Non dice io,

ma noi. E ama la festa. Eppure poeta, in generale, è

modello astratto, prigione. Poeta, in verità, si

dissemina in questo e quello. E festa talvolta sta chiusa

nella teca per troppa luce oppure rinuncia al canto

perché il poeta, questo poeta, abita da sempre la

mezzanotte dell'olocausto. Non c'è luna lì e il

mondo dimentica. In questo autunno, Celan scelse

l'aprile della Senna. Il suo viaggio crudele non andrà

a capo: giù, nell'ebbrezza del gorgo, per oltrepassare

la notte. Arte crea lontananza dall'io. Vita offesa,

annienta.

145

Lettere a Tiziano (dialogando con Tiziano Salari)

1. La scrittura della finitezza

Carissimo Tiziano, ho finalmente trovato il

tempo per scrivere qualcosa intorno al tuo bel

saggio,1 che coniuga sia il lutto e sia l’attesa

nell’abitare gioioso del mondo, in quella quadratura

di cielo, terra, divini e mortali che, nel mondo

(Geviert) heideggeriano, si custodisce e felicemente

s’irradia attraverso il linguaggio. Mi è piaciuta, in

particolare, la tua declinazione terrestre della poesia

di Hölderlin, in grazia di Bruno, Vanini e Spinoza,

che certo prelude alla domanda se sia ancora

necessario attendere il ritorno degli dei fuggiti,

1 Tiziano Salari, poeta, filosofo e critico letterario, è nato a Verbania nel 1938 [scomparso nel 2014]. Il riferimento è al saggio Poesia, gioia e lutto dell’abitare?, in “Anterem”, n.67, II semestre 2003, pp.41-45.

146

oppure se basti a se stesso e a noi il luogo in cui

stiamo, privato appunto di quella sacralità cui

Hölderlin, amico di Herder,2 gli attribuisce.

Come sai, del «luogo» in questa accezione parla

Alfonso Cariolato in un densissimo saggio,

additandolo quale coessenziale all’essere presente

dell’ente: «Il luogo, per così dire, trascina la cosa di

cui è luogo fuori di sé e là la mantiene, nell’aldilà di

sé che è la presenza stessa». Nessuna metafisica,

dunque, bensì l’eccedersi della presenza nel suo

essere esposta dal e nel luogo: «Il luogo del finito –

continua il filosofo – [...] è anche il luogo di una

dislocazione originaria, di un’eccedenza, di un oltre,

di una trascendenza lontanissima da quella della

vulgata platonica (non vi è qui alcun Altro) e che

costituisce il carattere proprio del venire alla

presenza, del presentarsi in quanto tale».3 Io credo,

appunto, che la scrittura della finitezza comporti

2 Scrive Luca Crescenzi, nella nota alla lirica Vanini, tre quartine di Hölderlin dedicate al filosofo morto sul rogo nel 1619: «Il richiamo a Vanini è un’implicita dichiarazione di fede panteista nello spirito dello spinozismo e in particolare di Herder, che nel suo scritto Dio. Alcuni dialoghi del 1787 aveva citato l’ode Deo dall’Amphitheatrum vaniniano»; in Friedrich Hölderlin, Poesie, a cura di L. Crescenzi, Rizzoli, Milano 2001, p.118n. 3 Alfonso Cariolato, Il luogo del finito. Ventitre studi, prefazione di Jean-Luc Nancy, Il Poligrafo, Padova 2003, p.19.

147

l’abbandono di qualsiasi modello, di qualsiasi Altro

predeterminato, se davvero lo spazio nomadico, di

cui parla Deleuze in Differenza e ripetizione, non è

nulla fino a quando non viene fatto esistere dalle

presenze in transito. E sono queste ultime, nella loro

singolarità già sempre aperta all’altro, ad eccedere il

senso determinato da ogni precedente topografia,

spazializzandosi indefinitivamente.

A questo punto, c’è da chiedersi: che cos’è (che

cosa scrive) una poesia capace di lasciarsi andare a

questo abbandono, senza piantare radici in esso?

Una poesia insomma che ripartisca il proprio spazio

poetico senza verticalizzare, bensì lasciandosi essere

nella superficie del mondo in quanto presenza, in

quanto voce e corpo assoluti, assoluti proprio

perché senza legami di causalità con l’origine?

Origine in senso metafisico, naturalmente, giacché,

essendo la finitezza già sempre gettata, come ben ci

spiegò Heidegger in Essere e Tempo, sarà la tonalità

affettiva dell’autore a diventare l’Eigen, il proprio

singolare, a marcare insomma la sua parola in un

senso o in un altro, prima di ogni controllo razionale

e di ogni progetto preliminare: l’autenticità

(Eigentlichkeit) di un verso sta, infatti, anche in

148

questo scarto immisurabile tra progetto e opera, tra

concetto e corpo finito del testo.

In effetti, esiste un legame viscerale fra autore ed

opera, nel senso che quest’ultima conserva,

deformandola, la carne stessa dell’autore: nei ritmi,

nei sintagmi, nei suoni, nelle cose che la poesia

nomina o tace, pulsa uno sfondo, un’ombra reale,

palpabile, che dice il proprio dell’autore nonostante

l’autore.4 In questo senso, l’opera è l’esercizio stesso

dell’esistenza quando si scopre finita, esercizio che

trattiene, non soltanto l’indicibile e l’inconfessabile

dell’autore, ma anche quanto egli stesso non può

conoscere, mostrandoli tutti in un mascheramento

(effetto della «resistenza», della «rimozione» e delle

«proiezioni» per usare una terminologia

psicoanalitica) che non può essere evitato e che dà

4 Sull'intera questione poesia e caducità, mi piace ricordare la posizione di un poeta di cui non parlerò in questo libro, ma che è di assoluto valore: Mi riferisco a Andrea Ponso, la cui poesia, come ho scritto altrove, «svolge funzione di levatrice (porta alla luce, rilkianamente, "il bicchiere", "il tavolo", "la mano", "l'ossido dei recinti") ma anche di attrice, di colei che mette in scena un dettato che le viene suggerito da un 'nascosto' la cui natura pulsionale, volitiva, archetipica (come la chiama Francesco Marotta) tiene massimamente mobile il dettato stesso, quel visibile, sempre colto allo stato nascente (e incandescente), che lega il lettore al suo gorgo». Cfr. Stefano Guglielmin, Lo scarto debordante della poesia di A.P., in AA.VV., Leggere variazioni di rotta. 20 poeti dal blog LiberInVersi, Le Voci della Luna, Sasso Marconi 2008, pp.127-128.

149

luogo a un proficuo fraintendimento, sul quale si

giocano la complessità e la pluralità

dell’interpretazione.

A tale questione, se ne collega immediatamente

un’altra; riguarda la funzione sociale della poesia, di

cui oggi si ricomincia a parlare. Io credo che essa, in

fondo, non ne abbia; ma ne copra una più radicale,

che oserei definire antropologica (e che Pasolini

aveva intuito): la poesia non serve né a denunciare

l’ingiustizia né ad alimentare il mistero del poeta o,

viceversa, la sua perdita d’aureola, bensì a mettere in

opera le forze esplicite che hanno mosso e

muovono l’uomo sin dapprincipio: la paura

dell’altrove ma anche, nel contempo, il tentativo di

esorcizzarla; il desiderio del centro, quale luogo del

sacro per eccellenza e la consapevolezza che ciò

costi sovrumane miserie; il bisogno di rifondare il

tempo profano, ritualizzandolo, e il sospetto che

nulla possa sottrarci alla deriva della caducità.

Questioni insomma che mettono in luce la

coappartenenza di luogo e scrittura, segnata dai

sentimenti di esilio e di morte.

Se hai pazienza, vorrei aggiungere altre due

parole sull’esilio, che Nancy fa coincidere, per un

150

certo aspetto, con la morte.5 Da parte mia sono

convinto che, in genere e per lo più, il sentimento

d’esilio cominci nell’adolescenza, quando,

completato il distacco dall’origine tramite

l’esperienza dell’infanzia, l’uomo avverte il peso

della propria gettatezza, quel suo essere qui e ora

carico di responsabilità, ma non scelto fino in

fondo, bensì, appunto, sentito come una lontananza

dall’età dell’oro, sia essa l’infanzia oppure un’età a

venire. Mi vengono in mente due esempi, tratti dal

canone consolidato, in cui il legame esilio e infanzia

è evidente: quelli di Giovanni Pascoli e di Cesare

Pavese.

Pensiamo anzitutto alla vicenda del fanciullino

pascoliano, il cui «stupor leggero», lungi dal fondarsi

in una generica ingenuità primitivistica (che pur

compare nel testo omonimo), ha radice nella

scoperta angosciosa della finitezza, così come la

descrive Cebete tebano nel Fedone platonico: «forse

c’è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore

5 «L’immemorabile è per eccellenza ciò che precede la nascita: l’assente di ogni ricordo verso cui risale senza fine una memoria infinita, ipermemoria o piuttosto immemoria. Al di qua o al di là del memoriale, ossia al di là o al di qua del sé e del soggettivabile: l’oltre mondo (la morte, in questo senso), non fuori dal mondo ma presente proprio qui», Jean-Luc Nancy, Visitazione (della pittura cristiana), a cura di Alfonso Cariolato e Federico Ferrari, Abscondita, Milano 2002, p12.

151

di siffatte cose: costui dunque proviamoci a

persuadere a non avere paura della morte come di

visacci d’orco». A differenza del timoroso Cebete,

Pascoli, a cui dobbiamo la traduzione sopra citata,

non intende tuttavia ammaestrare il fanciullino,

legarne l’intuizione con i lacci del corretto

argomentare – cosa per altro impossibile, come

ammette lo stesso Socrate: «Bisognerebbe fargli

ogni giorno gli incantesimi… per liberarlo da questi

timori»6 – bensì sceglie di lasciarlo parlare nella

pienezza delle sue facoltà, preda dunque delle

«lagrime» improvvise, ma libero anche di gioire di

fronte all’aprirsi delle cose che salvano. In questo

modo, egli colloca poeta ed infanzia in una

prossimità originaria che allevia e consola anzitutto

dalla minaccia della morte, quale altrove imminente

capace di scollare tale intimità in nome del destino

finito di ogni cosa. Ciò accade non soltanto per

questioni di contingenza biografica (l’assassinio del

padre e gli altri precoci lutti familiari, il carcere,

l’ingiustizia del diritto, l’incomprensione di cui

Pascoli sentiva circondati i suoi scritti, sia poetici

che critici), bensì per la forza che la finitezza (e in

6 Platone, Fedone, trad. it, Nino Marziano, Vallardi ed., Milano 1997, p.109.

152

Pascoli la si intenda anche quale beato confine)

viene a giocare nell’intero suo sistema: ecco allora il

nido, la campagna, le parole talvolta umili, talaltra

preziose, tutti recinti in cui l’esilio si fa più

sopportabile e meno doloroso, ma ecco anche quel

sentimento d’impotenza che pervade la ricerca del

vero, preda di un senso della totalità imperscrutabile

ai mortali, appunto perché troppo vasto, di là d’ogni

possibile comprensione. Finito sarà allora il

benevolo recinto domestico, ma tristemente

limitato risulterà altresì l’agire ed il comprendere

umano, comunque sempre proteso ad interrogare il

mistero, in una dialettica che Pasolini, vagliando i

risultati della questione sotto il profilo psicologico-

stilistico, così definisce: «nel Pascoli coesistono, con

apparente contraddizione di termini, una

ossessione, tendente patologicamente a mantenerlo

sempre identico a se stesso, immobile, monotono e

spesso stucchevole, e uno sperimentalismo che,

quasi a compenso di quella ipoteca psicologica,

tende a variarlo e a rinnovarlo incessantemente».7

Nella prospettiva da me annunciata, immobilità

e movimento perdono tuttavia ogni tentazione

7 Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, ed. cit., pp.269-270.

153

contraddittoria, rivelandosi invece aspetti del

medesimo sentimento di finitezza che pervade il

poeta e che troviamo ossessivamente ribadito

specialmente in Myricae, secondo una serialità

modale che già tu avevi riconosciuto: esiste in

Pascoli, scrivi ne Il grande nulla, il «ciclo che

potremmo definire dei morti-viventi» con

«Margherita,/ la pia fanciulla che sotterra, al verno,/

si risvegliò al sogno della vita»; il «ciclo del padre

assassinato», e infine «quello dei bambini morti», il

cui compendio è già presente nel canto d’apertura

del libro, in quel Giorno dei morti la cui chiusa recita:

«I figli morti saranno avvinti al padre/ Invendicato.

Siede in una tomba/ (io vedo, io vedo), in mezzo a

loro, mia madre».8 Temi, questi, che ritroveremo

intatti dodici anni dopo, nella prefazione ai Canti di

Castelvecchio, laddove Pascoli afferma che «la vita,

senza il pensier della morte, senza, cioè [...] quello

che ci distingue dalle bestie, è un delirio»; ed

aggiunge, a buon auspicio, rivendicando alla poesia

il diritto d’essere anzitutto l’espressione più

profonda della finitezza umana: «crescano e

8 T. Salari, Il grande nulla. Percorsi tra Otto e Novecento, Tirrenia stampatori, Torino 1998, pp.43-44.

154

fioriscano intorno all’antica tomba della mia

giovane madre queste myricae [...] autunnali».9

Mentre in Pascoli l’infanzia è una condizione

primeva dello spirito, sopravvissuta al rumore della

civilizzazione e, in quanto tale, esperibile ancora

oggi grazie ad uno «studio» che immetta nel

«giardino dell’innocenza»,10 quella di Cesare Pavese

vive di là della soglia, fuori del tempo e dello spazio,

in un luogo in cui la memoria non ha accesso:

mitizzandosi, essa si sottrae a qualsiasi à rebours,

giacché costituisce ‘la purezza iniziale’, quella

condizione originaria cui ci si può mettere in

contatto soltanto operando uno scarto decisivo

nella temporalità cronologica, un salto faticoso che

trova nell’istintività la sua via: il ricordo ordinario,

scrive infatti Pavese, è già l’effetto di un incontro

con il mondo, la conseguenza pratica di

un’esperienza della quale conserviamo un’immagine

sensibile; per questa ragione, aggiunge, tornare

all’infanzia, quale costellazione di «simboli che

ciascuno di noi porta con sé» prima di ogni

riconoscibile accadimento, non significherà «tanto

risalire il fiume della memoria, quanto rimettersi con

9 Giovanni Pascoli, Poesie, Mondatori, Milano 1997, vol.II, p.167. 10 G. Pascoli, Il fanciullino, in Prose, Mondatori, Milano 1946, p.40.

155

abnegazione nello stato istintivo, o in ciò che ne

resta».11 Una disciplina che in Pavese, come

dimostrano moltissime pagine del Mestiere di vivere,

sfiorò l’ascetismo, configurandosi quale titanico

sforzo di ricerca interiore teso alla conquista della

sorgente, di quella fonte – monocorde ed ossessiva

per tutti, com’egli ribadì in Raccontare è monotono

(manoscritto datato 6-12 agosto 1949) – che, in

quanto mitica, si costituisce quale «interiore

immagine estatica embrionale, gravida di sviluppi

possibili, che è all'origine di qualunque creazione

poetica».12

Impossibilitata sin da subito ad avverare tale

compito, la scrittura pavesiana metterà in opera

invece esilio ed infanzia, come tu stesso ribadisci in

Sotto il vulcano,13 quali emblemi duplicantesi

nell’antitesi ombra-luce, città-campagna, ragione-

istinto, maschile-femminile, inferno-paradiso, tutti

11 Cesare Pavese, L’adolescenza, in Saggi letterari, ed. cit., p.277 e pp.285-286. Già in Feria d’agosto, Einaudi, Torino 1946, pp.226-231. 12 C. Pavese, Il mito, in ID., Saggi letterari, ed. cit., p.315. «Ciascuno ha il suo gorgo» scrive in Raccontare è monotono, ibidem, p.308. 13 T. Salari, Sotto il vulcano. Studi su Leopardi e altro, Rubbettino editore, Soveria Mannelli 2005, pp.251 – 268. In questo saggio, oltre che ribadire la valenza mitica, whitmaniana, del progetto pavesiano, Salari riconduce il concetto di "origine" alla sua valenza atemporale attraverso il mito platonico di Er e Il codice dell'anima di James Hillman (cfr. pp.258 – 261).

156

vissuti quali concrezioni nominabili e

massimamente vicine alla morte, concepita nella sua

valenza simmetrica con il mito, in quanto motrici

entrambi della scrittura: «che cos’è che può

inquietarci, esasperarci, impegnarci fino in fondo

per farsi violare, rischiarare, conoscere, se non

l’inviolato, il presentito, l’ignoto?».14

Tirando qualche somma da questo mio

argomentare vagantivo, se ne ricava, mi sembra, che

pensare la finitezza significhi non soltanto sapere

che l’esilio è la condizione ordinaria del vivere, ma

anche togliere l’inganno che l’origine sia qualcosa di

praticabile; il ché comporta vivere l’erranza senza

nostalgia per il ritorno. Se c’è origine, infatti, essa è

già da sempre perduta (Nancy) e, comunque,

anch’essa – se davvero, come scrive Martin Buber,

la relazione originaria è io-tu – non è identità, bensì

porta con sé il proprio essere-differenza,

l’inconciliabilità e l’incomprensibilità dell’accadere

rispetto alla coscienza che vorrebbe fissarlo

univocamente. In altre parole, io credo che noi

siamo già sempre nella verità della presenza, in un

qui la cui temporalità custodisce il disagio della

14 Ibidem, p.319.

157

smemoratezza dell’Inizio e l’ottimismo del

muoversi-verso il luogo in cui già siamo. Un

ritornare che non ha le caratteristiche dell’uscire

dall’inautentico, come molta scrittura

contemporanea lascia intendere, bensì la forza

dell’approfondire il proprio luogo, quell’io

singolare/plurale che è già sempre comunità.15 In

questo senso, è verissimo che, come scrive Flavio

Ermini, «rispondere all’appello dell’origine significa

sospendere il tessuto della continuità storica»,16 ma

non possiamo dimenticare che la gettatezza di cui

sopra ci impedisce di sradicarci da quella continuità:

si tratta di una lotta i cui esiti rendono concreti non

soltanto i differenti stili, ma le stesse ragioni

ideologiche. Chiaro che se l’io abbandona la

presunzione d’essere giudice del divenire, il bene e

il male perdono di assolutezza, diventando quel

bene, quel male, sui quali prendere posizione; e così

capita anche alla salvezza: ci si salva nel senso che si

esce da un luogo per entrare in un altro: la salvezza

è quel passare, quell’esser-capaci-di-scelta, pur

15 Sulla questione, cfr. nota 2 del saggio precedente. 16 Flavio Ermini, Il bozzolo del grande fiore, in AA.VV., La bi-logica, fra mito e letteratura, a cura di Pietro Bria e Fiorangela Oneroso, Franco Angeli Editore, Milano 2004, p.132.

158

sapendo che dal labirinto non si esce.17 Insomma:

non ci si salva per sempre (che è una categoria che

non appartiene ai mortali), bensì temporaneamente,

in quel tempo opportuno (kairos) dove scegliamo la

relazione, l’incontro, la parola, anziché la guerra, la

contrapposizione e il silenzio risentito.

17 Secondo la celebre definizione di Italo Calvino nel saggio La sfida al labirinto, in ID., Una pietra sopra, ed. cit., p.116.

159

2. Bellezza e verità dopo Baudelaire

Caro Tiziano, mi chiedi un’opinione su Il grido del

vetraio;18 credo che, per meglio riconoscerne la

natura, convenga anzitutto indagare la specificità del

dialogo che esso inscena, giacché si scosta sia dalla

dialettica platonica, in cui il discorso ipotetico si

gioca nella relazione fra universale e sua

declinazione particolare, e sia dallo "stare in

posizione", tipico del confronto generazionale. È

pur vero che Mario Fresa (classe 1973) assume un

ruolo interlocutorio, ma ciò accade soltanto di

sguincio, poiché l’intenzione che lo guida non è

tanto la soddisfazione di una lacuna personale o

l’imposizione di un punto di vista, bensì la conferma

e l’approfondimento di un assunto di fondo,

condiviso a priori da te. Il dialogo dunque diventa

l’occasione per sviscerare una complessità, i cui

presupposti si sostanziano nell’evidenza di una

correlazione tra forma, bellezza e verità, a partire

dalla coincidenza, affatto nietzscheana, dell’essere

con il divenire e della sostanza con l’apparenza. Se

18 Mario Fresa, Tiziano Salari, Il grido del vetraio. Dialogo sulla poesia. Nuova frontiera, Salerno 2005.

160

Fresa, chiamando in causa l’esperienza di Juan de la

Cruz e la nozione di sacro avanzata da Walter Otto

ne Il volto degli dei, discorre sul misticismo,

enfatizzando la perdita dell’io quale condizione

dell’incontro con la Verità, tu gli riporti l’attenzione

alla specificità dei moderni, che, con i romantici e

Baudelaire, hanno dato vita alla figura del poeta

‹‹straniero senza famiglia né patria, che spasima per

la bellezza›› ed è alla ‹‹ricerca di un senso all’accadere

di qualsiasi evento nel mondo, una volta rescisso il

legame con una totalità metafisica››.19

Su questa base – che certo presta il fianco, per

esempio, tanto ad una tradizione poetica cattolica

(che ha nei valori evangelici il proprio fondamento)

quanto al poetare d’impianto marxista (il cui

materialismo dialettico sfiora la fede nelle ragioni

conflittuali della Storia) – il dialogo sviluppa alcune

tematiche di assoluto rilievo, anzitutto quella

relativa al rapporto tra scrittura critica e scrittura

poetica, accomunate qui dal concetto di ‹‹creatività››,

laddove la s’intenda un andare avventuroso e senza

ripari, che trasforma i margini del mondo

19 Ibidem, p.13 e p.15.

161

conosciuto ‹‹in transiti››,20 in crocevia aperti al

pensiero mosso dalla ‹‹passione per la Verità››.21 Lo

stampatello maiuscolo rischia tuttavia di ingannare

il lettore: poesia e critica – secondo quanto

premesso – germogliano infatti dallo sfondamento

dell’Universale, per darsi, come sorgive, nel farsi

della scrittura, giacché essere e nulla, dio e uomo, si

toccano nella concretezza della singolarità, che

agisce ‹‹come Saul, il quale era partito per cercare le

asine di suo padre e trovò un regno››: citazione che

tu riprendi da L’anima e le forme di Lukács e che

rivendica appunto l’agire pratico (e dunque etico)

dell’uomo che, nell’allegoria della scrittura, incontra

i propri confini ontologici e dialoga fecondamente

con essi.22 Verità de-teologizzata, quindi, e mai data

20 F. Ermini, Ritratto di poeta come cavaliere con la spada, postfazione a M. Fresa, T. Salari, Il grido del vetraio, cit., p.36. 21 Ibidem, p.26. 22 T. Salari, Le asine di Saul. Per una ripartizione dello spazio poetico, Anterem, Verona 2004, p.50. Il libro organizza la propria materia a scansioni cronologicamente lineari e per piccoli nuclei concettuali tesi a promuovere il ripensamento del canone moderno, a partire da una prospettiva ontologica, capace di coniugare poesia e filosofia. Scelta vincente in ordine alla chiarezza e all’univocità, che si fa intrigante e fecondamente frastagliata quando sfocia nel Novecento. Qui il piglio tendenzialmente divulgativo lascia il passo ad un procedere che, come nel ‹‹nomos… senza proprietà›› di Deleuze o nelle ‹‹Asine di Saul›› raccontate da Lukacs ne L’anima e le forme, crea uno spazio originale, delimitato dallo stesso avanzare del pensiero, alla ricerca di una tradizione italiana, che si sia fatta carico del problema dell’essere e del suo senso. Ecco allora Arturo Graf e Angelo Conti, Enrico

162

per sempre, proprio perché si incarna ogni volta da

capo nello stile singolare dell’autore, che pure, alla

Rimbaud, è pensato, è scritto, quasi che l’auctoritas

gli venisse dal suo essere in ascolto vigile della

propria finitezza, da quel suo farsi orecchio

appassionato del mormorio abissale, di quel

mormorio in cui l’essere, oggi, si lascia pensare.

