L'uomo della folla. O del terrore dell'utopia

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3 LE FORME DEL DISCORSO Collana di testi e studi diretta da Rocco Pititto Comitato scientifico: Louis Begioni (Université de Lille 3) Francesco Bellino (Università di Bari “Aldo Moro”) Michael Herslund (University of Copenhagen) Fabrizio Lomonaco (Università di Napoli “Federico II”) Giovanni Semeraro (Universitade Federal Fluminense) Tutti i saggi pubblicati in questa collana vengono sottoposti a blind peer review Le parole della crisi PITITTO terza bozza.pdf 1 Le parole della crisi PITITTO terza bozza.pdf 1 06/09/2013 16:22:39 06/09/2013 16:22:39

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3 LE FORME DEL DISCORSO Collana di testi e studi diretta da Rocco Pititto

Comitato scientifico: Louis Begioni (Université de Lille 3) Francesco Bellino (Università di Bari “Aldo Moro”) Michael Herslund (University of Copenhagen) Fabrizio Lomonaco (Università di Napoli “Federico II”) Giovanni Semeraro (Universitade Federal Fluminense) Tutti i saggi pubblicati in questa collana vengono sottoposti a blind peer review

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Diogene Edizioni

Le Parole della Crisi

Etica della comunicazione, percorsi di riconoscimento, partecipazione politica

a cura di Alessandro Arienzo, Marco Castagna

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Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (Legge n. 633/1941: http://www.interlex.it/testi/l41_633.htm#1). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale soft-ware a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete internet sono riservati, anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, è am-messa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla Legge ed è soggetta all’autorizzazione scritta dell’Editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Diogene Edizioni - I 80038 Pomigliano d’Arco (NA) http://www.diogeneedizioni.it/ © 2012 by Diogene Edizioni Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Luglio 2013 ISBN 978-88-6647-0xx-x

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INDICE

Mario Rusciano Presentazione 7 Alessandro Arienzo, Marco Castagna La scelta critica: istruzioni per l’uso 11 Louis Begioni Les emprunts à l’anglais dans la terminologie de la crise: comparaison entre la langue française et la langue italienne

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Marco Castagna L’uomo della folla. Ovvero del terrore dell’utopia 33 Antonio Gentile Oltre il rumore e il silenzio: lo spazio abitato della convivenza politica 47 Rocco Pititto La compassione come fondamento etico della comunicazione 59 Simona Venezia I paradossi della condivisione: etica ed ermeneutica della comunicazione 77 Marica Spalletta Media digitali, “politica 2.0” e nuove forme della partecipazione: ha ancora senso parlare di giornalismo?

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Fabio Ciaramelli La servitù volontaria come paradosso della modernità 103 Ugo Maria Olivieri Un’amicizia “politica”. Étienne de la Boètie e Michel de Montaigne 117 Alessandro Arienzo Stato, sovranità, democrazia: note per un lessico della crisi 125 Giovanni Semeraro Crisi della partecipazione politica: ripensare la democrazia 139

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Gianfranco Borrelli Oltre il disastro delle politiche neoliberali e il fallimento del socialismo reale: autocritica e scarti della teoria democratica

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Giuseppe Antonio Di Marco Crisi, comunismo e dialettica in Karl Marx 173 Giulio Querques La pervasività comunicativa della semiosfera economica 199 Zhang Xiaoyong La Filosofia dell’Età della Crisi 209

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Marco Castagna L’uomo della folla. O del terrore dell’utopia.

Sospendere una volta per tutte il senso delle parole, ecco ciò che significa il Terrore

Jean-François Lyotard

«Oggi, chi apre un giornale si imbatte spesso nella parola ‘crisi’. Essa indica insicurezza, sofferenza e incertezza, e allude a un futuro ignoto i cui presupposti non si lasciano chiarire a sufficienza». Sprovvisti di alcun riferimento bibliografi-co, difficilmente dubiteremmo della collocazione di queste parole all’interno del dibattito contemporaneo intorno alle condizioni socio-economiche degli ultimi anni. Eppure, la frase è estratta da un intervento tenuto da Koselleck nel 1985 a Castel Gandolfo, in occasione di un incontro di storici ed intellettuali riuniti per discutere intorno al tema della “crisi”. E se l’analogia fra la percezione della si-tuazione odierna e quella di un trentennio fa non avesse nulla su cui farci riflette-re, sarà forse più interessante sapere che Koselleck aveva rintracciato la frase in un lessico francese del 1840, per poi commentare laconicamente, a sua volta, che «oggi le cose non stanno diversamente»1.

È lecito sospettare, dunque, che la straordinarietà della “crisi” non sia indivi-duabile nella rarità di un evento quanto, piuttosto, nelle conseguenze che ad esso seguono. Ancora nella prospettiva di Koselleck2, “crisi” è da intendersi, infatti, come una chiave d’accesso concettuale privilegiata per comprendere ogni pro-cesso di trasformazione, in cui la comprensione della situazione di partenza – e la conoscenza delle sue condizioni storico-universali – costituisce la premessa necessaria per poter formulare nuove ipotesi. D’altronde, già nella sua identità eti-mologica, il termine esclude ogni forma di passiva accettazione degli eventi, indi-cando una scelta che è sempre frutto di giudizio3; e come tale, essa riveste un va-

1 Gli interventi del simposio di Castel Gandolfo sono raccolti in K. Michalski (ed.), Über

die Krise: Castelgandolfo-Gespräche (1985), Klett Cotta, Stuttgart, 1986. L’intervento di Koselleck è stato poi ripreso in R. Koselleck, Begriffsgeschichten: Studien zur Semantik und Pragmatik der politi-schen und sozialen Spraken, Suhrkamp, Frankfurt a.m., 2006, pp. 203-217; trad. a cura di C. Sandrelli, Il vocabolario della modernità. Progresso, crisi, utopia e altre storie di concetti, Il Mulino, Bolo-gna, 2009.

2 Cfr. R. Koselleck, Krise, in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck (ed.), Geschichtliche Grundbegrffe. Historisches Lexicon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland (1972-1997), vol. 3, Klett-Cotta, Stuttgart, 1982, pp. 617-650; trad. a cura di G. Imbriano e S. Rodeschini, Crisi. Per un lessico della modernità, Ombre Corte, Verona, 2012.

