La Pala Fugger di Giulio Romano in Santa Maria dell'Anima: Fonti e fortuna critica
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA
TOR VERGATA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
DIPARTIMENTO DI STUDI FILOLOGICI, LINGUISTICI E LETTERARI
La Pala Fugger di Giulio Romano in Santa Maria dell’Anima:
fonti e fortuna critica
Relatore:
Chiar.ma Prof. ssa
Barbara Agosti
Laureanda:
Malatesta Annamaria
Matr. 0145117
Anno Accademico 2010-2011
2
Sommario
La Pala Fugger di Giulio Romano in Santa Maria dell’Anima: fonti e fortuna critica
Introduzione 3
Capitolo 1
1. La formazione di Giulio Romano, pittore ‹‹anticamente moderno e modernamente
antico›› 7
Capitolo 2
2. La Sacra Famiglia tra i Santi di Giulio Romano, una committenza Fugger nella
chiesa di Santa Maria dell’Anima 18
Capitolo 3
3. Sulla fortuna critica della Sacra Famiglia tra i Santi di Giulio Romano
3.1 La fortuna della Pala Fugger nelle stampe di traduzione 42
3.2 La Madonna dell’Anima come modello nella pittura tra Cinque e Seicento 49
Bibliografia 56
Tavole fuori testo
3
Introduzione
‹‹Il quadro degli avvenimenti che si succedono nel XVI secolo è quello delle lunghe e
luttuose guerre d’Italia, che ebbero inizio con l’invasione francese e si conclusero col
predominio spagnolo, ricco di episodi violenti come il Sacco di Roma (1527) ad opera dei
Lanzichenecchi. E insieme a questi, il rivolgimento della Riforma e la conseguente
reazione della Chiesa››1. Durante l’incalzare di queste vicende, la civiltà artistica italiana,
poggiata su un antico prestigio, continua a mantenere nel corso del secolo un incontestabile
primato. Indubbiamente l’aria di catastrofe che pesava sull’Italia per il venir meno di ogni
stabilità costituisce una sorta di sfondo alle nuove tendenze dell’arte.
Come per la religione, la politica, il pensiero filosofico e scientifico, anche per l’arte
il Cinquecento è un secolo altamente drammatico: è il secolo delle ‘Riforme’. L’arte
non è più contemplazione e rappresentazione dell’ordine del creato, ma inquieta
ricerca: della propria natura, dei propri fini e processi, della propria ragion d’essere
nel divenire della storia2.
E’ in quegli anni difficili e inquieti che nasce e si configura, ad opera di artisti diversi
legati da astrattezza, invenzioni, bizzarrie, quell’episodio dell’arte italiana che viene
definito Manierismo.
Nella sua inventiva tra equilibrio e instabilità, il Manierismo elaborò un linguaggio
di raffinata e distanziata eleganza: un linguaggio che seppur non tradusse
palesemente i profondi travagli politici e religiosi del suo contesto storico, ne
sublimò in un certo modo i tormenti padroneggiando l’arte del sapiente equilibrio3.
Roma, dove con le personalità di Michelangelo e Raffaello si raggiunge l’olimpica altezza
espressiva, diviene la capitale della Maniera4.
Che cosa s’intende esattamente per Maniera? Ad una definizione precisa e ragionata ha
tentato di giungere John Shaerman, il quale sostiene che il germe della ‘Maniera romana’
era latente nell’arte del secondo Rinascimento, ma che alle qualità predominanti di
1 A. CHASTEL, Il Sacco di Roma 1527, Trento 2010, pp. 123-125.
2 G. C. ARGAN, Dal Manierismo al Neoclassicismo, Roma 2000, cit.,p.4.
3 D. BODART, Rinascimento e Manierismo, Firenze 2005, cit., p.108.
4 H. VOSS, La pittura del Tardo Rinascimento a Roma e a Firenze, Roma 1994, p.9.
4
chiarezza spaziale ed espressività dinamica se ne sostituirono gradatamente altre, quali
l’eleganza, lo splendore e l’astrazione, esistenti in precedenza solo allo stato embrionale; lo
Shaerman sostiene inoltre che questa tendenza trova la massima e più pura espressione
negli anni tra la morte di Raffaello avvenuta nel 1520 e il Sacco di Roma del 1527, nelle
opere degli allievi di Raffaello, in particolare di Giulio Romano, depositario riconosciuto
di un’eredità effettiva, come quella dei cartoni, dei disegni e delle opere incompiute, ma
anche un’eredità spirituale5. Proprio nel nodo del rapporto e della collaborazione tra
Raffaello e Giulio Romano si coglie il nucleo della fondazione e della diffusione della
corrente ‘romana’ del Manierismo. Giulio si servì delle idee del maestro con
un’intelligenza che gli permetteva di muoversi senza alcun impaccio nella vivacità della
‘maniera moderna’; a tal proposito appare dunque acuto e pertinente il giudizio di Vasari,
quando dice che tra i seguaci di Raffaello non vi fu chi, più di Giulio Romano, fosse
‹‹fondato, fiero, sicuro, capriccioso, vario, abondante et universale››6. Ogni elemento che
apparteneva alla composizione raffaellesca, era esposto da Giulio con precisione di
particolari ed approfondito con uno spirito di audace sperimentazione, tant’è vero che una
volta libero dal controllo insuperabile dell’altissima personalità del maestro, si abbandonò
ad amplificazioni retoriche e fantastiche dello stile, che si traducono nella presenza di
particolari che distraggono sensibilmente l’occhio dall’opera stessa.
Questo comincia ad esplicarsi più chiaramente nella Madonna tra i Santi in Santa Maria
dell’Anima, nella quale emerge l’ambizioso desiderio di Giulio di avvincere lo spettatore
con la molteplicità dei punti di vista, ottenuta facendo risaltare i diversi piani di profondità.
Infatti l’occhio dell’astante si perde nello spazio accuratamente costruito sulla
contrapposizione tra sacro e profano. In quest’opera Giulio si rivela maestro indipendente
ed originale nel calare la Sacra Conversazione in un profano e regale portico romano a
forma circolare, sovvertendone lo schema tradizionale: la predilezione del ‘Pippi’ per le
soluzioni d’effetto si manifesta negli effetti della luce e nella presenza della loggia curva
sullo sfondo (revisione della Galleria dell’Esedra dei Mercati di Traiano) dominato dalla
presenza di una donna col fuso colta mentre custodisce i pulcini, che si contrappone alla
zona di intima sacralità in primo piano. L’importanza data all’ambiente, l’orgogliosa e
vistosa esibizione di cultura antiquaria, la creazione di uno sfondo popolato da rovine
romane e la suggestiva atmosfera creata dai giochi di luce, concorrono a dimostrare il
talento di Giulio nel padroneggiare diversi registri stilistici, così come il maestro lo aveva
addestrato. La pala d’altare commissionata dal banchiere tedesco Jakob Fugger, con il suo
scenario di monumenti antichi e il tono magniloquente insistentemente contrastato di luci
ed ombre, è sotto molti aspetti la sintesi dell’opera di Giulio, intrisa di quella che Vasari
ha definito ‘Maniera scura’. Nel continuo variare e rinnovare le soluzioni formali del
maestro Giulio, nella Pala Fugger, cerca di superare Raffaello per ricchezza della
narrazione e degli effetti cromatici e chiaroscurali, unendo la sua esperienza vissuta, la
conoscenza dell’antichità classica e il suo amore per i particolari di genere. Il linguaggio
manierista di cui dà saggio Giulio Romano nella Madonna tra i Santi ha un nutrito seguito
5 J. GERE, Manierismo a Roma, Milano 1983, p.6. Ma anche J. SHEARMAN, Il Manierismo, Firenze 1983.
6 VASARI, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, ed. 1568, a cura di R. Bettarini e P.
Barocchi, V, Firenze 1967-69, cit. p. 56.
5
negli anni post Sacco in una cerchia ristretta, soprattutto nell’opera di Raffaellino del Colle
e di Girolamo Siciolante da Sermoneta che nelle loro opere hanno reso omaggio al
‹‹raffaellismo romanista di Giulio››7. La Pala Fugger rappresenta il risultato più alto del
sodalizio fra il maestro e l’allievo e sottende gli elementi che giovano per comprendere la
responsabilità di Giulio nei confronti della diffusione della ‘Maniera’.
Nella primavera del 1527 l’esercito imperiale, formato da Lanzichenecchi tedeschi luterani,
da spagnoli e da irregolari mercenari italiani al comando di Carlo di Borbone,
cominciavano una lenta marcia verso Roma. Il Papa rifugiatosi fortunosamente
nell’imprendibile Castel Sant’Angelo dovette ricevere impotente notizia delle uccisioni,
delle distruzioni, dei saccheggi e delle rapine che durarono lunghi mesi prostrando la città e
suscitando un’enorme eco nel mondo8.
Anche i protagonisti della complessa stagione artistica clementina, ne furono vittime:
Polidoro da Caravaggio fuggì a Napoli da dove si spingerà fino a Messina, mentre Perino
del Vaga si trattenne ancora solo pochi mesi per passare poi a Genova nel 1528, dove una
ventata di ‘raffaellismo romano’ era già giunto qualche anno prima con la Lapidazione di
Santi Stefano di Giulio Romano9. La loro fuga da Roma fu l’occasione, tragica nelle sue
ragioni e positiva nelle sue conseguenze, di un ampio irradiamento della cultura artistica di
cui erano portatori. Prima del fatidico 1527, col trasferirsi di Giulio a Mantova (1524) si
apre nell’Italia settentrionale un fondamentale capitolo di questo trasmigrare di cultura
romana, determinante per le tendenze figurative cinquecentesche. A Mantova Federico
Gonzaga aveva offerto a Giulio un’occasione davvero straordinaria: quella di imprimere
alla città una nuova fisionomia. Il ‘Pippi’, come assoluto padrone del campo, raggiunse
l’obbiettivo impegnando tutto se stesso a realizzare, in opere di pittura e architettura, il
mito di quella Roma antica che egli perseguiva fin dai tempi della giovinezza.
Indubbiamente molte novità figurative fiorirono nel rovente clima creato da Giulio e dalla
sua lettura delle opere mantovane di Correggio10
; fra i suoi molti allievi e aiuti a Mantova,
chi seppe cogliere appieno l’essenza di quell’atmosfera fu Francesco Primaticcio. Se la
risonanza del clima mantovano fu grande in Italia e in Europa nella seconda metà del
secolo, è soprattutto ‹‹per il tramite gentile del Primaticcio che esso confluì nel mondo
della sensibilità manierista››11
. Nel 1531 infatti il Primaticcio è già a Fontainebleau dove
era stato chiamato da Francesco I, e Fontainebleau si avviava proprio in quegli anni a
divenire una nuova capitale della ‘Maniera’12
. A distanza di dieci anni dal Sacco (1537),
fece il suo ritorno a Roma Perino del Vaga che, favorito da papa Paolo III Farnese ed
7 L. GRASSI, Il Manierismo nella pittura italiana del Cinquecento, Roma 1965, cit. p.33.
8 A. CHASTEL, Il Sacco di Roma 1527, cit., p.12.
9 G. BRIGANTI, La Maniera italiana, Roma 1961, p.37.
10 J. SHEARMAN, Sul Giulio Romano di Frederick Hartt, in Studi su Raffaello, edizione italiana a cura di B.
Agosti e V. Romani, Milano 2007, pp. 141-155, p. 150. 11 Ibid., cit.,p.38. 12
S.BÉGUIN, Rosso e Primaticcio al castello di Fontainebleau, Milano 1965.
6
avviato alla decorazione delle stanze di Castel Sant’Angelo, assunse la funzione di
vivissimo punto di giuntura fra ‹‹l’elaborazione del raffaellismo e la rinnovata
‘maniera’»13
. Proprio la grandissima sensibilità mostrata da Perino nei confronti delle
ultime tendenze del Manierismo e l’altissima qualità pittorica delle sue composizioni lo
renderà uno dei ‘campioni’ decisivi della Maniera nella Roma farnesiana.
13
G. BRIGANTI, La Maniera italiana, cit., p. 34.
7
1. La formazione di Giulio Romano, pittore ‹‹anticamente moderno e
modernamente antico››
Ne Il Ritratto di Giulio Romano (1536) (fig. 1) Tiziano Vecellio (Piève di Cadore, 1489-
Venezia, 1576) mostra ‘il Pippi’con sfuggenti e ricci capelli neri, naso carnoso e occhi
ampiamente definiti da pesanti sopracciglia14
; un uomo dalla vivace intelligenza vestito
con sobrietà che esibisce la sua disponibilità a condividere idee e comunicare con chiunque
si accosti al quadro15
. Il ritratto rivela anche il portamento facile e i modi lucidi così
ammirati dal Vasari che, nella sua descrizione, ha completato la personalità dell’artista.
Unicità e rarità sembrano essere caratteristiche costanti del profilo di Giulio che la
tradizione critica ha consolidato nel corso dei secoli: ad esempio più volte è stato
sottolineato come egli sia l’unico grande artista del Rinascimento e del Barocco ad essere
romano di nascita, ovvero l’unico ad aver sperimentato fin dalla giovane età un contatto
diretto con l’antichità classica16
. L’artista respira l’antico fin dai primi anni dell’infanzia, e
questo dà un’impronta al modo di concepire arte e bellezza, che lo porterà a divenire
‹‹pittore modernamente antico e anticamente moderno››, come recita il doppio ossimoro
pronunciato da Giorgio Vasari:
Veggionsi i miracoli ne’ colori da lui operati, la vaghezza dei quali spira una grazia ferma
di bontà e carca di sapienza ne’ suoi scuri e lumi, che talora alienati e vivi si mostrano; ne’
con più grazia mai geometra toccò compasso di lui. Talché se Apelle e Vitruvio fossero
vivi nel cospetto degli artefici, si terrebbono vinti dalla maniera di lui, che fu sempre
anticamente moderna e modernamente antica17
.
Come s’è appena ricordato, Giulio nasce a Roma probabilmente intorno al 1499; la casa di
Pietro Pippi de Giannuzzi, il padre, si trovava nei pressi di Via Macel de’ Corvi, nelle
immediate vicinanze del Foro Romano18
. Possiamo quindi immaginare il giovane Giulio
crescere all’ombra della Colonna Traiana, mentre scherza con i suoi coetanei fra gli archi
dei Mercati di Traiano, nascondendosi per gioco fra quelle rovine dell’antichità romana
che avrebbero poi preso vita nelle celebri opere della sua maturità. Nel 1508, quando
Giulio è ancora un fanciullo, si colloca l’evento che getta i presupposti della sua futura
carriera artistica: Raffaello Sanzio (Urbino,1483-Roma,1520), chiamato da Giulio II, fa il
suo ingresso a Roma. Qui l’Urbinate inizia la sua carriera romana ottenendo una serie di
commissioni sempre più numerose: la sua fama crescente e di conseguenza la presenza di
14
P. JOANNIDES, Giulio Romano in Raphael’s Workshop, in “ Quaderni di Palazzo Te”,8,2000, p.35. 15
Ivi. 16
F. HARTT, Giulio Romano, Yale University press, New Haven 1958. 17
VASARI, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, nella redazione del 1550, a cura di P.
Barocchi, V, Firenze 1967- 1969, cit., p.55. 18
F. HARTT, Giulio Romano, p. 3.
8
committenze sempre più esigenti ed importanti, spinge il pittore a cercare nuove leve e
aiuti per la sua bottega19
. Già da ‘putto’, quindi sui dieci-dodici anni, Giulio ebbe
l’eccezionale fortuna di diventare discepolo di Raffaello, del quale divenne ben presto
allievo di fiducia. Nella descrizione del giovane Giulio lasciataci da Vasari è interessante il
risalto dato alle qualità sociali, alle raffinate e piacevoli maniere, le quali condussero
Raffaello a nutrire un affetto paterno nei suoi confronti:
Fra i molti, anzi infiniti discepoli di Raffaello da Urbino […], niuno ve n’ebbe che più lo
imitasse nella maniera, invenzione, disegno e colorito di Giulio Romano, ne’ chi fra loro
fusse di lui più fondato, fiero, sicuro, capriccioso, vario, abondante et universale; per non
dire al presente che egli fu dolcissimo nella conversazione, ioviale, affabile, grazioso e
tutto pieno d’ottimi costumi: le quali parti furono cagione che egli fu di maniera amato da
Raffaello, che se gli fusse stato figliuolo, non più l’arebbe potuto amare20
.
Durante il suo apprendistato nella bottega del maestro aveva avuto ampia occasione di
cogliere il modo di Raffaello di esercitare l’arte e di identificarsi con esso. E’ molto
indicativo che si formasse nel momento in cui Raffaello passava dalle ricerche dinamiche e
luministiche della Stanza di Eliodoro (fig. 2) a quelle classico-archeologiche degli arazzi21
.
In Giulio, infatti, resteranno sempre vivi gli interessi per la luce e per il movimento, una
attenzione per i caratteri fisici e una profonda erudizione antiquaria, tutti motivi connessi
con i pensieri dominanti nella pittura del suo maestro in quei primi anni cruciali. Giulio
aveva imparato questa straordinaria versatilità artistica proprio da Raffaello, essendo
dotato di una spiccata predisposizione all’apprendimento e di un grande slancio creativo.
Giulio vedeva in Raffaello il modello perfetto e aspirava a divenire un altro Raffaello,
senza dover rinunciare a se stesso22
.
La formazione artistica di Giulio avviene, dunque, all’interno dei cantieri pittorici affidati
alla bottega dell’Urbinate, prendendo avvio nelle Stanze Vaticane, in particolar modo nella
Stanza di Eliodoro (1511-1514) (fig. 3) e nella Stanza dell’Incendio di Borgo (1514-1517)
(fig.4); Vasari gli attribuisce
[…] molte cose nelle camera di Torre Borgia, dove è l’Incendio di Borgo, e
particolarmente l’imbasamento fatto di colore di bronzo, la contessa Matilda, il re Pipino,
Carlo Magno, Gottifredi Buglioni re di Ierusalem, con altri benefattori della Chiesa, che
sono tutte bonissime figure23
.
19
Ibid., pp. 5-6. 20
VASARI, Le Vite, cit., p.56. 21
L. BECHERUCCI, Raffaello, la pittura, i disegni, Novara 1998,p. 211. 22
F. HARTT, Giulio Romano, cit., p.8. 23
VASARI, Le Vite, cit., p.57.
9
Hartt ha ridotto al minimo la responsabilità di Raffaello in questa impresa. Per lo studioso
americano il vero responsabile degli affreschi fu Giulio Romano: ideò le scene, eseguì i
disegni preparatori e dipinse le due storie più famose, La Battaglia di Ostia (fig. 6) e
L’incendio di Borgo (fig. 7)24
. Il succo dell’esame di Hartt, in un articolo dedicato ai
rapporti tra l’allievo e il maestro, è nella osservazione che l’impianto di queste scene e la
loro realizzazione sono fuori dai termini del linguaggio di Raffaello e rivelano una
personalità differente e nuova, quella appunto di Giulio Romano25
. ‹‹Giulio Romano
sedicenne, abbandonato quasi a se stesso, dà nella esecuzione della Battaglia di Ostia un
saggio formidabile della sua precocità, infittendo il contrasto plastico dei gruppi e
obnubilando la chiarezza della composizione di Raffaello in una massa allacciata, quasi
continua, di corpi in lotta››26
. Assistiamo quindi nel 1516 al procedere parallelo di lavori
nella Stufetta del Cardinal Bibbiena (fig. 9) e nella Stanza dell’Incendio. In questo stesso
periodo la bottega di Raffaello riceve importanti incarichi da ricchi committenti privati. E’
il caso degli affreschi eseguiti per Agostino Chigi (1465-1520) nella Villa Farnesina alla
Lungara. La mano di Giulio è stata riconosciuta nella Loggia di Psiche (fig. 11), in
particolar modo nel pennacchio con Amore e le Tre Grazie (fig. 12)27
. La sua
partecipazione alla decorazione della Loggia di Psiche nella Villa Farnesina è oltremodo
importante, dal momento che, alcuni anni più tardi, l’artista tornerà ad affrontare questo
tema mitologico nella decorazione di uno degli ambienti di Palazzo Te a Mantova. Infatti,
la storia di Amore e Psiche che Giulio ideò a Palazzo Te sarebbe impensabile senza la
conoscenza così profonda del modello raffaellesco: nei corpi voluttuosi, nell’apoteosi del
nudo umano in formato monumentale, Giulio si basa sulla esperienza nella collaborazione
alla Farnesina28
. ‹‹Nel cantiere della Farnesina, Giulio prende dimestichezza con il
soggetto e raffina anche il proprio gusto per le sensuali nudità dei corpi e per le figure
scorciate prospetticamente: nell’affresco di Giulio il plasticismo delle figure è divenuto
molto più denso, quasi tangibile. I nudi si sono trasformati in anatomie possenti, i panneggi
hanno assunto, per effetto delle ombre forti e delle luci nitide, consistenza quasi bronzea.