Secondo la prospettiva del Vetraio, il fatto che

l’essere depotenziato si muova e sia mosso nella e

dalla scrittura, toglie qualsiasi pretesa mistica

all’incontro con il vero, spostando invece

l’attenzione alla ‹‹forma›› (questione che Fresa

Thovez e i vociani (tra i quali spicca Carlo Michelstaedter), e il filosofo Giuseppe Rensi, forse il primo a sdoganare Leopardi dal crocianesimo. Il secondo Novecento è attraversato con rapidità da Salari, il quale si ferma al momento in cui l’interpretazione moderna della letteratura italiana va in crisi, sul finire degli anni Settanta, quando la celebre antologia portiana inaugura la possibilità dialogica della poesia, di contro alla canonizzazione rigida di un modello, com’è stato fino ai Poeti di Mengaldo (ma non mancano passaggi in cui il ritorno all’ordine dell’industria culturale contemporanea viene amaramente commentato dall’autore, leggendolo come ‹‹la morte della poesia››). Il fatto è che Salari da sempre scrive contro l’incubo della storia e l’angoscia di saperci sospesi tra due vuoti: una navigazione babelica, la sua, che assomiglia a quella di Odisseo, un andar per mare spinto da un’ansia tutta interiore, verso la propaggine di una terra che si chiama autobiografia. Anche quest’ultimo saggio (‹‹Introduzione [...] di una più ampia ricerca che porta il titolo Poesia e senso dell’essere››) costituisce un temporaneo approdo, una messa in forma provvisoria della presenza dell’autore nel mondo, come lo fu, per Leopardi, ogni pensiero dello Zibaldone. In questo senso, l’aver ripercorso due secoli di storia letteraria europea in parte già consolidata, non si scopre mera erudizione, bensì viaggio emozionato assieme ai fratelli maggiori, a quegli uomini che hanno saputo sopportare, prima degli altri, la ‹‹solitudine del poeta›› nella civiltà moderna.

163

affronta magistralmente), forma che è il finito del

testo, il suo bordo sintagmatico e paradigmatico,

che tende a tracimare nella misura in cui, pur

conservandosi in quanto modello, lascia essere la

pluralità del senso, tenendo heideggerianamente

vicini, poetare, pensare e ringraziare.23 Tali esercizi

creativi (continua il Vetraio) – che, attraverso la

forma e la bellezza, danno figura all’apparire del

vero, appunto perché legati alla prassi – conducono

aristotelicamente alla felicità, ‹‹che è l’aspirazione

ultima dell’uomo››.24 Conclusione, questa, che

supera d’un colpo uno dei miti (da sfatare) della

modernità, e che già Franco Rella aveva rilevato in

Miti e figure del moderno, ossia l’idea che la malattia sia

l’altrove capace di liberare il soggetto dal tempo

della storia, isolandolo in un luogo di maledetta

beatitudine – sia esso la Castalia o l’Oriente

23 Concetto poi ripreso da Paul Celan in Allocuzione al premio letterario "Città anseatica di Brema" (1958): «Denken (pensare) e Danken (ringraziare) hanno nella nostra lingua la stessa identica origine. Chi ricerca il loro significato si porta nel campo semantico di: gedenken (richiamare alla memoria), eingedenk sein (essere memori), Andenken (pio ricordo), Andacht (devozione)», in Id., La verità delal poesia. Il meridiano e altre prose, trad. it. Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p.34. In Heidegger, del resto, la tensione-torsione tra Dichten (il poetare), Denken, Danken e Andenken emergono già nella Lettera sull'Umanesimo (1946) e si approfondiranno ne In cammino verso il linguaggio (1959). 24 M. Fresa, T. Salari, Il grido del vetraio, cit., p.16.

164

hessiani, la casa di cura della Montagna incantata,

l’epilessia del Principe Myskin o la nevrosi di

Flaubert – dove votarsi ad una mistica della

profondità che già Nietzsche, nei Frammenti

postumi 1888-1889, aveva criticato.25 Giustamente

t’interroghi, a questo proposito: ‹‹Non si tratta più

di trovare l’espressione giusta per il grido del

vetraio, ma di far risuonare (sentire) nelle parole il

disincanto del mondo? O forse questo è il passato

(l’incubo) da cui ci dobbiamo risvegliare?››.26

Che cosa significa, tuttavia, risvegliarsi dal

‹‹disincanto del mondo›› (e dall’idea che il dolore sia

la condizione sine qua non per accedere allo scrigno

sepolto del vero), sganciandosi di conseguenza da

una tradizione che ha infettato particolarmente la

cultura europea degli ultimi due secoli? Te lo chiedo

perché, se è vero che l’angoscia della perdita del

centro va superata dal di dentro, assumendola

nietzscheanamente fino in fondo, occorre anche –

per la cultura italiana – un ripensamento della logica

di Leopardi, padre del nichilismo moderno, un

rimettersi ad essa che consenta lo scarto di lato, così

25 Franco Rella, Miti e figure del moderno. Letteratura, arte e filosofia, Feltrinelli, sec. ed. ampliata, Milano 2003, pp.46-52. 26 M. Fresa, T. Salari, Il grido ecc., cit. p.23.

165

che il nulla fondante (malgrado l’apertura al

consorzio civile della Ginestra) non sia buco nero

che assorbe l’avvenire, bensì terra fertile, solco sul

quale scommettere un destino; in questo,

l’immagine di Nelly Sachs – ripresa da Ermini e,

altrove, da Galaverni,27 del poeta cavaliere con la

spada che, scrivendo, assalta la vita (‹‹un cavaliere

appiedato con la divisa lacera››28 precisa Ermini, per

toglierle connotazioni romantico-apocalittiche

presenti nella stessa Sachs) – è assai appropriata,

appunto perché recupera la figura del soggetto ma

nell’accezione postmoderna, ossia di colui che si

orienta parzialmente nella realtà rizomatica, e

gode/patisce del proprio essere comunità, punto di

vista dialogico, snodo e antenna che mette in forma

le voci sue e non sue in sequenze verbali in cui la

tecnica passa in secondo piano, cosicché la forma

sia, appunto, forma di vita, quel dischiudersi

dell’essere, la cui verità e bellezza risiede nel suo

essere qui, sparpagliato nell’esistenza.

27 Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. Una difesa della poesia, Fazi, Roma 2006. 28 F. Ermini, Ritratto di poeta come cavaliere con la spada, cit. p.35.

167

Canone e finitezza

1. Letteratura, storicità, ontologia

La riflessione che segue pensa il legame tra

letteratura e ontologia a partire dalla rinuncia

dell’essere impronunciabile, così come suggerisce

Jean-Luc Nancy ne L’essere abbandonato, al fine di

lasciarlo essere, appunto, in quanto fioritura

singolare ed in sé mancante di nulla, che ha luogo

ogni volta daccapo nelle cose che sono. Per quanto

ci riguarda, questo significa che, in ogni opera

letteraria, la finitezza si gioca interamente, venendo

a coincidere con l’aver-luogo, nel linguaggio, della

singolarità dell’esserci, la quale è già sempre gettata

168

in una rete di comunicazioni significative, in

un’apertura storico-linguistica dove gli altri «non

sono coloro che restano dopo che io mi sono tolto

[…] [bensì] quelli dai quali per lo più non ci si

distingue e fra i quali, quindi, si è».1

Affermare che la finitezza si affida alla

letteratura, al modo di un’unità sorgiva che feconda

diversamente ciascuna scrittura,

nell’inconsapevolezza parziale dell’autore,

comporta il disconoscere alla letteratura familiarità

essenziale sia con la poiesis sia con la praxis e

dunque con tutta quella serie di fatti, vincolati

all’intenzionalità, che appartengono alla

progettualità storica. E nondimeno la letteratura è,

anche, una téchne, con il suo armamentario di

competenze settoriali ed il suo laboratorio, così

com’è il frutto pratico della volontà degli uomini,

nella misura in cui consiste in una scelta (linguistica,

stilistica, ideologica, filosofica ecc.). In tale reticolo

– dove òntos, praxis e téchne, incontrandosi,

sostanziano la letteratura – ad essere oggetto di

riflessione storiografica non può essere la finitezza,

bensì la sua espressione ontica, transitoria,

1 Martin Heidegger, Essere e Tempo, ed. cit., p.153.

169

quell’insieme di cose letterarie (cui la tecnica e la

prassi rinviano), le quali incontrandosi, alleandosi,

scontrandosi, danno vita (prima di estinguersi)

all’intreccio sommamente complesso e plurale che

si chiama storia della letteratura.

L’essere così dell’Esserci, d’altro canto, si trova

in una relazione essenziale, attiva e niente affatto

pacifica con l’apertura storica in cui è, una relazione

di coappartenenza, resa effettiva – nei suoi attriti e

nelle sue concordanze – dal linguaggio. In questo

senso, l’opera, che sia capace di lasciar essere fra le

proprie maglie l’irripetibile alterità dell’io

singolare/plurale, rischiara non un aspetto qualsiasi

del movimento storico cui quest’ultimo appartiene,

bensì la problematicità essenziale (colta da una

specifica prospettiva) che ciascuna apertura storico-

linguistica implicitamente possiede, quel fondo

indescrivibile ma reale, quella linea d’ombra esposta

sul nulla che costituisce l’orizzonte insuperabile ed

inquieto della coappartenenza stessa.2 Ciò avviene,

come detto, a patto che l’autore sia riuscito davvero

2 Un concetto analogo è espresso da Giorgio Agamben in Che cos'è contemporaneo (Nottetempo, Roma 2008, p.9): la contemporaneità, scrive, è «quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo» (in corsivo nel testo).

170

a scrivere in prossimità del proprio margine; in

prossimità, si badi bene, non sul bordo estremo,

giacché questo è irraggiungibile, essendo la parola

personale già sempre compresa entro un orizzonte

linguisticamente dato, sia quest’ultimo identificabile

nella «langue» saussuriana, oppure nella sommatoria

di giochi linguistici fra loro familiarmente uniti,

come nel Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, o sia

esso invece, heideggerianamente, il luogo in cui il

«Dire originario» resta custodito.

Senza entrare in merito alle specifiche posizioni

e dando invece per acquisito il concetto cui tutte

rinviano (e cioè che nessun parlante inventa ex novo

un linguaggio e che, anzi, il linguaggio ordinario

mette in forma la realtà del parlante; ma anche – e

questo è decisivo – che ciascuno ha un margine di

libertà, uno scarto, entro cui giocarsi la propria

collocazione), possiamo affermare, per contrasto,

quanto segue: qualora il lasco dal bordo estremo

non sia avvicinato e frequentato dall’autore, l’opera

e la stessa finitezza che in essa respira risulteranno

sempre meno singolari, fino ad annullarsi quasi

completamente entro l’apertura epocale cui

appartengono, come afferma, pur con altri

presupposti, l’«estetica della ricezione» di Hans

171

Robert Jauss, allorché riconosce all’opera di valore

la capacità di creare una distanza fra se stessa e

«l’orizzonte di attesa» del pubblico, aggiungendo

che, «nella misura in cui questa distanza diminuisce,

e alla coscienza del ricettore non viene chiesto

nessuno spostamento sull’orizzonte di

un’esperienza ancora ignota, l’opera si avvicina

all’ambito dell’arte dozzinale o di intrattenimento».3

3 Hans Robert Jauss, Perché la storia della letteratura?, a cura di Alberto Varvaro, Guida, Napoli 1969, pp.44-45. Si veda anche l’analoga prospettiva di Harald Weinrich nella sintetica ricostruzione che ne fanno Andrea Battistini e Ezio Raimondi ne Le figure della retorica, Einaudi, Torino 1984 e 1990, pp.499-500. Anche Agamben, nel saggio citato nella nota precedente, ribadisce: «Coloro che coincidono troppo pienamente con l'epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa» (pp.9-10).

172

2. L’eversione della finitezza ed il canone

fisiologico

Esistono dunque differenti gradi in cui opera e

finitezza si incontrano, fino a quello minimo, dove,

per parafrasare Saussure, la «parola» dell’opera è

tutta compresa e dispiegata nella «lingua» della

civiltà d’appartenenza, senza scarti se non quelli –

aggiungiamo noi – minuscoli ma essenziali, prodotti

dall’irriducibilità dell’Esserci singolare/plurale. E

quanto più profondamente la parola attinge

dall’infondatezza esposta che ciascun Esserci è,

tanto più l’opera sarà potenzialmente

destabilizzante per l’apertura storico-linguistica in

cui essa s’insemina, appunto perché ne svela, anche

senza volerlo, l’instabilità di fondo.4

Per confermare tale assunto e per sottolinearne

le conseguenze, pensiamo alla Commedìa dantesca,

alla sua feconda resistenza alla realtà del Trecento,

4 Lo stesso concetto, ma con un’intenzione neutrale, è affermato da Roland Barthes nel breve saggio Storia o letteratura?: «L’opera è essenzialmente paradossale, è segno della storia e insieme resistenza ad essa. [...] Tutti sentono chiaramente che l’opera sfugge, che è altro dalla sua storia, dalla somma delle sue fonti, delle sue influenze o dei suoi modelli». In Giuseppe Petronio, Teoria e realtà della storiografia letteraria. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1981, p.114.

173

sia esso concepito sotto il segno della croce

cristiana, oppure rispetto alla cognizione di patria

guelfa o ghibellina, in Firenze, oppure, ancora, nei

confronti del modo ordinario di intendere il

‘comico’ ed il ‘sublime’ nella retorica coeva.

Resistenza che – proprio per la sua forza eversiva

rispetto ai fattori stabili del suo presente – si

tradusse in marginalità, almeno fino a quando

l’epoca non trovò il farmaco in grado di rifondarne

il valore, secondo l’utile che le convenne. Nello

specifico, tutto questo significò un immediato

sfruttamento ecclesiastico finalizzato a dominare i

fedeli con immagini forti dell’aldilà, ma comportò

anche la difficoltà, da parte delle epoche successive,

di ricavarne un’ideologia funzionale; obiettivo che

fu infine raggiunto – per quanto riguarda l’Italia –

nel Romanticismo risorgimentale, età in cui il

toscano colto risultò linguisticamente perfetto,

nell’insieme dei valori trasmessi, al liberalismo

moderato ottocentesco (si pensi al Manzoni), e

Dante divenne l’eroe dell’amor patrio (da Alfieri a

Foscolo, da Mazzini, Giusti fino a Carducci, senza

dimenticare il Leopardi delle canzoni Sopra il

monumento di Dante e Ad Angelo Mai) oppure, negli

scrittori cattolici, il primo fautore della coscienza

174

religiosa quale fondamento della libertà individuale

(cfr. il Tommaseo).

Ad ogni modo, ciascuna apertura storico-

linguistica economizza queste tensioni conflittuali,

per esempio sfruttando le possibilità che esse

offrono, sia rispetto agli autori viventi (per la

rimessa in discussione degli equilibri di potere: a

livello di distribuzione delle cattedre universitarie e

della politica culturale, o di formazione di un

mercato di nicchia o, ancora, di equa distribuzione

dei premi letterari) e sia rispetto al passato, per una

più solida genealogia. Questa seconda prospettiva

spiega, a distanza secolare, la necessità fisiologica di

un canone letterario che riconosca una linea

maggiore d’autori e di opere, adeguatamente

contestualizzate in una periodizzazione credibile,

capaci di supportare ideologicamente la forma

acquisita da una civiltà, secondo il modello a suo

tempo riconosciuto criticamente da Nietzsche (e qui

invece pensato come fisiologico – ossia necessario

– alla modernità), quando parla di «storia antiquaria»

quale conseguenza della «felicità di non sapersi del

tutto dispotici e casuali, ma di saper di svilupparsi

da un passato quali eredi, fiori e frutti, e di essere

perciò perdonati, anzi legittimati della propria

175

esistenza».5 In questo senso sarà inevitabile, per noi

europei occidentali, riconoscere ad Eschilo, la cui

opera complessivamente fonda la necessità dello

stato di diritto, maggiore autorevolezza rispetto a

Cecco Angiolieri (che potremmo definire:

catastrofista anarchico) al quale, altrettanto

inevitabilmente, preferiremo sia Dante che Petrarca,

il cui Canzoniere fu modello di stile per i letterati

successivi, ma non certo per l’intraprendente

borghesia comunale, dalla quale pur assimilò uno

spiccato individualismo, e nemmeno per la Chiesa,

preoccupata com’era ad insegnare il disvalore del

corpo e ad affermare la regula fidei tomista.

Autori destabilizzanti nell’epoca in cui vissero,

Dante e Petrarca furono tuttavia utilissimi in

seguito, per giustificare lo spirito avventuroso

eppure posato della modernità e la temperata

solitudine non ancora diventata alienazione che la

contraddistingue. Più difficile sarà, per la civiltà

platonico-cristiana cui apparteniamo (pensata qui

nella secolarizzazione liberal-capitalistica)

trasformare in classici – e dunque in pilastri fondanti

5 Friedrich W. Nietzsche, Sulla storia. Utilità e danno della storia per la vita, a cura di Angelo G.Sabatini, Club del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1981, p.108.

176

il presente, con tutta quella carica didattico-

pedagogica che una storiografia letteraria comporta

– quelle opere in cui si mostrano la nuda alienazione

o il «male di vivere», l’assurdo o la «schizofrenia

universale», quali condizioni ordinarie dell’esistere.

Il fatto che, nonostante tutto, molti scrittori

occidentali dell’Otto-Novecento – pur

evidenziando nelle loro opere, inequivocabilmente

e sotto diversi aspetti, il disagio della civiltà (da

Leopardi a Nerval, da Rimbaud a Joyce, da

Lautrémont a Mann, da Pirandello a Svevo da Eliot

a Beckett, da Kafka a Borges) – stiano acquisendo

(o abbiano acquisito) lo statuto di classici, significa

semplicemente che il rapporto fra storiografia

letteraria e civiltà occidentale non è lineare né

pacifico. Se infatti la prima, al suo nascere, ha

cercato di diventare funzionale allo sviluppo del

principiante capitalismo (si vedano, per tutti, la

Storia della letteratura antica e moderna di Friedrich

Schlegel e la Storia della letteratura italiana di

Francesco De Sanctis), complicherà in seguito il

proprio rapporto con quest’ultimo, secondo almeno

cinque linee di sviluppo: 1) rivendicando il diritto di

autonomia di giudizio nell’ambito estetico (fino alla

posizione estrema di Benedetto Croce il quale,

177

riconoscendo alla monografia il compito precipuo

della critica, nega la possibilità stessa di una storia

letteraria); 2) costruendo un anti-canone, sul

modello della critica engelsiana, in cui gli autori

sono scelti in base alla loro capacità, magari

inconsapevole, di esprimere tendenze sociali

oggettive o di anticipare una possibile forma di vita

sociale alternativa a quella reificata, come ribadisce

l’estetica francofortese;6 3) coniugando lo specifico

letterario con l’avalutatività, l’oggettività, la

sistematicità e la verificabilità del metodo

scientifico. Pretese avanzate dallo strutturalismo e

dalla semiologia, da un lato, e dalla filologia

dall’altro, tutte discipline generalmente poco

interessate alla storiografia; 4) riconoscendo, con

Giacomo Debenedetti e Italo Calvino, una

coincidenza analogica (ma non metodologica) fra lo

sviluppo della ricerca scientifica ed il fare della

letteratura; 5) affermando l’impossibilità di costruire

un modello epistemologico valido per l’intera

apertura epocale, in seguito alla parcellizzazione dei

6 Sulla questione, si veda anche il saggio di Fausto Curi, Canone e anticanone. Viatico per una ricognizione, in “Intersezioni”, XVII, dicembre 1997, pp.495-511.

178

punti di vista sulla Storia, come per esempio

sostiene Remo Ceserani.

Tutte queste posizioni, delle quali ho dato per

brevità di spazio una sommaria e certamente

inadeguata sistematizzazione, hanno un aspetto in

comune: pur sostenendo – fra gli altri – autori poco

consoni alla fisiologica sopravvivenza

dell’ottimismo moderno, premono egualmente

sull’apertura storico-linguistica affinché i risultati

delle loro ricerche siano condivisi. E lo fanno,

inevitabilmente, entrando in relazione con i nuclei

forti della stessa: anzitutto con l’Università, che

detiene in pratica l’esclusività dei ‘discorsi sulla

letteratura’, e, in secondo luogo, con l’industria

culturale, case editrici e riviste letterarie in testa,

tutte a sostenere, in armonia con l’accademia

oppure in conflitto con essa, canoni militanti.

In definitiva, canone fisiologico significa proprio

questo: la necessità pratica, pertinente dunque alla

decisione politica ed economica, di fondare il

proprio modello di sviluppo su di una tradizione

culturale autorevole; ma anche l’inevitabilità

dell’incontro/scontro fra questo bisogno fisiologico

e l’ingegno della critica storiografica, pioniera nello

scandagliare possibili, e dunque memorabili,

179

soluzioni. In base poi al potere acquisito da una

determinata corporazione letteraria, il canone

proposto migliorerà in durata, andando a rinforzare

(salvo leggeri aggiustamenti, altrettanto fisiologici)

quello al momento dominante.7 Un chiaro esempio

di tutto ciò, lo troviamo nel dibattito maturato negli

Stati Uniti tra gli anni Ottanta e Novanta, tra la

posizione che, come scrisse David Demby, pensa

alla letteratura quale «corpo di nobili (e statici) valori

che dovrebbero essere inoculati a ogni generazione

di studenti americani» e, dall’altro, quella prodotta

dalle spinte femministe e radicali (da Donna

Haraway ad Harold Bloom) verso l’apertura

canonica alle minoranze etniche e alla letteratura

della differenza sessuale.8

7 Analoga la posizione di Guido Mazzoni: «Il giudizio del tempo non è altro che la santificazione postuma di un arbitrio, il tentativo di attribuire un ingiustificato valore universale a testi, immagini del mondo, valori che hanno trionfato al termine di uno scontro combattuto in nome della pura volontà di potenza: la lotta di uno scrittore per sovrastare gli scrittori rivali; la lotta di una cordata letteraria per acquisire visibilità a scapito di altre cordate; la lotta di un gruppo sociale contro i gruppi concorrenti per trasformare i propri gusti in gusti di tutti. [...] In questa ottica, il vincitore della battaglia per la memoria non incarna lo Zeitgeist, ma il trionfo di un interesse contingente su un altro interesse contingente, di un egoismo su un altro egoismo». In Id., Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna 2005, p.18. 8 David Denby, Grandi libri, trad. it., Lucia Olivieri, Fazi, Roma 1999. Citato da Massimo Onofri, Il canone letterario, Laterza, Bari 2001, p.23.