3 Dal greco krísis, derivato dal verbo kríno, il termine rimanda al duplice significato di “se-parazione” e “scelta/decisione/giudizio”.

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lore fondamentale per la comunità chiamata ad interrogarsi sulla propria identità e a prendere posizione sulla propria progettualità.

A partire da tali presupposti, l’analisi proposta accoglie e cerca di rielaborare coerentemente sollecitazioni di natura diversa, valutando la possibilità di far e-mergere ermeneuticamente il senso della “crisi”, in particolare a partire dalla dia-lettica tra ideologia ed utopia. In questa stessa prospettiva, la “folla” e il “terro-re” presenti nel titolo non saranno da intendersi nel senso specialistico con cui essi partecipano del lessico della sociologia o delle dottrine politiche. Eppure, non di meno, sarebbe interessante se l’analisi proposta potesse suggerire allo spe-cialista un’ulteriore sollecitazione di riflessione intorno ai due termini.

Infine, L’uomo della folla rimanda al titolo di un celebre racconto di Edgar Al-lan Poe4 che sembra conoscere, recentemente, una maggiore diffusione tra gli addetti ai lavori delle scienze sociali, piuttosto che tra gli appassionati lettori dello scrittore statunitense. Così – allo stesso modo in cui le città di Calvino hanno progressivamente perso la propria solida invisibilità per diventare fragili modelli urbanistici – il racconto di Poe rischia di perdere la propria potente angoscia si-gnificante quando sia assunto come paradigma sociologico per l’età contempo-ranea5. Diversamente, riuscire a recuperare lo spirito più proprio del racconto costituirebbe un atto di giustizia nei confronti di Poe, ed al tempo stesso offri-rebbe la possibilità di comprendere meglio la dimensione esistenziale di ogni au-tentica “crisi”.

In una londinese sera autunnale, il protagonista del racconto è seduto nell’ampia terrazza a vetri del caffè D. Da questa posizione, scruta i numerosi passanti:

La maggior parte, e di gran lunga, di coloro che passavano, aveva un’aria soddi-sfatta, da gente pratica, e pareva non curarsi d’altro che di aprirsi una strada in

4 E.A. Poe, The man of the crowd, pubblicato simultaneamente in «Antinkson’s Casket» e

«Burton’s Gentleman Magazine», dec. 1840; trad. a cura di G. Manganelli, in E. A. Poe, I Rac-conti, Einaudi, Torino, 20093, pp. 210-217.

5 Tra il testo letterario e la sua lettura sociologica si estende un vasto spazio di traduzioni interpretative che nasce da quella lettura baudelaireiana che nel racconto di Poe aveva indivi-duato l’incarnazione paradigmatica del flâneur (Cfr. Ch. Baudelaire, Le peintre de la vie moderne, 1863, in Id., Oeuvres complètes, Éd. de la Pléiade, Paris, 1954, pp. 881-922; trad. a cura di G. Ra-boni in Ch. Baudelaire, Poesie e Prose, Mondadori, Milano, 1973, pp. 940-941), e per questo tramite arriva a Walter Benjamin (Cfr. W. Benjamin, Charles Baudelaire. Ein Lyriker irri Zeitalter des Hochkapitalismus, Frankfurt, 1969; ed. it. a cura di G. Agamben, B. Chitussi e C. C. Harle, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Neri Pozza, Vicenza, 2012; e Id., “Charles Baudelaire”, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1955; trad. a cura di R. Solmi, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1995, pp. 89-130) e giunge (mediato dalle analisi della psicoanalisi, della sociologia e della teoria della letteratura intorno al tema della folla) al pensiero sociologico dl XX secolo (Cfr. H. Neumeyer, Der Flâneur: Konzeption der Moderne, Verlag Königshausen & Neumann, Würzburg, 1999; Z. Bauman, Desert Spectacular, in K. Tester (ed), The Flâneur, Routledge, London, 1994, pp. 138-158; A. Gleber, Women on the Streets and Streets of Modernity: In Search of the Female Flâneur, in A. Dudley (ed.), The Image in Dispute: Art and Cinema in the Age of Photography, Texas UP, Austin, 1997, pp. 55-87).

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mezzo alla folla. Fronti aggrottate, occhi mobili, svelti, se qualche passante li ur-tava, senza dar segno d’impazienza si riaggiustavano i vestiti e procedevano sen-za indugio. Altri, anch’essi numerosi, avevano gesti smaniosi, volti congestionati, parlavano da soli, gesticolavano, quasi la stessa calca della folla li facesse sentire in solitudine. (…) Oltre quanto ho notato, non v’era altro di squisitamente specifico in queste due folte categorie6.

Eppure, subito dopo, il narratore inizia a descrivere e catalogare i passanti, sa

dire tutto di loro e, in particolare, riesce perfettamente a dedurre la loro posizio-ne sociale: c’è la “tribù impiegatizia”, in cui si distinguono i giovani impiegati ambiziosi (abiti attillati e labbra sprezzanti, «indossavano le grazie che la bella borghesia aveva appena smesso»7) e gli impiegati di concetto (giacche e pantaloni scuri, di buona fattura, cravatte e sciarpe candide; tendenti alla calvizie, l’o-recchio destro sporgente per l’abitudine ad appoggiarvici la penna). E poi, man mano che cala la notte, una lunga discesa sociale attraverso tagliaborse di classe, giocatori, rivenduglioli ebrei, donne di strada (di ogni sorta , di ogni età).

La classificazione si interrompe quando l’attenzione del narratore si focalizza sulla figura di un uomo sui sessantacinque, settant’anni, dall’espressione contra-stata: «se Retzsch8 l’avesse mai visto, l’avrebbe e di gran lunga preferito alle sue pittoriche incarnazioni del diavolo»9. È, dunque, alla figura del flâneur che il nar-ratore deve aver immediatamente pensato incontrando il vecchio se, quando questi si allontana, egli inizia a seguirlo in un’estenuante camminata che dura tut-ta la notte, ma durante la quale l’uomo – spostandosi da un luogo affollato all’al-tro – dimostra di essere incapace tanto di rimanere solo quanto di comunicare, rimanendo silenzioso anche di fronte allo sguardo diretto che, finalmente, il suo improvvisato pedinatore gli rivolge. Così, al mattino, ritrovandosi al punto di partenza, il narratore dovrà accettare l’inutilità del proprio gesto, ovvero il fallimento della propria suppo-sizione iniziale.

