Moralità e stoicismo ne "Le passioni dell'anima" di Descartes

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- 1 - MORALITÀ E STOICISMO NE LE PASSIONI DELL’ANIMA” DI DESCARTES Stefano Pelizzari Je suis maître de moi comme de l’universe; Je le suis, je veux l’être. P. CORNEILLE , Cinna 1. Premessa L’immagine di un Descartes stoico, ripresa e sostenuta anche di recente, era già ampiamente diffusa presso i suoi contemporanei, nonostante egli avesse a più riprese ribadito di non essere si sevère in campo etico e di non appartenere in nessun modo «al numero di quei filosofi crudeli che vogliono che il loro saggio sia insensibile» 1 . Scrivendo a Elisabetta del Palatinato, egli aveva esplicitamente preso le distanze dall’idea di virtù propria degli stoici, affermando che essa era «così severa e ostile alla voluttà, che solo dei melanconici, o degli spiriti interamente distaccati dal corpo hanno potuto essere suoi seguaci» 2 ; e, in apertura de Le passioni dell’anima (1649), aveva alacremente deplorato le manchevolezze degli antichi nel concepimento e nel trattamento delle passioni, da loro condannate senza appello come fattori destabilizzanti di turbamento e di perdita della ragione 3 . Staccandosi da questa lunga e consolidata tradizione, di cui anche Hobbes faceva parte, egli 1 Cfr. Descartes a Elisabetta, 18 maggio 1645, B 494 (AT IV 200-204: CCCLXXV), in Tutte le lettere 1619 1650, a cura di G. Belgioioso, Milano 2005, p. 2009. Sulle possibili affinità tra Descartes e lo stoicismo: cfr. V. Brochard, Descartes stoïcien. Contribution à l’histoire de la philosophie cartésienne, in Id. Etudes de philosophie ancienne et moderne, Paris 1966, pp. 320-326; J.E. D’Angers, Sénèque, Epictète et le stoïcisme dans l’oeuvre de Renè Descartes, in “Revue de théologie et de philosophie”, IV (1954), pp. 169-196; J. Delhez, Descartes lecteur de Sénèque, in Aa.Vv., Hommage à Marie Delcourt, Bruxelles 1970, pp. 392-401; H. Gouhier, Les premières pensèes de Descartes, Paris 1958, p. 65. 2 Cfr. Descartes a Elisabetta, 18 agosto 1645, B 517 (AT IV 271-278: CCCXCIX) in R. Descartes, Op.cit., p. 2071. 3 Cfr. R. Cartesio, Le passioni dell’anima, a cura di A. Zamboni, Lanciano 1928, p. 2, Capo I: «quel che gli antichi ne hanno detto è così poco, e per la maggior parte così poco credibile, che io non posso avere alcuna speranza di avvicinarmi alla verità, se non allontanandomi dalle vie che essi hanno battute».

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MORALITÀ E STOICISMO

NE “LE PASSIONI DELL’ANIMA” DI DESCARTES

Stefano Pelizzari

Je suis maître de moi

comme de l’universe;

Je le suis, je veux l’être.

P. CORNEILLE , Cinna

1. Premessa

L’immagine di un Descartes stoico, ripresa e sostenuta anche di recente, era

già ampiamente diffusa presso i suoi contemporanei, nonostante egli avesse

a più riprese ribadito di non essere si sevère in campo etico e di non

appartenere in nessun modo «al numero di quei filosofi crudeli che vogliono

che il loro saggio sia insensibile»1. Scrivendo a Elisabetta del Palatinato,

egli aveva esplicitamente preso le distanze dall’idea di virtù propria degli

stoici, affermando che essa era «così severa e ostile alla voluttà, che solo dei

melanconici, o degli spiriti interamente distaccati dal corpo hanno potuto

essere suoi seguaci»2; e, in apertura de Le passioni dell’anima (1649), aveva

alacremente deplorato le manchevolezze degli antichi nel concepimento e

nel trattamento delle passioni, da loro condannate senza appello come fattori

destabilizzanti di turbamento e di perdita della ragione3. Staccandosi da

questa lunga e consolidata tradizione, di cui anche Hobbes faceva parte, egli

1 Cfr. Descartes a Elisabetta, 18 maggio 1645, B 494 (AT IV 200-204: CCCLXXV), in

Tutte le lettere 1619 – 1650, a cura di G. Belgioioso, Milano 2005, p. 2009. Sulle possibili

affinità tra Descartes e lo stoicismo: cfr. V. Brochard, Descartes stoïcien. Contribution à

l’histoire de la philosophie cartésienne, in Id. Etudes de philosophie ancienne et moderne,

Paris 1966, pp. 320-326; J.E. D’Angers, Sénèque, Epictète et le stoïcisme dans l’oeuvre de

Renè Descartes, in “Revue de théologie et de philosophie”, IV (1954), pp. 169-196; J.

Delhez, Descartes lecteur de Sénèque, in Aa.Vv., Hommage à Marie Delcourt, Bruxelles

1970, pp. 392-401; H. Gouhier, Les premières pensèes de Descartes, Paris 1958, p. 65. 2 Cfr. Descartes a Elisabetta, 18 agosto 1645, B 517 (AT IV 271-278: CCCXCIX) in R.

Descartes, Op.cit., p. 2071. 3 Cfr. R. Cartesio, Le passioni dell’anima, a cura di A. Zamboni, Lanciano 1928, p. 2, Capo

I: «quel che gli antichi ne hanno detto è così poco, e per la maggior parte così poco

credibile, che io non posso avere alcuna speranza di avvicinarmi alla verità, se non

allontanandomi dalle vie che essi hanno battute».