180

3. Canone fisiologico e storiografia letteraria

Nel paragrafo precedente s’è affermato che

esiste un margine entro cui la singolarità gioca la

propria irripetibile collocazione, una soglia dalla

quale la scrittura, liberandosi parzialmente del già

detto, dona al lettore una porzione d’inaudito.9

Nella storiografia letteraria, questa convinzione

viene generalmente fatta coincidere con il concetto

di ‘originalità’. Ad essa, quale che sia la sua forza

condizionante, i differenti indirizzi poetici danno

comunque valore, anche quelli che impongono

strette griglie retorico-stilistiche cui attenersi: i canti

trobadorici, per esempio, oppure il petrarchismo

cinquecentesco, dove lo stereotipo viene appunto

superato attraverso l’uso ‘creativo’ dell’imitazione,

oppure, ancora, la poesia pastorale dell’Arcadia, i cui

9 La certezza che l’opera non si esaurisca nella sommatoria delle tensioni interne ad un’apertura storico-linguistica, bensì possegga una qualità sua propria, tale da renderla irriducibile a qualsiasi genotipo intertestuale, appartiene da decenni anche al bagaglio della critica marxista: si pensi agli studi sulla musica beethoveniana di Hanns Eisler e allo strutturalismo di Louis Althusser, dove l’autonomia del «materiale artistico» è relativamente garantita. Sull’argomento cfr. Helga Gallas, Teorie marxiste della letteratura, trad. it. Giorgio Backhaus, Laterza, Roma-Bari 1974, pp.227-229.

181

moduli tematici e formali trovano ragione nella

capacità soggettiva di ricombinarli in soluzioni

nuove. In questo senso, l’originalità – diventando

sinonimo di forza innovativa – viene riconosciuta

quale discriminante soggettiva della discontinuità, di

ciò che costituisce la portata individuale e tutta

interna del divenire letterario, in correlazione con il

processo, anch’esso molteplice e discontinuo, della

Storia tout court. Le maggiori opere già canonizzate

da una tradizione altro non sono, in tal senso, che la

risultante dell’incontro/scontro dei due momenti,

secondo una modulazione assai problematica e

risolta differentemente dai singoli indirizzi storico-

letterari. Questo significa, in altri termini, che il

canone fisiologico, se sotto il profilo didattico-

pedagogico e ideologico contribuisce a creare una

genealogia autorevole ad una specifica civiltà,

rispetto invece alla discontinuità, altro non è che la

sommatoria – accuratamente registrata e

organizzata dalle diverse scuole storiografiche

secondo il proprio modello ermeneutico – delle

forme assunte dall’attività letteraria nei secoli, a

partire dai ruoli giocati dai molteplici attanti, primi

fra i quali l’autore, il sistema socio-economico e i

lettori. Autore che diventa protagonista della

182

triangolazione nella misura in cui riesce ad imporre,

attraverso il testo e la prassi biografica, il proprio

modello estetico su quelli esistenti e ad influenzare i

successivi, in un intreccio con gli altri attanti la cui

complessità ci è poi raccontata, appunto, dalla

storiografia letteraria.

L’insistenza sulla terminologia narratologica non

è casuale; fa invece riferimento all’idea, non nuova,10

secondo cui la storiografia usi con tale frequenza

strategie narrative, per mettere a fuoco la verità del

discorso, da confondersi pienamente con la

letteratura a tutto tondo. Esasperando questa

prospettiva, potremmo affermare che gli storici

della letteratura, ciascuno secondo i meriti e gli

interessi propri, contribuiscano a riscrivere – con

minuscoli aggiustamenti sulla versione fornita loro

dalle scritture precedenti, dovuti al diverso accento

posto sugli autori, sul testo, sul sistema socio-

economico, oppure, ancora, sul lettore – il grande

romanzo della letteratura (per esempio italiana) in

una mobile mescolanza di generi e di ruoli degli

10 Cfr. Gianni Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Garzanti, MI 1985, pp.16-17, Remo Ceserani, Raccontare la letteratura, Bollati Boringhieri, TO 1990, pp.17-32; Jerome Bruner, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, trad. it. Mario Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2002, pp.3-69.

183

attanti, tesa comunque a confermare, pur con

differenti orientamenti ideologici, quell’indole

didattico-pedagogica già riferita in precedenza. Ma

ciò che più conta riposa nel fatto che questo

lunghissimo romanzo borghese,

inconsapevolmente progettato da Girolamo

Tiraboschi nel secondo Settecento e cominciato

effettivamente dallo Schlegel, ha ormai consolidato

i nomi dei protagonisti, per cui da essi non è più

possibile prescindere, almeno fino a quando

rimarranno invariate le strutture storico-linguistiche

dell’Occidente. Ma se davvero lo storico della

letteratura non può prescindere dal canone

impostosi tradizionalmente (giacché egli appartiene

alla medesima tradizione e non ha dunque appigli

esterni alla trasmissione dei saperi ereditati, che gli

consenta di produrre una scala di valori

assolutamente altra, a meno di non aprire

geograficamente il canone alle letterature del

mondo, globalizzandole, con il rischio tuttavia di

disconoscere la specificità dei singoli orizzonti

storico-linguistici e geografici), allora il margine di

libertà che gli spetta s’identifica con la possibilità di

rimettere in discussione o di scalzare gli scrittori (i

personaggi) che la tradizione ha riconosciuto come

184

meno significativi e di rileggere con sempre nuovi

parametri quelli già consolidati.11

11 Si pensi, per quanto riguarda il primo caso, alla fortuna aleatoria dell’Angiolieri fra Otto e Novecento, dopo secoli di oblio e, rispetto alla seconda eventualità, alle infinite letture dell’opera dantesca, mai venute meno – per quanto riguarda la nostra apertura epocale - a partire almeno dal De Sanctis.

185

4. La critica e il valore di verità dell’opera

Il concetto di originalità (quantitativamente

intesa) non esaurisce invero la questione, anzi risulta

fuorviante; esso infatti premia qualsiasi

innovazione, sia questa frutto della razionalità,

come nell’arguzia barocca, oppure dipenda

dall’eroica disposizione al sublime dello scrittore

romantico: in entrambi i casi, la storiografia registra

la discontinuità delle opere rispetto all’esistente e le

cataloga quali espressioni degne di caratterizzare un

canone. E ciò necessariamente, dovendo essa

anzitutto descrivere un processo storicamente

accaduto e soltanto secondariamente interpretarlo.

Il fatto, poi, che anche la descrizione appartenga ad

una tipologia narrativa, rende semplicemente più

interessante e convincente il lavoro storiografico,

ma nulla aggiunge in ordine ai contenuti. A ragione,

dunque, Remo Ceserani sostiene che «il criterio

dell’innovazione, utile forse sul piano della

ricostruzione storica, non può funzionare nella

ricostruzione critica». Qui, infatti, entra in gioco il

giudizio di valore estetico, il quale a sua volta non

può prescindere dal sistema sociale di riferimento in

186

cui agiscono e acquistano significato modi, generi e

forme retoriche.12 In questo senso, qualsiasi giudizio

sul valore estetico di un’opera, dovendo misurarsi

con le gerarchizzazioni dell’immaginario e del

simbolico vigenti nel sistema di riferimento,

risulterà subordinato all’individuazione dettagliata

della gerarchia stessa, obiettivo che a sua volta

implica un’analisi precisa del sistema nel suo

complesso, con un evidente sforzo interdisciplinare;

ma il lavoro davvero improbo comincia quando,

avuto a disposizione un congruo numero di dati, si

deve cercare una sintesi che tenga coerentemente

insieme il tutto e che infine sia capace di mettere in

risalto inequivocabilmente il valore dell’opera. Fra

l’altro, occorre rilevare che qualsiasi posizione che

intenda determinare il valore (estetico, filosofico,

sociale, etico, monumentale ecc.) di un’opera è

costretta a considerare l’opera stessa quale segno di

qualcos’altro, il quale diventa il vero oggetto del

discorso, a cui risalire appunto attraverso l’esegesi

del testo (anche il valore estetico, infatti, rinvia

all’ideale di bellezza di una civiltà, ed è di questo

ideale che l’opera si fa segno).

12 R. Ceserani, Raccontare la letteratura, cit., rispett., p.14 e p.148.

187

La via d’uscita a tale mastodontico impiego di

forze, potrebbe essere quella che, scartando il

criterio quantitativo dell’originalità e accettando la

relatività di qualsiasi giudizio di valore estetico,

sceglie di considerare il valore di verità dell’opera,

quest’ultima intesa quale segno «che non si lascia

consumare nel rinvio»,13 luogo dell’accadere in cui

la finitezza dell’Esserci si mette completamente in

gioco e, cosi facendo, mette in gioco le fondamenta

stesse dell’apertura storico-linguistica cui

appartiene.

In che senso, tuttavia, l’esserci mette in gioco le

fondamenta di un’apertura cui è coessenziale,

un’apertura che non fonda nulla se non se stessa in

quanto sfondo continuamente ri-detto dai parlanti?

In via preliminare si può rispondere a questa

domanda, ricordando quanto già affermato in

precedenza: la coappartenenza esserci-apertura

avviene sotto il segno dell’alterità, della differenza,

della non adesione completa dell’uno sull’altra (e

viceversa). L’Esserci non è, senza margine di scarto,

l’apertura; l’apertura non è, senza margine di scarto,

l’Esserci; e comunque l’uno e l’altra sono

13 G. Vattimo, La fine della modernità, cit., p.81.

188

conflittualmente presenti in quanto messi in gioco

nel linguaggio. In questo senso, anche le strutture

della storicità (politica, economia, religione, cultura,

scienza, costume ecc.) sono in quanto organizzate

sintatticamente e semanticamente dal linguaggio, il

quale va inteso quale sommatoria conflittuale e/o

armoniosa dei singoli codici verbali e non verbali

agenti in un determinato orizzonte storico-

geografico. Si tratta, com’è evidente, di una

circolarità ermeneutica, che non si discosta di molto

dalla posizione espressa dell’antropologo

Alessandro Duranti allorché, riprendendo la tesi

dall’Husserl de La crisi delle scienze europee e la

fenomenologia trascendentale e verificandola per analogia

con la «visione samoana» e con quella del "secondo"

Wittgenstein, afferma che «il linguaggio non crea il

mondo, ma lo "costituisce", lo rende possibile, lo

spiega, lo aiuta ad essere in un certo modo per dei

soggetti pensanti e agenti in esso».14

Per quanto ci riguarda, avendo riconosciuto alla

coappartenenza Esserci-Apertura la non

omologazione, è chiaro che, qualora l’Esserci riesca

a parlare dalla propria irripetibile soglia, la parola

14 Alessandro Duranti, Etnografia del parlare quotidiano, La Nuova Italia Scientifica, Milano 1992, p.143.

189

metterà in essere quell’attrito che costituisce

l’effettività dell’incontro con l’apertura stessa. In

questo senso, la scrittura dalla soglia non fa altro che

lasciar essere l’irripetibile attrito che l’esistenza

singolare/plurale genera entro la propria

collocazione storico-linguistica. Un attrito

fondamentale, potremmo dire, in quanto deriva

dalla gettatezza ontologica dell’Esserci e la cui

verità, appunto per questo, sfugge in gran parte

all’Esserci stesso. Riposa in questa non disponibilità

alla coscienza dell’attrito fondamentale, il valore di

verità dell’opera. Quando infatti quest’ultima è

costruita a tavolino, costituendosi quale frutto

consapevole di un sapere poietico (secondo il

modello hobbesiano e poi vichiano del ‘conosco

soltanto ciò che ho prodotto’), l’attrito

fondamentale presente in essa si deforma,

cristallizzandosi nella coscienza sotto forma di

schieramento esistenziale, politico, ideologico,

oppure di militanza letteraria, in qualcosa insomma

di legato all’intenzionalità e alla competenza tecnica.

Quando invece l’autore accetta il parziale naufragio

che ogni scrittura sulla soglia impone (in verità può

non farlo soltanto limitatamente: pena

l’omologazione e dunque la negazione di sé in

190

quanto autore), allora a mostrarsi davvero,

nell’opera, sarà l’esistenza stessa, quel suo

particolare attrito con l’apertura. E tuttavia, proprio

perché l’atto creativo presuppone un non sapere

radicale, tale riconoscimento spetta alla critica,15

attraverso l’analisi testuale: non è forse suo compito

quello di verificare la tenuta di un testo letterario

sotto il profilo linguistico, retorico-stilistico,

tematico, eccetera? Il concetto di "tenuta", seppur

generico, bene chiarisce la natura demistificante

dell’atto critico, teso com’è a smascherare

l’apparenza, al fine di mettere in risalto quanto di

memorabile l’opera contiene. E ciò accade sempre,

indipendentemente dai presupposti teoretici: si

studia un’opera non per certificarne l’esistenza,

bensì per verificarne la necessità. E quanto più ci

sembra che questa sia confermata, tanto più la

consideriamo importante, degna di entrare nel

15 Lo stesso Blanchot, pur negando valore alla critica, mantiene viva l’opera attraverso il proprio esercizio ermeneutico, che consiste nel lasciare emergere il conflitto fra essere e nulla all’interno della scrittura, fino a pensare al testo quale spazio paradossale e autosufficiente, che annienta qualsiasi pretesa esterna, sia essa del lettore, del critico, ma anche dell’autore, via via che l’opera si compie. Cfr. Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, trad. it., Gabriella Zanobetti, Einaudi, Torino 1967 e Id., L’infinito intrattenimento, trad. it. Roberta Ferrara, Einaudi, Torino 1977.

191

canone. Ma verificare la tenuta di un testo letterario

altro non è che riconoscerne il valore di verità e

dunque lo specifico attrito da esso prodotto entro

un orizzonte di senso (quello critico in prima

istanza) che vorrebbe negarglielo. Di conseguenza,

la scrittura sulla soglia – così come qui è intesa – non

implica la condivisione di una specifica poetica, ma

è la condizione di possibilità affinché un testo possa

sopportare l’analisi critica senza sfaldarsi nel nulla.16

E quanto più resiste alle verifiche approntate da

differenti scuole di pensiero, tanto più quel testo

sarà di valore rispetto alla verità che lo costituisce.

È chiaro, allora, che il valore (estetico, filosofico,

etico, ecc.) delle opere letterarie tramandateci dalla

tradizione non è frutto semplicemente dell’interesse

dell’ideologia dominante, e nemmeno di un

racconto narratologicamente codificato e portato

avanti dalla storiografia letteraria, ma è l’effetto di

un tentativo non riuscito di nullificazione dell’opera

stessa da parte della critica. Ciò significa che il valore

16 Benjamin è ben consapevole di questo allorché, ne Il dramma barocco tedesco, scrive che lo scopo della critica è la «mortificazione delle opere». Come rileva Habermas commentando questo passo, egli vuole in tal modo «trasferire ciò che è degno di conoscenza dall’elemento del bello in quello del vero, per salvarlo». In Jurgen Habermas, Cultura e società. Riflessioni sul concetto di partecipazione politica e altri saggi, trad. it. Nicola Paoli, Einaudi, Torino 1980, p.243.

192

di verità non consegue al giudizio, bensì si

costituisce quale condizione sine qua non affinché

l’opera possa essere giudicata e cioè pensata quale

segno di qualcos’altro, entrando in tal modo nel

circuito della comunità interpretante, che appoggerà

poi questo o quell’autore secondo il modello

ermeneutico di riferimento e l’interesse pratico.

Così facendo tuttavia, la critica non metterà

semplicemente in gioco la credibilità di un orizzonte

interpretativo, bensì creerà le condizioni perché

l’opera si conservi e possa entrare di diritto nel

canone.

Quanto finora affermato, ci porta al seguente

epilogo: la soglia dalla quale l’autore mette in opera

la propria finitezza non è misurabile direttamente,

non è una quantità oggettivabile secondo i crismi

scientifici, e nondimeno essa dice ed esaurisce se

stessa nella resistenza che il singolo testo,

spazializzando la temporalità, oppone al tentativo

dell’apertura storico-linguistica di negarlo. Fra tutti

gli elementi che costituiscono l’apertura, il sapere

critico è quello che più minaccia l’opera ma è anche

quello che, rimanendo sconfitto, ne certifica il

valore di verità e, di conseguenza, l’innegabile

giudizio positivo (estetico, filosofico ecc.). Una

193

sconfitta, sia chiaro, che non possiede l’amaro di

una battaglia fra nemici, bensì che alimenta nuovi

incontri futuri, più simili all’amore che alla guerra.

Anche l’autore entra in gioco nella sfida alla

resistenza del testo: succede quando, nel silenzio del

proprio studio, seleziona i propri; ma si tratta di

un’attività per certi versi paradossale, assomigliando

all’atteggiamento del fruitore di quei disegni di

Escher dove l’interno e l’esterno, il principio e la

fine, l’alto e il basso, l’azione e la passione, il

soggetto e l’oggetto, s’incontrano e si scontrano

nell’economia iconica complessiva. Come ci ricorda

Adriano Fabris – mettendo in luce, per analogia, le

difficoltà dell’ermeneutica quale «prospettiva

universale» – l’autore, nel tentativo di comprenderli,

è obbligato a scegliere il particolare, il dettaglio, lo

scorcio, al fine di individuare un senso che sia

«perfettamente comprensibile», rinunciando

tuttavia al giudizio sulla totalità, che si dà invece

come contraddittoria.17 Collocando il problema

entro le nostre coordinate, possiamo affermare

quanto segue: nella selezione compositiva, alcuni

17 Adriano Fabris, Aporie dell’ermeneutica filosofica contemporanea, in La filosofia italiana in discussione, a cura di Francesco Paolo Firrao, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp.440-441.

194

testi saranno talmente anonimi, che l’autore non

faticherà a metterli da parte; altri dovranno invece

aspettare settimane o mesi prima di essere colti nella

loro natura essenzialmente stereotipata; ma già in

queste occasioni, l’autore avrà avuto bisogno del

supporto esterno, di un attrito con il testo realizzato

assieme alla comunità interpretante. E in ogni caso

sarà quest’ultima a determinare, nel corso del

tempo, il valore di verità dell’opera, riconoscendola

nella sua nuda e ineliminabile presenza.

Quanto scritto finora certifica inoltre

l’inevitabilità del canone esistente, e ciò per tre

ragioni: 1) esso è fisiologico alla sopravvivenza

dell’apertura storico-linguistica che lo conferma,

secondo la prospettiva del ceto dominante; 2) esso

è il prodotto letterario di un romanzo scritto dagli

stessi storici della letteratura, i quali non possono

prescindere dai capitoli già scritti prima della loro

comparsa, ma devono invece – come nel genere

poliziesco – smascherare eventuali falsi indizi,

approfondire le tracce più probanti, indagare i

"colpevoli" (gli autori di valore) già indicati dai

testimoni (i critici) più autorevoli, allo scopo di

assicurarli alla giustizia del canone; 3) il canone

esistente è inevitabile, perché i testi sopravvissuti

195

all’indagine riferita al punto due sono resistiti al

tentativo di nullificazione da parte della critica:

questo fatto conferma il loro valore di verità, o,

detto altrimenti, la loro non omologazione

all’apertura storico-linguistica in cui sono nati.

Come poi indicato al punto uno, a quest’ultima

conviene rimettere in circolo quei testi del passato

capaci di avvalorare il presente; operazione che –

almeno nell'Italia moderna – ha significato

confermare gli autori settecenteschi e, qualora il

canone fisiologico si sia spinto poco più in là, a

recuperare il Foscolo dei Sepolcri e delle Grazie, il

Leopardi delle Canzoni, il Manzoni cattolico e

risorgimentale, l’epica nazionalista del Carducci e di

certo Pascoli, il D’Annunzio esteta. Per quanto

invece riguarda la letteratura del disagio (cui

Leopardi ‘ateo’ è l’indiscusso archetipo moderno),

l’apertura contemporanea non è ancora riuscita a

renderla fisiologica ai propri progetti, diventando

perciò oggetto quasi esclusivo del discorso

specialistico storiografico e critico, nell’abbandono

interessato delle istituzioni e nell’inconsapevolezza

generale del pubblico, vinto sempre più dal mercato

internazionale della letteratura, la cui qualità non

compensa l’allontanamento del lettore dall’apertura

196

italiana, con i suoi specifici attriti, la sua specifica

verità. Sopravvive per fortuna in tutto questo, fra la

critica professionale e un pubblico reificato, una

piccola percentuale di lettori onnivori ed

appassionati, i quali comunque sanno – come scrive

Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, e come,

in una certa misura, ho cercato di mostrare nel

presente saggio – che «il senso ultimo a cui

rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità

della vita, l’inevitabilità della morte».

197

Canone e singolarità: due esempi

1. Gnosticismo ed ebraismo nel Canone di

Harold Bloom

Esasperando l’indole didattico-pedagogica della

storiografia letteraria (già rilevata a suo tempo da

Benjamin)1 e recuperando il modello-uomo

rinascimentale, Harold Bloom altro non fa che

tradurre in termini laici la visione gnostico-

americana di «libertà religiosa», che consiste, come

egli stesso ammette ne La Religione Americana, nel

1 Walter Benjamin, Storia della letteratura e scienza della letteratura, in Id., Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, trad. it.Anna Marietti, Einaudi, Torino 1979, pp.138-139: «La storia della letteratura ha perso interamente di vista il suo compito più importante [...] e cioè quello didattico».

198

sentirsi «soli con Dio: un Dio che è a sua volta

isolato e solitario, un Dio libero» al quale rivolgersi

personalmente.2 Simile a questa prospettiva mi

sembra infatti l’intenzione espressa in Come si legge un

libro (e perché), consistente appunto nell’attribuire al

critico il compito/privilegio di «rivolgersi al lettore

solitario», indicandogli i libri da leggere (che

diventano in tal modo magnificamente autorevoli

nella loro solitaria imperturbabilità), al fine di

rafforzargli “lo spirito” antifaustiano, uno spirito

disinteressato al potere e tutto proteso invece

all’autoedificazione virtuosa.3

In questi due testi divulgativi, Harold Bloom

ribadisce invero la natura didattica ed il progetto di

restaurazione neoumanistica del discorso critico che

già pervadeva il celeberrimo Canone occidentale, libro

che, concependo la storia della letteratura quale

naturale conseguenza diacronica dell’imporsi

2 Harold Bloom, La Religione Americana: l’avvento della nazione post-cristiana, trad. it. Silvia Luzi, Garzanti, Milano 1994, pp. 11-13. 3 H. Bloom, Come si legge un libro (e perché), trad. it. Roberta Zuppet, Rizzoli, Milano 2000, rispett. p. 16 e p. 241. Questa vocazione è ribadita anche nel suo ultimo libro, il cui scopo è, appunto, aiutare a «conoscere noi stessi in relazione agli altri», Id., Il genio. Il senso dell’eccellenza attraverso le vite di cento individui non comuni, trad. vari, Rizzoli, Milano 2002, p. 29.

199

agonico-edipico delle opere dotate di «grande stile»,4

secondo una dinamica individuata già nei primi

Anni Settanta (cfr. L’angoscia dell’influenza), suggeriva

implicitamente all’Occidente di far proprio un

canone già in parte fisiologicamente assimilato: che

cosa altro significa infatti dichiarare l’equivalenza fra

il canone e quanto «il mondo non è disposto a

lasciar morire»,5 se non riconoscere, alla cultura di

quel mondo, il valore di un processo ineluttabile in

quanto naturale, secondo una prospettiva che era

già stata del Vico e, pur con altre coordinate, di Walt

Whitman, allorché, come rilevò in tempi non

sospetti Cesare Pavese, cercò di leggere «la storia del

mondo vista soltanto attraverso le sue supreme

manifestazioni letterarie»?6 E la tripartizione

vichiana delle «Età» («aristocratica», «democratica»,

«caotica») che contraddistingue il Canone, non

coincide forse con le «magnifiche sorti e

progressive» della civiltà americana, diabolicamente

capace, rispetto alle opere «apocalittiche» che

potrebbero metterne in crisi gli statuti (per esempio

4 H. Bloom, Il canone occidentale: i libri e le scuole delle ere, trad. it. Francesco Saba Sardi, Bompiani, Milano 1996, p. 464. 5 Ibidem, p. 16. 6 Cesare Pavese, Poesia del far poesia (1933), in Id., Saggi letterari, Einaudi, Torino 1982, pp. 130-131.

