Stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra? Per una museologia della Shoah

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Stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra? Per una museologia della Shoah di paolo coen, con appendici di chiara strangis e di alessandra carelli Abitavo a Kyriat Novel, un quartiere separato dalla collina del Museo Yad Vashem so- lo da un avvallamento. Era mia abitudine allontanarmi da casa e giocare, da solo. Mi piaceva molto, ero un bambino che preferiva starsene per conto proprio. Un giorno notai che su di una collina di fronte alla nostra, proprio quella di Yad Va- shem, c’era un’attività febbrile: un sacco di autocarri stavano trasportando tonnellate di pietre, sabbia e cemento. Dopo due o tre giorni portai mio padre a vedere i lavori in corso e gli chiesi: «Cosa stanno facendo?». Mi rispose: «Beh, stanno costruendo qualcosa...». Continuai: «Cos’è questo qualcosa?», perché con la sensibilità tipica dei bambini per- cepii un tono inusuale, una sfumatura nella voce di mio padre, che disse: «È una spe- cie di museo». Non sono sicuro se sapessi allora cosa fosse un museo, ma probabilmente mio padre me lo spiegò. Così domandai ancora: «Beh, che tipo di museo: un museo d’arte, di dipinti, di sculture?». E mio padre, in modo molto amaro e ironico: «No, è un mu- seo per il genere umano». Chiesi ancora cosa volesse dire, e lui rispose: «È un museo consacrato a quello che gli uomini sono capaci di fare». E non aggiunse altro 1 . L’idea di un museo della Shoah in qualche modo nacque già durante la secon- da guerra mondiale. Com’è infatti noto, la memorialistica dell’Olocausto, cioè la volontà di conservare e di trasmettere ai posteri le prove della deporta- zione e del massacro degli Ebrei – prove che, com’è anche qui noto, i nazisti fecero di tutto per cancellare – rappresenta un fenomeno estremamente pre- coce 2 . Ma è naturalmente solo a valle del 1945 che iniziano a pensarsi ed a co- struirsi musei propriamente detti, aperti al pubblico e destinati principalmen- 1. d. grossman, La memoria della Shoah. Intervista di Matteo Bellinelli, Casagrande, Bel- linzona 2000, pp. 16-17. 2. Per un moderno giro d’orizzonte sui principali diaristi, memorialisti e archivisti dell’Olo- causto, corredato da opportuna bibliografia, cfr. Holocaust chronicles: individualizing the Holo- caust through diaries and other personal accounts, a cura di R.M. Shapiro, Hoboken, ktav, 1999; d. stone, History, memory and mass atrocity. Essays on the Holocaust and Genocide, Vallentine Mitchell, London-Portland 2006, in particolare p. 167, nota 9.

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Stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra?Per una museologia della Shoah

di paolo coen, con appendici di chiara strangis

e di alessandra carelli

Abitavo a Kyriat Novel, un quartiere separato dalla collina del Museo Yad Vashem so-lo da un avvallamento.Era mia abitudine allontanarmi da casa e giocare, da solo. Mi piaceva molto, ero unbambino che preferiva starsene per conto proprio.Un giorno notai che su di una collina di fronte alla nostra, proprio quella di Yad Va-shem, c’era un’attività febbrile: un sacco di autocarri stavano trasportando tonnellatedi pietre, sabbia e cemento. Dopo due o tre giorni portai mio padre a vedere i lavoriin corso e gli chiesi: «Cosa stanno facendo?».Mi rispose: «Beh, stanno costruendo qualcosa...».Continuai: «Cos’è questo qualcosa?», perché con la sensibilità tipica dei bambini per-cepii un tono inusuale, una sfumatura nella voce di mio padre, che disse: «È una spe-cie di museo».Non sono sicuro se sapessi allora cosa fosse un museo, ma probabilmente mio padreme lo spiegò. Così domandai ancora: «Beh, che tipo di museo: un museo d’arte, didipinti, di sculture?». E mio padre, in modo molto amaro e ironico: «No, è un mu-seo per il genere umano». Chiesi ancora cosa volesse dire, e lui rispose: «È un museoconsacrato a quello che gli uomini sono capaci di fare». E non aggiunse altro1.

L’idea di un museo della Shoah in qualche modo nacque già durante la secon-da guerra mondiale. Com’è infatti noto, la memorialistica dell’Olocausto,cioè la volontà di conservare e di trasmettere ai posteri le prove della deporta-zione e del massacro degli Ebrei – prove che, com’è anche qui noto, i nazistifecero di tutto per cancellare – rappresenta un fenomeno estremamente pre-coce2. Ma è naturalmente solo a valle del 1945 che iniziano a pensarsi ed a co-struirsi musei propriamente detti, aperti al pubblico e destinati principalmen-

1. d. grossman, La memoria della Shoah. Intervista di Matteo Bellinelli, Casagrande, Bel-linzona 2000, pp. 16-17.

2. Per un moderno giro d’orizzonte sui principali diaristi, memorialisti e archivisti dell’Olo-causto, corredato da opportuna bibliografia, cfr. Holocaust chronicles: individualizing the Holo-caust through diaries and other personal accounts, a cura di R.M. Shapiro, Hoboken, ktav, 1999;d. stone, History, memory and mass atrocity. Essays on the Holocaust and Genocide, VallentineMitchell, London-Portland 2006, in particolare p. 167, nota 9.

te a studiare e diffondere la memoria della Shoah attraverso la conservazionedi testimonianze materiali e immateriali. Questi musei seguono in genere duelinee. Da un lato in un buon numero di città europee – da Venezia a Fran-coforte, da Ferrara a Varsavia – si assiste alla costituzione di strutture volte anarrare la storia delle rispettive comunità ebraiche nel corso dei secoli: al lorointerno un ampio spazio di norma è riservato, appunto, agli anni Trenta eQuaranta del ventesimo secolo, gli anni della presa di potere nazi-fascista, deiprovvedimenti antisemiti e dello sterminio. D’altro canto un fenomeno di-verso e parallelo contraddistingue alcuni i luoghi dove lo sterminio era statomaterialmente compiuto. Pochi e determinati campi vengono cioè organizza-ti secondo percorsi in grado di spiegare ai visitatori quel che era successo inquel luogo, talora attraverso il riutilizzo e la modifica di edifici originali, ta-laltra costruendone nuovi. Su questa base ha origine la configurazione dei mu-sei di Bergen Belsen, Madjanek e Mauthausen, come pure del Museo Nazio-nale di Osvieçim, in Polonia, che ingloba i resti di Auschwitz-Birkenau e cheper molti aspetti rappresenta l’esempio più evoluto di questi «santuari dellamemoria»3.

A queste due concezioni sfugge un solo museo, la cui eccezionalità di-pende – val la pena ripeterlo – dall’essere stato costruito a poca distanza dal1945 per documentare specificamente la Shoah in un sito diverso e lontanodai campi di sterminio. Questo museo è naturalmente l’Autorità Memoria-le per la Shoah e l’Eroismo, meglio noto come Yad Vashem, a Gerusalem-

3. Com’è noto, la stessa individuazione dei luoghi dello sterminio presentò – e ancora in par-te presenta – diversi problemi, in qualche misura connessi alla loro occupazione da parte di trup-pe sovietiche, che dopo la guerra continuò a lungo a riutilizzarne le strutture. Anche da qui haorigine la cosiddetta «archeologia della Shoah», che volta appunto a individuare ed a restituirefondamenta storiche a luoghi e realtà in buona misura cancellati dagli eventi successivi, si è re-centemente applicata con successo ai campi di Ravensbrück e di Oranienburg-Sachsenhausen,nella regione del Brandeburgo. Per questi problemi – peraltro sottolineati sia da Claude Lanz-mann nella preparazione del film-documentario Shoah, sia da Martin Gilbert nella prefazioneal suo The Holocaust. The Jewish tragedy, Collins, London 1986 – e, più in generale, sulla mu-sealizzazione dei campi di sterminio cfr. Spostamenti di popolazione e deportazione in Europa1935-1945, Cappelli, Bologna 1987; Holocaust. Die Grenzen des Verstehens. Eine Debatte überdie Besetzung der Geschicthe, a cura di H. Loewy, Rowohlt 1992; b. ladd, The ghosts of Berlin.Confronting German history in the urban landscape, Chicago University Press, Chicago 1997;Das Gedächtnis der Dinge: KZ-Relikte und kz-Denkmäler 1945-1995, a cura di D. Hoffmann,Frankfurt am Main, Campus 1998; p. dogliani, Tra guerre e pace. Memorie e rappresentazio-ni di conflitti e dell’Olocausto nell’Occidente contemporaneo, Unicopli, Milano 2001 («Mappe del-l’immaginario», 4), in particolare pp. 215-218; h. marcuse, Legacies of Dachau: the uses andabuses of concentration camp 1933-2001, Cambridge University Press, Cambridge 2001. Unquadro vivido degli odierni «santuari della memoria», tracciato durante una visita realizzata in-sieme a un gruppo di studenti è offerto dallo stesso Gilbert in Holocaust Journey. Travelling insearch of the past, Columbia University Press, New York 1997.

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me4. Yad Vashem fu infatti pensato all’indomani della guerra d’indipenden-za d’Israele del 1948 ed istituito cinque anni più tardi attraverso una leggeapposita: nell’occasione la Knesset, il Parlamento Israeliano, gli destinò duecolline, fra cui l’Har Hazzikaron, il monte del Ricordo. Il nome deriva dallibro di Isaia: «E darò loro una casa e all’interno delle sue mura un memo-riale (...) un nome destinato a durare in eterno [uno yad vashem] che maipotrà essere dimenticato»5. La sua missione presenta delle significative sfac-cettature: essa risiede infatti nel commemorare i sei milioni di ebrei uccisidai nazisti e dai loro alleati, le comunità ebraiche annientate nel tentativo disradicare la cultura ebraica, come pure nell’esaltare il coraggio degli ebrei checombatterono per libertà e dei Giusti fra le Nazioni (Righteous among the Na-tions), ossia di quanti, sebbene non ebrei, rischiarono e alle volte anche per-sero la vita anche per salvarne uno solo dall’Olocausto. Improntato fin dal-l’origine alla poetica del never ending tale – o, per meglio dire, come un rac-conto storico che ogni generazione ha il diritto-dovere di rileggere e di ri-scrivere – Yad Vashem si presenta agli occhi del visitatore e dello studiosocome un’opera museografica e museologica di estensione e complessità ri-marchevoli. Fra gli architetti responsabili delle varie sezioni spiccano i no-mi degli israeliani Lippa Yahalom e Dan Tsur, autori nel 1992 della valle del-le Comunità Distrutte – che a sua volta incorpora il centro di documenta-zione e ricerca Beit Hakehilot, o casa delle Comunità – e quello, ancor piùnoto, dell’ebreo canadese Moshe Safdie: i progetti di Safdie includono ilMemoriale dei bambini, gli edifici nella zona d’ingresso e d’accoglienza, il

4. e. fischer, Labirinti della memoria: opere dal 1946 al 1989, Istituto Italiano di Cultura,Tel Aviv 1990; t. segev, Le septième million. Les Israéliens et le Génocide, Liana Levi, Paris 1993;m. penkower, The Holocaust and Israel reborn: from catastrophe to sovereignity, The Universityof Illinois Press, Urbana 1994; j. taylor baumel, «In everlasting memory»: individual andcommunal Holocaust commemoration in Israel, in The shaping of a Israeli identity. Memory andtrauma, a cura di R. Wistrich, D. Ohana,Frank Cass, London 1995, pp. 146-170; y. jusid-

man, Un-ending Yad-Vashem: some notes toward an aesthetics of monuments and memorials, in«Art criticism», 12, 1997, pp. 48-56; Yad Vashem: the Holocaust Martys’s and Heroes’ Memorialand Remembrance Authority in Jerusalem, in Encyclopedia of Genocide, a cura di I.W. Charny, 2voll., Abc-Clio, Santa Barbara-Denver-Oxford 1999, ii, pp. 630; e. sivan, Private pain andpublic remembrance in Israel, in War and remembrance in the twentieth century, a cura di J. Win-ter, E. Sivan, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 177-204; m. hass, Gestalte-tes Gedanken: Yad Vashem, das u.s. Holocaust Memorial Museum und die Stiftung Topographie desTerrors, Campus, Frankfurt am Main 2002; To bear witness: Holocaust Remembrance at Yad Va-shem, a cura di B. Gutterman, A. Shalev, Yad Vashem, Jerusalem 2005; n. goldman, IsraeliHolocaust memorial strategies at yad Vashem: from silence to recognition, in «The Art journal», lxv,2006, pp. 102-122; Yad Vashem: Moshe Safdie, the architecture of memory, a cura di D. Murphy,Lars Muller, Baden 2006.

5. Isaia, lvi, 5.

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monumento al Vagone Ferroviario e, ultimo arrivato, il lungo braccio delMuseo Storico dell’Olocausto.

Benché largamente noto ed apprezzato anche all’estero, il modello Yad Va-shem sarebbe restato a lungo privo di seguito. Fuori da Israele per circa qua-rant’anni i musei della Shoah avrebbero continuato idealmente a rimanereconfinati entro il filo spinato dei campi di sterminio, estranei alla vita quoti-diana dei cittadini. La situazione muta clamorosamente dallo scadere degli an-ni Ottanta. E, attenzione, muta nel giro di pochi mesi, come se qualcuno pre-ma un interruttore e accenda una lampadina. È infatti da allora, a cavallo frail nono e l’ultimo decennio, che in alcuni centri simbolo della civiltà occiden-tale – Washington, Los Angeles, New York, Berlino e Londra – si dà inizio alprogetto e alla costruzione di strutture espositive che per contenuti e funzionisi ispirano e in qualche caso anche dipendono proprio da Yad Vashem. Nelbreve giro di una decina d’anni ecco perciò creata una nuova classe di musei,le cui dimensioni sembrano destinate ad allargarsi6. Talora si tratta di grandi

6. Come si è già fatto con Yad Vashem, si è qui deciso di citare entro note specifiche la bi-bliografia sui singoli musei della Shoah. Quanto invece al tema generale cfr. The impact of theHolocaust in contemporary world, in Remembering for the future, 3 voll., Oxford, 1989, ii, 1989;s. milton, The memorialization of the Holocaust: museums, memorials and centers, in Genoci-de. A critical bibliographic review, a cura di I.W. Charny, Mansell-Facts on file, London-NewYork 1991, pp. 299-320; s. milton - i. nowinski, In fitting memory. The art and politics ofthe Holocaust memorials, Wayne State University Press - Judah L. Magnes Museum, Detroit-Berkeley 1991; j.e. young, The texture of memory. Holocaust memorials and meaning, Yale Uni-versity Press, New Haven et alii 1993; i. buruma, The wages of guilt: memories of war in Ger-many and Japan, Farrar, Straus, Giroux, New York 1994; d. la capra, Representing the Holo-caust: history, theory, trauma, Cornell University Press, Ithaca 1994; Der politische Totenkult:Kriegerdenkmäler in der Moderne, a cura di R. Koselleck-M. Jeismann, Fink, München 1994;h. kaplan, Conscience and memory: meditations in a museum of the holocaust, University of Chi-cago, Chicago 1994; Memorial museum to the victims of the Nazi regime: a comprehensive guide,a cura di T. Lutz, Berlin 1995; k. klemmer, Jüdische Baumeister in Deutschland. Architekturvon der Shoah, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1998; s. milton, Museums and memorialsof genocide, in Encyclopedia of genocide, cit., ii, pp. 423-427; n. palmer, Museums and the Ho-locaust: law, principles and practice, Institute of Art and Law, London 2000; b. lang, Holo-caust representations: art within the limits of history and ethics, Baltimore et alii, The JohnHopkins University Press, 2000; j.y. young, At memory’s edge: after-images of the Holocaust incontemporary art and architecture, Yale University Press, New Haven et alii 2000; j. held, Jü-dische Kunst im 20. Jahrhundert und die Konzeptionen der Museen: zur Einführung, in JüdischeKunst im 20. Jahrhundert und die Konzeptionen der Museen, a cura di J. Held, Universitätsver-lag Osnabrück, Osnabrück 2004, pp. 9-17; s. offe, Was (nicht) zu sehen ist: über jüdische Mu-seen in Deutschland heute, ivi, pp. 19-36; c.c. schütz, Von Berlin nach Tel Aviv: der Leben-sweg des Museumsdirektor Karl Scwartz, ivi, pp. 65-77; d. stone, op. cit., in particolare il ca-pitolo Holocaust Memory, Memorials and Museums, pp. 148-173, a sua volta corredato da unanutrita bibliografia; j. derrida, Adesso l’archiettura, a cura di F. Vitale, Scheiwiller, Milano2008; Visualizing the Holocaust. Documents, aesthetics, memory, a cura di D. Bathrick - B. Pra-ger - M.D. Richardson, Rochester et alii, Camden House, 2008; Spirit of the place. From

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sezioni espositive aperte in strutture già esistenti – la più impegnativa è di cer-to la Holocaust permanent exhibition all’interno dell’Imperial War Museumdi Londra7 – più spesso di edifici del tutto nuovi. L’altezza dei valori civili, eti-ci ed istituzionali; le risorse finanziarie messe in campo nella realizzazione, intaluni casi molto cospicue; la vivacità del dibattito culturale e politico, pun-tualmente restituito da quotidiani, riviste e televisioni; l’impatto sull’architet-tura e sull’urbanistica di alcune città-chiave di Medio Oriente, Europa e StatiUniti; la qualità obiettivamente notevole dei risultati scientifici ed artistici; in-fine, l’eccezionale e per certi versi inaspettata affluenza del pubblico: tuttoquesto contribuisce a rendere i musei della Shoah fra le realtà più vive e dina-miche della recente storia del Museo. La prossima apertura a New York e a Ge-rusalemme di altri due Museum of Tolerance – nel secondo caso in base a unospettacolare progetto di Frank O’Gehry – che si aggiungeranno a quello giàesistente a Los Angeles rappresenta in tale direzione un’ulteriore conferma.