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tendeva piuttosto a rivalutare la loro funzione propulsiva nell’economia

generale dell’anima e a considerarle, nelle loro sfumature, come il vero sale

della vita: «Esaminandole, le ho trovate quasi tutte buone, e tanto utili alla

vita, che la nostra anima non avrebbe motivo di voler restare un sol

momento unita al corpo se non potesse provarle»4.

Eppure, nonostante la chiarezza di queste affermazioni, già nel 1631, un suo

estimatore come Guez de Balzac, in una delle sue lettere, poteva

candidamente confidargli che: «quando mi raffiguro il saggio stoico, che

solo era libero, solo ricco, solo re, io vedo che da molto tempo era predetta

la vostra venuta e Zenone ha creato solo l’immagine del Signor Des

Cartes»5. E, più tardi, dopo la veemente polemica spinoziana, anche Leibniz

giunse a dichiarare perentoriamente che, in ambito morale, la filosofia

cartesiana si rivelava uguale a quella stoica: in re morali eadem est (PhS,

IV, 275).

Il sorgere di un simile stereotipo merita perciò di essere compreso più da

vicino. In questo breve lavoro, in particolare, vorrei centrare l’attenzione su

alcune tematiche e posizioni filosofiche espresse da Descartes nella sua

ultima opera, le Passioni dell’anima (1649), mostrando come il recupero di

alcune concezioni e tecniche spirituali di chiara matrice stoica si vada a

innestare su una visione del mondo e dell’uomo che è tuttavia

completamente nuova e diversa; a partire da ciò vorrei soffermarmi sulla

novità della sua proposta morale, che, restituendo preminenza assiologica

alla dimensione emotiva e desiderativa della vita umana, esalta la funzione

terapeutica ed eudemonistica della comprensione e della padronanza di sé,

individuando la chiave della souveraine félicité nel saggio ammaestramento

delle proprie passioni e nella completa signoria delle proprie disposizioni

interiori.

2. L’epistolario con Elisabetta: la filosofia come terapia dell’anima

Nel 1649, a un anno dalla morte, Descartes pubblicò la sua ultima e

tormentata opera, Le passioni dell’anima. Quando la stampa fu ultimata, il

filosofo si trovava già a Stoccolma, dove svolgeva la mansione di precettore

privato al servizio della regina Cristina di Svezia. La prima redazione

4 Descartes a Chanut, 1 novembre 1646, B 580 (AT IV 534-538: CDLIII), in R. Descartes,

Op.cit., p. 2325. 5 Balzac a Descartes, 25 aprile 1631, B 42 (AT I 199-202: XXXII), Ivi, p. 195. Su Jean-

Louis Guez de Balzac: cfr. J. Jehasse, Guèz de Balzac et le génié romain, Lyon 1977.

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tuttavia, come sappiamo da Baillet, risale probabilmente all’inverno del

1646, quando Descartes abbozzò «un piccolo trattato sulla natura delle

passioni dell’anima»6 per la principessa Elisabetta, figlia di Federico V,

elettore palatino e re di Boemia, con la quale aveva da tempo avviato un

intenso rapporto epistolare e un fecondo sodalizio intellettuale7. Questa

«giovane Principessa, che per l’aspetto e l’età ricorda non Minerva dagli

occhi azzurri, o qualcuna delle Muse, ma piuttosto una Grazia»8, era una

vera studiosa, dotata di un’intelligenza limpida e di una sensibilità

straordinaria, ma che soffriva anche di oscuri e profondi stati depressivi,

dovuti a varie vicende personali e all’accumularsi di disgrazie familiari.

Aveva 23 anni quando scrisse per la prima volta a Descartes nel 1642,

esprimendogli ammirazione per le Meditazioni da poco pubblicate. Da quel

giorno nacque un rapporto di stima e di amicizia che durò fino alla morte

del filosofo. Nelle sue lettere trovavano posto non solo vivaci richieste

filosofiche e scientifiche, ma anche domande personali sul proprio stato di

salute e sulla propria condotta di vita. A Descartes si rivolgeva come al

«medico della [propria] anima»9, come a colui alla cui saggezza e capacità

introspettiva rimetteva e affidava l’equilibrio e la salute della sua vita

interiore. In una lettera gli confidava che:

«i medici che mi rigirano tutti i giorni ed esaminano tutti i sintomi del mio

male non ne hanno trovato la causa, né ordinato rimedi così salutari come

avete fatto voi da lontano. Qualora fossero stati così ricchi di dottrina da

avanzare dei dubbi sulla parte avuta dalla mia mente nel disordine del corpo,

non avrei avuto la franchezza di confessarlo. Ma con voi, Signore, lo faccio

senza scrupolo […]. Sappiate dunque che il mio corpo è imbevuto da una

gran parte dalle debolezze del mio sesso, così che risente molto facilmente

6 Cfr. A. Baillet, La vie de Monseur Des-Cartes, New York 1987; Una notizia, questa, che

trova conferma in una lettera indirizzata da Descartes, il 15 giugno del 1646, a Hector-

Pierre Chanut (1601-1662): «Quest’inverno ho abbozzato un piccolo Trattato sulla Natura

delle Passioni dell’Anima, senza avere tuttavia l’intenzione di rivederlo» (cfr. Descartes a

Chanut, 15 giugno 1946, in Op.cit.) e in altre lettere a Elisabetta. 7 Sui rapporti tra Descartes e Elisabetta del Palatinato: cfr. E. Michel, Descartes und

