L'emergere della tradizione. Saggi di antropologia giuridica (secoli XVI-XVIII)

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Claudio Povolo

L’emergere della tradizioneSaggi di antropologia giuridica

(Secoli XVI-XVIII)

Claudio Povolo,L’emergere della tradizione. Saggi di antropologia giuridica (Secoli XVI-XVIII)

© 2015 Libreria Editrice CafoscarinaISBN: 978-88-7543-378-9

Comitato editoriale Furio Bianco, Darjenka Mihelič, Luciano Pezzolo, Salvator Žitko Redazione Laura Amato, Eliana Biasiolo, Lia De Luca, Martino Ferrari BravoProgetto grafico e impaginazioneLibreria Editrice Cafoscarina srlTipografiaLegodigit srl TrentoCasa editriceLibreria Editrice Cafoscarina srlTiratura100La presente pubblicazione è reperibile in formato elettronico all’indirizzo: http://www.voicesfromistria.euPubblicazione finanziata nell’ambito del Programma per la Cooperazione Transfrontaliera Italia-Slovenia 2007-2013, dal Fondo europeo di sviluppo regionale e dai fondi nazionali.Il contenuto della presente pubblicazione non rispecchia necessariamente le posizioni ufficiali dell’Unione europea. La responsabilità del contenuto della presente pubblicazione appartiene all’autore Claudio Povolo.

Libreria Editrice Cafoscarina srlDorsoduro 3259, 30123 Veneziawww.cafoscarina.it

Prima edizione marzo 2015

Sommario

Introduzione 7

Un conflitto nel Friuli del Cinquecento 15

Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei dieci. Una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento 47

Tradizione e giurisdizione negli scritti di un consultore in iure (Giovan Maria Bertolli, 1631-1707) 63

La piccola comunità e le sue consuetudini 103

Irrequietudini femminili: Laura Maria Ghellini 143

L’emergere della tradizione. Matrimoni clandestini e matrimoni segreti tra Cinque e Settecento 173

Uno sguardo rivolto alla religiosità popolare: l’inchiesta promossa dal Senato veneziano sulle festività religiose (1772-1773) 203

INTRODUZIONE

Ad introduzione del suo volume Inventing popular culture, John Storey ha osservato come l’individuazione di una cultura popolare, considerata emi-nentemente come folk culture, fosse in realtà il prodotto di un complesso processo istituzionale, economico e politico che nascondeva, più o meno intenzionalmente, le trasformazioni che, tra Sette e Ottocento, avevano in-vestito i rapporti tra ceti e classi sociali, per promuovere singole culture na-zionali o sviluppare la scienza di un uomo primitivo:

The collectors of folk culture idealized the past in order to condemn the pres-ent. The rural worker – the peasant – was mythologized as a figure of nature, a “noble savage” walking the country lanes and working without complaint the fields of his or her betters – the living evidence of, and a link to, a pure and more stable past ... Whereas the middle class could be encouraged to connect to a more organic past by embracing folk songs, the working class would have to be forcefully schooled in folk song in the hope of softening their urban and industrial barbarism1.

Un concetto, quello di cultura popolare, la cui formulazione esplicitava nitida-mente nuove rappresentazioni dei rapporti sociali, ma anche un sostanziale fraintendimento del passato in molti dei suoi aspetti più significativi. Un fraintendimento che, come ha notato lo stesso Storey, si sarebbe consolidato nella seconda metà dell’Ottocento con l’istituzionalizzazione di quella che sarebbe stata definitivamente classificata come alta cultura:

Although the distinction between high and popular culture, organized by prac-tices of aesthetic evalutation, is of recent origin, it is often presented as hav-

1 J. Storey, Inventing popular culture. From folklore to globalization, Malden 2003, pp. 10-11. Storey utilizza il concetto politico di egemonia formulato da Gramsci: “hegemony is used to suggest a society in which, despite oppression and exploitation, there is a high degree of ‘consensus’; a society in which subordinate groups and classes appear to actively support and subscribe to values, ideals, objectives, cultural and political meanings, which ‘incorporate’ them into the prevailing structures of power”, pp. 48-49.

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ing been in existence since the beginnings of human history. It is not difficult, however, to demonstrate that high culture started to become a significant insti-tutional space only in the second half of the nineteenth century. This was the result of two causes: the selective appropriation by elite social groups of aspects of what had been until then a shared public culture, and certain features in the development of the cultural movement we think of as modernism2.

Un’appropriazione selettiva che, con la delineazione e la formulazione di discipline, generi e stili, avrebbe complessivamente investito ogni aspetto della dimensione culturale3. Come è stato notato da Roger Chartier:

In the late nineteenth century the strict division that was established among genres, styles, and places split up this ‘general’ public, reserving Shakespeare to the ‘legitimate’ theatre and a smaller audience and sending off the rest of the au-dience to more ‘popular’ entertainements. Changes in the actual form in which Shakespeares plays were presented (but the same was true of symphonic music, the opera, and works of art) played a large part in the constitution of a ‘cultural bifurcation’ and a time of mixed and shared offering was succeded by a time in which a process of cultural distinction produced a social separation4.

Osservazioni che, sul piano della storia dell’arte, si ritrovano, in un certo senso, nella grande indagine condotta a suo tempo da David Freedberg pro-prio sottolineando il rapporto inestricabile tra il potere delle immagini e la loro fruizione5.In taluni casi, seppur macroscopici, per la dimensione della loro portata ide-ologica, l’appropriazione si accompagnò ad una vera e propria azione re-pressiva, come quella che venne significativamente condotta, a partire dal-

2 Ibidem, p. 32.3 Un’efficace sintesi storiografica del tema in D. Lederer, Popular culture, in J. Dewald (ed.), Europe 1450 to 1789. Encyclopedia of the early modern world, V, New York 2004, pp. 1-9. Come ha no-tato Lederer, “the exact nature of popular culture is so difficult to pin down because it is ap-plied in broad terms, to include rituals, art, literature, and cosmology. Many popular beliefs, rituals, and customs of the ordinary people were also shared by members of the social elite, clouding the boundaries between the two traditions. Tentatively, we can summarize popular culture as an expressive and shared system for the production, transmission, and consump-tion of cohesive yet simple values readily accessible to and accepted by most members of a given society at any given time, simultaneously fulfilling both normative and practical social interests. In the end, however, popular culture continues to elude precise definition. Perhaps the vey ambivalence of the terms renders it so theoretically flexible and at the same time dangerously seductive”, Ibidem, p.3.4 R. Chartier, The order of books. Readers, authors and libraries in Europe between the fourteenth and the eighteenth centuries, Stanford 1994 (Paris 1992), p. 15.5 D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni ed emozioni del pubblico, Torino 2009 (Chicago 1989), in particolare pp. 3-12.

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la seconda metà del Cinquecento, nei confronti di pratiche culturali che vennero equiparate a veri e propri riti magici6. Un fenomeno, quello della magia, che gli storici hanno interpretato alla luce di tesi anche contrastanti: da Jules Michelet che individuava nel mitico mondo magico i residui di an-tiche forme di religiosità pre-cristiane; a Alan Macfarlane e Keith Thomas che sottolinearono a partire dagli anni ’70 del Novecento non tanto l’azione repressiva condotta dall’alto, quanto piuttosto le tensioni interne allo stesso mondo contadino. Sino alle più recenti tesi femministe che nella caccia alle streghe hanno individuato in particolar modo l’aggressione di una società impostata sul patriarcato nei confronti delle donne. Di certo, come è stato notato da James Sharpe la percezione nei confronti del variegato mondo del-la magia si modificò sostanzialmente a partire dal Settecento, in particolar modo da parte delle élites europee. Se l’azione repressiva aveva contribuito nel corso del Seicento a far emergere un fenomeno culturale assai diffuso, pur marginalizzandolo in una dimensione demoniaca, nel secolo successivo l’atteggiamento di intellettuali, filosofi e giuristi si modificò radicalmente:

A number of factors ran together to create the elite retreat from belief in witch-craft and magic over western and central Europe in the decades around 1700, but perhaps the most potent of them was straightforward snobbery. Among the lower orders, fear of the malefic witch, trust in the cunning man or woman, and a religious mentality imbued with the old Christianity of wonders and direct divine intervention in human affairs persisted throughout the nineteenth and into the twentieth century7.

Ed osservazioni analoghe si potrebbero fare a proposito dell’atteggiamento delle autorità religiose e secolari nei confronti del variegato culto dei santi e dei martiri, soprattutto a partire dalla corrosiva critica rivolta dalle chiese riformate al tradizionale atteggiamento della chiesa cattolica nei confronti di

6 Come ha osservato James Sharpe, nonostante la pubblicazione, nel 1486, del famoso Mal-leus Maleficarum, non si può in realtà parlare di vera e propria caccia alle streghe se non a partire dagli anni ’60 del Cinquecento: “It is impossible not to see this development as opera-ting within the context provided by the Reformation and the Counter-Reformation. Correct religious beliefs were now being more rigorously defined, these definitions were being more rigorously enforced, and there was a widespread acceptance that, either in the face of a puri-fied Christianity or as a consequence of the knowledge that the world was near its end any-way, the devil and his minions were becoming more active”, J. A. Sharpe, Magic and witchcraft, in R. Po-chia Hsia (ed.), A companion to the Reformation world, Malden 2004, p. 444.7 Ibidem, p. 442. Rinvio allo stesso saggio di Sharpe per una delineazione approfondita della storiografia inerente il mondo della magia e la repressione delle streghe.

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una religiosità che, nella seconda metà del Settecento sarebbe stata percepi-ta come eminentemente popolare8.È però sul piano giuridico che l’operazione di appropriazione ha avuto un ruo-lo di primo piano, anche per le sue inevitabili implicazioni istituzionali e costituzionali. Nel corso del XIX secolo l’affermazione degli stati nazionali e l’adozione di codici dai forti significati simbolici misero decisamente in om-bra il vasto pluralismo giuridico che aveva contraddistinto la società medie-vale e della prima età moderna. Un fenomeno che si caratterizzò, come per altre discipline, sia per l’istituzionalizzazione di cattedre universitarie e una vasta giurisprudenza che connotava ad un tempo l’insegnamento e la prassi giudiziaria, che per l’equivalenza tra la dimensione del diritto e quella dello stato9. Sul piano storiografico tale appropriazione implicò non solamente la sottovalutazione del vasto pluralismo giuridico esistente prima dell’affer-mazione dello stato di diritto, ma pure la complessa dimensione culturale ed antropologica che ne costituiva il sostrato e la ragion d’essere10. Con l’affermazione dell’antropologia giuridica lo sguardo dello storico ha potuto così scorgere la complessità di società caratterizzate non solo dall’e-vidente frammentazione politica, ma pure dall’utilizzo di pratiche e proce-dure in cui interagivano sia aspetti formali che informali11. Basta pensare, ad esempio, alle complesse interrelazioni tra il sistema di faida, diffuso tra tutti i ceti sociali e regolamentato dalla consuetudine e dall’idioma dell’onore, e le procedure giudiziarie introdotte a partire dal basso medioevo dai giuristi di formazione romanistica12. Oppure ad un sistema giudiziario che nel corso

8 Rinvio, in particolare, relativamente ad alcuni importanti aspetti della questione, a E. Ca-meron, Enchanted Europe. Superstition, reason and religion, 1250-1750, Oxford 2010; A. Shell, Oral culture and Catholicism in early modern England, Cambridge 2007.9 Si veda in particolare L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari 1999.10 A.M. Hespanha, Introduzione alla storia del diritto europeo, Bologna 1999 (Lisboa 1997). Come notato da Hespanha il modello storico evoluzionista comportava una visione del diritto stori-co come un prodotto imperfetto e in progressiva via di sviluppo. In realtà il diritto medievale e di antico regime si caratterizzava per la complessità dei suoi contenuti religiosi, morali e antropologici, pp. 9-27.11 Si veda soprattutto N. Rouland, Antropologia giuridica, Milano 1992 (Paris 1988). Per l’età medievale sono condivisibili le osservazioni di T. Kuehn, Conflict resolutions and legal systems, in C. Lansing and E. D. English (eds.), A companion to the medieval world, Malden-Oxford 2009, pp. 335-336.12 Una riflessione teorica in P. Stein, Legal institutions: the development of dispute settlement, London 1984. Per un’analisi relativa al contesto europeo rinvio al mio Faida e vendetta tra con-suetudini e riti processuali nell’Europa medievale e moderna. Un approccio antropologico-giuridico, in Our daily crime. Collection of studies, a cura di G. Ravančić, Croatian Institute of history, Zagreb 2014, pp. 9-57

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dell’età moderna si trasforma sensibilmente sulla scorta di istanze sociali e politiche decisamente nuove, ma che appare ancora riluttante ad abbando-nare l’attrazione esercitata da una tradizione fortemente imbevuta di valori come la pace, l’onore e la distinzione13.I saggi contenuti in questo volume14 affrontano alcune importanti questioni inerenti i rapporti tra il mondo consuetudinario e quello più propriamente definibile colto ed affidato alla scrittura. Questioni che, per l’età medievale e moderna, implicano una stretta relazione tra la percezione colta, elaborata e tendenzialmente astratta affidata alla scrittura e quella sostanzialmente legata alle pratiche sociali, ma pure intimamente collegata alla trasmissione orale e consuetudinaria. E, non a caso, le consuetudini occupavano un ruolo di primo piano nell’ambito della gerarchia delle fonti cui doveva teorica-mente attenersi il giudice nella sua attività giurisprudenziale15.Come appare da un interessante conflitto giudiziario svoltosi nel Friuli del primo Cinquecento o tramite l’attività dei consultori in iure che operavano al servizio delle più importanti magistrature veneziane, non si trattava di certo di un rapporto semplice e lineare. E non tanto perché le normative consuetudinarie si inserissero in strutture politiche assai diversificate sullo stesso piano sociale e cetuale. Nel momento in cui il sistema di diritto co-mune, nei suoi aspetti più elaborati sul piano teorico e dottrinale, entra in contatto con il variegato mondo consuetudinario, l’operazione di mediazio-

13 H. Kamen, Early modern European society, London-New York 2000, pp. 189-190; C. Black, Early modern Italy. A social history, London 2011, pp. 194-196; J. R. Ruff, Violence in early modern Europe, 1500-1800, Cambridge 2004, pp. 73-83; C. Povolo, L’intrigo dell’onore. Poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Settecento, Verona 1997.14 Si tratta di saggi scritti a partire dagli anni ’90 e qui ripubblicati anche se, in taluni casi, con notevoli aggiunte e i necessari aggiustamenti e correzioni. Nell’ordine, così come ap-paiono in questo volume: Eredità anticipata o esclusione per causa di dote? Un caso di pluralismo giuridico nel Friuli del Cinquecento, in Padre e figlia, a cura di L. Accati, M. Cattaruzza e M. Verzar Brass, Torino 1994, pp. 41-73; Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei dieci. Una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento, in Studi offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 221-233; Giovan Maria Bertolli: l’ascesa di un giurista nella Venezia della seconda metà del Seicento, in 300 anni di Bertoliana. Dal passato un progetto per il futuro, Vicenza 2008, pp. 19-51; La piccola comunità e le sue consuetudini, in Tra diritto e storia. Studi in onore di Luigi Berlinguer promossi dalle università di Siena e Sassari, II, Catanzaro 2008, pp. 591-642; Laura Maria Ghellini Colocci. Lettere, Vicenza 1996; In margine ad alcuni consulti in materia matrimoniale (Repubblica di Venezia – secoli XVII-XVIII), in “Acta Histriae”, VII (1999), pp. 279-328; Uno sguardo rivolto alla religiosità popolare: l’inchiesta promossa dal Senato veneziano sulle festività religiose (1772-73), in Il culto dei santi e le feste popolari nella Terraferma veneta, a cura di S. Marin, Venezia 2007, pp. XIX-LXIV.15 La bibliografia è ovviamente amplissima. Mi limito a ricordare due testi che affrontano tali tematiche, anche se, per molti aspetti, da una prospettiva notevolmente diversa: M. Bel-lomo, The common legal past of Europe, 1000-1800, Washington D.C. 1995; H. J. Berman, Law and re-volution, vol. I: The formation of the western legal tradition, Cambridge (Mass.) 1983; vol. II: The im-pact of the protestant reformations on the western legal tradition, Cambridge (Mass.)-London 2003.

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ne svolta dal ceto dei giuristi, sembra quasi prospettare una sorta di inconci-liabilità tra i due mondi. Le esigenze di astrazione e di classificazione, tipiche di un ceto di professionisti, che sente la necessità di collocare la complessa casistica giudiziaria in un quadro teorico preciso e tramite un ragionamen-to giuridico contraddistinto dall’astrazione e dalla classificazione, appaiono inadatte a cogliere l’essenza del mondo consuetudinario, pragmaticamente ancorato alla mediazione e alla dimensione sociale del diritto. E anche quan-do lo sguardo dell’istituzione o del professionista del diritto si rivolgerà al mondo consuetudinario, ponendosi in una posizione esterna e dominante, così come avviene a partire dalla fine del Settecento, la tendenziale inconci-liabilità sembra assumere decisamente i tratti di un distacco culturale irre-versibile. Così come, ad esempio, si è potuto rilevare nella grande inchiesta condotta dal Senato veneziano sulle cosiddette feste popolari impropriamen-te distinte dalle feste di precetto.In realtà il contatto tra il mondo consuetudinario e della tradizione prospet-ta alcuni dei suoi tratti più significativi, soprattutto tramite la casistica giu-diziaria, in virtù dell’azione sempre più intrusiva e classificatrice delle istitu-zioni ecclesiastiche e secolari. Un aspetto, quest’ultimo che, come si è detto, è possibile cogliere in molte dimensioni della vita sociale e politica, ma che emerge soprattutto nella complessa materia matrimoniale. L’azione di controllo e di contenimento svolta dalle istituzioni ecclesiastiche e secolari fa emergere pratiche sociali che per secoli avevano agito quasi indisturbate, svolgendo un ruolo di primo piano nell’ambito di una socie-tà caratterizzata dalle distinzioni cetuali, dall’idioma della parentela e dalla frammentazione politica. Un esempio significativo, in tale direzione, è costi-tuito dal cosiddetto matrimonio segreto, che, dapprima le riforme tridentine, e poi, nel corso del Settecento, l’azione di controllo esercitata dalle istituzioni secolari, contribuiranno a far emergere dall’indistinto mondo consuetudi-nario. Non diversamente, il matrimonio clandestino, così come è formulato dal diritto canonico prima e dopo il Concilio di Trento16, sembra prospettare

16 I problemi dottrinari e istituzionali dell’area cattolica sono comunque percettibili an-che nel mondo riformato, come dimostra per l’Inghilterra l’interessante ricerca di Rebecca Probert sul Marriage act del 1753, che regolamentava i matrimoni clandestini: R. Probert, Marriage law and practice in the long eighteenth century. A reassessment, Cambridge 2009, in par-ticolare pp. 340-346; per la studiosa il Marriage Act non costituì una vera e propria rottura con il passato, ma ebbe rilevanza soprattutto sul piano giudiziario: “To a generation used to a wide choice of wedding venues the options available under the Clandestine Marriages Act may seem limited indeed, and its approach unduly prescriptive. Yet the Act should not be viewed from the perspective of a twenty-first-century bride or groom, but from that of their eighteenth-century counterparts, for whom marriage in church was the norm. All that the Act did, in essence, was to reinforce the requirements of the canon law by invalidating those marriages that failed to comply with its key provisions”, p. 243.

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nella sua stessa classificazione pratiche sociali che come il rapimento volon-tario erano animate dall’idioma dell’onore e da una concezione del matrimo-nio ancorato strettamente ai valori della parentela e del lignaggio, ma che necessitavano di una sostanziale regolamentazione. E l’interesse loro rivolto dalle istituzioni secolari suggerisce come si trattasse di pratiche sociali che investivano nel suo complesso i valori fondanti di una società impostata su una diversa concezione della proprietà, dell’economia e della successione.L’emergere della tradizione, intesa soprattutto nella sua accezione consuetu-dinaria e di ordinamento giuridico caratterizzato dall’oralità e dalla media-zione, è dunque un fenomeno storico e culturale che viene filtrato in età moderna dall’azione di istituzioni secolari ed ecclesiastiche volta a regola-mentarla e ad indirizzarla entro parametri giuridici che sono il riflesso di nuove istanze sociali e politiche. E lo strumento interpretativo dell’antropo-logia giuridica aiuta lo storico a coglierne la portata e i significati. La raccolta di questi saggi intende essenzialmente porsi lungo questa linea interpretati-va, volta a cogliere attraverso una variegata e complessa casistica giudiziaria l’emergere di pratiche sociali che a lungo furono ancorate alla consuetudine e alla trasmissione orale.Questo volume è venuto alla luce grazie all’iniziativa del progetto europeo Shared Culture e alla collaborazione tra l’università di Venezia e quella di Ca-podistria. Rivolgo un ringraziamento a tutti i colleghi sloveni con cui ho col-laborato per lunghi anni. Ma in particolare all’amico prof. Darko Darovec cui mi unisce un’assidua e reciproca collaborazione che risale ai primi anni ’90 del secolo scorso. Desidero inoltre ringraziare i miei collaboratori veneziani, che si sono prodigati con acribia e passione perché questo volume venisse realizzato: Laura Amato, Eliana Biasiolo, Lia De Luca e Martino Ferrari Bravo. Senza il loro apporto decisivo non sarei stato probabilmente in grado di dare la dovuta coerenza ad una ricerca che si è svolta in maniera intermittente nel corso del mio insegnamento.

UN CONFLITTO NEL FRIULI DEL CINQUECENTO

Giurista e letterato, il notaio udinese Antonio Belloni era assai noto nella prima metà del ’500 per la profonda conoscenza delle consuetudini e dei co-stumi friulani. Non a caso la Curia patriarcale di Udine si era a lui rivolta per avere delucidazioni intorno alla complessa materia inerente i riti e le tradi-zioni nuziali. Una materia che il Belloni doveva conoscere assai bene, sia in virtù dell’esercizio della sua professione che l’aveva portato a redigere molti contratti dotali, sia per la corrispondenza che sull’argomento aveva tenuto già in precedenza con alcuni giuristi. Aveva persino scritto un opuscolo sulla questione, basandosi su una notevole quantità di patti dotali stesi sia alla sua epoca che nei decenni precedenti.L’indagine del Belloni si era però infine arenata, come ebbe egli stesso a con-fessare, di fronte alla molteplicità delle situazioni locali, all’estrema com-plessità di riti e tradizioni, che erano ben lungi dal lasciarsi racchiudere in una uniforme e facilmente ravvisabile prassi consuetudinaria1. L’apparente inconcludenza della ricerca del notaio udinese trovò probabilmente giusti-ficazione nell’estrema diversificazione politica ed istituzionale del Friuli in epoca veneta. Una regione ampiamente caratterizzata dalla presenza e dalla vitalità delle giurisdizioni feudali, nonché dalla persistenza di tradizioni giu-ridiche di origine longobarda, che non erano state scalfite se non lievemente dalla penetrazione ideologica e politica di un centro cittadino in grado di opporre una netta supremazia sul proprio contado2. Se a Udine infatti, sull’a-naloga esperienza delle altre città italiane, si era enucleato un ceto di giuristi provvisto di un proprio linguaggio tecnico e di una sapienza giurispruden-

1 G. Marcotti, Donne e monache, Firenze 1884, pp. 81-82.2 Sulle origini dello stato regionale in Friuli cfr. P. Cammarosano, L’alto medioevo: verso la for-mazione regionale, in P. Cammarosano (a cura di), Storia della società friulana. Il medioevo, Udine 1988, p. 103 e ss. Sulla diffusione dei feudi in epoca veneta: S. Zamperetti, I piccoli principi. Si-gnorie locali, feudi e comunità soggette nello stato regionale veneto dall’espansione territoriale ai primi decenni del ’600, Venezia 1991. Su questo come su altri problemi di carattere istituzionale cfr. P.S. Leicht, Breve storia del Friuli, rist. anast. Tolmezzo 1987; P.S. Leicht (a cura di), Parlamento friulano, 2 voll., Bologna 1955.