Da vitali che erano, le immagini sono diventate statuarie. La loro astrazione è ora quella
marmorea della scultura. Diminuisce la vita interiore, ma si esalta la bellezza fisica delle
figure››29
. La formazione nell’ambito della bottega raffaellesca, però, non ha carattere
esclusivamente pittorico: l’artista, guidato dal maestro, sperimenta anche la tecnica dello
stucco. A Giulio, in stretta collaborazione con Giovanni da Udine (1487-1564), sono
attribuiti alcuni stucchi che ornano volte e soffitti di Villa Madama e delle Logge Vaticane
(fig. 14)30
. E’ in questo stesso ambiente che possiamo collocare le prime opere pittoriche
nelle quali la maniera giuliesca acquisisce caratteri che la differenziano da quella
24
F. HARTT, Giulio Romano, p. 11. 25
F. HARTT, Raphael and Giulio Romano, with notes on the Raphael school, in “Art Bulletin”, 2,1944, pp.
67-94. 26
L. BECHERUCCI, Raffaello, la pittura, i disegni, cit., p.230. 27
S. FERINO-PAGDEN, in Giulio Romano, catalogo della mostra a cura di E. Gombrich, M. Tafuri, S.
Ferino-Pagden (Mantova, Palazzo Te 1settembre - 12novembre 1989), Milano 1989, p.65. 28
Ibid., pp.66-67. 29
Ivi. 30
F. HARTT, Giulio Romano, p.12.
10
prettamente raffaellesca. Infatti, seppur tutti gli affreschi delle Logge sono progettati da
Raffaello, la mano di Giulio è riconoscibile nelle scene con Il Sacrificio di Noè, Abramo e
Melchisedech, Il Ritrovamento di Mosè, L’Attraversamento del Mar Rosso, L’Adorazione
del Vitello d’oro e Mosè che mostra al Popolo le tavole della legge. L’opera chiave che
permette di indagare a fondo il rapporto fra maestro e discepolo è il cosiddetto Ritratto di
Isabella de Requesens, viceregina di Napoli, (fig. 15). Quest’opera rappresenta un caso
paradigmatico per il rapporto di lavoro fra Raffaello e Giulio, e per il manifestarsi di uno
stile indipendente dell’allievo. Secondo un’affermazione del Vasari, l’opera venne
realizzata da Giulio, che la portò a termine in tutte le sue parti a eccezione del viso della
fanciulla, che fu, invece, realizzato dall’Urbinate31
. Lo stesso Raffaello, in una lettera
inviata ad Alfonso d’Este (1476-1534), duca di Ferrara, affermava che il cartone
dell’opera, e di conseguenza la sua ideazione, andavano attribuite a un ‘garzone’ della sua
bottega, che possiamo facilmente identificare con Giulio32
. Quest’opera è diversa infatti
dagli altri ritratti eseguiti da Raffaello: ‹‹in essa i piani figurativi si moltiplicano; la figura,
arretrata rispetto alla cornice, vive in uno spazio architettonico articolato; l’inquadratura,
infine, appare allargata, per permettere all’effigiata di mettere in mostra la sfarzosità
dell’abito che denota il suo elevato status sociale››33
. A tutti gli effetti, quindi, la viceregina
di Napoli costituisce il prototipo di nuova tipologia di ritratto ufficiale, un modulo
ritrattistico che Giulio tornerà a utilizzare nella sua stagione mantovana34
. Nel 1517,
probabile anno di realizzazione, Il Ritratto di Isabella venne donato dal Cardinal Bibbiena
al re di Francia, Francesco I (1494-1547)35
. Nello stesso anno altri dipinti provenienti dalla
bottega di Raffaello giungono in Francia attraverso Leone X (1475-1521). Fra queste
opere, oltre al San Michele che sconfigge Satana (fig. 17), con il quale si intendeva ribadire
la funzione del sovrano di protettore della chiesa, La Sacra Famiglia di Francesco I (fig.
16), indirizzata a Claudia di Valois (1499-1524), moglie di Francesco e regina di Francia, e
una Santa Margherita, probabile omaggio a Margherita d’ Angouleme (1492-1549),
sorella del re36
. La collaborazione di Giulio nella Sacra Famiglia di Francesco I (fig. 16) è
ben precisabile: Raffaello fece sicuramente il disegno e l’allievo ne dipinse alcune parti37
.
L’intervento giuliesco è circoscrivibile alle figure di Sant’Elisabetta e San Giovannino.
Quanto al San Michele (fig. 17), Giulio non ha a che fare con l’impianto del quadro. E’
probabile che egli sia intervenuto nell’esecuzione, ad esempio degli accessori del Santo e
della figura del demonio.38
Le due tavole per il re di Francia ebbero molta importanza
nell’influenzare lo stile di Giulio che vi collaborò come aiuto sotto la guida del maestro.
Poiché Giulio assisteva il maestro durante il suo operare, in questi anni si imprimono nella
sua personalità artistica quelle tracce raffaellesche che diverranno il motivo conduttore
31
Ivi. 32
Ibid.,p.15. 33
S. FERINO-PAGDEN, Giulio Romano pittore a Roma, in “Art e Dossier”, 40, 1989, Cit.,p.25. 34
Ivi. 35
Ivi. 36
Giulio Romano, catalogo della mostra a cura di E. Gombrich, M. Tafuri, S. Ferino-Pagden (Mantova,
Palazzo Te 1settembre-12novembre 1989), Milano 1989, p.67. 37
L. BECHERUCCI, Raffaello, la pittura, i disegni, cit., p. 252. 38
Ibid., p.253.
11
delle sue opere autonome. Già durante la preparazione dei cartoni per gli arazzi Raffaello
aveva dovuto allontanarsi dalla ricchezza cromatica della Stanza di Eliodoro (fig. 2), di
conseguenza la colorazione si semplificò e il gioco di luci e ombre si contrasse in schemi
di violenta opposizione39
. Assistiamo ad una sorta di radicalizzazione del chiaroscuro: le
ombre divengono forti e nette e le luci vivide; svaniscono i passaggi, i toni intermedi40
.
Così facendo Raffaello scopre che questo nuovo linguaggio del colore ha i suoi vantaggi:
le figure acquistano monumentalità statuaria e tutto diviene più definito41
. ‹‹Così mentre da
un lato lo studio della pittura classica spinge Raffaello ad inventare uno stile decorativo,
rapido e scintillante, dall’altro il contatto con le grandi idee del modo antico (pagano e
biblico) e l’influenza della statuaria romana, danno origine al linguaggio degli affreschi e
delle pale d’altare del tempo tardo di Raffaello, nel quale il chiaroscuro violentemente
contrastato, le ombre cupe, quasi nere, le figura come ‘de ferro che luceno’, diventano i
simboli non soltanto della pratica, ma anche dello stile di Giulio Romano››42
. A questa fase
(1517-1520) che vede Giulio strettissimo collaboratore di Raffaello, quasi suo alter ego, va
ascritta anche la realizzazione della Piccola Madonna Gonzaga e della Cerere del Louvre;
in quest’ultima è possibile ravvisare l’utilizzo di un modello antico43
, che sovente tornerà
nelle opere di Giulio. Allo stesso periodo sono da ricondurre La Madonna Novar (fig. 18)
di Edimburgo, Il Ritratto di Dama di Strasburgo e il cosiddetto Alessandro de’ Medici del
Museo Thyssen-Bornemisza44
. Nella bottega l’attenzione non era rivolta solamente alla
pittura: già nella Stanza di Eliodoro Raffaello potè dare forma aggregante a pittura e
architettura, per giungere a quella unità indivisibile che da quel momento iniziò
costantemente a perseguire assieme al suo discepolo più dotato. I primi disegni di
architettura di Giulio risalgono al periodo attorno al 151845
. Si tratta di studi di particolari
per il Palazzo Branconio dell’Aquila, che Raffaello progettò lasciando ampia libertà al suo
discepolo nella progettazione del cortile46
. Tuttavia il colpo di fortuna di Giulio come
architetto fu la costruzione di Villa Madama (fig. 21), che il cardinale Giulio de’ Medici
fece costruire alle pendici di Monte Mario:
Avendo Giulio cardinale de’ Medici, il qual fu poi Clemente Settimo, preso un sito sotto
Monte Mario fece fare un palazzo con tutti gl’agi e commodi di stanze, logge, giardini,
fontane, boschi et altri che si possono più belli e migliori desiderare, e diede tutto il carico
a Giulio; il quale presolo volentieri e messovi mano, condusse quel palagio, che allora si
chiamò la vigna de’ Medici et oggi di Madama, a quella perfezzione […]47
.
39
L. BECHERUCCI, Raffaello, la pittura,i disegni, cit., p. 250. 40
Ibid., p. 251. 41
Ivi. 42
Cit., ivi. 43
S. FERINO-PAGDEN, in Giulio Romano, catalogo della mostra, pp. 68-70. 44
Ivi. 45
Ibid.,p.80. 46
Ivi. 47
VASARI, Le Vite, V, cit., pp.57-58.
12
La collaborazione artistica con il maestro si interrompe il 6 aprile 1520. Con la morte di
Raffaello la storia della sua bottega non è automaticamente conclusa.
Morto Raffaello, e rimasti eredi di lui Giulio e Giovan Francesco detto il Fattore, con
carico di finire l’opere da esso Raffaello incominciate , condussero onoratamente la
maggior parte a perfezzione48
.
Giulio Romano e Giovan Francesco Penni ne ereditano la bottega, i disegni e le
commissioni più importanti, nonché una serie di opere incompiute. Fra queste la
celeberrima Madonna della Perla (1520 ca.) (fig. 22), oggi conservata a Madrid, nel
Museo del Prado, iniziata da Raffaello e terminata da Giulio dopo la morte dell’Urbinate49
.
Il lavoro sull’opera incompiuta del maestro porta il pittore ad assimilare ancor più lo stile
di Raffaello, come dimostrato dai lavori del periodo: La Madonna della Quercia (fig. 23)
(1520 ca.), che riprende in maniera evidente i motivi compositivi raffaelleschi; nella
Madonna Hertz (1520 ca.) (fig.24), la delicatezza dell’incarnato e la dolcezza del viso
parlano un linguaggio tipicamente raffaellesco. Non mancano però citazioni tipicamente
giuliesche, come gli ambienti che si aprono sullo sfondo del dipinto introducendo
espedienti figurativi spesso in contrasto con il tema rappresentato. Fra le commissioni
raffaellesche lasciate inevase alla morte del maestro vi è anche il contratto per
L’Incoronazione della Vergine (fig. 25) per il convento delle Clarisse di Monteluce, presso
Perugia50
. L’attività di architetto occupa una parte rilevante del lavoro di Giulio che, a
partire dal 1520, inizia a creare le prime costruzioni di propria mano dividendosi nello
stesso tempo tra tra pittura e architettura. Una delle prime opere è il Palazzo Adimari-
Salviati51
. L’episodio artistico più importante di questa fase della produzione giuliesca è
però legata al completamento della decorazione di un vastissimo ambiente rimasto
incompleto alla morte del maestro, la Sala di Costantino (fig. 26). Dopo la scomparsa di
Raffaello, l’assegnazione dell’incarico è vacillante e contesa fra i suoi eredi (Giulio
Romano e G. Francesco Penni) e Sebastiano del Piombo (1485-1547)52
. Dopo una battaglia
arroventata, Giulio Romano e il Penni vinceranno la gara diplomatica con Sebastiano del
Piombo, e cominceranno l’esecuzione dei lavori nel 1521. Il dominatore della Sala di
Costantino è Giulio Romano: ‹‹egli ha preso da Raffaello tardo l’alto classicismo e l’ha
mutato in archeologia, ha preso la forza plastica e la solidità del chiaroscuro e l’ha
trasformata in esasperata definizione formale e in un gusto quasi statuario, ha preso il
48
Ibid.,p.57. 49
Giulio Romano, catalogo della mostra a cura di E. Gombrich, M. Tafuri, S. Ferino-Pagden (Mantova,
Palazzo Te, 1settembre-12novembre 1989), Milano 1989. 50
Ivi. 51
Palazzo del tesoriere papale Filippo Adimari, divenuto vescovo di Nazareth; nel 1552 il palazzo fu venduto
al cardinale Giovanni Salviati. Passato di lì a poco al fratello Bernanrdo Salviati, priore dell’Ordine di Malta,
nel 1556 fu restaurato da Nanni di Baccio Bigio(J.SHEARMAN, Giulio Romano, licenze, invenzioni, artifici,
in “ Bollettino Andrea Palladio”, IX, 1967, pp.354-368). 52
L. BECHERUCCI, Raffaello, la pittura, i disegni, pp. 295-298.
13
senso drammatico dell’azione e l’ha risolto in violenza di gesti››53
. La decorazione di
questa sala prevede la presenza di quattro storie della vita dell’imperatore, raffigurate come
se fossero tessute su arazzi appese alle pareti54
; due delle quattro scene vengono realizzate
da Giulio sulla base dei disegni di Raffaello: L’Adlocutio (o Visione della Croce) (fig. 27)
e La Battaglia di Costantino. Giulio raccoglie l’eredità di Raffaello e in un certo senso
confluisce sotto di lui la schiera di aiuti che erano stati prima i ‘garzoni’ dell’Urbinate,
Polidoro da Caravaggio (1499-1543), Giovanni da Udine (1487-1564), Giovan Francesco
Penni (1496-1528), sebbene la ‘bottega’ di Giulio presenti nomi del tutto nuovi:
Raffaellino del Colle (1495-1566) e Benedetto Bagni da Pescia (1504-1578). I lavori nella
Sala di Costantino (fig. 26), iniziati sotto il pontificato di Leone X, si interruppero nel
1522 dopo l’ascesa al soglio pontificio dell’olandese Adriano VI (1459-1523), che instaurò
nella Città Eterna una rigorosa politica di austerità, mentre in Germania cominciva a
prepararsi il terreno per la rivolta protestante che di lì avrebbe dilagato in tutta Europa. Tra
il 1521 e il 1522, la fama di Giulio architetto a Roma conobbe il suo apice: in questo arco
di tempo progettò per Baldassarre Turini da Pescia (1486-1543) la Villa Lante sul
Gianicolo
[…] un palazzo tanto commodo, per tutti quegl’agi che si possono in un sì fatto desiderare,
che più non si può dire; et oltre ciò furono le stanze non solo adornate di stucchi, ma di
pittura ancora, avendovi egli stesso dipinto alcune storie di Numa Pompilio. Nella Stufa di
questo palazzo dipinse Giulio alcune storie di Venere e d’Amore, e d’Apollo e di Iacinto55
.
ma anche il Palazzo Maccarani-Stati in Piazza Sant’Eustachio per la famiglia Stati56
. Al
periodo che coincide con l’interruzione dei lavori nella Sala di Costantino vanno collocate
opere come La Circoncisione (1521-1522 ca.) dipinta per Camillo Orsini (1491-1559), La
Madonna della Gatta (1522-1523 ca.) (fig.27) e le due pale d’altare: La Lapidazione di
Santo Stefano (fig. 32) eseguita per Giovan Matteo Giberti (1495-1543) conservata nella
chiesa genovese dedicata al santo e La Sacra Famiglia con il piccolo San Giovanni
Battista e i Santi Giacomo e Marco (fig. 33) eseguita per il banchiere tedesco Jakob Fugger
(1459-1525) nella chiesa della nazione tedesca a Roma, Santa Maria dell’Anima57
. Queste
opere si distinguono per un drammatico chiaroscuro, raggiunto con l’uso denso di strati di
nerofumo applicati sopra colori luminosi. In questi dipinti sono evidenti le peculiarità che
contraddistinguono lo stile di Giulio. La sua straordinaria capacità di inserire nei dipinti
una dolce nota quotidiana intrisa di realismo si incontra nella pala di Santa Maria
dell’Anima, dove, nel raggio di luce che accende lo sfondo, spicca il motivo della donna
che si affaccia sulla porta a guardare la ‘chioccia coi pulcini’; o nella Madonna Hertz (fig.
53
Ibid., p. 296. 54
J. HESS, On Raphael and Giulio Romano, in “Gazette des beaux-arts”, XXXI-XXXI, 1947, pp. 73-106. 55
VASARI, Le Vite, V, Cit., p.64. 56
J. SHEARMAN, Giulio Romano, licenze, invenzioni, artifici, 1967, pp.354-368. 57
F. HARTT, Giulio Romano, 1958.
14
24), il motivo di umili piccioni rivelati da uno sprazzo di sole. Così come si riconoscono i
motivi della rovine della Roma antica, cari a Giulio fin dai tempi della Madonna della
Perla che, nella Lapidazione di Santo Stefano e nella Sacra Famiglia Fugger soprattutto, si
traducono in una rivisitazione dell’Esedra dei Mercati di Traiano (fig. 34). Dopo la morte
di Adriano VI (1523) e la nomina al soglio pontificio del papa Clemente VII (1478-1534),
il cantiere pittorico della Sala di Costantino fu riaperto e furono affrescate La Donazione di
Roma e Il Battesimo di Costantino. Anche i temi profani entrano nella produzione di questi
anni, per assumere nel linguaggio di Giulio una forte carica di sensualità: La Donna allo
specchio (1523-1524) (fig.20) del Museo Puskin di Mosca e Gli Amanti (1523-1524)
dell’Ermitage di San Pietroburgo. Il linguaggio erotico di queste composizioni si ricollega
in maniera forte a uno degli episodi più noti della sua vicenda artistica, quando, con
l’uscita dei suoi sedici Modi – invenzioni grafiche piuttosto provocatorie tradotte in stampa
da Marcantonio Raimondi, accompagnati da componimenti di Pietro Aretino – provocò un
grande scandalo presso la corte papale58
.
I Modi costituiscono l’ultimo episodio della carriera romana di Giulio, che nel 1524 lascia
l’Urbe per trasferirsi a Mantova presso la corte di Federico Gonzaga (1500-1540). Già da
tempo, il marchese (duca dal 1530) di Mantova lo invitava a recarsi presso la sua corte, e
quando finalmente, terminati i lavori della Sala di Costantino, Giulio raccoglie l’invito,
ottiene l’autorizzazione pontificia a lasciare Roma e prendere commiato dal papa. Da
tempo Federico desiderava avere come artisti di corte i due eredi di Raffaello, Giulio
Romano e Giovan Francesco Penni. Già nel dicembre del 1521 aveva scritto a Baldassarre
Castiglione, suo ambasciatore a Roma:
Messer Baldesar desideramo haver ad stare con noi quelli dui garzoni di Raphael da Urbino
che lavorano così bene come intendemo, et vedeti di accordarvi seco che li tratteremo bene,
et de le cose de là vogliatene scriver spesso et minutamente59
.
Baldassarre Castiglione ha avuto un ruolo centrale nel promuovere la carriera di Giulio;
infatti egli ha traslato stima e amicizia nutriti per Raffaello sul suo allievo. Leggendo il
Cortegiano ci si può rendere conto di come Giulio si avvicinasse all’artista ideale del
Castiglione più di quanto fosse possibile a chiunque altro dopo la morte di Raffaello:
‹‹nella pittura non una linea stentata, un sol colpo di pennello, tirato facilmente di modo
che paia che la mano, senza esser guidata da studio o arte alcuna, vada per se stessa al suo
termine secondo la intenzion del pittore, scopre chiaramente la eccellenza dell’artefice››60
Una tale preferenza da parte di Federico Gonzaga trovava anche una sua giustificazione
nella peculiarità di Giulio ad intendersi di architettura. Grazie a questa formazione, Giulio
58
Ivi.
60
( Studi su Raffaello, Cit.,p. 164). J. SHEARMAN, Studi su Raffaello, a cura di B. Agosti e V. Romani,
Milano 2007, p.160.
15
si distingue tra i discepoli di Raffaello, segnalandosi agli occhi del Gonzaga come il
giovane maestro più promettente e versatile nelle arti. La stagione mantovana di Giulio
vede il pittore giocare un ruolo diverso da quello recitato a Roma: nella Città Eterna Giulio
è spesso l’esecutore dei disegni di Raffaello e delle opere lasciate incompiute dal maestro.
A Mantova Giulio diventa disegnatore ed ideatore autonomo61
, l’assoluto dominatore
artistico della città. Presso il Sanzio aveva imparato come realizzare una copiosità di idee
con l’aiuto di collaboratori ai quali affidava l’esecuzione delle opere.
L’opera più nota e impegnativa di Giulio Romano a Mantova è sicuramente il Palazzo Te:
la grande villa suburbana progettata, realizzata e decorata per Federico II Gonzaga nel
decennio che va dal 1525 al 1535. Qui Giulio mette a frutto tutte le conoscenze maturate
nella bottega raffaellesca: progettazione architettonica, decorazione ad affresco,
decorazione a stucco62
. Giulio è l’ideatore dell’intera decorazione di Palazzo Te, ma
certamente ben presto la mole di lavoro comincia ad imporre l’aiuto anche di altri
collaboratori; fra questi merita di essere ricordato Francesco Primaticcio (1504-1570)63
.