Il saggio affronterà i musei della Shoah con un duplice obiettivo. Il primoconsiste nel definire le caratteristiche della classe partendo dall’analisi di alcu-ni degli esempi più rimarchevoli e cercando di mettere in rilievo le linee di con-tinuità e discontinuità riscontrabili di volta in volta; il secondo obiettivo nel-l’individuare se non tutte almeno alcune delle ragioni storiche, sociali e poli-tiche che ne hanno determinato l’improvvisa fioritura, a così tanti anni di di-stanza dai fatti.

All’inizio vi erano fede – che è puerile; fiducia – che èvana; e illusione – che è pericolosa.

Elie Wiesel8

I musei della Shoah contengono in primo luogo materiale vecchio o antico,che in taluni casi può precedere di alcuni secoli la seconda guerra mondiale.Spesso gli oggetti di età più veneranda – per esempi libri e arredi liturgici – ser-vono a illustrare gli usi, i costumi e la sedimentazione in Europa del popolo

Mauthausen to MoMa, a cura di P. György, Central European University Press, Budapest 2008.Presso la pagina telematica www.science.co.il/holocaust-museums.asp può reperirsi un elencoaggiornato dei musei dell’Olocausto, senza la distinzione preliminare attuata in questo saggio.

7. The Holocaust. The Holocaust exhibition at Imperial War Museum London, testo a cura di S.Paulsson, The Imperial War Museum, London 2000.

8. e. wiesel, Preface to the new translation, in id., Night, Penguin, London 2006, p. x. Inquesto modo aveva inizio il manoscritto originale di La notte, il principale romanzo di Elie Wie-sel, nel 1952 tagliato insieme a diversi altri brani da Jerôme Lindon, allora direttore delle Édi-tions de Minuit. La traduzione è di chi scrive.

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ebraico successivamente alla Diaspora. In altre circostanze, al contrario, la pre-senza di oggetti antichi documenta i rapporti fra Ebrei e non Ebrei e, più neldettaglio, la diffusione dell’antisemitismo nella storia occidentale: rientra nelgenere una xilografia del tardo quindicesimo secolo dove gli Ebrei – sotto for-ma di Sinagoga – sono paragonati a Satana, esposta nel percorso di visita del-la Holocaust Exhibition dell’Imperial War Museum di Londra. Com’è d’altron-de lecito attendersi, considerato il taglio particolare di questi musei, il nume-ro maggiore di testimonianze ricade fra gli anni trenta e gli anni quaranta delNovecento, ossia documenta le fasi della discriminazione e della Shoah. Glioggetti sono di norma selezionati in base a un bipolarismo abbastanza ben de-finito: da un lato ecco perciò i documenti volti a testimoniare la vita e le sof-ferenze degli Ebrei; dall’altro i documenti che, anche qui esattamente al con-trario, provano l’esistenza e l’attività dei carnefici, ossia bandiere con la svasti-ca, copie del Mein Kampf o dei Protocolli dei savi di Sion, uniformi brune, or-dini di trasmissione di convogli. È invece assai più raro che i musei della Shoahconcedano molto spazio allo sterminio di altre minoranze o della popolazionecivile, una decisione che – come vedremo oltre – ha dato suscitato polemiche.Da quest’impostazione si stacca il Museum of Tolerance di Los Angeles, inau-gurato nel 19939. Pochi istituti possono vantare un legame altrettanto solidoe tangibile con la tradizione ebraica e con i sei milioni vittime dell’Olocausto:alla sua origine vi sono infatti la biblioteca e l’archivio del Simon WiesenthalCenter, vale a dire il centro di ricerca messo in piedi dal più accreditato «cac-ciatore di nazisti» del dopoguerra. Nelle intenzioni di Wiesenthal l’esperienzadella Shoah, ancor più che strumento per rivendicare la specificità della soffe-renza ebraica, diviene però un monito per agire concretamente nel presente enel futuro: ancor meglio, per lanciare alle vecchie e nuove generazioni un mes-saggio di pacificazione, rispetto e convivenza civile. Si spiega in questo modol’inclusione nel percorso di visita di altri gruppi sociali, di altre etnie, di altre«minoranze» oggetto della discriminazione e dello sterminio nazisti, dai mi-norati fisici e psichici agli zingari, dagli omosessuali ai testimoni di Jeovah; co-me pure la proiezione di quest’esperienza sui conflitti etnici e religiosi del pre-sente, dal Rwanda alle bande metropolitane di Los Angeles e di Detroit.

In talune circostanze chi visita i musei della Shoah si trova dinanzi a og-getti di dimensioni piccole o addirittura minuscole, come spille, anelli e altritipi di gioie; in altre, viceversa, di cose grandi, capaci di porre serie difficoltàlogistiche al momento del trasporto e, una volta installate, di catalizzare inte-re sezioni del percorso. Questo genere di contrasti appare particolarmente

9. Beit hashoah: Museum of Tolerance. Simon Wiesenthal center, Simon Wiesenthal Center, LosAngeles 1993. 31 b 285

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chiaro nello United States Holocaust Museum and Memorial, progettato dal-l’architetto ebreo di origine tedesca James Ingo Freed ed aperto ufficialmenteil 26 aprile nel 1993 lungo il Washington’s Mall, la zona più rappresentativadella capitale degli Stati Uniti10. Freed e gli altri responsabili – una squadra distorici, museologi ed esperti di didattica e psicologia infantile – hanno dato vi-ta a un percorso particolarmente vario sul piano della tipologia e delle dimen-sioni: a vetrine che custodiscono minuscole spille con la croce uncinata si al-ternano per esempio a uno dei battelli impiegati per salvare un cospicuo nu-mero di ebrei danesi e ad un’intera sezione del muro del ghetto di Varsavia,smontata e successivamente rimontata pietra su pietra. Fra questi due estremisi collocano le centinaia di scarpe, valigie ed altri effetti personali appartenen-ti ai condannati, a seconda dei casi distribuiti sul pavimento o ammassati finoa costituire piccole montagne.

Presenza fissa di ogni museo risultano i documenti che certificano l’esi-stenza delle vittime – e dunque passaporti, salvacondotti e carte d’identità – einfine le lettere. Nuovamente a Washington, un reperto di rara efficacia è lamissiva originale in cui un ebreo svizzero annuncia di aver cambiato idea e per-ciò di voler rientrare negli Stati Uniti, dove aveva appena tenuto un ciclo diconferenze, anziché far ritorno nella Germania nazista, secondo i suoi pianiiniziali: il suo nome era Albert Einstein e questa decisione probabilmente glisalvò la vita. Una funzione di rilievo è svolta dalla cosiddetta «arte dell’Olo-

10. Sul museo di Washington esiste una nutrita bibliografia, vuoi specifica, vuoi di caratteregenerale. Oltre ai testi menzionati nelle note precedenti cfr. h. muschamp, Shaping a monu-ment to memory, in «The New York Times», 11 aprile 1993; m. kimmelman, Making art of theHolocaust: new museum, new works, ivi, 23 aprile 1993; j.i. freed, The Holocaust MemorialMuseum, in «Partisan Review», 61, 1994, pp. 448-456; m. berenbaum, The world must know:a history of the Holocaust as told in the United States Holocaust Memorial Museum, ed. delle fo-tografie A. Kramer, Little, Brown and Co.,Boston 1993; m.a. drew, u.s. Holocaust Museum:annotated bibliography, United States Holocaust Museum, Washington 1994; j. weinberg -

r. elieli, The Holocaust Museum in Washington, Rizzoli International, New York 1995; a.

dannatt, James Ingo Freed: United States Holocaust Museum, Washington dc 1993, in Twen-tieth Century Museums, introduzione di J.S. Russell, Phaidon, London 1999, pp. 63-91; m.

berenbaum, Unitetd States Holocaust Memorial Museum, in Encyclopedia of genocide, cit., ii,pp. 589-596; n. miller, Building the unbuildable: the U.S. Holocaust Memorial Museum, in Me-mory and oblivion, atti del convegno (Amsterdam, 1996), a cura di W. Reinink, J. Stumpel,Dordrecht et alii, Kluwer 1999, pp. 1091-1101; e.t. linenthal, Preserving memory: the strug-gle to create America’s Holocaust museum, Columbia University Press, New York 20012; m. ba-

nerjee, Beredtes Schweigen: die Aporie des Traumatischen in Toni Morrisons Beloved und der Ar-chitektur des Holocaust Memorial Museum in Washington d.c., Akademie der Wissenschaftenund der Literatur - Franz Steiner, Mainz-Stuttgart 2002; m. hass, op. cit.; k. pieper, DieMusalisierung des Holocaust: das Jüdische Museum Berlin und das U.S. Holocaust Memorial Mu-seum in Washington d.c., Bohlau, Köln 2006; m. berenbaum, The world must know: the hi-story f the Holocaust as told by the United States Holocaust Memorial Museum, ed. consultata Wa-shington, United States Holocaust Memorial Museum, 2006.

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causto», cioè dalle opere – per lo più disegni o dipinti – realizzate dai prigio-nieri durante gli anni dell’internamento e perciò quasi sempre in condizioni diestrema difficoltà. La sezione di Washington punta soprattutto sull’arte infan-tile, in virtù del ricco nucleo proveniente da Theresienstadt. Il centro di granlunga più articolato si trova comunque a Yad Vashem, con un’intera ala espo-sitiva dedicata a questo tema specifico, ossia il Museum of Holocaust Art11.

In un qualsiasi museo della Shoah si verifica un uso particolarmente am-pio di riproduzioni fotografiche e filmate risalenti all’epoca degli avvenimen-ti. Alcune di queste riproduzioni vengono apprezzate in termini estetici e per-ciò si guadagnano un posto vicino ai disegni e alle pitture nelle sezioni dedi-cate appunto all’«arte dell’Olocausto». Molto più spesso, in ogni modo, neviene sfruttato il potenziale storico e documentario, particolarmente efficaceper rendere ancor più viva la testimonianza dei luoghi, delle persone e dei fat-ti. A Washington la testimonianza della comunità yiddish di Eishishov, al con-fine tra Russia e Romania, passa interamente attraverso l’obiettivo fotografi-co. Il visitatore, o «destinatario»12, che nel percorso procede dall’alto verso ilbasso, s’imbatte inizialmente in una prima stanza: le pareti sono interamentericoperte da immagini in bianco e nero che ritraggono gli abitanti nel villag-gio a cavallo fra diciannovesimo e ventesimo secolo, ritratti in posa all’internodelle case o al lavoro. Una comunità pacifica e fiorente, dove alcune migliaiadi ebrei prosperano grazie all’impegno nelle rispettive attività. Già allora, vol-gendo gli occhi verso il pavimento, il visitatore comprende l’esistenza di un li-vello inferiore, che non è tuttavia accessibile direttamente, per esempio attra-verso una scala. Solo dopo aver attraversato altri spazi – cioè altre esperienze –e sceso un piano in direzione dell’inferno egli può ritornare nello stesso luogo,qualche metro più sotto, e capire cosa è successo: in due soli giorni, il 25 e il26 settembre del 1941, la comunità ebraica di Eishishov subì il totale annien-tamento, certificato anche qui dall’obiettivo del fotografo. Ovunque si fa inol-tre perno sulle foto e ancor più sui documentari girati dagli Anglo-americaninel 1945, subito dopo la liberazione dei campi di sterminio, compreso quelloche testimonia la ricognizione effettuata insieme ad altri membri dello StatoMaggiore americano dal generale Dwight D. Eisenhower, all’epoca Coman-dante in capo delle truppe alleate e futuro presidente degli Stati Uniti. Allostesso modo si cerca di rendere palpabile la violenza della propaganda nazistariproponendo frammenti di cinegiornali d’epoca che trasmisero alcuni discor-si antisemiti di Adolf Hitler e, in casi più sporadici, di Benito Mussolini. Un

11. Cfr. To bear witness..., cit., pp. 296-301.

12. Accetto qui volentieri il distinguo fra «visitatori» e «destinatari» proposto da j. derrida,Adesso l’architettura, Milano, Libri Scheiwiller, p. 264.

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numero estremamente ristretto di istantanee si distinguono infine per la capa-cità di tenere uniti i due valori, l’estetico e il documentario. Questo discorsoper esempio vale per quel celebre scatto che riproduce due soldati tedeschi du-rante un’operazione di ronda contro gli Ebrei, uno dei quali, appartenente al-le ss, tiene al guinzaglio un cane feroce. O anche per quello, se possibile an-cor più celebre, che ritrae un bambino ebreo polacco che attende in fila il suodestino nello sgombero del ghetto di Varsavia, le mani alzate e gli occhi pienidi sgomento. Nel corso del tempo queste immagini sono assurte al valore diicone, di sintesi visive di un intero periodo storico: come tali, esse possono rin-tracciarsi in ogni museo della Shoah, talora moltiplicate nel numero o nelle di-mensioni.

Nulla perciò di anomalo che alla base di ogni percorso esista un’accurataricerca iconografica, quasi sempre condotta facendo leva sull’esperienza e lacollaborazione di altri istituti. Il più generoso in tal senso è senza dubbio YadVashem, che, fin dall’origine associato ad un centro di ricerca e documenta-zione visivi, costituisce anche sotto questo profilo un ganglio imprescindibile.Largamente debitore verso Gerusalemme è per esempio il Museum und Denk-mal fur ermordeten Juden Europas – letteralmente il Museo e Memoriale de-gli Ebrei assassinati d’Europa, come sarà citato d’ora in poi – costruito nel pie-no centro di Berlino su disegno di Peter Eisenman tra il 2003 e il 2005, al ter-mine di un lungo processo che aveva avuto inizio alla fine degli anni Ottan-ta13. Questo legame ovviamente non emerge dal grande campo delle steli visi-bile in superficie – l’elemento di più alta connotazione formale e di gran lun-ga più noto al pubblico – quanto piuttosto nel centro documentazione fede-rale collocato sotto al livello terreno, i cui contenuti appunto dipendono qua-si per intero dagli archivi annessi al museo israeliano.