Prinzessin Elisabeth von Böhmen, “Sudetenland”, 22, 1980, pp. 250-254; L. Shapiro,

Princess Elisabeth and Descartes: the union of soul and body and the practice of

philosophy, in “British journal for the history of philosophy”, 7, 1999, 3, pp. 503-520; F. de

Careil, Descartes, la princesse Elisabeth et la Reine Christine, Paris 1879; V. de Swarte,

Descartes, directeur spirituel, Paris 1905; L. Oeing-Hannoff, Descartes und Elisabeth von

der Pfalz, in “Philosophisches Jahrbuch”, XCI (1984), pp. 82-106. 8 R. Descartes, Principi della filosofia, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Bari 1968,

p. 51; 9 Elisabetta a Descartes, 6/16 maggio 1643, B 391 (AT III 660-662: CCCI), in Op.cit., p.

1745.

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delle afflizioni dell’anima e non ha la forza di rimettersi con essa […].

Penso che se la mia vita vi fosse interamente nota, trovereste assai più

strano che una mente come la mia si sia conservata così a lungo, tra tante

traversie, in un corpo così debole, senz’altro consiglio che quello del proprio

ragionamento e senz’altra consolazione che quella della propria coscienza,

piuttosto che considerare tali traversie le cause della presente malattia»10

Descartes, di solito così prudente e riservato in tutte le relazioni, si sentì

molto coinvolto dalla confidenza mostratagli, e ad ella si aprì

completamente. «Vedendo uscire dei discorsi più che umani da un corpo

così simile a quello che i pittori attribuiscono agli angeli» egli rimase

colpito ed estasiato, «allo stesso modo in cui credo debbano esserlo coloro

che, provenendo dalla terra, sono appena entrati in cielo»11

. Proprio il

filosofo del larvatus prodeo, che, in una nota giovanile, aveva scritto di

voler procedere «mascherato» sulla «scena mondana»12

, gettò la maschera e

si abbandonò con lei ad un dialogo diretto e confidenziale. Le disse delle

sue malattie infantili, del modo in cui si era abituato ad affrontare il dolore,

dei rimedi migliori che in condizioni di tristezza potevano favorire il

benessere del corpo; ma soprattutto la esortò e la spronò alla cura della sua

anima, scrivendole che:

«c’è da temere che non ne possiate essere liberata, se, in forza della vostra

virtù non rasserenate la vostra anima, malgrado i colpi avversi della fortuna.

[…] Credo che la differenza che passa tra le anime più grandi e quelle basse

e volgari consista principalmente nel fatto che le anime volgari si lasciano

andare alle loro passioni e sono felici o infelici semplicemente a seconda

che le cose che capitano loro siano gradevoli o spiacevoli; mentre le altre

seguono ragionamenti così forti e potenti che, benché abbiano anch’esse

delle passioni, spesso anche più violente di quelle della gente comune, la

loro ragione resta tuttavia sempre padrona e fa in modo che anche le

afflizioni servano loro e contribuiscano alla perfetta felicità di cui godono

fin da questa vita»13

Non avendo altro desiderio che di «vederla felice e contenta quanto merita»,

nelle sue lettere si mise a «parlare dei mezzi che la filosofia ci insegna per

10

Elisabetta a Descartes, 24 maggio 1645, B 496 (AT IV 207-211: CCCLXXVII), ivi, p.

2015. 11

Descartes a Elisabetta, 21 maggio 1643, B 392 (AT III 663-668: CCCII), ivi, p. 1747. 12

Cfr. R. Descartes, Cogitationes privatae, in Opere filosofiche, cit. 13

Descartes a Elisabetta, 18 maggio 1645, cit. alla nt. 2.

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raggiungere quella somma felicità che le anime volgari attendono invano

dalla sorte, e che non possiamo avere che da noi stessi»14

. E, appoggiandosi

alla lettura del De vita beata di Seneca, cominciò ad individuare alcuni

esercizi spirituali che, opportunamente messi in pratica, potevano fungere da

rimedio e antidoto alle componenti più perturbanti e distruttive delle

passioni, portandone alla luce, per converso, gli effetti più benefici e

positivi15

. Come ben si vede, proprio questa concezione della filosofia come

medicina animi e quest’idea della possibile educabilità delle passioni

costituiscono il nucleo più profondo e insieme più originario della

riflessione svolta più ampiamente e rigorosamente da Descartes ne Le

passioni dell’anima. La convinzione di fondo è quella per cui la pratica

filosofica, specialmente in ambito morale, non si possa ridurre agli astratti e

sterili ragionamenti «che fa un uomo di lettere nel suo studio»16

, ma che,

ellenisticamente, si debba porre come una therapia, una τέχνη περί βίον,

finalizzata alla felicità e alla salute interiore del soggetto. Tale concezione, è

bene notarlo, rivela una prima forte affinità tra il pensiero di Descartes e la

tradizione stoica. Come aveva scritto Epitteto in un celebre passo:

«La filosofia non promette di procurare all’uomo qualcuno dei beni esterni,

altrimenti si assumerebbe un compito che è fuori della propria materia. La

materia del falegname è il legno, dello scultore il bronzo; allo stesso modo,

l’arte del vivere ha per materia la vita stessa di ciascuno».17

E la metafora medica, a lungo presente negli scritti tardo antichi e nello

stoicismo latino, era stata esplicitamente ripresa da Seneca nelle sue lettere a

Lucilio:

«Ti dirò allora che cosa mi è stato di conforto: ma prima voglio dirti che

queste cose in cui trovavo sollievo hanno avuto per me l’efficacia di una

medicina; i buoni conforti si trasformano in medicine, e, qualunque cosa

14

Descartes a Elisabetta, 21 luglio 1645, B 511 (AT IV 251-253: CCCXCII), in Op.cit., p.