È chiaro, dunque, che se esiste un elemento di ambiguità, di inquietante sfuggevolezza nel racconto di Poe, questo non può essere rintracciato nel modo in cui egli ci mostra la folla. Lo scrittore, infatti, non solo la nomina (gli impiega-ti, i tagliaborse,…), ma la analizza, la classifica attraverso descrizioni così precise da renderci in grado di identificare immediatamente l’appartenenza sociale dei personaggi. E, tuttavia, il racconto è permeato da un più profondo senso di ango-scia attivato dalla cornice narrativa. Ovvero dall’incipit:

Di un certo libro tedesco, ben si è detto che “Es läßt sich nicht lesen”, non ac-consente a lasciarsi leggere. Vi sono segreti che non tollerano di lasciarsi dire. Uomini muoiono sui loro giacigli notturni, torcendo le mani di confessori spet-

6 E.A. Poe, The man of the crowd, cit., p. 211. 7 Ibid. 8 Poe fa riferimento ai dipinti del pittore tedesco Friedrich August Moritz Retzsch (1779-

1857). 9 E.A. Poe, The man of the crowd, cit., p. 214.

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trali e, fissandoli angosciosamente negli occhi, muoiono con la disperazione nel cuore, la gola strozzata, giacché si dànno misteri d’orrore che non tollerano di esser rivelati. Accade che la coscienza di un uomo prenda su di sé un fardello di infamia tale che non possa deporsi che nella tomba. E dunque la criminosa es-senza resta sigillata10.

E dalla conclusione:

E, quando presero a scendere le ombre della seconda sera, mi sentii affatto sfini-to e, fermandomi bruscamente davanti all’errabondo, lo fissai a lungo in volto. Non mi notò, ma continuò la sua camminata grave, mentre, rinunciando a se-guirlo, restavo immerso nella contemplazione. Questo vecchio, – dissi alla fine, – è il tipo, il genio dell’infamia occulta. Rifiuta di restare solo. È l’uomo della folla. È vano tenergli dietro; nulla apprenderò di lui, e delle sue imprese. Il più tristo cuore che ci sia al mondo è un libro più voluminoso dell’Hortulus Animae, ed è forse grazia non piccola di Dio che “es läßt sich nicht lesen” (non acconsente a lasciarsi leggere)11.

Pur senza alcuna pretesa critica, il lettore dell’opera di Poe potrà facilmente

osservare che, benché L’uomo della folla non rientri nel novero dei racconti esem-plari della poetica dello scrittore, tuttavia in esso è già presente – si noti che lo scritto è di poco precedente all’inizio delle avventure di Dupin – un “perturban-te” senso dell’orrore (si leggano il «fardello d’infamia», la «criminosa essenza», l’«infamia occulta»), attraverso il quale il testo riesce tanto a sottrarsi all’impiego didascalico, quanto a mettere in scena il vissuto dialettico della crisi.

1. L’invenzione del quotidiano

Senza immaginazione, la paura non esiste

Arthur Conan Doyle

Perché si possa introdurre correttamente la dialettica ideologia\utopia, è ne-cessario essere d’accordo che, a dispetto di ogni manifesto (o meno) realismo, la realtà è una costruzione sociale. L’affermazione riceve il suo senso più pieno in qua-dro storico-concettuale tanto ampio quanto complesso; sarà sufficiente, tuttavia, assumere sinteticamente che la cosiddetta “svolta linguistica”, che ha caratteriz-zato la cultura del secolo scorso, ruota principalmente intorno al rapporto tra narrazione ed azione, ovvero intorno allo sforzo interpretativo messo in atto dal soggetto per giungere a dare un senso alla realtà12.

10 Ivi, p. 210. 11 Ivi, p. 217. 12 Si tratta, ovviamente, di un tema troppo ampio perché se ne possa tracciare qui una an-

che minima cartografia che tenga conto di autori, opere, questioni e metodi. Il presente inter-vento è debitore delle letture delle opere di Jerome Bruner e Paul Ricœur per la riflessione

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In termini filosofici, si tratta di collocarsi in una precisa prospettiva nei con-fronti della questione della rappresentazione13: il soggetto è visto non come un passivo ricettore di informazioni, ma come colui che seleziona attivamente i dati esperienziali al fine di formulare ipotesi di senso. Da questo punto di vista, sono fondamentali l’origine pragmatica della conoscenza e la sua trasmissibilità stori-co-culturale.

Quanto all’aspetto conoscitivo, secondo le indicazioni del pragmatismo logi-co e della semiotica interpretativa, il nostro rapporto con la realtà è di natura ipo-tetico-abduttiva: se osservo un melo carico di frutti, ed allo stesso tempo, per terra, una mela con caratteristiche (fisiche o percettive) che la rendano simile alla mele presenti sull’albero, sarò indotto ad ipotizzare che quella mela sia caduta da quel-l’albero. In questo modo avrò ottenuto un nuovo dato (quella mela proviene da quell’albero), e ampliato la mia conoscenza, sebbene in un grado di probabilità e non di certezza: non posso essere sicuro, infatti, che la mela non provenga da un altro albero e che sia giunta lì spinta da un forte vento o per l’oscura intenzione di qualcuno che mi sia in qualche modo nemico e tenti di ingannarmi(!).

In più, il dato conoscitivo così ottenuto apre numerosi interrogativi – in cui si declina per lo più la questione del Sapere: come si “conserva” la conoscenza, in modo che possa essere successivamente trasmessa ad altri o possa essere utile in risposta ad un’ipotesi nascente da una nuova esperienza? Come si può proce-dere all’analisi del processo che porta a tale comportamento razionale?

La molteplicità delle nostre esperienze si offre, infatti, a processi inferenziali molto più complessi di quello proposto nell’esempio della mela. Ed è a questo punto che, attraverso la narrazione, il linguaggio si offre come strumento in gra-do di registrare e semplificare tale complessità.

La narrazione, infatti, esprime l’universale tendenza a comunicare i significati che coglia-mo nell’esperienza umana, ovvero a mettere in relazione il passato con il presente, a proiettare il presente nel futuro, a rappresentare gli individui come soggettività dotate di obiettivi, valori e legami. Essa costituisce una risposta ad un bisogno fondamentale dell’essere umano: il bisogno di basare le proprie interazioni con la realtà, sia quella fisica che quella sociale, sulla regolarità degli eventi, sulla loro sulla narratività, di Charles S. Peirce e Umberto Eco per il quadro gnoseologico, di Michel De Certeau e John R. Searle per l’analisi delle dinamiche sociali narrativamente costruite. Di o-gnuno di questi autori si riporta in bibliografia almeno un’opera di riferimento.