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ziale, la cui sostanza e gli stessi tratti ideologici trovavano la loro ragion d’es-sere nello spirito di quel diritto comune che da alcuni secoli si era imposto in tutti i più rilevanti centri cittadini dell’Italia centro-settentrionale; se a Udine, come si diceva, un fenomeno di carattere più generale aveva messo ben salde radici3, nel rimanente del Friuli la vitalità delle consuetudini orali si accompagnava all’assenza o comunque alla sostanziale irrilevanza di un ceto di professionisti in grado di coniugare un sapere fortemente denso di significati simbolici con un potere politico da cui traeva la sua stessa giusti-ficazione.In realtà, nonostante i suoi risultati apparentemente negativi, l’indagine del notaio udinese un qualche spunto di novità lo faceva ben intravedere. Essa rivelava innanzi tutto l’esigenza di chiarimento e di riflessione da parte di persone che appartenevano senza ombra di dubbio a quel ceto di intellettua-li e di professionisti dotati di una forma mentis che nel diritto comune ritro-vava i suoi connotati ideologici più distintivi. E tale esigenza mirava molto probabilmente a ridefinire, alla luce di parametri giurisprudenziali uniformi e sulla scorta di una tradizione giuridica scritta, la complessità di una realtà sociale assai multiforme4. Ma l’interesse maggiore della ricerca e delle rifles-sioni del notaio Belloni sono da intravvedere probabilmente nel loro risvol-to giudiziario, in quella sorta di dialettica tra concezioni diverse sul modo di regolamentare i rapporti sociali ed economici, che quasi inevitabilmente veniva a confluire in maniera sempre più intensa nelle aule dei tribunali cit-tadini, sottraendosi alla tradizionale prassi di risoluzione dei conflitti.Nella prima metà del ’500 la conflittualità giudiziaria era ancora ben lungi dall’aver intrapreso quei percorsi che nei secoli seguenti in maniera sem-pre più intensa, travalicando i consueti confini giurisdizionali, l’avrebbero condotta a confluire nei superiori tribunali del centro dominante5. Le giuri-sdizioni feudali mantenevano ancora quasi intatto quel potere politico co-ercitivo che legittimava l’esercizio della giustizia civile e penale. Ma anche nell’enclave feudale friulana l’influenza di una cultura giuridica dotta che si enucleava nella figura del giurista interprete e mediatore di una sapienza

3 Sull’istituzione del Collegio dei dottori nel secolo XV cfr. V. Joppi (a cura di), Statuta colle-gii doctorum Patriae Forijulii, Udine 1880. Sull’affermazione e diffusione del diritto comune in Europa cfr. A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, Milano 1982.4 Su questi problemi cfr. A. Mazzacane, Lo stato e il dominio nei giuristi veneti durante il “secolo della terraferma”, in G. Arnaldi – M. Pastore Stocchi (a cura di), Storia della cultura veneta. Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, 3/I, Vicenza 1980, pp. 577-650.5 G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982; C. Povolo, Il giudice assessore nella Terraferma veneta, in C. Povolo (a cura di), L’As-sessore. Discorso del signor Giovanni Bonifaccio, Pordenone 1991.

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giurisprudenziale cominciava a far sentire i suoi effetti6. Si trattava di una cultura cittadina, che prima ancora di manifestarsi tramite i consilia e i trat-tati7 tendeva ad imporsi attraverso il filtro delle istituzioni giudiziarie co-munali, avallando l’ideologia dei ceti che detenevano il potere8. Era perciò quasi inevitabile che in decenni caratterizzati da una crescita economica e demografica di tutto rilievo, i ceti emergenti rurali fossero spinti a dirigere la conflittualità locale verso i tribunali cittadini, in cui i loro interessi pote-vano meglio essere rappresentati e difesi.I percorsi conflittuali e le loro risoluzioni giudiziarie cominciarono quindi a manifestare intensamente, prima ancora che un confronto tra consuetudine e legge scritta, una dialettica politica che poneva in rilievo il ruolo sociale goduto, anche nel mondo rurale, da famiglie emergenti dotate di ricchezze e tese ad affermare l’intangibilità del proprio patrimonio. Materie squisi-tamente civili come i contratti di dote o le successioni testamentarie costi-tuirono le tappe più significative di questi percorsi alternativi. Nell’ambito delle aule giudiziarie cittadine il trattamento dei conflitti veniva investito di nuovi significati ideologici; le parti contendenti si misuravano in un’arena in cui inevitabilmente emergeva una dialettica giuridica che si alimentava degli opposti interessi9.In una prospettiva antropologico-giuridica il rilievo politico della conflittua-lità giudiziaria e i suoi percorsi dettati da assetti istituzionali gerarchici, ma fortemente dotati di autonomie giurisdizionali, appaiono elementi in grado di avvicinare lo studioso all’intima comprensione di alcuni temi ritenuti oggi importanti nell’ambito della storia della famiglia. In altre parole la disputa e il conflitto su alcune questioni di fondo come le successioni ereditarie o i

6 L’utilizzo di giuristi cittadini anche da parte di alcuni feudatari per l’esercizio della giusti-zia nelle proprie giurisdizioni è attestato da G. Perusini, L’amministrazione della giustizia in una giurisdizione friulana del Cinquecento, in “Memorie storiche forogiuliesi”, 40, 1953, pp. 205-218.7 Pure ampiamente diffusi. Cfr. G.V. Giorio, Un parere legale del giureconsulto F. Mantica per i consorti di Tolmino, in “Memorie storiche forogiuliesi”, 45, 1945, pp. 155-167; G. Fabris, Un giureconsulto friulano del secolo XVI, in “Memorie storiche forogiuliesi”, 7, 1911, pp. 127-140; P. Antonini, Cornelio Frangipane di Castello. Giureconsulto, oratore e poeta del sec. XVI, Firenze 1882. Sulla diffusione dei consilia in Italia cfr. M. Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni dal medioevo all’età moderna, Bologna 1989.8 Intorno a questo decisivo problema cfr. M. Sbriccoli, L’interpretazione dello statuto. Contribu-to allo studio della funzione dei giuristi nell’età comunale, Milano 1969.9 Tali problemi sono stati affrontati da B. Lenman – G. Parker, The state, the community and the criminal law in early modern Europe since 1500, in Crime and the law. The social history of crime in Western Europe, a cura di V.A.C. Gatrell, B. Lenman, G. Parker, London 1980, pp. 11-48. Negli stati territoriali italiani il rapporto tra legge della comunità e legge dello stato era comunque reso assai più complesso dalla forte autonomia politica delle città e delle giurisdizioni locali. Su quest’ultimo aspetto cfr. G. Chittolini – D. Willoweit (a cura di), Statuti, città, territori in Italia e Germania tra medioevo ed età moderna, Bologna 1991.

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contratti di dote sono tali da configurare non tanto e non solo un rappor-to tra prassi giudiziaria e teoria giuridica, bensì pure i nessi profondi che costantemente mettevano in relazione gli assetti istituzionali della famiglia con le strutture economiche che la sorreggevano e, ancor più, con il ruolo sociale da essa occupato. In definitiva, attraverso lo stesso conflitto giudizia-rio, è possibile cogliere quella dimensione pluralistica del diritto, che troppo spesso, il livello normativo e trattatistico tendevano a porre in secondo pia-no sia di fronte all’emergere della legislazione statuale che all’affermazione ideologica del diritto comune10.La vicenda presa qui ad esame emerge dal fascicolo processuale istruito nel 1538-39 dalla curia arcivescovile di Udine11 in merito ad una questione suc-cessoria sorta a Forni di Sopra, piccolo centro della Carnia, la cui giurisdi-zione, insieme al vicino villaggio di Forni di Sotto, apparteneva alla famiglia Savorgnan. A differenza della giustizia penale, gestita dai feudatari tramite un loro rappresentante residente ad Osoppo, l’amministrazione della giusti-zia civile costituiva una prerogativa quasi esclusiva delle due comunità, che godevano pure del privilegio del reciproco appello per le sentenze che erano state emesse nei due villaggi12. La giustizia civile veniva dunque amministra-ta dagli anziani della comunità sulla scorta delle consuetudini vigenti nel luogo. Una procedura che, come vedremo, il processo del 1538-39, istruito da un tribunale esterno, avrebbe fatto emergere nelle sue caratteristiche più salienti e tradizionali13.I protagonisti del conflitto giudiziario furono membri della famiglia Corra-dazzo, tra le più antiche di Forni di Sopra e sicuramente dotata di ricchezze e

10 Prospettiva esaminata problematicamente da N. Rouland, Antropologia giuridica, Milano 1992 (Paris 1988).11 Il fascicolo processuale ci è giunto attraverso una copia del documento originale tra-scritto da G. Gortani alla fine del secolo scorso. Il Gortani probabilmente ebbe a disposizione il voluminoso estratto che la Curia patriarcale di Udine rilasciò alle parti, mancante però della fase iniziale (presentazione dei capitoli) e della sentenza. La copia da lui trascritta è in Archivio di Stato di Udine (= A.S.UD.), Archivio Gortani, busta 22, fasc. 325, cc. 1-109, che d’ora in avanti si indicherà come Processo. Dello studioso friulano esiste inoltre una breve memoria manoscritta riassuntiva del processo in A.S.UD., Archivio Gortani, b. 10, f. 141.12 F. Bonati Savorgnan d’Osoppo, I due forni Savorgnan della Carnia e i loro statuti, in “Memorie storiche forogiuliesi”, XLVIII, 1967-68, pp. 115-135. Sulla famiglia Savorgnan, L. Casella, La Casa Savorgnan: considerazioni sul potere della famiglia aristocratica nel XVII secolo, in Strutture di potere e ceti dirigenti in Friuli nel secolo XVII, Udine 1987, pp. 13-32; Eadem, I Savorgnan delle pic-cole corti, in C. Mozzarelli (a cura di), «Familia» del principe e famiglia aristocratica, 2 voll., Roma 1988, vol. II, pp. 391- 413.13 I due Forni Savorgnan, in quanto feudi dell’antica famiglia friulana, conservavano dun-que un’ampia autonomia anche nei confronti di Tolmezzo, centro politico ed economico della Carnia, cfr. Tolmezzo. L’arengo e il consiglio, Tolmezzo 1890; G. Ventura (a cura di), Statuti e legi-slazione veneta della Carnia e del Canale del Ferro (sec. XIV-XVIII), Udine 1988.

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di un ruolo sociale che la ponevano in evidenza in quello sperduto villaggio montano della Carnia14. Il processo si aprì su istanza di Caterina Corradazzo figlia di Matteo e sposata dal 1536 a Floriano Cacitti di un vicino villaggio della Carnia. La giovane, in quanto unica figlia di Matteo Corradazzo, recla-mò a due anni dal matrimonio il patrimonio che era appartenuto al padre. Rimasta orfana quando ancora era bambina ella aveva convissuto con gli zii sino al giorno in cui si era sposata. Le sue pretese si rivolsero nei confronti dei quattro fratelli del padre e cioè Giovanni, Floriano, Costantino e Seba-stiano Corradazzo. In base alle antiche prerogative di Forni di Sopra la causa avrebbe dovuto essere giudicata dagli anziani della comunità, ma in realtà, poiché manca come si è detto la parte iniziale del processo, non sappiamo se Caterina Corradazzo e il marito avessero in via iniziale adito quel tribunale. Di certo con l’escussione dei testi presentati dalle parti, il processo passò da subito al foro giudiziario della curia patriarcale di Udine poiché Sebastiano Corradazzo, uno dei quattro fratelli era un ecclesiastico e da anni ricopriva il ruolo di parroco proprio a Forni di Sopra. Questo aspetto è di particolare importanza poiché evidentemente il conflitto giudiziario che ne seguì assu-merebbe per noi una diversa rilevanza interpretativa qualora fossero stati proprio i fratelli Corradazzo, utilizzando a loro favore la normativa ecclesia-stica, a spingere perché il processo si istruisse ad Udine piuttosto che a Forni di Sopra.Il dibattito processuale si svolse secondo la classica procedura accusatoria contraddistinta dall’iniziativa delle parti tese a far prevalere le proprie ra-gioni sulla scorta di una serie più o meno argomentata di capitoli avvalorati da testimonianze15. Una procedura caratterizzata dunque dal contraddittorio giudiziario e in cui il ruolo del giudice avrebbe dovuto sostanzialmente limi-tarsi alla pronuncia della sentenza16. Erano le parti a caratterizzare l’anda-mento del conflitto e la sua stessa durata: ed è questo il secondo punto su cui ritengo sia importante soffermarsi prima di procedere all’analisi contenuti-

14 Dallo stesso processo i Corradazzo emergono come una delle famiglie più benestanti di Forni. Si trattava di veri e propri mercanti che vendevano ad Udine la lana prodotta in quel-la parte della Carnia, acquistando cereali che poi commerciavano nei luoghi d’origine, cfr. A.S.UD., Archivio Gortani, b. 10, f. 141.15 A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, VI/1, Sto-ria della procedura, Bologna 1966. Sul rapporto tra la cosiddetta procedura delle tre persone e il sistema inquisitorio in cui il ruolo del giudice diviene determinante cfr. M. Sbriccoli, “Tormen-tum idest torquere mentem”. Processo inquisitorio e interrogatorio per tortura nell’Italia comunale, in J.C. Maire Vigueur – A. Paravicini Bagliani (a cura di), La parola all’accusato, Palermo 1991, pp. 17-32.16 In realtà, come si vedrà anche in questo caso, il giudice poteva avere un ruolo determi-nante nelle modalità e nei tempi di assunzione dei testi, cfr. A. Pertile, Storia del diritto… p. 374 e ss.

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stica del processo. Difatti, come è stato di recente osservato, in questa par-ticolare forma di risoluzione dei conflitti il diritto processuale acquista una propria consistenza ed autonomia dal diritto sostanziale. La forma finisce per prevalere sulla sostanza del discorso e la stessa sentenza è infine giustificata dalla procedura e dallo scontro forense17. Nel presentare le loro argomenta-zioni e nell’avvalorarle con testimonianze che evidentemente dovevano sor-reggerle, le parti in conflitto miravano a sottolineare la propria percezione della questione oggetto del contendere. Sono tali argomentazioni, scandite nei rituali capitoli e testimonianze, che poste a confronto possono rivelare le reali dimensioni giuridiche del conflitto e il suo spessore sociale.La vicenda giudiziaria che ebbe come protagonista la famiglia Corradazzo si svolse dunque presso il tribunale arcivescovile di Udine secondo la classica procedura contraddittoria che vide la citazione di decine e decine di testi-moni su richiesta di entrambe le parti. Come già si è detto non ci è rimasta la fase iniziale del processo e tantomeno quindi l’esatta formulazione dei capitoli che le parti presentarono al cancelliere arcivescovile per sostenere le loro richieste. Il loro tenore è però chiaramente deducibile dalle risposte che i numerosi testi diedero non solo agli stessi capitoli su cui di volta in vol-ta vennero interrogati, ma anche alle domande di chiarimento che il notaio patriarcale rivolse loro.Caterina Corradazzo e il marito Floriano Cacitti presentarono i capitoli che dovevano avallare le loro pretese nei confronti del patrimonio che era ap-partenuto a Matteo Corradazzo. Conviene elencarli per valutare gli effettivi obbiettivi delle due parti:- che il defunto Tommaso Corradazzo ebbe sette figli, di cui cinque sono an-cora viventi;- che a Forni di Sopra esiste una consuetudine che prevede che le figlie, in assenza di loro fratelli, hanno diritto di succedere ab intestato al padre, esclu-dendo ogni altro ascendente maschio;- che i fratelli Corradazzo, figli del quondam Tommaso, possiedono beni per il valore di circa 200 ducati.Ancora più argomentati furono i capitoli presentati da don Sebastiano Cor-radazzo e dai suoi fratelli. I primi dodici miravano a sottolineare le spese ingenti da loro sostenute di seguito all’incidente del 1522 e ad altri successivi imprevisti. Inoltre don Sebastiano Corradazzo aveva goduto e godeva ancora di alcune rendite personali che in parte erano state utilizzate per aiutare i fratelli. Ma erano soprattutto gli ultimi capitoli che entravano direttamente nella questione controversa:

17 M. R. Damaška, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo, Bologna 1991, pp. 179-182 e passim.

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- Forni di Sopra appartiene alla Patria del Friuli e come tale sono ivi applicate le Costituzioni della Patria del Friuli;- a Forni di Sopra non esistono giurisperiti e notai; le sentenze sono emesse dal gastaldo e ricordate a memoria dagli anziani;- Forni di Sopra dista molte miglia da Udine e di conseguenza dal luogo dove esistono giurisperiti che conoscono le Costituzioni della Patria del Friuli;- se nei giudizi seguiti a Forni si è proceduto contro quanto previsto dalle Costituzioni, questo è stato fatto più per ignoranza che «ex certa scientia»;- che sia a Forni di Sopra che a Forni di Sotto, in prima istanza come in appel-lo, si è giudicato che le nipoti di figlio premorto sono escluse dalla successio-ne dell’avo in favore degli zii paterni;- è pubblica fama che le femmine non succedano in presenza di maschi. La formulazione dei capitoli, come già si è detto, è di estremo interesse poi-ché rivela gli obbiettivi che le parti si proponevano di raggiungere. La suc-cessiva escussione dei testi avrebbe infatti dovuto sottolineare quegli aspetti della verità che più sarebbero stati funzionali a ciascuno dei contendenti. La sentenza del giudice avrebbe infine dovuto teoricamente attenersi alle pro-posizioni della parte che meglio aveva saputo esprimere la bontà e la forza delle proprie ragioni. Il rilievo giuridico e formalistico della questione dibat-tuta denotava così le proprie ambiguità e complessità sotto la spinta delle forze contendenti.I pochi capitoli presentati da Caterina Corradazzo e Floriano Cacitti rivela-no come le loro pretese trovassero in linea di principio un forte consenso sociale nella Carnia del ’500. È un aspetto questo che venne ripetutamente confermato dai numerosi testi che il vicario patriarcale interrogò nel corso del processo18. La presunta validità giuridica delle pretese dei due coniugi è

18 Giovan Mauro Corradazzo sostenne che in Forni Superiore “viget talis consuetudo quod filie femine, non existentibus masculis eorum fratribus, successerunt et succedunt eorum patribus sive eius paternis defunctis sine testamento in bonis et hereditate eorum patrum; et ipse femine filie excludunt patruos suos masculos vigore dicte consuetudinis...”. Ancora più preciso fu Daniele Callegaro che confermò come “in hac villa Furni Inferioris filie femine, non existentibus fratribus ipsarum filiarum masculis, succedunt patribus defunctis sine te-stamento in bonis et hereditate paterna et excludunt patruos suos masculos; et ita ipse testis vidit observari semper a memoria sua citra; tamen dixit nescire quod fuerit super hujusmodi causa judicatum, quia nullus contradixit...”. Molti degli stessi testimoni chiamati a deporre da don Sebastiano Corradazzo, pur sostenendo l’influenza delle Costituzioni friulane nei due piccoli centri della Carnia, non seppero nascondere la diffusione di tale prassi. Floriano Di Pauli fu tra i più espliciti: “al parer mio, benché di questo io non sappia che sij alcuna usanza in Forno, io penso chel dover vorria che una putta dovesse succeder nella heredità et beni pa-terni più tosto che altri patrielli et cosini d’essa putta; dicens se nescire que et qualia statuta observantur in alijs locis et replicans quod nescit esse aliquod statutum seu consuetudinem in Furno Superiori super hoc disponentem, tamen quod ita videtur sibi testi equius et honestius fore quam aliter...”, A.S.UD., Processo, cc. 11, 25, 49.

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del resto indirettamente avvalorata dai numerosi capitoli che don Sebastia-no Corradazzo e fratelli redassero per sostenere le loro ragioni. Capitoli che nel loro insieme miravano senza ombra di dubbio a porre in rilievo come il capitale e i beni della famiglia si fossero notevolmente ridotti a seguito di una serie di calamità, ma soprattutto a sottolineare come in Forni di Sopra venissero applicate le Costituzioni della Patria del Friuli. Quest’ultimo punto rende inoltre notevolmente plausibile l’ipotesi, già inizialmente formulata, che a spingere perché la causa fosse dibattuta ad Udine fossero stati proprio i fratelli Corradazzo, le cui ragioni sarebbero forse state accolte con maggiore difficoltà nei tribunali dei due Forni Savorgnan.Quali erano in realtà i punti di attrito tra le due parti? Caterina Corradazzo, pur avendo ottenuto dalla famiglia d’origine la consueta dote, reclamava per sé i beni che erano appartenuti al padre. A suo dire, essendo l’unica figlia e non avendo fratelli, le consuetudini vigenti da tempo immemorabile a Forni di Sopra le garantivano questo diritto anche nei confronti degli zii paterni. Un’affermazione che i fratelli Corradazzo rigettavano con decisione. In pre-senza di maschi le femmine non avevano diritto a succedere, replicavano essi. Un’affermazione piuttosto generica che essi però convalidavano soste-nendo che anche Forni di Sopra apparteneva alla Patria del Friuli e dunque venivano ivi applicate le Costituzioni del Friuli. Se talvolta non lo si era fatto, questo era avvenuto per pura ignoranza dei giudici locali e non certo per una scelta precisa. Del resto in quel villaggio non esistevano giurisperiti e notai, depositari di quelle leggi che venivano applicate in tutto il Friuli.Da un lato, dunque, Caterina Corradazzo e il marito rivendicavano la specifi-cità delle consuetudini del villaggio carnico che, a loro giudizio, rivolgevano un’attenzione particolare sul piano successorio alla discendenza femminile. Dall’altro don Sebastiano Corradazzo e fratelli opponevano la validità esten-siva delle Costituzioni della Patria del Friuli, che all’opposto sottolineavano in materia successoria l’importanza del lignaggio. Essi facevano senza dub-bio riferimento a quel capitolo delle Costituzioni che apriva la sezione dedi-cata alla successione ab intestato. Un capitolo importante, che definiva senza ambiguità l’importanza del principio di agnazione19:

19 La successione ab intestato era quella prevista dalle leggi e poteva comunque essere mo-dificata, entro certi limiti, dalla successione testamentaria. Cfr. C. Giardina, voce Successioni (Diritto intermedio), in Novissimo digesto italiano, XVIII, Torino 1971, pp. 727-751. Il principio di agnazione favoriva i parenti in linea paterna o per filiazione patrilineare, a diversità del principio di cognazione in cui la parentela poteva essere trasmessa indifferentemente per via paterna o materna, cfr. sui rapporti di parentela F. Zonabend, Della famiglia. Sguardo etnologico sulla parentela e la famiglia, in Storia universale della famiglia, a cura di C. Lévi-Strauss e G. Duby, 2 voll., Milano 1987 (Paris 1986), vol. I, pp. 15-76.

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Ut paternae et ceterorum masculorum superiorum diviciae in masculorum po-steritatem perveniant, per quam honor familie solet conservari ac avorum ple-runque fieri longa memoria, antiquis constitutionibus inherentes statuendo sancimus: quot si quis masculus sine testamento vel abintestato aut intestatus decesserit, ad ipsius successionem et hereditatem admittantur primo ipsius de-functi filii masculi, deinde caeteri descendentes masculi nati ex linea masculina defuncti... Et si dicto ascendenti ut supra defuncto sine testamento filii aut de-scendentes masculi ut supra ex linea masculina non extarent, tunc si supersint ascendentes masculi ex linea masculina – et dicto defuncto supersint fratres eius masculi ex utroque parente vel ex patre tantum coniuncti – tum dicti ascenden-tes proximiores in gradu una admittantur cum dictis fratribus defuncti ad eius hereditatem... Si vero non supersint dicti ascendentes masculi nec descendentes masculi ex linea masculina nec etiam defuncti fratres masculi, tunc si extant fratruum filii ipsi admittantur ad hereditatem defuncti patrui...20

Una completa affermazione della linea maschile, dunque, che vedeva privi-legiati dapprima i discendenti del defunto e poi i suoi ascendenti e collate-rali. Inoltre il principio di agnazione era ribadito dai diritti dei nipoti maschi (figli dei fratelli) del defunto, che succedevano in assenza degli altri parenti. La piena esclusione femminile era del resto pienamente esplicitata nel pro-sieguo del capitolo:

... quibus casibus filiae eo modo defuncti, ut superius dictum est, et caeterae fe-minini sexus eo descendentes ac descendentes ex eis mulieribus cuiuscumque sexus existant ac masculi ex ipsis feminis descendentes, ad successionem vel he-reditatem, seu aliquam partem ipsius hereditatis predictae personae eo modo defunctae, nullatenus admittantur...21

20 Constitutiones Patrie Foriiulij cum additionibus noviter impresse, Udine 1524, pp. 54-55. Dopo la caduta del governo patriarcale il parlamento friulano si occupò di riformare le costituzioni approvate nel periodo 1366-1386. Il decreto di promulgazione delle nuove costituzioni av-venne nel 1429, ma il processo di revisione continuò per tutto il secolo. Le prime edizioni a stampa uscirono nel 1484, 1497 e 1524. Sull’argomento si veda il brillante lavoro di P.S. Leicht, La riforma delle costituzioni friulane nel primo secolo della dominazione veneziana, apparso nel vol. XXXIX delle “Memorie storiche forogiuliesi” e poi inserito nel secondo volume de Il parlamen-to friulano.21 Constitutiones..., p. 56. Come osservò il Leicht tali norme erano state introdotte nella se-conda metà del ’300 su iniziativa della città di Udine e nonostante la forte opposizione del patriarca Marquardo e delle famiglie feudali favorevoli ad una successione femminile che meglio ne avrebbe garantito la continuità dei privilegi e delle giurisdizioni. Su questo come su altri problemi l’azione dei ceti mercantili di Udine si diresse con decisione verso l’introdu-zione di una normativa che si ispirava al diritto comune e a quei ceti di giuristi che si erano ormai affermati in quasi tutta l’Italia settentrionale. La riforma delle costituzioni friulane in epoca veneta risentì profondamente di questa tendenza, anche se vennero mantenuti diversi istituti di origine longobarda che meglio esprimevano gli interessi delle famiglie feudali, cfr. Leicht, La riforma delle costituzioni..., pp. 80-81.