I musei della Shoah contengono anche una certa quantità di materialecontemporaneo, ossia realizzato fra il secondo dopoguerra fino al presente. Uncerto peso hanno le riproduzioni, le copie da oggetti d’epoca. A Washingtonil percorso di visita ne include una, fedele anche nelle dimensioni, dall’inse-gna in ferro battuto posta all’ingresso del campo di Auschwitz-Birkenau. «Ar-

13. p. ciorra, Peter Eisenman: opere e progetti, ed. consultata Electa, Milano 1997; p. eisen-

man, Notations of affect: architecture of memory, in Pathos, Affekt, Gefühl..., cit., pp. 504-511;Materialen zum Denkmal die ermordeten Juden Europas, Nikolai, Berlin 2005; p. davey, Fieldof memory, in «The architectural review», 218, 2005, pp. 80-83; g. schweppenhäuser, Wasbedeutet «Aufarbeitung der Vergangenheit» in der bildenden Kunst heute? Zu Peter Eisenmans Ber-liner Ästhetik des Erhabenen, in Geschichte und bildende Kunst, a cura di M. Zuckerman, Wall-stein, Göttingen 2006, pp. 330-354; f. dal co, Peter Eisenman: memoriale per gli ebrei assas-sinati a Berlino, in Estudios de historia del arte en honor de Tomàs Llorens, a cura di P. Alarcò, Ma-chado, Madrid 2007, pp. 249-253; c. lamberti - f. gavazzi, Architettura e memoria dellaShoah: l’opera di Peter Eisenman a Berlino, in «Bollettino ingegneri», 56, 2008, pp. 3-14.

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beit macht frei», «Il lavoro rende liberi», «Il lavoro rende l’uomo libero»: il vi-sitatore ha dunque modo di apprezzare nel suo contesto questo motto, tantocelebre quanto ingannevole per i milioni che a suo tempo ebbero la ventura dileggerlo. In altre occasioni la riproduzione può essere a scala ridotta, fatto cheovviamente permette di proporre allo spettatore oggetti, edifici o interi pae-saggi. La tecnica viene per esempio utilizzata a Londra per documentare l’ar-rivo di un gruppo di ebrei ungheresi ad Auschwitz, nell’inverno del 1942, aGerusalemme e a Washington il funzionamento della macchina della mortemessa a punto sempre ad Auschwitz-Birkenau, cioè il complesso spogliatoi,camera a gas, ascensori e forni per la cremazione. Nei tre musei gli specialistihanno deciso di animare le scene con l’elemento umano: il risultato finale con-siste in grandi diorami, la cui efficacia documentaria viene esaltata dalla scel-ta di coprire sia le persone che le cose con una tinta bianca uniforme. Una cu-ra particolare è rivolta poi alle testimonianze filmate dei sopravvissuti. Quasisempre capita che costoro abbiano rilasciato la propria decine di anni dopo losvolgimento dei fatti: anche per questo può succedere che le loro interviste sia-no montate insieme ad altro materiale, che serve a renderle a migliorare la frui-zione e a renderle più credibili.

Una riflessione a sé meritano le opere d’arte, allestite entro spazi interni eancor più spesso all’aperto, laddove le istanze conservative lo permettano: diqui fra l’altro prendono l’avvio i «giardini di sculture», o sculpture gardens, ap-prezzabili intorno alla maggior parte degli edifici in questione14. A Washing-

14. Sul rapporto fra arte e Shoah cfr. j. blatter - s. milton, Art of the Holocaust, Routled-ge et alii, New York 1981; m. constanza, The living witness, Free Press, New York 1982; d.

le vitté-harten, Hinweise auf mögliche Beziehungen zwischen Holocaust und Kunst, in «Kun-st und Kirche», 46, 1983, pp. 208-213; g. segal - m. baigell, George Segal’s Holocaust Me-morial, in «Art in America», 71, 1983, pp. 134-136; Kunst und Holocaust: bildliche Zeugen vomEnde der westlichen Kultur, atti del convegno (Rehburg-Loccum, 1989), a cura di D. Hoffmann- K. Ermert, Rehburg-Loccum, 1990; s. milton, Die Kunst im Holocaust, in Die Künste unddie Wissenschaften im Exil, 1933-1945, atti del convegno (Osnabrück, 1983), a cura di E. Boeh-ne - W. Motzkau-Valeton, Gerlingen, Schneider 1992, pp. 217-230; z. amishai-maisels,Depiction and interpretation: the influence of the Holocaust on the visual arts, Oxford et alii, Per-gamon, 1993; Witness and legacy: contemporary art about the Holocaust, a cura di S.C. Feinstein,Lerner, Minneapolis 1994; After Auschwitz: responses to the Holocaust in contemporary art, cata-logo della mostra (London 1994-1995), Sunderland, Northern Centre for Contemporary Artet alii 1994; Witness and legacy: contemporary art about the Holocaust, catalogo della mostra(Minnesota, 1995), Minnesota Museum of American Art, 1995; Where is Abel, thy brother?, ca-talogo della mostra (Varsavia, 1996), Varsavia, Zacheta Gallery of Contemporary Art, 1996;Bilder des Holocaust: Literatur - Film - Bildende Kunst, a cura di M. Koeppen - K.R. Scherpe,Boehlau, Koeln 1997; n. toll, When memory speaks: the Holocaust in art, Praeger, Westport1998; i. engelhardt, A topography of memory: representations of the Holocaust at Dachau andBuchenwald in comparison with Auschwitz, Yad Vashem and Washington, dc, Bruxelles et alii,p.i.e. - P. Lang, 2002; k. messham-muir, Dark visitations: the possibilities and problems of expe-

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ton la selezione degli autori risale allo scorcio degli anni Ottanta, nel pienodella fase progettuale. Freed ed i responsabili del museo optarono in favore dipersonalità affermate sul piano internazionale, in particolare su alcuni celebriesponenti dell’astrattismo statunitense come Ellsworth Kelly, Joel Shapiro eRichard Serra. Costoro risposero con lavori che quasi ovunque rivelano un al-to grado di fedeltà e di coerenza con quanto già prodotto. In Gravity, per esem-pio, collocata nella zona sinistra della sala della Testimonianza, Serra si man-tiene accostato alla sua tradizionale linea di ricerca sui materiali e solidi sem-plici, la stessa per intenderci già ampiamente messa in luce fin dagli anni Ses-santa15. L’orientamento estetico di Washington, già allora avvertito come unaforzatura e perciò immerso fino alla consegna delle opere da un’alea di miste-ro, deve tuttavia considerarsi minoritario16. Altrove le scelte istituzionali pri-vilegiarono e ancor oggi privilegiano artisti ed opere che rientrano nelle ten-denze figurative, di solito con forti accenti realistici o espressionisti. In tale di-rezione parla chiaro l’ampio ventaglio di proposte apprezzabile a Yad Vashem.Bastino qui alcuni esempi. Ad un simbolismo di immediato accesso e decifra-zione si rifà la scultura in ferro del polacco Zadook Ben-David, dal titolo Per-ché l’uomo è come un albero nel campo. L’opera si trova in una posizione sceno-grafica e centrale del Panorama dei Partigiani, la sezione del complesso dedi-cata al milione e mezzo di Ebrei che combatterono nella seconda guerra mon-diale in qualità di soldati o membri della resistenza. Alta sei metri, essa raffi-gura appunto un albero, dove ogni elemento, tronco, rami e foglie, è rappre-sentato dal profilo di un uomo. Un linguaggio connotato da accenti narrati-vi, monumentali ed enfatici contraddistingue la Rivolta e l’Ultima marcia, checostituiscono altrettante versioni da opere concepite da Natan Rappoport peril luogo dove una volta sorgeva il ghetto di Varsavia. Nel medesimo solco, an-che se con accenti ancor più esasperatamente espressivi, si colloca il Monumen-to a Janusz Korczak di Boris Saktier. Korczak – all’anagrafe Henrik Goldsch-mid – è raffigurato al centro mentre con le mani tenta di proteggere – ma nelmedesimo istante anche di riprendere, di ricondurre preso di sé – i «suoi» bam-bini, ormai morti: immediato è il riferimento a quel drammatico episodio del1942 in cui il grande educatore – che pure aveva profuso ogni sforzo per di-

rience and memory in Holocaust Museums, in Art and ethics, Paddington 2004, «Australian andNew Zealand journal of art», 4/5, 2003-2004, pp. 97-111.

15. Su Serra cfr. Richard Serra, catalogo della mostra (Paris, 1983), Paris, Centre Pompidou,1983; Richard Serra: Sculpture, catalogo della mostra (New York, 1986), a cura di L. Rosen-stock, Museum of Modern Art, New York 1986; Reden über Kunst: Richard Serra: zum Holo-caust-Mahnmal in Berlin (...), Hamburg, 1998.

16. Cfr. j.a. lewis, Holocaust Museum to acquire art: Abstract works secretly commissioned, in«The Washington Post», 14 novembre 1992.

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fendere dai nazisti i bambini ebrei ricoverati nel suo istituto e che per questomotivo è qui commemorato – se ne vide sottrarre un gruppo, successivamen-te sterminato a Treblinka. L’accentuato grado di sensibilità verso le tendenzefigurative riscontrabile in quasi tutti i musei dell’Olocausto – incluso appun-to Yad Vashem – riflette almeno due spinte. Da un lato i responsabili dei variistituti intendono agire nel rispetto della volontà dei superstiti, che in vari mo-di e tempi si sono pronunciati in tal senso: costoro, in sostanza, hanno dichia-rato la propria insoddisfazione verso le correnti astratte, a loro avviso incapa-ci di restituire appieno l’esperienza, diretta e dolorosa, della Shoah17. D’altrocanto esiste un intrinseco desiderio di coerenza fra quanto mostrato lungo ilpercorso didattico. Come vedremo, una delle chiavi di volta di ogni museodella Shoah è rappresentato dallo sforzo di personalizzare l’oggetto di studio edi restituire individualità ai sei milioni di morti a causa dello sterminio nazi-fascista, evitando così ogni risucchio di matrice negazionista o revisionista. Inun’ottica del genere le varie correnti astratte vengono avvertite come un limi-te, come una pericolosa fuga dal contesto. Si capisce dunque perché alla fineuno degli emblemi dell’arte contemporanea in rapporto alla Shoah sia il Mo-numento al vagone ferroviario a Yad Vashem, dove Moshe Safdie eleva a diecimetri d’altezza una reperto della seconda guerra mondiale. L’adesione allarealtà documentaria sfocia nell’esaltazione barocca della reliquia, vale a dire nelcapovolgimento del senso originario di uno strumento di tortura e di sofferen-za: un processo che, per inciso, denuncia più di una similitudine con quantoaccaduto secoli prima con la glorificazione della croce di Gesù Cristo.

Lo ricordo, è accaduto ieri, o un’eternità fa. Un piccolobambino ebreo scoprì allora il Regno della Notte. Ricordoil suo smarrimento, ricordo la sua angoscia. Tutto successecosì in fretta. Il ghetto. La deportazione. Il vagone piom-bato. L’altare di fuoco su cui dovevano essere sacrificati lastoria del nostro popolo e il futuro del genere umano.

Elie Wiesel18

L’allestimento dei musei della Shoah fa largo impiego della scrittura, che a se-conda dei casi assume un peso specifico diverso e di conseguenza stabilisce più

17. b. lang, The representation of limits, in Probing ghe limits of representation: Nazism and the«Final Solution», a cura di S. Friedlaender, Harvard University Press, Cambridge - London1992, p. 300; Cfr. i. engelhardt, op. cit., p. 37.

18. e. wiesel, Night, cit., p. 118.

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livelli di comunicazione. Alle volte il lettore si trova dinanzi ad ammonimen-ti di ordine etico, per lo più estrapolati dalla Bibbia o da altri libri sacri dellareligione ebraica. Queste scritte risultano particolarmente diffuse nei percorsidi visita statunitensi, a cominciare dallo Holocaust Museum di New York, l’e-dificio disegnato sul finire degli anni Novanta da due maestri della disciplinamuseografica, Kevin Roche e John Dinkeloo19. I curatori del percorso di NewYork al fine di esaltare il carattere universale di queste sentenze hanno qui de-ciso di lasciarle da sole, fatta salva una breve didascalia che contiene l’esatto ri-ferimento bibliografico. In altre circostanze i testi rappresentano invece tra-scrizioni di fonti dirette, cioè di testimonianze che risalgono alla seconda guer-ra mondiale. Quando ciò accade l’intervento dei curatori diviene ben più in-cisivo. Per sottolineare il valore probatorio e al tempo stesso agevolare la lettu-ra non è infatti raro che le scritte vengano accompagnate dal supporto origi-nale e se necessario da una traduzione. Così accade per esempio a Londra nel-la vetrina dov’è esposta una copia del Mein Kampf di Adolf Hitler, aperta suuna delle pagine dove più forte l’ispirazione antisemita; oppure, stavolta a Wa-shington, nella sezione sulla conferenza di Wannsee: nella parte mediana spic-ca il famoso documento del 1942 che, sottoscritto da un congruo numero digerarchi nazisti, enumera in vari capitoli i modi e i termini dell’imminente So-luzione Finale.

Parecchi altri testi appartengono all’epoca successiva alla seconda guerramondiale e perciò non posseggono il valore di una documentazione diretta. Intermini quantitativi la maggior parte di questi scritti è frutto dell’elaborazionedei curatori del percorso e perciò ricade sotto l’ombrello dei cosiddetti «appa-rati didattici». Fin da subito, a volte ancor prima di fare il suo ingresso nell’e-dificio, il destinatario incontra scritte che, spesso in grande formato e posizio-nate in luoghi strategici, servono a introdurre il museo e a coordinarne le va-rie parti. Pannelli più piccoli accompagnano inoltre ciascuna sezione e la rac-cordano al percorso globale, fungendo così da ginocchio tra i temi di fondo edi singoli episodi. Il quadro della comunicazione è infine completato dalle di-dascalie che, stampate su un supporto di carta oppure di plastica – il «cartel-lino» dei museologi – illustrano ogni oggetto in mostra, si tratti di un libro, diun cappello o di una fotografia. Com’è largamente noto, in sé l’impiego degliapparati didattici non rappresenta un fattore di particolare novità, trattando-si di un elemento comune alla maggioranza delle esposizioni moderne, vuoi

19. r.g. saidel, Never too late to remember: the politics behind New York City’s Holocaust mu-seum, Holmes & Meier, New York-London 1996. Per una contestualizzazione del Museo nel-l’intera carriera architettonica di Roche si rinvia al lavoro monografico di f. dal co, Kevin Ro-che, Electa, Milano et alii 1986.

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permanenti, vuoi temporanee. Quel che davvero caratterizza i musei dellaShoah è l’eccellente capacità divulgazione, ossia di sintetizzare e coordinare at-traverso un metodo storico di grande raffinatezza una massa davvero ragguar-devole di informazioni, fino a renderle disponibili in un linguaggio chiaro e inapparenza semplice. Si rifletta giusto sulle didascalie. In linea generale esse de-stano sorpresa per la loro accuratezza. Voltando le spalle a quella concezione,piuttosto diffusa specie in ambito artistico ed archeologico, dove il cartellinorappresenta un limite alla fruizione dell’oggetto da parte del singolo visitato-re, le didascalie dei musei della Shoah fin dove possibile riconducono l’ogget-to nel suo contesto preciso. Ogni sforzo è perciò compiuto affinché lo stessolibro, lo stesso cappello, la stessa fotografia non siano riferiti a un momento oa un luogo generici, bensì ad un determinato anno, mese e giorno; a un de-terminato luogo, a una determinata origine; infine, a una determinata città, auna determinata famiglia, a un determinato individuo, contrassegnato da undeterminato nome e da un determinato cognome.

Between the linesDaniel Libeskind

Colpisce nei musei della Shoah lo sforzo di presentare una vicenda storica do-cumentata, limpida e senza possibilità di equivoci. In due parole: non mani-polabile. Altrettanto palese risulta poi il desiderio di coinvolgere il pubbliconon soltanto in termini razionali, intellettuali, ma anche emotivi. «Frastorna-to», «ossessionato»: ecco gli aggettivi con cui il presidente americano Bill Clin-ton descrive il proprio stato d’animo nel 1993, subito dopo aver visto il mu-seo di Washington. Che si tratti di un preciso mandato istituzionale è prova-to nello stesso anno e nello stesso museo dal direttore esecutivo JeshajahuWeinberg: «Non vogliamo che le persone vengano qua e si deprimano; voglia-mo che ne escano ossessionate». Ma come, nel concreto, si è risposto a questeesigenze?

L’organismo progettato a Berlino da Peter Eisenman è finora l’unico adaverle affrontate attraverso una politica che si potrebbe definire a «binario dop-pio». In superficie sorge dunque il Memoriale, che, basato sulla sofisticata evo-cazione simbolica della griglia di steli, è sostanzialmente concepito per susci-tare emozioni; sotto terra si sviluppa invece l’archivio, che dà libero accesso adocumenti sui quattro milioni e mezzo di vittime finora identificate con sicu-rezza, forniti come si è detto da Yad Vashem. Eisenman mette perciò in cam-po due fasi, quella dell’emozione e quella dell’informazione, peraltro distacca-te anche in termini fisici.