L’invenzione che certamente si è guadagnata la più grande rinomanza, è in Palazzo Te La
Camera dei Giganti, all’interno della quale pittura e architettura concorrono a coinvolgere
lo spettatore64
. Perfino l’imperatore Carlo V visitò per due volte Palazzo Te, una volta nel
1530, quando gustò il ricchissimo sfarzo di oro, stucchi e quadri, e la seconda volta nel
1532, quando alcune delle stanze dell’appartamento dei Giganti erano già terminate65
.
Federico, che venne nominato da Carlo V duca, fece elaborare a Giulio il secondo
appartamento nel rigore e nella maestosità antichi di una decorazione trionfale66
. ‹‹Si
gareggiò con la Colonna Traiana nella Camera degli Stucchi, si crearono grandiose figure
di sovrani nella Camera dell’Imperatore e si sbalordì il visitatore con l’illusione di una
massa di rocce e di un grandioso tempio che rovinano seppellendo orribili giganti nella
Sala dei Giganti››67
. Mentre gli allievi ancora finivano di decorare Palazzo Te, Giulio
lavorava ai quadri mitologici e a un ciclo di caccia dal finale tragico, come La morte di
Adone nella caccia al cinghiale68
. La sua opera più grandiosa, però, è la serie degli arazzi
61
Giulio Romano, catalogo della mostra a cura di E. Gombrich, M. Tafuri, S. Ferino-Pagden (Mantova,
Palazzo Te, 1settembre-12novembre 1989), Milano 1989. 62
In alcuni casi la derivazione delle opere della giovinezza giuliesca in Palazzo Te è fortemente evidente:
uno degli stucchi della volta della Camera del sole e della Luna riprende la figura di Venere presente in uno
dei pennacchi della Loggia di Psiche della Farnesina. La consonanza è data anche dalla rappresentazione
dello stesso mito antico in entrambi gli ambienti. In Palazzo Te il racconto di Apuleio è rappresentato nelle
lunette e su due delle pareti della Camera di Amore e Psiche. (K. OBERHUBER, L’epica gonzaghesca, in
“Art e Dossier”, 40, 1989,pp. 37-39). 63
Ivi. 64
Manierismo a Mantova: la pittura da Giulio Romano all’età di Rubens, a cura di S. Marinelli, Cinisello
Balsamo 1998, pp. 352-359.
La narrazione è incentrata sulla lotta fra le divinità dell’Olimpo e i feroci Giganti. Sulle pareti viene mostrato
come questi ultimi, dopo aver tentato di raggiungere la dimora degli dei tramite la costruzione di una torre
gigantesca, vengono infine puniti: sotto lo sguardo atterrito delle divinità, l’edificio crolla per effetto delle
folgori di Giove, trascinando in rovina la superba ambizione dei Giganti. 65
K. OBERHUBER, L’epica gonzaghesca, 1989, pp.37-39. 66
Ivi. 67
Cit., ibid., p. 43. 68
Ibid., pp.39-42.
16
con il Trionfo di Scipione, progettati per il re di Francia Francesco I69
. Fu invece prodotta
per la corte gonzaghesca la serie di arazzi con Giochi di Putti.
Nel 1531 va collocata la realizzazione del Ritratto di Margherita Paleologo, conservato
nelle raccolte di Hampton Court70
. Questa sontuosa opera della stagione mantovana
conserva l’effigie di Margherita Paleologo del Monferrato (1510-1566), moglie di
Federico. Per la stessa Margherita, negli anni Trenta del Cinquecento, Giulio realizzò
anche una palazzina – chiamata appunto ‘La Paleologa’71
. Nella Palazzina sviluppò ancora
una volta una tematica antica: gli stucchi raggiungono una tale monumentalità da
rivaleggiare quasi con le sculture a tutto tondo. Ma interventi di Giulio si ritrovano anche
nel Palazzo Ducale. Alcune decorazioni dell’appartamento di Isabella d’Este, la Palazzina
della Rustica, parte della Loggia dei Marmi e l’Appartamento di Troia, nel quale le pareti
sono affrescate con episodi legati al mito omerico della battaglia di Ilio72
.
Morto Federico nel 1540, Giulio che era ancora profondamente impegnato nella
costruzione del Palazzo Vescovile di Mantova e dell’Abbazia di San Benedetto a Polirone,
nonché nella progettazione e realizzazione di Porta Giulia, avviò la decorazione della
propria casa mantovana, affrescandola con grandi divinità monumentali che sembrano
dichiarare il raggiungimento di una pace e una grandezza tale da far vedere nel ‘Pippi’ la
quintessenza di un pittore principesco, di un patrizio romano che gode di ciò che ha saputo
costruire73
.
Il suo ideale era portare di nuovo in vita l’antichità, ed è sulla scorta di questo forte ideale
che non rinunciò mai all’esigenza ereditata da Raffaello di portare l’antico nella propria
opera. La fama di Giulio architetto oltrepassa velocemente i confini dello Stato mantovano:
suoi interventi vengono richiesti a Ferrara, Reggio Emilia, Milano, Vicenza, Padova e
Bologna. Nonostante queste commissioni, Giulio continua ad essere artista di corte per i
signori di Mantova, per i quali non solo realizza e decora lussuosi ambienti, ma progetta
anche sontuose suppellettili. La produzione giuliesca nel campo delle arti minori
comprende anche la progettazione e la realizzazione di armi da parata. Il Museo Nazionale
del Bargello ad esempio conserva una preziosa rotella in cuoio dipinto e dorato, ornato con
una Venere su mostro marino, attribuita alla bottega di Giulio. I due scudi in legno con
doratura raffigurano Il Ratto di Elena e una Battaglia navale74
. Dalla capacità inventiva di
Giulio deriva il ciclo noto con il nome di Fructus Belli, composto per Ferrante Gonzaga
(1507-1557) e datato 1546, un anno cruciale per Giulio; sappiamo infatti da Vasari che in
quell’anno gli viene offerto anche il prestigioso incarico di Architetto della Fabbrica di San
Pietro a Roma:
69
Ibid., p. 45. La prima edizione del ciclo fu tessuta a Bruxelles e venne distrutta durante la Rivoluzione
Francese. 70
Ivi. Il dipinto presenta forti affinità con Il Ritratto di Giovanna D’Aragona: la protagonista fa sfoggio dello
straordinario abito in velluto nero che esalta la sua posizione sociale. 71
Ivi. Dalla demolizione di questo edificio, nel 1899, vennero salvate le decorazioni di tre camerini rimontati
negli anni Venti all’interno del Palazzo Ducale. 72
Manierismo a Mantova: la pittura da Giulio Romano all’età di Rubens, Cinisello Balsamo 1998, pp.352-
359 73
K. OBERHUBER, L’epica gonzaghesca, p. 46. 74
L’opera di Giulio Romano, in “Quaderni di Palazzo Te”, 1,1984, pp.76-79.
17
Intanto, essendo di que’ giorni morto Antonio Sangallo in Roma, e rimasi perciò in non
piccolo travaglio i deputati della fabbrica di San Piero […] pensarono niuno potesse esser
più atto a ciò che Giulio Romano, del quale sapevano tutti quanta l’eccellenza fusse et il
valore75
.
Giulio è però malato, e già da anni lamenta problemi di vista. Si spegnerà in Mantova di lì
a pochissimo, il 1 novembre del 1546. Prima di morire però Giulio nominò come erede il
figlio, al quale aveva dato il nome del suo amato maestro, Raffaello.
Rese Giulio l’anima al cielo il giorno che si fa solenne commemorazione di Tutti i Santi,
l’anno MDXLVI. E gli fu posto alla sepoltura lo infrascritto epitaffio:
ROMANUS MORENS SECUM TRES IULIUS ARTEIS ABSTULIT (HAUD
MIRUM) QUATUOR UNUS ERAT76
.
75
VASARI, Le Vite, V, cit., p. 80. 76
VASARI, Le Vite, 1550, cit., p. 82.
18
2. La Sacra Famiglia tra i Santi di Giulio Romano, una committenza
Fugger nella chiesa di Santa Maria dell’Anima
La chiesa della nazione tedesca sorge sul luogo dove, intorno al 1386, per volontà di
Giovanni di Pietro Fiammingo e di sua moglie Caterina, tre case con giardino erano state
adibite ad ospizio per l’accoglienza dei poveri e dei pellegrini tedeschi77
. L’edificio
centrale nel 1398 era stato trasformato in cappella, dedicata a Santa Maria dell’Anima.
Ridolfino Venuti nella prima metà del Settecento ci informa che la chiesa
Fu dedicata alla Beatissima Vergine dell’Anima, per essersi trovato in questo sito
un’antica immagine della Santissima Vergine, sedente fra due figure genuflesse,
rappresentanti colla loro maniera e postura due Anime dei fedeli78
.
Intorno al 1430 la cappella, ormai insufficiente per le esigenze di culto, venne
completamente ricostruita accanto al nuovo edificio dell’ospizio. L’attuale chiesa risale
però a una terza fase costruttiva, iniziata nel 1499, seguendo lo schema a tre navate
asimmetriche divise da pilastri, con cappelle laterali della stessa altezza delle navi.
All’esterno la facciata, suddivisa da robusti cornicioni in tre ordini, era ancora in
costruzione nel 1518, anno in cui è registrata una fornitura di marmo per la realizzazione
del portale principale79
. Nel 1523 la chiesa è ultimata nelle sue parti essenziali, ma la
realizzazione del gruppo marmoreo, inserito nel timpano triangolare, raffigurante La
Madonna con il Bambino e due Anime inginocchiate, viene completata successivamente80
.
77
L. TESTA, Santa Maria dell’Anima, in Roma Sacra, Guida alle chiese della città eterna, Roma 1996,
pp.5-6. 78
R. VENUTI, Accurata e succinta descrizione topografica delle antichità di Roma dell’abate Ridolfino
Venuti Cortonese, Roma 1977, p.192. 79
L.TESTA, Santa Maria dell’Anima cit., p.5. 80
Il gruppo, principale ornamento scultoreo della facciata, rimanda simbolicamente alla intitolazione della
chiesa dell’Anima, ponendosi come un unicum di questa tipologia. Né Vasari, né le prime guide di letteratura
artistica citano le sculture, tantomeno sono presenti pagamenti per le statue negli archivi di Santa Maria
dell’Anima. La sua attribuzione è rimasta dubbia fino all’inizio del XX secolo quando, per ragioni di stile, lo
si è attribuito ad Andrea Sansovino. Infatti, l’aspetto morfologico del gruppo scultoreo dell’Anima presenta
momenti comparabili con aspetti delle tombe Sforza e della Rovere concepite da Sansovino per la Chiesa di
19
L’interno presenta importanti monumenti sepolcrali e sculture marmoree, tra queste il
monumento funebre di Adriano VI, eretto a spese del cardinale Enkvoirt, i sepolcri di
Johannes Savenier e del nipote Gualtero Gualteri de Castro, i cui busti sono opera
rispettivamente di Alessandro Algardi e di Ercole Ferrata, e il gruppo scultoreo dedicato
alla Pietà (libera copia michelangiolesca) che Vasari dice di Nanni di Baccio Bigio,
sebbene una serie di pagamenti lo connetta al nome di Lorenzetto81
. Tra le opere pittoriche
si ammirano invece la pala d’altare di Carlo Saraceni raffigurante Il Miracolo di San
Benno, custodito nella cappella omonima, le Storie di Maria di Giovan Francesco Grimaldi
e La Vergine con il Bambino e Sant’Anna di Giacinto Gimignani. L’esecuzione della pala
d’altare della cappella del Margravio con la Deposizione, realizzata ad affresco, e delle
storie alle pareti, raffiguranti La Resurrezione, La Pentecoste, i Santi Stefano, Giovanni
Elemosinaro, Maurizio e Alberto Magno, venne affidata a Francesco Salviati82
. La cappella
seguente intitolata a Santa Barbara fu decorata da un ciclo di affreschi rappresentanti Storie
di Santa Barbara e la pala d’altare con La Trinità, Santa Barbara e il cardinale Enkwoirt.
La decorazione della cappella successiva è ornata con un dipinto raffigurante La Madonna
con Bambino e San Giovanni Nepomuceno di Anton Von Maron, oggi in sacrestia; solo in
seguito Ludwig Seitz realizzò ad affresco le Storie di San Giovanni Nepomuceno e
Giovanni Sarkander. L’altare della cappella dedicata a San Lamberto appare simile a
quello della cappella di San Benno perché è lo stesso Carlo Saraceni a dipingere Il
Martirio di San Lamberto, opera alla quale si affianca la decorazione ad affresco con
Storie della vita di San Lamberto, realizzata da Pietro Testa. Nella sacrestia si alternano
affreschi raffiguranti L’Assunzione di Maria e La Vita della Vergine eseguiti da Giovan
Francesco Romanelli; La Nascita di Maria, Dio Padre benedicente, Sant’ Enrico II e
Sant’Antonino affrescati da Gilles Hallet; Lo Sposalizio della Vergine e L’Annunciazione
realizzati da Giovanni Maria Morandi e La Visitazione di Giovanni Bonatti83
.
Jakob Fugger (1459-1525), banchiere di Carlo V, commissionò a Giulio Romano tra il
1521 ed il 1522 la pala con la Sacra Conversazione con i Santi Giacomo e Marco (fig. 33),
per destinarla all’altar maggiore della propria cappella nella chiesa dell’Anima, a memoria
di due membri della sua famiglia: Giacomo Fugger, canonico degli Asburgo e Marco
Santa Maria del Popolo. A questo proposito si rimanda a K. WEIL-GARRIS POSNER, Notes on S. Maria
dell’Anima, in “Storia dell’arte”,VI,1970,pp. 121-123. 81
K. WEIL-GARRIS POSNER, Notes on S. Maria dell’Anima, in “Storia dell’arte”, VI, 1970,p.133. 82
L. TESTA, Santa Maria dell’Anima, cit. p. 10. 83
Ibid, p. 11.
20
Fugger, protonotaro apostolico84
. Giorgio Vasari nella vita dedicata a Giulio Romano
racconta:
Fece il medesimo Giulio a Jacopo Fuccheri tedesco, per una cappella che è in Santa
Maria de Anima in Roma, una bellissima tavola ad olio, nella quale è Nostra Donna,
Sant’Anna, San Giuseppo, San Iacopo, San Giovanni putto e ginocchioni, e san
Marco Evangelista che ha un leone a’ piedi85
.
In seguito alla morte di Jakob, avvenuta nel 1525, le pareti della cappella rimasero a lungo
prive di una decorazione. Solo intorno al 1550, come dimostra un documento conservato
nell’archivio della chiesa di Santa Maria dell’Anima, il diacono della chiesa Johann
Hominis, fu incaricato di ricordare all’erede Anton Fugger che la decorazione della
cappella di famiglia non era ancora finita86
. E’ possibile che sia stata la situazione
economica dissestata dai finanziamenti concessi a Carlo V per le guerre contro la Francia a
distogliere il Fugger dal progetto di completamento della cappella. Debellato quel clima di
provvisorietà, alla morte di Anton (1560), il suo successore Hans Jakob, rinomato
collezionista d’arte e con cospicui contatti a Roma, tra il 1561 e il 1563, affidò a Siciolante
da Sermoneta l’incarico di completare le decorazioni della cappella di famiglia87
.
La cappella Fugger si presenta come uno spazio semicircolare con una mezza cupola che
raggiunge in altezza quella della navata principale della chiesa. Una finestra ogivale,
parzialmente coperta dal tabernacolo che ha un crocefisso scolpito, divide il muro in due
parti uguali coperte dagli affreschi con Scene dalla vita della Vergine pensate dal pittore
di Sermoneta. Scorrendo rapidamente le scene, troviamo, in basso a sinistra, La Nascita
della Vergine (fig. 35) e, in basso a destra, La Presentazione di Maria al Tempio (fig. 35
a); L’Annunciazione occupa la fascia orizzontale, mentre La Visitazione (fig. 35 b) è in alto
a sinistra. Infine in alto a destra vediamo La Presentazione di Gesù Bambino al Tempio
(fig. 35 c). La cappella così configurata perse la sua originaria disposizione nel 1750,
84
J. HESS, On Raphael and Giulio Romano, in “Gazette des beaux-arts”, XXXI-XXXII, 1947, p.96. 85
VASARI 1568, Le Vite de' più eccellenti pittori, scultori et architettori, nelle redazioni del 1550 e 1568,
testo a cura di R. Bettarini, commento secolare e indici a cura di P. Barocchi, V, Firenze 1966-1987, p.62. 86
Il clero di Santa Maria dell’Anima sollecita Anton Fugger a completare la cappella Fugger, Roma 1549,
Archivio di S. Maria dell’Anima, pubblicato da SCHMIDLIN, Genschicte, pp. 242-244. 87
J. HUNTER, Girolamo Siciolante pittore da Sermoneta, Roma 1996, p.60.
21
anche se un primo spostamento della pala di Giulio avvenne in occasione del restauro di
Carlo Maratti, per cui il dipinto nel 1683 fu traslato in sagrestia. All’inizio del Settecento
l’opera è spostata definitivamente sull’altare maggiore, come conferma anche Giovanni
Gaetano Bottari nella sua Raccolta di Lettere, dove si racconta che il quadro passò dalla
cappella alla sacrestia, per poi approdare definitivamente, dopo l’ennesimo restauro,
sull’altare maggiore88
, quando nel corso dei lavori di sistemazione del coro, si pensò di
spostare sull’altare maggiore della chiesa la Sacra Famiglia Fugger di Giulio89
.
La pala concepita da Giulio Romano (Roma 1499-Mantova 1546) per la cappella
dell’Anima, si inserisce nel corpus pittorico delle opere realizzate dall’artista
immediatamente prima della sua partenza da Roma, incardinandosi più precisamente nel
periodo compreso tra la morte di Raffaello (1520), e il trasferimento a Mantova presso la
corte di Federico II Gonzaga (1524). E’ probabilmente la prima pala d’altare concepita da
Giulio in modo autonomo, sebbene sia ancora profondamente legata alla tarda maniera del
Sanzio, contraddistinta dall’intensificarsi degli effetti chiaroscurali. La fonte di ispirazione
che caratterizza il linguaggio cromatico denso di questa composizione, va ricercata
all’indietro nel cambiamento che da un certo punto in poi avviene nella pittura di
Raffaello, toccato dal rinnovato incontro con Leonardo, a Roma dal 1513 al 1516. Da un
appunto contenuto nel Codice Atlantico si sa infatti che il Vinci occupava uno studio
allestito per lui da Giuliano de’ Medici proprio in Belvedere, in un ambiente molto
prossimo alle Stanze in cui si muoveva Raffaello con la sua bottega90
. Nella Vita del
Sanzio Vasari ricorda:
Perciò che vedendo egli l’opere di Lionardo da Vinci, il quale nell’arie delle teste, non
ebbe pari, e nel dar grazia alle figure e ne’ moti superò tutti gl’altri pittori, restò stupefatto
88
G. BOTTARI, L. CRESPI, Raccolta di Lettere sulla pittura, scultura ed architettura, voll. I-VIII, appresso
Niccolò e Marco Pagliarini, Roma 1759, tomo III, p. 287. 89
L. TESTA, Santa Maria dell’anima, cit.p.8. 90
Con l’arrivo a Firenze nel 1504, il giovane Raffaello ha modo di apprendere quanto di nuovo ed originale
si produceva nella città toscana. Raffaello a Firenze oltre a riflettere ampiamente sulle opere di artisti molto
diversi tra loro, quali Botticelli e Michelangelo, ha sentito la necessità di meditare a fondo sulla polemica,
introdotta con tono autorevole da Leonardo Da Vinci, circa il gioco incessante del colore con la mutevole
luce ( questo è un problema che ha attraversato tutta la carriera di Leonardo e trova largo spazio nei suoi
scritti); gli anni del soggiorno fiorentino sono quindi quelli del conflitto tra la soavità formale del Perugino e
le esigenze espressive complesse incarnate da Leonardo. Non solo il Sanzio copierà gli studi della Battaglia
di Anghiari e la Leda e il cigno, ma soprattutto interpreta in modo originale e intelligente gli spunti ricavati
dalle lezioni leonardesche, fino a riprendere e portare a compimento la profonda suggestione leonardesca nel
più maturo ciclo di opere romane. (L. BECHERUCCI, Raffaello, la pittura, i disegni, Novara 1998,pp.40-52.
Ma anche B. AGOSTI, Sulla fortuna critica della Trasfigurazione, in “ Annali di critica d’arte”, 4, 2008,cit.,
p.466).
22
e meravigliato; et insomma piacendogli la maniera di Lionardo più che qualunque altra
avesse veduta mai, si mise a studiarla e lasciando, se bene con gran fatica a poco a poco la
maniera di Pietro, cercò, quanto seppe o poté il più, d’imitare la maniera di esso Lionardo.
Ma per diligenza o studio che facesse, in alcune difficoltà non poté mai passare Lionardo; e
se bene pare a molti che egli lo passasse nella dolcezza et in una certa facilità naturale, egli
non di meno non gli fu punto superiore in un certo fondamento terribile di concetti e
grandezza d’arte, nel che pochi sono stati pari a Lionardo. Ma Raffaello se gli è avvicinato
bene più che nessun altro pittore, e massimamente nella grazia de’colori91
.