200

quelle di Melville o di Faulkner), di riconoscerne la

forza catartica e l’effetto di rinvigorimento

sull’individuo, al punto da consentire loro la libera

circolazione nelle sale di lettura e nelle librerie? Il

Canone condivide a tal punto le radici etico-politiche

della modernità, da dovere escludere (o collocare ai

margini) dalla «età democratica [...] tutti coloro che,

in qualche modo, in un secolo democratico e

progressista [come l’Ottocento], introducevano il

germe di una visione critica e dissolutrice (da

Leopardi a Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, da

Flaubert a Dostoevskij)».7 Soltanto l’ultimo di questi

scrittori viene recuperato in Come si legge un libro, ma

per ricondurlo subito al vortice attorno al quale

ruota lo stesso Canone occidentale,

quell’inesauribile risorsa creativa che è stato

Shakespeare, le cui «nobili tragedie di sangue [...]

(Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth) gettano senza

dubbio le basi per i grandi [personaggi] nichilisti di

Dostoevskij», il quale, continua Bloom, con Delitto e

castigo ha scritto «la migliore tra le storie poliziesche»

degli ultimi «centotrent’anni».8 Affermazione

7 Tiziano Salari, Il grande Nulla. Percorsi tra Otto e Novecento, Tirrenia Stampatori, Torino 1998, p. 9. 8 H. Bloom, Come si legge un libro (e perché), op. cit., p. 206.

201

certamente connaturata all’umorismo ebraico

(«Sono un ebreo non credente con forti tendenze

gnostiche» dice di sé nella Religione americana), ma

anche inequivocabilmente conservatrice nella

misura in cui, riconducendo l’imponderabile

dostoevskijano ad uno stratagemma narrativo, lo

svuota di quella carica eversiva che ha avuto nei

confronti dell’Occidente, civiltà della

programmazione, del ‘ponderabile’ in quanto

soggetto alla misurabilità e, dunque, al controllo

tecnico-scientifico.

L’ebraismo, in effetti, costituisce non soltanto

l’interesse prevalente degli studi storico-religiosi

bloomiani, ma rappresenta un perno fondamentale

anche delle sue opere di critica letteraria; lo lascia

intendere esplicitamente l’autore, allorché organizza

strutturalmente il suo ultimo libro seguendo le sefirot

della Cabala; ma lo si era già profondamente

compreso, leggendo L’angoscia dell’influenza,

nell’impostazione sapienziale del discorso, per

esempio, e nella presenza/assenza del Luogo

raccontata nelle «riflessioni sul Sentiero» poste in

«epilogo» del libro; ma soprattutto era evidente nel

concetto di «fraintendimento», che segna la nascita

del nuovo poeta canonico, il momento in cui egli,

202

operando uno scarto dal maestro, se ne allontana,

dando il via ad un’erranza solitaria, ma sempre

sorretta dalla silenziosa passione per la verità del

proprio cammino. Immediata si scorge la vicinanza

di questo viaggio con la natura dolorosamente

nomade dell’essere ebrei e con quella «libertà di

interpretazione» che costituisce, secondo Bloom, il

concetto stesso di «libertà ebraica».9

E tuttavia, come si è detto, il critico è

essenzialmente un ebreo americano, aggettivo

fortemente caratterizzante10 che si traduce nella

credenza dell’irriducibilità dell’io, inteso quale

nucleo originario, precedente alla creazione, «antico

quanto Dio» e capace perciò di profondissimo

9 H. Bloom, Kafka, Freud e Scholem, trad. it. Alessandro Atti, Milano, Spirali/Vel 1989, p. 51. Anche lo "scarto dal maestro” può essere ricondotto entro lo schema domanda-risposta del giudaismo: come infatti rileva lo studioso americano, «la risposta» alla chiamata costituisce l’idea stessa di storicità del popolo ebraico, il quale agisce nella convinzione di rendere effettivo l’intervento divino (ibidem, p. 44). Ed entro questa logica, nella quale contemporaneamente il soggetto si sente un tutto e un niente (ibidem, p. 45), si ribadisce un altro principio dell’ebraismo, quello secondo cui «l’autorità risiede sempre in figure del passato dell’individuo» (ibidem, p. 60), nel padre, per esempio, che, ne L’angoscia dell’influenza, diventa lo scrittore del passato la cui autorità massimamente attrae e pesa. 10 «In quanto americani siamo tutti in qualche misura compartecipi della Religione Americana, per inconsapevole o involontaria che sia tale condizione», scrive Bloom nella Religione Americana, op. cit., p. 26.

203

dialogo con Esso11, concezione questa che lo stesso

Bloom, spostando l’accento altrove, riconosce

d’ascendenza gnostica: nello gnosticismo, egli

spiega, «l’umanità porta dentro di sé la scintilla

ovvero il soffio del non-creato da Dio, e questa

scintilla può ritrovare il suo cammino a ritroso verso

il non-creato, il non caduto, attraverso un atto di

conoscenza che si compie nella solitudine

individuale».12 L’irriducibilità dell’io a qualsiasi

contestualizzazione – che pervade dunque, secondo

Bloom, l’intera religiosità americana grazie

all’incontro di misticismo ebraico, gnosticismo e

trascendentalismo emersoniano – fonda non

soltanto l’orizzonte culturale entro cui il critico si

muove, ma ne indirizza lo stesso metodo, sia

riguardo al convincimento di ragionare sul canone

in modo preideologico13 e sia in relazione alla

11 Ibidem, p. 11. 12 H. Bloom, Il canone occidentale, op. cit., p. .24. Questa verità diventa americana grazie a Ralph Waldo Emerson: «L’essere dell’uomo, in Emerson, non è [...] costituito dalla storia, dalla società, dal linguaggio. È originario» (Id., Il genio, op. cit., p. 32). 13 Scrive Bloom: «Non riesco a individuare nessuna connessione interiore tra qualsivoglia gruppo sociale e le modalità specifiche con le quali ho trascorso la vita a leggere, ricordare, giudicare e interpretare» la letteratura, e ciò – aggiunge - in quanto «l’io individuale è l’unico metodo e l’intero metro di misura» che ho usato per la mia ricerca (Il canone occidentale, op. cit., pp. 19-20).

204

pretesa «irriducibilità» dell’«estetico» (nel Canone) e

dello «spirituale» (nella Religione Americana),

irriducibilità che trovano appunto ragione

nell’irriducibile per eccellenza, in quell’io profondo

che «si definisce solo di contro alla società».14

Quest’ultima prospettiva – non certo distante

dall’esaltazione rousseauiana del «buon selvaggio» e

alla critica del filosofo francese allo Stato di diritto

presenti nel Discorso sull’origine e i fondamenti della

disuguaglianza; e in perfetta sintonia, inoltre, con «il

dualismo ebraico», che si rende effettivo

agonicamente «entro l’io» nella contrapposizione

esteriorità vs interiorità15 – ritorna in un passo della

Religione Americana, allorché propone un’idea di

soggettività divisa, riconoscibile in Song of Myself di

Whitman, là dove il poeta, pur accettando di essere

«l’uomo nudo che perennemente si fonde con il

gruppo», resiste alla tentazione di annullamento

totale, lasciando così intravedere un io più ‘vero’,

più profondo del primo, un io «assolutamente

fragile, sempre in latenza», e, appunto per ciò,

irriducibile a qualsiasi mediazione storica.16 È a

14 Ibidem, p. 20. 15 H. Bloom, Kafka, Freud, Scholem, op. cit., rispett. p. 61 e p. 63. 16 H. Bloom, La Religione Americana, op. cit., p. 23.

205

quest’ultimo che Bloom si rivolge quando,

additando ai lettori i libri da salvare dall’oblio, in

verità promette loro il farmaco di un nuovo vigore,

che agisca dall’interno, alimentando «la scintilla»

divina che è in ciascuno di noi.17

Una prima sintesi del pensiero bloomiano

potrebbe essere la seguente: sotto il profilo

ideologico-esistenziale riconosciamo, allo spirito

ribelle di quest’uomo – che ha dichiarato guerra alla

«Scuola del Risentimento: femministi, marxisti,

lacaniani, neostorici, decostruzionisti, semioticisti» e

alla civiltà di massa americana, accusata di amare più

Batman e Spiderman di Shakespeare – il fatto di

essersi inconsapevolmente conciliato con l’anima

integralista della civiltà statunitense, protesa alla

guerra santa contro «tutto ciò che mette in

discussione l’essenza e le prerogative del sé, inteso

come criterio universale di giudizio dell’essere e del

suo valore», come egli ebbe a dire a proposito della

«guerra di religione» intentata da George Bush

senior nei confronti dell’Iraq.18 E d’altro canto è

17 In totale accordo con Emerson e con la dottrina gnostica (che nella Religione Americana riconduce, non a caso, ad una matrice ebraica; cfr. p. 24). 18 Ibidem, pp.11-12.

206

altresì evidente, da quanto scritto finora, che

qualsiasi canone proposto da un critico di

professione, fondandosi sulle risorse che il pubblico

e il privato mettono a sua disposizione, non può che

essere espressione di una società letteraria in stretto

dialogo con il sistema socio-economico che la

sostiene: dialogo il cui peso si misura in termini di

potere editoriale, successo di uditorio, amicizie

importanti, spazio mass-mediale. In questo senso,

possiamo parafrasare, relativamente al canone,

quanto egli riferisce alle opere letterarie: qualsiasi

canone, che riesca a sopravvivere all’oblio, ha

legittimità storica per essere considerato di valore,19

con l’ovvia aggiunta secondo la quale la civiltà che

lo conserva e lo divulga, non agisce in nome della

salvaguardia dell’estetico, bensì per il rafforzamento

politico della propria esistenza.

19 In questo senso, e riprendendo un assunto del capitolo precedente, il canone tramandatoci dalla tradizione – quale frutto, sempre provvisorio, dell’incontro / scontro fra l’esigenza del ceto dominante di un’autorevole genealogia e la molteplicità delle proposte storiografiche – è, più profondamente, l’effetto di un tentativo non riuscito di nullificazione dell’opera da parte della critica, che così fallendo pone la condizione sine qua non affinché l’opera sia mantenuta nel circuito della comunità interpretante e, dunque, in un agone dagli esiti potenzialmente canonici.

207

Differente appare invece la questione se la

osserviamo dal versante della finitezza, concependo

il canone non quale risultante di un compromesso

con la civilizzazione, bensì quale espressione

ontologica della singolarità: in questo caso infatti,

costruire una tradizione in cui riconoscersi, significa

mettere il proprio esser-già-sempre-comunità in un

dialogo essenziale con l’apertura in cui ci si trova ad

essere e con la memoria che essa ha custodito. Ecco,

io credo che sia a partire da questo transito finito,

messo in gioco sino in fondo dall’opera, che la

domanda sul canone debba essere posta, se

vogliamo pensarlo svincolato tanto dall’indole

didattico-pedagogica e ideologica, quanto dalla

vocazione evoluzionista implicite in qualsiasi

canone che sia ‘racconto dei vincitori’, che

giustifichi insomma la propria necessità quale fiore

e frutto di un percorso storico univoco. Ciò significa

– per non capovolgere semplicemente la

prospettiva, costruendo degli anticanoni sofferenti

della medesima ineluttabilità dei precedenti –

rinunciare alla pretesa di mettere ordine assiologico

alla molteplicità delle voci, per lasciarle

fecondamente libere di partecipare alla

disseminazione dialogico-conflittuale che ciascuna

208

apertura sostiene, e semmai porgere maggiore

attenzione a quelli che potremmo definire i canoni

personali, ossia quei tentativi della singolarità (in

gran parte inconsapevoli) di sanare il proprio

immemorabile esilio originario, rimettendosi ad una

rosa di nomi memorabili. Naturalmente a patto che

tale rosa sia espressione di ricerca assidua e

dedizione, di scommessa che copre una vita intera,

come appunto nel caso del professore americano, o

di scelta di campo per vocazione letteraria, come in

Gertrude Stein. Per questa ragione i canoni

personali, più che confutarli, mostrarne i limiti, le

influenze e gli interessi (inevitabilmente presenti),

conviene anzitutto studiarli, nella convinzione che

questo contribuisca a fornire ulteriore chiarezza

intorno al rapporto scrittura e ontologia in una

specifica singolarità.

Nella fattispecie, ciò significa comprendere

l’urgenza che esercita su Harold Bloom l’Inizio

fondato da Shakespeare, il primo autore moderno,

a suo dire, davvero consapevole che «poesia è

angoscia dell’angoscia» e che, a muovere la

letteratura, è la ribellione «contro la coscienza della

209

necessità della morte»,20 un’urgenza che gli fa

ricondurre l’autorevolezza del Canone a quegli autori

che non hanno scritto spinti dal desiderio di

liberarci dalla verità dell’essere mortali, bensì dal

bisogno di dare «forma e coerenza» ad essa:21

compito perfettamente realizzato da Shakespeare, il

cui merito fondamentale, ci racconta Bloom, allievo

modello del «dottor Samuel Johnson», consiste

nell’aver tradotto in linguaggio la complessa

sfaccettatura dell’io fragile e profondo di ciascuno,

di aver creato insomma uomini fatti «di parole»,

l’uno differente dall’altro, ma tutti emblemi della

«mutabilità» umana, di quella particolare facoltà che

ci consente di diventare altro da ciò che eravamo,

attraverso l’ascolto delle nostre paure e dei nostri

desideri, come accade ad Amleto, «il massimo auto-

origliatore di tutta la letteratura».22 E proprio per

questa ragione Amleto diventa il modello di uomo

dell’Occidente, l’unico «ambasciatore di morte [...]

che non ci menta circa il nostro inevitabile

rapporto» con essa, rapporto che «è affatto solitario,

20 H. Bloom, L’angoscia dell’influenza, trad. it. Mario Diacono, Torino, Feltrinelli 1983, rispett. p.99 e p. 18. 21 H. Bloom, Il canone occidentale, op. cit., p.467. 22 Ibidem, pp. 41-42.

210

nonostante tutti gli osceni tentativi della tradizione

di socializzarlo».23

Interessante sarebbe a questo punto, per

approfondire ulteriormente la questione,

confrontare questo convincimento con la certezza,

espressa più volte dal critico, che comunque un

punto immutabile ed eterno esiste ed è quel Dio

americano (invero ebraico/gnostico e, in seconda

istanza, americano), che «ama, uomini e donne, in

modo assolutamente personale e diretto».24

In questa doppia circolarità, che vede nella

finitezza le ragioni della scrittura e che invita a stare

in prossimità con l’Origine attraverso un dialogo

solitario e mai esaustivo con Essa, si gioca

probabilmente il canone personale bloomiano:

origine che è Dio, ma anche, per quanto riguarda la

cultura occidentale, Shakespeare, il quale ci insegna

sia «a prestare orecchio a noi stessi quando con noi

stessi parliamo» e sia «ad accettare il cambiamento»,

compreso quello definitivo, cui Amleto è

«ambasciatore». In questo senso, Shakespeare stesso

23 Ibidem, p. 27. Si vedano i medesimi concetti espressi in H. Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, trad. it. Roberta Zuppet, Milano, Rizzoli 2001, pp. 19-36 e pp. 267-321, e Il genio, op. cit., pp. 38-55. 24 H. Bloom, La religione americana, op. cit., p. 13.

211

diventa l’ambasciatore di Dio, il suo angelo

annunciante, colui che, creando personaggi

memorabili, predispone i mortali all’ascolto della

voce silenziosa dell’Assoluto.

Anche il paradigma dell’angoscia d’influenza,

che pure esiste nella pratica quotidiana di qualsiasi

autore, mi sembra nasca da un’esigenza interiore

dello stesso Bloom, quella di spogliarsi di tutte le

voci derivate, dal loro rumore assordante, di cui

evidentemente sente l’angoscia d’influenza (penso

ad Emerson, a Whitman, a Nietzsche, a Freud, a

Samuel Johnson, ma soprattutto a Shakespeare), per

abitare finalmente nella quiete dell’io profondo, là

dove la Parola di Dio risuona nel suo massimo

splendore. E questa Parola altro non dice, appunto,

che la finitezza dell’esserci, che il critico del Canone

ritrova nella grande tradizione occidentale, senza

tuttavia rendersene conto pienamente (ché,

altrimenti, non avrebbe escluso da esso nomi

eccellenti: Leopardi, per esempio, puntualmente

inserito nel Genio, quale poeta che «vede la vita come

un abisso nel quale oscilliamo continuamente tra il

nulla e la noia»).25

25 H. Bloom, Il genio, ed. cit., p.472

212

Che sia la finitezza a muovere alla scrittura (e che

dunque la scrittura altro non sia che l’estrema risposta

e sfida ad essa) credo che appartenga alle verità già da

sempre acquisite da Bloom nell’immediatezza del suo

dialogo con Dio, di quel Dio ebraico la cui verità

antico-testamentaria – come nel Canone ci precisa,

mutuando l’idea dall’amico Jack Miles – è nata dalla

parola ironica di una «donna ittita», quella Betsabea

madre di re Salomone, che Lo ritrae «geloso e

vendicativo» nonché affetto da una «notevole dose di

ansia nevrotica»,26 Un’ipotesi questa del «Redattore J»

femmina certamente in odor d’eresia (che nel Genio,

con grande azzardo ermeneutico, cerca persino di

fondare) e che Bloom comunque ci propone con il

sorriso sulle labbra, in un gioco ironico e autoironico

che rientra, mi sembra, nelle regole dialogiche

personalmente istituite con Dio, al pari dell’altro ebreo

newyorkese, quel magnifico irriverente verso tutto e

tutti che è Woody Allen, anch’egli, non a caso, figlio

ispirato del grande umorista ebreo-americano

Groucho Marx.27

26 Ibidem, p. 4. 27 Scrive Harold Bloom a pagina 462 del Canone, a mezzo tra la mossa scacchistica che vuole sorprendere e la confessione disarmata di un vizio assurdo: «Io sono un vero critico marxista, seguace di Groucho più che di Karl».

213

2. Il canone generazionale di Gertrude Stein

La prosa steiniana, che poggia su quella

jamesiana come su di un piedistallo dal quale

forgiare l’inaudito, avverte in generale l’obbligo di

pensarsi conseguente alle strutture grammaticali,

sintattiche e storiche della lingua inglese, secondo

una prospettiva filosofica che ha radice tuttavia

nell’idealismo tedesco: assumendo implicitamente la

tesi innovativa delle lezioni berlinesi di Hegel, in Che

cos’è la letteratura inglese? la Stein riconosce infatti la

stretta relazione fra sviluppo storico e dimensione

geografica, in un disegno che procede da Oriente ad

Occidente e che esclude dal processo intere parti

della terra; dalla Fenomenologia, filtrata dal

trascendentalismo di Emerson e Whitman, muta

invece la convinzione che il discorso sullo Spirito

sia, in qualche misura, il discorso dello Spirito, tanto

da rivendicare il superamento del «paragrafo»

jamesiano quale necessità ineluttabile a cui ella non

può sottrarsi;28 ma poi, contraddittoriamente, si

28 In Che cos’è la letteratura inglese?, Gertrude Stein riconosce infatti, alla propria opera, il merito di aver detto l’ultima parola sulla (e della) letteratura anglo-americana, il cui penultimo maestro era stato Henry

214

dimostra lontanissima dal riconoscere la

coincidenza, nel presente, di ideale e reale, di storia

e ragione, aprendo invece la scrittura ad una

contemporaneità frantumata in mille rivoli

governati dall’interesse, a cui contrapporre,

adialetticamente, l’autenticità dell’ispirazione:

bisogna «servire dio», non «mammone», scrive alla

fine della conferenza citata. Tale intendimento si

concretizza, in C’era una volta gli americani, nel

mostrare la realtà così com’è (vera nella sua

schiumosa irritabilità), e soprattutto nel descrivere,

come già aveva fatto Whitman in Foglie d’erba, gli

uomini e le donne che in essa amano, camminano,

mangiano, pensano, ridono, fanno famiglia; uomini

e donne americani, nel cui spirito vagantivo la stessa

Stein si riconosce pienamente: «Sentivo questa cosa,

sono americana e sentivo questa cosa [...] E questa

è la ragione per cui dopo tutto questo libro è un

libro americano un libro essenzialmente americano,

perché questa cosa è essenzialmente americana

questo senso di uno spazio di tempo e ciò che va

James, genio del paragrafo «fluttuante»; dopo di lui - afferma - «arrivai io e dovetti fare con il paragrafo più di quanto fosse mai stato fatto». In Gertrude Stein, Conferenze americane, trad. it. Caterina Ricciardi e Grazia Trabattoni, Lucarini, Roma 1990, p.40.

215

fatto all’interno di questo spazio di tempo non in un

modo qualunque eccetto che nel modo che è

inevitabile che ci sia questo spazio di tempo e

chiunque che sia un americano sente ciò che [gli

uomini e le donne] fanno all’interno di questo

spazio di tempo».29

La provocazione linguistica steiniana – presente

nelle prose (a partire dal racconto Melanctha Herbert),

nelle poesie ed anche nelle Conferenze – non è

dunque premessa formale al cambiamento

sostanziale del sistema, e soltanto apparentemente

gioca il proprio senso nella «registrazione e

disvelamento della paranoia», come scrive Barbara

Lanati a proposito di A Saint in Seven;30 anche tale

acquisizione, infatti, mi pare si giustifichi nella

ripetizione mimetica dei tic linguistici dei suoi

conterranei, tic considerati vere e proprie aperture

dell’essere nella contemporaneità. Aperture

spontanee, «composizioni» in cui la storicità

dell’essere si mostra senza sforzo, e che la scrittura

steiniana si incarica di riprodurre-ricreare nella

29 G. Stein, Il fare graduale di The Making of Americans, in Id., Conferenze ecc., ed. cit., p.81. 30 Barbara Lanati, L’avanguardia americana, tre esperimenti: Falkner, Stein, W.C.Williams, Einaudi, Torino 1977, p.101.

216

pagina, nella sua irresistibile modulazione ritmica e

fonosimbolica: «Iniziai [...] a pensare alla natura di

fondo nelle persone, iniziai ad essere enormemente

interessata a udire come ognuno diceva la stessa

cosa più volte con infinite variazioni ma più volte

finché alla fine se ascoltavi con grande intensità

potevi udire che si alzava e cadeva e raccontava

tutto ciò che c’era dentro di loro, non tanto

attraverso le effettive parole che dicevano o i

pensieri che avevano ma attraverso i movimenti dei

loro pensieri e delle loro parole infinitamente gli

stessi e infinitamente diversi».31

La verità dell’equivalenza: tic linguistici /

apertura dell’essere nella contemporaneità, e il

conseguente consenso della Stein alla middle class32

americana, acquistano maggiore evidenza allorché

teniamo conto del ruolo che ella attribuisce alla

prospettiva generazionale e, più complessivamente,

al rapporto realtà-parola. Scrive a tal proposito in

Composizione come spiegazione, che «ogni generazione

ha qualcosa di diverso da guardare» ed è per questa

31 G. Stein, Il fare graduale di The Making of Americans, in ID., Conferenze ecc., ed. cit., p.69. 32 Sull’argomento cfr. Barbara Lanati, Introduzione a G. Stein, C’era una volta gli americani, Einaudi, Torino 1979, p.XII.