13 La principale conseguenza ontologica della scoperta freudiana dell’inconscio è che la ca-tegoria di rappresentazione non riproduce, a un livello secondario, una pienezza anteriore, che si potrebbe afferrare pure in modo diretto; piuttosto, la rappresentazione si impone come li-vello assolutamente primario di costituzione dell’obiettività. Ecco perché non esiste significa-zione che non sia sovradeterminata sin dall’inizio (la jouissance è possibile solo attraverso l’inve-stimento radicale in un petit objet a, ovvero il petit objet a diventa la categoria ontologica prima-ria). Nei termini della filosofia politica, ciò significa che nessuna pienezza sociale è possibile se non attraverso l’egemonia. E l’egemonia altro non è che l’investimento, in un oggetto parziale, di una pienezza sempre sfuggente perché puramente mitica. (Cfr. E. Laclau, On Populist Reason, Verso, London, 2005; trad. a cura di D. Ferrante, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 109).

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prevedibilità e coerenza; ovvero il bisogno di avere interazioni non caotiche, di ricondurre l’esperienza individuale a sistemi di significato validi per interpretare la realtà ed allo stesso tempo socialmente condivisibili.

In questo senso, venendo incontro alle esigenze metodologiche delle diverse discipline coinvolte, possiamo affermare che se la natura del conoscere non è in sé ideologica, lo è tuttavia la sua storicizzazione discorsiva. In altri termini, la struttura inferenziale del ragionamento è ovviamente in sé neutra (se l’albero al-lora la mela), ma lavora a partire da elementi storicamente determinati. Perciò, di fatto, la conoscenza si presenta come ideologica: qualsiasi scienziato, infatti, non solo può operare esclusivamente a partire da conoscenze pregresse, ma queste sono sempre orientate dalla comunità di appartenenza (di fatto il cancro è un problema della comunità umana e nessuno conduce o finanzia ricerche su feno-meni che sarebbero considerati malattie solo per un’ipotetica struttura molecola-re aliena).

In sintesi, possiamo dire che, nel tentativo di ridurre al minimo lo sforzo conoscitivo (inferenza e memoria) e di assicurare la corretta socializzazione del significato di un’esperienza, tendiamo ad usare la narrazione per organizzare storicamente e normativamente la realtà in un ordine ideologicamente sensato.

A tale riguardo, è utile richiamare il concetto (sviluppato dalla psicologia co-gnitiva ma ormai in uso nel lessico di diverse discipline) di script14. Lo script è il copione, la sceneggiatura di situazioni abituali in cui una serie di azioni vengono compiute in funzione di uno scopo, con un ordine prevedibile o, in contesto spazio-temporale specifico, da soggetti che svolgono ruoli prestabiliti”15.

I copioni non sono racconti ma contesti ripetitivi; il concetto di script, dun-que, esprime bene il carattere routinario delle narrazioni. Tutta l’attività umana in quanto ordine culturale si stabilisce, infatti, in base alla consuetudinarietà, ossia a-zioni ripetute che si sono cristallizzate in schemi: ogni azione che venga ripetuta frequentemente viene cristallizzata secondo uno schema fisso. La routine com-porta, infatti, il grande vantaggio di ridurre le scelte. Non sfugge al carattere rou-tinario dello script neanche l’istituzione. L’istituzionalizzazione ha luogo dovun-que vi sia una tipizzazione reciproca di azioni consuetudinarie da parte di gruppi esecutori: ogni simile tipizzazione è un’istituzione. In tal modo, le istituzioni liberano gli individui dal dover decidere su tutto. Collocando gli avvenimenti in un’unità logico-temporale coerente, la narrazione offre un ordine all’esperienza biografica individuale, alla Storia collettiva e legittima l’ordine istituzionale.

È, dunque, a partire dal carattere routinario dell’istituzione che trae origine tanto il fenomeno ideologico quanto la sua messa in crisi utopica. I processi di conservazione dell’ordine culturale, infatti, sono possibili tramite i processi di

14 Cfr. R.C. Schank, R.P. Abelson, Scripts, Plans, Goals, and Understanding: An Inquiry finto Human Knowledge Structures, L. Erlbaum, Hillsdale, NJ, 1977.

15 Acquistare un giornale in edicola, prendere il tram, andare al ristorante sono “copioni” per l’adulto. Andare in macchina all’asilo o fare colazione al mattino sono copioni per un bambino. Alcune situazioni possono essere copioni per qualcuno ed eccezionali per altri: fare la glicemia o iniettarsi una sostanza sono un copione per il paziente diabetico, eccezionali per altri.

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legittimazione (tra cui rivestono particolare importanza le forme del discorso), in cui l’identità individuale, fondamentalmente precaria, riceve una certa coerenza e stabilità. Legittimità e trasmissibilità (sedimentazione e tradizione) sono i due ca-ratteri fondamentali dell’ideologia.

Come oggettivazione culturale, la legittimazione ha un elemento cognitivo ed uno normativo, e produce nuovi significati che servono ad integrare i significati già attribuiti ai diversi processi istituzionali. La funzione della legittimazione è di rendere oggettivamente accessibili e soggettivamente plausibili le oggettivazioni di primo grado che sono state istituzionalizzate.

Ovunque vi sia un’azione reciproca tipizzata siamo in presenza di un’istitu-zione. Dalla loro legittimità, ossia dal fatto che esistano strutture ideologiche ca-paci di giustificarle, dipende la durata e la forza delle istituzioni. L’istituziona-lizzazione, comunque, non è un processo irreversibile, nonostante il fatto che le istituzioni, una volta formate, abbiano la tendenza a durare a lungo. Per tutta una serie di ragioni storiche, la portata delle azioni istituzionalizzate può diminuire; in certe zone della vita sociale allora può avvenire una de-istituzionalizzazione: il caso in cui una società si trovi di fronte a un’altra, che ha una storia e una cultura molto differente o, più in generale, la comparsa di un universo simbolico diverso dal nostro, ne minacciano l’esistenza, dimostrando che il nostro non è l’unico universo possibile.