Sulla scia di Leonardo – la cui idea è che ‹‹la pittura sia composta d’ombre et lumi››92
–
Raffaello elegge la luce quale mezzo attraverso il quale il colore dialoga con l’ombra. Di
questa meditazione leonardesca, che alimenta il colore di Raffaello, si nutrono i forti
contrasti di masse cromatiche chiaroscuralmente intense che costruiscono le figure di
Giulio. Prima in Raffaello e successivamente in Giulio, l’intensità dei rapporti luce-ombra,
il magico esaltarsi di gradazioni di colore, di effusioni luminose, emulano il chiaroscuro
leonardesco93
. E non solo quello rarefatto del tardo sfumato, ma anche quello appartenente
al momento in cui Leonardo, afferrando nel gioco incessante della luce e dell’ombra la
genesi della forma, aveva tentato di dar veste cromatica al ‹‹teso modo chiaroscurale
dell’Adorazione dei Magi››94
. Comincia ora un nuovo e ricco periodo dell’arte raffaellesca:
sotto il pontificato di Leone X (1513-1521), Raffaello giunge alle maggiori altezze.
‹‹Ma con la fama e con gli onori, crebbero le fatiche››95
.
Chiamato a far fronte ad un numero gravoso di impegni, divenne per Raffaello esigenza
primaria affidare parte dell’esecuzione alla bottega, avocando a sé il controllo del risultato
finale. In questo momento della produzione raffaellesca, Giulio Romano vede crescere
91
VASARI 1568, p. 205. 92
Cit., J. SHEARMAN, Il colore di Leonardo e il chiaroscuro, in Sixteenth-century Italian Art, a cura di M.
W. Cole, 2006, p.415. 93
L. BECHERUCCI, Raffaello, la pittura, i disegni, Novara 1998, p.40. 94
Ibid. p.104.
Quello che diventò l’intento di Raffaello, guardando l’arte matura di Leonardo, dové essere stato quello di
portare il suo colore ad agire con l’ampia distensione ritmica delle nuove strutture vinciane. Ma proprio
questa intensità cromatica gli impediva di intendere e di seguire Leonardo nello sfumato, incessante
vibrazione luminosa che legava in sottile trama di rapporti le figure. ‹‹In Raffaello questa fusione poteva
attuarsi solo a patto che il colore, qualificazione essenziale delle cose, non cedesse nulla della sua bellezza.
La vita della luce deve essere sempre interna al colore, perchè accanto alla ricerca di una forma
drammaticamente espressiva, si possa costruire un ritmo di perfetta armonia nella vivente realtà del colore››.
(L. BECHERUCCI, Raffaello cit., pp. 40-52). 95
A. VENTURI, Raffaello, Roma 1920, cit., p.9.
23
l’importanza del suo propizio ruolo all’interno della bottega. In questo ambiente legato
alla corte pontificia, e permeato dalla passione per la cultura classica e antiquaria, si pone
una delle realizzazioni più poetiche che Raffaello abbia compiuto per il banchiere senese
Agostino Chigi (1465-1520): il ciclo di Amore e Psiche (fig. 11), affrescato per la villa
suburbana nota come La Farnesina. Questi, stabilitosi a Roma e iniziata la propria fortuna
sotto papa Alessandro VI (1492-1503), raggiunse l’apice del suo prestigio durante il papato
di Giulio II (1503-1513), e proprio a partire dagli ultimi anni del pontificato di Giuliano
Della Rovere e durante il pontificato di Leone X (1513-1521), egli potè avvalersi di
Raffaello per una serie di opere pittoriche e architettoniche in edifici pubblici e privati.
Tra il 1517 e il 1519 Agostino Chigi, il cui peso in veste di committente è secondo solo ai
pontefici, chiamò Raffaello a ‹‹frescare la Favola di Amore e Psiche nella Farnesina››96
,
così descritta dal Vasari:
Onde facendogli Agostin Ghigi, amico suo caro, dipignere nel palazzo la sua prima loggia,
Raffaello […] nella volta fece il concilio degli Dei in cielo, dove si veggono nelle loro
forme molti abiti e lineamenti cavati dall’antico, con bellissima grazia e disegno espressi; e
così fece le nozze di Psiche con ministri che servon Giove, e le Grazie che spargono i fiori
per la tavola; […] fece molte storie, ne le quali in una è Mercurio col flauto che volando
par che scenda dal cielo, et in un’altra è Giove che bacia Ganimede; e così di sotto
nell’altra il carro di Venere, e le Grazie che con Mercurio tirano al ciel Psiche97
.
Nel ciclo di Amore e Psiche98
(fig. 11) l’attività del maestro e della sua bottega raggiunge
uno dei momenti di più felice e completa integrazione. L’opera rivela la responsabilità di
Giulio nell’esecuzione della scena di Amore e le tre Grazie (fig. 12) e della figura di
Mercurio99
. Il lavoro nella Loggia, fu assai utile a Giulio per la sua successiva attività
mantovana: l’ideazione del ciclo di Psiche a Mantova sarebbe impensabile senza uno
studio e una profonda analisi di quel precedente romano100
. L’instaurarsi di specifici
procedimenti di collaborazione tra maestro e allievo, insieme con il rapporto che si venne a
96
Ibid., cit.,p. 10. 97
VASARI, Le Vite, V, cit., p. 200. 98
Fonti letterarie per gli affreschi furono L’Asino d’oro di Apuleio e Le Metamorfosi di Ovidio. 99
K. OBERHUBER, Raffaello, l’opera pittorica, Milano 1999, p.219. 100
P. DE VECCHI, Raffaello, Milano 2002, cit., p. 85.
24
creare per l’intensa consuetudine del lavoro fianco a fianco, non potè restare senza
conseguenze sull’attività di Giulio che, nella sua opera farà innervare tutto l’incanto delle
forme tarde di Raffaello. Negli anni compresi tra i pontificati di Giulio II (1503-1513) e di
Leone X (1513-1521) l’arte di Raffaello ha unito maestria scenografica, ricchezza
cromatica e prodigio dell’esecuzione tecnica; è infatti in questo intervallo che vedono la
luce quelle opere le cui peculiarità stilistiche si dimostreranno per Giulio Romano
condizione ineludibile per il concepimento della Pala dell’Anima. Le Stanze vaticane
testimoniano il prodigio della luce: essa sottende l’intera creazione pittorica, determina la
plasticità delle figure, circola nel chiaroscuro dei volti e nella morbidezza delle vesti101
.
Fin dal tempo del Vasari, tra le opere frutto della collaborazione tra Raffaello e Giulio
furono considerati i dipinti commissionati da Leone X al Sanzio come doni destinati alla
corte di Francia102
: La Sacra Famiglia di Francesco I (fig. 16) e il San Michele che
sconfigge il demonio (fig. 17).
Fece in Francia molti quadri, e particularmente per il re San Michele che combatte col
diavolo, tenuto cosa meravigliosa; nella quale opera fece un sasso arsiccio per il centro
della terra, che fra le fessure di quello usciva fuori alcuna fiamma di fuoco e di zolfo: et in
Lucifero, incotto et arso nelle membra con incarnazione di diverse tinte si scorgeva tutte le
sorti della collera che la superbia invelenita adopera contro la grandezza di chi è privo di
regno […]. Il contrario si scorge nel San Michele, che, ancora che sia fatto con aria celeste,
accompagnato dalle armi de ferro e di oro, ha nondimeno bravura e forza e terrore […]103
.
La Sacra Famiglia di Francesco I, che rivela l’impiego di un violento chiaroscuro e un
moto spaziale impostato sulla circolarità104
, accoglie motivi che Giulio riprenderà
espressamente nella Sacra Famiglia Fugger (fig. 33): la composizione asimmetrica della
rappresentazione, il pensoso Giuseppe nell’angolo a destra, il fluido panneggio della veste
della Vergine illuminata delicatamente dalla luce fluttuante del morbido chiaroscuro.
L’intervento giuliesco è circoscrivibile alle figure di Sant’Elisabetta e San Giovannino.
101
G. CORNINI, Raffaello nell’appartamento di Giulio II e Leone X, Milano 1993, p. 339. 102
P. DE VECCHI, Raffaello, Milano 2002, p.305. 103
VASARI, Le Vite, cit., p. 199. 104
K. OBERHUBER, Raffaello, l’opera pittorica, Milano 1999, p.219.
La Sacra Famiglia di Francesco I e il San Michele sono due opere destinate alla corte francese di Francesco
I.
25
In cima alla parabola ascendente della svolta raffaellesca sta La Trasfigurazione (fig. 38),
opera contrassegnata dalla suggestione dei “chiaroscuri psicologicamente espressivi” di
Leonardo105
. La data di ordinazione della Trasfigurazione si fa risalire al 1516, quando il
cardinale Giulio de’ Medici, da poco nominato arcivescovo di Narbonne, volle donare una
pala d’altare alla cattedrale della città106
.
Dipinse a Giulio cardinale de’ Medici e vicecancelliere una tavola della Trasfigurazione di
Cristo per mandare in Francia, la quale egli di sua mano continuamente lavorando ridusse
ad ultima perfezione. Nella quale storia figurò Cristo trasfigurato nel monte Tabor, e appiè
di quello gli undici Discepoli che lo aspettano, dove si vede condotto un giovinetto
spiritato, acciò che Cristo sceso del monte lo liberi […]107
.
Contemporaneamente, in concorrenza con Raffaello, il cardinale richiese una seconda pala,
di simili dimensioni, raffigurante La Resurrezione di Lazzaro (fig. 39) a Sebastiano del
Piombo (1485-1547). Con tale doppia commissione egli consapevolmente traeva partito
dalla rivalità tra i due artisti, assicurandosi che Raffaello, in quegli anni oberato di
impegni, si occupasse personalmente dell’opera. Il 19 gennaio 1517 Lionardo Sellaio
scriveva al Buonarroti che il Sanzio aveva tentato di ostacolare la commissione della pala a
Sebastiano ‹‹per non venire a paragoni››108
. Più tardi, in una lettera datata 2 luglio 1518, lo
stesso Sebastiano informava Michelangelo che Raffaello non aveva ancora cominciato a
dipingere e dichiarava di aver rallentato l’esecuzione della Resurrezione di Lazzaro per
105
Il cardinale Giulio de’ Medici (Firenze, 1478-Roma, 1534) commissionò la pala d’altare a Raffaello per la
cattedrale di Narbonne. Essendo La Trasfigurazione ammirata come il testamento artistico di Raffaello,
Giulio de’ Medici decise di mantenerla presso sé, donandola solo in seguito alla chiesa di San Pietro in
Montorio dove decorò fino al 1791 l’altare maggiore. In quell’anno, in seguito al Trattato di Tolentino,
l’opera fu portata a Parigi e restituita solo nel 1816, quando Pio VII (Cesena, 1742-Roma, 1823) decise allora
di destinarla alla Pinacoteca Vaticana. Sul grado di finitezza dell’opera alla morte del maestro e sull’entità di
intervento di Giulio Romano si sono studiati vari indizi che fanno riferimento sia alla richiesta di un
pagamento che il 7 maggio 1522 Giulio rivolgeva al cardinale tramite l’intermediazione del Castiglione, sia
alla diversità di stile che caratterizza le parti superiore e inferiore dell’opera. I critici hanno in genere
accettato l’attribuzione della sublime porzione superiore, dove è rappresentata la Trasfigurazione di Cristo sul
monte Tabor, a Raffaello e hanno visto nella porzione inferiore, dove sono rappresentati gli Apostoli che
attendono la resurrezione del Signore, la mano di Giulio Romano. Viceversa Vasari sostiene che l’allievo non
ha mai messo mano a questo capolavoro, affermando ‹‹che qui Raffaello agiva da sé solo e senza aiuto
d’altri››. (D. ALAN BROWN, Leonardo e la Trasfigurazione di Raffaello, in “Raffaello a Roma”, appresso
F. HARTT, Giulio Romano, Yale University Press, New Haven 1958). 106
B. AGOSTI, Sulla fortuna critica della Trasfigurazione, p.459. 107
VASARI, Le Vite, V, cit., p.203. 108
B. AGOSTI, Sulla fortuna critica della Trasfigurazione, cit., p. 460.
26
evitare che il Sanzio la vedesse prima di aver dipinto la sua pala109
. Dal momento che il
confronto tra le due pale avvenne – il Vasari scrive che furono ‹‹pubblicamente in
concistoro poste in paragone››110
- si diede inizio ad un confronto che sarebbe durato nel
secolo fra la maniera raffaellesca, alla quale la ‘maniera scura’ di Leonardo aveva fornito
un modo per restituire plasticità e rilievo tali da poter competere con la scultura, e quella
michelangiolesca, scultorea per eccellenza.
La ricchezza cromatica di Sebastiano del Piombo e l’impeto delle moli di Michelangelo
insieme con l’impressione di Leonardo, condussero Raffaello a rinnovare la sua visione del
mondo mediante contrasti pittorici d’ombra e di luce e contrasti fra masse in movimento e
in quiete; a vedere un elemento essenziale della composizione nel colore; a bilanciare nello
spazio masse chiare e oscure, trattenendo il violento dinamismo delle forme sculturali di
Michelangelo entro i limiti di profonda misura111
.
La composizione della pala di Raffaello trae spunto dall’incompiuta Adorazione dei Magi
(fig. 40), che Leonardo aveva portato con sé a Roma, ma anche da ricordi della Vergine
delle rocce e del Cenacolo (figg. 41-41 a) 112
. La Trasfigurazione è sotto molti aspetti una
sintesi dell’arte di Raffaello: la luce cade morbida sulle forme, creando un ricco
chiaroscuro con un effetto già rilevato nella Sacra Famiglia di Francesco I (di poco
precedente) e che troverà spazio anche nella Pala Fugger, opera nella quale Giulio
Romano assorbe quella che Vasari ha definito “la maniera scura” di Raffaello.
Nel corso di un’attenta riconsiderazione dei rapporti stilistici tra Raffaello e Giulio
Romano Cristopher Gould ha ribadito che la maniera a ‘ombre nere’ e ‘tocco rigido’,
corrisponde ad una evoluzione dello stile del maestro113
.
Il giovane Giulio iniziato precocemente alla pittura nella bottega di Raffaello ha assimilato,
già da subito, tutte le tecniche artistiche del caso, dalla macinazione dei pigmenti,
all’impasto e preparazione del colore, fino all’arte del disegno e della pittura vera e
propria. E’ qui che si è impregnato di quella ‘maniera’ che, divenuta prezioso bagaglio, ha
109
P. DE VECCHI, Raffaello, p. 333. 110
Ivi. 111
VENTURI, Raffaello, cit., p.48. 112
B. AGOSTI, Sulla fortuna critica della Trasfigurazione, p.467. 113
Cristopher Gould, 1982, p. 479. Ma anche E. CAMESASCA, Tutta la pittura di Raffaello- Gli Affreschi,
Milano 1956, p. 28.
27
condotto il fare di Giulio verso un chiaroscuro che s’addensa compattamente e che si pone
dunque come un omaggio al maestro e al suo ultimo stile. Sulla scia di Raffaello, cerca di
sviluppare gli esperimenti di Leonardo sugli effetti della luce, che lo riconducono alla
tecnica pittorica vinciana. Riferisce Vasari che a Roma Leonardo ‹‹fece ricerche molto
approfondite sugli olii per dipingere e sulle vernici››114
; è grazie a questi ultimi esperimenti
che nasce la rappresentazione del San Giovanni Battista (fig. 37), opera che si configura
come interessante esempio di quell’ accumulare vernici poco coprenti per ottenere
innumerevoli ombreggiature che sfumano i contorni in delicati passaggi di luce ed ombra,
e danno vigore al rilievo plastico del personaggio rappresentato. L’effetto pittorico di
questo procedimento si basa su esperimenti degli olii che, grazie alla successione di strati
diversi, permettono di ottenere nuovi colori115
. A tale problematica è legata anche la
vicenda dei lavori della Sala di Costantino (fig. 26). Narra il Vasari come dopo la morte
del maestro (1520), Giulio Romano e Giovanfrancesco Penni detto ‘il Fattore’
diedero fine a molte cose di Raffaello ch’erano rimaste imperfette, e s’apparecchiavano a
mettere in opera parte de’ cartoni, che egli aveva fatto per le pitture della sala grande del
Palazzo, nella quale Raffaello aveva cominciato a dipingere quattro storie de’ fatti di
Costantino imperatore, et aveva coperta una facciata di mistura per lavorarvi sopra ad olio
[…]. Morì Adriano e fu creato sommo pontefice Giulio cardinale de’ Medici, che fu
chiamato Clemente Settimo col quale risuscitarono in un giorno, insieme con l’altre virtù,
tutte l’arti del disegno. E Giulio e Giovanfrancesco si misero subito d’ordine al papa a
finire tutti lieti la detta Sala di Costantino, e gettarono per terra tutta la facciata coperta di
mistura per dovere essere lavorata a olio; lasciando però nel suo essere due figure,
ch’eglino avevano prima dipinto a olio […] una Iustizia e un’altra figura simile116
.
Dalla narrazione vasariana apprendiamo l’esito finale della vicenda dell’assegnazione agli
allievi di Raffaello del completamento della Sala di Costantino. I fatti che condizionarono
tale scelta sono illustrati nella corrispondenza intercorsa, subito dopo la morte di Raffaello,
tra Michelangelo e Sebastiano del Piombo, che aspirava a succedere al maestro in virtù
della sua riconosciuta esperienza nel campo della tecnica della pittura ad olio:
114
F. Zӧ llner, Leonardo, Hohenzollernring 2007, cit., p. 86. 115
P. DE VECCHI, Raffaello, pp.310-312. 116
VASARI, Le Vite, cit., pp.59-60.
28
Hora brevemente vi aviso come el si ha a dipingere la salla de’ pontefici, del che e’ garzoni
de Raffaello bravano molto et voleno dipingerla a olio. Vi prego vogliate arecordarvi de me
et recomandarmi […]io son bono a simel imprese, vogliate metermi in opera, perché io non
ve farò vergogna117
.
Nonostante l’interessamento di Michelangelo, i lavori ripresero per mano dei ‘garzoni’ di
Raffaello, perché questi ultimi erano in possesso dei disegni del maestro. Questi, quindi, si
erano assicurati il proseguimento dei lavori della Sala di Costantino proponendo al papa
una prima figura ad olio risultata di indiscutibile qualità. Tale figura non poteva essere
quella della ‘Giustizia’, lasciata con tutta probabilità dallo stesso Raffaello, ma un’altra che
potesse reggere il confronto, per battere l’agguerrita concorrenza di Sebastiano del
Piombo. Per far ciò ricorsero ad un espediente: non trasferirono il disegno, ma incollarono
direttamente sul muro il cartone predisposto da Raffaello per la figura allegorica e lo
dipinsero ad olio. Più che di un inganno si trattò dell’utilizzazione di un bene in loro
legittimo possesso, di un espediente richiesto dall’urgenza del caso. Altrimenti avrebbero
dovuto eseguire la preparazione a mistura, riportare il disegno sulla parete dove dipingere
ad olio, con esito peraltro assai incerto, stante la difficoltà di quella tecnica, che costrinse
poi Giulio Romano a cambiare l’iniziale proposito del maestro118
.
Il potente realismo dell’ultimo Raffaello e del suo erede Giulio deriva in parte dal modo in
cui le figure emergono dalle ombre rese pittoricamente dalla tecnica della velatura a olio
con la sovrapposizione di strati trasparenti di colore, che consentono di rappresentare l’aria
che si interpone, carica di minuscole gocce di luce, tra l’osservatore e gli oggetti via via più
lontani119
. Nella Trasfigurazione questo principio si estende a tutta la metà inferiore del
quadro; la quale, dominata da un timbro cromatico scuro, è costruita diagonalmente nello
spazio da una nerastra frattura che separa i due gruppi. ‹‹Quello di sinistra è caratterizzato
da un’espansione dei gesti sottolineati dall’uso di colori più accesi e caldi e da un
117
Il carteggio di Michelangelo, a cura di P. Barocchi e R. Ristori, Firenze 1967, p.227. 118
F. FERNETTI, Gli allievi di Raffaello e l’insolito utilizzo di un cartone del maestro nella Sala di
Costantino, in “Prospettiva”, 87/88, 1997,pp. 133-136. 119
Corrado Maltese sottolinea in “Leonardo e la teoria dei colori”(1983) che Leonardo è stato il primo a
lavorare sperimentalmente sul colore delle luci e delle ombre; a lui effettivamente risale la prima e più ampia
serie di esperimenti che si conoscano sia con le ombre colorate sia con le sorgenti di luce di diversa
colorazione. (R. PAPA, Il colore dell’ombra,” in Art e Dossier”,281,2011, p.30).
29
chiaroscuro con effetti di maggiore morbidezza, quello di destra appare drammatico e teso
nella concitazione dei gesti più crudamente rilevati dalla luce››120
.
Il repertorio coloristico e stilistico adottato nella metà inferiore della Trasfigurazione (figg.