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Gli altri musei della Shoah rispondono al mandato di informare ed emo-zionare il pubblico attraverso un modello tutto sommato uniforme, interpre-tando il percorso di visita alla stregua di un racconto. Fin dall’ingresso una ma-no gentile ma salda afferra il visitatore e lo segue ovunque, fino a quando nonraggiunge l’uscita. Le capacità della trama di sedurre, coinvolgere ed emozio-nare non riescono a nascondere l’impressione che si tratti di una storia doveogni dubbio è avvertito come una debolezza, ogni riscrittura come un perico-lo. Le cose sono andate in questo modo: punto e basta.

Questo particolare taglio narrativo spiega anche perché la maggior partedei musei della Shoah accordi un chiaro privilegio alla fruizione «passiva». Èfacile notare, infatti, come i vari percorsi in genere stabiliscano una gerarchiaprecisa fra l’istituzione e il destinatario, il cui margine d’intervento si appros-sima allo zero. Tale impostazione connota anche istituti che per altri aspettisi rivelano invece all’avanguardia, ad esempio nelle scelte del contenitore. Unottimo caso viene dallo Jüdisches Museen di Berlino, realizzato verso la finedel secolo scorso dall’architetto ebreo di origine danese Daniel Libeskind20.Aperto al pubblico nel 2001 e subito annoverato fra i capolavori della ten-denza «decostruttivista», il museo si contraddistingue in effetti per una seriedi soluzioni estremamente innovative, fra cui la copertura interamente in me-tallo ed ancor più la planimetria a zig-zag, o a linee spezzate: Libeskind stes-so nel definirne il nucleo generatore formale è ricorso all’espressione «betweenthe lines». Eppure, una volta entrati all’interno – e in particolare nei due pia-ni superiori – le cose cambiano in modo radicale: il dinamismo, l’energia siplacano e cedono il passo a un percorso di visita relativamente statico e tra-dizionale.

A questa visione gerarchica del rapporto fra Museo e pubblico si opponesoltanto il Museum of Tolerance di Los Angeles. In conformità con la missio-ne originaria a suo tempo stabilita da Simon Wiesenthal, il museo california-no si qualifica come un centro d’insegnamento contrassegnato da una notevo-le raffinatezza nei metodi didattici e dunque particolarmente efficace soprat-tutto con le nuove generazioni. Uno dei perni consiste nell’ampio ricorso alletecnologie informatiche, le quali – sotto forma di un terminale munito di vi-deo, tastiera, mouse e cuffia sonora – danno accesso a un ricco ventaglio di im-magini, testimonianze, musiche o a banche dati. In tal modo ogni visitatoreha la possibilità di arricchire il percorso di visita «generalista» – che comunque

20. l. sacchi, Daniel Libeskind. Museo ebraico, Berlino, Testo e immagine, Torino 1998; a.

cobbers, Daniel Libeskind, Jaron, Berlin 2001; b. schneider, Daniel Libeskind: Jewish Mu-seum Berlin: between the lines, Prestl, Munich et alii 2005; a. marotta, Daniel Libeskind, Edil-stampa, Roma 2007.

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continua a mantenere un proprio ruolo – fino a trasformarlo in un’esperienzaunica e irripetibile, conforme ai propri gusti e alle proprie inclinazioni.

Quello che più mi addolora è pensare che tutti gli ebreidella Shoah, o quasi, furono uccisi anonimamente, sen-za attribuire loro un nome e riconoscere un’identità. Midissi: «Andrò in Germania solo quando anche lì cono-sceranno il mio nome, e quando capiranno che quei seimilioni di ebrei morti nei campi di sterminio erano per-sone come me. I tedeschi non possono più continuare aignorarli.

David Grossmann21

I responsabili dei percorsi di visita dei musei della Shoah – in genere una squa-dra abbastanza folta ed agguerrita di architetti, storici, museologi ed esperti inpedagogia e didattica – pongono la massima cura nell’adeguare il messaggio alpubblico di riferimento. Il filo della narrazione è perciò semplice, in modo daevitare equivoci e, al tempo stesso, da poter essere assimilato anche da perso-ne di facoltà intellettuali limitate o che posseggono idee estremamente nebu-lose sulla seconda guerra mondiale, gli Ebrei o l’Olocausto. Nulla viene datoper scontato: un linguaggio franco e lineare illustra, uno per uno, i riferimen-ti storici, gli snodi e i protagonisti. L’obiettivo, messo a fuoco e raggiunto an-che tramite un impiego molto esteso di sondaggi, è ovunque il medesimo.Quando esce dal museo ogni visitatore deve essere stato messo in condizionedi saper rispondere alle domande essenziali sul tema: «Dove e quando si sonosvolti i fatti? Chi furono le vittime e chi i carnefici? Quanti furono e da doveprovenivano i morti?». E così via.

Com’è d’altronde naturale, trattandosi di musei che si rivolgono in buo-na misura a un pubblico di età scolare, un’attenzione speciale è rivolta ai bam-bini. Il maggior grado di sensibilità si registra a Washington, dove chi ha me-no di sei anni ha a sua disposizione uno spazio apposito, del tutto separato dalpercorso di visita principale. Qui egli ha modo di apprendere la Shoah attra-verso la vicenda personale di Daniel, un suo coetaneo ebreo deportato neicampi di concentramento nazisti, il quale passa dunque attraverso l’inferno,ma alla fine si salva. La storia di Daniel, un personaggio inventato – anche sein base a elementi reali – con ogni evidenza serve a creare un diaframma, unoschermo di protezione. Quanto ai bambini di età compresa fra i sei e i dieci

21. d. grossman, op. cit., p. 14.

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anni, a Washington essi hanno libero accesso al percorso degli adulti, eccezionfatta per alcune singole parti, giudicate dai responsabili del museo troppo vio-lente o macabre e perciò nascoste da ostacoli di natura fisica, come balaustre epozzetti di visione.

La seconda esigenza – vale a dire, come si accennava, il desiderio di uncoinvolgimento totale del visitatore – spiega il ricorso alla sollecitazione di piùsensi alla volta. Il primo è ovviamente la vista, vuoi attraverso la lettura, vuoiattraverso la percezione di luoghi e oggetti. Una notevole attenzione è rivoltapoi all’udito. In alcune circostanze lo stimolo è affidato alla parola. Attraver-so altoparlanti opportunamente dislocati nelle varie sezioni l’orecchio può co-gliere ordini militari, discorsi politici pronunciati negli anni Trenta da Hitlero da altri gerarchi nazisti, come per esempio Joseph Goebbels, o in alternati-va resoconti di ebrei sopravvissuti ai campi. Alla video-proiezione sonora so-no dedicate due intere sale dello Holocaust Museum di New York, significa-tivamente poste l’una al principio, l’altra al termine del percorso: un peso deltutto particolare riveste la seconda, dove è possibile ascoltare il racconto di nu-merosi testimoni, successivamente emigrati negli Stati Uniti. Un diverso im-piego della parola si riscontra nel Memoriale del bambini, progettato nella pri-ma metà degli anni Ottanta ancora da Moshe Safdie nel complesso di Yad Va-shem e subito divenuto un elemento chiave nel cammino di visita. Safdie quiassegna all’udito un ruolo veramente essenziale: è infatti proprio una voce, ta-lora maschile, talora femminile, che ricorda il nome e l’età di ciascuno del mi-lione e mezzo di bambini ebrei uccisi nei campi di sterminio. Frequente è poil’impiego della musica. I motivi d’epoca hanno quasi ovunque un valore do-cumentario, laddove servono a ricostruire il contesto in cui si svolsero deter-minati episodi storici; in alcuni casi emerge tuttavia anche una volontà pura-mente evocativa. Non è raro che i suoni si alternino a rumori. Taluni – peresempio il passaggio del treno sulle rotaie, il battere del piccone quando spac-ca le rocce o le raffiche di una mitragliatrice – denunciano l’intenzione di farrivivere esperienze caratteristiche della vita degli internati. In determinate cir-costanze l’orecchio può cogliere anche rumori sintetici lancinanti o al contra-rio sordi, che hanno un chiaro effetto intimidatorio e destabilizzante. Il terzodei cinque sensi ad essere sollecitato è il tatto. Una chiara dimostrazione vienedal Museo e Memoriale degli Ebrei assassinati d’Europa di Berlino. Il visitato-re può liberamente sfiorare con la mano ognuna delle duemilasettecentoset-tantuno di stele in cemento ideate da Eisenman. Ma non basta. Quando ini-zia a camminare lungo i viali rettilinei, che pure di primo acchito sembrereb-bero agevoli a percorrersi, egli viene ben presto messo in crisi da una serie dipiccole asperità e sconnessioni create volutamente nel pavimento. Eisenmanlavorando sulle piante dei piedi infonde nel visitatore un senso di instabilità,

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di equilibrio precario, di unheimlichkeit, ovvero di disagio, di perturbazione equasi di pericolo.

Un secondo grado di coinvolgimento emotivo è generato dalla personaliz-zazione della Shoah, cioè nel tentativo di storici e di museologi di restituire unnome ed un viso sia a ciascuno dei morti, sia a ciascuno dei carnefici. Si è giàosservato come questa missione rappresenti un’istanza primaria a Yad Vashemcome in ogni altro museo dell’Olocausto, dove la Storia è fin dove possibile in-carnata attraverso le vicende di individui singoli. Solo quando l’operazione di-venta impossibile l’obiettivo si allarga alla famiglia, alla comunità o al villaggio.Bastino qui un paio di ulteriori esempi. Il primo, solo in apparenza dissociato,consiste in quella sezione, collocata nella parte iniziale del percorso di visita delmuseo di New York, interamente devoluta all’etimologia dei nomi ebraici. Il se-condo esempio, ancor più clamoroso, è costituito dalla sala dei Nomi: proget-tata sempre da Safdie come elemento staccato al termine dello Holocaust Hi-story Museum, sempre nel complesso di Yad Vashem, essa contiene le paginedi Testimonianza, le cartelle dei quattro milioni e mezzo di ebrei uccisi22. Tan-ta attenzione mira da un lato ad evitare che nello spettatore tutto possa risolver-si nella formula «sei-milioni-di-morti», in apparenza sintetica, ma in realtà eva-siva e facilmente soggetta a rimozione. Anche per questo la sala dei Nomi ha ri-servato uno spazio vuoto, destinato ad ospitare i file del milione e mezzo di ebreiancora in attesa di essere identificati. D’altro canto, ed è forse la spinta maggio-re, si tratta di una risposta concreta sul piano del Museo a un procedimento ca-ratteristico dell’antisemitismo nazista, che qui può ripercorrersi solo in estremasintesi. Com’è infatti noto, fra i perni dell’attuazione del genocidio vi fu unamalintesa e perversa obbedienza ai criteri della rispettabilità borghese allora co-muni nel ceto medio tedesco. Su tali basi, il desiderio di condurre a termine losterminio in tempi rapidi e senza intoppi consigliarono di spogliare le vittimedi ogni caratteristica individuale, di trasformare uomini, donne e bambini inuna massa indistinta di numeri, da spedire al macello e di cui cancellare succes-sivamente ogni traccia23. Una logica simile, anche se stavolta con finalità ovvia-mente invertite, presiede nei musei della Shoah all’illustrazione dei carnefici.Restituire nome e cognome agli aguzzini significa poggiare sulle loro spalle ilpeso, la responsabilità individuale dei crimini commessi, recidere ogni loro ten-tativo di aggrapparsi all’obbligo di obbedienza agli ordini dei superiori.

22. To bear witness..., cit., pp. 277-285.

23. Sul razzismo nazista e in particolare sui meccanismi volti a privare gli ebrei della loro iden-tità cfr. r. hilberg, The destruction of European Jews, Allen, London 1961; s. friedländer,L’antisemitisme Nazi, Paris 1971; d.v. adam, Judenpolitik im Dritten Reich, Düsseldorf 1972;l.s. dawidowicz, The war against the Jews, 1933-1945, New York 1975.

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Il limite di questo processo di coinvolgimento emotivo è raggiunto a Wa-shington, dove i responsabili del percorso di visita propongono ogni visitatoresi identifichi con un ebreo perseguitato. Al momento di salire nell’ascensore chelo condurrà al quarto piano, dove ha inizio l’esposizione permanente, egli è mu-nito di un nuovo passaporto, ovviamente in fac simile. Il documento contieneappunto la foto e i dati anagrafici di un deportato nei campi di sterminio, la cuisorte, di volta in volta diversa, è rivelata in una nota a margine. L’esperienzamuseale è dunque vissuta non già – o comunque non solo – da liberi cittadiniche appartengono a un mondo democratico. Il destinatario attraverso il proprioalias è spinto a forza nel passato, entra idealmente nella macchina della morte:a questo punto importa assai poco se, in base all’identità assunta, egli rientrerànel novero dei sommersi o dei salvati.

Sebbene l’impianto storico rimanga fondamentalmente identico, i raccontinarrati dai singoli musei dalla Shoah presentano significative differenze. NelloHolocaust Museum di New York un sussurro gentile e raffinato mette in eviden-za il legame fra le due comunità fondamentali del mondo ebraico moderno, la sta-tunitense e l’israeliana. Il braccio rettilineo dello Holocaust Historical Museum diYad Vashem termina nello spettacolare panorama di Gerusalemme o, per megliodire, della Gerusalemme moderna: protagonista viva e concreta al termine di unlungo tunnel di sofferenza è la città delle origini e della Diaspora, che in tal mo-do resta negli occhi come il luogo principe dell’aliah, del movimento migratoriodi ritorno alla Terra Promessa. Un ruolo a sé stante per la complessità dell’intrec-cio narrativo – che non a caso ha trovato uno sbocco parallelo in forma di libro –è occupato dallo United States Holocaust Memorial and Museum. Il racconto siarticola lungo quattro parti, una per ciascuno dei quattro livelli dell’esposizionepermanente: dal quarto piano, ove ha sede l’Assalto (1933-1945), si scende all’O-locausto (1939-1945), alle Conseguenze (1945) per arrivare infine al Presente (1946-1993). A Washington l’elemento caratterizzante è la presenza degli Stati Uniti, chesi articola secondo un tema ad arco. Il percorso narrativo, infatti, si apre e si chiu-de sotto il segno della bandiera a stelle e strisce: le truppe alleate, dunque, al prin-cipio della visita liberano i campi di sterminio e ne testimoniano l’esistenza grazieai loro réportages; al termine si ergono a garanti della libertà e del progressivo ri-torno degli Ebrei ad un’esistenza normale, in Israele oppure negli Stati Uniti stes-si. Più avanti si avrà modo di osservare come la particolare impostazione del per-corso di visita e la costruzione stessa dello United States Holocaust Memorial andMuseum – che alcuni intellettuali hanno ricondotto all’ancor più complesso fe-nomeno della cosiddetta «americanizzazione della Shoah»24 – in larga misura sia-

24. The Americanization of the Holocaust, a cura di H. Flanzbaum, The John Hopkins Univer-sity Press, Baltimore 1999.

1 1 1stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra?

no figlie del generale riassetto degli equilibri globali dopo il 1990. Adesso sem-bra più giusto mettere in rilievo come il linguaggio museografico e museolo-gico declinato a Washington presenti alcune analogie con il cinema, soprat-tutto con Schindler’s list di Steven Spielberg, uscito nelle sale giusto nel 1993:di qui proviene fra l’altro l’opzione in favore dello happy ending – comune ap-punto al museo e alla pellicola – appagante sul piano commerciale, assai me-no su quello psicologico e storiografico. Non a caso, proprio sulla scelta del fi-nale la Fine Arts Commission, chiamata in causa per molti aspetti del museo,ha fatto pesare più che altrove la propria autorità.