217

ragione che la «composizione» cambia; eppure,

aggiunge subito dopo, le cose sono più complesse

giacché: 1) soltanto nella composizione il proprio

tempo si lascia conoscere; 2) la generazione,

componendo, si conosce, e cioè conosce il proprio

modo di guardare le cose che cambiano.33

Questa circolarità senza punto di inizio e senza

via di uscite – che ha il suo fuoco nella

«composizione» orale e scritta, già spontaneamente

presente nelle relazioni linguistiche di una data

apertura storica – definisce ed organizza i modi di

concepire l’individuo, la generazione, l’epoca,

costituendo in tal senso la verità dell’essere in un

determinato punto della sua avventura spazio-

temporale. In questa prospettiva – che fa coincidere

la verità dell’essere con il punto di vista

generazionale e, quest’ultimo, con l’ottica della

classe media americana – il consenso verso

l’esistente non può che essere inevitabile. Un

consenso, tuttavia, eticamente vincolato allo

scrivere dal margine buono del reale, da quello che

non è disposto a compromessi né con il potere né

33 G. Stein, Composizione come spiegazione. In Id., Conferenze americane, ed. cit., p.4. Ma si veda anche, nell’edizione lucariniana, Ritratti e ripetizione, pp.83-108.

218

con la propria ispirazione: «servire dio», appunto,

non «mammone».

In questa coerenza con se stessi e con un certo

modo puritano di pensare il rapporto fra autenticità,

scrittura e sottomissione individuale, la Stein legge il

proprio canone necessario, la propria sorellanza con

il destino della scrittura anglo-americana, il cui

presente lei è, appunto, convinta di «comporre». È

a questo livello che il canone, da potenzialmente

fisiologico, diventa personale, espressione della

singolarità, la quale finalmente si realizza in esso e

nella geografia che esso descrive, senza nostalgie per

l’altrove. Nella Stein, la smemoratezza dell’Inizio

che procura ontologicamente l’esilio della

singolarità, viene infatti compensata (e parzialmente

sanata) dalla certezza di essere al centro del processo

reale, ricostruito rammemorando una tradizione

considerata necessaria, capace di giustificare il suo

essere qui-ora, in un presente, quello americano, dal

valore sacrale, ri-detto verbalmente nel present

continuous anglosassone. Tale forma, infatti, traduce

grammaticalmente la certezza della Stein d’essere al

«centro del mondo», in quell’America baciata dal

destino in cui il tempo della vita esula dalla

misurabilità ordinaria (gli americani, scrive in Che

219

cos’è la Letteratura inglese?, «non vivono ogni giorno.

E siccome non vivono ogni giorno non hanno il

vivere quotidiano»),34 offrendosi invece quale

spazio-tempo, geografia e storia che si fondono in

una dimensione altra (sacra, direbbe Eliade) che

soltanto il «paragrafo fatto a pezzi» può ri-creare.

Poco importa se, biograficamente, la scrittrice opera

a Parigi, a fianco a fianco con i migliori artisti della

sua generazione; la terra che le respira dentro, con

la quale sente d’essere impastata e che parla

attraverso la sua scrittura, è, e rimane, l’America,

ovunque lei sia: di questo ne è fieramente convinta,

prima di qualsiasi scelta avanguardistica. A ragione

Pavese, nelle note all’Autobiografia di Alice Toklas,

ricondusse tale debito alla lezione di Walt Whitman,

fermo sostenitore «di una mistica realtà incarnata e

imprigionata nella parola».35 Realtà e parola che

tuttavia nella Stein non fondano alcunché,

dipendendo a loro volta da quell’io

singolare/plurale, la cui duplicità non ha gerarchie:

un io in comunione con tutti – fortissimo in C’era

34 G. Stein, Che cos’è la letteratura inglese, ed. cit., p.37. 35 Cesare Pavese, note a Autobiografia di Alice Toklas, trad. it. C. Pavese, Einaudi, Torino 1938. Poi in Id., Saggi letterari, Einaudi, Torino 1951, 1982, p.154.

220

una volta gli americani, romanzo progettato quale

storia di tutti quanti e, al tempo stesso, «storia di

ognuno»36 – ed un io solitario, che in Whitman

assume le vesti femminee «di notte, morte, madre,

mare» (H. Bloom, Il canone occidentale) e che viceversa

nella Stein si configura quale principio maschile, un

io distruttore e creatore insieme, che adegua la

scrittura, frantumandola, ad un reale

frastagliatissimo e mobile, per poi ricomporla e

ancora scomporla, in un perpetuo cominciamento,

che allude al farsi stesso dell’essere, colto nel suo

inarrestabile fiorire spazio-temporale. Un’evidenza,

questa, che affonda le radici non soltanto nella

grande tradizione inglese (si pensi al Tristram Shandy

sterniano), ma anche, appunto, nella singolarità della

scrittrice, in quel suo essere in un certo modo, che

al tempo stesso è già-sempre-comunità (quell’essere

«ognuno» prima nominato) e unicità irripetibile, che

si concretizza nel sentirsi al vertice di un processo

inaugurato da Geoffrey Chaucer, preumanista figlio

di commercianti inglesi, uomo dunque della classe

media nella quale, l’abbiamo detto, la Stein si

riconosce, giacché per lei classe media significa

36 G. Stein, Il fare graduale di The Making of Americans, in Id., Conferenze ecc., ed. cit., p.72.

221

«popolo», gente comune di cui fidarsi, come già, in

Italia, avevano scritto sia il Denina che il Berchet

agli albori della civiltà borghese.

Da Blanc de ta nuque. Uno sguardo

(dalla rete) sulla poesia italiana

contemporanea. 2006-2011

(Le Voci della Luna, Sasso Marconi 2011, pp.270)

225

Poesia e Blog

1. Canone e autorevolezza della rete

Questo saggio nasce dalle ceneri di un gossip

letterario, nato su autorevoli quotidiani nell’agosto

2006, per l’intrattenimento marinaro dei lettori

annoiati sotto gli ombrelloni. La questione è nota

(ma forse già dimenticata); così la riassume, a caldo,

Claudio di Scalzo su TELLUSfolio: «Tutto parte da

un’intervista, registrata da Florinda Fusco, dove

Nanni Balestrini afferma che “Per fortuna c’è

Internet che permette di far circolare ovunque, e

rapidamente ed economicamente, le poesie di tutti”.

Prosegue rilevando il magma che compare sul web,

la pazienza che ci vuole per trovare gli autori validi

226

ma anche la possibilità di dialogo con chi scrive

usando siti personali e blog e mail e così via. [...]

Successivamente Paolo di Stefano, sul Corriere della

Sera [...] ha chiesto l’opinione sulla questione al

poeta Giuseppe Conte che orficamente ha tagliato

la testa al ragionamento di Balestrini ravvisando nei

poeti da web degli “esibizionisti” conditi con

“materiale inerte”. [...] Da queste lamentele di

individui ben nutriti e allattati dall’editoria prende il

via Umberto Eco sull’Espresso (17 agosto, 2006:

"Dove mandare i poeti") [...] il quale afferma –

chiosando i conti di Conte sulla residua nobiltà di

Madama Poesia – che il corpo della meschina sul

web è composto da dilettanti senza arte né parte e

che neppure può essere selezionata non esistendo la

severità di riviste di settore atte a farlo – come un

tempo la gloriosa Fiera letteraria – e dunque che

forse è il caso di non dare troppo spazio a questo

oceano nelle stanze della cultura».

Sul tavolo, dunque, una questione complessa,

giacché coinvolge la neoalfabetizzazione

informatica, l’utilizzo di internet quale via per

l’apprendimento e l’aggiornamento continui,

l’identificazione generica di poesia lirica e interiorità,

227

il proliferare incontrollato della poesia in rete.

Proliferare che spesso ignora tradizione e

convenzioni fornite dalla società letteraria, la quale

perde così d’autorevolezza e dunque di potere sulle

magnifiche sorti e progressive della poesia. Ma non di

questo si vuol discutere qui: non della necessità di

controllare la poesia in rete; non del sarcasmo dei

poeti e dei critici laureati (e neanche dei disarmanti

limoni poetici che si possono leggere navigando); e

nemmeno si intende verificare per quale singolare

sorte, la poesia (epica, didascalica, satirica, burlesca,

epigrammatica eccetera) sia diventata (quasi

esclusivamente), nella modernità, poesia lirica. Qui

piuttosto si cercherà di informare intorno al

fenomeno poesia italiana nei blog e di interrogarsi

sulla relazione fra il canone tout court e alcuni poeti

particolarmente seguiti in rete.

Come molti sanno, il termine anglosassone

«blog» deriva dalla contrazione di «web» con «log»

(quest’ultimo rinvia alla forma-diario, il logbook,

appunto). Si tratta di una pagina infinitamente

lunga, fornita spesso gratuitamente da un hosting

(Splinder, Blogger, Wordpress, Blogitalia etc.) nella

quale ciascuno può inserire, oltre a collegamenti con

228

altri siti (links), testi, foto e, se tecnicamente esperto,

audio e video. La particolarità del blog, a differenza

dei siti genericamente intesi, sta nella possibilità data

a chiunque di commentare il testo pubblicato, con

tutti i rischi e i vantaggi che ciò comporta: sabotaggi

linguistici da un lato, occasione di incontro e

confronto dall’altro.

Pare che – in generale – ci siano più di 60 milioni

di blog nel mondo e che, negli ultimi 12 mesi, siano

state pubblicate circa 5 milioni di poesie (non

sempre inedite, e talvolta le stesse in differenti siti).

In Italia, sono almeno 1000 i blog che mettono la

poesia in primo piano. Per dare le giuste

proporzioni al fenomeno, è necessario tuttavia

riprendere un dato riferito da Vincenzo della Mea al

Workshop “Internet e poesia” di Bazzano (28 aprile

2007): analizzato il traffico del maggio 2006 in otto

blog qualificati, risulta che, su un totale di 2761

commenti, ben 2256 sono opera di soli 37 soggetti.

Vero d’altro canto che i puri lettori sono molti in

rete; nel mio blog, per esempio, commenta meno

del 15% dell’utenza giornaliera, che si aggira sul

centinaio di unità (dei passaggi senza commento,

almeno la metà sono fatti da navigatori occasionali

o capitati accidentalmente nel blog). Quei 15 utenti,

229

assidui frequentatori di Blanc de ta nuque, fanno

invece parte di un gruppo abbastanza omogeneo di

soggetti attivi nei maggiori blog poetici, che

probabilmente non supera il centinaio di persone,

dall’età media superiore ai trenta, di cultura medio-

alta e equamente spartite fra maschi e femmine.

Per quasi tutti questi navigatori, un sicuro punto

di riferimento lo forniscono AbsolutePoeGATOR

(che assembla anche blog internazionali e legati alla

narrativa) e PoEcast, un sito aggregatore

specializzato nella poesia, nato nel luglio 2006 e

ideato da Vincenzo Della Mea (poeta e ricercatore

informatico presso l’Università di Udine - facoltà di

Medicina e Chirurgia), che va progressivamente

infoltendo gli indirizzi di riviste on line e soprattutto

blog (nel complesso, al maggio 2007, una

quarantina). Senza entrare nel dettaglio, fra questi

possiamo trovare il grande vivaio della poesia

lineare del XXI secolo, ma anche accese discussioni

di poetica, di critica e di letteratura comparata; in

alcuni blog è possibile ascoltare la voce dei poeti

(poco esiste, invece, riguardo alla poesia

performativa), in altri esaminare pagine ormai

introvabili del cartaceo (per esempio articoli di

riviste degli anni Settanta-Ottanta) o leggere poeti

230

che, per diverse ragioni, non sono riusciti a rimanere

a galla nell’editoria cartacea. Ma la vera novità

rispetto agli spazi tradizionali è, come detto, il

dialogo sostenuto nei commenti, un dialogo nel quale,

come relaziona lo psicoanalista Marco Longo al

Convegno World Psychiatric Association “Mass-

media e salute mentale” svoltosi a Firenze il 4 - 5

Ottobre 2001, a proposito delle dinamiche di

gruppo in rete, «si assiste al costituirsi di una

"scena", in cui ben presto si riconoscono gli attori

principali, le comparse, il coro, il pubblico (lurkers);

oppure si assiste alla "messa in scena" di aspetti della

personalità dei singoli partecipanti, cosa

evidentemente di volta in volta favorita dal

particolare contesto dinamico che si viene a creare

in ogni gruppo mediatico».

Tenendo conto dei dati sinora espressi,

possiamo dunque concludere che in Italia, negli

ultimi due anni, si è formata una blogsfera poetica

molto vivace, composta di 30-35 blog militanti e

frequentata assiduamente da un centinaio di

persone, alle quali si devono aggiungere altri 80 -

100 lettori occasionali altrettanto competenti, ma

che raramente commentano.

231

Entro questa cornice, ho voluto verificare quali

autori fossero più spesso postati, recensiti,

commentati, così da individuare una possibile

corrispondenza con il canone contemporaneo,

inteso quale rosa di nomi eccellenti

imposti/proposti dalla società letteraria a cui è stata

riconosciuta autorità. A tal fine, ho contattato 27

bloggers interni all’aggregatore di PoEcast,

chiedendo loro di indicarmi gli autori viventi sui

quali, tra il febbraio 2006 e il febbraio 2007, hanno

scritto in rete e/o sul cartaceo con maggior

convinzione. Hanno risposto in diciassette,

fornendomi un ventaglio di 189 nomi: fra questi, ci

sono autori canonizzati dai grandi editori (A.

Anedda, P.L. Bacchini, F. Buffoni, A. Ceni, M. De

Angelis, G. D’Elia, L. Erba, V. Magrelli, G.

Majorino, E. Pagliarani, G. Pontiggia, A. Riccardi,

A. Zanzotto); nomi presenti in antologie di piccoli

editori e/o “militanti” (C. Annino, M. G.

Calandrone, B. Cepollaro, F. Davoli, P. Di Palmo,

F. Ermini, G. Fantato, A. M. Farabbi, M. Ferrari, N.

Gambula, M. Giovenale, E. Grasso, M. Gualtieri, R.

Lo Russo, G. R. Manzoni, G. Mesa, M.P.

Quintavalla, R. Teti, I. Travi), e giovani autori noti

ormai al pubblico della poesia tout court (T. Cera

232

Rusco, M. Desiati, P. Fichera, M. Fantuzzi, F.

Fusco, F. Matteoni, D. Nota, A. Ponso, M. Sannelli,

F. Santi, F. Serragnoli, S. Ventroni, M. Zattoni).

Moltissimi di questi tuttavia non frequentano la

rete o lo fanno saltuariamente; circostanza che, nella

blogsfera, diventa discriminante: se infatti

verifichiamo chi ha ricevuto almeno 3 voti, a

rimanere a galla sono soltanto Milo De Angelis e

Massimo Sannelli (blogger esso stesso),

accompagnati da autori meno noti altrove, ma

attivissimi in rete ossia interni a quel centinaio di

lettori-commentatori prima indicati. Oltre al mio

nome (scelta prevedibile perché nata nell’alveo di

un’amicizia che ha mosso, fra l’altro, questa ricerca)

sono stati indicati: L. Ariano, C. Babino, F.

Centofanti, F. Cerrai, V. della Mea, G. Pepe, D.

Raimondi, C. Sinicco, S. Aglieco, F. Alborghetti, G.

Fabbri, F. Marotta, S. Massari, A. Padua e A. Pizzo.

La prevedibile non corrispondenza fra Canoni

ufficiali e poeti premiati dai blog offre lo spunto ad

alcune considerazioni di merito, a cominciare da

quella riguardante la differente natura dei due

sistemi. Il criterio d’eccellenza determina infatti

l’indole selettiva ed elitaria del canone, mentre i

blog, essenzialmente inclusivi e senza proprietà,

233

sono spazi colonizzabili dal basso, attraverso la

libera iniziativa e la cooptazione amicale

(l’organizzazione delle antologie segue invece regole

più complesse, legate al do ut des editoriale,

accademico e ideologico, oltre che a scelte

d’appartenenza poetica). Anche le finalità sono

differenti: non sarebbe difficile dimostrare come le

società del capitalismo avanzato, attraverso il

canone nazionale dominante, si sforzino di

consegnare un’immagine affidabile di sé ai posteri e

cerchino in esso un rispecchiamento che sia

tendenzialmente edificante, appunto perché

gerarchizzato e ordinato, mentre i blog sono un

arcipelago che agisce orizzontalmente e si espande

per via centrifuga, un arcipelago anarchico che

rivendica autorevolezza senza chiedere deleghe alla

società letteraria, la quale, dal canto suo, non ha

interesse ad intervenire nella questione perché

ritiene il cartaceo una tappa più prestigiosa del

virtuale e sa che questo è il sentire anche della

maggior parte degli internauti. Per questa ragione,

fra l’altro, gli autori canonici non muovono un dito

per essere inclusi nei blog, con ciò amplificando la

sensazione che questo spazio libero ed autogestito

si stia sempre più rivelando incapace di interagire

234

con le istituzioni territoriali (che hanno un ruolo

evidente nella selezione autorevole), mentre la

spinta alla verticalizzazione, alla gerarchia

meritocratica – nella misura in cui consente di far

emergere i valori in campo – pare appunto

un’esigenza degli stessi poeti in rete. Questi

differenti aspetti mantengono dunque separati i due

ambiti, quello che persegue il modello di tradizione

autorevole e la spartizione del potere attraverso

l’emblema letterario, e la blogsfera, che sponsorizza

se stessa e i propri autori, in una circuitazione

autoreferenziale assai frustrante. Un aiuto, in questo

senso, potrebbero darlo le grandi case editrici, se

gestissero, ciascuna per proprio conto, uno spazio

virtuale, che facesse da interfaccia tra il libro e il

dattiloscritto, tra il riconoscimento pubblico di

valore e il laboratorio di autori in fieri. Ciò

consentirebbe maggiore visibilità ai poeti stimati in

rete perché obbligherebbe gli editori a frequentare i

blog, così da poter selezionare un ventaglio

maggiore di autori appetibili. L’autorevolezza e,

paradossalmente, la visibilità sono infatti gli anelli

deboli della blogsfera, se, come pare, i blog

catalogati da PoEcast e da AbsolutePoegator sono

qualificati soltanto per l’utenza internauta e se, come

235

detto, questa non arriva complessivamente alle 200

unità, laddove il pubblico della poesia in cartaceo è

perlomeno dieci volte tanto. Vero del resto che gli

autori premiati nei blog non stanno a guardare,

avendo ognuno pubblicato più di un libro (anche

grazie alla piccola editoria di qualità, che promuove

autori spesso formatisi nelle palestre-blog) e

collaborando attivamente con le riviste in cartaceo.

È proprio a questi due livelli che le obiezioni

avanzate da Conte e Eco s’indeboliscono.

L’esibizionismo lamentato dal poeta ligure, infatti,

che pure esiste in rete, viene smentito dalla qualità

dei libri pubblicati e dalla personalità degli autori

citati, che bene emerge nei blog; così come la

mancanza di una “Fiera letteraria”, che orienti i

lettori, viene in parte superata dall’autorevolezza

degli aggregatori e dal tam tam messo in moto dai

meeting recentemente svolti. Qualcuno potrebbe

rimarcare il divario tra l’eccellenza dei nomi che

parteciparono alla Fiera e il parziale anonimato dei

poeti e dei critici che alimentano la discussione e

l’arte nei blog. Difficile contestare; tuttavia si

leggano alcune intense discussioni avvenute in Poesia

da fare o in Absolutepoetry o in LiberInVersi e la

distanza s’accorcerà, ne sono sicuro.

236

2. Meeting

Da qualche tempo la comunità nomadica dei

bloggers si sta muovendo alla ricerca del sacro Graal

che faccia finalmente fiorire la desolata terra

editoriale, devitalizzata dall’accademia e dalle

corporazioni. Si sono mosse per prime Macerata

(luglio 2006) e Foggia (dicembre 2006), per

verificare lo stato delle cose nella blogsfera. Matteo

Fantuzzi, ospitato dagli atti foggiani (al momento

ancora inediti) descrive il variegato mondo della

poesia in rete, mettendo in rilievo le differenti

finalità dei singoli blogger e la specificità anche

geografica di alcuni indirizzi (vedi i poeti

marchigiani legati all'esperienza de La Gru),

giungendo alla medesima conclusione dell’incontro

di Macerata, ossia alla necessità «di reindirizzare alla

carta» il lettore e la poesia. Gli interventi di Macerata

hanno infatti visto l’esperienza-blog come

«immagine e tappa di un nuovo sviluppo

collaborativo, non proselitistico, che poi si andrà a

concretizzare in una diffusione più ampia, cartacea

e di presenza in corpore, cioè di conoscenza e di

relazioni de visu, al fine di varare un organo

237

divulgativo concreto e di organizzare sempre più

incontri, festival e attività di matrice letterario-

artistica” (Orgiazzi – Manzoni).

Recentissimamente, a Monfalcone, entro la cornice

dei Cantieri internazionali di Poesia (a cura di Lello

Voce), si è svolto l’Absolute BlogMeeting, il cui

verbale, redatto da Massimo Orgiazzi, si può leggere

su L'Attenzione, che fra l’altro ha impostato l’intero

numero 7 (aprile 2007) sul «rapporto tra letteratura

e internet».

Preso atto dei tre momenti, all’ultimo dei quali

ho partecipato, ecco le mie considerazioni:

1) Tenendo conto che gli inviti a Foggia e a Macerata sono stati assai selettivi e che all’incontro di Monfalcone sono mancati circa il 40% dei bloggers che avevano dato l'adesione, mi sembra inevitabile supporre quanto ancora ci sia da costruire, tra gli operatori, in merito ai concetti di relazione e confronto;

2) A Monfalcone, i relatori sono comunque riusciti a far convergere le aspettative attorno ad un’idea che, pur faticando a concretizzarsi, mi sembra interessante: quella di creare un

238

luogo virtuale autorevole (per esempio una newsletter) nel quale compaia il meglio dei blog, così da orientare il lettore medio. La cosa non è tapina anche se, come rileva Alessandro Ansuini in un commento alla relazione di Orgiazzi, si rischia di ripetere il modello canonico della tradizione cartacea, quando invece – a suo dire e, come abbiamo visto, anche nelle aspettative foggiane e marchigiane – il vero problema è quello di «convogliare chi frequenta la rete in punti di incontro sempre più numerosi, come questo blogMeeting, come le letture, i reading, i festival e quant’altro»;

3) In effetti, trasformare lo spazio virtuale in incontro reale è decisivo: la cosa che in generale manca (e che è mancata anche al BlogMeeting di Monfalcone) è proprio il pubblico. La scommessa, a mio avviso, dev’essere quella di appassionare il lettore in rete sino a portarlo nelle sale, nelle piazze, nelle librerie, mantenendo aperto il dialogo e il confronto con la pluralità delle voci poetiche esistenti;

4) In questo senso, una rete di bloggers che non riesce ad interessare il pubblico è inutile

239

perché amplifica la natura autoreferenziale che già la caratterizza;

5) Per far ciò, servono almeno tre condizioni: visibilità, continuità e un supporto finanziario adeguato, il che implica l’incontro dei bloggers con le varie istituzioni territoriali e uno spazio maggiore nei media. Non mi pare, infatti, che l’autonomia, la multimedialità, la rapidità della pubblicazione in rete e la gratuità implicita nella proposta-web siano sufficienti ad incoraggiare la nuova utenza e nemmeno i vecchi appassionati di poesia, la maggioranza dei quali ama, per ovvie ragioni, l’incontro live;

6) La gestione di una rete-blog, che non sia di semplice (anche se utilissima) aggregazione, bensì uno snodo propositivo e autorevole, necessita di una equipe competente con una precisa divisione del lavoro, così che sia l’ideazione, la produzione e la distribuzione dei contenuti e sia la gestione della relazione con il territorio (sia esso reale che virtuale) seguano il principio economico (massimo profitto, minima spesa). Il pericolo di tale organizzazione è che essa diventi nuova accademia oppure una corporazione che censura altre vie.