38-38 a), costituisce il raggiungimento ultimo di quanto l’artista aveva elaborato nel
periodo fra il 1511 e il 1518, specie negli affreschi dell’Incendio definiti da Oberhuber
come un ‘trattato dipinto’121
. La diversità tra le due metà, astrattamente divina quella
superiore, convulsa e irregolare quella inferiore, non compromettono l’armonia
dell’insieme, facendone ‹‹un assoluto capolavoro di organizzazione delle masse, in cui
singole figure e gruppi si combinano in moltitudine››122
. Tale concezione è impressa nella
Pala Fugger (fig. 33), dove la costruzione dell’opera è impostata sulla contrapposizione di
due piani, quello umano e quello divino, mediante la costruzione del paesaggio e la
divisione degli spazi:
La tendenza che acquista crescente importanza nella ripartizione degli ambienti
giulieschi è quella legata al concetto di tridimensionalità della forma e dello spazio,
ottenuta trasformando lo spazio polivalente di Raffaello, fatto di singoli individui, in
una fuga prospettica tale che la presenza delle figure si risolve in un ampio movimento
geometrico123
.
Le figure di Giulio non dominano l’ambiente, coesistono con esso. La profondità è resa da
fasci di luce che illuminano i vari motivi, effetto voluto per rimarcare in modo simbolico
l’adiacenza tra umano e divino e la compenetrazione delle due realtà. Non a caso nella pala
di Santa Maria dell’Anima è sullo scenario terreno e pagano che si proietta la
rappresentazione divina e sacra. Lo spazio di Giulio non è subordinato alla presenza
umana, ma si estende sulla superficie in molteplici episodi perfettamente fusi
nell’architettura dell’insieme, all’interno della quale ogni singolo episodio viene assorbito
120
K. OBERHUBER, Raffaello, l’opera pittorica, Milano 1999, cit., pp. 233-234. 121
K. OBERHUBER, op. cit., pp.233-234. 122
D. ALAN BROWN, Leonardo e la Trasfigurazione di Raffaello, in “ Raffaello a Roma”, atti del
convegno 1983, Roma 1986, cit., p.241. 123
H. VOSS, La pittura del tardo Rinascimento a Roma e a Firenze, Roma 1993, cit., p.50.
30
in sinfonico accordo dalla ricchezza cromatica124
. La Sacra Famiglia contiene in nuce tutti
gli elementi che distinguono lo stile di Giulio, che è volto a elevare e arricchire, a
raggiungere l’unificazione armonica dei singoli e taglienti toni di colore e che mira alla
trasformazione della linea in chiaroscuro, attraverso passaggi di tono talora graduali
tal’altra repentini, che lo spingono a ‹‹falsare le tinte, a trasformare in colpi di gran cassa le
armonie di Raffaello»125
.
L’inclinazione di Giulio a rendere le ombre forti e stridenti ci viene raccontata da Vasari,
che, con la sua solita grande capacità lessicale, discetta:
E se anco questa tavola non fusse stata tinta di nero, onde è diventata scurissima, certo
sarebbe stata molto migliore; ma questo nero fa perdere o smarrire la maggior parte delle
fatiche che vi sono dentro, con ciò sia che il nero, ancora che sia verniciato, fa perdere il
buono, avendo in sé sempre dell’alido, o sia carbone o avorio abruciato o nero di fumo o
carta arsa126
.
Questa dinamica nervosa ed esaltata del trattamento del colore si intreccia alla violazione
dello schema iconografico tradizionale della sacra conversazione: nella Pala Fugger la
scena non si svolge all’interno di un edificio religioso che fa da sfondo ai sacri personaggi,
bensì in un regale portico romano a forma circolare che si pone come una fantasiosa
revisione della Galleria dell’Esedra dei Mercati di Traiano (fig. 34)127
. Cresciuto ai piedi
del Foro Romano, fra il Colosseo e la Colonna Traiana, Giulio aveva immediato accesso
all’antichità classica romana e, come ha fatto notare Hartt, aveva accolto in sé come
contenuto e come forma lo spirito dell’antichità pagana esprimendolo con naturalezza e
maestria nelle sue opere128
. La curvatura di questo edificio, che Vasari ha paragonato a
quella semicircolare di un teatro129
, è delimitata da colonne e statue entro nicchie, segnate
da puri colpi di luce che accentuano il rapporto luce-ombra130
.
124
Giulio Romano, catalogo della mostra a cura di E. Gombrich, M. Tafuri, S. Ferino-Pagden (Mantova,
Palazzo Te 1settembre -12 novembre 1989), Milano 1989, cit., pp. 30-36. 125
A. VENTURI,Storia dell’arte italiana, p.372. 126
VASARI, Le Vite, cit. p.63. 127
F. HARTT, Giulio Romano,cit., p.56. 128
Ivi. 129
VASARI, Le Vite, cit., p.62. 130
La ripartizione del fondo in lati in ombra e squarci di paesaggio o di interni è un tema che ricorre con
frequenza nell’opera di Giulio: nella Madonna della gatta, nella Circoncisione,nella Madonna Hertz,nella
31
Nella Pala Fugger Giulio si serve dello sfondo architettonico per l’introduzione episodica
del quotidiano, che qui assume le sembianze – per dirla con le parole di Venturi – di
«chioccia e pulcini custoditi da una vecchierella col fuso»131
. Hartt ha interpretato questa
veduta come un quadro con il proprio sistema di illuminazione appeso sullo sfondo, ‹‹un
quadro nel quadro››132
. Dall’impostazione della scena emerge l’ambizioso desiderio di
Giulio di affascinare lo spettatore con la molteplicità dei punti di vista, ottenuta facendo
risaltare i diversi piani di profondità del dipinto. L’occhio dello spettatore infatti si perde
nello spazio accuratamente costruito sulla contrapposizione tra sacro e profano. Sul fondo
a destra, nell’immagine dei tre putti che sorreggono il verde e vellutato panno d’onore, si
assiste alla creazione di un ambiente sacrale in uno scenario pagano133
. Dalla porzione
sinistra della scena una scalinata che scorre verso il basso conduce nello spazio destinato
ad accogliere la Sacra famiglia. In una veste color della porpora, seduta su un improvvisato
trono coperto da un drappo blu, la Vergine cinge in modo protettivo il Bambino che volge
lo sguardo verso San Giuseppe, posto in posizione arretrata. Gli angeli dall’alto omaggiano
la Vergine facendole calare sul capo una corona di fiori. In basso sono raffigurati San
Giacomo, avvolto da una veste verde mentre viene condotto per mano dal piccolo San
Giovanni verso la Vergine, e San Marco Evangelista con la penna e il leone ai piedi, colto
nell’atto di inarcarsi stupito all’indietro in una posa esaltata dall’ipnotico giallo dorato
della veste e dal rosso rubino del mantello. Queste figure sono ricche di citazioni
raffaellesche, sebbene non manchino elementi propri e autonomi dello stile di Giulio. La
disposizione asimmetrica della Vergine con le gambe incrociate è un motivo già usato da
Giulio, ripreso dal cartone di Raffaello per la figura della Giustizia (fig. 28 ) nella Sala di
Costantino134
. La posizione del Bambino che si arrampica sulle ginocchia della Madre,
ripresa dalla Madonna della Rosa (fig. 19) di Raffaello, mostra la capacità di Giulio nel
rendere la fisicità dei personaggi, fortemente evidente nelle gambe del Bambino che
Madonna della Perla,nei Ritratti di Isabella de Requesens e di Margherita Paleologo,nella Lapidazione di
santo Stefano.(S. PERINO PAGDEN, Giulio Romano pittore e disegnatore a Roma, in “Giulio
Romano”,catalogo della mostra a cura di…(Mantova,Palazzo Te 1settembre-12 novembre 1989),Milano
1989,p.71. 131
A. VENTURI, Storia dell’arte italiana, p.372. 132
F. HARTT,Giulio Romano,cit., p.57. 133
Ibid, p.56 134
“Giulio Romano”, catalogo della mostra a cura di…(Mantova, Palazzo Te 1settembre – 12novembre
1989), Milano 1989, p.262.
32
lasciano trasparire le fasce muscolari 135
. Il leone alato di San Marco è tratto dalla Visione
di Ezechiele (fig. 44 ) di Raffaello, custodito dalla Galleria Palatina di Firenze136
.
L’atteggiamento di San Giuseppe ripete quello che si vede nella Sacra famiglia di
Francesco I (fig. 16)137
. La testa del San Giacomo si avvicina convincentemente a quella di
Cristo nella Incoronazione della Vergine (fig. 25), oggi alla Pinacoteca Vaticana138
. La
postura delle figure principali, con un braccio alzato e le mani aperte in segno di devozione
e preghiera, è comune alla immagine del martire Stefano della Lapidazione di Santo
Stefano (figg. 32-32 a) (pala d’altare di Giulio Romano commissionata da Giovan Matteo
Giberti (Palermo,1495-Verona,1543) conservata presso la Chiesa di Santo Stefano a
Genova: la figura di San Marco inginocchiato assume la stessa posizione del martire; la
posa dei tre putti in volo che tengono aperta la tenda dividendo gli scenari, si identifica
nell’immagine degli Angeli che sembra tengano aperto il cielo trattenendo le nuvole con le
mani; alle spalle dei lapidatori si apre un paesaggio che, similmente allo sfondo della Pala
Fugger, è caratterizzato dalla presenza di citazioni della Roma antica, di gusto
squisitamente antiquario139
. L’accurata formazione presso Raffaello gli aveva comunicato
un’ampia conoscenza di forme espressive e di formule compositive architettoniche ed
antiche. Furono pertanto il grande esempio di Raffaello e la sua intima conoscenza
dell’antichità romana a consentirgli di utilizzare sovranamente questo vocabolario nel
contesto delle sue opere. Quando Giulio entrò a far parte della bottega, verso il 1510-1512,
Raffaello stava lavorando alla Stanza di Eliodoro (fig. 2)140
. Già in quel contesto Giulio
respirava quella miscellanea di architettura e pittura che conferiva all’opera il carattere
‘totale’. A tal proposito, in un passo del Cortegiano in cui si parla della bellezza universale
si legge:
Aggiungerà nel pensiero suo a poco a poco tanti ornamenti, che cumulando insieme tutte le
bellezze farà un concetto universale e ridurrà la moltitudine d’esse alla unità di quelle sola
che generalmente sopra la natura umana si spande.
135
A. VENTURI,Storia dell’arte italiana, p.372. 136
Ivi. 137
Ivi. 138
J. SHAERMAN, Studi su Raffaello, a cura di B. Agosti e V. Romani, Milano 2007, p. 148. 139
“Giulio Romano”,catalogo mostra a cura di…(Mantova,Palazzo Te 1settembre-12 novembre 1989),
Milano 1989. 140
F. HARTT, Giulio Romano,Yale University Press, New Haven 1958.
33
Lo studio attento e paziente delle antiche testimonianze architettoniche di origine classica
offrì a Raffaello un infinito repertorio ideale dove armonia, proporzione, misura, erano alla
base della nuova rinascita della classicità nell’architettura. In piena indipendenza rispetto al
modello classico, Raffaello si serve dei vari elementi architettonici nei suoi cicli pittorici,
sebbene la sua imitazione non sia mai pedissequa: nella sua straordinaria originalità
accoglie il suggerimento degli antichi, trasformandolo però secondo una libera
rielaborazione. In questo senso Raffaello si pone come una figura feconda di fondamentali
influenze tecniche per il suo allievo Giulio. Probabilmente il maestro coinvolse Giulio già
nell’elaborazione degli sfondi architettonici dei suoi affreschi. Così Giulio conobbe non
solo i sempre più complessi artifici della prospettiva, bensì anche l’uso degli antichi ordini
architettonici, che di anno in anno applicò con sempre maggior rigore141
. La padronanza
delle cognizioni architettoniche che Giulio ha acquisito è testimoniata nella Pala Fugger,
dove riproduce l’articolato complesso architettonico dell’Esedra dei Mercati di Traiano
(fig. 34), riportando il dettaglio della volta a botte che copre gli ambienti. Di Giulio
Romano parla anche l’Armenini nei suoi De’veri precetti della pittura (1587):
Era la sua maniera tanto conforme e prossima alle scultura antiche di Roma che per esservi
stato studiosissimo sempre quando era giovane, che ciò che deponeva e formava pareva
esser proprio cavato da quelle142
.
Una tale lettura viene assunta direttamente da Oberhuber che definisce lo “stile classico di
Raffaello”, come il frutto non solo di una semplice ispirazione dell’arte antica, ma
piuttosto di attenti studi archeologici che negli anni del pontificato di Leone X
(Firenze,1475 - Roma, 1521) raggiungono l’apice. In realtà, se si presta ascolto a quanto lo
stesso Raffaello scrive nella famosa Lettera a Leone X, dove afferma di essere ‹‹stato io
assai studioso di queste antiquitati e havendo posto non piccola cura de recercharle
141
E’ evidente come la conoscenza del De Architectura di Vitruvio sia presupposto imprescindibile per poter
trattare di architettura. Raffaello veniva aiutato da un umanista, il vecchio erudito Marco Fabio Calvo, nella
traduzione del testo vitruviano e Giulio, insieme al maestro, si impegnò nello studio di questo. (C. L.
FROMMEL, Giulio Romano architetto, in Art e Dossier,40,1989, p.5, appresso V. DACOS, Le Logge di
Raffaello, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1886, p.25). 142
E. GOMBRICH, “Anticamente moderni e modernamente antichi”in “Giulio Romano”, catalogo della
mostra a cura di…(Mantova, Palazzo Te, 1 settembre – 12 novembre 1989), Milano 1989, p.11.
34
minutamente, e misurarle143
››, ci si rende conto della passione che lo muove verso tali
studi. Il suo ruolo, però non si limita alla sola teoria. Su incarico del papa Raffaello aveva
iniziato una misurazione tecnicamente esatta e una ricostruzione dell’antica Roma, con lo
scopo esplicito non solo di ridare vita a quei miracoli architettonici, bensì addirittura di
superarli: ‹‹El paragone de li antichi, aguagliarli et superarli»144
.
Giulio, coinvolto direttamente in entrambi i progetti145
, quello relativo alla misurazione e
ricostruzione e quello mirato a risvegliare l’antica Roma dal sonno secolare, incorpora gli
elementi necessari a descrivere questo mondo antico con i mezzi dell’uomo moderno. Il
fare l’inevitabile passo verso la storia romana, dopo la morte di Raffaello (1520), era
riservato a Giulio, al quale come luogo di importante debutto fu assegnata la decorazione
di due scene della Sala di Costantino: La Battaglia di Costantino e la Visione della Croce
(Adlocutio) (fig.27)146
.
Dipinse Giulio in una delle facce un parlamento che Gostantino fa a’ soldati, dove in aria
appare il segno della croce in uno splendore con certi putti e lettere […] et un nano che a’
143
La Lettera a Leone X è un documento scritto da Raffaello Sanzio e Baldassarre Castiglione in
collaborazione con Angelo Colocci, sul tema della protezione e conservazione delle vestigia di Roma antica.
Circa la data della Lettera esistono discordanze fra gli studiosi, sebbene si tenda ad adottare la datazione
relativa al 1519 perché attorno a questa data si concentrano le testimonianze degli umanisti attorno al
progetto di Raffaello. E’ comunque necessario che la Lettera sia stata scritta in un periodo in cui il
Castiglione si trovava a Roma. (Cit. Raffaello, Lettera a Leone X, a cura di E. CAMESASCA, Milano 1993,
p.291; DI TEODORO, Raffaello, Baldassarre Castiglione e la Lettera a Leone X, Bologna 2003; G. PERINI,
Raffaello e l’antico: alcune precisazioni, in “Bollettino dell’arte”,1996). 144
R. QUEDNAU, Aspects of Raphael’s “Ultima Maniera” in the light of the Sala di Costantino”, in
“Raffaello a Roma”, atti del covegno 1983, Roma 1986; C. L. FROMMEL, “Giulio Romano architetto”,in
“Art e Dossier”,40, 1989,p. 8.
Leone X firma un breve in cui nomina Raffaello “ Commissario delle Antichità Romane”: l’incarico ha lo
scopo preciso di impedire la distruzione delle colonne portanti dell’antichità.(DI TEODORO, Raffaello,
Baldassarre Castiglione e la Lettera a Leone X, Bologna 2003). 145
Ibid, p. 8 146
L’ideazione del ciclo pittorico con le storie dell’imperatore Costantino, da cui oggi prende il nome la sala,
fu affidata nella primavera del 1519 da Leone X a Raffaello che, ne iniziò l’esecuzione con La Battaglia di
Costantino contro Massenzio. L’immatura scomparsa del Sanzio nell’aprile 1520 costrinse il Papa ad
assegnare l’incarico agli allievi Giulio Romano e Giovan Francesco Penni, avvantaggiati del fatto di essere in
possesso dei disegni del maestro. Il fatto non mancò di suscitare invidie e malcontenti: sappiamo che a
ottenere l’ambita impresa spettava a Sebastiano del Piombo che, a pochi giorni di distanza dalla morte di
Raffaello, chiedeva in una lettera a Michelangelo di intercedere con il Papa affinchè destinasse a lui
l’incarico. Nonostante l’intercessione dell’illustre amico, Sebastiano non riuscì ad ottenere la commissione
tanto desiderata, la quale fu confermata ai ‘garzoni’ di Raffaello. Il complesso susseguirsi della fasi
decorative della Sala di Costantino ben si chiarisce sfogliando le pagine che il Vasari dedica all’argomento
nelle biografie di Raffaello e Giulio Romano. Dalla Vita del Sanzio apprendiamo che ‹‹Era Raffaello dal
nome et dall’opre tanto in grandezza venuto, che Leon X ordinò che egli cominciasse la sala grande di sopra,
dove sono le vittorie di Gostantino, alla quale egli diede principio››, mentre in quella di Giulio Romano
afferma:‹‹ Giulio intanto e Francesco diedero fine a molte cose di Raffaello ch’erano rimaste imperfette, e
s’apparecchiavano a mettere in opera parte dei cartoni››. (Raffaello nell’appartamento di Giulio II e Leone X,
Electa Milano 1993, pp. 139-142).
35
piedi di Gostantino si mette una celata in capo è fatto con molta arte. Nella maggiore
facciata vi è poi una battaglia di cavalli, fatta vicino a ponte Molle, dove Gostantino mise
in rotta Massenzio147
.
L’organizzazione grandiosa della decorazione è inserita in un’illusionistica struttura
architettonica. Se il compito di Giulio si limitava perciò, per le prime due pareti, a eseguire
gli affreschi secondo modelli e disegni del maestro148
, egli si dimostrò capace nella scelta
cromatica di adeguare la tecnica dell’affresco alle prerogative della pittura murale;
l’ambizione di Raffaello era quella di dipingere su una mistura speciale a olio149
. Anche se
Giulio non poteva realizzare questa ambizione, egli cercò di riprodurre almeno in parte
l’impressione tonale della pittura a olio150
. Inoltre cercò di tradurre in fresco la splendente
ricchezza dei materiali: anche il modo di trattare le vesti e le figure non avrebbe raggiunto
la sua compiutezza e grandezza senza il potentissimo influsso dello “stile antiquario” di
Raffaello.
E se questa storia non fusse troppo tinta e cacciata di neri, di che Giulio si dilettò sempre
ne’ suoi coloriti, sarebbe del tutto perfetta: ma questo le toglie troppa grazia e bellezza.
[…] Insomma si portò di maniera Giulio in quest’opera, il quale imparò tanto dalle colonne
antiche di Traiano e d’Antonino che sono in Roma, che se ne valse molto negl’abiti de’
147
VASARI, Le Vite, V, cit., p.60. 148
Spettano a Raffaello sia l’esecuzione dei cartoni che l’invenzione delle due scene della Battaglia di
Costantino e dell’Adlocutio. 149
La tecnica della pittura a olio ha avuto diffusione nel Cinque e Seicento. A tale problematica è legata la
vicenda della decorzione della Sala di Costantino. Narra Vasari che alla morte del maestro, Giulio Romano e
gli altri “garzoni” della bottega” diedero fine a molte cose che Raffaello aveva lasciato imperfette, e che
s’apparecchiavano a mettere in opera parte de’ cartoni, che egli aveva preparato per le pitture della sala
grande del palazzo ”. Prima di morire, Raffaello, aveva “coperta una facciata di mistura per lavorarvi ad
olio”. Dalla narrazione vasariana apprendiamo l’esito finale della vicenda dell’assegnazione agli allievi di
Raffaello del completamento della Sala di Costantino, ma non i fatti che condizionarono la scelta di gettare
per terra tutta la facciata coperta di mistura che doveva essere lavorata a olio,operata da Leone X e rispettata
poi da Clemente VII, dopo il breve pontificato di Adriano VI. Abbiamo la certezza che dallo smantellamento
della parete a mistura, si salvarono due precedenti figure a olio, “una Iustizia e un’altra figura simile”, le quli
spiccano nel contesto per la diversa tecnica esecutiva. Giulio Romano e gli altri “garzoni” cambiarono
l’iniziale proposito del maestro sia per la difficoltà della tecnica, sia per l’icertezza dell’esito. (FERNETTI,
Gli allievi di Raffaello e l’insolito utilizzo di un cartone del maestro nella Sala di Costantino”, in
“Prospettiva”,1998, pp. 133-136; S. FERINO-PAGDEN, Giulio Pittore a Roma in “Art e Dossier”, 40,
1989). 150
Ivi.