2. Essere Altrove

Se volete non aver paura di nulla, dovete credere che tutto possa farvi paura

Lucio Anneo Seneca

1841. Una notte. In un appartamento al quarto piano di un vecchio stabile della Rue Morgue, l’anziana M.me L’Espanaye e sua figlia Camille vengono or-rendamente assassinate. La porta e le finestre dell’appartamento sono chiuse dall’interno. Apprese dalla Gazette le difficoltà incontrate dalla polizia nella riso-luzione del caso, un amico del prefetto di Parigi chiede di poter prendere parte alle indagini. Si tratta di Auguste Dupin, l’investigatore de I delitti della Rue Morgue, con cui Poe dà inizio al genere letterario del giallo.

Accompagnato da un giovane amico (che è anche il narratore delle indagini), Dupin si reca sul luogo del delitto. Alla stranezza della camera chiusa dall’interno si aggiunge quella delle testimonianze dei vicini, che hanno udito provenire dall’appartamento le voci di un litigio:

Risposi osservando che, mentre tutti i testimoni andavano d’accordo nel ritenere la voce grossa per quella di un francese, sulla voce acuta vi era molto disaccordo. «Codeste sono le deposizioni», riprese Dupin, «ma non già la peculiarità delle deposizioni. Non avete notato nulla di singolare. Eppure vi era qualcosa da os-servare. Tutti i testi, come avete rilevato, erano d’accordo sulla voce grossa. Ma a riguardo della voce acuta, la cosa singolare consiste non già nel loro disaccordo,

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ma nel fatto che nel provarsi a descriverla, un italiano, un inglese, uno spagnolo, un olandese, ne parlano come della voce di uno straniero. [...] Come dunque do-veva essere singolarmente insolita quella voce per poter dare origine a testimo-nianze di tal genere, nella cui intonazione persino i soggetti delle cinque grandi na-zioni dell’Europa non avevano potuto riconoscere nulla che fosse loro familiare! Direte che poteva essere la voce di un asiatico o di un africano. Né gli asiatici né gli africani abbondano a Parigi, ma, senza negare la possibilità del caso, richiame-rò semplicemente la vostra attenzione su tre punti. Un teste dice che la voce era “piuttosto aspra che acuta”. Due altri dicono che era “rapida e a scatti”. Non pa-role, non suoni che somigliassero a parole, sono stati distinti da alcuni testimo-ni»16.

Tutte le testimonianze convengono che le voci che litigavano erano maschili.

Non erano dunque le voci delle due vittime. Tutte le testimonianze cercano di ri-condurre la voce stridula a espressione di una lingua umana. Ma nessun testimo-ne, malgrado l’ampiezza di competenze linguistiche, la riconosce. A questo pun-to Dupin è già preparato a pensare che l’attore principale sulla scena del delitto non avesse voce umana. Dupin, d’altro canto, è convinto che l’assassino sia fuggito dalle finestre sul retro dell’appartamento, benché chiuse dall’interno. L’inve-stigatore, infatti, ha trovato un chiodo spezzato che a prima vista sembra intatto e una molla che chiude con un automatismo il telaio della finestra. All’apparenza sembra impossibile che l’assassino sia passato proprio di lì: la finestra si affaccia su un baratro di parecchi metri e, inoltre, la parete sotto la finestra è completa-mente liscia. Dupin nota, però, che a circa due metri dalla finestra c’è un para-fulmine e che le imposte del quarto piano sono fatte in modo da offrire alle mani un appiglio molto comodo: un essere dotato di forza, di agilità e di coraggio straordinari e quasi sovrumani può aver compiuto un balzo dal cavo sino alla fi-nestra, usando la persiana di legno come appoggio. Sul focolare, inoltre, c’erano delle grosse ciocche di capelli grigi, strappati con una tale forza da aver lasciato intatte le radici ed aver asportato intere parti di cuoio capelluto; la stessa forza, infine, dev’essere stata necessaria a “staccare” la testa della donna dal corpo, non essendoci alcun taglio da lama sul collo.

Così, tutto quadra, se, con Dupin, abbandoniamo la ricerca di un assassino “umano” e rivolgiamo la nostra attenzione ad un incidente che ha come prota-gonisti un orango del Borneo e il suo malcapitato padrone che – ma per questo particolare bisognerà leggere le pagine di Poe – non può che essere un marinaio di una nave maltese.

La dinamica su cui si fonda il genere letterario del “giallo” sembra essere pa-radigmatica17 del modo in cui organizziamo narrativamente la nostra esperienza. Quando parliamo (o ascoltiamo) non compiamo mai un semplice scambio in-

16 E.A. Poe, The Murders in the Rue Morgue, Graham’s Magazine, April, 1841; trad. a cura di

G. Manganelli, Gli omicidi della Rue Morgue, in E.A. Poe, I Racconti, cit., pp. 233-234. 17 Cfr. almeno C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in A. Gargani (ed), Crisi

della ragione, Einaudi, Torino, 1979, pp. 57-106; U. Eco, T. Sebeok, (edd.), Il segno dei tre, Bom-piani, Milano, 1983.

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formazionale: la nostra attività discorsiva è fondata piuttosto sul nostro accettare un complesso sistema di regole e di presupposizioni, e sul farvi o meno affida-mento18. È su questa possibilità che si fonda il genio investigativo. Dupin risolve i propri casi assumendo pienamente la dialettica tra conservazione e innovazione che caratterizza l’atto della scelta: proprio perché conosce bene tutti gli schemi routinari (dalle abitudini delle vittime alle lingue parlate dai testimoni) può indi-viduare l’elemento di novità che necessita di una nuova ipotesi.