240

3. Vita di un blog

Ci si prepara per un aprile assai crudele, in cui

fioriranno due lillà: l'uno a Vimercate, il 17 (2010),

con un vivaio sopraffino di piante rare e men rare

(titolo: La poesia nella rete), l'altro a Verona, la cui

corolla s'interrogherà sull'evenienza che «la poesia –

come scriveva ieri Alessandro Assiri in

Universopoesia, il blog di Matteo Fantuzzi –

rappresenti ancora un’educazione intellettuale e si

possa continuare ad esprimere come forma della

conoscenza» (C'era una volta la poesia online). Cercherò

di essere presente in entrambi e magari di

relazionare gli eventi in un blog collettivo che sta

per nascere e di cui farò prossimamente parola. Da

questa triplice evenienza, difficile dire che la deriva

dei blog di poesia imperi (cfr. Fantuzzi), che il suo

requiem sia da scrivere subitamente. Semmai, è da

osservare che l'infante, le petit blog, non è stato

ancora battezzato, messo seriamente in piazza dalla

polis. È quest'ultima, piuttosto, la moritura, la cagna

che vagola tra le fabbriche-tombe del nord-est, nei

parlatoi televisivi, nei bar dove stazionano i

senzalavoro, ad upupare insomma nelle terre morte

241

nostrane, in cerca di spettacolo e consenso, mentre

nella rete – non ovunque, certo – il discorso sulla

poesia è attivo, stimolante, tanto da diventare reale,

appunto, nei due prossimi appuntamenti. Non si

vuole, qui, discutere sulla natura dell'ideal-Blog,

quale sia la sua essenza; semmai, parafrasando

Aristotele, s'intende partire dai modi in cui quell'uno

si mostra, anzi – restringendo ancor più – dal modo

in cui Blanc si coniuga e vive, evitando

sbrodolamenti autoincensori. Dunque: sono

convinto che un blog sia l'effetto di una scelta; esso

infatti non prende la parola da solo e non la cede; se

si spegne o se invece continua a dare frutti, dipende

dalla dedizione dell'autore, dalla fiducia che egli

ripone in questo mezzo, dato un obiettivo. Se uso il

blog per far conoscere la mia poesia (funzione

vetrina), difficilmente arriverò al bersaglio. L'editoria

che conta, infatti, disistima la rete perché non la

conosce; e la critica, per suo conto, ci passa

saltuariamente, spesso solo per sponsorizzarsi. Le

mani le lava fuori, là dove può far carriera. Se

invece uso il blog per farmi conoscere, per farmi

ammirare, rischio di perpetuare l'assunto

foscoliano: «tu sarai altamente lodato, ma spento

poscia dal pugnale notturno della calunnia». Per

242

farla breve: la via scelta da Blanc de ta nuque ha come

fine la didattica della poesia in generale e la sua

divulgazione, in special modo se italiana e

contemporanea. Obiettivo chiaro quest'ultimo, ma

che andrebbe meglio definito, giacché dove cominci

il contemporaneo è questione assai dibattuta. Diciamo

allora che qui si fa incontrare storia e cronaca, nella

misura in cui è il brusio delle voci che si susseguono

nel presente ad essere la vera sostanza di Blanc, quel

brulichio di testi che mensilmente si affacciano sul

mercato e che hanno bisogno di una prima

scrematura, di una lettura sintetica ma non

grossolana in grado di orientare il lettore e lo stesso

autore. Quei testi che forse, fra qualche anno,

entreranno nel dialogo critico più importante,

oppure che saranno dimenticati. Lascio

appositamente fuori dai post i poeti canonizzati, che

meriterebbero un discorso critico più articolato e

che comunque hanno già garantiti i loro spazi

pubblici importanti (ma neanche tanti, invero, visto

che nemmeno i quotidiani più noti dedicano alla

poesia più di uno o due articoli l'anno).

Che il lavoro svolto su Blanc abbia un senso, lo

ricavo per esempio dai risultati del verbale del

Concorso "Beppe Manfredi per la Poesia Edita

243

Opera Prima" (Edizione 2009), la cui giuria

(Giorgio Bàrberi Squarotti, Elio Gioanola, Valter

Boggione, Beppe Mariano, Gian Piero Casagrande,

Gianni Menardi, Ada Firino) non conosco

personalmente e quindi non posso dire di averla

influenzata in alcun modo (vero che qui c'è un

cappello sull'ultimo libro di Bàrberi Squarotti, ma

credo che lui nemmeno lo sappia). Insomma,

quanto si evince dalla graduatoria è che molti dei

premiati sono in relazione con Blanc o con me:

Patrizia Puleio ha vinto con Prove di sorriso,

dell'editrice puntoacapo, di cui mi pregio di essere,

con Mauro Ferrari e Massimo Morasso, direttore

della collana "Format"; la terza classificata è

Alessandra Conte, con Breviario di novembre (Raffaelli

2009), libro al quale ho scritto la prefazione e che ha

già vinto il premio Gozzano; quarta è Anna Ruotolo

(vincitrice del premio speciale "Silvia Raimondi"), il

cui testo sarà recensito su Blanc fra qualche

settimana, secondo palinsesto deciso mesi fa;

settima è arrivata Stefania Crozzoletti, recensita

nell'aprile 2009. Infine, al nono posto è giunto

Spaccasangue di Iole Toini, uscito per Le Voci della

Luna, nella collana "segni" da me diretta. Chiamo

dunque vivo un blog che s'intrecci con la realtà, che

244

dialoghi con essa, che sia causa di eventi non

virtuali; un blog che abbia dei lettori che pensano

reale l'incontro con la poesia; un blog attento a

quanto accade in rete, che non si sottrae al

confronto. Ed è ben noto agli internauti che non

guardano il dito bensì la luna, che Blanc non è l'unico

a respirare bene di questi tempi. Certo si potrebbe

fare meglio, sfruttando di più le opportunità

tecnologiche offerte dalla piattaforma. Ben vengano

blog dove video e sonoro sono attivi, dove i link

tengono aperti canali con editori e quotidiani

importanti. Da parte mia, faccio quello che posso,

con le mie elementari competenze informatiche,

con i miei limiti intellettivi e i sempre troppo pochi

libri letti.

245

4. Vimercate, poesia a caldo

Due parole a caldo sull'incontro di Vimercate,

Poesia nella rete. Gli interventi si sono polarizzati su

due domande: sono vivi e a che cosa servono i blog

di poesia? E: perché non esiste un pubblico della

poesia? La mia impressione è che siano morti i blog

degli ex giovani, quelli che hanno incontrato la

poesia anzitutto in rete e che si sono autoproclamati

innovatori della comunicazione letteraria. Quei

giovani che ci credevano in questa missione, in

questa rivoluzione offerta dalla rete. Il pubblico

però non è arrivato ai loro appuntamenti sul

territorio (mai visto uno spettatore, nei 4 anni che

frequento l'ambiente, che non fosse un blogger-

poeta). La colpa è comunque relativa, visto che,

anche alle letture predisposte dai più grandi, il

pubblico si conta a colpo d'occhio. Il pubblico-non-

poeta non c'è, punto. E anche il poeta, quando si

affaccia in sala, spesso sta lì solo per leggere i propri

versi. A Vimercate non era prevista lettura e infatti

c'eravamo solo noi, come direbbe Vasco, una

ventina di operatori preoccupati per il destino della

poesia dentro e fuori della rete. Le ragioni di questa

246

scomparsa le ha spiegate bene Francesco Marotta:

manca un'educazione permanente alla poesia; la

poesia insegna a pensare e ciò disturba il potere; la

scuola toglie ai ragazzi ogni entusiasmo rispetto alla

libertà e alla gioia offerta dalle parole finalmente da

fare. Invero, era sottointeso, mai c'è stato un

pubblico. Dante lo dice qui e là (ma allora l'Italia era

un sogno); dall'Unità, politica e scienze varie hanno

relegato la poesia nell'orto dell'estetico che, ben

presto, è diventato dell'anestetico. Ecco allora "Il

Politecnico" e "Officina" che cercarono un

pubblico di sinistra (trovando invece resistenza

proprio nel PCI, schiacciato da un super-io gigante)

e la neoavanguardia, che riportò l'anestetico

all'estetico, riconoscendo quest'ultimo quale luogo

allegorico del conflitto reale, con buona pace degli

operai che, negli anni Sessanta, parteciparono in

massa agli impoetici scioperi per il contratto. Dalla

metà degli anni Settanta cominciò la poesia

contemporanea: milioni di poeti, zero spettatori,

pochi lettori. Perché è questa l'altra questione

emersa ieri, e nota a tutti: nemmeno i poeti leggono

gli altri, dunque i blog di poesia sono eroici almeno

in questo (lo dicono Ottavio Rossani e Giacomo

Cerrai): per recensire i libri bisogna leggerli, capirli

247

e, ovviamente, scriverne. Grande fatica e grande

soddisfazione quando il poeta ringrazia (questo non

è stato detto, ma lo dico io adesso). Inoltre i libri

non si comprano, se non l'autore all'editore. Triste

realtà, necessaria tuttavia in un sistema editoriale

dove altrimenti leggeremmo 5-6 poeti l'anno,

laddove almeno 30 valgono, ogni anno, Einaudi,

Mondadori, Garzanti.

I blog vivi sono dunque quelli in cui ci si spende

senza risparmio e senza aspettare il padrino che ti

tolga dal mucchio per pubblicarti gratis. Guardando

i visi dei presenti, gli "anta" sono di casa; rari i più

giovani: Matteo Fantuzzi, che ancora non ha

digerito l'antologia di Liberinversi (e, sinceramente,

non ho ancora capito perché), ma che ha il merito

di portare avanti un sogno sulla triangolazione

poesia-rete-pubblico, che tuttavia fatica a diventare

un progetto reale, strutturato. Questione, questa

della progettualità in genere, affrontato di punta da

Dome Bulfaro (classe 1971), che lamenta la

mancanza di coraggio ideativo in gran parte degli

operatori culturali, che si muovono «come dei

paralitici», anziché pensare in grande, presentando

agli assessori, agli enti, ecc., progetti d'ampio

respiro, gestiti sulla divisione del lavoro, come fa,

248

per esempio, il sito Poesia presente e A briglia sciolta. Io

credo ci sia spazio per tutti: per i blog individuali,

limitati nelle risorse, e per quelli collettivi, dove un

regista, un poeta, un video maker costruiscono

percorsi audiovisivi e/o interni a realtà complesse,

come il carcere, gli ospedali, le scuole. Se già succede

questo, chiaro che i blog di poesia non sono morti,

bensì gestiti da gente di mezza età abituata a lottare

per sopravvivere oppure da giovani rimasti fuori

dagli entusiasmi antologici passati (cfr. Santagostini,

Ladolfi, Cucchi), critici per altro felici nel

riconoscere poeti davvero promettenti (Ponso,

Pugno, Cattaneo, Biagini, Serragnoli, Zattoni e

altri), lasciando magari fuori uno come Fantuzzi,

che pur merita riconoscimento ufficiale, come in

effetti sta accadendo. Un contributo interessante è

venuto da due poeti d'antica militanza, Maria Pia

Quintavalla e Luigi Cannillo, quando hanno parlato

di «comunità di poeti», di «popolo di poeti» che

discutono nella rete come accadeva un tempo nelle

redazioni delle riviste o nelle case private. Si pensi

alla Roma della Morante che vede Pasolini e

Moravia e Pecora e Bellezza oppure, 10 anni dopo,

al sodalizio Sica, Salvia, Tripodo, Scartaghiande,

Damiani, Magrelli, Lodoli ecc.; o alla Milano dei

249

Porta, Loi, Majorino, Raboni, Fortini (a sentire i due

poeti milanesi, ora le cose non stanno più così,

malgrado a me sembri, da esterno, che l'attività di

"Milanocosa" e quella legata alla "Casa della Poesia"

siano realtà molto attive sul territorio). Vero tuttavia

che nei blog la discussione è ultimamente calata (su

questo in gran parte si basa la sentenza di morte cui

sopra riferivo) anche se la comunità di poeti, che

partecipa senza rancori alla vita di rete, mi pare

esista sul serio, così come, appunto, quella sul

territorio: vedi Milano, l'area marchigiana, il nord-

est (con i nuclei Verona, Vicenza, Trieste, Gorizia),

Bologna (sul centro sud ditemi voi, qui nei

commenti).

250

5. I commenti nei poeblog e loro destino

I poeblog si sono rivelati sin dapprincipio

un'ottima vetrina per tutti coloro che si occupavano

di poesia, ma non avevano ancora avuto le occasioni

migliori per mettersi in luce, vuoi per questioni

generazionali, per collocazione periferica rispetto

alle grandi città oppure semplicemente perché non

avevano i numeri per guadagnarsi il Parnaso. I

"commenti" ben scritti hanno infatti permesso a

molti poeti di farsi conoscere, di far sedimentare il

proprio nome e le proprie idee in rete, entro una

comunità circoscritta ma vivace. Tra il 2003 e il

2007, quando sono nati i principali poeblog italiani,

si è riso e pianto e ragionato sul far poesia e

sull'importanza del medium, citando questo e

quello, facendo in modo che tutti capissero che non

eravamo gli sprovveduti di turno, bensì studiosi,

intelligenti e, se possibile, anche simpatici. Talvolta,

i più birboni hanno giocato al gatto e al topo con

l'autore o con il gestore del blog, cercando di

buttarla in vacca, forse per invidia forse perché

l'anonimato porta naturalmente al conflitto.

Quest'aspetto, vissuto dai più seri come distorsione o

251

patologia, è diventato fisiologico in certi siti o

cancerogeno in altri. In Blanc non ha mai avuto

molto successo, per fortuna, prevalendo invece la

pacatezza e concentrazione sull'oggetto dei 100, 150

lettori, nessuno dei quali tuttavia è un poeta o un

critico di fama (non si offendano quei pochi che lo

sono eppur passano di qui). È questo il punto, che

non riguarda soltanto Blanc: la rete non è amata da

chi è poeta pubblico, riconosciuto. Non lo era prima

e non lo è adesso. La rete ha risposto evitando il

confronto, postando autori emergenti e/o giovani,

rimescolando il canone, accusando l'accademia,

rassegnandosi a questo dato, sociologicamente

sensibile.

Lo si è detto più volte: tra i poeblog da un lato e

l'editoria che conta, l'università, gli autori importanti

dall'altro, c'è uno iato evidente e, al momento,

insanabile. Lo sarà fintanto che il medium sarà visto

con diffidenza, ma sopratutto perché la rete e, in

particolare, lo spazio dei commenti, tolgono i filtri

relazionali, mettendo sullo stesso piano autore e

lettore. Ciò spaventa parecchi poeti, non abituati al

confronto, ma soltanto alla riverenza con piroetta.

Ma spaventa anche chi conosce la natura dei

252

messaggi in rete, spesso connotati emotivamente e,

per questa ragione, carichi di fraintendimento.

Difficile dunque che la qualità dei commenti sia

salvata da loro e improbabile che i veterani dei

poeblog investano ancora molte energie a

commentare autori nuovi. Restano i giovani, nati

negli anni ottanta e novanta, poeti molto

interessanti ma poco inclini, se non in rari casi, a

spendersi per i più maturi o ad investire in rete per

nuovi progetti, avendola trovata già pronta,

strutturata, da sfruttare anziché da arricchire. E

semmai qualcuno intendesse farlo, dubito che

accadrebbe attraverso commenti che richiedano un

forte impegno di tempo e di riflessione. Per tutte

queste ragioni credo che dovremo rassegnarci ad un

sistema di poeblog in cui il testo sarà sempre più

centrale (e, perciò stesso, dovrà essere di valore),

mentre i commenti tenderanno a zero, tranne quelli

leggeri, quei cenni d'affetto la cui importanza è

comunque vitale per tutti.

253

6. La natura della rete: tra pesciolini di plastica

e ossi di seppia

Da alcuni anni seguo e segno quotidianamente

alcuni quartieri della rete, ne marco gli angoli, come

un cane di strada. Ho anche una mia cuccia, bianca,

dove deposito gli ossi. Talvolta sono di seppia,

talaltra di gallina, ma l'intenzione è sempre la stessa:

offrire un catalogo di bontà ad un pubblico presente

e futuro.

Girando per la città virtuale, incontro di tutto,

essendo questa un luogo liberamente accessibile,

costruito da chiunque per ogni cosa. Anche la poesia,

lasciata libera di brucare bellezza e verità dalla

blogsfera, rischia di crescere stereotipata. Non

dobbiamo gridare allo scandalo, come leggo qui e là,

navigando; trovo invece in tutto ciò un ennesimo

emblema della povertà dei tempi in cui viviamo. Se

la poesia che si sente in giro è quella recitata sulla

sedia dal bambino ben educato la domenica di

Pasqua, quella banalmente intelligente di "Zelig",

quella imparata al liceo, se tutto ciò che vogliamo

dalla poesia è che sia un contenitore del nostro

magnifico ego, allora è normale che anche la rete

254

pulluli di pesciolini di plastica. Obiettare che in

quest'ultima manca una docimologia condivisa sulla

qualità dei testi non ci porta da nessuna parte. Tale

evidenza, infatti, è un dato epocale, conseguente alla

crisi delle ideologie e al moltiplicarsi dei centri di

potere sul territorio; questa condizione semmai,

appunto per le due ragioni storiche appena espresse,

andrebbe riconosciuta nella sua novità, in quanto

finalmente capace di accogliere nella discussione –

prima accademica, elitaria o di corporazione –

interlocutori altrimenti esclusi o emarginati. Non

ultimi i bloggers, il cui background plurale allarga

senz'altro, anche se inevitabilmente in chiave pop,

la materia del contendere. Fra l'altro, la mancanza di

un vertice, di un'oligarchia di comando, sostanzia la

natura stessa del web: esso infatti altro non è che un

labirintico pullulare di arcipelaghi, spesso

indifferenti l'uno all'altro o, alla peggio, in reciproca

tensione. La rete è infatti una selva, piuttosto che

una società organizzata democraticamente, uno

spazio babelico agguerrito, dove la libertà estrema

diventa spesso arroganza.

Talvolta capita, tuttavia, che l'arcipelago sia

fondato su altro: rispetto reciproco, curiosità di

conoscere, amore per la professione, dedizione.

255

Posti così ce ne sono a bizzeffe in rete, in tutti i

settori. Chi, malgrado questo, si ostina a buttare il

bambino con l'acqua sporca, è un sabotatore o un

malizioso. E comunque il bambino, dentro e fuori,

continua il suo serio lavoro lo stesso, giocando con

il suo lego. Nel mio caso, costruisco via Blanc de ta

nuque, dando spazio alle poetiche più diverse,

sostenendo non soltanto il merito e i piccoli editori,

ma anche i lettori che vogliono capire che cosa

accade nella poesia, specialmente italiana. Lo faccio

tessendo relazioni, non erigendo steccati; portando

il mondo reale nel web, non edificando un mondo

virtuale, chiuso al confronto con chicchessia.

Al di là di quanto si legge in giro, dove giornali e

accademia si rubano il pane di bocca per

sputacchiarlo con maggior livore sulla testa del web,

e dunque scavando e mirando di là da questa

assiepata masnada, in rete si trova un onesto e

talvolta lodevole lavoro. Penso in particolare ai siti

poetici di cui Poecast ogni giorno attesta l'operato, ai

poeti e ai lettori che frequentano Blanc, alle riviste in

rete, ai siti dedicati ad un poeta d'antologia. Certo,

dopo anni di onorato servizio, credo sia ormai finita

la fase di mappatura generalizzata, di ostentata

esibizione di creatività; tuttavia, l'autorevolezza per

256

cominciare una selezione ulteriore, che metta in luce

alcune linee forti della poesia contemporanea, la si

guadagna sul campo, scrivendo critiche autorevoli,

anzitutto, e postando poeti su cui ci si gioca la

reputazione. Tale scrematura non può essere infatti

decisa a priori, né da un cenacolo di mandarini né

dall'agenzia bloggers riuniti. Occorre, invece,

contemporaneamente al lavoro in rete, tenere vivo

il dialogo fra ogni parte del sistema (studiosi, autori

e riviste interessate alla discussione), organizzando

incontri pubblici in cui si parli non tanto di come

vincere la battaglia del virtuale o su chi debba

decidere le regole per tutti, bensì di poetica, di

politica culturale, del rapporto fra tradizione e

avanguardia, fra poesia e scuola, della tecnologia

applicata alla divulgazione della poesia. Si

producano insomma idee e si materializzino

progetti, anziché i soliti lamenti, che dalla rete,

occorre dirlo, faticano a dissolversi.

Dialogando con Marco Giovenale (a partire da una recensione uscita su "Le Voci della Luna" n.47)

259

Puntare l'attenzione critica sul bordo del verso,

sulla terra di confine dove poesia diventa prosa e

viceversa, è un esercizio salutare non tanto alla

storiografia letteraria, bensì alla scrittura creativa in

quanto tale. Essa infatti è sempre, al di là dei

modelli, sconfinamento perpetuo dai codici dati,

pensiero che scarta il dato, che lo rigenera grazie alla

fertile lingua di ciascuno. Pur dandolo per

presupposto, la strada intrapresa da Prosa in prosa (Le

Lettere 2010) non parte da questo assunto generale;

essa piuttosto cerca fondamento in una precisa

matrice ideologica, pensandosi quale conseguenza

della crisi dei codici, tanto quelli alti, del ‹‹poetico»,

quanto quelli denotativi, referenziali.

260

L'idea, che diventa prospettiva di militanza

critica nei confronti di una tradizione poetica, in

specie italiana, si sostanzia in questi due elementi:

negare ogni ‹‹trascendenza» alla parola e contestarle

l'orizzonte retorico-simbolico, così da produrre,

come scrive Paolo Giovannetti nella dottissima

prefazione, ‹‹un testo che non suona e gioca tutte le

sue possibilità in un bianco/nero integralmente,

disperatamente gutemberghiano». Della

definizione, mutuata anzitutto da J.M. Geize,

colpisce l'avverbio esistenzialista ‹‹disperatamente»,

che riporta l'esercizio intellettivo degli autori

antologizzati (Inglese, Bortolotti, Broggi,

Giovenale, Zaffarano, Raos) a farmaco freddo

contro l'angoscia, ossia a quel sentimento prodotto

dal non senso dell'esserci, tematizzato a suo tempo

da Kierkegaard e Heidegger, che costituisce fra

l'altro una delle fonti per comprendere la relazione

fra parola poetica e finitezza. Il venir meno della

‹‹trascendenza» consiste nel pensare il particolare

nella sua funzione fondante, mancante di nulla, e

che qui si traduce nell'indipendenza dal ‹‹genere»,

modo invece dell'Universale. In questa prospettiva,

la scrittura concreta, singolare, viene prima del

261

cappello che distingue la poesia dalla prosa e da

qualsiasi altra verticalità esterna a tale pratica.