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I fratelli Corradazzo avevano dunque un esplicito interesse a rifarsi alle Co-stituzioni della Patria, le quali senza ombra di dubbio parevano escludere ogni diritto femminile sul patrimonio familiare. E non appare perciò azzar-dato il presupporre che don Sebastiano Corradazzo avesse fatto valere di sua iniziativa la prerogativa che gli competeva di essere giudicato presso il foro ecclesiastico di Udine. In verità qualche complicazione era ancora prevedi-bile. Lo lasciava presupporre il penultimo capitolo presentato dagli stessi fratelli Corradazzo. Si sosteneva, in quello, come una giovane non avrebbe potuto succedere al patrimonio del padre se questi fosse deceduto prima dell’avo. Era proprio il caso di Caterina Corradazzo, il cui padre Matteo, di seguito alla slavina di neve, era morto alcuni giorni prima del nonno Tom-maso. Nei due Forni Savorgnan, a detta dei fratelli Corradazzo, la prassi giu-diziaria si era attenuta a questa consuetudine. Ma perché essi si erano preoc-cupati di inserire questo capitolo? Se a Forni, come essi sostenevano erano le Costituzioni della Patria ad essere applicate, quale significato poteva valere tale affermazione, che tanto più poteva apparire come un cavillo giuridico?In realtà quel capitolo dei fratelli Corradazzo lascia presupporre come anche nella piccola realtà sociale di Forni di Sopra la prassi in campo successorio fosse ben più complessa di quanto entrambe le parti lasciavano intendere con le loro rivendicazioni. Inoltre, sullo sfondo, una questione appariva ine-liminabile, anche se non era formalmente esplicitata nei capitoli che costitu-ivano il contraddittorio del processo: la dote assegnata alle figlie al momento del loro matrimonio era da considerarsi un’eredità anticipata, equivalente quindi alla legittima loro spettante, oppure all’incontrario la si poteva ri-tenere un’esclusione che mirava a favorire la linea agnatizia? Nel capitolo concernente le doti le Costituzioni friulane rivendicavano ancora una vol-ta il primato della parentela agnatizia e della discendenza patrilineare. Nel caso in cui il padre fosse morto senza aver potuto dotare le proprie figlie, i maschi agnati eredi (discendenti, ascendenti e collaterali) avrebbero avuto solo l’obbligo di dotarle “secundum qualitatem et quantitatem hereditatis ac etiam statum et conditionem maritandarum”22. Si trattava del principio del-la dote congrua, introdotto negli statuti delle città italiane a salvaguardia del patrimonio del lignaggio e della discendenza patrilineare. Un principio che permetteva, evidentemente, di giocare sulla dote come forma di esclusione delle donne dall’eredità paterna, garantendo anche attraverso l’istituto del fidecommisso l’intangibilità del patrimonio familiare23.

22 Constitutiones..., p. 49. Sul diritto successorio e sul sistema dotale friulani cfr. inoltre F. Lenardi, Regime patrimoniale tra coniugi nel diritto friulano, in “Studi goriziani”, XVII, 1955, pp. 19-55; XVIII, 1955, pp. 7-38; A. Nicoloso Ciceri, Tradizioni popolari in Friuli, II, Udine 1982, pp. 190 e ss.23 E. Besta, Le successioni nella storia del diritto italiano, Milano, 1962, pp. 64-65; Idem, La fami-

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Quel capitolo dei fratelli Corradazzo che mirava a sottolineare come il pa-dre di Caterina fosse morto prima dell’avo, lasciava però trapelare il timore nei confronti di una smagliatura che le Costituzioni friulane facevano intra-vedere nel pur declamato principio di agnazione. A proposito infatti della successione ab intestato le leggi aggiungevano che qualora l’esclusione delle figlie fosse avvenuta ad opera degli ascendenti e collaterali del defunto, esse avrebbero potuto pretendere “de hereditate defuncti de qua agitur tantum quantum est sua legitima de iure communi, in ipsa legitima computatis dote constituta”24. La preminenza del principio di agnazione veniva dunque in-taccata in parte da quello di discendenza, qualora a far concorrenza alle fi-glie fossero rimasti solamente ascendenti e collaterali25.Il contraddittorio tra le due parti si presentava di estremo interesse, filtrato come appariva sin dall’inizio del processo da una dialettica tra consuetudini locali e legge esterna. I testimoni che le parti in conflitto avevano chiamato a deporre avrebbero dovuto sostenere questa opposizione che qualificava le rispettive pretese giuridiche. In realtà il processo istruito nel 1538 in quello sperduto villaggio montano della Carnia avrebbe aperto uno scenario assai complesso in cui la rappresentazione della dialettica tra consuetudini orali e legge scritta si sarebbe arricchita di spunti e motivazioni inaspettati. I primi testi ad essere esaminati furono quelli che erano stati chiamati a deporre da Caterina Corradazzo a sostegno dei propri capitoli. Quasi tutti sottolinearono l’isolamento geografico di Forni di Sopra. In paese non esi-stevano notai e tanto meno giurisperiti, di modo che la popolazione doveva ricorrere a quelli del Cadore o di Tolmezzo. Ma del resto, come la gran parte dei testi osservò, non è che nel villaggio carnico si sentisse molto il bisogno di un notaio. Le cause giudiziarie non avevano alcuna registrazione scritta e le sentenze emesse dal gastaldo e dai tre giurati locali venivano ricorda-

glia nella storia del diritto italiano, Milano 1962, pp. 148-149; N. Tamassia, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e decimosesto, Roma 1971, pp. 291-293. Sull’exclusio propter dotem e quindi sul rapporto tra obbligo di dotare e diritto di succedere cfr. in particolare M. Bellomo, Ricerche sui rapporti patrimoniali tra coniugi. Contributo alla storia della famiglia medievale, Milano 1961, pp. 163-185. Lo studioso associa il fenomeno alla necessità “avvertita dalle famiglie che si orga-nizzavano nel comune e ne dirigevano l’attività, di strutturare l’organismo familiare in forme nuove, che agevolassero non solo lo svolgimento e l’attuazione delle intraprese industriali e commerciali, ma anche il compimento dei programmi di potenza politica, per mezzo della coesione e della stabilità nel tempo del patrimonio familiare” (Ibidem, p. 184).24 Constitutiones..., p. 55.25 L’edizione settecentesca delle Costituzioni sarebbe stata ancora più esplicita: “Ma se det-te femmine saranno escluse dai trasversali o ascendenti, la dote non sia minore della legitti-ma, la qual s’intenda in questo solo caso la metà della facoltà paterna...”, cfr. Statuti della Patria del Friuli rinovati, Udine 1773, p. 133.

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te a memoria26. Se una causa veniva appellata a Forni di Sotto, il gastaldo incaricava alcuni anziani della comunità di comunicare il contenuto della sentenza ai giurati cui era destinato l’appello. Solo se l’iter giudiziario fosse proseguito ad Udine veniva chiamato un notaio di fuori con il compito di metter per iscritto quanto era stato deliberato dai giurati delle due comuni-tà27. L’estesa oralità in Forni di Sopra era inoltre attestata dall’ampia diffusio-ne di accordi e composizioni tramite cui si regolavano, senza alcuna esigenza di registrazione scritta, le divisioni e i conflitti all’interno delle famiglie del luogo28. Una copia delle Costituzioni della Patria del Friuli, si sosteneva, non s’era mai vista in Forni di Sopra, anche se, come affermava qualche teste della parte avversa, il contenuto di quelle leggi era ben conosciuto in paese e qualche giurato29 le aveva ricordate nei giudizi30. Alle Costituzioni quasi

26 “... et quod villa Furni et loca circumvicinia posita sunt in locis muntuosis et sterilibus, in quibus habitant et consueverunt habitare persone rurales et idiote et penitus juris ignare Constitutionis Patrie et tamen ipsa loca sunt in Patria Forijulij et sub ista Patria, prout semper dici audivit, sed nescit quod hic regnavit juxta Constitutionem Patrie quod ipse testis sciat, sed regnavit secundum consuetudinem, idest de consueto et la usanza del paese et che in questo logo non è alcuna Constitutione della Patria, ma certi statuti”, A.S. UD., Processo, c. 12, test. di Bartolomeo di Orsola.27 La procedura venne descritta molto bene dal pievano del vicino centro di Invilino, chia-mato a deporre da Caterina Corradazzo: “... locum Furni superioris distare a Terra Tulmetij per viginti milliaria et a Plebe Cadubrij quindecim, in quibus locis reperiuntur notarij tantum; a civitate vero Utini abest quadraginta quinque millibus passuum, in qua et notarij et jurispe-riti turmatim inveniuntur. Et quod notarij Cadubrij non habent aliquam notionem Constitu-tionis Patrie, nam utuntur proprijs et separatis legibus; et quod propter huiusmodi defectum notariorum tam in Furno Superiori quam Inferiori, quando interponitur aliqua appellatio a sententijs ibi factis ad Magnificum Dominum Locumtenentem, conducitur eo aliquis notari-us pet appellantem, qui notarius accedit ad juditium dicti Furni in quo lata fuit sententia et relata sibi per gastaldionem et juratos tenore sententie appellate, medio eorum sacramento in manibus ipsius notarij prestito, sententiam ipsam in notam sumit et eam in appellatione producit”. (Ibidem, c. 38).28 Ampiamente attestata dalla fitta casistica addotta dai testi per suffragare le loro affer-mazioni.29 I giurati erano i tre anziani della comunità che svolgevano la funzione di giudici insieme al gastaldo, rappresentante locale pure eletto dalla comunità, ma che doveva essere appro-vato dai feudatari. Eletto da quest’ultimi e residente, come si è detto, in Osoppo era invece il Capitano cui competeva istruire e giudicare le questioni penali, cfr. A.S.UD., Archivio Gortani, b. 10, f. 141.30 Floriano De Pauli, il primo dei testimoni ad essere interrogato su richiesta di don Seba-stiano Corradazzo, affermò che “verum esse quod Furnus Superior est in Patria Fori Julij et quod scit Constitutionem Patrie Fori Julij observari in dicto loco Furni Superioris, dummodo cognoscatur et allegetur, nec ignoretur, et judicat quod in totum ipsa Constitutio Patrie sit in viridi observantia in dicto loco Furni superioris”. Il pievano di Invilino ricordò con arguzia che sebbene gli abitanti di Forni e dei centri vicini vivessero in luoghi montuosi ed isolati, tut-tavia “sunt malitiosi et Constitutionis Patrie prorsus ignari et quod si sentiunt injuriam sibi

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tutti i testi opponevano comunque le consuetudini di Forni, una prassi orale che essi non sapevano però ben definire. Richiesto dal vicario patriarcale di definire la consuetudine un teste rispose “consuetudinem esse id quod fit a posteris ad imitationem maiorum suorum uno et eodem modo”31. La consuetudine, intesa come un mito che collegava il presente al passato è vissuta dagli abitanti di Forni come una pratica ripetitiva che risaliva agli antenati. Le sue caratteristiche mitiche e ripetitive erano altresì collegate alla sua spontaneità. Richiesto di definire la consuetudine un anziano della comunità rispondeva al vicario che “consuetudo est illa quando in hac villa semper aliquid consuevit fieri uno et eodem modo et nescit que et quot sub-stantialia requirantur ad faciendam consuetudinem quia ipse est homo de monte et rudis et non potest hoc scire”32.Consuetudine ed oralità costituivano dunque un binomio profondamente inserito nella vita comunitaria. Un binomio che trovava la sua giustificazio-ne più profonda nella complessa rete di relazioni interindividuali, che pur organizzate in specifiche gerarchie individuavano però un comune campo decisionale politico, geografico e sociale33. Il richiamo alla consuetudine in opposizione alle leggi scritte, a quelle Costituzioni cui i fratelli Corradazzo tentavano di appigliarsi, seppure era strumentalmente finalizzato a soste-nere una tesi ben precisa, era incontestabilmente avvalorato da una prassi giudiziaria improntata all’oralità e alla sua specificità comunitaria e com-promissoria. Nel propugnarne la validità e persino la prevalenza sulla leg-ge scritta esterna, i testi chiamati a deporre sottolineavano la specificità giuridica della comunità e la concretezza dei rapporti sociali che in quella rinvenivano la propria legittimità. Non a caso gli arbitrati e i compromessi, sempre all’insegna di una indiscussa oralità, godevano nei due villaggi di un’ampia diffusione.Il richiamo alla consuetudine, soprattutto da parte dei testi citati a deporre su istanza di Caterina Corradazzo, era comunque finalizzato a sostenere la tesi che a Forni di sopra le figlie, in assenza di loro fratelli, ereditavano il

fieri per juditium dicti loci, appellant et provocant ad tribunal Clarissimi Domini Locumte-nentis Patrie et quod omnes de Furno tam Inferiori quam Superiori utuntur Constitutionibus Patrie, dummodo sciant...” (Ibidem, cc. 47 e 38).31 Ibidem, c. 35. Un altro teste precisò: “…è una usanza et uno stilo che se tien in uno paese longamente, et interrogatus dixit: che secondo doi testimonij degni de fede probatto cusì siando seguiti doi et tre casi et più da una usanza et stilo, quelli provano la dicta consuetudine et usanza et per suo creder queste cose recercano a far la consuetudine...” (Ibidem, c. 95).32 Ibidem, c. 25.33 N. Rouland, Antropologia giuridica…, p. 198. Interrogato di precisare “quot substantialia requirantur ad faciendum observantiam et consuetudinem juris effectum habentem”, il pie-vano d’Invilino rispose “requiri universalem consensum et usum faciendo rei de qua fit con-suetudo, quodque nemo consueverit facere in contrarium”, A.S.UD., Processo, c. 37.

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patrimonio paterno. Sino a che punto questo richiamo poteva considerarsi strumentale sul piano giudiziario e conflittuale per contrastare il ricorso da parte dei contendenti ad una logica giuridica esterna? La risposta, come già si è osservato, è in parte fornita indirettamente dagli stessi capitoli dei fra-telli Corradazzo, preoccupati di dimostrare un’influenza delle Costituzioni friulane nei due Forni Savorgnan. Il sostenere, come essi facevano, che se queste non erano state applicate era per l’assenza di giurisperiti o comun-que per ignoranza significava avallare indirettamente la validità delle con-suetudini locali anche in materia successoria. Ed in realtà, come molti dei testi escussi dichiararono, le figlie in Forni di Sopra godevano di ampi diritti nei confronti del patrimonio paterno.Proprio alcuni decenni prima le due comunità avevano redatto alcuni statuti che regolamentavano gli appelli e, in particolar modo, talune questioni atti-nenti il pascolo e la vendita al minuto. Uno di questi capitoli, concernenti i pesi e le misure, iniziava addirittura con un richiamo esplicito alla Patria del Friuli34. Come lasciavano intendere alcuni loro passi, gli statuti erano stati probabilmente redatti per contrastare l’ingerenza dei Savorgnan negli affari interni delle due comunità. Quelle norme non facevano in realtà che sanzio-nare per iscritto alcune antiche consuetudini locali che erano state minac-ciate dai feudatari. Le norme scritte e il richiamo implicito a leggi esterne erano dunque utilizzate dalle comunità per difendere la loro autonomia sul piano giurisdizionale.Era allora possibile intravedere nelle scelte dei fratelli Corradazzo un at-teggiamento anticonsuetudinario, come sembravano del resto attestare le formulazioni dei loro stessi capitoli? In definitiva poteva il binomio consue-tudine-oralità essere assunto come termine di paragone che veniva contrap-posto alla legge scritta esterna per giustificare la presunta legittimità delle figlie ad ereditare il patrimonio paterno in conflitto con il lignaggio d’origi-ne? La scelta che i fratelli Corradazzo avevano attuato nei confronti della ni-pote Caterina poteva veramente definirsi avulsa dal contesto sociale di Forni e dalle sue tradizioni?Si tratta di una serie di domande cui la lettura del processo non può evi-dentemente che fornire delle risposte parziali, considerate la complessità e l’ambiguità sottese all’apparente semplicità di un enunciato (le figlie ere-ditano o non ereditano) che in realtà si prestava ad essere accolto o ma-nipolato dalla molteplicità delle situazioni patrimoniali e familiari adottate nel contesto sociale che aveva originato il conflitto. D’altronde gli stessi te-

34 “cum sit quod predicti homines et comunia sint sub Patria Forijulii habeantque dominos suos commorantes in patria dicta... volentes pariter in omnibus se regere et gubernare cum dicta patria, ne aliqua in parte remoti videantur...”, cfr. Bonatti Savorgnan d’Osoppo, I due Forni Savorgnan, p. 130, statuti del 1497.

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sti, escussi su richiesta delle due parti, addussero a sostegno delle loro tesi un’ampia casistica giudiziaria che difficilmente avrebbe potuto facilitare il compito del giudice, che pure si inseriva spesso nelle loro dichiarazioni per chiedere spiegazioni e delucidazioni. Alcuni degli stessi precedenti erano poi ricordati dai testimoni di entrambe le parti per avvalorare i rispettivi capi-toli presentati.Evidentemente si trattava di una casistica che sottratta al contesto patrimo-niale e familiare che l’aveva originata si prestava ad essere facilmente ma-nipolata a livello giudiziario. Ad esempio molti dei testi escussi su richiesta di Caterina Corradazzo ricordarono il caso di Orsola figlia di Appollonio Poli, la quale aveva preteso di succedere al patrimonio paterno in contrasto con i fratelli del padre. Un compromesso aveva risolto la questione ed Orsola ave-va ottenuto un appezzamento di terreno, nonostante il padre fosse morto prima del nonno. Baldassarre Corrisello aggiunse però che non era in grado di dire se gli arbitri assegnarono ciò alla donna “ratione dotis sue vel suc-cessionis in bonis paternis”35. Floriano de Pauli, un anziano della comunità, chiamato a deporre da don Sebastiano Corradazzo, ricordò lo stesso caso di Orsola Poli mettendo in evidenza altri aspetti della vicenda. La donna, sotto-lineò il teste, aveva ottenuto un giudizio negativo sia in prima istanza a Forni di Sopra che in appello a Forni di Sotto. Il gastaldo e gli anziani delle due co-munità avevano pienamente dato ragione agli zii di Orsola36. Egli dimenticò di aggiungere però che di fronte alla minaccia della donna di proseguire la causa presso il foro del Luogotenente di Udine, gli zii erano addivenuti ad un compromesso37. In questo caso, dunque, nonostante la presunta attitudine consuetudinaria di considerare i diritti delle figlie nei confronti del patrimo-nio paterno, gli anziani delle due comunità avevano optato per il lignaggio originario. E solamente la minaccia di un ricorso ad Udine aveva indotto la parte vincente ad accettare un compromesso. L’opposizione consuetudine-legge scritta, a differenza del caso Corradazzo, si era per così dire invertita, manifestando dietro la diversa schermatura del linguaggio normativo e dei percorsi giudiziari la complessità del discorso giuridico sottoposto alla ma-nipolazione interessata delle parti.L’escussione dei testi aveva dunque progressivamente spinto il processo verso la questione centrale che contrapponeva Caterina Corradazzo agli zii

35 Ibidem, c. 2236 Ibidem, c. 49.37 Il marito di Orsola Poli chiamato a deporre su istanza di don Sebastiano Corradazzo ag-giunse che gli arbitri gli assegnarono solo lire quaranta dei 150 ducati che in realtà la moglie aveva preteso dell’eredità paterna, “et non so né mi recordo se ei me havessero dati tali de-nari... per conto de dotta o vero per vigor de ditta succession hereditaria, qual mi pretendeva haver” (Ibidem, c. 53).

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paterni: la dote assegnata ad una donna poteva veramente considerarsi uno strumento definitivo di esclusione nei confronti del patrimonio paterno op-pure, in realtà, si doveva ritenere una quota legittima a lei spettante? Nel primo caso, evidentemente, i rapporti successori della figlia con il padre o comunque con la famiglia di origine avrebbero dovuto interrompersi nel momento in cui la dote fosse stata assegnata. Nel secondo il rapporto giu-ridico si prospettava assai più complesso ed appariva sotteso ad una serie di interrelazioni familiari che potevano mutare, anche profondamente, nel corso del tempo.La questione prospettata nel conflitto giudiziario accesosi in quel piccolo centro dell’Italia settentrionale ha indubbiamente uno spessore storico di notevole importanza poiché investe in definitiva l’organizzazione patrimo-niale e culturale della famiglia in età medievale e moderna. Se ad esserne coinvolti, in primis, erano il sistema ereditario e i rapporti di alleanza tra i lignaggi familiari, nell’ambito più concreto delle relazioni giuridiche che definivano il passaggio da una generazione all’altra emergeva l’importanza del rapporto tra padre e figlia.È stato merito dell’antropologo inglese Jack Goody l’avere evidenziato le strette relazioni esistenti tra l’istituto della dote e l’eredità femminile. Questo studioso delle popolazioni dell’Africa settentrionale, ma successivamente rivoltosi alla storia della famiglia europea, ha posto in rilievo come il mondo mediterraneo si caratterizzi da presto per una devoluzione delle proprietà che egli ha definito divergente. La dote, a detta dello studioso inglese, doveva considerarsi un’eredità anticipata. In società stabili, sedentarie ed agricole i diritti delle donne tendevano ad affermarsi ed esse ereditavano quindi, al pari dei maschi, il patrimonio del padre. L’affermazione di Goody era gravida di conseguenze, poiché la visione storica tradizionale aveva sempre conside-rato la dote come uno strumento utilizzato essenzialmente per limitare od escludere i diritti delle donne dal patrimonio paterno. Tale considerazione deve comunque essere rapportata alla forte tendenza esogamica che si ma-nifesta nella società europea con l’affermazione del cristianesimo. Come po-tevano infatti le famiglie permettere che una parte del patrimonio potesse disperdersi tramite l’eredità femminile?38

La tesi di Goody è stata ripresa in un ampio saggio che la studiosa inglese Diane Owen Hughes ha dedicato all’affermarsi dell’istituto dotale e nel corso dell’età medievale e moderna. Ella ha notato come nell’ambito delle civiltà che si svilupparono nell’area mediterranea i doni concessi dallo sposo alla

38 J. Goody, Inheritance, property and women: some comparative considerations, in Family and in-heritance. Rural society in Western Europe, 1200-1800, a cura di J. Goody – J. Thirsk – E.P. Thom-pson, Cambridge 1976, pp. 10-36; Idem, Famiglia e matrimonio in Europa. Origini e sviluppi dei modelli familiari dell’Occidente, Milano 1984.

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moglie tesero ad essere sopraffatti dall’apporto che la donna otteneva dalla famiglia e che portava nella nuova unione. Nelle società barbariche il dono del mattino (morgengabe) che lo sposo pagava alla sposa come segno di rico-noscimento della sua verginità venne presto a sostituirsi al cosiddetto prez-zo della sposa che il marito pagava alla famiglia della donna per l’esercizio del mundio. Tale dono si ampliò sino a divenire la quarta parte del patrimo-nio maschile39.Attorno al IX secolo, a detta della Hughes, i diritti della donna ad alienare parte del patrimonio del marito si consolidarono al punto tale da divenire una consuetudine in certe aree dell’Europa mediterranea. Inoltre la prete-sa delle vedove di possedere il proprio morgengabe finì per delimitare i tra-dizionali diritti d’eredità della parentela del marito. Tale fenomeno favorì ad esempio come in Linguadoca vere e proprie forme di comunione di beni tra coniugi, mentre nelle popolazioni di origine romana è probabile che si associasse il dono del mattino alla controdote. Le conseguenze di questo raf-forzamento del dono del mattino furono, come osserva la Hughes, che il ma-trimonio non era più basato come nell’antica Roma sul consenso delle parti o come tra i Germani sul diritto d’acquisto. L’attenzione si spostò sull’atto sessuale, tant’è che nel primo medioevo la formale consumazione sanciva la validità del matrimonio e il morgengabe ne costituiva il simbolo più appari-scente40.Il risorgere della dote intorno all’XI secolo ridusse l’importanza del dono del mattino, la cui natura divenne strettamente usufruttuaria facendo dipen-dere il suo valore da quello della dote stessa. Al dono del mattino si sostituì la controdote, generalmente di molto inferiore alla dote. In tutto il mondo mediterraneo, osserva la Hughes, le donne cominciarono a dipendere meno dalla generosità dei mariti che da quella della propria parentela41. Giuristi e governi sottolinearono in tutte le città la relazione tra dote e diritti d’eredi-tà e il diritto delle donne ad avere una dote come sostituto del patrimonio paterno divenne la regola più diffusa negli statuti dell’Italia settentrionale42.