2051. 15

«Uno di questi mezzi (e mi sembra dei più utili) è esaminare quello che gli antichi ne

hanno scritto e cercare di superarli aggiungendo qualcosa ai loro precetti: così, infatti,

possiamo appropriarci di questi precetti e disporci a metterli in pratica. […] e, affinché le

mie lettere non siano del tutto vuote e inutili, mi propongo di riempirle d’ora in poi di

considerazioni che trarrò dalla lettura di un libro, ossia quello scritto da Seneca De vita

beata» (Ibidem). 16

Cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, a cura di M. Renzoni, Milano 2010, p. 12. 17

Cfr. Epitteto, Le diatribe e i frammenti, a cura di R. Laurenti, Roma-Bari 1989, I, 15, 2,

p. 43.

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sollevi l’anima finisce col giovare anche al corpo. Gli studi sono stati la mia

salvezza; è merito della filosofia se mi sono alzato dal letto, se sono guarito:

a lei sono debitore della vita, anche se questo è il debito minore che ho con

lei».18

Per Descartes, così, proprio come per gli stoici, la filosofia si configura

come un’ars vivendi. Essa «educa e forma l’animo, regola la vita, governa le

azioni, mostra ciò che si deve o non si deve fare, siede al timone e dirige la

rotta attraverso i pericoli di un mare agitato»19

. Ma, pur partendo da questa

idea di base, il tipo di terapia che giunge a prospettare risulta, nelle forme e

nelle finalità, profondamente diverso da quello delineato dai filosofi del

Portico. Alla base infatti si trova una concezione diametralmente opposta

delle passioni e del loro valore esistenziale, e, di conseguenza, un’idea del

tutto diversa di cosa sia salute e di cosa malattia. Su questa concezione

occorrerà ora soffermarsi più da vicino.

3. Le passioni come «beni di natura» e la loro base fisiologica

Le passioni dell’anima sono tutte costruite attorno a questo assunto

fondamentale: dalle passioni dipendono «tutto il bene e il male di questa

vita»20

. Non dal giudizio degli altri, non dal successo materiale, non dalla

gloria, né da nessun’altra delle condizioni esterne. La possibilità della

felicità è un seme piantato solo in noi stessi, che si nutre e si sostenta delle

nostre tonalità emotive e affettive; sta a noi averne cura e coltivarlo

assiduamente, affinché germogliando e mettendo radici, possa abitare la

nostra vita. Contro tutta una sedimentata tradizione che aveva considerato le

passioni come dei mali da estirpare e come nemici da sconfiggere, Descartes

le rimette al centro della vita morale, compiendo un’opera di formidabile

riabilitazione del loro valore fisico ed esistenziale. In questo, mi sembra, si

segna il primo e fondamentale scarto rispetto alla morale stoica. Esse non

vanno affatto estinte alla stregua di un incendio che nella sua indomabilità

sa solo essere funesto e distruttivo; e non vanno nemmeno espulse e bandite

per sempre dalla cittadella interiore della nostra anima, come energie

18

Cfr. Seneca, Lettere a Lucilio, 78, 3; «Senza la filosofia l’anima è malata; anche il corpo,

se pure è in forze, è sano come può esserlo quello di un pazzo o di un forsennato. Perciò, se

vorrai star bene, cura soprattutto la salute dell’anima, e poi quella del corpo» (Ivi, 15, 1-2) 19

Id., Epistulae, II, 16, 3. 20

Cfr. PA, Parte III, Capo CCXII, p. 174.

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demoniache o cieche perversioni della retta ragione21

. Esse vanno piuttosto

comprese nella loro piena naturalità e nella loro essenziale funzionalità

fisiologica:

«Mi sembra che si possa in generale definirle: percezioni o sentimenti o

emozioni dell’anima che si riferiscono particolarmente ad essa e che sono

prodotti, conservati e corroborati per mezzo di qualche movimento degli

spiriti» (Capo XXVII)22

«esse dispongono l’anima a volere le cose che la natura ci indica come utili,

e a persistere in questa volontà: così come la medesima agitazione degli

spiriti, che suole produrle, dispone i corpi ai movimenti che servono ad

eseguire queste cose» (Capo LII)23

«non abbiamo affatto ragione di temerle […] Perché vediamo che sono tutte

buone per natura, e che noi non abbiamo da evitare che i loro cattivi usi o i

loro eccessi» (Capo CCXI)24

Secondo la teoria psicofisiologica cartesiana le passioni sono dei beni di

natura, la cui utilità e funzionalità risulta comprensibile solo se studiata in

relazione al loro meccanismo corporeo. Egli, in tal senso, riprende la

concezione galenica e stoica degli «spiriti animali», reinterpretandola però

creativamente in un senso rigorosamente meccanicistico25

: le passioni

21

Sull’immagine della cittadella dell’anima: cfr. Marc. Aur., VIII, 48: «Devi ricordare che

la facoltà sovrana riesce inespugnabile il giorno in cui in se stessa raccolta decide

fermamente di non far cosa contraria al proprio volere; persino se questo suo potere insista

nel pretendere cosa contraria alla ragione. E potrà avvenire dunque quando, seguendo la

ragione, pronunci sentenza profondamente ponderata? Questo è il motivo per cui la mente è

acropoli libera da passioni. Vedi, l’uomo non ha rocca più munita da al suo rifugio, ove per

l’avvenire sarà sicuro; nessuno lo potrà afferrare. E allora, chi non ha veduto tale acropoli

sarà ignorante; ma chi l’ha veduta e non vi si rifugia, sciagurato»; P. Hadot, La cittadella

interiore. Introduzione ai “Pensieri” di Marco Aurelio, Milano 2006; sul concetto di

volontà e morale negli stoici vedi, tra gli altri: G. Rodis-Lewis, La morale stoïcienne, Paris