Nel Museo e Memoriale berlinese di Eisenman vige un’elevata libertà di com-portamento, paragonabile a quella di un normale parco pubblico all’aperto. Nel-la sezione esterna non esistono poliziotti o custodi: saltare dalla cima di una stelead un’altra ormai sembra quasi costituire una prova di abilità per i piloti di moun-tain bike o di skate board. Qui ha dunque prevalso l’idea che il museo abbia unvalore solo quando diviene parte della vita quotidiana dei cittadini, i quali, di con-seguenza, possiedono il diritto di fruirlo a seconda delle proprie esigenze ed abi-tudini. In altri musei, come per esempio a Gerusalemme ed ancor più a Washing-ton, sono state al contrario imposte regole scritte, che spaziano dalla lunghezza edal tipo di abiti consentiti, al comportamento da rispettare all’interno dell’edifi-cio. Fatto salvo il museo di Eisenman, si può affermare che il compito del visita-tore di un museo della Shoah è rimanere concentrato, attento, vigile. Dall’inizioalla fine. Egli non può sedersi e riposare, né bere o mangiare qualcosa, sempre na-turalmente che ne abbia voglia. Del resto, alle volte queste semplici esigenze sonoletteralmente impossibili a soddisfarsi, vuoi perché sedie e divani sono estrema-mente limitati nel numero – o mancano del tutto – vuoi per la lontananza deipunti di ristoro, a volte collocati addirittura fuori dall’edificio principale. Si trat-ta ovviamente di scelte ponderate, che hanno dei risvolti in termini museologici– a Washington è per esempio chiaro il desiderio di identificazione fra visitatore edeportato – ma anche squisitamente etici, appunto. Anche qui ha insomma avu-to la meglio un’idea gerarchica e tradizionale del rapporto fra istituzione e desti-natario, secondo la quale il Museo, in nome di una generale idea di rispetto e de-coro, si fa carico di imporre vincoli molto serrati alla libertà del singolo cittadino.

Non vi è nulla al mondo che sia così invisibile come imemoriali

Robert Musil25

25. r. musil, Monuments. Postmumous papers of a living author, Eridanos, Hygiene 1987, pp.480-483.

1 12 la memoria e la storia

La scelta delle forme architettoniche per i musei della Shoah passa attraversouna serie di rifiuti preliminari. Viene rigettato in primo luogo il linguaggio clas-sico e neoclassico, in qualche modo avvertito come il lessico dei musei per ec-cellenza. Freed è esplicito: non soltanto questo «stile» gli sarebbe stato estraneo,ma a suo avviso il suo impiego avrebbe corso il rischio di stabilire un richiamoalle architetture del Terzo Reich, a cominciare da quelle di Albert Speer. Il de-siderio di tagliare con la tradizione risulta particolarmente chiaro a Londra, do-ve esiste un preciso – e voluto – stacco fra la Holocaust Exhibition e il resto del-l’Imperial War Museum, peraltro a sua volta un palinsesto di aggiunte e di rias-setti. Viene altresì rifiutata la copia diretta e integrale di edifici tipici della cul-tura ebraica, come per esempio le sinagoghe, come pure l’imitazione dei luoghidello sterminio. Esemplare in tal senso risulta un episodio della vicenda costrut-tiva dello Holocaust Memorial & Museum di Washington. Com’è noto, finoai primi anni Ottanta del ventesimo secolo una parte del sito era occupata daalcuni edifici che, sebbene in nessun modo legati alla Shoah – si trattava infat-ti di alcuni annessi della Auditor’s Chamber – potevano ricordare nella forma lebaracche di Auschwitz: per questo motivo alcuni sopravvissuti ai lager, fra cuiElie Wiesel, avevano espresso l’auspicio che fossero restaurati ed inseriti nel fu-turo percorso museale. Alla fine tuttavia non se ne fece nulla e lo stesso Wieselfu costretto a cedere, posto dinanzi alle istanze di modernità e soprattutto difunzionalità avanzate da Freed: così, nel breve giro di pochi mesi le baracche fu-rono abbattute. Al contrario di quanto accade in Europa, in particolare nellestrutture museali adiacenti ai campi di sterminio, le riprese pedisseque e inte-grali vengono avvertite come un rischioso avvicinamento alla cultura delle pe-riod rooms o dei parchi tematici di derivazione cinematografica:

[Il museo di Washington] non deve essere una ricostruzione – chiarisce ancora unavolta James Ingo Freed – perché questo svaluterebbe l’Olocausto; una ricostruzione si-gnificherebbe Disneyland – un luogo preciso, pulito, senza tensione. Con questo par-ticolare soggetto [i.e. la Shoah] esiste un grave rischio di estetizzazione e di perdita del-l’energia primitiva26.

Ma soprattutto il rinvio diretto o subliminale al parco a tema, all’imitazionedella realtà perseguita a Disneyland o agli Universal Studios, trasformerebbe ilracconto in una fiction, con il risultato di mettere in crisi proprio quell’istan-za di verità storicamente accertata che rappresenta, si è visto, la base fondantedi ogni museo della Shoah. Un procedimento al contrario di uso frequente

26. j. ingo freed, The United States Holocaust and Memorial Museum, in The art of memory:Holocaust memorials in History, a cura di J.E. Young, Prestel, New York 1994, p. 91.

1 13stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra?

prevede infine che singoli elementi architettonici legati alla tradizione ebraicasiano individuati, stilizzati e infine rimontati entro un contesto diverso. Il mo-tivo delle steli in pietra verticali, caratteristico dell’architettura dei cimiteri –peraltro non solo ebraici – si ritrova perciò a Yad Vashem, nel Museo Memo-riale di Eisenman e infine all’esterno dello Jüdisches Museum di Libeskind. Laparticolare forma tronco-conica dello shetl, ovvero della tipica unità abitativadelle comunità yiddish mittel-europee, costituisce la fonte d’ispirazione per lasala dei Nomi di Moshe Safdie a Yad Vashem, come pure per la sala dedicatada James Ingo Freed alla comunità di Eishishov, entrambe già citate in prece-denza. Altre parti richiamano invece architetture e ambienti dei campi di ster-minio. Ancora a Washington, il profilo minaccioso della copertura posta all’e-sterno lungo il lato settentrionale, trae spunto dalle torrette delle sentinelle diguardia ai campi; allo stesso modo, un buon numero di particolari dell’inter-no rinvia a strutture industriali comunemente in uso durante la prima metàdel Novecento. Ma è d’altronde noto come Freed, a tutta prima a corto d’i-dee, inizi a disegnare il museo statunitense subito dopo aver fatto visita al cam-po di Auschwitz Birkenau, nell’ottobre 1986.

Quando passai attraverso tutto questo – egli avrebbe ricordato più tardi – alcune me-morie arcaiche devono essere state scosse, perché sotto il profilo emotivo questo è sta-to un punto di svolta per me (...). Mi sono ripiegato su un [atteggiamento] più ana-litico, dal quale guardare le cose: cominciai allora a riflettere su come si potesse co-struire un edificio che potesse incorporare alcune di queste tecniche di costruzione27.

Il linguaggio architettonico scelto per i musei della Shoah appartiene dunqueinteramente e inequivocabilmente al presente, cioè al contemporaneo. Comeafferma lo stesso Peter Eisenman, «l’enormità e la scala di grandezza dell’orro-re dell’Olocausto sono tali che ogni tentativo di rappresentarla con mezzi tra-dizionali è inevitabilmente inadeguato».

All’interno del ricco panorama dell’architettura contemporanea viene ope-rata una scelta in favore delle tendenze maggiormente «espressive». L’edificionon è dunque solo un contenitore, cioè l’involucro fisico destinato a custodi-re e organizzare quanto si trova al suo interno. Ma assolve anche a due fonda-mentali funzioni. È in primo luogo a sua volta memoria, anzi «a resonator ofmemory», come dice Freed, ovvero appunto esprime in termini visivi il con-cetto di memoria; d’altro canto, esso contribuisce insieme al contenuto e al-l’allestimento interno a suscitare nel fruitore una reazione emotiva e sentimen-tale. Alle volte questa comunicazione può essere estremamente sommessa. A

27. e. linethal, op. cit., p. 86.

1 14 la memoria e la storia

New York, per esempio, il contenitore si limita ad accompagnare il discorsomuseale intrapreso al suo interno: le sue raffinate soluzioni, in parte memoridi Ludwig Mies Van den Rohe ed ancor più di Jaarno Saarinen, in sostanzarinviano a quanto la firma Roche e Dinkeloo aveva già sperimentato con suc-cesso in altri lavori destinati all’esposizione, alla conservazione e alla didattica,come per esempio le ampie sale del Metropolitan Museum. Da questo tonodiscreto e sussurrato si distacca una sola zona, il giardino delle Pietre, rivoltodirettamente verso Ellis Island e la statua della Libertà, dove gli autori propon-gono una dimensione più diretta, immediata ed eloquente dello sterminio. Al-tri musei comunicano, «risuonano» in modo assai più evidente e dichiarato.Le dichiarazioni più esplicite a riguardo appartengono a Freed, che le rilasciòpoco prima di morire nella rivista «Assemblage»:

L’edificio deve tener conto dell’orrore, della tristezza. Non so se è possibile costruireun edificio che sappia fare tutto questo, se è possibile fare un’architettura della sensi-bilità. (...) Esso deve comunque catturarti nella sua presa. (...) Gli spettatori devonorendersi conto che la Shoah è un evento che deve disturbare, essere sentito e al tempostesso percepito.

La comunicazione parte dal trattamento dei materiali costruttivi, spesso lasciativivi e scabri, senza intonaci, senza colori e soprattutto senza ornamento. Nella sa-la della Testimonianza del museo di Washington le pareti in mattoni a vista, letravi d’acciaio e le assi di legno che chiudono le finestre comunicano al visitatoreche si trova in un luogo profondamente diverso rispetto al panorama di solito of-ferto dagli edifici lungo il Mall28. Nella valle delle Comunità Distrutte di Yad Va-shem, Lippa Yahalom e Dan Tsur impostano e delimitano il percorso con bloc-chi giganti sovrapposti in pietra calcarea locale29. Le uniche varianti del labirintosono rappresentate dalle centosette inserzioni in cemento liscio sopra le quali so-no incisi, appunto, i nomi delle oltre cinquemila comunità scomparse30.

Ancor più spesso la comunicazione passa attraverso le forme. Il museo diWashington è letteralmente disseminato di elementi aggressivi, taglienti e illo-gici. Sul lato nord della sala della Testimonianza il pavimento si interrompe dicolpo a un metro e mezzo dal muro, senza alcuna giustificazione, lasciando co-sì una profonda intercapedine: per attraversarla bisogna passare su di un pon-

28. Su questo punto cfr. in particolare j.s. russell, Bearing witness in bricks and steel, in «Ar-chitectural Record», 176, 1988, pp. 65-66.

29. y. padan, Re-placing memory, in Constructing a sense of place: architecture and the Zionistdiscourse, a cura di H. Yacobi, Ashgate, London 2004, p. 254 s.

30. To bear witness..., cit., p. 306.

1 15stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra?

te. A Gerusalemme la sezione triangolare imposta da Safdie al cupo braccio del-la sezione storica infonde nel visitatore un senso di claustrofobia, di chiusuraasfittica e nel contempo lo priva dell’elementare sistema di orientamento e diappoggio rappresentato dalle pareti verticali. A Berlino la griglia di Eisenmanrisulta solo apparentemente ordinata e regolare: la pendenza delle steli, il lorosquilibrio rispetto al piano normale di calpestio, introducono un motivo di con-traddizione, che mette in allarme ed in crisi il sistema percettivo del visitatore.Nello Jüdisches Museum di Berlino – le cui soluzioni hanno peraltro condizio-nato la Holocaust Exhibition di Londra – Daniel Libeskind utilizza ovunqueelementi spezzati, anche qui destituiti da ogni logica. Le finestre squarciano lepareti esterne in metallo come ferite provocate da un’arma da taglio. I pilastridi sostegno, eretti di sbieco, anziché in verticale contribuiscono ad imprimerenella mente del destinatario un senso di squilibrio e di incertezza. Generatoredi emozione è poi il trattamento della luce. James Ingo Freed nella sala della Te-stimonianza di Washington la filtra e la maltratta fino a renderla spettrale, gra-zie all’interposizione di pesanti strutture in metallo; al contrario, nella sala delRicordo un chiarore intenso e diffuso concorre a dar vita ad uno spazio sereno,di meditazione e contemplazione. Nella valle delle Comunità Distrutte a YadVashem il cielo ed il sole, pur rimanendo sempre visibili, tendono a ridursi equasi a scomparire man mano che lo spettatore si inoltra nel labirinto. Sul rap-porto fra tenebra e luce fa perno, sempre a Gerusalemme, l’intero memorialedei Bambini Uccisi. Esso si presenta all’inizio come un tunnel completamentebuio, che incute nel visitatore di un profondo, radicale sgomento; inoltrando-si verso l’interno, il bagliore di poche candele commemorative – peraltro, com’ènoto, un elemento cardine nella tradizione ebraica in rapporto al culto dei mor-ti – riflesso all’infinito grazie a un sistema di specchi e coniugato, come si è det-to, dalla menzione ad alta voce dei nomi dei bambini uccisi, della loro età e delloro paese di origine, desta l’impressione di trovarsi dinanzi a un firmamento dimilioni e milioni di stelle. In tal modo, in apparenza semplice ed invece unavolta ancora debitore di alcuni meccanismi portanti della retorica visiva baroc-ca, Moshe Safdie nell’arco di poche decine di secondi tramuta l’iniziale diso-rientamento in profonda e stupefatta commozione.

Più di qualsiasi altra cosa, i memoriali eretti perma-nentemente testimoniano la loro transitorietà

Reinhart Kolleseck31

31. r. koselleck, War Memorials, in The practice of conceptual history: timing, history, spa-cing concepts, Stanford University Press, Stanford 2002, p. 288.

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Nei rispettivi contesti cittadini i musei della Shoah occupano sempre un po-sto di rilievo. Detta semplice: hanno pesato e pesano sulla vita quotidiana, siadei residenti, sia dei turisti. In alcuni casi questa incidenza si lega semplice-mente alla rimarchevole scala dimensionale degli edifici. Il Museo e memoria-le degli Ebrei assassinati d’Europa si estende per circa due stadi di calcio nelpieno centro di Berlino. Il museo dell’Olocausto di New York rappresenta ilvertice meridionale di una vasta area del Lower west side recentemente sotto-posta a un completo riassetto edilizio e perciò a sua volta «bonificata», resti-tuita alla cittadinanza. La volontà di spiccare, di «contare», anche in terminisquisitamente dimensionali si percepisce molto bene attraverso il dibattito sor-to durante le fasi intermedie della progettazione del museo di Washington e inparticolare della sala del Ricordo. Freed desiderava infatti a tutti i costi che lasala – concepita come una parte a sé, distaccata dal resto – sporgesse visiva-mente rispetto agli edifici adiacenti, in particolare all’Ufficio dell’incisione edella stampa, il Bureau of Printing and Engraving. «Esiste una ricaduta com-plessa e spirituale in questa decisione – egli afferma. Se [la sala del Ricordo]fosse allineata agli altri edifici non potrà mai costituire un monumento: ri-marrà sempre a sua volta un edificio». Il caso più evidente rimane comunqueYad Vashem. Com’è infatti noto, Gerusalemme fin dagli ultimi anni del Pro-tettorato britannico aveva vissuto un forte sviluppo edilizio, specie di caratte-re residenziale, che, divenuto ancor più intenso dopo la dichiarazione d’indi-pendenza dello Stato ebraico del 1948, è proseguito e in qualche modo prose-gue tuttora, al punto da rappresentare una molla del conflitto fra israeliani epalestinesi. Ciò nonostante, fin dall’origine, al museo vennero devolute dueintere, preziosissime colline, una delle quali è ancora sostanzialmente vuota.

Più che all’estensione volumetrica il peso urbanistico dei musei dellaShoah si lega comunque alla loro particolare collocazione all’interno dei sin-goli scenari urbani. Essa infatti gioca sempre un ruolo forte e preciso in rap-porto agli edifici contigui e, più in generale, all’intera storia della città, colla-borando così a coniugare un dialogo a volte estremamente complesso. Lo Jü-disches Museum di Berlino sorge direttamente a fianco del Museo della Città,al quale è unito anche in termini fisici e simbolici. L’edificio di Libeskind ad-dirittura non ha infatti un ingresso autonomo: chi abbia intenzione di visitar-lo deve giocoforza servirsi del museo adiacente e di qui accedere al nuovo at-traverso un andito sotterraneo. Per restare a Berlino, il Museo e memoriale de-gli Ebrei assassinati d’Europa si trova nel cuore della nazione tedesca, ossia nelcentro governativo, direzionale e rappresentativo della Germania. Quanto poial museo di Washington, esso sorge direttamente lungo il Mall, autentico«monumental core» della nazione, la striscia di circa un miglio e mezzo com-presa fra il Lincoln Memorial e il Campidoglio dove trovano udienza ed espres-

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sione i sentimenti più profondi degli Stati Uniti. La sua valenza «sacrale» ven-ne ulteriormente rafforzata la mattina del 16 ottobre 1985, durante la solennecerimonia di fondazione: in quel giorno la terra originaria venne mescolata conaltra terra, proveniente dal cimitero ebraico di Varsavia e dai campi di Au-schwitz, Bergen-Belsen, Dachau, Theresienstadt e Treblinka. «Stiamo inizian-do a dare una dimensione fisica alla nostra implacabile richiesta di memoria»– commentò allora Elie Wiesel32.