39 D. Owen Hughes, From brideprice to dowry in Mediterranean Europe, in “Journal of family history”, n. 3, 1978, pp. 262-296. Il mundio era la potestà maritale sulla donna che il marito acquistava al momento del matrimonio, cfr. A. Pertile, Storia del diritto italiano, 3, Bologna 1986, pp. 302-303.40 Hughes, From brideprice..., pp. 271-272. La controdote (antefatto, dovario) era il contributo che il marito assegnava alla moglie al momento del matrimonio. Una sorta di assicurazione sui propri beni che nel caso in cui ella fosse rimasta vedova e senza figli le avrebbe garantito una quota pari alla metà o ad un terzo della dote, cfr. P. Torelli, Lezioni di storia del diritto italia-no. Diritto privato. La famiglia, Milano 1947, p. 122.41 Hughes, From brideprice..., p. 278.42 F. Niccolai, La formazione del diritto successorio negli statuti comunali del territorio lombardo-

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Ma mentre per una ragazza di umili condizioni esisteva una relazione più stretta tra dote e porzione d’eredità paterna, per le giovani appartenenti a famiglie ricche tale relazione non era così scontata43.L’introduzione del regime dotale nel mondo mediterraneo allontanò l’at-tenzione dal legame coniugale per attirarlo sulla relazione tra la coppia e i parenti della moglie, i quali erano garantiti dalla dote nei diritti che essi rivendicavano nei confronti dei figli nati dal nuovo matrimonio. Inoltre il padre, anche tramite l’istituto dotale, divenne il principale garante e tutore della purezza sessuale di una giovane. La dote divenne un meccanismo di alleanze e di mobilità sociale. Se nelle grandi famiglie aristocratiche la dote portava con sé il significato della diseredazione44, una sorta di consolazione per l’esclusione dall’eredità, la sua associazione con lo status familiare accen-tuò l’interdipendenza tra padri e figlie45. Come ha osservato acutamente lo studioso J. P. Cooper la dote incoraggiò la piena integrazione delle figlie nel lignaggio, poiché nel corso del ’600-’700 in Europa si riscontra ovunque la preferenza assegnata alle figlie sul piano successorio, preferite ai collaterali maschi46.Poiché lo status delle Case sembrava dipendere dall’ammontare delle doti, queste finirono per divenire esse stesse status più che costituire parte del sistema ereditario. Solo laddove lo status coinvolto era minimo, come tra gli strati sociali medio-bassi, la dote era intesa come parte dell’eredità. Era in questi casi in cui la dote era per lo più ancora bilanciata dalla controdote che il contributo del marito rimase importante47.Pur concordando con Jack Goody sulla sostanziale bilateralità della società europea, la Hughes ha però osservato come la dote medievale assunse pre-minenza come forma di diseredazione all’interno di potenti gruppi familiari la cui organizzazione interna era divenuta “meno bilaterale”. Paradossal-mente solo la dilatazione delle doti finì per far acquisire alle figlie maggiori

tosco, Milano 1940.43 Hughes, From brideprice..., p. 290.44 Un punto che conservò però sempre margini di incertezza e che nel corso dell’età mo-derna non avrebbe mancato di suscitare frequenti contestazioni. Si veda ad esempio per la Francia F. Laroche-Gisserot, Pratiques de la dot en France au XIX siècle, in “Annales E.S.C.”, 43, 1988, pp. 1433-1452.45 Hughes, From brideprice..., pp. 284 e ss.46 J.P. Cooper, Patterns of inheritance and settlement by great landowners from the fifteenth to the eighteenth centuries, in Family and inheritance..., pp. 302-303.47 Come ad esempio tra gli artigiani di Genova in cui la controdote svolgeva un ruolo deter-minante nella formazione del nuovo nucleo familiare, cfr. D. Owen Hughes, Struttura familiare e sistemi di successione ereditaria nei testamenti dell’Europa medievale, in “Quaderni storici”, n. 33, 1976, pp. 929-952.

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diritti nella loro discendenza patrilineare. Comunque l’allontanarsi dell’ari-stocrazia dai principi bilaterali eliminò gli apporti maritali ed infine laddove la dote trionfò il potere sessuale dei mariti declinò introducendo la figura del cavalier servente48.Queste ipotesi sono state riprese di recente da due studiosi anglosassoni che hanno approfondito sul piano antropologico e giuridico il tema del rappor-to tra padre e figlia. Nella sua The History of the Family lo studioso inglese James Casey ha ribadito il rapporto esistente tra l’emergere delle doti e il rafforzamento dei diritti del lignaggio, sottolineando però la particolarità dell’esperienza inglese in cui il peso determinante del dovario o controdote ha permesso l’affermarsi dell’autonomia del rapporto coniugale. Se in quella situazione l’autorità del marito era molto forte, la controdote assegnata alla moglie le garantiva sicurezza in caso di vedovanza. Casey ha inoltre ribadi-to sulla scia di Cooper il ruolo fondamentale svolto dal sistema dotale nel favorire il passaggio da una società basata sulla gerarchia dell’onore ad una società in cui sarebbe prevalsa la gerarchia della ricchezza49.Nella sua raccolta di saggi sulla società rinascimentale fiorentina lo studioso americano Thomas Kuehn ha approfondito questa serie di problemi, met-tendo costantemente in relazione il dettato delle norme, l’interpretazione dei giuristi e la prassi quotidiana del conflitto. Nella sezione del suo libro dedicata alle donne Kuehn evidenzia il ruolo della patria potestà anche nei confronti della donna sposata50. Mettendo in discussione la visione tradizio-nale che vedeva nel matrimonio il momento di scissione dalla famiglia di origine e, tramite la dote, di esclusione della donna dalla proprietà paterna Kuehn ha posto in rilievo la continuità della patria potestà. Se il controllo del marito sulla donna è di tipo attivo, quello del padre si può infatti definire passivo, nel senso che rimaneva sotteso alle norme giuridiche più genera-li che regolamentavano i rapporti familiari. La patria potestà imponeva ad una figlia sposata restrizioni sul piano successorio e le impediva di compiere determinati atti giuridici come ad esempio scrivere un testamento, aliena-re una proprietà o prendere parte ad un procedimento penale senza l’auto-rizzazione paterna. Ma la patria potestà comportava dei limiti anche per il padre, poiché sino a quando permaneva un padre non poteva rapportarsi con la figlia da eguale, non poteva stabilire con lei un formale contratto e le proprietà non potevano passare tra di loro. E questi limiti gravavano ovvia-mente anche sugli altri. L’emancipazione delle donne sposate era uno stru-

48 Hughes, From brideprice..., pp. 289 e ss.49 J. Casey, La famiglia nella storia, Bari 1991 (Oxford 1989).50 T. Kuehn, Law, family and women. Toward a legal anthropology of Renaissance Italy, Chicago 1991, pp. 197-211.

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mento per creare capacità legali e situazioni che potevano essere utilizzate da chi vi era coinvolto.È però sulla presunta esclusione per causa di dote che Kuehn avanza alcune tra le osservazioni più interessanti. In particolare egli si è soffermato sul ruolo interpretativo e mediatorio svolto dai giuristi, spinti da un lato a salvaguardare il principio di agnazione e dall’altro a motivare le diversificate richieste dei clienti. Egli ha dimostrato che non esisteva comunque una chiara dicotomia tra una concezione maschile della parentela come 1’agnazione e quella di consanguineità. Tra il principio di agnazione e quello di cognazione esistevano infatti forti ambiguità e le donne potevano considerarsi agnati, usando strumentalmente sul piano giudiziario questa nozione di parentela laddove poteva risultare vincente, come ad esempio contro la parentela maschile più lontana51.In questo filone storiografico più attento alla normativa giuridica e alle sue implicazioni antropologiche il rapporto padre-figlia è divenuto dunque uno dei temi centrali nell’ambito della storia della famiglia. Gli istituti della dote e della controdote sono stati esaminati in una prospettiva volta ad accer-tarne le conseguenze e il reale significato in una rete complessa di rapporti interfamiliari. In questa direzione normativa giuridica e casistica giudiziaria hanno costituito il binomio inscindibile per verificare la reale dimensione storica di istituti che regolarono a lungo la vita della famiglia.Nel processo istruito a Forni di Sopra nel 1538 il dibattito giudiziario si inne-stò sin dalle prime battute in una dialettica giuridica che le parti avviarono strumentalmente per raggiungere il loro obbiettivo. Caterina Corradazzo ri-vendicò la prerogativa delle consuetudini locali per affermare i suoi diritti a succedere nel patrimonio paterno in assenza di fratelli. Consuetudini che, a suo dire, garantivano alle figlie ampi diritti pure nei confronti dei membri maschili del lignaggio paterno. Nei suoi capitoli non si faceva alcun cenno alla dote che ella aveva a suo tempo ricevuto e tanto meno alla sua costi-tuzione in funzione della quota ereditaria. È possibile che la dote in Carnia fosse essenzialmente connessa al rapporto patrimoniale tra coniugi e, di conseguenza, le figlie godessero liberamente della legittima sul patrimonio paterno?52

51 Ibidem, pp. 238-256.52 Alice Sachs delineò difatti questa situazione: “In Carnia e nelle parti più montuose, alle ragazze era assegnata una dote molto minore di quella che donne di egual condizione aveva-no in Friuli. Invece era lasciata loro una parte del patrimonio alla morte del capo di famiglia. Queste disposizioni potrebbero dimostrare la considerazione maggiore in cui era tenuta la donna nel Friuli settentrionale. Poteva come l’uomo ereditare per testamento, la piccola dote assegnata al tempo del matrimonio rappresentava un regalo dei parenti come i doni nuziali e il corredo. La donna ritenuta eguale ai fratelli era veramente eguale come lavoratrice. Dai

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A diversità dei testi di Caterina Corradazzo, quelli chiamati a deporre da don Sebastiano Corradazzo entrarono invece direttamente nella scottante que-stione del rapporto tra dote e successione. Osvaldo Venier fu tra i più espli-citi:

l’è consueto sì in Forno di Sopra como di Sotto che quando la riman qualche puttella la si dotta secondo la possibilità de quello ha la sua famiglia et la non ha altra rason oltra essa dotta perché la robba è del padre tanto quanto el dura lui, dappoi la sua morte è de li figlioli masculi viventi; et si ben è morto alcuno de essi suoi figlioli avanti de lui che habbino lasciate nezze doppo de lui, quelle tal nezze non poteno domandar cosa alcuna altro che la sua dote... 53

Non diversamente Floriano Sclavini osservò che

semper vidit quod silicet femine, existentibus masculis, in loco Furni Superioris non succedunt quemadmodum et in reliqua Patria et quod dantur eis tantum-modo prestamenta et earum dotes constituunt solumodo in pezzamentis et pre-stamentis et non in alijs bonis, neque in pecunijs...54

Per questi testi la dote assegnata alle giovani delle due comunità era dunque comprensiva di ogni altro diritto ereditario sul patrimonio paterno. Dalle loro affermazioni la dote, sganciata da qualsiasi correlazione con la legit-tima, appariva inoltre assumere le tipiche caratteristiche dell’esclusione55.

rogiti dei notari delle diverse parti del Friuli appare questo crescere o diminuire delle doti secondo l’altimetria, la ricchezza dotale varia da isoipsa ad isoipsa, in modo che si potrebbe quasi concludere che, dove l’animale da soma non può giungere, per aiuto all’uomo è presa la donna, che il lavoro da lei prodotto sostituisce la parte del patrimonio di famiglia, di cui ha bisogno la donna non lavoratrice...”, A. Sachs, Le nozze in Friuli nei secoli XVI e XVII, in “Memo-rie storiche forogiuliesi”, p. 15. Un’affermazione contraddittoria che forse la studiosa aveva tratto da una tradizione orale, ma che in realtà era motivata probabilmente dalla complessità della società e dell’economia montane che ponevano in rilievo l’apparente distinzione tra dote e legittima. Questa tradizione orale fu ripresa, anche se con diversa sottolineatura, da P.S. Leicht che osservò come in queste regioni montuose “generale è invece la preferenza data ai maschi in confronto delle femmine nella successione, come pure appare radicata l’idea che alla figlia maritata, dopo uscita di casa e quando abbia avuto il suo corredo e qualche parte dei beni paterni non si devan riconoscere altri diritti”. Lo studioso aggiunse inoltre che “la condizione nella quale la donna si trova in Carnia non si può definire una consuetudine giu-ridica, perché il marito non ha di certo un diritto che gli permetta di costringere la moglie... a compiere le più gravose fatiche... Però chi oserebbe dire che una tale consuetudine non ha effetto giuridico?..”. P.S. Leicht, Note sulle consuetudini giuridiche d’alcune zone alpine friulane, in Studi vari di storia del diritto italiano, Milano 1948, pp. 352-355.53 A.S.UD., Processo, c. 75.54 Ibidem, c. 58; ma cfr. anche sul tipo di dote assegnata c. 54.55 Giacomo Bisulitti raccontò quanto era avvenuto alcuni anni prima nella sua famiglia. Uno dei suoi zii, rimasto senza figli, lasciò come eredi l’unica figlia Agnese e il genero, che vive-

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Sembrava quasi di sentir recitare il dettato delle Costituzioni friulane che, a loro giudizio, erano ampiamente applicate in Forni di Sopra così come nel resto della Patria del Friuli.Quali erano dunque i punti di contatto tra le due versioni, che in apparenza non sembravano trovare alcuna conciliabilità? Evidentemente se Caterina Corradazzo avesse sostenuto che la dote doveva in ogni caso essere com-prensiva della legittima avrebbe dovuto conseguentemente dimostrare che quanto aveva ricevuto dagli zii al momento del matrimonio era stato insuffi-ciente a garantire i suoi diritti. Nei rogiti del primo notaio di Forni di Sopra, che inizia ad operare intorno alla metà del secolo, le cosiddette “remissioni” che accompagnavano gli inventari di dote sono molto frequenti56. Con que-sto atto formale di rinuncia la sposa dotata si impegnava nei confronti dei fratelli e dei genitori di “far fine, remissione, quietatione”. I due sposi, in definitiva, rinunciavano ad avanzare future pretese nei confronti del patri-monio della famiglia della donna57. Il valore delle doti assegnate, estrema-mente variabile, dipendeva ovviamente dalla consistenza del patrimonio e dal ruolo lavorativo svolto dalla donna nella famiglia d’origine. Sarebbe però azzardato considerare questi patti come attestazioni del fatto che la dote si dovesse considerare sempre come una sorta di esclusione definitiva dal patrimonio paterno. La sua equivalenza alla legittima era infatti rapportata alla situazione patrimoniale e familiare del momento in cui essa era stata co-stituita. L’atto di rinuncia mirava innanzi tutto a salvaguardare i diritti dei fi-gli maschi una volta che fosse venuta meno la persona, per lo più il padre, su cui incombeva l’obbligo di dotare. La congruità della dote, che poteva essere rapportata più o meno strettamente alla legittima, dipendeva dall’organiz-zazione patrimoniale e culturale della famiglia58. Come ha osservato David Sabean le formulazioni giuridiche devono rapportarsi in ogni caso a quella

vano con lui. Gli altri due fratelli ricorsero in giudizio a Forni, sottolineando “eius dementia et ruditate ingenij”. I giurati e il gastaldo di Forni “participato prius consilio cum egregio ser Christophoro Angelo notario Tulmetij, intelligentiam Constitutionis habente”, decisero a favore degli zii della giovane, cui invece sarebbe spettata “dotem congruentem secundum consuetudinem dictorum locorum in pezzamentis” (Ibidem, c. 84).56 Tolmezzo, Biblioteca Gortani, Archivio Roia, b. 102.57 In realtà gli atti di fineremissione, come avrebbe scritto un notaio carnico nella seconda metà del ’700, dovevano impegnare gli sposi “di mai più non addimandar cosa alcun’altra per conto e titolo di dote...”, cfr. Formolario per l’uso delli notaj di villa, Udine 1781, p. 48. Come osservò N. Tamassia quei patti consuetudinari che prevedevano la rinuncia della dotata alla futura successione paterna erano vietati dalla legge (N. Tamassia, La famiglia italiana…, p. 292), ma evidentemente se nella coscienza generale la dote era considerata l’equivalente della le-gittima, la rinuncia a non chiedere altro a titolo di dote significava in definitiva l’abbandono di ogni pretesa di tipo successorio.58 N. Tamassia, La famiglia italiana…, pp. 290 e ss.

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che egli ha definito time-dimension. Nel cercare di capire la natura della fami-glia appare fuorviante focalizzare l’attenzione su uno solo dei suoi momenti di vita. La costituzione del nuovo patrimonio familiare è infatti da correlare in prospettiva con la situazione che verrà a crearsi alla morte dei genitori de-gli sposi59. In questa direzione è significativo il rapporto economico e patri-moniale che si stabiliva tra i coniugi al momento e durante il matrimonio e i legami della stessa natura che essi intrattenevano con le famiglie d’origine.Gli atti di rinuncia stipulati a Forni di Sopra contemplavano per lo più anche l’esplicita dichiarazione da parte dello sposo e della sua famiglia che non solo la dote non avrebbe dovuto essere intaccata ma che essa sarebbe stata garantita da una apposita controdote, che consisteva in realtà in un aumen-to dotale che la donna, in caso di vedovanza, avrebbe potuto recuperare in-sieme alla stessa dote60. L’esistenza della controdote è l’attestazione dell’e-voluzione che avevano subito a ’500 inoltrato i più antichi apporti maritali61. Tale istituto stava a significare come in Forni di Sopra l’accento fosse posto per lo più sulla nuova unione coniugale che si veniva a formare piuttosto che sui vincoli di natura agnatizia e di parentela organizzata nel lignaggio. Era invece in quest’ultima ottica che la dote aveva presto assunto i caratteri dell’esclusione e in cui il lignaggio della donna manteneva una possibilità di controllo e di influenza sulla nuova coppia62. Laddove la dote era bilanciata dalla controdote è molto probabile invece che il suo valore potesse avvici-narsi, se non coincidere, con la quota di legittima spettante alla ragazza che lasciava la famiglia d’origine. È ipotizzabile che in tale situazione l’atto di rinuncia sancisse per lo più sul piano formale la definitiva scissione della sposa dalla famiglia d’origine. Probabilmente in una società come quella car-nica, caratterizzata da un costante e intenso flusso emigratorio maschile, le doti e le quote di legittima stentavano però ad inserirsi in un quadro norma-tivo che definisse stabilmente i rapporti giuridici tra i diversi membri della

59 D. Sabean, Aspects of kinship behaviour and property in rural Western Europe before 1800, in Family and inheritance..., pp. 105-106.60 Tolmezzo, Biblioteca Gortani, Archivio Roia, b. 102, in cui sono conservati inoltre diversi atti di recupero di doti e controdoti richieste da vedove alle famiglie del marito, cfr. ad es. atti del 12 giugno e 21 ottobre 1574. Nella stipulazione degli atti di rinuncia si accenna alle consuetudini di Forni che prevedevano una controdote del 15 per cento della dote. In realtà il valore reale della controdote si aggirava per lo più intorno al terzo della dote.61 Nelle stesse Costituzioni friulane, come osservò il Leicht, erano ancora ricordati gli an-tichi assegni maritali che provenivano direttamente dal periodo longobardo, cfr. P.S. Leicht, La riforma..., p. 78.62 Le donne avevano dunque il diritto ad essere dotate ma non a succedere nel patrimonio paterno ab intestato. La legittima scompariva nella legislazione statutaria per lasciar posto alla dote, che però “non acquistava il carattere della rigorosa ed esatta rispondenza propor-zionale al patrimonio paterno”, cfr. M. Bellomo, Ricerche…, pp. 176-177.

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famiglia63. È probabile che nel corso del ’500, di seguito al forte incremento demografico e migratorio che si registrò ovunque in Europa, l’unità familia-re divenisse più instabile e l’esclusione dei figli (e figlie) dotati finisse conse-guentemente per essere frequentemente ridiscussa alla morte del padre di famiglia, prospettandosi infine come una consuetudine ormai interiorizzata dalla comunità64.Il richiamo di Caterina Corradazzo alle consuetudini locali sembrava dunque plausibile. Pur provvista di dote ella ora reclamava una parte di quanto era appartenuto a suo padre. Di fronte a lei stava una prassi successoria ormai consolidata che permetteva alla figlia, dopo la morte del padre ed in assen-za di fratelli, di ridefinire la quota di legittima che era stata loro assegnata. Con l’esplicita richiesta della propria legittima ella avrebbe potuto in realtà impadronirsi di una buona fetta del patrimonio paterno. Ella proveniva da un’unità familiare allargata, in cui il vincolo agnatizio si era saldato intorno al patrimonio comune. Per vanificare le richieste della donna gli zii paterni si erano premuniti di sottolineare nel loro penultimo capitolo come Matteo, loro fratello, fosse morto alcuni giorni prima di Tommaso loro padre. Tra-mite la comune ascendenza la quota di patrimonio di Matteo era dunque confluita nella Casa Corradazzo, vanificando ogni pretesa della giovane Ca-terina, che del resto a suo tempo era stata dotata ed aveva abbandonato la residenza dei Corradazzo in Forni. Ma quei pochi giorni di differenza tra la morte di Matteo Corradazzo e quella del padre Tommaso, evocata da Seba-stiano e fratelli Corradazzo nei loro capitoli si prospettava sin troppo aper-

63 Per tutto il corso dell’età moderna la montagna carnica fu interessata da un vasto feno-meno migratorio che assunse spesso i caratteri dell’assenza prolungata o definitiva. Le diret-trici degli spostamenti si incanalavano soprattutto verso la terraferma veneta e gli stati di lingua tedesca. Un’emigrazione costituita prevalentemente da venditori ambulanti, mercanti e bottegai e che incise in profondità sul tessuto sociale ed economico della Carnia, cfr. l’inte-ressante saggio di F. Bianco, Una doppia identità: cramars e contadini nella montagna carnica (secoli XVI-XVIII), in Cramars. L’emigrazione dalla montagna carnica in età moderna. Secoli XVI-XVIII, a cura di F. Bianco e D. Molfetta, Udine 1992, pp. 9-125. È probabile che in un periodo di forte espansione demografica il fattore migratorio finisse per influire notevolmente sulla ridefini-zione dei rapporti successori tra i diversi membri della famiglia.64 Basandosi sul quadro normativo generale tracciato da J. Yver, E. Le Roy Ladurie delineò alcuni anni orsono i diversi sistemi successori diffusi in Francia. Alcune regioni francesi ed europee registrarono a partire dagli inizi del ’500 alcune interessanti modificazioni giuridi-che. I figli dotati che dapprima erano esclusi dalla successione, a partire da quel periodo furo-no ammessi alla successione paterna. In ogni caso alla morte del padre essi dovevano optare per la dote che avevano ricevuto oppure per la quota d’eredità loro spettante, cfr. E. Le Roy Ladurie, Sistème de la coutoume. Structures familiales et coutume d’héritage en France au XVI siècle, in “Annales E.S.C. ”, n. 27, 1972, pp. 825-846. Si vedano comunque le riserve espresse da David Sabean sull’approccio di Yver e Le Roy Ladurie, cfr. Sabean, Aspects of kinship behaviour..., pp. 104-105.

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tamente come un cavillo giuridico65. Caterina difatti era vissuta sin dalla più tenera età con gli zii, che erano subentrati nel compito di dotarla. La dote a lei concessa si poteva presumibilmente ritenere una sorta di esclusione da ogni suo diritto sul patrimonio familiare sino a che i fratelli Corradazzo fos-sero vissuti in comunione di beni66. La congruità della dote si era modellata molto probabilmente sull’organizzazione patrimoniale della famiglia tesa a difendere gli interessi della parentela agnatizia67. Tale situazione giuridica aveva difatti congelato quei rapporti che si erano venuti reciprocamente a creare tra la nipote e gli zii dopo la morte di Matteo Corradazzo. Ma proprio nel 1538, a causa di forti dissensi interni, i fratelli Corradazzo si erano divi-si. Non a caso Caterina Corradazzo aveva avanzato le sue pretese di seguito alla divisione degli zii. Da quel momento ella non si trovava più di fronte ad un solido aggregato familiare che in base ad una sua logica interna l’aveva esclusa, ma a diversi spezzoni del nucleo originario. La mutata situazione patrimoniale e giuridica di Casa Corradazzo aveva infatti spinto a riaffiora-re quei diritti patrimoniali che erano stati sottratti alla giovane in virtù di un’organizzazione familiare che nel principio di agnazione, inteso nella sua massima estensione, trovava la sua forma di regolazione interna. Con il venir meno di quella, Caterina Corradazzo aveva colto l’occasione per avanzare le sue pretese nei confronti degli zii. I quali, evidentemente, guardavano alle Costituzioni friulane e ai suoi interpreti cittadini, come l’ancora giuridica di salvataggio che avrebbe permesso loro di respingere ogni rivendicazione della nipote.Il richiamo di Caterina Corradazzo alle consuetudini di Forni di Sopra assu-meva dunque in apparenza i toni della strumentalità giudiziaria nel momen-to in cui ignorava volutamente la complessità della situazione locale e in particolare della famiglia da cui ella proveniva68. Una strumentalità d’altron-

65 Nicolò Celta, teste di Caterina Corradazzo ed uno degli anziani della comunità osservò: “Se io fusse zuraro (giudice) et me venisse avanti una causa chel padre fusse morto et non havesse fatto testamento et non lasato fioli mascoli, ma solo femine, io iudicaria in favor de le femine che le succedesino in la roba del padre; ancora chel padre havesse fratelli vivi, dum-modo chel avo paterno non vivesse poi la morte del figliolo; et questo perché io ho sempre aldito che così è sta osservato in questo loco de Forno... Sel viver del padre poi la morte de Mathio suo figliolo non vinca pre Sebastiano et fratelli, per mia oppinione esso pre Sebastiano et fratelli hanno torto per quello io ho aldito a dir sempre in questa villa...” (Ibidem, c. 4).66 Come osservò il Tamassia l’esclusione dall’eredità aveva effetto solo nei riguardi della persona cui incombeva l’obbligo di dotare. Se il gruppo familiare si scioglieva la donna si tro-vava di fronte ad “un disgregato gruppo di congiunti, ciascuno dei quali si trovava in rapporti diversi di parentela e di doveri” nei suoi confronti, N. Tamassia, La famiglia italiana…,p. 292.67 E. Besta, Le successioni..., p. 64.68 Situazioni del resto assai diffuse nella realtà di Forni superiore, cfr. ad es. A.S.UD., Proces-so, cc. 21 e 75.