36
soldati, nell’armadure, insegne, bastioni, steccati et in tutte l’altre cose da guerra che sono
dipinte in quella sala151
.
Di spettacolare bellezza la veduta di Roma antica nel fondo a destra dell’Adlocutio, col
Mausoleo di Augusto, la Mole Adriana e il ponte. Nella Sala di Costantino (fig. 26), per
usare le parole di Raffaello, si ammirano ‹‹ornamenti di materia tanto preziosa come li
antichi152
››. Appare quindi chiaro che la conoscenza dell’antichità è talmente assimilata
che, per entrambi, non si limita all’imitazione: Raffaello sentiva di appartenere a
quell’epoca, così come Giulio sembra essersi identificato come testimone di una civiltà
perduta e che abbia conservato nella sua arte questa ambivalenza. Anche in questa
composizione Giulio mette in mostra tutto ciò che aveva imparato da Raffaello: in un
interno architettonico di romana grandezza circonda la scena centrale di una ricca
orchestrazione di figure ‘di genere’ che qui hanno le sembianze di mendicanti, storpi,
donne e bambini che cavalcano sui cani e nella Pala Fugger hanno le fattezze di ‘chioccia
e pulcini’ custoditi da una donna col fuso. Nel parallelismo con la Pala Fugger la Sala di
Costantino è doppiamente importante: da un lato testimonia l’importanza e i modi entro i
quali si sviluppò e prese corpo il chiaroscuro energico di Giulio Romano (fig.25), mentre
dall’altro ci mette di fronte ad un uso dell’elemento architettonico antico compreso ad un
livello di grande eccellenza e mimetismo, elementi che si riverberano nel primo lavoro
totalmente autonomo di Giulio, La Pala dell’Anima, quali espressioni ulteriori delle
inchieste raffaellesche. La citazione in nuovi contesti, di motivi già utilizzati da Raffaello,
che si rinnovano di volta in volta, contraddistingue il fare di Giulio: gli stessi protagonisti,
con gli stessi atteggiamenti, vengono inseriti in ambienti diversi; così lo stesso sfondo
viene impiegato ora in scala modesta, ora in scala monumentale153
. Ciò gli consente di
sperimentare variazioni stilistiche che lo conducono a passare repentinamente dal sublime
linguaggio dell’unità della composizione di Raffaello, alla presenza di sconnessioni,
contrasti e contraddizioni; a questo gruppo appartengono: la Madonna della Perla (fig. 22),
151
VASARI, Le Vite, cit., p.60. 152
R. QUEDNAU, Aspects of Raphael’s “Ultima Maniera” in the light of the Sala di Costantino, in
“Raffaello a Roma:atti del convegno 1983, Roma 1986, p. 251. 153
Giulio Romano, catalogo della mostra a cura di…(Mantova, Palazzo Te 1settembre 1989-12 novembre
1989), Milano 1989, pp.71-76.
37
la Madonna della Gatta (fig. 27) e la piccola Madonna Hertz (fig. 24)154
, le quali
presentano tratti comuni con la Sacra Famiglia Fugger (fig. 33) 155
.
Nella Madonna della Perla Giulio Romano, facendo propria l’impostazione di un’arte
sacro-profana semplice ma eloquente, pone in primo piano la Vergine, il Bambino, San
Giovannino e Santa Elisabetta, in un delicato e reciproco scambio di sguardi e gesti
familiari. Come accade nella Sacra Famiglia della quercia (fig. 23), il piccolo Gesù,
poggiando il piede sulla culla colma di cuscini e candide lenzuola, sembra guizzare
sorridendo dalle braccia materne verso San Giovannino, mentre volge lo sguardo
all’indietro. Il San Giovannino sgambettante, coperto per metà da un manto di pelliccia
bruna, è colto nell’attimo in cui si poggia al ginocchio di Maria che, rivolta verso di lui,
distoglie lo sguardo dal Bambino che, all’ombra di Sant’Elisabetta, cerca la sua
approvazione. La buia cromia dello sfondo apre due squarci: a sinistra lascia trapelare, in
un ombroso ambiente indistinto, il volto di San Giuseppe il cui capo è avvolto dal nimbo
(come la Vergine, Santa Elisabetta e San Giovannino). A sinistra, come in Leonardo ci
troviamo nella semioscurità di un interno e solo la finestra permette la vista dell’esterno:
l’oscurità è tagliata in diagonale dal blu di una porzione di cielo che emerge dal cuore della
Roma antica. Replicando il motivo della Madonna della Perla, Giulio Romano ‹‹ritiratosi
da sé solo, fece in un quadro una Nostra Donna con una gatta dentrovi, tanto naturale che
pareva vivissima: onde fu quel quadro chiamato il quadro della Gatta›› (fig. 31)156
. Utilizza
leggere varianti nella disposizione dei personaggi e mutano l’ambientazione e la luce. Con
una leggera rotazione spaziale, determinata dal movimento delle gambe di San Giovannino
e di Gesù Bambino e dalla torsione di Sant’Elisabetta comodamente poggiata sulle gambe
della Vergine, lo stesso gruppo è integrato in un mondo di ‘casalinghe mirabilia’
caldamente illuminato. Giulio non si sazia di particolari: sul pavimento fatto di un mosaico
di marmi le cui sfumature si dipanano tra il rosso, il bruno e il sabbia, è poggiato un
cestello contenente utensili di lavoro muliebre; una gatta dagli occhi di vetro, accovacciata
tra i piedi di Maria e di Elisabetta, fissa attentamente il cestello, mentre alle sue spalle un
cane passeggia per la stanza con le orecchie rizzate, come se qualcosa stesse per accadere.
Infatti, in un’atmosfera di ombra lucente, San Giuseppe è in procinto di entrare
nell’intimità familiare. Davanti a lui, al di là della porta, si vedono due colombe.
L’eccellenza pittorica nella resa degli oggetti accessori e delle vesti, si combina al
154
Ivi. 155
Ivi. 156
VASARI, Le Vite, cit., p.61.
38
contempo alla costante presenza di oggetti antiquari, dal camino decorato, al prezioso
candelabro cinquecentesco posto davanti la porta aperta, fino alla culla che, come nella
Madonna della Perla (fig. 22), pare evocare un sarcofago romano. Di grande fascino è la
fresca bellezza della Madonna Hertz (fig. 24), dal volto dolce e dai grandi occhi scuri,
secondo lo stile tipico delle figure femminili ritratte da Giulio. L’accurata acconciatura
presenta un complesso gioco di pieghe che ricadono ai lati del capo incorniciato dal drappo
bianco che la luce tinge di roseo. Il piccolo Gesù benedicente, seduto scompostamente
sulle gambe della madre, emana un’amorevole dolcezza a chi lo guarda. Nel dipinto è
evidente un’accentuazione sentimentale data dall’eloquente sguardo del Bambino rivolto
verso lo spettatore che, invitato a partecipare alla sublime corrispondenza tra Madre e
Figlio, rimane incantato di fronte alla dolcezza della scena. A ulteriore riprova di una
interpretazione soggettiva di Giulio Romano, ancora una volta fa da sfondo al soggetto
sacro un’ambientazione domestica, intima, semplice e apparentemente silenziosa. Il piatto
e uniforme fondo scuro è infranto a destra dalla grigia penombra oltre la porta che lascia
scorgere il candore di una piccola colomba, come nella Madonna della gatta (fig. 31).
Partendo da modelli raffaelleschi, come ad esempio La Madonna della Rosa (fig.19),
Giulio riprende il gruppo principale della Madonna con il Bambino, lo colloca all’aperto su
un basso muretto o su un improvvisato trono coperto da un drappo qualsiasi, pone come
sfondo, invece del cielo, una cupa architettura in bugnato con tendaggi verdi per
ornamento che contrasta con il colore raffinato e quasi smaltato delle figure o, un
romantico paesaggio di rovine antiche157
. Nel campo delle Madonne introduce un elemento
profano e terreno, basti guardare la sensualità del corpo del Bambino nel grembo della
Madonna Hertz (fig. 41b)158
. La ripartizione del fondo in un lato oscuro cha apre
sorprendentemente squarci di un loggiato o di altri interni, ricorre sovente nell’opera di
Giulio, nelle Madonne, per esempio nella Madonna della gatta (fig. 41a), come anche
nell’introduzione episodica del quotidiano in questi squarci; ora persone occupate in
faccende più prosaiche come il nutrire i pulcini (nella Pala Fugger) o occuparsi delle vesti
(Donna allo specchio) (fig. 41)159
.
E’ interessante osservare il consapevole gioco del pittore con i diversi linguaggi stilistici e
il modo in cui riesce a maneggiarli entrambi con la stessa abilità. Differenziando
157
Giulio Romano, catalogo della mostra a cura di E. Gombrich, M. Tafuri, S. Ferino-Pagden (Mantova,
Palazzo Te 1sttembre-12novembre 1989), Milano 1989, pp71-76. 158
Ivi. 159
Ibid., p.77.
39
pittoricamente i diversi materiali, ponendo ricchi accenti cromatici e sovrapponendo poi
spessi strati di nerofumo, Giulio si mostra padrone delle diverse tecniche pittoriche nel
campo della pittura su tavola, dagli esperimenti leonardeschi sulla luce, alla naturalistica
osservazione degli oggetti160
. Questa sua predilezione per i soggetti domestici, dagli
animali fino alle ragnatele visibili nella Madonna della gatta (fig. 31), porta in un certo
senso a distogliere l’attenzione dal tema principale e a modificare il loro significato
tradizionale. Infatti, l’orgogliosa esibizione di questi oggetti, lo sfoggio di cultura
antiquaria, la creazione di uno sfondo insolito, fanno sì che l’occhio dell’osservatore sia
condotto dal significato ideale della Sacra Famiglia, costante obiettivo di Raffaello, al
mondo reale in cui essa è inserita: in ciò l’artista mira a dimostrare il suo talento e il suo
stile individuale ben sviluppato161
. ‹‹Raffaello in ogni opera esprime, con l’unità e
l’armonia compositiva, l’elemento normativo universale del messaggio contenutistico;
Giulio, con le sue visioni istantanee, consapevolmente spontanee e ricche di episodi, col
gioco immaginifico della casuale composizione di elementi diversi e contrastanti, pone in
primo piano il fattore singolo, individuale, dell’atto inventivo››162
.
Giulio sviluppa dunque la concezione retorica dell’arte che era nelle ultime opere di
Raffaello, avviando contemporaneamente una verifica sperimentale dei limiti del
linguaggio artistico: ne discende, nella Sacra Famiglia Fugger e non solo, il gusto
per l’inserzione di oggetti resi con fedeltà archeologica e di fantastiche strutture
antiche, l’interesse per la naturalezza dei dettagli, di sapore quasi quotidiano,
l’illuminazione sempre particolare, ora radente, ora riflessa spesso da fonti
luminose163
.
La Pala Fugger (fig. 33) con il suo scenario di monumenti antichi e il tono magniloquente,
più insistentemente contrastato nelle luci e nelle ombre, ha sempre subito la forza del suo
irriducibile nemico, il Tevere. Data l’imminente vicinanza del fiume alla chiesa della
nazione tedesca, durante il periodo delle inondazioni, la Pala dell’Anima è stata
160
Ivi. 161
Ibid., p.79. 162
Citazione da S. FERINO-PAGDEN, Giulio pittore a Roma, in “ Art e Dossier”,40,1989, p. 30. 163
G.C.ARGAN, Dal Manierismo al Neoclassicismo, Sansoni, Firenze 2004, cit., p.31.
40
danneggiata in particolar modo nella parte inferiore164
. La prima inondazione che scosse il
dipinto, senza però arrecare vistosi danni, è datata 15 settembre 1557165
. La furia del
Tevere che si abbattè sulla città il 24 dicembre 1598 rese l‘opera in condizioni tali da
necessitare di un restauro166
. Il lavoro fu affidato a Carlo Saraceni (1579-1620) detto il
“Veneziano” che modificò completamente il corpo del leone girandogli la testa verso San
Marco. Questo, secondo le parole del Celio ‹‹non solo ha conservato ciò che è stato
rovinato, ma ha rovinato anche ciò che non è stato toccato dall’acqua››167
. Lamentano
ritocchi eseguiti dal ‘Veneziano’ anche Filippo Titi che, nel suo Studio di pittura, scoltura
et architettura, nelle chiese di Roma, disserta:
La tavola, ch’era nella terza cappella con Maria Vergine, e altri Santi, fu dipinta da Giulio
Romano, e volendola ritoccare Carlo Veneziano per essere stata offesa dal Tevere,
piuttosto si guastò da vantaggio, e fu posta sull’altare di Sagrestia168
.
e Giovanni Baglione che, nella Vita di Carlo Venetiano dice:
164
La Chiesa della nazione tedesca a Roma fa parte del V Rione. Il Rione Ponte prende il nome dal Ponte
Sant’Angelo. Il Rione Ponte, insieme a tutta quella parte di Roma entro le mura, che era presso il Tevere,
continuò ad essere abitata in quanto garantiva un facile reperimento dell’acqua che veniva presa direttamente
dal fiume. Il Rione ebbe sempre un’intensa attività urbanistica:molte furono le case nuove costruite in pieno
Cinquecento sia di famiglie aristocratiche che di famiglie mercantili, alla cui decorazione concorsero gli
artisti presenti a Roma come Raffaello, Giulio Romano e altri. Drammatici erano gli eventi costituiti dalle
inondazioni che colpivano Roma e, quindi, tra i primi, il nostro rione (PIETRANGELI, Rione V Ponte, in
“Guide Rionali di Roma”, pp. 9-16). 165
15 settembre 1557: Inondazione aggravata dalle depresse condizioni psicologiche in cui il durissimo papa
Paolo IV aveva ridotto la città che, proprio in quei giorni, si trovava asserragliata nelle mura in quanto stava
aspettando l’assalto delle soldatesche del duca d’Alba. Assalto militare che, se all’ultimo fu scongiurato, fu
subito sostituito da quello del fiume (C. D’ONOFRIO, Il Tevere, l’Isola Tiberina, le inondazioni, i molini, i
porti, le rive, i muraglioni, i ponti di Roma, Roma 1980,p. 308). 166
Della spaventosa piena del 1598 (quella che, a quanto pare, superò ogni altra nella storia del fiume), si
legge la descrizione, minuta ed impressionante di un testimone oculare: Gian Giacomo Castiglione
raccontava che la mattina del 24 dicembre ‹‹gran parte della Roma si trovò allagata… né con tutto ciò si
credeva male alcuno; per lo più le persone se ne burlavano, molti per curiosità andavano vedendo…altri
attendevano a suoi affari›› (C. D’ONOFRIO, Il Tevere,l’Isola Tiberina…p.304). 167
G. CELIO, Memoria delli nomi dell’artefici delle pitture che sono in alcune chiese, facciate e palazzi di
Roma, ed. a cura di E. ZOCCA, Milano 1967. 168
F. TITI, Studio di pittura, scoltura et architettura nella chiese di Roma, a cura di B. Contardi e S.
Romano, Firenze 1987, p. 411.
41
fu dato a quest’uomo a racconciare il quadro, o tavola di Giulio Romano nella Madonna
dell’Anima, che dall’inondatione del Tevere era stato un poco offeso; ma la ritoccò di
modo che guastollo: dove egli operò più di Giulio non ha apparenza; ed a tutti li Professori
molto dispiacque, ch’egli in opera così rara ardisse di metter sì licenziosamente la mano169
.
Dopo un ulteriore danneggiamento, conseguente a forti infiltrazioni d’acqua, il quadro fu
restaurato da Carlo Maratta (1625-1713) nel 1682-1683 e fu quindi trasferito in Sagrestia.
Ancora, venne rimaneggiata da Pietro Palmaroli nel 1819 e da Ludwig Seitz nel 1880.
Successivamente, l’opera trovò la propria collocazione definitiva sull’altare maggiore,
dove tuttora può essere ammirata.
169
G. BAGLIONE, Le Vite de’ pittori, scultori ed architetti: dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino
à tempi di Papa Urbano VIII nel 1642, a cura di J. Hess e H. Rӧ ttgen, Roma 1995, p.146.
42
3. Sulla fortuna critica della Sacra Famiglia tra i Santi di Giulio Romano
3.1 La fortuna della Pala Fugger nelle stampe di traduzione
Giulio Romano pittore, disegnatore e architetto riprende dalla consuetudine raffaellesca
l’uso di far riprodurre i propri disegni attraverso la stampa, affidandoli direttamente ad un
incisore di fiducia, che spesso lavora nella sua stessa bottega. E’ noto che Raffaello,
avvalendosi della collaborazione di Marcantonio Raimondi (1480-1534), Agostino
Veneziano (1490-1540), Marco Dente da Ravenna (1423-1527) e Ugo da Carpi (1470-
1532 ), nel ‹‹desiderio di fissare stabilmente ogni soluzione figurativa, di conservarne il
ricordo e di non sprecare nulla, abbia tenuto conto con interesse delle possibilità offerte dal
mezzo incisorio››170
. L’incisione, tecnica mutuata dall’oreficeria, con la possibilità di
realizzare un alto numero di copie, garantisce la sopravvivenza delle opere dei grandi
maestri e, se da un lato favorisce la diffusione di queste, dall’altro rappresenta una delle
fonti di informazione che abbiamo per ricostruire il passato171
.
170
R. D’ADDA, La diffusione delle invenzioni di Giulio Romano attraverso le incisioni, in “Lombardia
Manierista: arti e architettura 1535-1600”, a cura di M. T. Fiorio e V. Terraroli, Milano 2009, cit., p.134.
Tutti gli incisori attivi a Roma in questo periodo, che diffondevano in tutto il mondo le invenzioni di
Raffaello, provenivano dall’Italia Settentrionale. Il più famoso di essi, Marcantonio Raimondi (1480-1534),
dopo essersi formato a Bologna presso Francesco Francia e aver compiuto brevi viaggi a Venezia, Padova e
Firenze, giunse a Roma nel 1510 e inizialmente collaborò con Jacopo Ripanda. Entrò presto in contatto con
Raffaello che lo ritenne un artista a lui congeniale. Grazie al dinamismo delle sue linee, il Raimondi dà ai
corpi organicità e vita; egli stesso era un disegnatore eccellente, e spesso incise invenzioni proprie. Durante la
vita di Raffaello collaborò con Giulio Romano. Spesso Raffaello faceva incidere subito le sue invenzioni, ma
molte le dava alla stampa dopo anni. Intorno al 1516 Marcantonio Raimondi aveva fatto di Roma il nuovo
centro della grafica a stampa, e la richiesta di invenzioni di Raffaello cresceva sempre più; è a questo punto
che Agostino Veneziano (1490-1540) e Marco Dente da Ravenna (1423-1527) entrano nella bottega
dell’Urbinate. Ciò avvenne in una fase in cui i discepoli Giulio Romano e Giovan Francesco Penni
assumevano un ruolo sempre più importante nell’esecuzione di singole opere. Agostino Veneziano si formò
su copie e opere di Dürer. Dopo un soggiorno a Firenze, durante il quale incise da Andrea del Sarto, Baccio
Bandinelli e Leonardo, nel 1516 si recò a Roma. Artista veneto, Agostino si concentra sull’effetto ottico di
tutte le forme, che rende attraverso l’alternarsi di zone chiare e scure, ottenendo superfici vellutate. Non si sa
nulla della formazione di Marco Dente, originario di Ravenna. Il suo stile è vicino a quello di Marcantonio
Raimondi, presso il quale è possibile che abbia studiato. Marco Dente realizzò incisioni da Raffaello, Baccio
Bandinelli e anche da invenzioni proprie, raffiguranti sculture antiche. Marco Dente non rende le forme nella
loro plasticità e volume, ma rivolge la sua attenzione all’aspetto ottico, rendendo i contorni più marcati.