Con i fascisti, parlo soprattutto di quelli giovani, ci sia-mo comportati razzisticamente: abbiamo cioè frettolo-samente e spietatamente voluto credere che essi fosseropredestinati razzisticamente ad essere fascisti... Nessunodi noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo su-bito accettati come rappresentanti inevitabili del Male.

Pier Paolo Pasolini33

Come si è osservato al principio del saggio, fatta eccezione per Yad Vashemtutti i musei della Shoah possono racchiudersi negli ultimi quindici o venti an-ni. Per gli statunitensi alcuni individuano la data chiave nel 1993, anno dell’i-naugurazione dei musei di Los Angeles e di Washington; per i tedeschi – co-me del resto per la Holocaust permanent exhibition londinese – il termine puòspostarsi più avanti, intorno all’anno 2000. Immediata viene fuori la doman-da: a cosa si deve questa improvvisa e per certi versi inattesa eruzione?

Alcuni dei motivi in verità cadono al di fuori della Shoah e rientrano piut-tosto nelle vicende generali degli istituti addetti principalmente alla conserva-zione, allo studio e alla valorizzazione del patrimonio culturale della colletti-vità. La spinta più importante in tal senso va individuata nella generale riva-lutazione in ambito occidentale del Museo. Quanti specie dopo il 1945, il1968 ma anche in tempi recenti avevano proclamato la morte del Museo si so-no dovuti ricredere: più o meno ovunque esso ha infatti dimostrato di sapersiadattare con estrema versatilità all’orizzonte attuale, dove, nell’ambito dell’in-terpretazione allargata del cultural heritage – lo stesso da cui dipendono fra l’al-tro i teorici della cosiddetta «nuova museologia» – ha persino accentuato il suoruolo di «macchina della memoria» per eccellenza34.

32. e.t. linenthal, op. cit., p. 57.

33. P.P. Pasolini in «Corriere della Sera», 24 giugno 1974.

34. Per un orientamento bibliografico si vedano The museum time-machine: putting cultures ondisplay, Routledge, London 1988; The new museology, a cura di P. Vergo, Reaktion Books, Lon-

1 18 la memoria e la storia

Altri fattori possono invece considerarsi interni alla Shoah. Da un lato bi-sogna rimarcare la pressione esercitata dalle comunità ebraiche locali e nazio-nali, un fattore che, obiettivamente importante per sostenere i costi di costru-zione dei musei di Washington e di New York, è stato ampiamente sottolinea-to fra gli altri da Peter Novick35. Bisogna poi tenere conto della necessità, a cir-ca mezzo secolo dalla scoperta dei campi di sterminio, di trovare strumenti ingrado di compensare la progressiva scomparsa biologica dei testimoni oculari.Non a caso le sezioni propriamente espositive dei musei della Shoah risultanoquasi sempre affiancate da centri di documentazione, capaci di archiviare e al-l’occorrenza di riversare dinanzi agli occhi dei ricercatori e del grande pubbli-co le interviste filmate ai sopravvissuti. D’altro canto i musei offrono risposteconcrete alle esigenze didattiche determinate dall’introduzione dello studiodella Shoah nelle strutture educative: dopo una serie di esperimenti «pilota»nei tardi anni Sessanta e negli anni Settanta, la Shoah negli ultimi anni è in-fatti entrata a pieno titolo nel calendario scolastico ed universitario, vuoi at-traverso un Giorno della Memoria – che in Occidente si suole individuare nel27 gennaio, anniversario della liberazione del campo di Auschwitz-Birkenauda parte delle truppe alleate – vuoi attraverso appositi corsi, l’uno e gli altri fi-nalizzati a porre freno sia ai fenomeni di razzismo, sia al crescente successo,prima in Europa e successivamente anche negli Stati Uniti, di tesi volte a rive-dere o addirittura a negare l’Olocausto36. Altre spinte sono di natura psicolo-gica e si riconnettono alla fruizione della Shoah da parte della cosiddetta «ter-za generazione» di sopravvissuti. Il passaggio di testimone in favore dei nipo-ti, ormai compiuto, porta infatti con sé l’esigenza di rinnovare gli strumentidi comunicazione, in grado di colmare i buchi, le lacune, i limiti della trasmis-sione orale: buchi, limiti, lacune che, si badi, non sono tanto di ordine docu-mentario, cioè di contenuto, quanto piuttosto, come appunto sembra ormaievidente, di natura psicologica37.

don 1989; k. walsh, The representation of the past: museums and heritage in the post-modernworld, Routledge, London 1992; Theorizing museums: representing identity and diversity in achanging world, Blackwell, Oxford 1996; f.s. kaplan, Museums and the making of «Ourselves»:the role of objects in national identity, Continuum, London 1996; d. maleuvre, Museum me-mories: history, technology, art, Stanford University Press, Stanford 1999; h.s. hein, The mu-seum in transition: a philosophical perspective, Smithsonian Institution Press, Washington 2000.

35. peter novick, The Holocaust in American life, Houghton Mifflien Company, Boston-New York 1999, pp. 279-280; id., The Holocaust and collective memory: the American experien-ce, Bloomsbury, London 1999.

36. d.e. lipstadt, Denying the Holocaust. The growing assault on truth and memory, New York1993.

37. Per questi aspetti cfr. r. di castro, Testimoni del non-provato: ricordare, pensare, imma-ginare la Shoah nella terza generazione, Carocci, Roma 2008; mi sia inoltre consentito di rin-

1 19stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra?

Da soli, tuttavia, questi fattori risultano di gran lunga insufficienti a spie-gare la costituzione dei musei della Shoah. L’elemento determinante sembrainfatti rientrare nella sfera politica38. In particolare, esso va ricercato nella si-tuazione che si viene a creare dopo il crollo del muro di Berlino. Fino a quelmomento la Repubblica Federale Tedesca, in qualità di nazione aderente alPatto Atlantico, aveva svolto un ruolo chiave nella contrapposizione al bloccosovietico e al patto di Varsavia. In questa ottica per i suoi alleati, a comincia-re ovviamente dagli Stati Uniti, porre l’accento sulla Shoah equivaleva a met-tere sotto accusa o comunque in forte imbarazzo il passato prossimo di un go-verno fondamentale in chiave strategica nella lotta al comunismo: e di conse-guenza rischiare di incrinare questi rapporti, peraltro senza ottenere un ade-guato tornaconto. Questa situazione, destinata a protrarsi per decenni, spiegain primo luogo le carenze della Germania nei termini di una profonda e au-tentica presa di coscienza dei suoi legami con il nazismo, quel processo di ri-mozione collettiva che spesso fece dolorosamente rima con una singolare espesso iniqua tenerezza giudiziaria verso i suoi criminali di guerra. Assai me-glio delle pur numerose inchieste su alcuni esecrabili episodi di connivenza, ilsentimento generale di impunità trova espressione in Elie Wiesel. In un bra-no del manoscritto originale di Notte – un brano che significativamente sareb-be stato cancellato nella prima edizione francese dell’opera ecco allora espri-mere in tono accorato:

E adesso, trascorsi a malapena dieci anni da Buchenwald, mi accorgo che il mondodimentica in fretta. Oggi la Germania è uno stato sovrano. L’esercito tedesco è statoresuscitato. Ad Ilse Koch, che notoriamente fu il mostro di Buchenwald, è stato con-sentito di avere figli e di vivere felicemente da allora... Criminali di guerra scorrazza-no per le strade di Amburgo come di Monaco. Il passato sembra essere stato cancella-to, costretto all’oblio39.

La medesima situazione spiega inoltre come mai della Shoah in fondo si co-nosca poco anche al di fuori della Germania, cioè nel resto del blocco occiden-tale, Stati Uniti compresi. Di fatto, a partire dalla guerra di Corea e per tuttigli anni Cinquanta di quanto successo agli Ebrei si parla e si scrive sempre me-

viare ai testi a R. Di Castro, di Raffaella Di Castro e di Felice Cimatti in questo stesso volumee alla vasta bibliografia ivi citata.

38. Per una lettura politica del «fenomeno Museo» cfr. Exhibiting cultures: the poetics and poli-tics of museum display, The Smithsonian Institution Press, Washington 1991; t. bennett, Thebirth of the museum: history, theory and politics, Routledge, London 1994.

39. e. wiesel, op. cit., p. xii.

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no, fino a cadere nel dimenticatoio. L’eco del tribunale di Norimberga si spe-gne; i sopravvissuti hanno difficoltà ad esprimersi e tacciono. Fatto curioso, sesi considera che nel 1945-1946 il popolo statunitense, dopo aver scoperto icampi e perseguito molti dei colpevoli, si era reso interprete anche in forza del-la citata testimonianza di Eisenhower di un sentimento collettivo fatto di «rab-bia, disgusto, colpevolezza e alienazione»40. Un sentimento diffuso ma pas-seggero, sacrificato sull’altare delle alleanze strategiche e perciò nel breve girodi qualche anno sostituito da qualcosa in apparenze più concreto, come la mi-naccia sovietica e il conesso pericolo della bomba. Le cose iniziarono a cam-biare nei primi anni Sessanta. Un primo squillo di tromba fu il processo ad Ei-chman in Israele41. Dal processo, intorno al processo ruotò il pensiero di Han-nah Arendt, ancor oggi punto di riferimento essenziale per ogni riflessione sultema sul piano etico. Sopratutto, esattamente al contrario di quanto era acca-duto a Norimberga, l’intera questione ebbe un forte impatto mediatico. Sulbanco dei testimoni salirono oltre cento sopravvissuti: la loro parola rimbalzòin tutto il mondo, grazie alle cronache dei quotidiani e alla pubblicazione de-gli atti. Si trattò di

una forza galvanizzatrice, che portò gli [Ebrei d’America] faccia a faccia con emozio-ni fino allora represse, con eventi il cui scopo complessivo e i cui effetti complessivierano stati tenuti segreti, a rimuginare, sotto la superficie della coscienza42.

Un secondo momento, stavolta di rottura, va individuato nel biennio 1967-1968. Alla base vi fu innanzitutto la nuova valutazione di Israele al terminedella guerra dei Sei Giorni. La distruzione dello Stato ebraico ed il nuovo Olo-causto auspicati dal presidente egiziano sconfitto Nasser, da soli, ebbero l’ef-fetto di sollevare negli Stati Uniti ed in una parte d’Europa un’ondata di au-tentica indignazione. D’altro canto si deve tenere presente che, a differenza diquanto successo nelle guerre del 1948 e del 1956, Israele si rivelò allora unademocrazia occidentale evoluta e militarmente forte. Così, mentre in Unio-ne Sovietica ogni simpatia verso gli esperimenti di matrice socialista o comu-nista – che pure avevano caratterizzato i primi due decenni di vita della na-zione ebraica, fino a creare il mito del kibbutz – venivano messi da parte perschierarsi con decisione a favore della causa araba, negli Stati Uniti e nei par-titi di centro e di destra di un congruo numero di stati occidentali – Italia

40. Cfr. r.h. abzug, Inside the vicious heart. Americans and the liberation of nazi concentrationcamps, Oxford University Press, New Yor-Oxford 1985; e.t. linenthal, op. cit., p. 5.

41. t. segev, op. cit., p. 272.

42. E.W. Linenthal, p. 9.

121stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra?

compresa – si registrò la crescita progressiva di simpatie filo-israeliane: sim-patie in apparenza perfino bizzarre nel caso italiano appunto, tenuto contodella parabola del post-fascismo e del Movimento Sociale. Nel 1968, al cul-mine della contestazione studentesca contro la guerra del Vietnam, alcuneuniversità statunitensi attivarono per la prima volta corsi sulla Shoah, indivi-duata come il rasoio fra il Bene e il Male, su cosa in guerra è giusto combat-tere e cosa no. Una terza fase del cambiamento cade infine nel 1977-1979. Lacrisi petrolifera, la rivoluzione islamica in Iran ed il conseguente, rinnovatointeresse verso lo scacchiere mediorientale portarono con sé un ulteriore rias-setto dei rapporti. Furono tra l’altro gli anni del serial tv Olocausto, che seb-bene annunciato da polemiche di varia natura, riscosse un immenso successopopolare: solo negli usa si calcola che sia stato visto da centoventi milioni dipersone. Nel nuovo clima l’allora presidente degli Stati Uniti Jimmy Carterformò nel 1978 una commissione governativa destinata a ricordare la Shoah,costituita da trentaquattro membri e con a capo Elie Wiesel. La commissio-ne aveva fra i suoi obiettivi promuovere una Giornata della Memoria – l’Ho-locaust Remembrance Day – in effetti approvata dal Congresso già nel 1980 –e decidere se, dove e come costruire un memoriale per le vittime. Questo com-plesso di fattori spiega il progressivo emergere nei vent’anni successivi al 1967di iniziative volte a ricordare e a promuovere la conoscenza dedicati allaShoah. Nel 1987 nei soli Stati Uiti si contavano oltre cento fra memoriali, ar-chivi, biblioteche, centri di ricerca e di documentazione43.

Per i musei veri e propri bisogna tuttavia aspettare altri dieci anni, cioè ap-punto il 1989-1990. Nel nuovo contesto, la Germania, ossia la nuova Germa-nia riunita dopo il crollo del muro di Berlino, da un lato vede la linea di confi-ne spostarsi diverse centinaia di chilometri ad est e, quel che più conta, in buo-na misura perde la sua funzione di baluardo strategico verso il nemico rosso; dal-l’altro si inizia a configurare, nelle vesti di «locomotiva d’Europa» come un rea-le competitor degli Stati Uniti in chiave economica. Eccole qui, finalmente, lecondizioni per iniziare a parlare della Shoah. Nel caso della Germania, addirit-tura, non soltanto si può, ma si deve parlare, scrivere della Shoah. Perché? Per-ché il futuro della nazione passa ora attraverso la resa dei conti con i fantasmi diieri e di oggi. Affrontando il tema in modo serio – senza le «tenerezze giudizia-rie», gli esecrabili episodi di connivenza con i gerarchi e al tempo stesso combat-tendo il risorgere di gruppi neonazisti – la nuova Germania s’impegna a chiu-dere con il passato. I musei progettati da Eisenman e da Libeskind non sono ildazio da pagare agli Ebrei: piuttosto, il sigillo di garanzia di un avvenuto pro-cesso di democratizzazione, una presa di coscienza dell’intera Germania. Essi co-

43. j. miller, One, by One, by One: facing the Holocaust, Simon & Schuster, New York 1990.

122 la memoria e la storia

municano a tutti – in primo luogo ovviamente ai Tedeschi stessi – che la nazio-ne non ripeterà mai più gli errori di un tempo, tanto meno si farà tentare dai ri-gurgiti di una destra xenofoba e antisemita. Per questo motivo entrambi i mu-sei vengono costruiti nella capitale rinata, Berlino; per questo il museo di Eisen-man è intitolato agli «Ebrei assassinati d’Europa», anziché agli «Ebrei morti» oagli «Ebrei» tout court; per questo sorge a poca distanza dalla porta di Brande-burgo e dall’originario percorso del muro; per questo infine si integra, condi-zionandolo, agli edifici nuovi o completamente rinnovati del Bundestag e delReichstag, trasparenti come il vetro. Una simile presa di coscienza delle proprieresponsabilità storiche, straordinaria e per certi aspetti davvero avvincente, nonsarebbe completa in mancanza di testimoni. Ebbene, chi potrebbe interpretarequesto ruolo meglio degli Stati Uniti? Ed è infatti proprio la nazione di Washing-ton, di Jefferson e di Lincoln, l’unica potenza mondiale rimasta in piedi dopo1989, che dalle finestre della propria ambasciata, a sua volta rifatta in contem-poranea da Frank O’Gehry, sorveglia il campo di steli di Eisenman e garantiscela sua interpretazione della Storia. Quei medesimi Stati Uniti, vale appena la pe-na di notare, che appena pochi anni prima, nel 1987, avevano escluso la Ger-mania – ed insieme alla Germania l’Unione Sovietica – dal novero delle nazio-ni degne di offrire il proprio contributo finanziario alla costruzione dello Holo-caust Museum and Memorial di Washington44.