1970; B. Inwood, Ethics and Human Action in Early Stoicism, Oxford 1985. 22

PA, Parte I, Capo XXVII, p. 38. 23

Ivi, Parte II, Capo LII, p.62. 24

Ivi, Parte III, Capo CCXI, p.172. 25

Nota a tal proposito A. Faggi che si tratta di una «dottrina che somiglia a quella degli

stoici, i quali ammettevano che dalla sede centrale dell’anima (il cuore per i più, ma per

alcuni il cervello) si distendesse in tante correnti e per tanti canali (quasi tentacoli di un

polipo) il pneuma, l’aria sottile, lo spirito vitale fino agli organi periferici» (cfr. A. Faggi,

Cartesio e le passioni dell’anima, in “Rendiconti del R. Istituto Lombardo di sc. e lett.”

Serie II, vol. XLII, 1909; si vedano anche: M. Catapano, Fisiologia e stoicismo nelle

Passioni dell’anima di Cartesio, in Syzetesis, aprile 2013; G. Hatfield, Descartes’

- 8 -

dell’anima sono prodotte, conservate e corroborate per mezzo di pura

materia in movimento – simile a «un’aria o un vento sottilissimo»26

-

costituita dalle parti più sottili e attive del sangue, che, uscendo dal cuore,

giungono al cervello attraverso i piccoli varchi che permettono l’accesso

alle cavità cerebrali; qui determinano un certo movimento della ghiandola

pineale, producendo nell’anima la passione, e questo movimento, a sua

volta, ne determina meccanicamente degli altri che provocano una certa

reazione nel corpo27

. In questo modo esse ci predispongono all’azione, ci

fanno desiderare le cose utili alla nostra conservazione e «fortificano e

fanno persistere nell’anima dei pensieri, i quali è bene che essa conservi, e

che potrebbero facilmente, senza [di esse] venir cancellati»28

. Il loro

radicamento ontologico nella dimensione organica del corpo, in altri

termini, fa sì che tutte siano funzionalmente indirizzate alla conservazione

della vita e della buona salute e che tutte siano per natura dotate di una loro

intrinseca utilità. Non abbiamo da temere che i loro cattivi usi e le loro

eccedenze.

In tale prospettiva, dunque, non risultano più le passioni tout court le

malattie dalle quali ci deve guarire la pratica filosofica; l’ideale regolativo

non può più essere quello del raggiungimento di una distaccata apatia

mediante una dolorosa soppressione della nostra dimensione emozionale e

desiderativa; e la terapia prospettata non è più quella “d’urto”

dell’amputazione o dell’estirpazione ad ogni costo. Per Descartes, piuttosto,

la condizione patologica si determina solamente nel caso in cui, per

mancanza di saggezza o debolezza di volontà, le passioni si tramutano in

eccessi in grado di deformare la visione della realtà e di renderci dipendenti

dalla fortuna e dagli avvenimenti esterni, rendendoci vulnerabili e fluttuanti.

L’idea cui egli fa costante riferimento è quella per cui nostro compito e

nostra responsabilità sia quella di restare saldamente padroni in casa nostra.

E la terapia, in questo senso, non consiste in altro che in una sorta di

‘training autogeno’, volto a trasformare e a educare abilmente le passioni e a

ristabilire la piena signoria della volontà sul reame vasto e silenzioso della

nostra vita interiore.

physiology and its relation to his psychology, in J. Cottingham (a cura di), Cambridge

Companion to Descartes, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 21-57, p. 45. 26

Cfr. PA, Parte I, Capo VII, p. 22. 27

Cfr. Ivi, Parte I, Capo XL; XLI; pp. 48-49. 28

Cfr. Ivi, Parte II, Capo LXXIV, p. 73.

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4. Esercizi stoici: il dressage, la prémeditation e la maîtrise de soi

Descartes ha piena fiducia nel fatto che «anche quelli che hanno le anime

più deboli, potrebbero acquisire un dominio assoluto sulle passioni, se solo

si dedicassero con industria e arte a educarle e a guidarle»29

. La saggezza, a

suo parere, dovrebbe insegnare proprio «a rendersene talmente maestri e a

maneggiarle con tanta destrezza che i mali da esse causati [diventino]

sopportabilissimi, e da tutte si ricavi della gioia»30

. Per giungere a questo

scopo, ne Le passioni dell’anima, individua ed espone dei veri e propri

«esercizi spirituali»31

, di chiaro sapore stoico, in grado di condurci alla

padronanza dei nostri moti passionali e di far fiorire progressivamente il

germe della felicità. Come nel Discorso sul metodo (1623) aveva fornito

delle regole procedurali per la ‘ragione teoretica’, così ora fornisce delle

indicazioni e un metodo anche per la ‘ragione pratica’. Una breve rassegna

di queste tecniche spirituali e dei loro effetti terapeutici ci rivelerà

l’approccio cartesiano al problema delle passioni e la peculiarità innovativa

della sua proposta morale.