È così che la prospettiva narrativa può recuperare l’ideologia ad una funzione sociale ben più radicale di quella della semplice distorsione del senso. Come “si-stemi di idee”, le ideologie possono essere socio-cognitivamente definite come rappresentazioni condivise di gruppi sociali, e, più specificamente, come i princi-pi “assiomatici” di tali rappresentazioni19. Come fondamento della rappresenta-zione di sé di un gruppo sociale, le ideologie ne organizzano l’identità, le azioni, gli obiettivi, le norme e i valori, e le risorse, nonché i rapporti con altri gruppi so-ciali. Come fondamenta socio-cognitive dei gruppi, le ideologie sono gradual-mente acquisite e (talvolta) cambiate durante la vita o un periodo di vita, e per-tanto necessitano di essere relativamente stabili. Non si diventa pacifista, femmi-nista, razzista o socialista, nel corso di una notte, né si cambia il proprio punto di vista ideologico in pochi giorni. Solitamente, per acquisire o modificare le ideo-logie si rendono necessari molti discorsi e molte esperienze. Ma è vero anche il contrario: se le ideologie possono essere gradualmente sviluppate da (membri di) un gruppo, esse possono anche essere gradualmente disintegrate, ad esempio, quando i membri non credono più in una causa e “abbandonano” il gruppo o quando le rivendicazioni sono state accolte, o hanno trovato altre condizioni so-ciali e politiche20. Perciò: le ideologie nascono, muoiono, si trasformano.

In un ciclo di lezioni tenute per l’università di Chicago nel 1975 e dedicate al rapporto tra ideologia e utopia, Paul Ricœur individua il principale momento di critica dell’ideologia nella ricezione del pensiero di Karl Marx21. Ricœur sottoli-

18 Le regole che seguiamo sono segnate da una profonda linea di demarcazione: vi sono

regole (e significati) che seguiamo ciecamente, per abitudine, ma delle quali, riflettendo, pos-siamo almeno in parte renderci consapevoli; vi sono poi regole che seguiamo inconsapevol-mente (come le proibizioni inconsce); infine, vi sono regole e significati di cui siamo consape-voli, ma di cui dobbiamo mostrare di non esserlo (si tratta di tutte quelle allusioni oscene sulle quali si soprassiede in silenzio per sostenere le “apparenze”).

19 Si noti che la natura organizzata delle ideologie non ne determina la necessità di una co-erenza interna.

20 Cfr. T.F. Corran, Soldiers of Peace. Civil War Pacifism and the Postwar Radical Peace Movement, Fordham UP, New York, 2003; A. Oberschall, Social Movements. Ideologies, Interesas, and Identities, Transaction, New Brunswick, NI, 1993; J. Van der Pligt, Nuclear Energy and the Public, Black-well, Oxford, 1992.

21 Cfr. P. Ricœur, Lectures on Ideology and Utopia, Columbia UP, New York, 1986; trad. a cura di G. Grampa, Conferenze su ideologia e utopia, Jaca Book, Milano, 1994, pp. 29-118. I testi delle conferenze sono stati poi sintetizzati e rivisti per un’ulteriore raccolta di saggi (Cfr. P. Ricœur, Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Le Seuil, Paris, 1986; trad. a cura di G. Grampa, 1989, Dal testo all’azione, Jaca Book, Milano, pp. 271-392). Entrambe le opere devono essere inquadrate in relazione ad un quadro di ricerca più ampio intorno al rapporto tra rap-

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nea come negli scritti del giovane Marx (in particolare nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e ne L’Ideologia Tedesca), l’ideologia non sia opposta alla scienza quanto alla realtà intesa come praxis: l’ideologia sarebbe, perciò, uno strumento che oscura il processo della vita reale: è solo nel successivo sviluppo in termini sistematici del marxismo a partire dalle pagine del Capitale che l’ideologia viene opposta alla scienza: l’ideologia diventa, perciò, tutto ciò che è prescientifico nel nostro approccio alla realtà sociale. A questo punto – sottolinea Ricœur – il con-cetto di ideologia fagocita quello di utopia: tutte le utopie sono considerate dal marxismo come ideologie. Non si tratta, dunque, di negare ogni legittimità al concetto marxiano di ideologia, quanto quello di ricondurlo ad alcune delle me-no negative funzioni dell’ideologia. Dobbiamo ricomprendere il concetto di ide-ologia come distorsione entro una struttura che riconosca l’organizzazione sim-bolica della vita sociale. Se la vita sociale non ha una struttura simbolica diventa impossibile capire come viviamo, facciamo delle cose, e proiettiamo queste atti-vità in idee, diventa impossibile capire come la realtà possa diventare un’idea o come la vita reale possa produrre illusioni; questi sarebbero solo eventi mistici e incomprensibili22. L’ideologia vive, perciò il paradosso di queste due funzioni: il ruolo assolutamente primitivo di integrazione di una comunità e il ruolo di di-storsione del pensiero in forza di un interesse. Ciò che spesso viene ingiustamen-te sottovalutato nell’analisi del discorso ideologico è il momento conoscitivo de-strutturante che, per noi, coincide con il momento dell’utopia. In questa prospet-tiva, infatti, l’utopia è un non-luogo, l’Altrove, un luogo di “contaminazioni flut-tuanti” in cui possiamo distanziarci dall’immaginario comunemente accettato ed eventualmente trasformarlo. In altre parole, l’utopia è il pensare altrimenti che regola l’istituzionalizzazione e la deistituzionalizzazione ideologica. E, perciò, l’u-topia è la crisi.

presentazione e azione (Cfr. P. Ricœur, La sémantique de l’action. Ière partie: Le discours de l’action, Editions du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris, 1977; trad. a cura di A. Pieretti, La semantica dell’azione, Jaca Book, Milano, 1986) che condurrà, nel decennio successi-vo, allo sviluppo dell’originale modello ermeneutico ricœuriano.

22 Tale struttura simbolica può essere pervertita, appunto, dagli interessi di classe così co-me ha mostrato Marx, ma se non vi fosse una funzione simbolica già operante sarebbe impos-sibile capire come la realtà possa produrre ombre di questo tipo. Ricœur – come Žižek più tardi e a partire da altri presupposti – riprende la distinzione ideologia\praxis sottolineandone la connessione piuttosto che l’opposizione: è tale connessione che precede la distorsione dell’ideologia. Si tratta, chiaramente di porre il processo di interpretazione come costitutivo della praxis stessa. L’ipotesi – che Ricœur leggeva nell’opera di Clifford Geertz (The Interpreta-tion of Cultures, Basic Books, New York, 1973; trad. a cura di E. Bona, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1987) – è che dove esistono esseri umani, un mondo non simbolico di esistenza, anzi un tipo di azione non simbolica, non può durare.

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3. Orrore o Terrore?

La più antica e potente emozione umana è la paura, e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto

Howard Phillips Lovecraft

Se la vita è un giallo, non tutti siamo Auguste Dupin. E una testa staccata in un appartamento chiuso dall’interno può rimanere un evento inquietante.