Molte cose oggi che oggi sembrano peculiarità del gover-no totalitario sono invece straordinariamente notequando si studia la storia. Guerre di aggressione sonosempre esistite (...) e attraverso i secoli lo sterminio dipopoli nativi è andato mano nella mano con la coloniz-zazione delle Americhe, dell’Australia e dell’Africa.

Hannah Arendt

A ridosso o subito dopo il 1989 altre nazioni mettono in piedi musei o espo-sizioni dove la Shoah assume i connotati e sfumature di volta in volta diverse.Una chiara dimostrazione viene dall’Inghilterra. A partire dal 2000, su inizia-tiva dello Home Office, viene qui adottata una legislazione sull’Olocausto, di-venuto materia d’insegnamento a scuola e ricordato il 27 gennaio di ogni an-no in una giornata della memoria: nello stesso anno, come si è osservato piùvolte si apre nell’Imperial War Museum di Londra una vasta esposizione per-manente dedicata al tema.

44. p. dogliani, op. cit., p. 173.

123stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra?

In sé, queste iniziative potrebbero destare sorpresa. Perché mai aprire un’e-sposizione del genere proprio nella capitale dell’Inghilterra, cioè di una dellenazioni vincitrici della seconda guerra mondiale? E che per giunta conservavaancora relativamente integro nel suo corpo sociale – e ancora in parte conser-va – un sentimento di gloria per avere contribuito alla liberazione degli Ebrei,cosa in effetti realmente avvenuta nel caso del campo di concentramento diBergen Belsen? In effetti, la Holocaust permanent exhibition – e, più in gene-rale, le iniziative dell’Inghilterra a favore della Shoah – non si legano alle ma-trici osservate in Germania, quanto piuttosto al riconoscimento dei torti del-l’Occidente verso le colonie e alla coscienza che la politica razzista qui adotta-ta in forma sistematica rappresentò il presupposto dell’antisemitismo nazista.Dalle colonie, insomma, ebbe origine il «male oscuro» successivamente ripre-so da Adolf Hitler e dai suoi seguaci. Le radici moderne di questo filone inter-pretativo, è fatto noto, rimontano al 1951, ovvero alla pubblicazione de Le ori-gini del totalitarismo di Hannah Arendt45: da allora gli studiosi hanno larga-mente dimostrato le connessioni a livelli plurimi tra fascismo e colonialismoe, in particolare, tra la Shoah ed i genocidi attuati nelle colonie, mettendo inchiaro come giusto all’esperienza delle guerre di espansione coloniale si dovet-te la messa a punto del razzismo come arma formidabile di giustificazioneideologica. In quest’ottica le responsabilità della nazione britannica appaionoin tutta la loro evidenza. E non solo perché si tratta di un paese che per tradi-zione si rese interprete fuori dall’Europa di una politica aggressiva, espansio-nista e apertamente razzista, causa di massacri ed anche di veri e propri geno-cidi. Ma perché fu capace di elaborare prima e meglio delle altre concorrentiun modello di dominazione estremamente efficace – laddove l’efficacia si mi-sura soprattutto in termini economici. Un modello che, non a caso, negli an-ni Trenta i padri fondatori dell’antisemitismo tedesco continuavano a guarda-re con ammirazione, tanto da sentirsene eredi. «A noi [nazisti] pare evidenteche anche l’Impero Britannico sia fondato su un criterio di dominanza su ba-se razziale», affermava per esempio nel 1936 Alfred Rosenberg46. Cinque an-ni più tardi, nel 1941, Adolf Hitler, euforico per il brillante andamento dellefasi iniziali dell’Operazione Barbarossa, confessava a Martin Borman: «Quel-lo che l’India è stata per l’Inghilterra saranno per noi i territori della Russia(...). L’Europa non è un’entità geografica, ma un’entità razziale»47.

45. h. arendt, The origins of totalitarianism, Harcourt-Brace, New York 1951, trad. italiana diA. Guadagnin, con introduzione di A. Martinelli e un saggio di S. Forti, Einaudi, Torino 2004.

46. a. rosenberg, Die rassische Bedingtrheit der Aussenpolitik, in Blut und Ehre: ein Kampffür deutsche Wiedergeburt, Zentralverlag der nsadp, Franz Eher, München 1936, p. 340.

47. Hitler’s table talk 1941-1944, Oxford University Press, Oxford 1988, p. 23.

124 la memoria e la storia

Ecco dunque spiegato perché il Governo di Sua Maestà decida di aprireuna grande e costosa esposizione permanente sul tema dell’Olocausto proprionell’Imperial War Museum di Londra. Cioè esattamente in quel museo che,posto al centro del quartiere di Lambeth, a un tiro di schioppo da Westmin-ster, fin dalla sua fondazione era stato concepito come luogo principe di con-servazione e divulgazione delle memorie militari del paese e insieme ad essedella sua potenza, dei suoi traguardi: potenza, traguardi, che, sia chiaro, si era-no poggiate in larga misura sulla ricchezza generata dalle colonie. Attraversola Shoah, il più crudele e il più universale dei genocidi operati in base al crite-rio di razza, la nuova Inghilterra multietnica di Tony Blair vuole insomma co-municare a tutti – e in primo luogo a sé stessa – di avere abbandonato le po-litiche espansioniste e ancor più l’ideologia che ne aveva rappresentato il bro-do di cultura.

Con tutte le sue contraddizioni e le sue ambiguità, la presa di coscienzadell’Inghilterra del Labour party si qualifica come un’azione istituzionale fra lepiù solide nel doloroso processo di riconoscimento dei debiti del mondo oc-cidentale nei confronti delle sue ex colonie. Una coscienza, un’azione colletti-ve che altre nazioni stentano a raggiungere. Lo dimostra forse al meglio il ca-so Italia. Un paese che, ancor oggi in larga misura cloroformizzato dal mitodel «buon italiano», degli «Italiani brava gente», solo ora e con immensa, col-pevole fatica sta iniziando a fare i conti con le operazioni di puro stampo raz-zista attuate a cavallo fra Otto e Novecento nel Corno d’Africa come in Libia,in Etiopia come nell’impresa «internazionale» dei Boxer in Cina: operazioniche rappresentano la base di partenza della politica a sua volta razzista e anti-semita di Mussolini48.

Una situazione ancora diversa si registra negli Stati Uniti. Qui un primoobiettivo dei musei consiste nel dare sfogo a un senso di colpa collettivo versogli Ebrei49. A New York come a Washington ampio spazio viene dunque con-cesso ad alcuni episodi che rappresentano dei punti oscuri, delle macchie nel-la condotta della nazione: ciò vale per il mancato bombardamento dei campidi sterminio da parte dell’aviazione alleata e ancor più per il caso della SaintLouis, la nave passeggeri proveniente dall’Europa cui il Governo americano nel1939 negò il permesso di attracco e fece dunque tornare indietro, con l’effet-to di condannare alla morte quasi tutti i novecentotrentasette ebrei imbarcati.Queste situazioni, comunque in numero ristretto, vengono portate alla lucecome ferite aperte e dolorose, con un misto di vergogna ed umiliazione. Ma

48. Cfr. a. del boca, La nostra Africa, Neri Pozza, Vicenza 2003; id., Italiani, brava gente?Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza 2005.

49. Per l’analisi del rapporto della società americana con la Shoah cfr. J. Miller, op. cit.

125stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra?

proprio in quanto eccezionali servono anch’esse da rampa di lancio per pro-muovere altri valori della società americana, stavolta di segno nettamente po-sitivo. Il principale valore promosso nei musei della Shoah statunitensi è l’op-zione in favore di una società multietnica, dove chiunque sia posto in grado dicostruirsi la propria strada con le proprie sole forze, indipendentemente dallareligione, dal sesso o dal colore della pelle. A New York questo valore – peral-tro espresso chiaramente dal percorso di visita – è sottolineato dalla decisionedi ubicare il contenitore all’estrema punta meridionale di Manhattan, ovveronella zona dove nel diciannovesimo secolo e i primi decenni del ventesimo at-traccavano le navi passeggeri provenienti da tutto il mondo, Europa in testa.Si stabilisce in questo modo un filo conduttore con il mito della land of oppor-tunities ed i simboli canonici dell’emigrazione, entrambi perfettamente visibi-li sullo sfondo, la baia di New York, il ponte Giovanni da Verrazzano, la sta-tua della Libertà e infine il complesso di Ellis Island, dove peraltro esattamen-te negli stessi anni viene fondato lo spettacolare museo dell’immigrazione edella civiltà americane50. Una diversa e ancor più scoperta declinazione delmedesimo tema può cogliersi al Museum of Tolerance di Los Angeles. LaShoah è in questo caso il faro per trovare una via d’uscita ad alcuni problemiin apparenza insolubili della società mutlietnica, appunto. Martin Gilbert, lostudioso britannico di origine ebraica responsabile della sezione storica, me-scola dunque passato e presente, intrecciando il tema della Shoah con le guer-re fra bande a sfondo razziale caratteristiche della Los Angeles moderna: la stes-sa città, vale ricordare, che appena qualche mese prima era divenuta teatro diuna spaventosa rivolta della minoranza nera ai danni dei bianchi.

Bene: nei primi anni Novanta del ventesimo secolo proporsi come aposto-li di una società multietnica – anche al costo di aprire alcune porte buie e do-lorose della propria coscienza nazionale – equivale a spedire un messaggio po-litico estremamente chiaro. Uno dei tratti salienti della situazione internazio-nale di allora consiste infatti nel disfacimento progressivo di molte nazioni giàappartenenti al blocco comunista, dalla Jugoslavia, alla Cecoslovacchia, allastessa Unione Sovietica: un processo sovente dai contraccolpi drammatici sulpiano umanitario, anche per via dei frequenti episodi di genocidio, tanto darichiedere l’azione di truppe al comando dell’onu e l’intervento del tribunaleinternazionale dell’Aja. Ricordare l’Olocausto, erigere musei dell’Olocaustomentre altrove si eseguono «pulizie etniche», si viene uccisi solo in quanto si èqualcuno, si appartiene a una qualche etnia, diventa così lo strumento per sot-tolineare il successo di un modello civile rispetto a un altro.

50. Immigrants and Minorities, a cura di T. Kushner, numero speciale di «Heritage and Ethni-city», x, 1-2.

126 la memoria e la storia

Contestualmente ancora negli Stati Uniti la Shoah contribuisce all’obiet-tivo istituzionale di rinsaldare l’unità della nazione. L’intento si coglie soprat-tutto nel National Mall Washington, luogo di espressione di questo valore perantonomasia. Si è talora affermato che dare qui una sistemazione alla Shoahsignificava ricondurla nell’alveo di una tradizionale politica imperialista, vol-ta in sostanza a rivendicare agli Stati Uniti la priorità nei vari campi del sape-re: secondo questa lettura lo United States Holocaust Memorial and Museumandrebbe semplicemente ad aggiungersi ad altri istituti ubicati nelle immedia-te vicinanze, come lo Smithsonian, la National Gallery of Art o la Library ofCongress. Questa spinta, se mai esistente, si rivela comunque minoritaria ri-spetto ad altre. L’autentico collegamento del museo di James Ingo Freed – e diElie Wiesel – è piuttosto con l’interpretazione generale che il Mall sta ormaiacquistando negli ultimi vent’anni: un’interpretazione rivolta appunto a rin-saldare, a rifondare l’identità nazionale, ancor più che a competere con il re-sto del mondo sul piano del possesso fisico di oggetti. Questa nuova identitàpassa attraverso i numerosi memoriali ai caduti che sono stati eretti in questoluogo a partire dagli anni Novanta. Il Mall diventa, secondo questa lettura, lazona dove gli Stati Uniti si ritrovano come una nazione che al termine dellaGuerra Fredda può dire a sé stessa di avere portato a termine la sua missionedi pacificare l’intero pianeta. Una nazione che finalmente può ed anzi deve ri-cordare le proprie vittime. Attenzione: che è talmente forte da potersi persinopermettere di rendere omaggio a tutte le vittime. Per raggiungere l’obiettivo ilcomputo dei torti e delle ragioni passa in secondo piano, rispetto all’incom-benza morale di piangere la sorte di tanti e così valorosi soldati. L’edificio diFreed e i memoriali ai caduti in guerra servono perciò un comune obiettivo:sanare le ferite, gli strappi interni di una nazione che, per quanto ormai vitto-riosa, quasi paradossalmente nell’assolvere alla propria missione aveva vistoprogressivamente perduto la propria spinta ideale. Quella spinta ideale, quel-l’identità, che – basti qui solo accennarlo – vengono sancite esattamente nel-lo stesso luogo dai memoriali a George Washington, Thomas Jefferson eAbraham Lincoln. Non a caso anche in termini cronologici il legame più stret-to fra il Museo – e, ricordiamo, Memoriale – dell’Olocausto va ravvisato conil monumento ai caduti del Vietnam, la più controversa e lacerante fra le guer-re combattute dopo il 1945.

Il matrimonio celebrato a Washington fra la Shoah e questo grande – e permolti versi commovente – ideale di pacificazione nazionale non è stato accol-to ovunque e senza riserve. Sul versante ebraico, per esempio, in molti trova-rono difficile la rinuncia alla specificità della propria sofferenza. Su questo pia-no, cioè sul piano della critica, può ad esempio interpretarsi un episodio ab-bastanza delle vicende costruttive del museo. Com’è noto, nel corso della pro-

127stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra?

gettazione la Fine Arts Commission, uno degli enti federali con maggior vocein capitolo sulle scelte architettoniche, iniziò a fare pressioni affinché la saladel Ricordo fosse munita di finestre. Freed si schiera con decisione contro que-sta idea: «I am fanatically convinced that we don’t want people walking to awindow looking out on the Mall» – egli afferma a chiare lettere. Ricondurrela questione esclusivamente sul piano dell’estetica, come una delle innumere-voli dispute fra committenti e artisti, sarebbe a questo punto un grave limite:significherebbe guardare il dito, anziché la luna. La questione nasconde inrealtà due interpretazioni inconciliabili del ruolo dell’Olocausto nel presente.Laddove Freed vedeva qualsiasi distrazione rispetto al tema centrale un tradi-mento del senso della Shoah, l’organismo di controllo dello Stato americanointende stabilire un nesso concreto con gli altri memoriali, in particolare conquello di Thomas Jefferson, la cui volumetria peraltro richiama subito la saladel Ricordo. A questo punto non ha tutto sommato eccessiva importanza de-cidere chi dei due sia nel giusto, se Freed – il quale peraltro aveva la Shoah ta-tuata nell’animo, in quanto ebreo fuggito nel 1936 dalla Germania nazista – oal contrario la Fine Arts Commission. Ma solo constatare che alla fine le fine-stre della sala del Ricordo vennero effettivamente realizzate.

There is no business like the Shoah businessYaffa Eliach

In parallelo al crollo, o per lo meno all’abbassamento della «cortina di ferro»l’Olocausto ha iniziato dunque a rappresentare un patrimonio degno di esse-re musealizzato, che alcune nazioni-guida dell’Occidente hanno deciso di con-dividere, offrendone declinazioni singolari. I musei della Shoah provengonoinsomma dal vertice del potere istituzionale, che li ha letteralmente «calati dal-l’alto» e imposti alle rispettive popolazioni, circostanza che peraltro ha consen-tito loro di superare difficoltà e costi rimarchevoli. Un ulteriore incentivo è ve-nuto dall’eccellente risposta di pubblico51. Il Museum of Tolerance di Los An-geles si attesta su una media annua di duecentocinquantamila visitatori. LoUnited States Holocaust Memorial and Museum di Washington, visitato en-tro il 2006 da circa ventidue milioni di persone, strappa ogni giorno circa cin-quemila tagliandi: una circostanza che, in uno con la necessità dei controlli disicurezza, determina lunghe file all’ingresso. Su queste dimensioni si colloca-no i musei berlinesi, in particolare quello progettato da Daniel Libeskind, e la

51. t. cole, Selling the Holocaust. From Auschwitz to Schindler. How History is bought, packa-ged and sold, Routledge, New York 1999.