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de ampiamente bilanciata, come già s’è potuto notare, dalla corrispettiva inconciliabilità delle tesi della parte avversaria, decisa a negare ogni dirit-to della donna a succedere ab intestato, pur di fronte alla mutata situazio-ne patrimoniale che si era venuta a creare dopo le divisioni familiari. Per comprendere l’esatta portata delle affermazioni delle due parti l’attenzione si deve dunque soffermare più propriamente all’interno del discorso giudi-ziario entro cui queste vennero ad affrontarsi senza risparmio di testimoni. Un discorso che se nella sua sostanza intrinseca rivelava, come si è visto, gli obbiettivi delle due parti contendenti, nel suo linguaggio formale manifesta-va altresì chiaramente l’intervento di tecnici del diritto assai sperimentati quali erano gli avvocati che frequentavano il foro udinese. Era compito di co-storo estrinsecare sul piano delle formulazioni giuridiche gli obbiettivi del-le parti contendenti, rendendole quanto più attendibili e convincenti fosse possibile. In realtà il loro modo di procedere si svolgeva secondo modalità ti-piche del diritto colto e scritto, caratterizzato dall’astrazione e dall’esigenza di formulare principi di carattere generale. E l’opposizione tra consuetudini e Costituzioni della Patria traeva pure origine dal ragionamento giuridico tipico del diritto colto utilizzato dagli avvocati delle due parti.In realtà la consuetudine era declinata (stando alle numerose testimonian-ze) all’insegna di una casistica estremamente diversificata, che mal si presta-va non solo a predisporre una precisa definizione delle sue caratteristiche, ma altresì a circoscrivere, in base a principi astratti ed assoluti, formulazioni tipiche del diritto colto, come ad esempio i quesiti concernenti i presunti diritti delle figlie a succedere al patrimonio paterno in concorrenza con gli ascendenti, oppure se la dote loro assegnata fosse comprensiva dei loro di-ritti ereditari (legittima).Quella casistica, formulata in maniera così ricca, varia e contraddittoria dai testi citati dalle due parti, rifletteva indirettamente talune delle caratte-ristiche più essenziali delle consuetudini applicate nei due piccoli villaggi carnici: la loro estrema apertura ed adattabilità ad accogliere i conflitti più svariati per inserirli naturalmente in un codice culturale uniforme e sotteso alla vita materiale della popolazione locale e, pure, nonostante gli espliciti richiami mitici alla tradizione e all’immutabilità dei comportamenti, la loro potenziale capacità di trasformarsi sotto la spinta delle variabili economiche e demografiche.Perno sostanziale dello spirito delle consuetudini e della loro capacità di tra-sformarsi e di adattarsi ai mutamenti sociali, senza però rinunciare alla forza coesiva della tradizione, era dunque l’assenza di ogni forma di ragionamento giuridico volto a giustificare o ad avallare l’innovazione. Come è stato notato dal sociologo statunitense Lawrence Friedman, nei sistemi consuetudinari i giudici (anziani, saggi e, comunque, non professionisti del diritto) non creano

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apparentemente un diritto nuovo, in quanto il diritto è già esistente, si situa nella prassi, nel costume, nella comunità. Il diritto è già esistente e i giudici non ne sono che semplici portavoce. I canoni di ragionamento sono aperti, in quanto le norme giuridiche sono in definitiva le stesse pratiche sociali:

Ciò che i giuristi chiamano “ragionamento giuridico”, propriamente parlando, è una caratteristica dei sistemi chiusi, dal diritto romano classico e dalle vec-chie religioni del libro sino ai codici continentali e al common law. Il concetto di ragionamento giuridico si basa sull’assunzione che vi sia una serie chiusa di premesse, cioè sull’idea che alcune proposizioni sono proposizioni del diritto ed altre non lo sono, e che coloro che sono stati educati al diritto sono in grado di sceverare le une dalle altre. In un sistema completamente aperto non vi sono proposizioni giuridiche come tali, e perciò non vi è quell’entità che è lo speciali-sta in proposizioni giuridiche, cioè non avvocati e giudici professionisti69.

La vicenda cinquecentesca esaminata rivela come tutti i testi interrogati dal vicario patriarcale non fossero in grado di fornire un’esauriente definizio-ne di consuetudine. Per essi la consuetudine coincideva con la tradizione e con quanto essa aveva da sempre convalidato. Una consuetudine che essi comunque individuavano come un sistema giuridico orale e alternativo a quello colto, rappresentato da notai ed avvocati. L’assenza di ogni forma di ragionamento legalistico e la convinzione che il sistema fosse assolutamente chiuso e si muovesse sulla scorta di pratiche ri-petitive era evidentemente funzionale a legittimare una società ideologica-mente impostata sulla tradizione e priva di una stratificazione di status che la differenziasse significativamente al suo interno. L’innovazione era veico-lata dalle pratiche sociali e dalla costante predisposizione alla mediazione, ma sempre nell’ambito di codici culturali che traevano la loro legittimità dalla tradizione. Come è stato sottolineato dall’antropologo Norbert Rouland, il rapporto tra ordine ideale e ordine del vissuto è fondamentale per cogliere le caratteristiche delle conseutudini:

Ogni società possiede un ordine giuridico ideale che non può restare intatto quando è inserito nell’ordine del vissuto. La valorizzazione dell’armonia e dell’e-quilibrio assume significato soltanto quando la si confronta con le tensioni e i conflitti del mondo reale; orbene, questi non sono risparmiati alle società tra-dizionali; anche se esse tentato di prevenirli o di regolarli nel modo meno trau-matico per la società. Allo stesso modo i gruppi sociali, la cui complementarietà viene pure valorizzata, restano portatori di valori specifici, che possono essere contraddittori. In genere un valore è dominante, ma gli altri persistono, enfa-

69 L. Friedman, Il sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, Bologna 1978 (New York 1975), pp. 400-405.

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tizzati soltanto da alcuni gruppi, o espressi in forme velate. Il controllo sociale esercitato dal diritto nell’ordine del vissuto ha per fine la gestione dei conflitti che possono risultare da questo stato di fatto, o restaurare l’ordine iniziale o creandone uno nuovo, nel rispetto, per quanto è possibile, dell’ordine ideale70.

L’iniziativa giudiziaria è dunque comprensibile nella sua pronunciata dialet-tica giuridica in virtù di un contesto che per le sue peculiarità geografiche, culturali e politiche era estremamente frammentato e godeva di una forte autonomia decisionale anche nei confronti del centro dominante. Il discorso giudiziario enunciato dalle due parti rinviava infatti quasi inevitabilmente alla complessità istituzionale e giuridica della Patria del Friuli71. La dialet-tica giuridica tra un complesso legislativo unitario così elaborato come le Costituzioni della Patria che erano la diretta emanazione del Parlamento friulano e la molteplicità degli statuti e delle consuetudini locali era stata una costante della vita politica ed istituzionale del Friuli. L’ultimo capitolo delle Costituzioni riformate affermava senza ombra di dubbio l’intangibilità degli statuti locali72. In realtà l’estrema complessità istituzionale, la molte-plicità delle forze in gioco, e il ruolo determinante giocato dal Luogotenen-te veneziano contribuirono a non rendere sempre così scontata la funzio-ne sussidiaria delle Costituzioni73. Come avrebbero ad esempio rivelato le

70 N. Rouland, Antropologia giuridica…, p. 186. Rouland vede una stretta correlazione tra mito e ordine giuridico ideale: “Il mito, usando un linguaggio metaforico e analogico, istituisce classi-ficazioni in cui si ordina la comunicazione tra gli esseri viventi a livello visibile e invisibile, af-finché il disordine non possa prevalere sull’ordine. L’ordine giuridico ideale istituito dal mito valorizza dunque la continuità e l’equilibrio, affermando la volontà della società tradizionale di dominare contemporaneamente il tempo, gli individui e le cose. La legge mitica si distin-gue dalla legge moderna principalmente perché non appartiene ad un uomo o a un organo, ma all’intera società, nella diversità dei gruppi che la costituiscono”, cfr. Ibidem, pp. 183-184.71 G. Cozzi, Repubblica di Venezia…, pp. 285 e ss.72 “Item constituimus quod statuta antiqua existentia et dudum observata in aliquibus locis iurisdictionem habentibus debeant in sua firmitate manere, nec in illis debeant derogari er per has constituriones presentes antiquis statutis municipalibus cuiuscumque loci non intel-ligatur ibidem ullatenus derogatum”, Constitutiones..., p. 68.73 Già nel luglio del 1429, di fronte ad una contrastante iniziativa del Luogotenente che aveva suscitato la reazione del Parlamento, Venezia era dovuta intervenire. Il Senato aveva ambiguamente deliberato “quod si inter ipsas constitutiones generales er iura municipalia sunt alique verirates seu discrepatio aliqua propter quas oriri viderur dubium ipsa dubietas declaretur ut nostri locumtenentes patrie, qui per tempora erunt, aperte sciant quid age-re habeant et observari... ita quod inter ipsa capitula constitutionum et inter ipsos ordines municipales non sit diversitas vel obscuritas sed aperta et clara concordantia...” (Ibidem, cc. 68-69: ducale aggiunta all’edizione del 1524). In realtà già nella successiva ducale del 9 maggio 1436 nell’approvazione di alcuni capitoli presentati dal Parlamento lo stesso Senato venezia-no precisò che “non intelligatur derogatum neque derogetur statutis particularibus alicuius loci Patrie” (Ibidem, cc. 69-70: ducale aggiunta alla stessa edizione).

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successive forti tensioni all’interno della Patria queste leggi sarebbero state sollecitate sia dai castellani che in esse vedevano la sanzione dei loro privilegi giurisdizionali, sia dalla città di Udine che si volgeva a considerarle come una espressione della sovranità statuale74. Inoltre le Costituzioni si poneva-no come il riferimento giuridico più diretto di quel ceto di professionisti cresciuto nell’orbita del diritto comune. La loro interpretazione, filtrata da un sapere giurisprudenziale uniforme, non poteva infine non svolgere una funzione di amalgama75.Non dobbiamo dimenticare che quel processo venne istruito dalla cancel-leria patriarcale di Udine su iniziativa di una delle più facoltose famiglie di Forni di Sopra. I Corradazzo del resto già da anni intrattenevano frequenti rapporti di scambio con alcuni mercanti di Udine76. La loro attività commer-ciale li poneva dunque in stretto contatto con il centro politico ed economi-co del Friuli. Don Sebastiano Corradazzo, promotore dello spostamento della causa giudiziaria ad Udine, era inoltre curato di Forni di Sopra e svolgeva dunque un ruolo di primo piano all’interno della comunità. Il peso della fa-miglia e il ruolo influente del curato assunsero presumibilmente una forza determinante nel raccogliere l’adesione e il consenso di testimoni disposti a sostenere la loro tesi, la cui ambiguità si prestava facilmente ad essere ma-nipolata77. Ma quelle tesi che, al di là del conflitto in corso, mettevano fin troppo apertamente in discussione la realtà politica e sociale da cui essi stes-si provenivano riflettevano pure la loro ambivalenza o meglio la loro doppia identità fortemente sbilanciata verso l’esterno.L’amministrazione della giustizia civile, gestita dalle due comunità carniche, permetteva loro in realtà di risolvere le proprie contraddizioni, mantenendo una forte coesione politica e culturale che nemmeno la famiglia Savorgnan era riuscita sostanzialmente ad indebolire. L’iniziativa dei Corradazzo, pur giocata sul piano personale, si inseriva come già si è osservato, in un’otti-ca estremamente predisposta al confronto giuridico, ma in definitiva, così com’era formulata, si prospettava come una messa in discussione della coe-sione sociale e politica delle due comunità. La formalizzazione del discorso giuridico da parte degli avvocati di Caterina Corradazzo che evidentemente si inseriva nella medesima logica appariva dunque ampiamente motivata.

74 Su questo problema cfr. A. Stefanutti, Giureconsulti friulani tra giurisdizionalismo veneziano e tradizione feudale, in “Archivio Veneto”, CVII, 1976, pp. 75-93.75 Su questo ceto cfr. A. Liruti, Degli illustri giureconsulti ed oratori friulani, Udine 1836; G. Oc-cioni Bonaffons, La scuola d’“Instituta Iuris” fondata in Udine nel secolo XV, Udine 1884.76 Cfr. A.S.UD., Processo, cc. 87-89.77 È interessante notare che dopo la prima fase in cui i testi di entrambe le parti vennero escussi in Forni di Sopra, don Sebastiano Corradazzo, nonostante l’opposizione dell’avvocato della parte avversaria, ottenne dal vicario patriarcale la facoltà di produrre nuovi testimoni.

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Agli occhi dei testi citati il richiamo all’oralità e alla consuetudine, capo-saldo dei capitoli di Caterina Corradazzo, difficilmente non avrebbe potuto assumere i toni di una rivendicazione dell’autonomia politica locale, che si-gnificava in primo luogo la salvaguardia di un comune campo decisionale e normativo, minacciato da un’iniziativa che volutamente si rifaceva alla leg-ge scritta ed interpretata da professionisti del diritto. Se l’oralità costituiva la valorizzazione delle relazioni interindividuali all’interno della comunità, la consuetudine ne costituiva l’indispensabile legittimità78. I suoi interpre-ti erano infatti gli stessi anziani della comunità, unici depositari delle tra-dizioni culturali e dell’assetto politico. Tramite l’oralità essi conservavano e trasformavano i valori culturali insigniti del mito della consuetudine79. I compromessi e gli arbitrati costituivano gli elementi più distintivi di una prassi conflittuale che interlocutoriamente e strumentalmente si inseriva nell’ambito delle istituzioni giudiziarie che conservavano ancora l’impronta dell’antico placito80. Come avrebbero potuto sottrarsi i testi ad un simile ri-chiamo? E i giudici avrebbero potuto non prestare attenzione ad una prassi consolidata che assumeva le stesse sembianze del diritto?Il ricorso alla legge scritta esterna da parte dei fratelli Corradazzo appariva sin troppo apertamente come una messa in discussione dei valori normativi comunitari e dei suoi contenuti politici. L’inserimento della norma scritta dotata di una forte capacità di astrazione e di un diverso controllo del tempo e delle cose81 avrebbe infine messo in discussione una società comunitaria gerarchicamente organizzata secondo una coerenza interna i cui elementi erano strettamente interdipendenti. Lo stesso potere di trasmettere oral-mente le tradizioni consuetudinarie di cui erano insigniti gli anziani della comunità sarebbe stato fatalmente messo in discussione dal diverso valore probatorio di cui la norma scritta e la scrittura erano portatrici. Probabil-mente l’iniziativa dei fratelli Corradazzo scaturiva dall’incapacità da parte della comunità di gestire le proprie contraddizioni interne di fronte all’e-mergere di famiglie i cui interessi erano fortemente rivolti verso l’esterno e la cui organizzazione mirava ad imitare quella dei gruppi parentali che si erano insediati nelle città. Di certo il processo avviato nel 1538 si inseriva in un fenomeno più generale, che ovunque avrebbe portato ad una crescita

78 N. Rouland, Antropologia giuridica…, pp. 195 e ss.79 Bartolomeo di Orsola rispose al notaio che l’interrogava “quod consuetudo vulgariter dicitur una usanza del paese, idest che sè consueto de fare una cosa sempre cusì et quando homines sunt in vicinantia et allegatur e lè cusì la usanza, la detta visinanza conferma et non vole romperla”, A.S.UD., Processo, c. 12.80 Il placito era una forma assembleare di giudizio presieduta dagli anziani della comunità, cfr. M. Leicht, Giudizi feudali del Friuli, Venezia 1883. Ma anche P.S. Leicht, La riforma..., pp. 77-78.81 Cfr. J. Goody, Il suono e i segni. L’interfaccia tra scrittura e oralità, Milano 1989.

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della dimensione giuridica dotta e al suo impossessamento da parte di un personale tecnico specializzato82. E del resto cosa non erano quegli atti no-tarili, che nella stessa comunità di Forni di Sopra si incominciarono a rogare nella seconda metà del secolo, se non l’incrinatura evidente di quel binomio consuetudine-oralità che per secoli ne aveva costituito la struttura portante sul piano culturale e politico?Come già si è detto non disponiamo della sentenza, né d’altronde si sa se la causa giudiziaria si risolse, come già era avvenuto in casi simili, con una composizione arbitrale. Dall’escussione delle decine di testi difficilmente il vicario patriarcale poté farsi una chiara idea della prassi successoria in uso in quei lontani centri montani della Carnia. Alle stesse conclusioni giunge-va del resto in quegli anni il notaio Antonio Belloni. In fondo non era forse questo il punto decisivo. Non credo sia però azzardato supporre che in una realtà ricca di particolarismi e di autonomie giurisdizionali egli non poté facilmente ignorare un richiamo così forte ed esplicito alla consuetudine lo-cale. Se a sollecitarlo era una sconosciuta contadina della Carnia che rivendi-cava l’eredità paterna, ad avallarlo indirettamente era quel sistema di diritto comune cui egli stesso per formazione e per forma mentis indiscutibilmente apparteneva. Nella complessa intelaiatura di quel diritto le consuetudini go-devano pure di una loro dignità e ne giustificavano, con la loro vitalità, la persistente vocazione al particolarismo.

82 Come ha osservato J.A. Maravall il movimento di formalizzazione per iscritto si accostò alla tendenza all’unificazione giuridica, denotando “una mentalità moderna di tipo borghese alle cui esigenze economiche risponde il rinnovamento giuridico richiesto”, cfr. J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, 2 voll., Bologna 1991 (Madrid 1972), II, p. 508.

POLISSENA SCROFFA, FRA PAOLO SARPI E IL CONSIGLIO DEI DIECIUNA VICENDA SUCCESSORIA NELLA VENEZIA DEGLI INIZI DEL SEICENTO

Il 2 marzo 1612 Vincenzo Scroffa dettò il suo testamento al notaio Medoro Rigotto1. Egli non esercitava e non aveva mai esercitato alcuna di quelle at-tività che all’epoca lo avrebbero potuto collocare nella pur varia categoria professionale dei giuristi, ma non era certamente un uomo digiuno di dirit-to2. Di sicuro doveva conoscere molto bene il modo di testare che era allora in uso sia nella sua città di Vicenza che a Venezia, in cui aveva vissuto per lunghi anni. Ancora in quel secondo decennio del Seicento la prassi succes-soria nelle città della terraferma veneta era profondamente ispirata a nor-me e consuetudini assai antiche, che in gran parte trovavano un riscontro giuridico sia negli statuti municipali, che nelle più complesse elaborazioni giurisprudenziali d’impronta romanistica3.Vincenzo Scroffa apparteneva a uno dei più antichi lignaggi aristocratici vi-centini, che ancora rivestivano un ruolo importante nella conduzione della vita politica e amministrativa della città4. Ciascuno di questi lignaggi poteva vantare l’appartenenza di uno o più dei suoi membri al locale Collegio dei giudici. I loro archivi familiari cominciavano inoltre ad ampliarsi di docu-menti e di fascicoli processuali, intervallati da alberi genealogici che testi-moniavano sia il passato illustre della Casa che le sue vicende patrimoniali5.

1 Il testamento di Vincenzo Scroffa è conservato a Vicenza, Archivio di Stato (in seguito ASVi), Notai di Vicenza, b. 9356. Su questo aristocratico vicentino si e soffermato G. Mantese, Lo storico vicentino p. Francesco da Barbarano O.F.M. Cap. 1596-1656 e la sua nobile famiglia, in “Odeo olimpico”, IX-X (1970-73), pp. 129-134.2 G. Mantese, ibid., p. 127, riporta una sentenza arbitraria pronunciata dallo Scroffa nel 1608 per dirimere una controversia in materia di dote.3 Su questa materia, anche se con particolare riferimento a Vicenza, si soffermò Antonio Lorenzoni nelle sue Istituzioni del diritto civile privato per la provincia vicentina, 2 tomi, Vicenza 1785, I, pp. 69-234.4 Sugli Scroffa cfr. Vicenza, Biblioteca Civica Bertoliana (in seguito BCBVi), Giovanni da Schio, Persone memorabili in Vicenza, ms. 3397.5 Intorno a questo problema cfr. il numero 46 (1991) delle “Annales E.S.C.”, dedicato a La

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Nel suo testamento Vicenzo Scroffa dimostrava però di possedere ben più di quella conoscenza superficiale che costituiva, in una certa misura, il patri-monio comune dei membri dell’aristocrazia cui apparteneva. Difficilmente, inoltre, un testamento come il suo poteva essergli stato suggerito da uno dei numerosi esperti di diritto che all’epoca affollavano sia il foro della sua città che quello della Dominante. Le modalità e le disposizioni in esso contenute non potevano provenire che dalla forma mentis di un uomo che conosceva in profondità lo spirito della legge e che era pure provvisto di un’esperienza alquanto originale. La successione ab intestato era stata regolamentata nei suoi principi fonda-mentali alla fine del terzo capitolo degli Statuti cittadini6. Così come in al-tre città dell’Italia Centro Settentrionale, nel caso di una persona defunta senza testamento, le leggi municipali vicentine prevedevano che i suoi beni venissero trasmessi agli eredi, privilegiando nettamente i discendenti ma-schi legittimi e naturali. Pochi e incerti spazi erano dedicati alla successione testamentaria, la quale trovava invece una maggiore e ben più qualificata attenzione nell’elaborazione giurisprudenziale che era stata apprestata dai giuristi che si rifacevano direttamente al diritto comune7.La sottolineatura che negli statuti municipali si faceva della successione le-gittima proveniva da una consuetudine plurisecolare di origine germanica, in cui i vasti poteri esercitati in precedenza dal pater familias romano aveva-no lasciato spazio a una forte coesione patrimoniale e personale della paren-tela, che aveva progressivamente esautorato il ricorso al testamento anche da parte della popolazione di origine e cultura latine. La profonda innerva-tura dei lignaggi aristocratici nelle città comunali italiane costituì il sostrato economico e politico, che permise la sostanziale continuità di un sistema successorio decisamente ispirato da valori ideologici imperniati sulla Casa e sui legami di sangue. La successione per legittima garantiva evidentemente la coesione economica e politica della famiglia contro eventuali intemperan-ze o abusi da parte dei suoi membri. Il principio di agnazione e la filiazione patrilineare, che comportavano l’esclusione delle donne dalla successione legittima in presenza di figli maschi, erano solamente temperati dall’istituto

culture généalogique, in particolare il testo di R. Bizzocchi, Culture généalogique dans l’Italie da seizième siècle, pp. 789-805.6 Jus municipale vicentinum, Venezia 1567.7 Intorno a questi problemi, di cui si prospettano qui di seguito solo alcune indicazioni di carattere generale, cfr. E. Besta, Le successioni nella storia del diritto italiano, Padova 1935; C. Giardina, voce Successioni (Diritto intermedio), in Novissimo digesto italiano, XVIII, Torino 1971, pp. 727-751; M. Bellomo, voce Erede (Diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, XV, Milano 1966, pp. 184-95.

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della dote, che teoricamente doveva corrispondere alla quota di legittima8.L’elaborazione giurisprudenziale del diritto romano nel corso del medio evo tentò di recuperare il ruolo e l’importanza che in quello aveva rivestito il testamento, testimoniando la forte influenza esercitata da ceti di giuristi qualificati sul piano dottrinario e politico. In realtà la previsione giuridica del testamento nelle leggi municipali ebbe per lo più il fine di favorire e di agevolare la successione legittima anche nelle situazioni piu complicate e difficili. La cosiddetta institutio heredis, che nel diritto romano aveva costituito l’es-senza del testamento, prevedendo la trasmissione universale del patrimonio all’erede designato, perse molto del suo significato originario, di fronte al ruolo giocato dalla successione legittima nella conservazione e trasmissione del patrimonio della Casa. La sua perdita d’importanza pose in secondo piano la classica distinzione tra testamento e codicilli o “cedole” testamentarie. Il testamento, come ancora ben dimostra la prassi successoria cinquecentesca, non sarebbe più essen-zialmente servito per istituire un erede, bensì piuttosto a regolamentare una successione fitta di legati e di disposizioni varie, che potevano essere mo-dificate o aggiustate in successivi codicilli, la cui natura giuridica era però divenuta la medesima9. Del resto, ad attestare il forte condizionamento cui era sottoposta la volontà del testatore stava ormai l’ampia diffusione di un istituto giuridico come il fedecommesso, il cui fine era di assicurare l’integrità del patrimonio familia-re attraverso le successive generazioni10. I valori ideologici sottesi alla premi-nenza della successione legittima erano confermati dalle formalità giuridiche tramite cui i testamenti dovevano essere redatti11. A differenza di quanto av-veniva nel mondo contadino, in cui era ampiamente diffuso il cosiddetto te-stamento “nuncupativo”, dettato cioè dal testatore al notaio, negli ambienti aristocratici era assai comune ricorrere al testamento “solenne”.

8 Cfr. F. Zonabend, Della famiglia. Sguardo etnologico sulla parentela e la famiglia, in Storia uni-versale della famiglia, a cura di C. Lévi-Strauss e G. Duby, 2 voll., Milano 1987 (Paris 1986), vol. I, pp. 15-76. Su questi problemi e sul dibattito storiografico ancora in corso si vedano: J. Goody, Inheritance, Property and Women: Some Comparative Considerations, in Family and lnheritance. Rural Society in Western Europe, 1200-1800, a cura di J. Goody, J. Thirsk, E.P. Thompson. Cambridge 1976, pp. 10-36; D. Owen Hughes, From Brideprice to Dowry in Mediterranean Europe, in “Journal of Family History”, n. 3, 1978, pp. 262-296; T. Kuehn, Law, Family, and Women. Toward a Legal Anthropology of Renaissance Italy, Chicago 1991.9 Un’ampia casistica testamentaria per Vicenza è riportata nei lavori di G. Mantese, in parti-colare Memorie storiche della Chiesa vicentina, 3/II, Vicenza 1964, e 4/I-II, Vicenza 1974.10 M. Caravale, voce Fedecommesso (diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, XVII, Milano

1968, pp. 109-14.11 A. Lorenzoni, Istituzioni…, I, pp. 86-90.