Ciò che mi convince di meno, e che comunque

non è nuovo nemmeno in Italia, è l'impoverimento

programmatico della lingua, il suo appiattimento alla

forma di comunicazione ordinaria, desublimata, cui

l'unica funzione critica consiste nel disvelare il caos

contemporaneo (dei codici etici, grammaticali e

politici) tramite lacerti metonimici, capaci di

produrre cortocircuiti nel tessuto della

comunicazione sociale. L'operazione, che in fondo

altro non chiede al lettore se non ‹‹di confrontarsi

con una pura sintagmaticità combinatoria"

(Giacometti), pur avendo il merito di riportare al

centro del dibattito la questione semiologica del

rapporto fra senso e significato, fra tecnica ed etica,

fra sapere scientifico e quello umanistico, letta con

la terminologia di de Saussure, appiattisce la parole

sulla langue, ossia il tracimare linguistico della

caducità singolare nel codice fisso della comunità

parlante e ciò, anzitutto, per la persuasione che il

genere lirico abbia esaurito le proprie possibilità

espressive. Tale assunto si combina con la

convinzione che la stessa langue è in frantumi,

consegnandosi dunque alla parole non come tessuto

262

fondante, bensì quale magazzino di maschere,

arcipelago di detriti incapaci di riconsegnarci un

senso univoco del reale. Dando per acquisita questa

seconda istanza e seguendo l'indicazione di

Giacometti, mi chiedo quale sia la necessità

intrinseca dell'impoverimento della parole, quale

l'evidenza che davvero non ci sia alcun lasco fra

omologazione e creatività individuale, che non sia

intesa quale catena destabilizzante operante

all'interno dell'omologazione stessa. Leggendo

tuttavia gli autori, come lo stesso prefatore

ammette, è evidente lo scarto operativo dal

presupposto teorico. Strategie differenti delimitano

infatti poetiche conciliabili soltanto nella cornice, in

un orizzonte pre-testuale che è tradizione

semiotico-strutturalista (soprattutto francese e

statunitense) e militanza avanguardistica, giacché

pensa al postmoderno non come modo

dell'apertura storico linguistica contemporanea (che

pervade anche la lirica, dunque), ma quale preciso

schieramento di campo, con annessa

sprovincializzazione della cultura letteraria italiana,

troppo chiusa nei propri modelli di radice

simbolista, e poco propensa ad interagire con

scienza e tecnologia. Questione invero già posta

263

dalle neoavanguardie degli anni Sessanta. In questo

senso, credo sarebbe utile al dibattito una maggiore

chiarezza critica verso la tradizione italiana (dai

Vociani a Campana, da Pavese a Savinio, da

Zanzotto a Rosselli, da Villa a Spatola, da Pizzuto a

Manganelli, per non dire dei Novissimi, dei Gruppi

'63 e '70, e dei poeti di "Anterem"), così da

rintracciare una linea autorevole legata anche alla

nostra storia novecentesca e alla storia della nostra

lingua. E' quanto intende fare il controcanto in

postfazione di A. Loreto, che, dopo aver ripercorso

la storia della tautologia ‹‹arte è arte» (inutile dunque

dire ‹‹prosa» ma intendere ‹‹poesia»), cava dai sei

autori, con pertinenza, lacerti cinematografici,

plastici, pittorici e letterari che danno ai loro testi

una vitalità straordinaria, che certo merita

attenzione.

A questa recensione, seguì presto una risposta di

Marco Giovenale, pubblicata in Slow Forward, il suo

sito, che riporto perché ricca di spunti:

Seleziono alcuni estratti dalla recensione che

Stefano ha dedicato – e lo ringrazio – a Prosa in prosa

(Le Lettere, 2009):

264

(1) «Ciò che mi convince di meno è

l’impoverimento programmatico della lingua, il suo

appiattimento alla forma di comunicazione

ordinaria»

(2) «appiattisce la parole sulla langue»

(3) [Prosa in prosa nutre la] «persuasione che il

genere lirico abbia esaurito le proprie possibilità

espressive»

(4) [Quelle dei sei autori sono] «poetiche

conciliabili soltanto nella cornice, in un orizzonte

pre-testuale di tradizione semiotico-strutturalista e

di militanza avanguardistica»

(5) «credo sarebbe utile al dibattito una maggiore

chiarezza critica verso la tradizione antisimbolista

italiana (da Zanzotto a Rosselli, da Villa a Spatola,

da Pizzuto a Manganelli, per non dire dei Novissimi,

dei Gruppi ’63 e ’70, e dei poeti di Anterem)»

E propongo alcune contro-osservazioni:

(1) + (2) Queste intenzionali «bidimensionalità»,

in certi aspetti linguistici, a mio avviso, sono

riferibili solo ad alcuni degli autori di Prosa in prosa.

Inoltre, dar loro il nome di «appiattimenti» è scelta

che rischia di avere i connotati di un giudizio

265

svalutativo, lecito ovviamente, ma esatto? Quelle

scelte sono o comportano un appiattimento? (Sempre

ammettendo la bidimensionalità, come scena del

denotativo). In alcuni degli autori dell’antologia, per

altro, specie Raos, Inglese e Zaffarano, la verticalità

o meglio ancora molteplicità lessicale – e dunque uno

scarto parole/langue – è in numerosi passi fin

troppo percettibile. Tuttavia la cosa fondamentale,

in Prosa in prosa, è che anche quando tale verticalità

è data, non viene offerta come palestra del connotativo

(pur, incidentalmente, essendo tale), bensì come

ricchezza peculiare della denotazione.

(3) «Che il genere lirico abbia esaurito le proprie

possibilità espressive».

Si tratta di una persuasione a cui forse non

aderirebbero che assai limitatamente – e tra

un’infinità di annotazioni e distinguo – Inglese,

Giovenale, Raos (ne danno conto libri usciti o

imminenti); e di cui non sentono nemmeno la

necessità gli altri tre. In tutti i sei casi, aggiungerei,

non è troppo importante il tema della lirica (pur

presente, come sfondo tra i molti possibili). Questo,

per la «prosa in prosa». Dire che chi fa prosa in

prosa è (sempre/comunque) avverso alla lirica

266

(tutta) è un po’ come dire che se uno va in vacanza

«sullo Ionio» è contrario alla vacanza «in montagna».

Si dovrebbe semmai dire che è contrario alle

Dolomiti, al Caucaso, alle steppe siberiane, al Mar

Morto, a New York, al Polo Nord, al sushi, ai

marsupiali, alle viti a croce, a piroettare perdendo

l’equilibrio, al minibasket, alle adenoidi, alla bibbia.

Insomma: non tutto quello che non si fa viene – da

quello che di fatto si fa – condannato in qualche

modo. Se uno non fa Y, farà X. Se poi facendo X è

'anche' contro Y, proprio con la sua prassi x-oriented,

allora fa militanza. È in effetti davvero il caso, per

Prosa in prosa, di parlare di militanza? Sì e no.

Sì, se lo si vede come tomo isolato dal contesto

dei libri degli altri o di alcuni degli altri autori. No,

stando alla maggiore complessità delle strade (e

degli strati delle strade) da ciascuno di loro

intraprese.

(4) Quale sostanza semiotico-strutturalista regge le

prose limpidissime di Broggi, o le schegge di

Bortolotti? Il libro parla abbondantemente, e gli

autori abbondantissimamente in rete e su riviste e

da anni, di autori di riferimento non italiani. Non

parlano quasi mai di strutturalismo, e raramente di

267

militanza, di avanguardia. Anche se fanno certo e

spesso riferimento ad autori di (ex) avanguardia. Ma

– e contrario – se per certe prose di Bortolotti e

Broggi io potrei pensare a (per dire) Robert Walser,

e alla sua sovraesposta ironica limpidezza, direi che

a nessuno verrebbe in mente di definire questi due

autori «walseriani».

Il fatto di non aderire o non riaderire a una

postura autoriale più o meno ‘dittante’, assertiva, il

fatto di sposare il denotativo, il fatto di abbondare

in ironia, il fatto di praticare googlism, sono

automaticamente «militanza avanguardistica»?

Ecco, da parte mia non sarà ingeneroso e

improprio allargare le braccia con un mesto «in Italia

finisce sempre così!». Se non sei Pavese allora sei o

Ungaretti o Montale. Se non sei uno di quei due,

devi per forza essere Marinetti. Le figure nel mazzo

di carte sono quelle. Ma i punti (1) e (2) non

parlavano di un «appiattimento alla forma di

comunicazione ordinaria»? Allora a quale «militanza

avanguardistica» fanno riferimento i sei di Prosa in

prosa? Giocoforza a Balestrini, perché tutto

sommato nessuno degli spericolati altri bricoleurs

del 1963, e tantomeno quelli che negli anni Novanta

ne han ripreso (criticamente) alcuni passi,

268

scrivevano testi come quelli di Broggi e Bortolotti,

o brani come Ammi (di Giovenale). E che dire di

Inglese, assolutamente lineare nei suoi racconti? (Che

però non sono racconti, ma – appunto – prosa in

prosa). (E… se per Inglese a qualcuno venisse la

tentazione di richiamare il Balestrini di Vogliamo

tutto, ebbene, conti fino a dieci, prenda un respiro

profondo, e faccia invece click, non meno

felicemente, sul nome di Christophe Tarkos).

(5) Se, come la recensione ammette, nel libro si parla

(anche) di esperienze NON ITALIANE, perché

riportare il discorso al confronto con «la tradizione

antisimbolista italiana»? Se si parla (se, conoscendo

i sei autori di Prosa in prosa, si può parlare) giusto di

Tarkos, e di Silliman, Bernstein, Mohammad,

Hejinian, Derksen, Cadiot, Espitallier, Hocquard,

Sondheim, Leftwich, Kervinen, Ganick, Goodland,

Bergvall, Blau DuPlessis, Palmer, Moriarty, perché

non si prova a usare o avvicinare precisamente questi

filtri interpretativi, fonti, modi e mood? Sono questi

– con tanti altri qui omessi per brevità – i nomi che

da qualche decennio (o meno, o più) reggono molte

delle sorti della scrittura di ricerca fuori d’Italia. E

sono sempre questi gli autori che non paiono

269

conosciuti e riconosciuti in Italia, tutt’ora. Tranne

eccezioni, tranne traduzioni che (caso fortunato!) si

debbono a Zaffarano, Raos, Inglese, Bortolotti.

Come mi è capitato di scrivere altrove, ormai

scrittori come David Markson o Leslie Scalapino

fanno in tempo a morire, prima di vedere una

traduzione di opere loro in italiano. Si può forse dire

che da quasi trent’anni ormai la letteratura italiana è

fuori sincrono rispetto a molte ricerche in corso in

altre parti del mondo.

Se il confronto è sempre e soltanto entro l’area

linguistica italiana, è facile facilissimo non trovare –

in riferimento a bizzarrie come Prosa in prosa – altro

che ponti interrotti, ritorni carsici, parziali

corrispondenze. Di fatto non è (del tutto) italiana la

tradizione di riferimento.

Il titolo Prosa in prosa viene da Gleize. Lo

rammenta Guglielmin stesso in incipit di

recensione. È allora pienamente 'in area' Zanzotto?

Possiamo (certo! avec plaisir) confrontarci con

Zanzotto e con tutti gli altri nomi fatti. Ma partendo

dall’assunto che i punti di riferimento non sono

(esclusivamente) italiani. Anzi sono sostanzialmente

non italiani. (E non sono Maulpoix, Nöel, Bonnefoy,

Jaccottet; forse nemmeno Ashbery, aggiungiamo).

270

Finché non troverò altri nomi nelle note che

leggo, non sentirò che il discorso specifico del libro

Prosa in prosa sarà stato recepito/affrontato. Ma sarò

sempre pronto a cogliere il senso delle critiche che

all’antologia vengono rivolte. Solo, al momento

trovo si tratti di un senso che non parte dai

riferimenti che pure ormai intorno alla prosa in

prosa sono imprescindibili.

E dico questo con tutta la stima – nella

perdurante distanza – che nutro per chi non

condivide il percorso della prosa in prosa, ma con

onestà e generosità, come Stefano nella sua

recensione, vi si accosta.

Il 26/10/10, su Blanc, uscì la mia replica dal titolo

una parola sul "fondamento"

Partendo in medias res (e con un impeto che spero

non sia irritante), dico: se, come ha scritto Tarkos,

«to tell the truth, uh oh, that'll cause the revolution»,

allora voglio capire da ciascuno di voi che cosa

intende per «verità» e per «nuovo» (implicito nel

richiamo alla «revolution», ma anche caro a tutta la

modernità, che lo pensa quale 'superamento con

271

scarto positivo', e quindi riconoscendolo auspicabile

a prescindere come sinonimo di progresso,

avanzamento, crescita). Resi espliciti questi due

fondamenti, posso distinguerli da quelli, per

esempio, di Platone, Aristotele, Sant'Agostino,

Spinoza, Kant, Hegel, Marx, Darwin, Wittgenstein,

De Saussure, Heidegger, Popper, Deleuze, Derrida,

e decidere con maggiore serenità se la posizione di

GAMMM ha o meno una radice positivista.

Ancora, e cito Juliana Spathr quando afferma, a

proposito di The fatalist della Hejinian, che in esso

c'è la dimostrazione «how poetry is a way of

thinking a way of encountering and constructing the

world, one endless utopian moment even as it is full

of failures»; a parte l'evidenza che sono molte le

tradizioni culturali che trovano una forte relazione

fra poesia e pensiero, vorrei sapere, parafrasando

Heidegger: ma che cosa significa, per ciascuno di

voi, pensare? Lo chiedo anche per poter affermare

che, quando si recensisce un libro collettivo, si

pensa sempre in termini generali, sacrificando, per

ragioni di spazio, il particolare: penso 6 e così tolgo

le singole unità, che troveranno inevitabilmente

ingiustizia in quel numero impersonale, che li

rappresenta solo parzialmente (ma su Broggi e

272

Giovenale ho già scritto altrove e spero di poterlo

fare anche sugli altri, prima o poi).

En passant: pretendere dal lettore di conoscere

l'opera dei padri per giustificare i figli, non è leale

nei confronti di nessuno, e rischia di assomigliare

proprio a quello che hanno fatto gli epigoni di tutti

le poetiche del XX secolo. Se vogliamo misurarci

con «la degradazione dei significati e l'instabilità

fisiognomica del mondo» (Giuliani) oltre che con

quanto di buono ci ha insegnato la grande tradizione

neoavanguardista, che ha in Italia i più eccellenti

pensatori (per esempio, senza Banfi e Paci non ci

sarebbe l'Anceschi del "Verri"), la prima cosa da fare

è «pensare», appunto, ossia confrontarci senza

riparo con il naufragio che ogni azzardo porta con

sé, con l'utopia della scrittura, che non è il senza luogo,

bensì il luogo altro, da rifondare continuamente

nell'adesso, da fare essere in quanto s-fondamento,

rimando continuo al possibile, dialogo con un vero

che è lo stesso inquieto oscillare del senso quando

pensiamo, quando scriviamo poesia. Per me il

dialogo fra «parole» e «langue» si istituisce quanto

più siamo consapevoli di questo. Chiedo dunque a

Marco: «la molteplicità lessicale», se attinta

273

dall'infinito trattenimento che è l'archivio

contemporaneo dei saperi, è davvero atto creativo

del soggetto che si sa plurale, o rischia di essere

attività poietica del soggetto che opera sulla natura

del linguaggio così come il soggetto borghese agisce

sul paesaggio, saccheggiandolo? Il ready made non

ha questa ferita narcisistica dentro sé? Vero che tu

distingui, nel denso commento espresso oggi su

Poesia 2.0 a proposito del saggio di Carlucci, tra

ready made e sought object, considerando

quest'ultimo quale voluntas, atto/scarto/scatto

creativo; tuttavia, non è questa un'azione che

compete a tutti i poeti degni di essere chiamati tali?

Certo nel sought object non si pesca nell'indistinto

o nell'«ignoto», come nella linea rimbaudiana, ma le

due operazioni hanno uno scarto/salto/azzardo

simile. Giusto poi ragionare sulle differenze, come

tu affermi nel medesimo commento.

A proposito della semiotica e dello

strutturalismo, non c'è polemica alcuna. Dico

soltanto che è proprio di tali discipline concentrare

l'attenzione su costanti e variabili testuali,

focalizzando la verità del testo sulla natura

misurabile dello stesso (il Nuovo paesaggio italiano di

Broggi e Tracce di Bortolotti sono così lontani?).

274

Aggiungo: il modello greimasiano è splendido,

anche se, per ragioni di scientificità, è costretto a

prescindere dalla massa oscura dell'identità autoriale

e dall'imponderabile della ricettività nel fruitore,

quell'opaco che, con grande ingegno, ci hanno fatto

finalmente incontrare Barthes, la Kristeva, Lotman,

sul versante sociologico e antropologico. Autori che

amiamo tutti, ne sono certo.

Infine: se dico che Prosa in prosa ha come

referente critico la dominante lirica della tradizione

italiana, non opero un accostamento arbitrario: 1)

«prosa» è l'esatto contrario di «canto» (prosastico è

aggettivo evidentemente antilirico pur se

spregiativo, e canto, nella sua massima espressione

– non solo etimologica - è lirico); 2) Prosa in prosa esce

in Italia: non può dunque esimersi da un confronto

con un dibattito che attraversa la nazione da almeno

un secolo (dai Crepuscolari e dal futurismo?) e che

ha proprio nell'elaborazione antilirica legata al

Gruppo 63 e al Gruppo 70 un referente autorevole.

Sto parlando a dei fratelli, sia chiaro. Non dico:

qui c'è qualcuno che ha torto; ma piuttosto: la

ragione calcolante (e la dimostrazione, quale evidenza

del torto altrui, ne porta il segno più dolente)

produce guerra, nemici, silenzio rancoroso; pensare,

275

che non è ragionare, implica invece il sentirsi parte

di una rete di relazioni in cui ci muoviamo, nella

quale il fraintendimento non è difetto, ma sano

esercizio del prendere la parola, esercizio vitale che

esemplifica il nostro essere gettati in un mormorio

di voci che ci attraversano, con tutta la violenza che

il 'prendere la parola' comporta. Una violenza,

tuttavia, che strappa senso dalla verità in gioco e non

dalla carne dei dialoganti. Sono convinto che anche

su quest'ultimo assunto voi siate d'accordo.

Ad una seconda lettera, amabilissima, dello scrittore

romano, seguì questa mia (4 nov. 2010): Una parola su

finito e sulla Neoavanguardia

Caro Marco, anzitutto voglio ringraziarti per la

qualità dei tuoi interventi e per il tono pacato, così

raro in rete. La tua lettera di ieri, invece, e anche

quella di oggi, restano in posizione, puntualizzano

con precisione, non attaccano l'interlocutore, ma

approfondiscono l'oggetto, ossia la qualità della

prosa che pratichi, anzi l'assenza di qualità della

prosa, il suo essere senza qualità, come l'uomo

musiliano. E' assolutamente legittimo che tu dica:

«sono veramente ed effettivamente prosa in prosa,

276

non versi in prosa, non poème en prose, non prosa

lirica, non narrazione, non epica, non prosa

filosofica, non prosa d’arte, non prosa assertiva-

artaudiana (Noël), non frammenti/aforismi che

segmentano un pensiero (Bousquet, Cioran), non

voyage/onirismo (Michaux)». Ciò garantisce la via

nuova, che è anche un marchio estetico, così come

la dialettica hegeliana o l'idea platonica lo sono per

la filosofia. Ancora più importante è che tu stia

facendo uno sforzo sovrumano per fondare il

concetto di «prosa in prosa» (dei 6, mi pare tu sia

l'unico interessato a farlo o convinto che sia

necessario farlo) di fronte ad una platea che fatica

ad avvicinarne l'originalità, secondo me fondata sul

recupero dell'oggetto (linguistico, fisico, iconico,

simbolico etc) quale stare in posizione del finito,

secondo una linea che deve molto proprio a quegli

autori che prosa in prosa vorrebbe tenere in margine.

Viene infatti dalla linea Bacone-Spinoza-

Kierkegaard-Heidegger-Derrida-Deleuze-Nancy il

pensiero moderno del finito, il pensare quest'ultimo

come mancante di nulla, libero nel suo tremore

ontico, differente dalla semplice-presenza, ed invece

– e qui cito un filosofo che tu conosci, ma che

ancora non ha avuto la giusta considerazione

277

accademica – in una relazione espropriante con il

luogo in cui il finito accade-eccede, ossia un'area «in

cui il finito può situarsi in quanto finito, in cui può

rivelarsi come tale e di conseguenza aprirsi al senso:

non ad un senso che sarebbe quello della sua

finitezza (come se un qualche Infinito Trascendente

glielo concedesse), ma al senso che la sua finitezza

è. [...] Il senso del finito è l'eccedenza della presenza:

in quanto finita essa si apre su un al di là di essa che

non è un'altra presenza, né finita né infinita, ma che

è un nulla di senso in cui si dispiega tuttavia un nulla

come senso, ma come senso inappropriabile»

(Alfonso Cariolato, Il luogo del finito, il Poligrafico,

p.11). Quando tu scrivi: «Io sento la mia riflessione,

per quanto esercitata proprio su questi oggetti

spesse volte, come sento me stesso: decisamente

dislocato e spiazzato e sfidato e infine sconfitto dal

debordare segnico e filosofico del puro e semplice

mezzo fotografico», affermi esattamente quel

tremore cui accennavo sopra. «Dislocazione" è

infatti spaesamento ed erranza quale condizione

ordinaria della contemporaneità, come cercavo di

dimostrare in Scritti nomadi (Anterem 2001), saggio

in cui, fra l'altro, leggevo i Novissimi proprio a partire

da quella dislocazione, che è ontologica, ossia

278

imprescindibile, ma che va scelta, “decisa” direbbe

Heidegger. Il mio lavoro degli ultimi 10 anni,

poetico e saggistico, cerca di approfondire questa

consapevolezza, che, a mio avviso, è un cambio di

paradigma (quello che fondava sull'identità

forte l'ordine del mondo, e sull'idea di superamento la

storia delle idee). Senti quanto si assomigliano

queste mie, alle tue precedenti parole, e a quest'altre,

quando dici: «A mio avviso è proprio per un

distacco dal narcisismo del ritratto, che l’oggetto

non esibito ma mutato di campo (dall’utile all’estetico)

acquista e si fa vettore di segni del senso. È proprio

staccando l’ombra dal corpo – dunque rischiandola –

che abbiamo un modo inedito e non garantito di

rapportarci alla nostra “anima”, a quello che

sentiamo (poter) essere il “senso” (sempre “portato

in segni”, reso tracce, ossia già spostato di un grado

o più gradi di differenza/différance altrove,

lateralmente, rispetto al “punctum” dove il

linguaggio starebbe già, ossia rispetto al dato e al

movimento in corso, che parla e articola quel

punctum e già sta tacendo, proprio per una

differenza che non “è”, non “risiede”, ma si

esaurisce nel nostro percepirla non appena ci ha

gettato un rapido lampo, un’occasione)». Anche tu,

279

oltretutto, poni l'accento sulla relazione identità-

spazio, intesa quale co-appartenenza in cui l'evento

è «l'aver luogo» dell'essere «singolare plurale» nei

modi cari a Nancy, e citi Derrida (la «differance»)

per pensare lo scarto tra nominabile e innominabile,

e Deleuze (le «tracce»), oltre che essere profondo

conoscitore del pensiero di Merleau Ponty e

dell'importanza che egli attribuisce non soltanto al

«non detto», ma anche alla percezione, quale attività

di radice fenomenologica, attività che fonda a mio

avviso, per le ragioni appena espresse, la tua stessa

idea di «sought object». Inoltre, pensare quest'ultima

azione amplificata in un soggetto transcoscienziale

e cibernetico, dove il sistema-coscienza interagisce

sinergicamente con il sistema-mondo, con l'Aleph

borgesiana, a me pare comporti una dislocazione del

sé non dissimile a quanto intende Heidegger nel cap.