Il perno di questi esercizi di controllo e di trasformazione è la volontà, «così

libera per sua natura che non può mai subir costrizione»32

. Essa ha

un’estensione infinita, che giustifica, agli occhi di Descartes, la nostra

somiglianza con Dio, ed è ciò che ci rende liberi, responsabili e diversi da

tutti gli altri enti. Interrompendo l’automatismo della machine du corps essa

è in grado di «far sì che la piccola glandola, alla quale è strettamente

congiunta, si disponga nella maniera richiesta»33

, consentendoci di

deliberare liberamente e di governare i nostri pensieri e le nostre azioni. Le

passioni, tuttavia, «non possono direttamente essere eccitate né ostacolate

dalla nostra volontà, ma possono esserlo indirettamente dalla

29

La traduzione è mia. Il testo francese recita: «et que ceux même qui ont les plus faibles

âmes pourraient acquérir un empire très absolu sur toutes leurs passions, si on employait

assez d'industrie à les dresser et à les conduire.». Non trovo del tutto soddisfacente la

traduzione di Adolfo Zamboni, in quanto non sembra del tutto fedele alla lettera cartesiana

e fraintende, a mio avviso, il fatto che siano le passioni e non gli uomini che necessitino di

essere educate e guidate: «anche quelli che hanno le anime più deboli potranno acquistare

un dominio assoluto su tutte le loro passioni, se si avrà molta cura nell’indirizzarli e

guidarli». (cfr. p. 60) 30

Cfr. PA, Parte III, Capo CCXII, p. 174. 31

Per una definizione generale di questo tipo di tecniche in riferimento alla pratica

filosofica: cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino 2008; Id. La filosofia

come maniera di vivere, Torino 2008. 32

Cfr. PA, Parte I, Capo XLI, p. 48. Sul tema della volontà in riferimento alle passioni: cfr.

R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico,

Milano 2010, pp. 272-287. 33

Cfr. PA, Parte I, Capo XLI, p. 49.

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rappresentazione delle cose che vanno congiunte con le passioni che

vogliamo avere e che sono contrarie a quelle che vogliamo respingere»34

.

Così ad esempio:

«per suscitare in se stessi l’ardire e impedire la paura, non basta averne la

volontà, ma bisogna applicarsi a considerar le ragioni, gli oggetti o gli

esempi, i quali persuadono che il pericolo non è grande; che vi è più

sicurezza nella difesa che nella fuga; che si avrà la gloria e la gioia di aver

vinto, mentre dalla fuga non possono che derivare che rimorso e vergogna, e

simili».35

La volontà, in altri termini, non può contrastare direttamente le passioni o i

loro eccessi, ma può esercitare una forma di controllo indiretto passando

attraverso il meccanismo corporeo che le produce. Stante il fatto che ogni

passione è legata al movimento degli spiriti messo in moto da una certa

rappresentazione mentale, noi possiamo lavorare su questa rappresentazione

mentale in modo da mutarne l’aspetto e da agire così sulla passione

correlata. Descartes, in tal modo, giunge a teorizzare, come primo esercizio

spirituale, un vero e proprio dressage fisiologico degli affetti36

, una sorta di

addestramento interiore volto a ricombinare in maniera diversa passioni e

abitudini, istituendo nuovi legami tra determinate situazioni esterne e le

rappresentazioni mentali che le accompagnano:

«Così, quando un cane vede una pernice, naturalmente è portato a correrle

dietro, e quando sente lo sparo d’un fucile è naturalmente incitato dal

rumore a fuggire; ma, nondimeno, si addestrano d’ordinario i cani da fermo

in maniera che la vista d’una pernice fa sì che essi si arrestino, e il rumore

che odono quando si tira addosso all’uccello, fa che essi accorrano. Ora,

queste cose sono utili a sapersi, per dare a uno qualunque il coraggio di

studiarsi a regolare le sue passioni. Infatti, dal momento che si può, con

qualche cura, cambiare i movimenti del cervello agli animali sprovvisti di

ragione, è evidente che lo si può ancor meglio negli uomini»37

In particolare, come scrive a Elisabetta, nel fare questo, si avrà cura di

«liberare interamente la mente da ogni pensiero triste […] e di considerare

34

Cfr. PA, Parte I, Capo XLV, p. 52. 35

Ibidem. 36

Cfr. R. Bodei, Op.cit., pp. 270-271. 37

Cfr. PA, Parte I, Capo L, pp.59-60.

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le cose dal lato che ce le può rendere più piacevoli» in modo da addestrarci

a considerare il volto luminoso degli avvenimenti e a fare sì che «la nostra

principale soddisfazione non dipenda che da noi soli»38

. Il consolidarsi di

queste nuove abitudini consentirà a ciascuno di cambiare se stesso e di far

trionfare gioiosamente la propria volontà. Si tratterà, per dirla con Plotino,

di «scolpire la propria statua»39

, di forgiare e plasmare – stoicamente – la

propria natura.