128 la memoria e la storia

Holocaust permanent exhibition di Londra. Yad Vashem, tappa obbligata perogni capo di stato o alto rappresentante istituzionale estero che si rechi in vi-sita ad Israele, accoglie infine ogni anno circa un milione e duecentomila per-sone. Un successo di tali proporzioni si spiega in vario modo. Bisogna ad esem-pio tenere conto della generica attrazione dimostrata da una fetta dei visitato-ri verso le atrocità commesse ai danni degli esseri umani: per un pubblico diquesto tipo un museo della Shoah ha più o meno lo stesso senso di un film del-l’orrore. Un’altra chiave risiede nel turismo architettonico. Com’è successo aBilbao – che grazie al Guggenheim Museum di Frank O’Gehry è divenuta ne-gli ultimi anni una meta estremamente ambita dei flussi internazionali – uncongruo numero di persone visita i musei della Shoah spinto dal nome dell’ar-chitetto e dalla qualità dei contenitori, assai più che dal racconto narrato al-l’interno. La durevolezza del successo di questi musei lascia comunque pensa-re che, accanto e al di là di questi fattori – almeno in parte riconducibili entrole normali dinamiche del consumo culturale – ne esistano altri, che invece silegano direttamente al tema. Il principale consiste nella capacità di questi isti-tuti di venire incontro a una reale domanda di conoscenza espressa dal pub-blico: i dati a disposizione e in particolare l’impiego massiccio dei sondaggi in-dicano infatti che, sebbene l’utente medio affermi di essere uscito provato dal-l’esperienza della visita, non di meno è disposto a consigliarla ad altri ed even-tualmente a rifarla.

Nonostante l’innegabile successo di pubblico, il messaggio trasmesso daimusei della Shoah non è stato accolto ovunque in modo piano. Anzi, ancoroggi si è ben lungi dall’avere risolto i nodi, le reazioni sollevate. Bisogna peresempio tenere conto delle resistenze espresse da rimarchevoli settori della so-cietà civile europea e statunitense verso la costruzione stessa dei musei dellaShoah. Attenzione: tali resistenze sono partite di rado o comunque non tantoda esponenti di un’estrema «destra» razzista – semmai questo termine risultiapplicabile nei vari contesti – ma anche, tutto al contrario, da intellettualiebrei che altrove e in altri modi hanno dimostrato un sostegno franco allaShoah. Basti pensare a quanto detto e scritto in Francia da un Claude Lanz-mann o, negli Stati Uniti, da un Saul Friedlaender, una Deborah Lipstadt ouna Lucy Dawidovicz, uniti dall’ostilità verso ogni mise en scène della sofferen-za ebraica52. A proposito del museo di Washington altri hanno poi insistito suilimiti del processo di pacificazione interna e puntato l’indice sulle responsabi-lità dei governanti nei vari conflitti: responsabilità naturalmente acuite dallavolontà di costruire i memoriali – compreso appunto quello della Shoah – adue passi dalla lunga vasca rettangolare posta dinanzi al Lincoln Memorial, en-

52. p. dogliani, op. cit., p. 171.

129stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra?

trata ormai nella cultura popolare come teatro di ogni battaglia per la pace edi diritti civili.

Obiezioni al vetriolo sono state poi mosse verso i singoli «racconti» storici.Si pensi ad esempio all’Inghilterra. Come si è accennato, l’esposizione perma-nente sull’Olocausto nell’Imperial War Museum intende riscattare il paese dal-la politica razzista e dai genocidi nelle colonie. Si tratta però di un riconoscimen-to «generalista» cui, fatto per certi versi paradossale, sfuggono proprio gli Ebrei.Nell’esposizione si omette di ricordare l’ampia diffusione proprio nel RegnoUnito durante gli anni venti e trenta del novecento di sentimenti antisemiti; co-me pure si trascurano gli scambi e le simpatie numerosi, reciproci al più alto li-vello con la Germania di Hitler, durati almeno fino al 1936, anno della confe-renza di Monaco. Ma forse la scelta più clamorosa è di concludere il raccontonel 1945, ossia quando le truppe alleate, fra cui gli Inglesi stessi, liberano i cam-pi di sterminio. Il taglio, che esclude dall’obiettivo storico la fondazione delloStato di Israele, nel 1948, mira ad ottenere un risultato duplice. Per un verso es-so evita di urtare suscettibilità della componente araba e palestinese, vuoi inter-na, vuoi esterna al Regno Unito, in un momento in cui il pericolo dell’estremi-smo islamico sta facendosi sempre più tangibile. Per l’altro, non si discute il ruo-lo, quantomeno controverso, del mandato britannico in Palestina, dall’ascesadel sionismo, alla dichiarazione di Balfour, fino a quei drammatici tre anni – ap-punto dal 1945 al 1948 – durante i quali giusto gli Inglesi si resero interpreti diuna politica volta ad impedire lo sbarco ad Haifa di decine di migliaia di ebreisfuggiti ai lager. Una politica che già allora trovò difficili spiegazioni.

Critiche a un presunto abuso di correttezza politica hanno coinvolto ancheil percorso di visita di Washington. Secondo questa linea, in estrema sintesi, ilracconto e ancor più il giudizio sulla Storia sarebbero qui viziati dal desiderio diledere il meno possibile i nervi scoperti dei singoli paesi e dal connesso timoreche le eventuali reazioni metterebbero a repentaglio l’integrità del messaggio pa-cificatorio: tutto questo avrebbe però contribuito a dimenticare, a sottacere lacarica di razzismo, sessismo e antidemocraticità allora diffusa nell’intera Euro-pa. Gli strali si appuntano in particolare sull’individuazione dei colpevoli. A Wa-shington la sola ed unica responsabile degli stermini è di fatto la nazione tede-sca, che sarebbe stata resa incosciente da Adolf Hitler, dai suoi discorsi e dallestraordinarie tecniche della propaganda nazista; un peso di gran lunga inferiorericade invece sugli altri governi, persino su quelli che pure strinsero alleanze mi-litari con la Germania. Un buon caso viene dal giudizio globale sul comporta-mento dello Stato Vaticano. Nel museo di Washington non si fa perciò alcunamenzione dei cosiddetti «silenzi» di Pio xii, vale a dire della sua mancata con-danna morale dei crimini commessi dai nazisti ai danni degli Ebrei. Una que-stione che in altri musei invece menzionata – per esempio a Yad Vashem – e che

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in ogni modo è ben lungi dall’avere trovato una soluzione definitiva: non a ca-so alcuni critici hanno bollato la scelta dei museologi americani come «imbaraz-zante»53. Il migliore esempio viene comunque dalla valutazione dello Stato Ita-liano. A Washington la Penisola esce infatti a pieni voti attraverso il ricordo difigure come Enzo Sereni, Giorgio Perlasca e padre Rufino Niccacci, tanto da ve-nire paragonata alla Bulgaria e quasi al livello della Danimarca, ossia di paesi cheraggiunsero un ruolo di eccellenza nella difesa dei propri cittadini ebrei. Preva-le insomma la visione buonista e in fin dei conti autoassolutoria di un Renzo DeFelice54 – oltreoceano portata avanti fra gli altri da Susan Zuccotti e da JonathanSteinberg55 – dove ogni provvedimento di matrice antisemita, dalla storica al-leanza con Hitler alle leggi del 1938, è sostanzialmente giudicato privo di realeefficacia, soprattutto grazie alla resistenze della popolazione civile: a totale disca-pito di un filone storiografico più aggiornato e almeno altrettanto autorevoleche, messo finalmente da canto lo stereotipo degli «italiani brava gente», sotto-linea quanto nel paese dopo il 1870 si fossero radicati e profondi nel paese laprofondità di penetrazione del razzismo nell’Italia post-unitaria e fascista56.

Fatta parziale eccezione per il Museum of Tolerance di Los Angeles, i mu-sei della Shoah hanno a che fare per lo più con lo sterminio degli Ebrei. Unospazio limitato viene così offerto alle altre vittime dei nazisti, cioè ai cinque mi-lioni fra avversari politici, comunisti, zingari, omosessuali, ucraini, malati dimente, paraplegici, massoni o membri di comunità religiose non allineate al cri-stianesimo ufficiale, inclusa l’Evangelica e i Testimoni di Jeovah57. Certo, a Wa-shington sia la parte introduttiva, sia la sezione al terzo piano dedicata al fun-zionamento dei campi accennano all’esistenza di altre categorie di vittime, ma

53. Ivi, p. 184.

54. r. de felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1961, ed. consul-tata Torino, Einaudi, 1993.

55. s. zuccotti, The Italians and the Holocaust: persecution, rescue, survival, Basic Books,New York 1987; j. steinberg, All or nothing. The Axis and the Holocaust. 1941-1943, Rou-tledge, London-New York 1990.

56. Per un’analisi dell’impatto di Renzo De Felice, anche attraverso la sua volgarizzazione e ilsuo ribaltamento in chiave politica – peraltro attuati quasi sempre attraverso la lettura di Rossoe nero, anziché di Storia degli ebrei italiani – si vedano Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revi-sioni, negazioni, a cura di E. Collotti, Laterza, Roma-Bari 2000; La storia negata. Il revisioni-smo e il suo uso politico, a cura di A. Del Boca, Neri Pozza, Vicenza 2009, in particolare la In-troduzione dello stesso Del Boca e La Shoah e il negazionismo dello stesso Collotti, rispettiva-mente alle pp. 7-38 e 237-260.

57. Per le vittime omosessuali cfr. r. lautmann, Categorization in concentration camps as acollective fate. A comparison of Homosexuals, Jehovah Witnesses and political prisoners, in «Journalof Homosexuality» xix, 1990, pp. 67-88; m. berenbaum-a.j. peck, The Holocaust and Hi-story. The Know, the Unknown, the Disputed and the Reexamined, Indiana University Press - TheU.S. Holocaust Memorial Museum, Washington d.c. 1998.

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nel complesso anche qui viene ribadito che gli Ebrei rimasero the first target, ilbersaglio principale. Com’è noto, la responsabilità della particolare impostazio-ne del museo di Washington spetta ad Elie Wiesel. Fu infatti proprio Wiesel –che, vale ripeterlo, fu per lungo tempo a capo dell’apposita commissione fede-rale a suo tempo instaurata dal presidente Carter – a spingere in favore dell’e-sclusività degli Ebrei, a suo avviso sterminati per «identità biologica», anzichéper «diversità sociale». Fin da allora queste opinioni e queste scelte furono alcentro di aspre critiche. Alcuni per esempio misero in rilievo quanto fosse arbi-trario inserire l’omosessualità nella sfera etica; altri la diversità della situazionedegli evangelici e dei testimoni di Jeovah, posti dai nazisti dinanzi all’alternati-va di abiurare il proprio credo oppure morire. Con l’andare del tempo si è ve-nuto così rafforzando un movimento di opinione favorevole a un ampliamen-to verso i non-ebrei; motivazioni abbastanza simili hanno spinto altre minoran-ze, fra cui i nativi e gli afro americani, ad esprimere il desiderio di venire a lorovolta rappresentate lungo il National Mall di Washington.

Su queste basi il Governo degli Stati Uniti sembra ormai aver imboccatola strada del compromesso politico, attraverso la moltiplicazione dei musei edei memoriali. Come dire: uno per ogni etnia, uno per ogni minoranza. Vatuttavia messo in rilievo come la responsabilità della scelta in favore degli Ebreiricada non tanto su Wiesel, quanto piuttosto su chi scelse Wiesel. Il suo pen-siero è infatti scolpito nella sua storia personale. Ebreo ungherese sopravvissu-to ad Auschwitz e Buchenwald, nel dopoguerra egli era ben presto divenutoun intellettuale di primo piano, autore fra l’altro di La notte, insieme al Dia-rio di Anna Frank il libro più popolare e venduto sulla Shoah. Nella fitta neb-bia delle polemiche è semmai andato perso quanto di universale vi fosse nelsuo messaggio, così come si configura nel suo discorso di accettazione del pre-mio Nobel per la pace, pronunciato il 10 dicembre del 1986 ad Oslo. In queldiscorso Wiesel apre idealmente le braccia alle altre minoranze sterminate dainazisti e allarga il campo al mondo del presente, fino a includere i palestinesie gli israeliani: anche per Wiesel dunque, la Shoah rappresenta una chiaved’accesso per risolvere l’odio legato a matrici religiose o razziali58.

conclusione

Il 29 aprile 2004 lungo il National Mall di Washington ha aperto i battenti ilNational World War ii Memorial, ovvero il memoriale progettato da Friedrich

58. e. wiesel, The Nobel Prize Accemptance Speech delivered (...) in Oslo on December 10,1986, in id., op. cit., pp. 117-120.

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St. Florian e dedicato ai sedici milioni di soldati statunitensi che combatteronodurante la seconda guerra mondiale, i quattrocentomila che vi trovarono la mor-te e infine ai milioni che sostennero lo sforzo bellico in patria. L’opera, ripartitalungo l’asse di simmetria in due sezioni, la destra dedicata al fronte dell’Atlanti-co, la sinistra al fronte del Pacifico, apparentemente s’innesta nel binario già de-scritto, quello cioè nei monumenti ai caduti delle guerre combattute dagli StatiUniti d’America. A guardare bene, esso introduce però un significativo distin-guo. Rispetto ai precedenti della Corea o del Vietnam, gli Americani qui infattisono ricordati nei panni dei vincitori, anziché di semplici caduti. Nella magni-loquente celebrazione della vittoria – il monumento è peraltro di gran lunga piùvasto di ogni altro costruito in precedenza – sembra non esservi spazio per laShoah: nelle vignette narrative in bronzo collocate a destra e a sinistra prima del-l’ampio emiciclo la scena dove le truppe americane fanno il loro ingresso nei la-ger – fino ad allora un autentico luogo comune – è significativamente sostituitada una di analoga pressoché identica, dove gli stessi americani stavolta liberano ipropri commilitoni dai campi di prigionia giapponesi.

In questa fase storica i musei della Shoah godono di un pieno consensoistituzionale e politico. Il loro numero continua ad aumentare. Una serie diiniziative collaterali – la Giornata della Memoria vi rientra a pieno titolo – fasì che le file dei visitatori ai loro botteghini continuino ad allungarsi. Alcuniparlano addirittura di business dell’Olocausto. In sé, il fenomeno va accolto inmodo positivo e con fiducia, anche se va effettivamente valutato il grado ef-fettivo di penetrazione, di assorbimento nel tessuto sociale dei vari paesi. Ladomanda da porsi è piuttosto: fino quando durerà tutto questo? Al terminedel saggio si può azzardare una risposta al tempo medesimo pessimista e pro-vocatoria: tutto questo durerà fino a quando la politica lo riterrà opportuno.Detta chiara: durerà fino a quando i musei della Shoah serviranno alla politi-ca. La scommessa di questi musei – e, più in generale, della trasmissione ai po-steri della Shoah – si gioca esattamente su questo tavolo: far sì che la memo-ria di una minoranza, già divenuta memoria di Stato, si trasformi in una me-moria collettiva.

appendice. i musei della shoah e l’insegnamento

dell’universitario59

Nell’autunno del 2006 chi scrive ha dedicò alcune lezioni del proprio corso al te-ma dei musei della Shoah: cosa tutto sommato abbastanza naturale, trattandosi di

59. Comprehending the Holocaust. Historical and literary research, a cura di A. Cohen, J. Gel-

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un corso di Museologia. In parallelo, su esplicita richiesta di un piccolo gruppo distudenti, si diede il via ad un laboratorio museale. In quest’ambito Chiara Stran-gis realizzò un sondaggio preliminare che, sotto forma di questionario, intendevaverificare la conoscenza media della Shoah negli studenti dell’Università della Ca-labria (Appendice 1). Alessandra Carelli condusse invece un’analisi di un congruonumero di siti negazionisti e revisionisti presenti sulla rete (Appendice 2).

Per quanto molto diverse, entrambe le esperienze – intendo dire la risposta de-gli studenti in aula e il laboratorio museale – si sono rivelate utili a conoscere ilpubblico di riferimento ed elaborare appropriati strumenti di comunicazione invista della Giornata della Memoria, celebrata presso l’Università della Calabriadal 2007 in poi.

ber, C. Wardi, Peter Lang, Frankfurt am Main 1988; The Holocaust in university teaching, a cu-ra di G. Shimoni, Pergamon Press, 1991.

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