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Tale procedimento doveva avvenire alla presenza di ben sette testimoni, i quali, una volta che il notaio avesse chiuso l’atto testamentario, dovevano apporre sul retro la loro firma e un sigillo. Era questa formalità che caratte-rizzava la solennità del testamento, sia che esso fosse stato “segreto” e cioè consegnato chiuso al notaio, che dettato a lui apertamente dal testatore in presenza degli stessi sette testimoni. La conseguenza del testamento solen-ne consisteva essenzialmente nel fatto che esso, una volta chiuso, non era già insignito di quei requisiti giuridici che l’avrebbero reso immediatamen-te esecutivo alla morte del testatore, come invece avveniva nei testamenti nuncupativi.La sua “pubblicazione” sarebbe allora avvenuta “solennemente” con l’a-pertura del testamento da parte del notaio davanti al podestà della città e in presenza di almeno due dei sette testimoni, che avrebbero dovuto rico-noscere la loro scrittura e il loro sigillo. La sanzione giuridica apposta dal massimo rappresentante della città qualificava dunque il testamento aristo-cratico, garantendo con il rispetto della volontà del testatore la continuità dei valori ideologici e culturali della Casa. Una terza possibilità, non molto frequentemente usata in terraferma, consisteva nel testare tramite un sem-plice codicillo, scritto e sottoscritto dal testatore e poi conservato presso di lui o consegnato a un notaio. Era la cosiddetta maniera di testare per via di “cedola alla veneta”, che acquisiva però le formalità del testamento segreto nel momento in cui la consegna al notaio avveniva alla presenza dei consueti sette testimoni12. La complessa e elaborata procedura formale adottata nel-la prassi successoria diffusa tra le aristocrazie di terraferma esprimeva sul piano rituale la stretta compenetrazione tra i valori ideologici della Casa e la simbologia sottesa all’atto testamentario.Il 2 marzo 1612 nella casa di Vincenzo Scroffa, posta nella contrada di Santa Lucia, poco fuori le mura di Vicenza, oltre al notaio erano pure presenti, tra i testimoni, sei esponenti della nobiltà13. Ma lo Scroffa non aveva voluto

12 In ogni caso queste cedole avrebbero dovuto essere “pubblicate” all’Ufficio del sigillo della città, che avrebbe svolto la funzione del notaio In un’anonima scrittura settecentesca si osserva come questa forma di testare fosse “di uso non molto frequente”: BCBVi, Archivio Tor-re, b. 506, fasc. 4, cc. 1-2, Circa li testamenti et ultime volontà ... Ovviamente anche il testamento nuncupativo richiedeva la presenza dei sette testimoni, il cui nome era riportato dallo stesso notaio. Il Lorenzoni ricorda inoltre anche il testamento per breviario, cui si ricorreva per imminente pericolo di morte e che veniva considerato valido anche alla presenza di soli due o tre testimoni. Su questo tipo di testamento, diffuso a Venezia, cfr. E. Garino, Insidie familiari. Il retroscena della successione testamentaria a Venezia alla fine del XVIII secolo, in Stato, società e giusti-zia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di G. Cozzi, II, Roma 1985, pp. 312-13.13 La presenza dei testimoni segnava spesso le complesse reti di alleanze che attraversa-vano e dividevano i lignaggi aristocratici cittadini. Al testamento di Vincenzo Scroffa erano presenti Eleno di Giovan Battista Fracanzan, Girolamo di Troilo Muzzan, Marzio di Francesco

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ricorrere ai classico testamento solenne. Nel dettare le sue volontà al notaio egli annunciò di avere pure preparato due cedole segrete, le quali avrebbero dovuto essere aperte, l’una al momento della sua morte e l’altra nel gennaio del 1619, quando la nipote Polissena avesse raggiunto l’età di quindici anni. L’aristocratico vicentino, a diversità della prassi successoria diffusa all’epo-ca, dimostrava però di recuperare quella nozione giuridica del testamento che il diritto giurisprudenziale aveva elaborato sulla scorta del diritto roma-no. “Il fondamento delli testamenti è l’institutione dell’herede”, egli infatti annunciò da subito, designando come sua erede universale la piccola nipote Polissena. Ai due codicilli segreti egli riservava invece il compito di prevedere dispo-sizioni importanti, ma subordinate a quanto era previsto nello stesso testa-mento14. Vincenzo Scroffa, ricorrendo a formalità non solenni e non segre-te15, aveva dunque voluto connotare simbolicamente il proprio testamento tramite quell’institutio heredis, che da tempo era ormai passata in secondo piano, di fronte a una prassi successoria ricca di legati e disposizioni varie. Che egli non volesse però allontanarsi dai valori ideologici che pervadeva-no intensamente la vita del lignaggio aristocratico, lo dimostravano le altre disposizioni inserite nel testamento. La designazione a erede della piccola Polissena era infatti accompagnata da una clausola giuridica molto antica, chiamata “sostituzione pupillare”16 tramite la quale il padre poteva stabilire un erede al figlio o al discendente impubere, nell’ipotesi che questi potesse

Muris, Conte di Giacomo Trissino, Lucio di Giuseppe Ghellini, Marcantonio di Girolamo Bor-selli, tutti nobili vicentini: ASVi, Notai di Vicenza, b. 9356.14 Infatti nelle sue intenzioni “le dette cedule er il presente nuncupativo testamento” avrebbero dovuto costituire “un solo testamento et non dui, acciò sopra ciò non possa nascer alcuna difficoltà”: ibid.15 Il suo era dunque un classico testamento nuncupativo affidato al notaio e in quanto tale già insignito dei previsti requisiti giuridici, che l’avrebbero reso immediatamente esecutivo dopo la sua morte. Non così per le due cedole segrete, che avrebbero richiesto la pubblica-zione davanti al podestà e alla presenza di alcuni dei testimoni che avevano assistito alla loro consegna al notaio. Il testamento segreto costituiva dunque, sul piano formale, un’ulterio-re garanzia di affidabilità. Ma l’intenzione di Vincenzo Scroffa era che la sua designazione d’erede, sottoposta a delle clausole segrete, fosse resa pubblica. Il ricorso da parte di taluni aristocratici al testamento nuncupativo aveva in effetti per lo più il fine di rapportarsi imme-diatamente con i propri eredi. Un caso interessante è ad esempio il testamento di Francesco Trissino di Ludovico, altro esponente di rilievo dell’aristocrazia vicentina della seconda metà del Cinquecento: cfr. ivi, Archivio Trissino, b. 339, fase. 453, 18 luglio 1587.16 “Dechiara et vuole che il presente testamento ad ogni buon fine movente l’animo del detto signor testator resti palese che in dette cedule fa una sustitutione pupillare a detta signora Polissena sua nezza et esistente sotto la sua potestà, accioché in caso che morisse inanzi l’espirar della sua età pupilare, s’intendi morta con detto testamento che è la pupilar sustitione”: ivi, Notai di Vicenza, b. 9356.

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morire prima di aver raggiunto la capacità di testare17. Vincenzo Scroffa an-nunciava dunque che l’istituzione a erede di Polissena era subordinata a un fedecommesso, i cui presupposti erano impliciti nelle clausole previste nella seconda cedola18. Tutto lasciava prevedere che la sostituzione fosse diretta a beneficiare la discendenza di Polissena. In pratica ella sarebbe divenuta erede di tutti i beni del nonno, ma avrebbe dovuto destinarli, tali e quali, ai propri figli maschi19.Lo spirito della Casa aristocratica era dunque ben presente in Vincenzo Scroffa. Egli ricordò, inoltre, come Polissena fosse la sua unica discendente e come tale dovesse sposarsi tenendo presente le sue volontà. A tal fine ave-va preparato quella seconda cedola, una copia della quale avrebbe dovuto essere depositata presso la Cancelleria ducale veneziana. Se Polissena non avesse aderito a quanto egli aveva deciso in merito al suo matrimonio, ella avrebbe dovuto accontentarsi di quanto la successione legittima prevedeva. Era dunque il destino del suo lignaggio che, insieme a quello della nipote, più preoccupava l’anziano aristocratico vicentino. I suoi timori e le sue speranze erano racchiusi in quella seconda cedola, che ancora nessuno conosceva; ma già nel testamento egli lasciava trapelare come avesse ben fondati motivi per temere che le sue volontà potessero non essere rispettate:

perché a detto signor testator è molto ben noto, come è nota a tutto il mondo la carità et la pietà con la quale questa Serenissima Repubblica vuole et commanda che siano essequite le volonta de’ testatori. Et però dubitando che possa succe-dere che mancando esso signor testator possa o per malitia o per altro mezo non haver essecutione la sua volontà et che da alcuno sia fatto dissegno o sopra la vita o sopra la robba di detta sua nezza, però suplica con ogni humiltà, che segui-ta la morte di esso testatore sia presa la protettione di questa figliola dall’ill. et ecc. Sig. Capi dell’eccelso Consiglio di diece20

Vincenzo Scroffa affidava dunque le sue ultime decisioni ai Capi del Consi-glio dei Dieci, i quali avrebbero inoltre dovuto provvedere all’apertura del-la seconda cedola, assicurandosi che Polissena sposasse la persona che egli aveva prescelto.

17 V.R. Casulli, voce Sostituzione ordinaria e fedecommissaria, in Novissimo digesto italiano, XVII, Torino 1970, p. 973.18 “Dechiara anco che in caso che morisse quandocumque, tanto con figli quanto senza, tanto maritata quanto non, in detta cedola ha fatto un fideicommisso del tenor come in quel-lo”: ASVi, Notai di Vicenza, b. 9356.19 Il Lorenzoni osservò come la sostituzione pupillare non fosse “propriamente che un te-stamento che faceva il padre per il figlio, la quale cessava subitoché era questo arrivato alla pubertà”: cfr. A. Lorenzoni, Istituzioni…, I, pp. 209-10.20 ASVi, Notai di Vicenza, b. 9336.

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Vincenzo Scroffa possedeva un immenso patrimonio, in gran parte non vin-colato da precedenti disposizioni fedecommissarie e perciò la scelta espli-cita di ricorrere nel proprio testamento all’institutio heredis, poteva derivare dalla necessità di indicare senza ambiguità il suo erede. I richiami ai valori ideologici della Casa e la richiesta di protezione rivolta ai Capi del Consiglio dei Dieci indicavano però come nella distinzione tra testamento e codicilli, cui egli era ricorso nell’esprimere le sue volontà, giocassero considerazioni ben più complesse, che traevano origine dal suo passato. Nato a Vicenza nel 1539, Vincenzo Scroffa aveva dovuto abbandonare la città nel 1568, di segui-to al coinvolgimento in una grave rissa sorta tra alcuni giovani dell’aristo-crazia vicentina21. Colpito dal bando, si era rifugiato a Venezia. Nella città lagunare conobbe Gaspare Ribeira, un ricco mercante ebreo portoghese, che si era convertito al cristianesimo. Ne sposò la figlia Violante e si diede alla mercatura insieme al vecchio suocero. Sospettato di giudaismo, ne1 1580 Gaspare Ribeira ven-ne processato dall’Inquisizione e morì l’anno seguente mentre era ancora in corso il procedimento penale avviato contro di lui22. Dopo la morte del-la moglie Violante, Vincenzo Scroffa ritornò a Vicenza con il giovane figlio Giulio Cesare.Erede dell’immenso patrimonio dei Ribeira e dopo aver vissuto vent’anni nella città lagunare, a contatto di un mondo estremamente complesso per la sua collocazione ai confini di valori culturali e religiosi per molti versi antagonisti, Vincenzo Scroffa ritornò alla città natia provvisto di un’espe-rienza straordinaria. La nuova e più prestigiosa situazione economica venne sancita sul piano sociale dal matrimonio del figlio Giulio Cesare con Paola Martinengo, appartenente a una delle più potenti famiglie della terraferma. L’alleanza con la ricca famiglia bresciana era però destinata a interrompersi bruscamente per la morte precoce di Giulio Cesare, al quale era sopravvissu-ta un’unica figlia, di nome Polissena, che passò sotto la tutela del nonno23. In possesso di un enorme patrimonio e privo di discendenza maschile, Vincen-zo Scroffa, ormai superati i settant’anni e dopo una vita avventurosa, vide nel recupero dei valori ideologici della Casa la definitiva ancora di salvezza. Il suo voleva essere un ritorno alle origini, a quel passato da cui l’avevano strappato esperienze traumatiche, che l’avevano profondamente segnato. Il cammino che egli con intraprendenza, spinto anche dalla sorte, aveva com-

21 Sull’episodio cfr. Cronaca di Fabio Monza, ed. Vicenza 1888, pp. 19-21.22 Su Gaspare Ribeira, la figlia Violante e i loro rapporti con Vincenzo Scroffa cfr. B. Pullan, Gli ebrei d’Europa e l’Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, trad. it. Roma 1983. pp. 357-77 e passim.23 Sulle vicende biografiche di Vincenzo Scroffa cfr. da Schio, Persone memorabili…; all’epoca il da Schio poté disporre dell’archivio familiare degli Scroffa.

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piuto verso l’esterno della consueta esperienza, contrassegnata dalla città natia, dalle sue tradizioni, dai suoi equilibri di potere, si era rivelato falli-mentare24. Gli rimaneva ora, unica e preziosa, la piccola nipote Polissena, cui spettava il compito di proseguire l’antichità e il prestigio della Casa. Ma come avrebbe potuto assicurarne il futuro? L’aveva designata erede, senza alcuna ambiguità e ricorrendo ai più sofisticati meccanismi giuridici, che godevano di un’autorità avallata dalla più illustre giurisprudenza.Sulla nipote avevano però posto le loro mire persone potenti e influenti, le-gate da rapporti clientelari e di dipendenza con la stessa Dominante. Il conte Giovanni Martinengo si era già fatto avanti, chiedendo la mano di Polissena. Era un uomo potente. La madre era una da Porto, appartenente a uno dei più prestigiosi lignaggi aristocratici della città. Vincenzo Scroffa aveva rifiuta-to la nuova alleanza25. Non voleva persistere nei vecchi errori nei confronti della nipote Polissena. Solamente recuperando gli antichi valori della Casa avrebbe potuto garantirne il futuro. Intuiva però che con quel rifiuto si era procurato dei nemici irriducibili. Con il testamento nuncupativo e aperto cui era ricorso, Vincenzo Scroffa aveva voluto far intendere chiaramente a tutti come egli avesse ormai già predisposto il matrimonio della nipote. La designazione dello sposo in una cedola segreta derivava sia dalla necessità di non voler interferire, con questa decisione, nell’istitutio heredis prevista nel testamento, non prestando il fianco a cavilli giuridici, sia dall’intenzione

24 Nella seconda cedola segreta Vincenzo Scroffa affermò come fosse sua intenzione che la nipote si maritasse “in Vicenza, che non intendo sia maritata fuori di questa città a modo alcuno, essendo mia ferma intentione et per il bene di detta mia nezza, resta lei et la mia fa-coltà nella mia patria; conoscendo et per esperienza veduto tutte quelle hereditarole, che alli miei giorni sono state maritate fuora della nostra città, qual fine habbiano havuto et anco io ne posso parlare per haverne havuto assai buona esperienza et beati quelli che all’altrui spese impara. Prohibendo dico in ogni tempo in tutto et per tutto che non sia maritata fuori della nostra città di Vicenza”: ASVi, Notai di Vicenza, b. 9356. Constatazione che molto probabilmen-te traeva origine, in questo torno d’anni, dalla difficoltà da parte dei lignaggi aristocratici di gestire alleanze di più ampio raggio che sfuggivano al controllo politico locale e alla reciproca interdipendenza.25 Giovanni Martinengo era figlio del condottiero Giovan Battista e di Elena da Porto di Pao-lo, sposatisi nel 1570. Cfr. M. da Porto, La famiglia da Porto dal 1000 ai giorni nostri, dattiloscritto datato 1979 (di cui esiste copia in BCBVi e in ASVi), p. 116. Su quest’opera cfr. M. Scremin, La storia della famiglia da Porto, in “Annali veneti”, I (1984), pp. 183-84. Non c’è dubbio che il timore di Vincenzo Scroffa si appuntasse, sin da questo momento, sul potente gruppo che riuniva tra l’altro le case Martinengo e da Porto, come appare da quanto egli affermò nella sua seconda cedola a proposito dell’eventualità che la nipote Polissena non avesse potuto sposare chi egli aveva designato. I commissari testamentari avrebbero dovuto “delegare il miglior suggetto che sarà in essere a quel tempo in questa nostra città. Prohibendo in tutto et per tutto che non voglio sia maritata in casa della fameglia da Porto, perché non voglio che la mia roba né la fiola vadi in questa casa per giuste cause che movono l’animo mio et anco per il meglio di detta mia nezza”: ASVi, Notai di Vicenza, b. 9356.

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di frenare le mire del potente gruppo avversario. La richiesta di protezione, rivolta ai Capi del Consiglio dei Dieci, costituiva il cesello politico di un ela-borato disegno giuridico. Quei lunghi anni trascorsi nella Dominante e le vi-cende giudiziarie che l’avevano coinvolto insieme al suocero erano affiorate probabilmente nella sua mente mentre aveva assunto questa decisione. Vincenzo Scroffa venne ucciso nell’agosto del 1613 da alcuni sicari inviati dal conte Giovanni Martinengo26. Con la sua morte fu aperta la prima ce-dola, in cui l’aristocratico vicentino aveva previsto una serie numerosa di ricchi legati alle istituzioni assistenziali della città27. Nei primi giorni di gennaio del 1619 il Consiglio dei Dieci ordinò infine l’a-pertura della seconda cedola. Vincenzo Scroffa aveva dato due possibili-tà alla nipote Polissena: avrebbe dovuto scegliere il suo sposo tra Ottavio Scroffa e Antonio Scroffa, appartenenti a due diversi rami collaterali della sua Casa. Qualora avesse rifiutato, ella non avrebbe potuto pretendere che la legittima, mentre quasi tutto il rimanente dei suoi beni avrebbe dovuto essere distribuito a istituti assistenziali. Dopo la morte del nonno, Polissena era stata posta nel monastero di Santa Lucia di Vicenza. Conosciute le dispo-sizioni dell’avo, ella pregò subito i rettori di Vicenza di poter presentare una propria scrittura ai Capi del Consiglio dei Dieci28. Sin da questo momento Po-lissena dimostrò di non gradire quanto Vincenzo Scroffa aveva predisposto sul suo destino, muovendosi con tale abilità e accortezza da lasciar intuire come dietro a lei ci fosse qualcuno che si era insinuato nel suo animo e mi-rasse a vanificare le disposizioni testamentarie che la volevano vincolata a una precisa scelta. Di fronte alla richiesta della giovane, i Capi del Consiglio dei Dieci si rivolsero

26 La sua uccisione — “Memoria come el signor Vicenzo dala Scrova, andando a casa a ca-valo, fu arsaltà fora dala porta da Santa Lucia et li fu sbarà due archibusate et restò ferito, che quasi pasò subito di questa vita presente” — venne ricordata in una cronaca dell’epoca: BCBVi, ms. 165. Memoria de battesimi et altre cose ch’ocore alla giornata di Girolamo di Masi, c. 30. Proclamato dal Consiglio dei Dieci il Martinengo venne poi bandito il 23 settembre 1613: cfr. F. Capretti, Mezzo secolo di vita vissuta a Brescia nel Seicento, Brescia 1934, p. 188.27 Come commissari testamentari lo Scroffa elesse alcuni aristocratici vicentini e il patri-zio veneziano Zaccaria Sagredo, cui nella seconda cedola destinò la somma di 10.000 ducati, qualora Polissena non avesse aderito alla sua proposta. Ad essi suggeriva di non stupirsi per la straordinaria quantità di denaro destinato ai legati, “perché io so molto bene che la mia facultà et l’entrada il può fare”. Ordinò inoltre di essere sepolto, accanto al padre e al figlio, ai piedi dell’altare centrale del santuario di monte Berico, di cui nel 1590 aveva curato il restau-ro e l’abbellimento: cfr. ASVi, Notai di Vicenza, b. 935628 Sulla vicenda di Polissena Scroffa venne istruito un fascicolo processuale contenente i testamenti di Vincenzo Scroffa, gli atti emanati dalle diverse magistrature nonché le sup-pliche e i consulti che scandirono il suo evolversi sino al 26 settembre 1620. ASV, Consiglio dei Dieci, Processi criminali, Dogado, b. 1: Scritture diverse nel negotio di D. Pulissena Scroffa. Per brevità, non rinvierò a questo fascicolo se non nel caso di riferimenti precisi.

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per consiglio a fra Paolo Sarpi e Servilio Treo. I due consultori furono dell’av-viso che Polissena dovesse esprimere subito le sue intenzioni, manifestando la sua scelta nei confronti dei due che il nonno le aveva destinato. Messa alle strette, il 25 gennaio 1619 Polissena Scroffa si decise per Antonio Scroffa. Poiché questi non aveva superato che da poco i dodici anni, il matrimonio non avrebbe però potuto essere celebrato subito. In un lungo e bellissimo consulto fra Paolo Sarpi espose ai Capi le sue riflessioni sul caso. Il Servita osservava come il testamento dello Scroffa fosse stato redatto con estrema abilità giuridica, ma l’aristocratico vicentino non aveva previsto che, all’a-pertura della seconda cedola, Antonio Scroffa non avrebbe ancora raggiunto l’età canonica al matrimonio, che per l’uomo era fissata ai quattordici anni. Egli aveva bensì aggiunto che, se fosse insorto “qualche accidente”, il ma-trimonio avrebbe potuto essere rinviato29. Ma, osservava il Sarpi, non era questo il caso. Considerata la scelta di Polissena, il contratto matrimoniale tra i due giovani non avrebbe potuto infatti essere differito ed ella, avendo raggiunto i quindici anni, ne sarebbe stata vincolata. Ma nella scelta della giovane il Servita colse subito l’insidia30. Il testamento di Vincenzo Scroffa aveva in effetti suscitato una generale contrarietà e probabilmente la scelta di Antonio Scroffa era stata voluta per aggirare le rigide disposizioni testa-mentarie. Se Polissena, pur non potendolo fare de iure, avesse de facto rot-to gli sponsali de futuro stabiliti con Antonio Scroffa, la celebrazione di un matrimonio per verba de prasenti con altra persona sarebbe certamente stata considerata valida. Molto probabilmente, aggiungeva il Servita, “il contratto primo resterebbe annullato e poi si potrebbe promover lite se ella havesse satisfatto col primo contratto all’obligatione impostali dall’Avo”. Si trattava, infatti, di materia di sponsali e di matrimonio, le cui cause giudiziarie erano di tradizionale competenza ecclesiastica31. Per aggirare l’insidia, fra Paolo

29 Polissena avrebbe dovuto sposarsi all’età di quindici anni e mezzo “et se per qualche accidente succedesse che non si potesse essequir compitamente il matrimonio nel sudetto millesimo 1619, sia in ogni modo questo beneffitio di quelli al tempo de’ quali sarà compito almeno con le solite scritture et obligationi irretratabili”. Lo Scroffa aveva previsto che qua-lora i due possibili pretendenti fossero mancati di vita, i commissari testamentari avrebbero dovuto scegliere lo sposo di Polissena tra i membri dell’aristocrazia vicentina: ASVi, Notai di Vicenza, b. 9336.30 Consulto di fra Paolo Sarpi non datato, ma certamente della fine di gennaio del 1619: ASV, Scritture diverse, cc. 21-23.31 Su questi problemi cfr. G. Cozzi, Il dibattito sui matrimoni clandestini. Vicende giuridiche, so-ciali, religiose dell’istituzione matrimoniale tra medioevo e età moderna, dispensa del corso di storia delle istituzioni politiche e sociali, Dipartimento di studi storici, Università di Venezia, a. a. 1985-86: “Gli sponsali per verba de futuro consistevano nell’impegno assunto da due persone, che avessero come minimo sette anni, di contrarre tra loro in avvenire il matrimonio; sponsa-li per verba de praesenti si avevano invece quando le due persone, che avessero raggiunto come

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Sarpi propose allora un singolare contratto matrimoniale: i due giovani, di-stintamente e separatamente, avrebbero dovuto scambiarsi una reciproca promessa di matrimonio davanti a un rappresentante degli stessi Capi del Consiglio dei Dieci. Cosicché se Polissena avesse celebrato un altro matrimo-nio, aggiungeva il Servita, “sarebbe irretrattabile de iure et se de facto ella volesse contravenirli perderebbe il beneficio del testamento”.La proposta di fra Paolo Sarpi era un sottile marchingegno, che tra l’altro, in una materia assai delicata e controversa, gli offriva l’occasione di sottoline-are la sacralità insita nel potere politico. Una sacralità che, secondo il pen-siero sarpiano, avrebbe ben potuto e dovuto imporsi a quella più ambigua e strumentale del potere ecclesiastico32. I Capi del Consiglio dei Dieci accolsero i consigli del Servita e Polissena, pur riluttante, dovette acconsentirvi. La partita non era però che alle prime mosse. A chi stava dietro a Polissena non rimaneva che una scelta: nel 1613 il Consiglio dei Dieci aveva delegato a un’altra magistratura ogni contesa che fosse insorta sul patrimonio di Vin-cenzo Scroffa. Nel maggio del 1619 l’avvocato di Polissena presentò davanti al magistrato del Sopragastaldo una scrittura in cui esponeva come la sua assistita avesse acquisito diversi diritti sul patrimonio del nonno. Ella infatti pretendeva la sua quota dei beni dei Ribeira, che erano appartenuti al padre e al fratello de-funti. Si trattava di pretese legittime, come avrebbero ben presto constatato i commissari testamentari, ma in tal modo alla giovane sarebbe pervenuta una grossa parte dell’intera facoltà del nonno, disattendendone in sostanza l’effettiva volontà. Si poteva ormai legittimamente sospettare che Polisse-na mirasse a ottenere pure il riconoscimento della legittima a lei spettante, senza una sua esplicita dichiarazione in merito al matrimonio, la cui com-petenza era ormai dei Capi del Consiglio dei Dieci, e soprattutto senza una rinuncia formale sul rimanente del patrimonio. Cosa che sarebbe invece av-venuta se ella avesse esplicitamente rifiutato di sposare Antonio Scroffa. In alcuni successivi consulti fra Paolo Sarpi e Servilio Treo osservarono comun-que che la causa, avviata dagli avvocati di Polissena al magistrato del Sopra-gastaldo, non dovesse in ogni caso interferire con il testamento di Vincenzo Scroffa. Solo con la formale rinuncia alle disposizioni in esso contenute la giovane avrebbe potuto pretendere la propria legittima. Frattanto ella po-

minimo l’età della pubertà, esprimessero reciprocamente e liberamente la loro volontà di es-sere da quello stesso momento marito e moglie”. Uno scambio di consensi che, con il concilio di Trento, avrebbe dovuto avvenire alla presenza del parroco e di due testimoni. Si trattava comunque di una materia notevolmente complessa e ambigua, in cui l’interpretazione delle norme giuridiche che la regolamentavano era fortemente condizionata dalle pressioni delle forze in gioco.32 Id., Paolo Sarpi tra Venezia e l’Europa, Torino 1979.