Come dimostra Oberhuber, la posizione dei tre incisori all’interno della bottega fu paritetica a partire dal
1516. Il grande intagliatore in legno Ugo da Carpi (1470-1532), che introdusse in Italia la tecnica del
chiaroscuro e che a Venezia collaborò con Tiziano, si recò a Roma tra il 1516 e il 1518. Ugo da Carpi seppe
tradurre nella xilografia a colori la tecnica di effetto pittorico del disegno a penna acquerellato e lumeggiato,
conferendo compiutezza pittorica alle stampe (K. OBERHUBER, Roma e lo stile classico di Raffaello,
Milano 1999, pp.47-48). 171
Secondo Vasari la scoperta di tale tecnica andrebbe posta in rapporto diretto con la pratica degli orafi,
nella fattispecie dell’orefice fiorentino Maso Finiguerra. L’intento del Vasari è quello di abilitare la nuova
43
Affidando ai suoi incisori disegni eseguiti appositamente per la traduzione, Raffaello
produceva ‹‹non delle semplici copie di disegni, ma dei prodotti artisticamente autonomi e
compiuti e in se stessi››172
. Nasceva così un corpus delle idee figurative del maestro,
divulgabile, utile agli artisti e destinato a diffondere e accrescere la fama e il prestigio delle
sue creazioni. Al pari delle invenzioni di Raffaello, i disegni di Giulio, destinati ad una
fruizione di ampio raggio rispetto a quelli del maestro che spesso servivano per uso interno
alla bottega, vengono riprodotti in stampa173
. Le parole di Giovan Battista Armenini nel
suo libro De’ veri precetti della pittura, così descrivono il metodo operativo di Giulio:
Fu parimenti Giulio Romano così copioso et facile, che chi lo conobbe affermava, che
quando egli disegnava da sé qualcosa si fosse, che si potea più presto dire, ch’egli imitasse,
e che avesse innanzi agli occhi ciò che faceva […] Egli teneva questo modo, pigliava un
foglio di carta sottile, e su quello col piombo o col carbone che in mano avesse disegnava
ciò che in mente aveva, di poi tingeva il rovescio di quel foglio netto e calcava quel
disegno o schizzo su quello con uno stile d’ottone ovvero d’argento, di modo che vi
rimaneva tutto ciò che vi era disegnato di sopra sul primo foglio, di poi profilato che quello
aveva sottilmente d’inchiostro li levava l’orme del carbone che vi erano rimase del calco
con battervi sopra un fazzoletto od un altro panno sottile, onde i profili poi si vedevano
restar netti e senza macchia o segno alcun sotto di essi, di poi li finiva o di penna
tratteggiando, o di acquarello, secondo più che più li era a grado di fare174
.
Il passo è interessante per comprendere come Giulio intendesse il disegno, sin dal principio
pensato per la riproduzione. Giulio infatti, diversamente da Raffaello che affidava ai suoi
traduttori a volte persino l’idea grafica (invenit), consegna disegni finiti realizzati
espressamente (delineavit) per la riproduzione, instaurando un processo a catena che vede
tecnica col far discendere arte da arte, l’incisione calcografica dal niello ‹‹il quale non è altro che un disegno
tratteggiato e dipinto sull’argento, come si dipinge e si tratteggia sottilmente con la penna››. Tra il
Cinquecento e il Seicento le tecniche incisorie vanno differenziandosi in due distinti indirizzi, quello
essenzialmente grafico e quello essenzialmente pittorico. Al primo appartiene la più antica delle tecniche
incisorie, quella del bulino, usata nel Rinascimento per stampe d’invenzione (Pollaiolo, Mantegna, fino al
Carracci) e di traduzione (Marcantonio Raimondi). Nella prima metà del ‘500 accanto al bulino, e talvolta
associato ad esso, si diffonde l’uso dell’acquaforte, che consente massima libertà al disegno (non più inciso
direttamente sul metallo, ma graffito sullo strato di vernice protettiva steso sulla lastra che poi viene esposta a
morsura d’acido), la pratica incisoria passa definitivamente dall’ambiente degli orafi e niellisti a quello dei
pittori. (F. NEGRI ARNOLDI, Il mestiere dell’arte, Napoli 2007, pp.95-97). 172
R. D’ADDA, La diffusione delle invenzioni di Giulio Romano attraverso le incisioni, p.136. 173
S. MASSARI, Giulio Romano pinxit et delineavit, Palombi, Roma 1993, p.13. 174
Ibid., cit., p.14.
44
nei secoli incisi con il nome di Giulio oltre che gli originali, anche repliche e copie175
. Il
1515 è l’anno in cui si data l’incontro di Giulio con l’incisione176
, un interesse maturato in
modo diretto nella bottega del Sanzio dove l’allievo replicava i disegni che lo stesso
maestro destinava alla stampa. Vasari racconta nella Vita del Raimondi che le stampe tratte
da disegni di Raffaello
[…] acquistarono a Marcantonio tanta fama, ch’erano molto più stimate le cose sue pel
buon disegno che le fiamminghe e ne facevano i mercanti buonissimo guadagno. Aveva
Raffaello tenuto molt’anni a macinar colori un garzone chiamati il Baviera; e attendesse a
stampare, per così finire tutte le storie sue, vendendole ed in grosso e a minuto a chiunque
ne volesse: e così man mano all’opera, stamparono un’infinità di cose, che gli furono di
grandissimo guadagno177
.
Verso la metà del Cinquecento, quando la produzione delle stampe è quanto mai in
espansione, l’arte grafica si specializza nella traduzione su rame dei capolavori della ‘bella
maniera’ italiana. Mentre si continuano a produrre stampe con l’invenit di Raffaello, il cui
nome era una garanzia nei confronti di un commercio sempre più organizzato, aumenta la
richiesta delle invenzioni di Giulio. A Roma, il mercato della grafica appare essere
dominato dagli stampatori-editori, che iniziano la loro attività come incisori per poi
dedicarsi alla tiratura dei rami e al commercio delle stampe178
. Accanto a questi operano
quegli incisori che, pur non abbandonando mai la loro attività artistica, possiedono anche
una propria stamperia. Una conferma è data dall’intraprendenza commerciale di Adamo
Scultori che entra in società con l’editore Lafréry, per assicurarsi un ricco patrimonio di
rami e un controllo del mercato; sappiamo che Mario Cartaro, Antonio Carenzano, Giovan
Battista de’ Rossi, Giovanni Orlandi e Michele Lucchese svolgevano una fiorente attività
nell’Urbe. Dal 1544 ca. al 1570, Antoine Lafréry diventa capo incontrastato di un ricco
impero editoriale detenendo il monopolio della produzione e del commercio delle
175
S. MASSARI, Giulio Romano pinxit et delineavit, Roma 1993, cit., p.XLVII. 176
Ivi. 177
Ibid., cit., p.LXXI. 178
Ibid., p. LXXII.
45
immagini dei grandi maestri179
. Nel 1573 esce l’Indice delle stampe in vendita nella sua
bottega; tra le invenzioni di Giulio presenti, soprattutto di argomento mitologico e profano,
compare anche la matrice della Sacra Famiglia con San Giovannino e i Santi Giacomo e
Marco180
(fig. 45). Sebbene sulla stampa, dedicata a Giulio Cesarini, compaia sia il nome di
Mario Cartaro che le iniziali di Michele Lucchese, incisore e mercante attivo a Roma dal
1553 al 1604, è possibile che il Cartaro sia l’autore di questa incisione edita poi dal
Lucchese181
. L’incisione, intitolata dal D’Arco Maria Vergine con i Santi182
, riproduce la
pala con la Madonna con il Bambino tra i Santi (fig. 33) dipinta da Giulio Romano (1499-
1546) su commissione del banchiere tedesco Jakob Fugger (1454-1525) per la cappella di
famiglia nella chiesa di Santa Maria dell’Anima. Agli Uffizi si conserva il disegno
preparatorio noto come Sacra Conversazione (fig. 46) (Gabinetto dei Disegni e delle
Stampe, inv. U 14615 F)183
che ha ispirato l’acquaforte attribuita a Mario Cartaro e un
disegno del Louvre (fig. 47). Quest’ultimo, classificato da Stefania Massari (Cit., p.209)
come opera di Raffaellino del Colle, nella descrizione che compare nel catalogo dei disegni
del British Museum ( p.152) viene ascritto più genericamente, da Pouncey e Gere, ad un
allievo di Giulio Romano. Il disegno conservato agli Uffizi eseguito con penna a inchiostro
179
Antoine Lafréry, arrivato a Roma nel 1540, aveva cominciato a lavorare presso Salamanca e, dopo circa
tre anni si mette in proprio in Via del Parione, diventando un temibile concorrente. Dopo nove anni di
società, secondo le modalità stabilite dal contratto, alla morte del Salamanca (1562) subentra il figlio
Francesco, che continua insieme al Lafréry la produzione e il commercio delle stampe. Ma questo nuovo
sodalizio è di breve durata, e dopo un anno di lavoro in comune, la società di lavoro si scioglie con un atto
del 28 settembre 1563 secondo il quale ciascuno si riappropriava del proprio capitale. Un nuovo atto, datato
11 ottobre 1563 ,stabilisce che Francesco ceda al Lafréry, per la somma di 1000 scudi, la sua parte di crediti,
che si calcolava valesse almeno 3000 scudi. Con questa abile mossa Lafréry si assicura i rami del suo antico
avversario e diventa capo incontrastato di un ricco impero editoriale che dura dal 1544 ca. al 1570, detenendo
il monopolio della produzione e commercio delle immagini dei grandi maestri e di Roma. Lafréry , negli
ultimi anni della sua attività era entrato in società con l’incisore mantovano Adamo Scultori nel commercio
di ‘stampe e di anticaglie’, e in questa burrascosa società parecchi erano stati i tentativi delle parti per
accordarsi per la spartizione dei beni. Il 31 marzo 1576, Adamo depone presso il notaio la sua proposta: chi
avesse avuto la facoltà di rilevare la bottega con tutte le stampe e gli oggetti antichi, si sarebbe assunto
l’onere dell’affitto dei locali e l’impegno di indennizzare la controparte; questa a sua volta, si impegnava a
non fare intagliare nuovi rami, né vendere stampe senza il dovuto permesso […]. Lafréry rifiuta
categoricamente le condizioni poste dall’incisore mantovano e, nel 1581 con la mediazione di Mario Cartaro
si giunge ad un accordo con la spartizione dei beni in tre parti (S. MASSARI, pp. LXXIII- LXXIV). 180
L’Indice delle stampe di Lafréry, organizzato per temi iconografici, è utile per trarre indicazioni
sull’andamento del mercato di allora. Le invenzioni di Giulio Romano che figurano nell’Indice sono
soprattutto di argomento mitologico e profano, prima fra tutte La morte di Procri incisa da Giorgio Ghisi. Il
Lafréry edita anche alcune storie romane d’invenzione giuliesca, tra le quali la Battaglia di Zama incisa da
Cornelis Cort. Si ricordano, inoltre, uscite dalla sua bottega, tre stampe con Elefanti ed altri animali di
Battista Franco in relazione a modelli del Pippi. L’indirizzo del Lafréry è presente pure su soggetti sacri
d’invenzione giuliesca, incisi soprattutto da Diana Scultori (Ivi.). 181
Ibid., p. 208. 182
Ivi. 183
S. MASSARI, Giulio Romano pinxit et delineavit, p. 208.
46
marrone, acquerellature marroni e lumeggiature bianche184
, così si presenta: la figura della
Madonna in trono è leggermente spostata verso destra ed è rialzata su un basamento. Maria
cinge con il braccio sinistro in modo protettivo il Bambino che è in piedi accanto a lei,
mentre tende in avanti il braccio destro con un movimento aggraziato. In questo modo fa
volgere lo sguardo verso la figura di San Giacomo, che è inginocchiato a rispettosa
distanza e viene condotto per mano dal piccolo San Giovanni Battista. La tenda sorretta
dagli angeli alle spalle della Madonna delimita lo spazio sacro in primo piano e copre una
parte della loggia semicircolare con volta a botte, che secondo Hartt è ispirata alla galleria
dell’Esedra dei Mercati di Traiano (fig. 34)185
. La curvatura di questo edificio che Vasari
ha paragonato a quella semicircolare di un teatro186
, viene ripresa nella leggera torsione di
San Giuseppe e nella posa di Marco in ginocchio in primo piano, chiudendo un
immaginario movimento circolare. L’impianto complessivo del modello corrisponde a
quello del dipinto, anche se si possono riscontrare numerose differenze. La Madonna con il
Bambino è spostata più a destra e, in questo modo, viene accentuata l’impostazione
asimmetrica che conferisce maggiore importanza all’architettura dello sfondo187
.
L’atmosfera sacrale e riservata della scena in primo piano nel quadro contrasta con l’ampio
spazio datole invece nel disegno. L’impianto dell’opera, progettato in modo accurato, e la
disposizione articolata delle figure fanno della Sacra Conversazione di Giulio una
creazione eccezionale, nella quale sono rielaborati i modelli più vari. Il disegno differisce
rispetto alla stampa in diversi particolari che riguardano in particolare l’articolazione dello
sfondo: nel foglio di Firenze infatti non appaiono le statue nelle nicchie dell’esedra, né le
trabeazioni sui pilastri, né la donna che sosta sull’uscio assieme alla chioccia con i suoi
pulcini, così come in ultimo la parte opposta dell’esedra circolare visibile nell’incisione. La
stampa presenta, come il modello grafico, la posizione originale del San Marco con il libro
del Vangelo e il leone alato ai suoi piedi che attualmente ha la testa girata verso
l’evangelista188
. Tutti questi particolari compaiono anche nel dipinto, pertanto la stampa
appare come una precisa testimonianza della condizione originaria dell’opera, danneggiata
poi dalle inondazioni del Tevere del 1557 e del 1598189
.
184
Ivi. 185
F. HARTT, Giulio Romano, Yale University Press, New Haven 1958, p.56. 186
VASARI, Le Vite,V, p. 62. 187
K. OBERHUBER, Roma e lo stile classico di Raffaello, Milano 1999, p.301. 188
Carlo Saraceni ha modificato completamente il corpo del leone e gli ha girato la testa verso la figura di
San Marco (K. OBERHUBER, Roma e lo stile classico di Raffaello, p.301). 189
S. MASSARI, op. cit., p.209.
47
La fortuna commerciale della stampa è testimoniata dal passaggio di questa matrice da uno
stampatore all’altro, uno spostamento che ininterrottamente sembra susseguirsi nella
gestione delle botteghe. Appartenuta al Lafréry dal 1544 al 1577, l’incisione intitolata
Maria Vergine con i Santi passa a Giovanni Orlandi190
nel 1602, ad Antonio Carenzano191
nel 1604, per poi essere acquistata più tardi dalla famiglia de’ Rossi192
e confluire infine
nella Calcografia Camerale. Attivo a Roma tra il 1638 e il 1691 con bottega in via della
Pace, Giovan Giacomo de’ Rossi è il rappresentante più illustre della famiglia. Nel 1677
esce un Indice delle stampe intagliate in rame, al bulino e all’acquaforte esistenti nella sua
stamperia alla Pace, nel quale sono presenti trentacinque soggetti tratti dalle invenzioni di
Giulio, tra i quali compare anche ‹‹La Madonna sedente col Bambino in braccio, San
Giuseppe, San Marco, San Giacomo in ginocchioni tavola in Roma nella Chiesa
dell’Anime››193
. Nel 1696 Giovan Giacomo fa uscire una versione aggiornata dell’Indice
delle stampe esistenti nella sua stamperia, che aggiunge i relativi prezzi espressi in scudi e
baiocchi; la stampa con La Sacra Famiglia con San Giovannino ed i SS. Marco e Giacomo
(fig. 45) viene offerta al prezzo di cinque baiocchi194
. L’erede di Giovan Giacomo,
Domenico de’ Rossi, attivo a Roma tra il 1691 e il 1724 ca., a partire dal 1700 fa uscire
periodicamente un Indice delle stampe intagliate in rame, a bulino e in acquaforte esistenti
nella sua stamperia, che vede una ristampa nel 1705 e nel 1709195
. Nell’edizione del 1709
la stampa conserva il prezzo di cinque baiocchi. Erede della stamperia alla Pace è il figlio
di Domenico, Lorenzo Filippo de’ Rossi, attivo tra il 1720 e il 1738, che nel 1729 pubblica
190
Giovanni Orlandi, con bottega al Pasquino, è un vivace editore. Egli appone il suo indirizzo su stampe
tratte da invenzioni di Giulio Romano incise da Dente, Diana Scultori, Cartaro e Cornelis Cort (Ivi.). 191
Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento è attivo a Roma Antonio Carenzano, incisore ed editore
che pone il suo indirizzo su lastre con invenzioni giuliesche incise dal Cartaro e Diana Scultori (Ivi.). 192
Già dagli inizi del Seicento, è attiva a Roma la famiglia dei de’ Rossi, stampatori-editori di origine
milanese, che con le loro botteghe alla Pace e in piazza Navona, a poco a poco assorbono buona parte del
commercio di stampe che si faceva in questa città, fino a detenere un vero e proprio monopolio delle
immagini, che durerà per più di un secolo, fino alla cessione del loro cospicuo fondo di rami alla Calcografia
Camerale nel 1738. Capostipite della famiglia è Giuseppe de’ Rossi, vissuto a Roma tra il 1603 e il 1638 ca.,
con bottega in via della Pace. Intorno al 1640 la fortunata impresa de’ Rossi si divide in due botteghe in
concorrenza tra loro, una in via della Pace, l’altra in piazza Navona. Operante a piazza Navona, All’insegna
della Stampa, è Giovan Battista de’ Rossi, incisore e stampatore-editore attivo dal 1637 fino al 1680 ca.
Specializzatosi nelle vedute di Roma e nelle antichità romane, Giovan Battista edita sempre stampe tratte da
invenzioni del Pippi, soprattutto incise da Diana Scultori. In via della Pace, invece, opera Giovan Giacomo
de’ Rossi, la cui abilità imprenditoriale lo porta a trasformare la sua attività a conduzione artigianale, in una
vera e propria industria di immagini da lui prodotte e commerciate in tutta Europa (Ivi.). 193
Tra le invenzioni di Giulio elencate nell’Indice vi sono La Resurrezione dei morti, riportata come opera di
Battista Brittano Mantovano, Dafne che abbraccia il fiume Peneo di Giorgio Ghisi, La Sacra Famiglia con
iS. Giovannino ed i SS. Marco e Giacomo attribuita a Mario Cartaro e la serie del Bartoli con i Fregi della
Sala Vaticana con l’historie di Costantino (Ibid., cit., p.LXXVI). 194
Ibid., p. 208. 195
Ibid., p.LXXVII.
48
un Indice delle stampe intagliate in rame, a bulino e in acquaforte, nel quale è ripetuta,
senza alcuna variazione di prezzo, la stampa con La Sacra Famiglia tra i Santi196
. Nel
1738, il cospicuo fondo di rami posseduti dagli eredi de’ Rossi alla Pace viene venduto alla
Calcografia della Camera Apostolica al prezzo di 45.000 scudi. Nel 1741 esce l’Indice
delle stampe intagliate in rame, a bulino e in acquaforte esistenti già nella Stamperia de i
de’ Rossi, ora nella Calcografia della Reverenda Camera Apostolica a Pie’ di Marmo,
molto simile nella forma e nella sostanza a quelli precedenti dei de’ Rossi; ancora una
volta, tra i rami tratti da invenzioni di Giulio vi è La Sacra Famiglia con San Giovannino
ed i SS. Marco e Giacomo incisa da Mario Cartaro197
.
196
Ivi. 197
Ivi.
49
3.2 La Madonna dell’Anima come modello nella pittura tra Cinque e Seicento
La riprova dell’importanza della Sacra Famiglia tra i Santi (fig. 33) dell’Anima, dipinta da
Giulio Romano, è data dall’enorme fascino che la composizione seppe esercitare per tutto
il XVI secolo. In quest’opera è contenuta una vera e propria dichiarazione della poetica
giuliesca, che si propaga per tutta la seconda metà del Cinquecento in un omogeneo gruppo
di presenze che la assumono quale modello. La ricca concentrazione di componenti proprie
della ‘maniera’ di Giulio Romano ha fatto sì che la Pala Fugger sia diventata, nel corso del
tempo, una sorta di archetipo iconografico per coloro che hanno aderito al repertorio
stilistico e figurativo del Pippi.
Il successo arride a Giulio subitaneo e incondizionato e gli assicura una posizione
prestigiosa, prima a Roma e poi a Mantova. Durante l’arco della sua attività offre un
esempio di inesauribile forza creativa in continuo svolgimento, condiziona con l’autorità
della sua opera e viene ad essere il più alto rappresentante e, in qualche misura l’animatore,
del fervido contesto in cui si sviluppa la Maniera. L’avvio ufficiale dell’attività
divulgatrice del verbo giuliesco contenuto nella pala di Santa Maria dell’Anima, al di fuori
dei confini romani, è segnato dall’attività di Raffaellino del Colle (1497-1566). Il pittore di
Sansepolcro, fino al termine della sua carriera, ha utilizzato la pittura per ossequiare il suo
maestro romano nei luoghi a lui cari e in cui poi è rimasto a lavorare. Così nei territori
umbri, compresi nell’Alta Valle del Tevere e nelle zone marchigiane dell’Alta Valle del
Metauro, dove troviamo il riverbero della Sacra Famiglia tra i Santi di Giulio Romano
(fig. 33)198
. Durante la sua permanenza nella bottega raffaellesca, Raffaellino dovette
formare un cospicuo corpus grafico in cui erano compresi anche i lavori originali di
Raffaello e Giulio Romano.
Molti degli elementi che diverranno per lunghi anni abitudinari dello stile di Raffaellino
sembrano avere, prima nella cerchia di Raffaello, poi in quella di Giulio, il loro antefatto:
una certa insistenza grafica, la tendenza ad accentuazioni nella stilizzazione dei panneggi,
piegati a spirale e ad orecchio, e delle capigliature, perfino la stilizzazione a strati nelle
nuvole199
.