V di Essere e Tempo, quando parla di «gettatezza», di

quel «ci» dell'Esser-ci che apre «comprensione» ed

«interpretazione».

Un'ultima nota relativa alla storia della

Neoavanguardia, che tu poni all'inizio della lettera.

Credo sia importante cercare di capire perché «una

certa possibile linea di scritture (anche verbovisive)»

sia stata «interrotta» in Italia, a partire dal

280

riconoscimento – e non lo dico a te, ma ad una

koinè contemporanea, specie nella giovane

generazione, che tende a sminuire il lavoro

complesso della Neoavanguardia – delle ragioni

storiche che hanno portato alla nascita e al

compiersi di un processo che ha messo la cultura

europea e americana al centro dell'attenzione

nostrana, che ha sprovincializzato un dibattito,

spostandolo dalla questione «neorealismo» a quella,

inglobante la prima, del rapporto fra industria

culturale e neocapitalismo. Non entro in merito al

contenzioso perché libri capaci di esplicitarlo sono

molti, primo fra tutti quelli di Lucio Vetri, Letteratura

e caos (Mursia 1992) e di Renato Barilli, La

neoavanguardia italiana (Il Mulino, 1995). In sintesi, io

dico: se l'esperienza di "Quindici" testimonia la fine

di un progetto di rivoluzione culturale a favore di

una prassi più prettamente politica (quella operaia e

studentesca) dove la militanza estetica della

borghesia colta della sinistra italiana, radunata a

ranghi larghi nel poliedrico gruppo 63, ha scelto di

assecondare l'emergenza progettuale in atto,

dialogando in modo radicale sul Vietnam e il Medio

Oriente (e così scaricando, fra l'altro, il

moderatismo del PCI) anziché sul rapporto,

281

sanguinetiano, fra ideologia e linguaggio; se da questa

deriva identitaria, sopravvive comunque

l'esperienza di TAM TAM e di altra ricerca verbo-

visiva legata al Gruppo 70; se la poesia lineare degli

anni Settanta nasce all'insegna di una nuova

generazione che ha di nuovo bisogno di ricostuire

lo smarrimento attraverso il canto e la radice tragica

o orfica dell'esistenza, anche se le generazioni

precedenti, al contrario, scelgono il verso opaco

(Montale), il verso ideologico (Pasolini), il verso

schizodomestico (Sanguineti) – tutti debitori nei

confronti della prosa, nelle sue infinite forme – e il

poemetto (penso a Un posto di vacanza, di Sereni, alla

Signorina Richmond di Balestrini, alla Camera da letto di

Bertolocci, ma anche al travaglio compositivo de La

ballata di Rudi di Pagliarani) o continuano il loro

viaggio originale, come Luzi; se i protagonisti

dell'Avanguardia si sono integrati nelle istituzioni

che contano (Università, RAI, Giornali di potere,

editori); se tutto questo è verificabile, occorrerà un

ulteriore approfondimento della specificità italiana,

in modo da descrivere meglio il destino povero

dello sperimentalismo postneoavanguardista, così

come sarà da studiare la proposta di prosa in prosa -

non tanto quale nuovo conflitto di paradigmi

282

(appunto per quanto detto sopra, ossia che il nuovo

paradigma è in atto non soltanto nelle ricerche cui

tu fai riferimento, bensì in ogni poetica del finito)

quanto piuttosto sotto il profilo storico-letterario e

sociologico – dopo il sopimento degli anni Settanta-

Ottanta e il fuoco, certo interessante, del Gruppo

93. Sono passati circa vent'anni da quella proposta

legata a Poesia italiana della contraddizione (Cavalli,

Lunetta, Newton Compton, 1989), ad una versione

italiana del Postmoderno, alle riflessioni sull'allegoria

di Romano Luperini, ad un materialismo che la

cultura moderata e cattolica ha sempre digerito

male; ben vengano dunque una pratica e una

teorizzazione in cui autonomia e eteronomia dell'arte (per

citare Anceschi) siano di nuovo messe a centro del

dibattito, con consapevolezza, come stai facendo tu.

Ancora una parola sulle cose e sul mondo (7/11/10)

Caro Marco, volevo esprimere un paio di

considerazioni a proposito delle «fotografie

dell’artista finlandese Katharina Bosse, dedicate ad

ambienti e spazi vuoti: stanze [...] generalmente

affittate per fare sesso e/o girare film porno», che,

283

nell'ultimo post di Slow Forward leggi così: «La loro

riconnotazione, sovrascrittura, da parte del nostro

sguardo, avviene dunque nella e grazie alla coscienza

del fatto che sono luoghi in cui l’essenziale —

crudo/crudele o meno — è temporalmente

dislocato: c’è già stato o deve ancora accadere. Se in

generale la fotografia è la traccia di un “è così”,

particolari fotografie come queste (e molte altre foto

di ambienti vuoti, certo: ma in questo caso il vuoto

è caricato di un non detto erotico) addizionano un

“sarà altro” o un “è stato differente”, che echeggia

in qualche modo nell’osservatore. O che (meglio)

sarà l’osservatore a far echeggiare nell’immagine.

Non si tratta di riconoscere – trovare familiare —

collocare in una enciclopedia di luoghi e dati — una

banalità d’ambientazione, mobilio sciatto, luce

ambigua, un momento di attesa, ma — anche — di

spingere tanto la banalità quanto l’aria atemporale

nell’inconsistenza del “set” iperconnotato. Dunque

nell’imprimere attivamente con lo sguardo una sorta

di spostamento — di variata percezione — di quei

colori o identità e banalità, sciatteria, eccettera».

Quanto tu rilevi con pertinenza, credo

appartenga ad ogni linguaggio capace di tenere

insieme, senza confonderle, le tre dimensioni del

284

tempo e la complessità dell'essere cosa della cosa

nella sua correlazione con l'esser mondo del mondo.

Heidegger tale relazione la spiega così, rispetto ad

una quartina di Trakl tratta dalla lirica Una sera

d'inverno:

Quando la neve cade alla finestra

A lungo risuona la campana della sera.

Per molti la tavola è pronta

E la casa è tutta in ordine.

Scrive Heidegger ne In cammino verso il linguaggio,

dopo aver precisato l'è così della scena, costituto,

appunto, da: neve che cade, finestra, suono della

campana, sera invernale, tavola apparecchiata, casa

in ordine: «Questo parlare nomina la neve che, sul

tardi, allo svanire del giorno, mentre risuona la

campana della sera, batte senza rumore alla finestra.

Tutto ciò che dura, dura più a lungo, quando la neve

cade: per questo la campana della sera, che ogni

giorno risuona per un tempo strettamente

circoscritto, suona a lungo. Il parlare nomina la sera

d'inverno. Che è questo nominare? [...] Il nominare

non distribuisce nomi, non applica parole, bensì

chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il

285

chiamare avvicina ciò che chiama. [...] Il chiamare è

un invitare. È l'invito alle cose ad essere veramente

tali per gli uomini. La caduta della neve porta gli

uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella

notte. Il suonare della campana della sera li porta

come mortali di fronte al Divino. Casa e tavola

vincolano i mortali alla terra. Le cose che la poesia

nomina, in tal modo chiamate, adunano presso di sé

cielo e terra, i mortali e i divini. I quattro

costituiscono, nel loro relazionarsi, un'unità

originaria. Le cose trattengono presso di sé il

quadrato dei quattro. In questo adunare e trattenere

consiste l'esser cosa delle cose. L'unitario quadrato

di cielo e terra, mortali e divini, immanente

all'essenza delle cose in quanto cose, noi lo

chiamiamo: il mondo. La poesia, nominando le

cose, le chiama in tale loro essenza. Queste, nel loro

essere e operare come cose, dispiegano il mondo:

nel mondo esse stanno, e in questo loro stare nel

mondo è la loro realtà e la loro durata. Le cose, in

quanto sono e operano come tali, portano a

compimento il mondo».

Stare in prossimità della differenza fra cose e

mondo, abitare quella linea che differisce e ci

chiama a rispondere (dare un senso al visibile dalla

286

nostra finitezza, prendere la parola dalla

collocazione in cui incontriamo quella differenza) è

esattamente ciò che sa fare il linguaggio (e quello

delle arti in modo particolare) quando lo si pensi

fondante, ma nel modo di un sottrarsi, ossia tale che

la «differenza» in quanto tale non diventi mai ente,

ma permanga nel suo essere-differente dalla semplice

presenza (il dato, l'oggetto): per esempio, differente

dalle stanze reali che le foto di Katharina Bosse

ritrae. Ritrae, ossia tira fuori dall'ordine muto dello

spazio abitativo, per dislocarlo e rimetterlo al centro

di un'attenzione sopita, rinominandolo attraverso la

finestra della foto, che si fa cornice di un ritratto, di

un tratto nuovo e tutto ancora da pensare, che

provoca l'osservatore, scatenando, appunto, lo

«spostamento» e la «riconnotazione». Qualcosa di

simile emerge anche in Sentieri interrotti, un altro

famoso scritto di Heidegger, nel quale le scarpe

ritratte da Van Gogh, proprio perché esposte

nell'unità espropriante dell'opera, manifestano la

quadratura originaria: «Nell'orificio oscuro

dall'interno logoro si palesa la fatica del cammino

percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della

calzatura è concentrata la durezza del lento

procedere lungo i distesi e uniformi solchi del

287

campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è

impregnato dell'umidore e dal turgore del terreno.

Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero

campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il

silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di

messe mature e il suo oscuro rifiuto nell'abbandono

invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore

per la sicurezza del pane, la tacita gioia della

sopravvivenza al bisogno, il tremore dell'annuncio

della nascita, l'angoscia della prossimità della morte.

Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della

contadina lo custodisce. Da questo appartenere

custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare

in se stesso».

Caro Marco, è proprio in quanto pensi (lasci

essere) la differenza, che sei in grado di esperire

quanto sopra affermi; non perché il paradigma della

Bosse abbia un posto privilegiato nell'ordine del

disvelare. Tanto è vero che Heidegger fa lo stesso

avvicinando la poesia di Trakl (o il dipinto di Van

Gogh), riconoscendoli entrambi capaci di far

interagire l'emotività, l'intelletto e le tre dimensioni

temporali, nucleo invero che ci costituisce

essenzialmente proprio perché l'esperienza (che è

sempre emotivamente situata) dialoga

288

costantemente con la presenza, attraverso memoria

e aspettazione (passato e futuro) e in quanto

domanda di senso (presente) che giustifichi il

significato, sempre parziale, di quanto mi si offre

alla percezione. Ciò accade anche rispetto a

fenomeni non estetici, giacché noi siamo al mondo

in modo essenzialmente ermeneutico. Dunque, non è il

cambio di paradigma che rende tutto ciò possibile,

ma la forza che il linguaggio intrinsecamente

possiede, nella misura in cui si svincola dalla

reificazione generale, dai luoghi comuni, dal mondo

del «Sì» direbbe l'Heidegger di Essere e Tempo. Si

svincola, qui significa: diverge, si mantiene in

un'oscillazione di senso capace di dislocare il lettore,

di ricollocarlo nel dialogo essenziale che lo

costituisce in quanto mortale, in quanto elemento

del «quadrato dei quattro», dove la bussola non

porta fuori di lì, bensì a stare in posizione dialogica

con ciò che temiamo o desideriamo: il cielo e i

divini, quali metafore dell'aperto destinale, la terra,

con le sue quattro direzioni e dunque con la scelta

che ogni via umana comporta, e i mortali, fratelli

consapevoli (si vorrebbe) del fatto che non si esce

dalla caverna (dal labirinto terrestre) perché la luce -

il cielo e i divini - è già perfettamente dentro

289

l'ombra, ed entrambi sono nel differire continuo del

linguaggio, che colloca me e te in cammini differenti

proprio perché differenti sono le nostre finite

presenze. A tenerle in prossimità, tuttavia (qui sta la

bellezza del nostro dialogo), è la disposizione

all'ascolto, al confronto, alla rinuncia a piegare

l'altro, e, semmai, al desiderio di arricchirne

l'esperienza.

291

L'improvviso e il lucente

293

Vorrei costruire un piccolo canone personale,

formato dagli autori italiani del secondo Novecento

che hanno in qualche modo alimentato la mia

passione per la poesia; si tratta di un gioco,

naturalmente, con tutta la serietà del caso, dove a

vincere, spero, è la poesia stessa, con i suoi percorsi

sotterranei e le sue uscite allo scoperto, improvvise

e lucenti.

Di sicuro (avevo circa vent'anni) l'incontro con

l'antologia dei Novissimi fu decisiva, anzitutto per

«l'idea della poesia quale mimesi critica della

schizofrenia universale, rispecchiamento e

contestazione di uno stato sociale e immaginativo

disgregato» e poi perché mi aiutò a prendere le

distanze da un'io eccessivamente lirico, forgiatesi

294

sulla schiera, per altro dignitosissima, del

cantautorato degli anni Settanta. In particolare, di

Alfredo Giuliani mi colpì la capacità di fondere

dinamicamente il surrealismo visionario con il

sentimento della finitezza, tipico della cultura

romantica, ma depurato dalle implicazioni

idealistiche di stampo neohegeliano, e vicino invece

al 'tragico' di Michelstaedter. Dal canto suo

Pagliarani, con La ragazza Carla, mi diede un

modello irripetibile di poemetto storico-esistenziale,

attraversato dalla contaminazione dei codici, che

permetteva di inserire il prosastico nel lirico senza

comprometterne l'unità. La sua poesia, in effetti,

come quella di Giuliani, rimise in circolo l'antico e il

moderno, la spinta neoavanguardista della

«riduzione dell'io» con l'impossibilità di farlo,

innescando così un gorgo assai fecondo (e non

ancora del tutto esplorato). Anche Gli strumenti

umani di Sereni, in questo senso, furono capaci di

unire la storicità dell'io con le «storte sillabe»

montaliane, dando nuovo ossigeno a quei poeti che

non scelsero la linea schizomorfa; quel Sereni che,

con Un posto di vacanza, riuscì a rendere credibile una

forma-poemetto, al pari della Ragazza di Pagliarani,

295

in cui caducità, viandanza e conoscenza

s'incontravano.

Per quanto mi riguarda, devo dire che a colpirmi

maggiormente, negli stessi anni in cui scoprii i

Novissimi, furono i poeti della generazione nata con

Il pubblico della poesia: fra tutti, leggo ancora oggi

assiduamente Milo De Angelis, che è riuscito a

portare a compimento la tensione mitica di Pavese,

coniugandola con la poesia civile di Fortini, il tutto

mediato da un'esperienza di vita, in specie giovanile,

esposta e senza rete; ma certo ebbe grande effetto

su di me anche l'acquisto di Piumana, di Cesare

Viviani, che venne a coincidere con le mie prime

letture freudiane e con il convincimento –

scolasticamente germogliato, leggendo Bergson e

Pirandello – che la parola non appartenesse

all'autore, bensì alla vita quale flusso di energia

costantemente in fieri.

Fra i libri 'canonici' al femminile, forte fascino

esercitarono le Variazioni belliche e Serie ospedaliera di

Amelia Rosselli, straordinaria artefice di un verso

libero «post-tonale" capace di parlare lucidamente

d'amore, nonché La terra santa di Alda Merini, che

piega la funzione poetica alla piaga allucinata della

sua degenza manicomiale, anche lei trasformando

296

l'immobilità in vortice amoroso, come recita la

chiusa di Laggiù dove morivano i dannati: «e il tuo

corpo andava in briciole, / delle tue briciole bionde

e odorose / che scendevano a devastare / sciami di

rondini improvvise».

Un'altra poetessa per me significativa, che

adopera la lingua come un martello, è Jolanda

Insana: la scoprii nell'antologia di Mario Lunetta,

Poesia italiana oggi, ricchissima fonte sulla scrittura

poetica della fine degli anni Settanta, nella quale ebbi

modo di conoscere anche Gianni Toti, poeta dagli

«sfavillanti deliri lessical / sintattici / semantici»

come scrisse Lunetta, ma anche capace di un

versificare asciutto, distaccato, sulla scia di Corrado

Costa, dove lo sguardo fermo sa vedere – e poi

raccontare – lo spazio in apparenza garantito, ed

invece alienato, della quotidianità, come saprà fare,

più tardi, Valerio Magrelli. Certo ci sono tanti altri

poeti italiani, la cui scrittura riesce a toccarmi;

Zanzotto, per esempio, anche se il suo grimaldello

Lacan agisce a volte troppo scopertamente,

trasformando la polpa della lingua in un rivo

senz'acqua o in uno schedario; mania, quest'ultima,

cara anche a Sanguineti, la cui forza desiderante

comunque sempre mi sorprende. Antonio Porta

297

cominciai invece ad apprezzarlo più tardi, via via

che mi allontanavo dall'avanguardia: II progetto

infinito, in questo senso, con tutta la sua attenzione

alla caducità, fu una lettura decisiva, che mi fece

riconsiderare la scrittura portiana, anche quella degli

anni Sessanta, alla luce della pietas verso i mortali.

E poi ci sono i poeti della mia generazione e

quelli più giovani, la cosiddetta «generazione di

mezzo» e quella 'rampante', quest'ultima già

canonizzata ad uso e consumo di un pubblico under

trenta, poco incline a rimettersi ad una tradizione

forte ed esposta invece al vento del presente, con le

sue mode e i suoi miti. Entro questo orizzonte,

leggo con assiduità moltissimi autori. Con alcuni

tengo vivace corrispondenza, anche attraverso saggi

o articoli pubblicati in riviste, che sono il vero

presente della poesia, il luogo del suo farsi e disfarsi,

in una tensione ricca di futuro.

Fare i nomi è difficile, naturalmente. Fra gli

autori di cui ho scritto nell'ultimo anno, mi piace

ricordare Paola F. Febbraro - che, con La rivoluzione

è solo della terra, ha composto un canto «della specie

femminile che piange», ma al modo della terra che

s'apre e butta fuori l'incandescenza - e Giorgio

Bonacini, la cui opera è tutta rivolta, come scrisse

298

Giovanni Infelise citando Roland Barthes, a

«comunicare l'interiorità senza concedere l'intimità».

Autrice che sento un po' 'sorella' sia sotto il profilo

poetico sia intellettuale è Gabriela Fantato, il cui

ultimo libro, Il tempo dovuto, mette in scena dieci anni

di scrittura d'area lombarda, ma filtrata dalla

passione per le grandi scrittici novecentesche (dalla

Pozzi alla Campo, dalla Rosselli alla Spaziani) e dalla

ricerca delle proprie radici, in linea con quel senso

di spaesamento ed erranza che contraddistingue la

migliore scrittura contemporanea. Vorrei

sottolineare, ancora, la ricerca di due giovani autori,

serissimi e competenti; si tratta di Marco Giovenale

e Massimo Sannelli, impegnati a portare avanti,

ciascuno secondo la propria sensibilità, la ricerca di

Giuliano Mesa, poeta decisivo della mia generazione

e certo letto non ancora abbastanza. Infine, desidero

nominare Andrea Ponso, abilissimo, come scrive

Santagostini, ad «inoltrarsi nelle zone incerte,

ambigue e primigenie della natura».

Per concludere, vorrei spendere due parole sulla

saggistica. La mia scrittura, infatti, si è sempre

nutrita di letture eterogenee. Fra gli autori che più

hanno influenzato il mio pensiero, ci sono anzitutto

Heidegger (la mia tesi di laurea aveva per oggetto il

299

pensiero debole di Gianni Vattimo, riletto a partire

dal filosofo tedesco) e Jabès, la cui opera dà corpo

ad un'erranza senza posa e senza proprietà, dove

ogni passo migrante descrive le ragioni dell'intero

migrare, in un procedere orizzontale che si

abbandona al deserto della scrittura. A questi, vorrei

aggiungere Jean-Luc Nancy, forse il più rigoroso nel

pensare l'essere slegandolo dalla fondatività e, per la

capacità di entusiasmarmi, Bruce Chatwin, il cui

zibaldone sull'alternativa nomade costituisce un vero

manuale di sopravvivenza all'interno di una società

che ha perduto i concetti di qui e altrove o li ha

surrogati nell'artificio delle agenzie turistiche.

Decisivi, per comprendere questo, sono stati anche

Mircea Eliade e J. G. Frazer, con i loro studi sulle

civiltà arcaiche. Fra gli italiani, due filosofi che seguo

con interesse sono Franco Rella e Giorgio

Agamben; e poi c'è Alfonso Cariolato, amico di

vecchia data e allievo di Nancy, che mi ha fatto

conoscere molti dei pensatori qui citati.

Ringraziamenti

Un sincero ringraziamento agli amici di “In realtà la

poesia”, in particolare Davide Castiglione e Luigi Bosco,

che conosco e stimo da parecchi anni. E grazie agli editori

che hanno consentito gratuitamente la riproduzione di

queste pagine.

Stefano Guglielmin è nato nel 1961 a Schio (VI),

dove vive e lavora come insegnante di lettere. Laureato

in filosofia nel 1986 con una testi sul "pensiero debole"

di G. Vattimo (110 e lode). Membro della Società

filosofica Italiana.

Ha pubblicato le sillogi Fascinose estroversioni (Quaderni

del Gruppo Fara, 1985, premio “poesia giovane”),

Logoshima (Firenze Libri, 1988), come a beato confine (Book

Editore, 2003, primo premio "Lorenzo Montano"), La

distanza immedicata / The immedicate rift (Le Voci della Luna,

2006, finalista al premio "Montano" Verona, segnalato ai

premi "Campagnola" di Padova e al "Gozzano" di Terzo,

prov. Alessandria), C'è bufera dentro la madre (L'arcolaio,

2010, 2° class. al "Città di Adelfia", Bari; 3° class. al

Premio "Anna Osti" di Costa di Rovigo), Le volpi gridano

in giardino (CFR Edizioni, 2013, 2° class. all' "A. Osti"),

Maybe it’s raining. Selected poemes (1985-2014) (Chelsea

Editions, 2014) e i saggi Scritti nomadi. Spaesamento ed

erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, 2001), Senza

riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, 2009), Blanc de ta

nuque. Uno sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana

contemporanea (Le Voci della Luna, 2011) e Le vie del ritorno.

Letteratura, pensiero, caducità (Moretti&Vitali, 2014).

È inserito in alcune antologie, fra le quali Il presente

della poesia italiana, curata da C. Dentali e S. Salvi

(LietoColle, 2006) e Caminos del agua. Antologia de poetas

italianos del segundo Novecientos, a cura di E. Reginato

(Monte Avila, 2008). Suoi saggi e poesie sono usciti su

numerose riviste italiane ed estere e su siti web.

Ha pubblicato anche racconti; l’ultimo in L. Liberale

(a cura di), Père-Lachiase. Racconti dalle tombe di Parigi, Ratio

et Rivelatio, Oradea (Romania), 2014.

Dirige le collane di poesia "Laboratorio" per le

edizioni "L'Arcolaio", "Segni" per conto de "Le Voci

della Luna" e, assieme a M. Ferrari e M. Morasso,

"Format" della "Puntoacapo Editrice". Gestisce il blog di

poesia Blanc de ta nuque.