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teva ben tentare di provare, per via giudiziaria, che non tutta la facoltà dei Ribeira spettava di diritto a Vincenzo Scroffa33.I due consultori avevano però dimostrato di sottovalutare il peso che la vi-cenda aveva ormai assunto. Le ingiunzioni giudiziarie, inviate dagli avvocati di Polissena ai commissari testamentari perché rilasciassero non solo la par-te dei beni dei Ribeira, che in via successoria avrebbero dovuto pervenirle, ma anche la sua quota di legittima, accrebbero la tensione34. La vicenda si era inoltre ingrandita. Era ormai chiaro a tutti che Polissena non intendeva sposare Antonio Scroffa, nonostante la promessa che aveva formalmente ri-volta ai Capi del Consiglio dei Dieci. Le sue mosse davano anzi l’idea che ella volesse appropriarsi del patrimonio dell’avo35. Tutta Venezia, probabilmen-te, seguiva incuriosita lo svolgersi dei fatti, che per molti versi sembravano assumere i contorni del ridicolo, con inevitabile derisione del potere politi-co. Non erano probabilmente in pochi a vedere in Polissena l’abile fanciulla che era in grado di prendersi gioco del riverito e temuto Consiglio dei Dieci. In un consulto dell’11 settembre 1619 fra Paolo Sarpi osservava come fosse necessario chiudere rapidamente la vicenda, costringendo Polissena a espri-mersi nei confronti delle decisioni del nonno, “passando fama per questa città che ella habbia altro dissegno”. Se ella, com’era assai improbabile, aves-se voluto mantenere la promessa di sposare Antonio Scroffa, avrebbe dovuto abbandonare ogni pretesa nei confronti della legittima sui beni dell’avo36. Di fronte alla minaccia, il 23 settembre seguente Polissena Scroffa presentò una scrittura ai Capi, affermando finalmente di non intendere di sposare Antonio Scroffa, una scelta che, aggiungeva, il nonno le aveva imposto “per sodisfare alla propria sua passione”37.Richiesto di esaminare la scrittura della giovane, fra Paolo Sarpi osservò, in un nuovo consulto, come la vicenda potesse ora considerarsi chiusa. Con l’accettazione della legittima, conseguente all’esplicito rifiuto di Polissena di sposare Antonio Scroffa, la volontà manifestata dall’aristocratico vicen-tino nel suo testamento poteva considerarsi rispettata. Se la giovane avesse avuto diritto a una quota aggiuntiva dei beni che erano appartenuti ai Ribei-

33 Cfr. i consulti del 1 giugno e 9 agosto 1619: ASV, Scritture diverse, cc. 34-35, 38.34 Da parte dei commissari testamentari la causa venne evidentemente sostenuta da Zac-caria Sagredo, il quale ricorse anche al parere di alcuni giuristi sulla legittimità delle richieste di Polissena: cfr. ibid., cc. 42-43.35 Si veda ad esempio la scrittura presentata da David Cavazza, avvocato di Polissena, in cui venivano minutamente descritte le rivendicazioni sul patrimonio familiare e la formale ri-chiesta avanzata dalla giovane il 12 agosto 1619 per ottenere un terzo del patrimonio dell’avo, corrispondente alla sua quota di legittima: ibid., c. 36, 1 giugno 1619.36 Ibid., cc. 46-47.37 Ibid., c. 48.

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ra, sarebbe stata la causa giudiziaria in corso a stabilirlo. Rimaneva quella promessa fatta ai Capi del Consiglio dei Dieci, che poteva dimostrare una certa irriverenza, ma “la fragilità del sesso et dell’età”, osservava il Servi-ta, inducevano all’indulgenza. Con accortezza egli rinviò al consulto steso il primo giugno precedente insieme a Servilio Treo, in cui aveva ricordato che “nondimeno, non ostante questo, tutte le leggi divine et humane ordinano che la libertà non le sia levata”38. Si poteva legittimamente supporre che l’e-pisodio sarebbe infine rientrato nell’alveo della normalità, da cui l’impreve-dibile testamento di Vincenzo Scroffa l’aveva fatto emergere. Sennonché il 26 settembre 1619 la maggioranza del Consiglio dei Dieci respinse la propo-sta che, su parere di fra Paolo Sarpi, era stata avanzata di far proseguire la causa giudiziaria alla magistratura del Sopragastaldo, nonché di ordinare a Polissena di presentarsi davanti ai Capi, che avrebbero dovuto accettarne la formale ammissione di rinuncia39. Il 17 ottobre successivo lo stesso Consiglio dei Dieci deliberò che, mentre proseguiva la causa giudiziaria, sarebbe però rimasta operante la protezione che esso aveva accordato alla giovane40. Ciò significava, in sostanza, che il supremo organo veneziano non accettava il rifiuto che in extremis Polissena aveva manifestato nei confronti delle propo-ste del nonno. In definitiva ella doveva sposare Antonio Scroffa, in quanto s’era impegnata in una promessa di matrimonio celebrata davanti ai Capi del Consiglio dei Dieci.Polissena Scroffa venne trasferita in un monastero veneziano. Le fu concesso di essere visitata solo dai suoi avvocati, ma in presenza della madre badessa e di altre monache. Le sue lettere vennero intercettate41. Le veniva ora impe-dita una scelta che solo alcuni mesi prima avrebbe potuto tranquillamente intraprendere. Spinta dalla disperazione42, alla fine di maggio del 1620 pre-sentò una supplica ai Capi del Consiglio dei Dieci affermando ancora una vol-ta che non intendeva sposare Antonio Scroffa e d’essere piuttosto disposta ad abbandonare la causa giudiziaria che aveva avviato. La giovane suggerì

38 Consulto del 28 settembre 1619: ibid., c. 49.39 Ibid., c. 8. La “parte” venne respinta con otto voti contro e sette a favore.40 Ibid., cc. 54-57. Il 9 ottobre il commissario testamentario Zaccaria Sagredo riferì ai Capi che Polissena l’aveva fatto chiamare nel monastero in cui ella si trovava e gli aveva espresso che “quando ben anco havessi a rimaner in camisa non sarà già mai mio marito il Signor Antonio Scroffa et me ne dicchiarirò sempre et in ogni luogo”. Al consiglio che il Sagredo le aveva rivolto di scegliere l’altro Scroffa, ella rispose: “Tanto peggio, l’uno è povero, l’altro è mendico”, ibid., cc. 52-53.41 Ibid., cc. 38-64.42 In una lettera diretta ai Capi del Consiglio dei Dieci Polissena scrisse “che in quatro zorni mi par quatro ani e ogni zorno mi vanza la vogia di tuor il Signor, non facio altro che pianger et io non volgio far rider niuno”: ibid., c. 59, lettera del 27 ottobre 1619.

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che, tramite i rettori di Vicenza, le si proponessero quattro o cinque persone della città, tra le quali avrebbe scelto il suo sposo43. Richiesto di un nuovo consulto, fra Paolo Sarpi ribadì come fosse ormai opportuno accogliere l’i-stanza della giovane, anche perché in tal modo veniva a essere rispettata la volontà di Vincenzo Scroffa. Rinunciando ai due terzi del patrimonio dell’a-vo, ella avrebbe potuto sposarsi, dietro consiglio dei parenti, “in soggetto di qualità conveniente”44.Ancora una volta il consiglio di Sarpi non venne accolto. La supplica di Polis-sena Scroffa cadde nel vuoto. La donna venne liberata il 20 settembre 1620, dopo essersi formalmente impegnata a sposare Antonio Scroffa45. La lonta-nanza da casa, le pressioni dei parenti e l’incognita del futuro l’avevano vinta infine, a distanza di un anno, sull’avversione nei confronti di una scelta che le si era voluto imporre. L’aveva in ultimo spuntata il Consiglio dei Dieci, o meglio quel clima di curiosità e di pettegolezzo che la vicenda aveva attirato intorno a sé. Il supremo organo veneziano aveva inoltre voluto dimostrare che un impegno nei suoi confronti era dotato di quella sacralità insita in ogni forma superiore di potere. Ma dietro alla decisione del Consiglio dei Dieci stava forse un sottile richiamo al più illustre dei suoi consultori: ogni assun-zione di principio, come egli ben sapeva, una volta che era stata intrapresa andava condotta fin in fondo, pena la perdita di dignità.A ben guardare Vincenzo Scroffa poteva ritenersi soddisfatto. Profondo co-noscitore del mondo veneziano, delle sue magistrature, dei suoi complessi intrecci di potere, l’aristocratico vicentino aveva probabilmente previsto una cosa: che l’affidamento delle sue ultime volontà alla suprema magistra-tura veneziana avrebbe infine finito per creare una situazione a cui gli stessi suoi protagonisti ben difficilmente avrebbero potuto sottrarsi. Di certo, quel suo desiderio di ricreare un passato da cui le vicende della vita l’avevano traumaticamente allontanato si realizzò: la sua Casa assurse a nuovo splen-dore e nel 1698 il nipote di Polissena e Antonio Scroffa, di nome Vincenzo, divenne patrizio veneziano46.

43 Ibid., c. 71.44 Ibid., cc. 75-76, consulto steso insieme a Servilio Treo il 20 luglio 1620. È significativo che il consulto iniziasse ricordando che i Capi avevano “commandato che noi dobbiamo esporli il parer nostro in qual maniera sia giusto et conveniente metter fine al negotio del matrimonio di D. Polissena Scroffa, raccomandata alla Carità et protettione loro”.45 Ibid., nota apposta sul frontespizio del fascicolo: “Fu liberata per maritarsi in Vicenza, come nella parte”.46 Nella seconda cedola l’aristocratico vicentino aveva ordinato che la sua casa “posta in contrà de Lisiera sotto la sindicaria di Santa Lucia, con tutto quello che mi ritrovo in detta contrà e lochi circonvicini, così di case come terreni e fitti, siano del primogenito di detta mia nipote, il qual debba haver nome Vicenzo et perché debbano ditta casa e beni passar di primo-

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La scelta di Vincenzo Scroffa di affidare l’esecuzione del suo testamento ai Capi del Consiglio dei Dieci si colloca, comunque, in un contesto sociale e politico che proprio dalla seconda metà del Cinquecento aveva iniziato ad assumere una nuova fisionomia. La perdita di identità politica da parte delle aristocrazie di terraferma e la sostanziale delegittimazione dei centri sudditi avevano notevolmente complicato i percorsi della conflittualità giudiziaria. I tribunali del centro dominante avevano decisamente ampliato la loro sfera d’influenza, creando dei contraccolpi sull’attività delle magistrature civili e penali dei centri sudditi. Alla base della decisione assunta dall’aristocra-tico vicentino stava evidentemente la consapevolezza di come anche i più sofisticati strumenti giuridici non avrebbero potuto reggere di fronte a una conflittualità giudiziaria che sarebbe ricorsa strumentalmente ai tribunali veneziani47. Le alleanze e l’influenza di cui poteva disporre la potente con-sorteria avversaria gli consigliarono probabilmente di assumere l’iniziativa, contrassegnando politicamente e in base alla comprensione della sottile lo-gica che animava la struttura di potere veneziano, scelte che traevano la loro ispirazione giuridica dalla più sofisticata elaborazione giurisprudenziale.Gli stessi assetti legislativi locali si sarebbero d’altronde ridefiniti sotto la spinta di una conflittualità che non poteva più essere controllata da magi-strature private dell’esercizio di autorità politica. Quelle consuetudini, che per secoli avevano contrassegnato la vita giuridica e amministrativa dei centri sudditi48 e la cui funzione consisteva tra l’altro nel permettere ai ceti

genito in primogenito delli descendenti di detta mia nepote in infinito”: ASVI, Notai di Vicenza, b. 9356, L’istituto della primogenitura iniziò a diffondersi tra l’aristocrazia vicentina a partire dalla seconda metà del Cinquecento, sotto la spinta di una tensione interna che mirava a con-notare sul piano simbolico i valori ideologici che sorreggevano e perpetuavano la Casa: cfr. C. Povolo, La primogenitura di Mario Capra, Vicenza 1990. Sull’ascrizione degli Scroffa al patriziato veneziano cfr. BCBVi, ms. 2527. Nel discorso letto in Senato da Vettor Zane il 26 luglio 1698 si ricordò come Vincenzo Scroffa avesse registrato “fra le domestiche sue memorie che il dovitioso suo patrimonio sia stato per la maggior parte fondato con il fortunato matrimonio d’una figliola unica erede della famiglia Scroffa raccomandata dal padre alla decorosa Tutella dell’Eccelso Consiglio”.47 È significativo che nel suo testamento lo Scroffa avesse ricordato a proposito delle sue decisioni che “né vuole, né intende che li sia ammessa alcuna scusa di qual si voglia sorte; et prega et suplica ogni il. et ecc. giudice che havesse da giudicare, voler essequir pontalmente et senza alcuna interprettatione questa sua dispositione et le ne carica la conscienza, seben detto signor testator resta certo et sicuro che li ill., giudici vinetiani et massime li ecc. conse-gli si sottopongono come a leggi nelli loro giudicii alla volonta dell testatori et tutti li sudditi di questa Serenissima Republica vivono con questa certezza che le loro volontà siano formal-mente essequite”: ASVi, Notai di Vicenza, b. 9356.48 In materia successoria, per far fronte alla conflittualità giudiziaria che si dirigeva verso le magistrature della Dominante, Vicenza fu costretta a inserire negli statuti cittadini antiche consuetudini che sino ad allora non erano mai state formalmente messe in discussione: cfr. BCBVi, Archivio Torre, bb. 306 e 714 intorno alla richiesta avanzata dalla città nel 1634 per otte-

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aristocratici dirigenti di risolvere agevolmente le proprie contraddizioni, furono costrette a emergere49 per inserirsi nelle numerose riedizioni statu-tarie che nel corso del Sei-Settecento apparvero in quasi tutte le città della terraferma50. Affiancandosi ai precedenti giudiziari dei grandi tribunali della Dominante, la nuova normativa assunse così una diversa fisionomia giuridi-ca, regolamentando i più complessi rapporti che sul piano antropologico e politico si erano venuti a intrecciare tra centro e periferia51.

nere la conferma delle consuetudini che regolavano la “solennità” dei testamenti.49 Intorno a questo problema cfr. le riflessioni di J. A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, 2 voll., Bologna 1991 (Madrid 1972), II, pp. 483-526.50 Per Vicenza cfr. B. Munari, Notizie sulle leggi che regolarono la città e provincia di Vicenza, Vicenza 1861. Più in generale G. Cozzi. Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII,Torino 1982.51 Alla fine del Settecento Antonio Lorenzoni osservò nelle sue Instituzioni che le successioni legittime “presso di noi vengono dirette dalle Leggi nostre Municipali, le quali si rapportano al Diritto Romano, cui non fanno che alcune alterazioni ... non conviene presso di noi decidere i casi di un tal genere con altre Leggi, in esistenza delle nostre Municipali o delle Romane”. In altro punto della sua opera egli rilevò tuttavia che in una materia così “involuta” come quella successoria “conviene però avere in vista due riflessioni, cioè primieramente che la Legge comune unitamente alla Municipale non provedono alcuna volta determinatamente a tutti questi possibili casi e che in conseguenza in allora non si può rapportarsi se non a ciò che sembra uniforme ai Veneti Giudizj in questa materia”: Lorenzoni, Instituzioni..., I, pp. 111, 190. A giudizio del giurista vicentino i precedenti giudiziari dei grandi tribunali dello Stato veni-vano così a integrare una legislazione locale ancora profondamente ancorata alla tradizione, ma, evidentemente, dotata di una diversa legittimità istituzionale.

TRADIZIONE E GIURISDIZIONE NEGLI SCRITTI DI UN CONSULTORE IN IURE (GIOVAN MARIA BERTOLLI, 1631-1707)

Dalla ‘piccola patria’ alla città dominante

Bertoli, Bertolo, Bertuolo, Bertolli…: di certo, anche tramite la complicità disinteressata delle declinazioni latine, quelle continue variazioni nel co-gnome accompagnarono Giovan Maria Bertolli nel corso di tutta la sua vita, quasi a costantemente ricordargli le umili origini, che pure erano state ri-scattate da un’ascesa sociale folgorante1. Un’ascesa davvero sorprendente, quasi imprevedibile, anche per quei decenni del Seicento in cui ricchezza e sapere potevano facilmente dialogare con gli apparentemente rigidi confini imposti dalla condizione dello status e dell’appartenenza famigliare2. Infi-ne, forte della sua posizione sociale, il nome l’aveva imposto lui, in qualità di consultore in iure, apponendo la sua firma personale di Giovan Maria Ber-tolli ai numerosi pareri giuridici scritti su richiesta delle massime autorità politiche veneziane.

1 Non ebbe di certo difficoltà a scegliere il cognome di Bertolli il suo primo vero biografo, anche perché, come vedremo, una parte consistente della sua opera venne dedicata all’attivi-tà di consultore in iure del giurista vicentino: L. Ferrari, Di Giammaria Bertolli Vicentino, consul-tore della veneta repubblica, Treviso 1885. Così come nella voce a lui dedicata da G. F. Torcellan in Dizionario biografico degli italiani, 9, Roma 1967, p. 607. Torcellan riportava però per prudenza, tra parentesi, pure la dizione Bertolo. Non c’è da stupirsi come l’altalenarsi del cognome sia giunto sino a noi, se ancora la variante Bertolo sembra aver ripreso vigore per attestarsi come quella oggi predominante. Cfr., ad esempio, V. Piermatteo, Giovanni Maria Bertolo. Consultore in iure della Repubblica veneziana. Profilo di un avvocato tra professione, devozione e patrocinio delle arti, tesi di laurea, Università di Udine, rel. V. Romani, anno acc. 2004-2005. Ma la variante Bertolo, è ripresa in maniera ancor più significativa nelle iniziative avviate dalla biblioteca Bertoliana per ricordare la morte dell’illustre giureconsulto, cfr., ma non è che un esempio, la rubrica Il Biblionauta dedicata a Giovan Maria Bertolli e pubblicata in “Il giornale di Vicenza” del 2 nov. 2005. In tempi più recenti, per la scelta di Bertolli, si veda invece M. Infelise, A proposito di Imprimatur. Una controversia giurisdizionale di fine Seicento tra Venezia e Roma, in Studi offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 287-299.2 Sul rapporto tra onore e ricchezza rinvio alla sintesi prospettata da J. Casey, La famiglia nella storia, Bari 1991 (Oxford 1989), in particolare pp. 85-108.

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Il sacerdote che il 2 dicembre 1631 ne registrò il battesimo, impartito nella chiesa cattedrale di Vicenza, ricordò il nome dei suoi genitori: messer Iseppo Bertolo e donna Paulina3. Se i nomi dei due genitori erano accompagnati da quei due appellativi che sembravano attestare una certa visibilità sociale, sappiamo comunque che Iseppo Bertolo non solo era di umilissime origini, ma aveva pure svolto per anni la professione di tornitore e di falegname. Quel cognome, Bertolo, richiamava senza alcun dubbio il nonno Bortolo, pure falegname, il quale, proveniente da Cittadella, si era stabilito a Vicenza intorno la metà del Cinquecento. Il matrimonio con Paolina Barbieri, ap-partenente ad una famiglia borghese cittadina, suggerisce comunque come Iseppo Bertolo si fosse provveduto di non mediocri fortune, tanto da poter successivamente inviare agli studi di giurisprudenza i due figli Giovan Maria e Nicola e acquisire una serie cospicua di proprietà immobiliari4.La vita di Giovan Maria Bertolli si costituisce di certo come esemplificazione significativa e paradigmatica dell’ascesa di un parvenu in una società anco-ra profondamente innervata nello status e nel privilegio. Se la ricchezza di famiglia, indubbia anche se non se ne conosce effettivamente l’origine, co-stituì il punto di partenza della sua ascesa sociale, il sapere, in particolare quello che si definiva per la sua dimensione giuridica, fu lo strumento pre-cipuo tramite cui Giovan Maria Bertolli acquisì un ruolo e una visibilità di tutto rilievo negli equilibri politici che caratterizzavano lo stato veneziano.Sul finire degli anni ’50 del Seicento Giovan Maria Bertolli si trasferì con tut-ta la famiglia a Venezia: un passaggio significativo sul piano individuale, ma che, in un certo senso, rifletteva pure le profonde trasformazioni politiche intervenute nei decenni precedenti nell’ambito dei rapporti tra città domi-nante e città suddite5. Vicenza, così come altre grandi città del dominio di Terraferma, aveva progressivamente smarrito la sua identità politica a tutto vantaggio della città lagunare. Le sue istituzioni, indebolite dall’azione in-vasiva delle magistrature della Dominante, ma anche dalla crescita di ceti sociali inclini a metterne costantemente in discussione l’autorità e il pre-stigio, non rappresentavano più l’emblema dell’antica autonomia cittadina. Era difatti divenuta pratica costante, quantomeno per risolvere i conflitti

3 L’atto di battesimo è riportato da L. Ferrari, Di Giammaria Bertolli…, p. 8: “Adì 2 settembre 1631. Giovan Maria figliolo di messer Iseppo Bertolo et di sua consorte madonna Paulina, nac-que il dì 31 agosto. Compare il signor Cruido Aviano, la signora contessa Domiscillia Valma-rana, fu battezzato…”. Luigi Ferrari svolse un’accurata ricerca sugli avi di Bertolli, riportando pure l’atto di matrimonio del nonno paterno (cfr. ibidem, pp. 6-7).4 Per alcuni documenti inerenti la famiglia di Bertolli cfr. V. Piermatteo, Giovanni Maria Bertolo…, pp. 96-98.5 Notizie preziose su questa fase della vita di Bertolli in V. Piermatteo, Giovanni Maria Ber-tolo…, pp. 98-99.

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socialmente più rilevanti, adire gli organi giudiziari della città lagunare. Gli strumenti giuridici posti sin dall’antica dedizione a difesa dell’identità poli-tica cittadina e, ancor più, la dimensione giuridica che l’animava, d’impron-ta romanistica e giurisprudenziale, avevano così dovuto direttamente raf-frontarsi con il diritto della città dominante, caratterizzato per il suo timbro pragmatico e consuetudinario6.Non diversamente, le grandi famiglie aristocratiche che nel corso del Cin-quecento, il secolo d’oro della città berica, avevano denotato sotto diversi aspetti, da quello culturale a quelli politico e militare, di ambire ad un profi-lo europeo, avevano smarrito quella fisionomia che le aveva indubbiamente contraddistinte, anche rispetto agli altri ceti nobiliari e aristocratici della Terraferma. Travolto dai conflitti interni e, soprattutto, dall’incapacità o, per meglio dire, dall’impossibilità, di regolamentarne gli esiti distruttivi, il ceto dirigente vicentino dovette ridimensionare il suo profilo politico e ade-rire, in funzione subordinata, alle relazioni clientelari e di patronato gestite dal patriziato veneziano7.Si trattò di grandi trasformazioni, che vennero enfatizzate al massimo grado da una crisi più generale dei valori tradizionali: una gerarchia sociale tra-dizionale, impostata sullo status e sulla nobiltà di sangue, dovette venire a patti con una gerarchia che, all’inverso, sottolineava, con i valori della ric-chezza, la necessità improcrastinabile di ridefinire gli equilibri di potere8.Le trasformazioni sociali e politiche che travolsero la vita della città berica furono sottolineate dalla crisi più generale che investì lo stato veneziano intorno alla metà del Seicento. Nonostante la sua indubbia capacità di tenu-ta sul piano politico e commerciale, la città lagunare dovette affrontare un lungo e defatigante conflitto con la potenza turca, che infine condusse ad un ridimensionamento sostanziale del suo ruolo egemonico nel Mediterraneo.