Il secondo esercizio spirituale che Descartes giunge a proporre riguarda

invece il saggio e ponderato disciplinamento delle nostre inclinazioni e dei

nostri desideri. Posto che «le passioni non ci possono indurre ad alcuna

azione se non per mezzo del desiderio che esse suscitano»; allora, per essere

felici, «dobbiamo precisamente aver cura di regolare questo desiderio; in ciò

consiste la principale utilità della Morale»40

. Come aveva scritto nel

Discorso sul metodo, si tratterà di «cercare di vincere noi stessi piuttosto che

la fortuna, e di cambiare i nostri desideri anziché l’ordine del mondo e, in

generale di assuefarci a credere che non vi è nulla interamente in nostro

potere, se non i nostri pensieri»41

. In accordo con tutta la tradizione stoica,

Descartes, individua il segreto della vita serena e della tranquillitas animi

nel saper orientare le proprie aspirazioni verso ciò che effettivamente

dipende da noi, astenendosi dal «desiderare con passione» le cose che

invece sfuggono al nostro controllo; e questo:

«non soltanto a cagione che [queste cose] possono non verificarsi, e quindi

addolorarci tanto più profondamente quanto più le avevamo desiderate; ma

soprattutto perché, tenendo occupato il nostro pensiero, esse impediscono

che noi possiamo rivolgere il nostro affetto ad altre cose, la cui acquisizione

dipende da noi»42

Egli, in questo modo, non ha un concetto punitivo e auto-costrittivo del

volere e della ragione. Non tende a una sconfitta e a un asservimento

38

Descartes a Elisabetta, maggio o giugno 1645, B 498 (AT IV 218-222: CCCLXXX), in

Op.cit., p. 2021. 39

Cfr. Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, Milano 1992, I, 6, 9, pp. 141-143: «Ritorna in

te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa’ come lo scultore di una

statua che deve diventar bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce, finché nel marmo appaia

la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò

che è fosco e rendilo brillante e non cessare di scolpire la tua propria statua, finché non ti si

manifesti lo splendore divino della virtù». 40

Cfr. PA, Parte II, Capo CXLIV, p.125. 41

R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., pp. 27-28. 42

Cfr. PA, Parte II, Capo CXLV, p. 126.

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doloroso dei desideri ribelli. Mira semmai a canalizzare la loro energia

propulsiva verso mete reali e raggiungibili, in modo da evitare una

frustrante dispersione e da procurare in ogni momento una piena e autentica

soddisfazione43

. Da questa prospettiva, quindi, egli si oppone a tutte le

etiche della rinuncia che propugnano una soppressione del desiderio tramite

il richiamo ai principi morali o l’utilizzo di tecniche devozionali44

; per lui il

problema, infatti, non è «che si desideri troppo, ma che si desideri troppo

poco»:

«E il rimedio sovrano in tal caso consiste nel liberare il più possibile lo

spirito da ogni specie di altri desideri meno utili, e poi di studiarsi di

conoscere ben chiaramente, e di considerare con attenzione la bontà di ciò

che merita di essere desiderato»45

L’esercizio interiore, in questo senso, consisterà in una accurata

prémeditation, in una «riflessione anticipata» volta a «distinguere

esattamente in tutte le cose ciò che dipende soltanto da noi, per estendere a

questo solo il nostro desiderio»46

; e, per quanto riguarda le cose che non

dipendono da noi, nel «convincersi che tutto è stabilito dalla Provvidenza

divina, il cui decreto eterno è così infallibile e immutabile che […] non

possiamo senza errore desiderare che avvenga diversamente». In questo

modo eviteremo di vincolare la nostra felicità a ciò che sfugge al nostro

controllo e, rendendoci invulnerabili ai colpi della fortuna, conseguiremo

quell’intima soddisfazione interiore che è la gioia più alta di cui possiamo

godere in questa vita. Il richiamo alla morale stoica è sotto questo profilo

chiaro ed esplicito:

«Riconosco che ci vuole un lungo esercizio e una meditazione spesso

rinnovata, per abituarsi a considerare tutte le cose da questo punto di vista,

43

Claude Bénichou ha ben colto, in questo senso, le intenzioni di Descartes: in lui «la

perfezione morale sembra consistere appunto in un’armonia tra il desiderio e la libertà; essa

si realizza nei cuori magnanimi in quanto desiderio, mirando a oggetti degni; non aliena la

libertà dell’io, che è solo un altro nome della sua dignità […]. Non va dimenticato che il

principale motivo ispiratore di questa morale è la volontà di valorizzare pienamente l’io, di

renderlo sovrano, sovranità che sarebbe compromessa sia dall’esplodere del desiderio, sia

dal suo soffocamento» (cfr. C. Bénichou, Morali del ‘Grand Siècle’. Cultura e società nel

Seicento francese, Bologna 1990, p.20). 44

Ad esempio: cfr. F. de Sales, Introducion à la vie dévote, III, XXVII: Les désirs, in

Oeuvres, Paris 1969, trad.it. Introduzione alla vita devota, Milano 1986, pp. 296 sgg.; cfr.

L. Chatellier, L’Europe des dévots, Paris 1987. 45

Cfr. PA, Parte II, Capo CXLIV, pp.125-126. 46

Cfr. Ivi, Parte II, Capo CXLVI, pp. 127-128.