Il senso delle nostre esistenze è storico-narrativo; il carattere ipotetico della nostra conoscenza lo rende instabile, costantemente rinegoziabile; gli apparati ideologici che orientano i nostri discorsi si fondano su di una routine che può più o meno velocemente dissolversi. Da un lato, tutto ciò costituisce – positiva-mente – l’aspetto dinamico di ogni identità; dall’altro, tale dinamismo comporta momenti critici con cui ci si confronta raramente con serenità:

Sento sgretolarsi il terreno sotto il mio pensiero e sono portato a considerare i termini che adopero senza l’appoggio del loro senso intrinseco, del loro substra-tum personale. Meglio ancora, il punto che sembra collegare questo substratum alla mia vita mi diventa di colpo stranamente sensibile e virtuale23.

Nel lessico psicoanalitico, questa complessa situazione di destabilizzazione

del quadro simbolico è espressa da due concetti strettamente correlati: il pertur-bante e l’angoscia.

Un’approfondita analisi del primo termine è notoriamente offerta nel celebre articolo Das Unheimlich24, in cui Freud analizza il termine in contrapposizione al positivo heimlich (ovvero familiare, fidato, intimo, appartenente alla casa, da heim = casa). Il perturbante, ciò che porta angoscia, è un non-familiare, qualcosa che ap-partiene o assomiglia al nostro ambiente domestico ma che in realtà cela in sé un che di straniero, sconosciuto, enigmatico. Il perturbante sorge di fronte ad un’incertezza intellettuale, vale a dire che è quel particolare in più che stona nel quadro generale.

Così, se il genio di Dupin è nel saper cogliere il perturbante nella scena di un crimine («Non avete notato nulla di singolare. Eppure vi era qualcosa da osserva-re»), quello di Poe è di averlo teorizzato ne L’uomo della folla, ponendo il letterario germe di quella che, negli scritti successivi, si definirà come una più compiuta poetica dell’orrore. Come il vecchio del racconto, il perturbante è ciò che non si lascia leggere, che nell’incontro vis-à-vis rimane in silenzio, che fuori dalla narra-zione collettiva non ha nulla da dire. Questo è l’aspetto angoscioso del pertur-bante, il momento traumatico in cui si prende contatto con il «fardello d’infa-

23 A. Artaud, 1926, Fragments d’un Journal d’Enfer, in Id., Œuvres completes, vol. 1, t. 1, Galli-

mard, Paris, 1975, pp. 133-44; trad. a cura di C. Rugafiori, Frammenti di un Diario d’inferno, in A. Artaud, Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano, 1966, pp. 58-59.

24 S. Freud, Das Unheimliche, 1919, in Ders Studienausgabe, Bd. IV. Psychologische Schriften, Fi-scher, Frankfurt am Main, 1982, pp. 241-274, trad. a cura di C.L. Musatti, Il perturbante, in Ope-re, vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, pp. 77-118.

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mia», con il vuoto su cui si fonda ogni nostra consuetudine familiare, ovvero il momento in cui è messo in questione ogni tipo di reificazione ideologica: la «cri-minosa essenza» di ogni istituzione .

La teoria della letteratura registra due modi principali di reagire al perturban-te: l’orrore e il terrore25.

Il primo è il rifiuto annichilente dell’illeggibile fondo oscuro della realtà, l’inafferrabile assenza di senso che può condurre alla follia (Lovecraft). L’evento che crea orrore è un evento che contraddice le leggi del nostro mondo e che o non trova posto nell’ordine simbolico del personaggio. Il secondo è la crisi che conduce alla creazione di un nuovo quadro simbolico (Poe). L’evento che crea terrore è un evento che o non contraddice le leggi del nostro mondo, condivise dal personaggio, oppure, anche se le contraddice, rientra nelle leggi di un mondo altro comunque condiviso dal personaggio. Il personaggio prova terrore, ma rea-gisce nel momento in cui incasella l’evento in uno schema che accresce il suo campo simbolico, viene acquisito e superato: l’incontro con l’altro diventa esperienza.

In questo secondo senso, secondo Lacan, l’Angoscia è l’affetto legato alla messa in crisi dell’ordine simbolico. L’istituzione di un ordine simbolico – a cui Lacan dà nome di “grande Altro” e che può essere personificato o reificato nel Dio che, dall’aldilà, veglia su di me e su tutti gli individui reali, o anche l’Ideale in cui credo (la Libertà, il Comunismo, la Nazione) – che avvolga e regoli il deside-rio è indispensabile all’espressione ed alla stessa sopravvivenza del soggetto: solo in questo modo riusciamo a rapportarci all’irriducibile estraneità del reale, che in se stessa resterebbe priva di senso26. È per questo motivo, infatti, che negare la presenza del grande Altro, in nome della Ragione o della Tecnica, ha conseguen-ze catastrofiche: il disintegrarsi dell’apparenza (di libertà) che è propria dell’or-dine sociale, il che equivale al disintegrarsi della sostanza sociale stessa, la disso-luzione, insomma, del nesso sociale. Lo stato di angoscia diffusa nella nostra cul-tura è, dunque, lo stadio della ricerca di un orizzonte di senso possibile27. Ed è

25 Cfr. R. Runcini, La Paura e l’Immaginario Sociale nella Letteratura. I. Il Gothic Romance, Liguo-

ri, Napoli, 1984. 26 Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre X. L’Angoisse, (1962-1963), Seuil, Paris, 2004; trad. a cu-

ra di A. Succetti, Il Seminario. Libro X. L’Angoscia (1962-1963), Einaudi, Torino, 2007. 27 Nella prospettiva indicata finora, si comprende meglio l’analisi condotta da Agamben a

proposito del fenomeno di desoggettivizzazione messo in opera dal capitalismo contempora-neo. Ridotti a puri corpi, gli individui iniziano a mostrare una certa insofferenza ed inquietudi-ne. Agamben richiama l’attenzione sul fatto che l’inoffensivo cittadino desoggettivato delle democrazie postindustriali – che non si oppone in alcun modo ai dispositivi egemonici, ma piuttosto esegue premurosamente tutti i loro ordini ed è dunque controllato da questi fin nei minimi dettagli della sua vita – è considerato – forse proprio per questo – dal potere come un terrorista virtuale: «Agli occhi dell’autorità – e forse essa ha ragione – nulla assomiglia al terro-rista come l’uomo ordinario» (Cfr. G. Agamben, Cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma, 2006, pp. 33-34). Il punto non è che questa persona costituisca una minaccia alla macchina di gover-no resistendole attivamente; è proprio invece la sua passività a sospendere l’efficienza perfor-mativa dei dispositivi e a far “girare a vuoto” la macchina, trasformandola in un’autoparodia che non serve a nulla. Questa totale naturalizzazione (o autocancellazione) dell’ideologia ci costringe a una triste ma inevitabile conclusione riguardo alla dinamica sociale globale contem-