A tal proposito, è bene citare il Vasari quando ricorda come Raffaellino del Colle abbia
assistito Giulio nell’esecuzione di ‘altre opere’200
. Il riferimento a queste ‘opere’ potrebbe
comprendere La Pala Fugger, la quale ha costituito un leitmotiv nella sua carriera ed è
198
M. DROGHINI, Raffaellino del Colle, Sant’Angelo in Vado 2001, p. 16. 199
G. SAPORI, Percorso di Raffaellino del Colle, in “Annuario dell’Istituto di Storia dell’Arte”, AA.
1974/75-1975/76, Roma, cit. p.170. 200
C.L.E. WITCOMBE, Raffaellino del Colle and Giulio Romano’s holy family with Saints in S. Maria
dell’Anima, in “Gazette des beaux-arts”, 114, 1989, p.53.
50
servita come fonte per la composizione di varie figure in diversi dipinti eseguiti dopo aver
lasciato Roma nel 1524.
Ma quando deve cadere il primo approccio di Raffaellino del Colle con la pala
dell’Anima? Per cominciare, si sa che Raffaellino possedeva il cartone preparatorio
originale della pala, un ottimo sostegno iconografico utilizzato per la realizzazione
dell’Annunciazione della Vergine di Città di Castello (1528 ca.), dell’Assunzione della
Vergine di Piobbico (1529-30 ca.), della Sacra Conversazione di Cagli (1541 ca.) e della
Sacra Conversazione di Sant’Angelo in Vado (1543 ca.)201
. Proprio a Giulio Romano
rimandano gli sfondi di paesaggio che animano le composizioni di Raffaellino; paesaggi
popolati soprattutto dalle rovine romane. Essi sono derivati da quelle sillogi appassionate e
capricciose di architetture e monumenti antichi, che animano gli orizzonti dell’Adlocutio
(fig. 27), della Lapidazione di Santo Stefano (fig. 32) e della Sacra Famiglia tra i Santi
(fig. 33). La prima rievocazione che Raffaellino deriva dal cartone di Giulio si trova
nell’Annunciazione della Vergine (fig. 48) realizzata per la chiesa di Città di Castello
dedicata a Santa Maria delle Grazie. Committenza e datazione dell’opera sono ampiamente
discusse dal Certini (1728) che ci informa che:
Il quadro della Santissima Annunziata fu dipinto da Rafaellino dal Borgo San Sepolcro ed
era un tempo posto nell’altare della famiglia Sellari dove era scritto “ANNO DOMINI
MDXXVIII – DOMINI ANTONJ DE SELLARJS TIFERATIS – SUAMPTIBUS –
PRAECIPUA DEVOTIONE – SACELLUM NOI – FABRICATUM DOTATUMQUE –
DEIPARE ANNUNCIATE DICATUM”202
.
Il Certini quindi ci fornisce chiaramente il nome del committente principale (Antonio
Sellari) e l’anno in cui fu eretto l’altare (1528) ma, in un altro suo manoscritto, continua
riferendoci il nome di un secondo probabile committente, la famiglia Vitelli203. In primo
piano si stagliano la Madonna e l’Arcangelo intenti in un dialogo silenzioso, appena
bisbigliato. La Madonna, colta nel solenne atto di devozione e preghiera, reca nella mano
destra il libro che stava leggendo prima di essere visitata dall’Arcangelo.
In alto appare l’Eterno, come affacciato a un grande occhio di cielo, tra le nubi popolate di
angioletti; e qui la disposizione delle nuvole a ghirlanda e le convenzionali pieghe a cerchio
che vorrebbero simulare intorno all’Eterno la grotta dei manti michelangioleschi rivelano
nel pittore quella tendenza che richiama lo stile raffaellesco di Giulio Romano204
.
201
M. DROGHINI, Raffaellino del Colle, p.17. 202
Ibid., p.59. 203
Ivi. 204
A. VENTURI, Storia dell’arte italiana, IX, Milano 1921, cit., p. 610.
51
La luce che si frastaglia tra le vesti dell’Arcangelo, è la stessa che in alto avvolge l’Eterno.
Sprazzi di luminosità fanno capolino dietro gli archi che lasciano intravedere una fetta di
paesaggio, dettagliata citazione ripresa da Giulio Romano. A partire dall’impianto scenico,
l’ideazione dell’opera si pone nella diretta tradizione giuliesca che, nel dipinto in
questione, trova la sua ragion d’essere nella raffigurazione di particolari che distolgono lo
spettatore dal contesto generale. Come nella Pala Fugger Giulio si serve dello sfondo
architettonico per l’introduzione episodica del quotidiano, che assume le sembianze di
‹‹chioccia e pulcini custoditi da una vecchierella col fuso››205
, così Raffaellino
nell’Annunciazione riprende il tipico brano domestico del Pippi quando lascia intravedere
due fanciulle appoggiate ad una balaustra, una intenta a guardare il paesaggio e l’altra
assopita dalla lettura. Nella pala di Città di Castello, la figura della Vergine dimostra come
l’operare di Raffaellino sia basato principalmente su una sorta di dipendenza artistica da
quanto aveva visto ed appreso nella bottega romana. Dalla Pala Fugger, assunta come
modello, Raffaellino riprende la disposizione asimmetrica della Vergine con le gambe
incrociate, motivo che Giulio Romano aveva colto dal cartone di Raffaello per la figura
della Giustizia (fig. 28) nella Sala di Costantino. Sono proprie della Madonna di Giulio
anche il panneggio delle vesti e i sandali della Vergine dipinta da Raffaellino.
Il Ducato di Urbino, in particolare i centri di Piobbico, Cagli e Sant’Angelo in Vado, oltre
a Pesaro, il centro marchigiano di diffusione raffaellinesca forse più conosciuto,
rappresenta una sorta di ‘seconda patria’ di Raffaellino per le numerose opere ivi
lasciate206
. Il Tarducci nel 1897, ricordandolo sull’altare della cappella della nobile
famiglia Brancaleoni, attribuisce a Raffaellino del Colle la pala dedicata all’Assunzione
della Vergine (fig. 49), custodita nella chiesa di Santa Maria in Val d’Abisso a Piobbico207
.
In questo quadro il pittore di San Sepolcro si è servito di uno schema assai semplice: la
Madonna seduta con le mani giunte in segno di preghiera si innalza su una nuvola in
mezzo ad una schiera di angeli musicanti. In basso, i dodici apostoli, con gli occhi rivolti
verso l’alto, si affollano intorno alla scena; alcuni sono in ginocchio, altri in piedi mentre
con le mani accennano alla Madonna. La semplice divisione della tela in due parti,
superiore ed inferiore, è messa in evidenza dalla luce dell’orizzonte, così che cielo e terra
sono separati proprio come accade nella Trasfigurazione (figg. 38 e 38a) di Raffaello.
Nella figura di San Paolo, a destra in primo piano, può essere chiaramente riconosciuta la
posa del San Marco della pala di Santa Maria dell’Anima. Nonostante la somiglianza della
posa, San Paolo è stato concepito in termini stilisticamente diversi dal San Marco208
. A
differenza di San Marco, la figura di San Paolo appare tesa ed innaturale, tanto che il suo
corpo sembra goffamente articolato. In maniera analoga è stata trattata la figura di San
Girolamo sulla parte esterna di uno degli sportelli della pala d’altare, la cui posa sembra
205
Ibidem., p.372. 206
Proprio sul finire del terzo decennio lo studio dell’attività di Raffaellino trova finalmente un sicuro punto
di riferimento cronologico nella partecipazione del pittore alla grande impresa decorativa diretta da Girolamo
Genga nella Villa Imperiale di Pesaro, la cui realizzazione si protrae dal 1529 al 1532 (G. SAPORI, op.cit.,
p.173). 207
M. DROGHINI, Raffaellino del Colle, p.70. 208
C.L.E. WITCOMBE, Raffaellino del Colle and Giulio Romano’s holy family with Saints in S. Maria
dell’Anima, in “Gazette des beaux-arts”, 114, 1989,p. 54.
52
riecheggiare quella del San Giacomo della Pala Fugger di Giulio Romano209
. La tela
dedicata alla Madonna con il Bambino e i Santi Rocco, Francesco d’Assisi, Geronzio,
Stefano e Sebastiano (fig. 50) può essere considerata una parafrasi della pala di Santa
Maria dell’Anima. Pierfrancesco Pierfranceschi, come ringraziamento per la scampata
morte nella peste del 1528, ordina in sede testamentaria a suo figlio Roberto che venga
eseguito un dipinto da destinare alla chiesa di San Francesco, con ‹‹tres figuras in dicta
capella unam beati Virginis altera divo Sebastiano alia divo Roccko››210
.
Lo spirito di fondo dell’opera ricorda significativamente la Pala Fugger (fig. 33) di Giulio
Romano dalla quale è ripresa la scena centrale: la Vergine che cinge in modo protettivo il
Bambino attorniata dai Santi Rocco e Sebastiano, l’uno colto mentre si prostra in segno di
devozione, l’altro mentre con un gesto invita lo spettatore ad entrare nella scena. Come
nella precedente pala di Città di Castello, Raffaellino nella Sacra Conversazione di Cagli
ha rielaborato l’idea della Vergine seduta con le gambe incrociate che Giulio, a sua volta,
aveva ripreso da Raffaello. Le figure dei Santi Rocco e Sebastiano rimandano ai Santi
Giacomo e Marco della pala di Santa Maria dell’Anima. Sul versante marchigiano, accanto
alla Sacra Conversazione di Cagli di poco precedente, una delle più cospicue
testimonianze del linguaggio giuliesco è dato dalla pala con La Madonna con il Bambino e
San Giovanni, i Santi Antonio Abate, Pietro e Paolo (fig. 51) della chiesa di Santa Maria
dei Servi in Sant’Angelo in Vado. Poiché nel piedistallo del trono della Vergine è scritto
‹‹ANN. D.NI. MDXLIII›› e ‹‹RAPHAELE BITURGENSI PINXIT››, questo dipinto
rappresenta uno dei punti cardine dell’attività raffaellinesca211
. In questo caso, a
dimostrazione di quanto furono importanti per Raffaellino i disegni acquisiti durante la
formazione romana, ci troviamo di fronte al massimo esempio di utilizzazione di
un’iconografia derivata da Giulio Romano. Il Biturgense infatti possedeva il cartone
originale della Pala Fugger, come viene indicato da Berto Alberti che scrive:
‹‹A dì di giunio 1571 Carbino e Alesandro miei comperàro uno cartone da Michelangelo di
Rafaele dal Colle pittore: ditto cartone è di Giulio Romano di la taula che feci in la capella
di Santa Maria di l’Anime››212
.
L’opera, posta sull’altare della nobile famiglia vadese Graziani, ripete in larga misura la
composizione della pala di Santa Maria dell’Anima, anche se sono stati modificati alcuni
particolari. Nelle figure dei Santi Pietro e Paolo, in primo piano, si riconoscono le pose dei
Santi Giacomo e Marco, così come San Giuseppe e il piccolo San Giovanni Battista
mantengono inalterata la loro postura. Oltre alla figura del donatore in basso a sinistra,
Raffaellino ha aggiunto, rispetto alla composizione di Giulio, il Sant’Antonio Abate che
assiste alla scena in posizione arretrata rispetto a San Pietro. Tuttavia, nonostante la
209
Ivi. 210
M. DROGHINI, Raffaellino del Colle, cit., p.104. 211
C.L.E. WITCOMBE, Raffaellino del Colle and Giulio Romano’s holy family with Saints in S. Maria
dell’Anima, cit., p.56. 212
M. DROGHINI, Raffaellino del Colle, cit., p.105.
53
generale ripetizione della disposizione delle figure, la pala d’altare di Sant’Angelo in Vado
si distingue da quella concepita da Giulio. Stagliando la Vergine con il Bambino in uno
spazio sconfinato quale è il cielo, l’accogliente intimità della Pala Fugger è di fatto negata
e sostituita da una più formale disposizione gerarchica che preferisce la prospettiva
centrale a quella laterale. Attraverso la sua scelta di generale adesione alla pala d’altare di
Santa Maria dell’Anima, sembrerebbe che Raffaellino, in questa fase della sua carriera, era
consapevolmente tentato di riconquistare la maniera di Giulio Romano. In questo suo
desiderio si può riconoscere l’influenza di Vasari213
, con il quale Raffaellino è entrato in
contatto negli anni Trenta del Cinquecento.
Pochi anni prima che il biturgense dipingesse la pala d’altare per la chiesa di Sant’Angelo
in Vado, Vasari aveva cominciato a sviluppare il suo interesse per la tradizione classica
raffaellesca, attraverso il recupero di disegni del Parmigianino, denominato il ‘Raffaello
vivo’, e di Perin del Vaga. Tuttavia, è stata anche l’influenza di Vasari a far saltare
Raffaellino sul carro del recupero della sua ormai lontana esperienza romana. Le opere
realizzate da Raffaellino del Colle rivelano la genialità e la capacità di un giovane
talentuoso che risente immediatamente di quella Maniera romana che si era imposta nel
primo ventennio del secolo, ma segue vie proprie nello sperimentare nuove soluzioni214
.
La fortuna della Sacra Famiglia tra i Santi dipinta da Giulio Romano, è scandita dalla
vasta eco che quest’opera ha avuto anche al di fuori dei confini nazionali. Come descritto
in un contratto che porta la data del 1565, un trittico, ora alla Galleria Colonna, fu
commissionato a Girolamo Siciolante da Sermoneta (1521-1575) da Joannes Petrus da
Cordoba per la chiesa di San Giuliano in Banchi Nuovi: una Madonna col Bambino e San
Giovannino, Sant’Andrea e Santa Caterina d’Alessandria (fig. 52)215
. Il doratore spagnolo
affidò a Siciolante un compito fuori dal comune: si chiedeva all’artista di imperniare la
propria composizione sulla Pala Fugger (fig. 33) di Giulio Romano, dipinto che il pittore
di Sermoneta conosceva in prima persona, perché aveva lavorato nella cappella Fugger in
Santa Maria dell’Anima nei primi anni Sessanta del Cinquecento. Per quanto riguarda la
composizione centrale con la Madonna col Bambino e San Giovannino, il committente
aveva espressamente richiesto che fosse ispirata alla pala d’altare che Giulio Romano
aveva dipinto circa vent’anni prima per la cappella Fugger, in Santa Maria dell’Anima.
Rispetto a quest’ultima, il Sermoneta sceglie una composizione più intima, meno affollata,
e le sue figure sono solitarie, maestose e dominano completamente lo spazio. La Vergine è
colta mentre abbraccia teneramente il Bambino e lo veglia con lo sguardo basso e umile,
213
C.L.E. WITCOMBE, Raffaellino del Colle and Giulio Romano’s holy family with Saints in S. Maria
dell’Anima, cit. p. 55.
Entro il quarto decennio del Cinquecento deve essere collocato un altro significativo avvenimento della vita
di Raffaellino, per lui capitale quanto l’incontro con Giulio: l’incontro con Giorgio Vasari, avvenuto tra il
1530 e il 1537 (G. SAPORI, op. cit., p.178). 214
M. DROGHINI, Raffaellino del Colle, cit., p.29. 215
J. HUNTER, Girolamo Siciolante pittore da Sermoneta (1521-1575), Roma 1966, p.139.
7 ottobre 1565.‹‹Hieronymus pictor et Paulus de Rinaldis asserunt eumdem dominum JohannemPetri [da
Cordoba] bonum et excomputasse in picturam trium quadrorum per ipsum d. Hieronymus in ecclesia Sti.
Juliani factorum unius vide licet dive Vergines Mariae , alterius Sti. Andree et alterius Ste. Catherinae de
quibus quadric tribus et eorum pictura et mercede ac scutis triginta respective eorum pretio et valore […].
(J. HUNTER, op. cit., Cit., p.302).
54
mentre il braccio destro è sollevato, come per proteggerlo216
. Alla sua destra, San
Giovannino, nella cui mano destra il pittore ha messo un nastro che reca la scritta ECCE
AGNUS DEI217
. L’Apostolo Andrea viene raffigurato con il libro nella mano destra mentre
sostiene, nella sinistra, una croce. La Santa Caterina, dipinta con corona e orpelli preziosi
sulla veste, con la mano destra tiene la palma del martirio e con la sinistra si appoggia alla
ruota dentata. Come richiesto dal committente, la Madonna col Bambino e la collocazione
di san Giovannino corrispondono esattamente alle figura di Giulio Romano. Invece, il resto
del quadro è molto diverso dalla pala dell’Anima: Siciolante ha eliminato i tre santi (San
Giuseppe e i Santi Giacomo e Marco), i tre putti che sorreggono il verde tendaggio e gli
elementi architettonici che fungono da sfondo. Nella pala di Giulio Romano, la Madonna,
con la testa leggermente voltata verso San Giacomo, è installata su un improvvisato trono
cui si accede da alcuni gradini. Sebbene questo disegno si ritrovi nella Madonna col
Bambino e San Giovannino, Sant’Andrea e Santa Caterina d’Alessandria (fig. 53) di
Sermoneta, il trono e la Madonna sono posti in posizione frontale rispetto allo spettatore.
La caratteristica che più colpisce nello stile di Siciolante in questo periodo e che dimostra
come egli abbia saputo personalizzare le figure di Giulio Romano, è il modo particolare di
trattare i volti. I capelli lucidi e ondulati, le gote pesanti, il mento piccolo, le labbra
carnose, i grandi occhi un po’ sporgenti fanno della Madonna di Giulio una singolare
bellezza dal portamento regale. Le fattezze della Madonna di Siciolante sono più morbide e
meno pronunciate, e la sua Madonna, così come Sant’Andrea e Santa Caterina, sono figure
più comuni e, insieme, emotivamente più distaccate. La sorprendente semplicità della pala
di Siciolante esprime la forza e la potenza della sua arte218
.
Il gusto manieristico contenuto nella Pala Fugger, ha un seguito pronto e palese nell’opera
di un Anonimo che, nella chiesa dei Cappuccini di Frascati, ha riprodotto una copia della
tela commissionata a Giulio Romano dal banchiere tedesco Jakob Fugger. Nel suo Frascati
Civitas Tusculana, Giuseppe Toffanello parla del dipinto di Frascati come se si trattasse
dell’originale di Giulio:
Su un’amena, poetica altura posta al termine della via Guglielmo Massaia, sorge la chiesa
dei Cappuccini, costruita sugli avanzi di un’antica villa romana nel 1575. Nell’interno, ad
una sola navata, s’ammirano nobilissime pitture. La prima cappella, a destra di chi entra,
s’orna d’un quadro giudicato di salda bellezza, che rappresenta la Vergine col Bambino, e i
216
Il Rinascimento a Roma. Nel segno di Michelangelo e Raffaello, catalogo mostra a cura di Maria Grazia
Bernanrdini e Marco Bussagli, Roma, Fondazione Roma Museo Palazzo Sciarra (25 ottobre 2011-12
febbraio 2012), p.330. 217
Ivi. 218
J. HUNTER, Girolamo Siciolante pittore da Sermoneta (1521-1575), cit., p. 71.
55
Santi Anna, Giuseppe, Giovanni, Giacomo e Marco, dipinto da Giulio Romano, l’allievo
prediletto di Raffaello219
.
La copia cinquecentesca conservata nella chiesa dei Cappuccini, della quale si hanno
scarse notizie, offre fortunatamente una buona rappresentazione della composizione
originale della Pala Fugger (fig. 33), così come è stata disegnata da Giulio220
. ‹‹Anche se
trattati tanto crudelmente da non riuscire a cogliere il senso e lo spirito dell’originale, la
precisione dei dettagli della metà superiore della copia, se confrontata con il dipinto di
Santa Maria dell’Anima, è così completa da far sembrar lecito ritenere che anche la metà
inferiore ripete fedelmente il disegno di Giulio››221
. Osservando la copia, diventa possibile
determinare quella che era la qualità della parte inferiore, come già detto pesantemente
rimaneggiata nel corso dei restauri successivi; l’alterazione più evidente è nel leone alato
di San Marco, il quale è stato completamente riverniciato da Carlo Saraceni. Osservando il
leone della copia è possibile capire che cosa intendeva Vasari quando descriveva la bestia
come ‹‹avente ali corte sulle sue spalle, con piume tanto soffici e piumose››222
. Un esame
più approfondito della copia rivela che, nell’originale, la gamba sinistra di San Marco è
stata allungata e il suo piede ingrandito, così come è stato modificato il disegno dei
sandali. Analogamente, sono stati alterati la tunica del San Giacomo, la veste e i sandali
della Vergine223
. In un certo qual modo, la copia si pone come il filtro attraverso cui a noi
oggi è dato di guardare l’originale di Giulio Romano.
219
G. TOFFANELLO, Frascati Civitas Tusculana, in “Tuscolo”, 1958, cit., p.66. 220
C.L.E. WITCOMBE, Raffaellino del Colle and Giulio Romano’s holy family with Saints in S. Maria
dell’Anima, p.58. 221
Ibid., cit.,p.59. 222
Ivi. 223
Ivi.
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