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ma io credo che in questo soprattutto consistesse il segreto di quei filosofi

che in altri tempi sono riusciti a sottrarsi all’impero della fortuna e,

nonostante tutti i dolori e le indigenze, a gareggiare in beatitudine con le

loro divinità. Infatti […] si convincevano a tal punto che nulla era in loro

potere oltre i loro pensieri, che questo solo bastava a impedire loro di avere

qualche attaccamento per le altre cose; e dei loro pensieri erano padroni in

modo così completo che non del tutto a torto ritenevano di essere più ricchi,

più potenti, più liberi e più felici di tutti gli altri uomini».47

Il terzo e ultimo esercizio spirituale individuato da Descartes ne Le passioni

dell’anima viene da lui considerato come «il rimedio più generale e più

facile a praticarsi, contro tutti gli eccessi delle passioni», e deve arrivare,

come egli stesso ci avvisa, dove i due precedentemente enunciati non

giungono:

«Poiché ho messi fra questi rimedi la premeditazione e l’arte colla quale si

possono correggere i difetti della propria natura, studiandosi di separare in

sé i movimenti del sangue e degli spiriti dai pensieri ai quali sono di solito

uniti: confesso che vi sono pochi che si siano sufficientemente preparati in

questo senso contro ogni sorta di occasioni, e che questi movimenti eccitati

nel sangue dagli oggetti delle passioni, derivano in modo così immediato

dalle impressioni che si formano nel cervello […] che non esiste saggezza

umana capace di resister loro quando non vi si è sufficientemente

preparati»48

La varietà delle vicende umane e l’imprevedibilità imponderabile degli

eventi fanno sì che non si possa essere sempre preparati ad affrontare tutte le

situazioni e tutte le passioni che ci si presentano. Descartes, così immerso

nello studio del gran «libro del mondo»49

, non può che esserne consapevole.

Ciò nonostante egli rimane convinto che di fronte a qualsiasi avvenimento si

possa sempre restare padroni della propria disposizione interiore e che,

grazie all’esercizio della volontà, si possa ugualmente raggiungere la

padronanza delle proprie emozioni, la maîtrise de soi.

Basterà ricordarsi che:

47

R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., p. 28-29. 48

Cfr. PA, Parte III, Capo CCXI, p.172. 49

R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., p. 13.

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«tutto ciò che si presenta all’immaginazione, tende ad ingannare l’animo e a

fargli apparire assai più forti che non siano tutte le ragioni che servono a

persuadere dell’oggetto della sua passione e assai più deboli quelle che

servono a dissuaderlo»

E, cercando di «distrarsi con altri pensieri fin tanto che il tempo ed il riposo

abbiano calmata l’agitazione del sangue», fare in modo che «la volontà si

porti principalmente a considerare e a seguire le ragioni contrarie a quelle

dettate dalla passione, anche se sembrano meno forti»50

. Per lo scienziato

Descartes, che si era a lungo occupato di ottica, le passioni funzionano

esattamente come delle lenti di ingrandimento, che, ingigantendo i loro

oggetti «fanno sempre apparire molto più grandi ed importanti del vero

tanto i beni quanto i mali»51

; e, se fuori controllo, esse possono presentare ai

sensi e all’immaginazione un’immagine sfalsata e deformata della realtà.

Tramite la direzione della volontà e l’uso sapiente dell’intelletto è però

sempre possibile ridimensionare il formato delle immagini del desiderio e

delle opinioni infondate, riducendole a proporzioni adeguate e

diminuendone l’incidenza perturbativa sull’anima. Una giusta presa di

distanza e una lucida comprensione intellettuale consentono di correggere la

loro aberrazione ottica e di mettere meglio a fuoco il mondo, limitando lo

strapotere delle cause esterne e rendendoci padroni consapevoli delle nostre

risposte emotive.

5. Conclusione

Per Descartes così, la libera volontà e la luce dell’intelletto possono

condurre, se ben diretti, alla saggia padronanza delle proprie passioni e a

quella joye intellectuelle che deriva all’anima dalla conoscenza della sua

potenza e perfezione52

. L’uomo virtuoso, quasi maître et possesseur de la

nature, non risulta affatto caratterizzato da un apatico distacco, ma è

piuttosto pervaso dalla tonalità emotiva della ‘generosità’, per cui egli «si

stima al più alto grado» per «questa libera disposizione della sua volontà» e

per la «ferma e costante risoluzione a usarne bene»53

. Artefice di se stesso e

50

Cfr. PA, Parte III, Capo CCXI, p. 174. 51

Cfr. Ivi, Parte II, Capo CXXXVIII, p. 120. 52

Cfr. Ivi, Parte II, Capo CXLVII; Capo CXLVIII. 53

Cfr. Ivi, Parte III, Capo CLIII, pp.134-135.

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delle proprie disposizioni interiori, egli vive una vita che cerca la vita e non

una vita che cerca la morte54

.

L’affinità che sotto il profilo morale possiamo rinvenire tra il pensiero

cartesiano e quello degli stoici, merita dunque di essere ripensata in termini

più precisi e rigorosi. Se innegabile è la ripresa puntuale di alcune classiche

tecniche di controllo e del compito terapeutico della filosofia, altrettanto

evidente risulta però essere, per converso, la distanza nella concezione dei

fenomeni passionali e nelle finalità con cui tali tecniche devono venir

applicate. Nel contesto seicentesco di rinascita dello stoicismo, entro cui, a

diverso titolo, si situano anche Charron, Giusto Lipsio e Guillaume du Vair,

l’opera di Descartes occupa quindi, a ben vedere, un posto del tutto

particolare. Nata sul terreno dell’esperienza personale, essa si pone come un

interessantissimo caso di conciliazione fra il vecchio e il nuovo, come un

originale tentativo di ricomposizione delle classiche istanze morali ed etiche

con le scoperte della nuova fisiologia meccanicista. E questo in nome di

quella medesima vocazione pratica che, ai suoi occhi, doveva ricostituirsi

come il tratto saliente e fondamentale della nuova filosofia.

54

Secondo la bella immagine di Davide Rondoni: «i sentimenti cambiano, non la lotta / tra

la vita che cerca la vita / e la vita che cerca la morte» (da L’amore all’inizio e alla fine in

D. Rondoni, Apocalisse Amore, Milano 2008).