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da questo orizzonte che la Crisi riceve il suo senso più profondo. “Crisi”28 è una chiave d’accesso concettuale privilegiata per comprendere

ogni processo di trasformazione relativo tanto all’esperienza dei tempi storici quanto all’organizzazione dello spazio politico. Chateaubriand, nel Saggio sulle ri-voluzioni29, individuava la crisi come il punto d’incrocio tra la situazione attuale e le sue condizioni storico-universali, la cui conoscenza è la premessa necessaria per poter formulare nuove ipotesi. L’espressione indica, dunque, un atto di tra-sformazione che è sempre frutto di una scelta. Ed è nei termini della scelta che la crisi entra in rapporto diretto con “utopia” e riveste un valore fondamentale per la comunità30. La dimensione utopica è infatti il modo in cui la storia guarda al futuro: «la sfida di riorganizzare la società costringe tutti a prendere posizione in un modo o nell’altro su possibili forme organizzative future»31.

Così, in conclusione, il nucleo problematico di ogni momento “critico” sem-bra non risiedere nella destabilizzazione dell’ordine quotidiano, della routine isti-tuzionale, quanto piuttosto nella capacità di saper scegliere per il futuro.

Nel suo Cos’è la libertà? Hannah Arendt afferma che essa si manifesta nella capacità di cominciare qualcosa di nuovo che non si può prevedere né predire. La scelta veramente libera è quella in cui io non scelgo solo tra due o più opzioni entro una serie di coordinate precostituite, ma scelgo di cambiare questa stessa serie di coordinate32. Ciò significa che la “libertà reale” consiste proprio nella ca-pacità di “trascendere” le coordinate di una situazione data, di porre i presuppo-sti della propria attività, cioè di ridefinire la situazione stessa entro la quale ci si

poranea: oggi è il capitalismo che è propriamente rivoluzionario (Cfr. S. Žižek, The Sublime Object of Ideology, Routledge, London, 1989; Id., The Plague of Fantasies, Verso, London, 1997; trad. parziale a cura di M. Senaldi, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma, 2004).

28 Nell’antichità greca, krisis possedeva significati delimitabili in maniera relativamente chiara in ambito giuridico, medico e teologico. È sulla base medica che, a partire dalla fine del XVII secolo il termine subisce un’estensione metaforica alla politica, all’economia ed alla sto-ria. Verso la fine del XVIII secolo, il concetto torna a caricarsi di valenza teologica secolariz-zata in un’aspettativa di Giudizio Universale. L’appartenenza ad un discorso piuttosto che ad un altro ne segna la valenza nella durata e negli effetti (continuativa piuttosto che ricorsiva, esistenziale piuttosto che economica).

29 Cfr. F.R. De Chateaubriand, Essai historique, politique et moral sur les révolutions anciennes et modernes considérées dans leurs rapports avec la Révolution Française [An Historical, Political and Moral Essay on Revolutions, ancient and modern], Londra, 1797, trad. a cura di E. Pasini, Saggio sulle rivolu-zioni, Medusa, Milano, 2006.

30 Cfr. R. Koselleck, Krise, cit., pp. 32-34. 31 Ivi, p. 13. 32 Cfr. H. Arendt, Between Past and Future. Six Exercises in Political Thought, The Viking Press,

New York, 1961; trad. a cura di T. Gargiulo, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 1999. È in questo senso che il filosofo sloveno Slavoj Žižek (Die Revolution Steht Bevor. Dreizhen Versuche Zu Lenin, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2002; trad. parziale a cura di F. Rahola, Tredici volte Lenin. Per sovvertire il fallimento del presente, Feltrinelli, Milano, 2003) reintroduce la distinzio-ne leninista tra libertà “formale” e libertà “reale”: la prima è la libertà di scelta all’interno delle coordinate dei rapporti di potere esistenti, mentre la seconda designa un intervento che mina alle basi queste stesse coordinate: non si tratta di limitare la libertà di scelta, bensì di conserva-re la scelta fondamentale.

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trova ad agire. In termini narrativi, questa scelta critica si realizza attraverso l’elaborazione di

nuove strutture e strategie discorsive, e si comprende un discorso solo se è in grado di costruire per esso un modello. Nei romanzi gialli, questo è il compito dell’investigatore, nelle nostre società è il ruolo dell’intellettuale. Quanto all’o-dierna classe intellettuale, il vero problema non è, dunque, nella sua assenza, quan-to nel suo fallimento. Complice il non aver resistito ad una progressiva privatiz-zazione del general intellect, l’intellettuale contemporaneo gioca ad assumere un ruolo che non è il proprio, ovvero quello dell’esperto e dell’analista, adeguando il proprio lessico a quello dell’ideologia predominante. All’intellettuale spetterebbe, invece, il compito di fornire l’orizzonte utopico in grado di riorganizzare “altri-menti” gli eventi.

In fin dei conti, la scelta è ancora una volta se essere degli isterici che chiedo-no un nuovo padrone, o se iniziare a prendere sul serio una semplice domanda: Che fare?

*** Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del su-

peramento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpe-ro, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumi-smo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giu-stizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.

Ecco in base a quale giudizio il movimento operaio può far sua la bandiera dell’austerità.

L’austerità è per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l’andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. Così concepita l’austerità diventa armata di lotta moderna e aggiornata sia contro i difensori dell’ordine economico e so-ciale esistente, sia contro coloro che la considerano come l’unica sistemazione possibile di una società destinata a rimanere arretrata, sottosviluppata e, per giun-ta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.

E. Berlinguer, Austerità occasione per trasformare l’Italia. Le conclusioni al convegno

degli intellettuali (Roma 15-1-77) e alla assemblea degli operai comunisti (Milano, 30-1-77), Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 13-14.

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