6 Rinvio per questo tema di fondo al mio L’intrigo dell’onore. Poteri e istituzioni nella Repubbli-ca di Venezia tra Cinque e Seicento, Verona 1997, in particolare pp. 147-227.7 Cfr. ancora ibidem, pp. 186-190. Per una vicenda esemplificativa cfr. Il processo a Paolo Orgia-no (1605-1607), a cura di C. Povolo, con la collaborazione di C. Andreato, V. Cesco, M. Marcarelli, Roma 2003. Si veda inoltre G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982; nonché, dello stesso autore, per un quadro generale delle trasformazioni politiche che interessarono la vita della repubblica, Venezia nello scenario europeo, in La Repubblica di Venezia. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992, pp. 5-200.8 Cfr. in particolare C. Povolo, L’uomo che pretendeva l’onore. Storia di Bortolamio Pasqualin da Malo (1502-1591), Venezia 2010.

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Onore e onori

In quel volger d’anni in cui Giovan Maria Bertolli faceva il suo ingresso nella città dominante, il ceto dirigente veneziano, pressato dall’urgenza militare e finanziaria del conflitto con il Turco, decise di aprire i varchi, sino ad allora quasi insuperabili, che permettevano l’accesso al suo patriziato. Numero-se famiglie, provviste di ricchezza, ma ambiziose di accedere alle soglie del potere, acquistarono, dietro versamento di un’ingente somma di denaro, la dignità del patriziato veneziano9.Il clima era dunque propizio per il figlio di quell’oscuro falegname, deciso comunque a farsi strada nei complicati e, per certi versi, quasi inestricabili meandri del potere veneziano.Il sapere di cui era provvisto Giovan Maria Bertolli e la professione di avvo-cato che aveva ben presto scelto d’intraprendere, non sembravano offrire molto spazio in una città che non solo aveva dichiaratamente respinto qual-siasi riferimento al diritto romano, ma altresì, in più di un’occasione, aveva dimostrato apertamente la sua diffidenza, se non ostilità, nei confronti del ceto di giuristi che di quel diritto si era costituito geloso interprete10.Giovan Maria Bertolli, come si è detto, proveniva da una città che, non diver-samente da tutte le altre grandi città della Terraferma, si ispirava profonda-mente al diritto comune imperiale: un diritto legittimato dalla tradizione e dai suoi riferimenti culturali e ideologici; un diritto, ancora, che sanciva con la preminenza del suo sapere, l’autonomia dei centri sudditi e la funzione ineliminabile dei suoi ceti dirigenti11.Le grandi trasformazioni avviatesi negli ultimi decenni del Cinquecento e l’inge-renza delle magistrature veneziane avevano paradossalmente, se non avvicina-to, quantomeno posto a confronto la realtà giuridica della Terraferma con quella della città dominante, ancorata per lunga tradizione a consuetudini che rifug-givano dagli schemi e dalle teorizzazioni tipici del diritto romano imperiale12.

9 R. Sabbadini ha dettagliatamente affrontato questa importante fase della vita del pa-triziato veneziano in L’acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Vene-zia, Udine 1996. In particolare, per la cooptazione di una famiglia aristocratica vicentina nel ceto dirigente patrizio lagunare cfr. C. Povolo, Percorsi genealogici. Storia di donne in una famiglia dell’aristocrazia vicentina, s.d e s. l., Vicenza 1990.10 Su questo tema cfr. G. Cozzi, La società veneta e il suo diritto. Saggi su questioni matrimoniali, giustizia penale, politica del diritto, sopravvivenza del diritto veneto nell’Ottocento, Venezia 2000; C. Povolo, Un sistema giuridico repubblicano: Venezia e il suo stato territoriale (secoli XV-XVIII), in Il diritto patrio. Tra diritto comune e codificazione (secoli XVI-XIX), a cura di I. Birocchi e A. Mattone, Roma 2006, pp. 297-353.11 La bibliografia sul tema è amplissima. Mi limito qui a ricordare A. Padoa-Schioppa, Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna 2003.12 Tema ampiamente affrontato in Cozzi, Repubblica di Venezia…, pp. 319 e sgg.

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Il sistema giuridico dello stato veneziano, incentrato per tradizione sulla separatezza istituzionale e politica tra centri sudditi e centro dominante, assunse così una nuova fisionomia. Nell’ambito delle magistrature della città dominante, verso cui confluivano vieppiù i conflitti insorti nelle città sud-dite, il diritto romano poteva forse essere considerato con una certa suffi-cienza, ma di certo non poteva essere ignorato. E così, pure, i ceti di giuristi e di avvocati che ne erano grandi conoscitori e che, meglio di tutti, sapevano esprimerne le logiche sottili e profonde13.Nella città dominante Giovan Maria Bertolli avrebbe dunque potuto incon-trare la sua grande occasione. La sua attività forense era necessariamente limitata dalla consolidata esistenza degli avvocati ordinari e straordinari: di origine patrizia i primi e, comunque, tutti di cittadinanza veneziana14. L’af-flusso delle cause provenienti dalla Terraferma aveva però dimostrato come il ruolo degli avvocati provenienti dall’esterno fosse ineliminabile: sia per lo specifico sapere giuridico che quelle richiedevano, così come per l’ampiezza e complessità dei conflitti che le magistrature veneziane erano chiamate a dirimere15.Si può aggiungere che l’inserimento di Giovan Maria Bertolli nella città la-gunare era inoltre paradossalmente favorito da un altro importante fattore di natura politica. A diversità dei grandi stati monarchici e principeschi le trasformazioni politiche nello stato veneziano, organizzato nella forma ari-stocratica-repubblicana, avevano dovuto intraprendere altri percorsi ed as-sumere altre forme. Nei primi, infatti, l’estensione dell’attività amministra-tiva e giudiziaria seicentesca aveva portato se non al superamento effettivo del tradizionale stato giurisdizionale16, quantomeno al consolidarsi di un’éli-

13 Cfr. per alcune ascese condotte all’insegna della professione dell’avvocatura G. Benzoni, Un Ulpiano mancato: Giovanni Finetti, in “Studi veneziani”, XXV (1993), pp. 35-71.14 Nel 1537 si era apertamente deciso che accanto agli avvocati ordinari, esclusivamente di appartenenza patrizia, si affiancassero avvocati straordinari, cui si richiedeva il requisito della residenza a Venezia da un certo periodo. Le cause civili che giungevano in appello dalla Terraferma e dallo stato da mar per adire i tribunali lagunari erano comunque sorrette da av-vocati locali scelti dalle parti, cfr. Cozzi, Repubblica di Venezia…, pp. 314-317; M. Bellabarba, Le pratiche del diritto civile: gli avvocati, le “Correzioni”, i conservatori delle leggi, in Storia di Venezia. Dal Rinascimento al Barocco, VI, a cura di G. Cozzi e P. Prodi, Roma 1994, pp. 804 e sgg.15 Sulla professione degli avvocati si veda G. Alpa e R. Danovi, Un progetto di ricerca sulla sto-ria dell’avvocatura, a cura di G. Alpa e R. Danovi, Bologna 2003; e per la Repubblica di Venezia, per quanto concerne il settore penale Processo e difesa penale in età moderna. Venezia e il suo stato territoriale, a cura di C. Povolo, Bologna 2007.16 La forma di stato cioè, riprendendo la definizione di M. Fioravanti, che ha tre caratteri fondamentali: “un territorio sempre più inteso in senso unitario, ma in cui l’unità è prece-duta, logicamente e storicamente, dalle parti che lo compongono, nel senso che chi governa al centro è sempre costretto a presupporre l’esistenza di una fitta schiera di soggetti, dalle città alle comunità rurali …; un diritto anch’esso sempre più funzionale alla cura dell’intero,

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te17 di formazione sia aristocratica che borghese, organizzata in base ad una struttura tendenzialmente gerarchica e burocratica18. Nella repubblica di Venezia, dominata da un ceto patrizio insignito dell’esclusività del potere, questo processo non poteva essere preso in considerazione. Il superamento della separatezza politica e giuridica che contraddistingueva lo stato vene-ziano non poteva realizzarsi se non enfatizzando, da un lato, la tradizionale ideologia che sottolineava l’autonomia dei centri sudditi e, dall’altro, ampli-ficando al massimo livello l’attività giudiziaria delle magistrature della città dominante, le quali, come già si è detto, catalizzarono tutti i conflitti che possedevano una dimensione politica rilevante. In quest’ottica la formazio-ne di un’élite che potesse identificarsi con la nuova progettualità dello stato non si poteva compiutamente realizzare, se non mettendo in discussione le tradizionali prerogative del ceto patrizio lagunare19.Fuoriuscito dalla piccola patria, arroccata nelle tradizionali anche se oramai indebolite strutture del potere, da cui nulla avrebbe potuto attendersi, Gio-van Maria Bertolli, approdando nella grande città dominante, intravide quei percorsi interstiziali che ad un uomo come lui, provvisto di sapere e di ambi-zione, potevano offrire uno spazio inedito20. La professione di avvocato, già intrapresa nella città berica e proseguita quasi certamente, quantomeno agli inizi, ai margini della grande avvocatura

ma che non per questo si traduce automaticamente in diritto gerarchicamente sovraordinato rispetto ai diritti delle parti e dei singoli …; un governo che opera sempre più con riferimento al territorio nel suo insieme, e anche nella sua unitarietà, ma non per questo con l’intento di generare uniformità, … un governo dunque che non opera per il tramite di una amministra-zione deputata a esprimere in ogni luogo, al centro come in ogni punto della periferia, la pre-senza e la forza dell’imperium, ma per il tramite della giurisdizione, che consente in modo ben più elastico di governare un’unità territorialmente complessa, essenzialmente con l’intento di mantenere la pace, di consociare e tenere in equilibrio le forze concretamente esistenti”, M. Fioravanti, Stato e costituzione, in Lo stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, Bari 2002, pp. 8-9.17 Sia tramite la presenza di corti che con l’assorbimento della nobiltà di provincia o di membri di estrazione borghese nel ceto dirigente, cfr. per questo tema J. A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, Bologna 1991 (Madrid 1972).18 Problemi che, anche sul piano storico, sono stati affrontati da M. R. Damaška, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo, Bologna 1991, in particolare i capitoli dedicati al Modello gerarchico e modello paritario nel contesto storico, pp. 68 e sgg.19 Per questo tema rinvio ancora al mio Un sistema giuridico repubblicano…, in particolare pp. 340-347.20 Si tratta di percorsi che già s’erano avviati nel corso del Cinquecento, ma che nel secolo successivo si ampliano notevolmente, anche in virtù delle trasformazioni che si attuarono nei rapporti di potere tra centri sudditi e centro dominante. Per rimanere nel contesto vicentino si ricordano Marcantonio Pellegrini, Sebastiano Montecchio e, soprattutto, Angelo Matteazzi, esponente di rilievo della scuola giuridica umanistica, cfr. C. Povolo, L’intrigo dell’onore…, pp. 147 e sgg.

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straordinaria veneziana fu probabilmente favorita dal suo matrimonio con Serafina Barbieri, appartenente ad un’agiata famiglia di cittadini21. Le rela-zioni personali e famigliari, allacciate sia nella città dominante che in quel-la di origine, agevolarono l’esercizio di un’attività che si svolgeva a stretto contatto della complessa rete delle magistrature veneziane. Un’attività di cui non sono rimaste che scarne tracce, in quanto, molto probabilmente, si svolse essenzialmente in funzione di supporto delle arringhe pronunciate dagli avvocati già attestati nel foro veneziano. Di questa sua prima fase dell’attività ci sono infatti rimaste solo alcune lette-re e documenti inerenti una causa giudiziaria che egli seguì negli anni 1662-63, molto probabilmente, in veste di procuratore. Si trattava di una vertenza tra l’antico ospizio dei Proti di Vicenza e la famiglia Pestalozzi. Il motivo del contendere (turbato possesso) era banalmente dato da un muro di confine che entrambe le parti, per opposti motivi, rivendicavano. Difendendo le istanze dei governatori dell’ospizio, Giovan Maria Bertolli, in alcune scritture stese per l’occasione, rivela già in questi primi anni della sua attività una spiccata inclinazione a declinare il linguaggio giuridico con la ricerca storica. Una di-mensione che potremmo definire storiografica e che ritroveremo in maniera ben più compiuta nei decenni seguenti, nel momento in cui avrebbe svolto l’attività di consultore in iure per la Repubblica22.Poco sappiamo della sua attività di procuratore ed avvocato svolta nei de-cenni ’60 e ’70 del Seicento, ma di certo dovette essere proficua di risulta-ti sul piano professionale ed economico, se nel decennio successivo Giovan Maria Bertolli ottenne una serie di riconoscimenti sociali di grande rilievo, soprattutto per un uomo la cui oscura origine sembrava costantemente ri-affiorare nell’incertezza di quel cognome che ricordava palesemente l’avo Bortolo23.

21 Ancora, per le ampie e documentate informazioni inerenti la famiglia di Bertolli rinvio a L. Ferrari, Giammaria Bertolli…, pp. 10-12 e V. Piermatteo, Giovanni Maria Bertolo…, pp. 97-100. La famiglia Barbieri apparteneva ai cittadini originari, quell’importante fascia sociale intermedia, posta al di sotto del patriziato e da cui si traevano i segretari che svolgevano la loro attività nell’ambito delle magistrature veneziane, cfr. A. Da Mosto, L’archivio di stato di Venezia, I, Roma 1937, p. 74.22 La vicenda è riassunta da L. Ferrari, Giammaria Bertolli…, pp. 16-21. Il Bertolli, in alcu-ne sue lettere, dirette al governatore dell’ospizio, comunicò come avesse posto in rilievo la funzione sociale dell’istituzione caritativa. Inoltre svolse alcune ricerche nell’archivio stesso dell’ospizio, esaminando il testamento quattrocentesco del suo fondatore, per trarne argo-mentazioni che potessero servire al successo della causa dibattuta in Quarantia.23 Probabilmente Bertolli acquisì lo status di avvocato straordinario, in quanto la sua dimen-sione professionale, così insignita di visibilità, si può spiegare solo con una gestione diretta delle cause giudiziarie presso le massime magistrature della Dominante, e a contatto con gli avvocati patrizi ordinari.

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Onore e onori erano intimamente connessi nel periodo in cui Giovan Maria Bertolli si faceva largo tra la fitta pletora di protettori e protetti che anima-vano la vita politica veneziana24. Nel 1680, attingendo quasi sicuramente alle ben fornite entrate familiari, ottenne il titolo di conte imperiale, che nel 1683 venne pure ratificato dal Senato veneziano25. Un titolo che, nonostante fosse in un certo senso inflazionato dalle frequenti concessioni rilasciate a tutti coloro che dimostravano di ambirlo, nel caso di Giovan Maria Bertolli si costituiva come un onore altamente elogiativo. Denaro e sapienza avevano infatti contribuito in egual misura a sancire un privilegio che avrebbe dovu-to mettere in secondo piano un’origine famigliare assai discutibile sul piano sociale.

Un reciproco scambio di affetti

Ma il vero salto di qualità Giovan Maria Bertolli lo fece nel 1684, quando, su proposta dei Riformatori allo Studio di Padova, il Senato veneziano lo no-minò consultore in iure “nelle materie tutte che anderanno occorrendo alla giornata”. L’incarico comportava l’abbandono dell’attività di avvocato e la stabile residenza a Venezia26.Si trattava di una nomina prestigiosa, inserita in una tradizione ormai con-solidata che aveva preso avvio nei primi anni del Seicento con il conferimen-to dello stesso incarico a fra Paolo Sarpi.La carica di consultore in iure rifletteva al massimo grado non solo la speci-fica dimensione dello stato veneziano, ma pure le caratteristiche di un dirit-to, quello veneto, che in sé esprimeva gli aspetti più tipici e reconditi di un sistema di potere repubblicano ed aristocratico. Soprattutto in questi ultimi decenni del Seicento, come avremo occasione di esaminare, l’attività di con-sultore non contrastava comunque con quel sapere giuridico di tradizione romanistica che caratterizzava il mondo del diritto al di fuori di Venezia. Nell’integrazione a consultore feudista, conferitagli l’anno seguente, il Senato

24 Il sistema delle protezioni in una repubblica ubbidiva a regole assai complesse, ma si svolgeva come un vero e proprio sistema parallelo a quello istituzionale e tale comunque da influire profondamente nelle relazioni politiche e sociali tra centro dominante e centri sudditi, cfr. C. Povolo, The creation of Venetian historiography, in Venice reconsidered. The history and Civilization of an Italian city state. 1297-1797, a cura di J. Martin and D. Romano, Baltimore 2000, pp. 495-497.25 Ancora una volta, per le informazioni inerenti la concessione e la ratificazione del titolo, rinvio a L. Ferrari, Giammaria Bertolli…, pp. 34-40; V. Piermatteo, Giovanni Maria Bertolo…, pp. 99-100.26 La documentazione inerente la nomina di Bertolli venne esaminata da L. Ferrari, Giam-maria Bertolli…, pp. 42-44.

veneziano precisò infatti come la scelta di Giovan Maria Bertolli fosse quan-to mai appropriata:

Si conosce proprio e conferente per scegliersi il conte dottor Giovan Maria Ber-tolli che possiede tutte le più desiderabili parti d’esperienza, d’habilità e di dot-trina, cimentata con lungo esercizio lodevole nel foro e meglio ancora nell’im-piego che sostiene con piena publica soddisfazione di consultore in jure…27

L’attività svolta nel foro veneziano, insieme alla dottrina, era dunque consi-derata parte integrante e distintiva dei tratti culturali e dell’esperienza che meglio avrebbero potuto giovare all’esercizio dell’attività di consultore in iure. Un’attività che, come già si è detto, in questi anni esprimeva una sorta di sintesi tra diritto comune e diritto veneto: una sintesi che si declinava evi-dentemente in termini esplicitamente politici nell’ambito del sistema giuri-dico repubblicano che contraddistingueva lo stato veneziano28.Giovan Maria Bertolli aveva così raggiunto un traguardo ambizioso, in un certo senso il massimo che poteva essere ambito sul piano politico-culturale per chi, nello stato veneziano, proveniva da un centro suddito. I riconoscimenti dalla piccola patria di origine non tardarono a manifestarsi sia con attestazioni elogiative che con il conferimento di altri onori. Nel 1689 il Collegio dei giudici di Vicenza, ricordandone le “rare virtù” e il “merito singolare”, propose a Giovan Maria Bertolli di divenire suo membro effetti-vo. Proposta che il giurista vicentino accolse favorevolmente, non nascon-dendo con parole mielose la sua intima soddisfazione:

Vorrei che l’abilità mie potessero meglio distinguersi per esserne capace e gran-de il merito di sì gran consesso. Nel suo esser resteranno sempre impiegate nell’adorato suo servizio e nell’universale del medesimo e in particolare ancora non lascerò l’esercizio continuato de’ miei riverentissimi rispetti29.

Il Collegio dei giudici di Vicenza era stata nei secoli precedenti una presti-giosa magistratura. Organizzato in numero chiuso e composto di giuristi di formazione romanistica aveva costituito il nerbo culturale della vita politica

27 Ibidem, p. 44.28 Cfr. C. Povolo, Un sistema giuridico repubblicano…, p. 319.29 V. Piermatteo, Giovanni Maria Bertolo…, p. 102. Sull’istituzione del collegio dei giudici di Vicenza rinvio all’ampio e documentato lavoro di L. Faggion, Les seigneurs du droit dans la République de Venise. Collège des juges et société à l’époque moderne (1530-1730 env.), Genève 1998. Faggion riporta pure l’ascrizione al collegio di Bertolli, “l’une des personnalités les plus spec-taculaires de la seconde moitié du XVIIe siècle”, ricordando come “malgré ses origines rotu-rières et conformément aux statuts du Collège des Juges, il est accepté comme membre en 1689”, (pp. 254-255).

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vicentina. I suoi membri avevano sempre svolto un ruolo di rilievo nell’an-tico tribunale del Consolato, cui spettava un’ampia giurisdizione in materia penale, ed inoltre occupavano di diritto la gran parte delle magistrature ci-vili della città. I componenti del collegio avevano inoltre pure l’esclusiva di trattare, in quanto avvocati, ogni causa che fosse stata dibattuta nell’ambito del foro vicentino. Parte integrante del ceto dirigente aristocratico locale, i giuristi di collegio svolgevano dunque non solo una funzione di mediazione e di interrelazione tra il mondo del diritto e quello più strettamente politi-co, ma con l’esclusività e il prestigio del loro stesso linguaggio esprimevano pure la legittimità dell’autonomia cittadina e dei suoi riferimenti ideologici avallati dal diritto romano imperiale. Con il progressivo indebolirsi dell’au-tonomia politica cittadina e del suo ceto dirigente, anche il Collegio dei giu-dici, nel corso del ’600 smarrì il prestigio e, soprattutto, il ruolo essenziale da esso svolto nei due secoli precedenti nella composizione e nel contenimento dei conflitti locali.Il conferimento di tale onore a Giovan Maria Bertolli, di cui certo non si po-tevano ignorare le umili origini, esprimeva non solo un riconoscimento alla sua brillante carriera, ma soprattutto costituiva l’esigenza da parte del colle-gio vicentino di disporre di un indispensabile punto di riferimento culturale e politico che avrebbe potuto, nel prosieguo del tempo, tornare utile. Rispetto al passato le posizioni si erano dunque rovesciate ed era ora un par-venu cui erano stati conferiti i più fulgidi allori nella città dominante a dover essere omaggiato e riverito. In tal senso si può leggere pure il successivo conferimento a Giovan Maria Bertolli della cittadinanza vicentina (con l’in-gresso nel consiglio dei 500) e la cooptazione nel ben più prestigioso consi-glio dei 150, cui spettava la gestione della vita politica cittadina30. Il figlio illustre, ma pur sempre il parvenu, pronipote di quell’ignoto fale-gname cinquecentesco privo persino di cognome, era stato dunque accolto dalla madre patria con tutti gli onori che la sua nuova condizione sociale ora richiedeva. In realtà, così facendo, il ceto dirigente vicentino riaffermava, nonostante tutto, l’ineliminabile richiamo della tradizione e la forza coesiva degli antichi privilegi. Difficilmente Giovan Maria Bertolli avrebbe potuto rifiutare una proposta così interessata e che, in fin dei conti, tornava essen-zialmente utile e proficua per la città da cui, alcuni decenni prima, era parti-to con l’intraprendenza del suo sapere e la ricchezza accumulata soprattutto attraverso un’oculata strategia matrimoniale. In fin dei conti, pur ridimen-

30 L. Ferrari, Giammaria Bertolli…, p. 55, il quale riporta pure il passo del consiglio vicentino in cui si motivava l’onore concessogli: “Però è ben conveniente che questa città, che a lui è patria, contribuisca a questo suo figlio quel maggior ornamento che può, tanto più quanto che, in tutte le occorrenze di questo pubblico ha fatto spiccare la virtù sua et indefessa assi-stenza, con le prudenti et autorevoli sue direzioni per mantenimento del decoro della patria”.

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sionata nella sua fisionomia politica e tramite il conferimento di onori che solo un secolo prima sarebbero stati inconcepibili, la città di Vicenza riaffer-mava il suo ruolo imprescindibile in uno stato destinato inesorabilmente a mantenere la sua vocazione composita e frammentaria.L’ambiguità di tale rapporto proseguì anche negli anni successivi con l’ele-zione del Bertolli a deputato ad utilia da parte del Consiglio dei 15031: un’ele-zione, ovviamente del tutto nominale che mirava a sancire simbolicamente il legame del figlio illustre con la madre patria.Il clou di questa reciproca manifestazione di affetti venne però raggiunto al-cuni anni più tardi, quando Giovan Maria Bertolli, con una decisione che sembrava riaffermare i suoi legami inscindibili con la madre patria, destinò il suo prezioso patrimonio librario alla città di Vicenza. Un’offerta che il ceto dirigente berico accolse con sollecita premura e che, dopo la morte del giu-rista, avvenuta nel 1707, condusse alla formazione della biblioteca cittadina, cui venne dato, in onore del suo munifico donatore, il nome di Bertoliana32. L’assenza di una consonante attestava ancora l’altalenante andirivieni di un cognome, che l’illustre giurista aveva tentato invano di fissare. Un’assenza che sembrava comunque voler ricordare, anche dopo la sua morte, l’origine oscura dei suoi natali. E, a ben vedere, anche un risvolto (cartaceo) di quella sapienza giuridica che tanto aveva contribuito all’ascesa sociale di Giovan Maria Bertolli, sembrava significativamente ritornare alla madre patria tra-mite la donazione della sua preziosa libraria alla città.

Il consultore in iure

Giovan Maria Bertolli svolse l’attività di consultore in iure dal 1684 al 1707, anno della sua morte. Erano trascorsi molti decenni da quando fra Paolo Sarpi, nel 1618, aveva steso quel suo famoso consulto intitolato Carico di con-sultor in iure della Repubblica33. In quel consulto il grande Servita aveva aper-tamente sostenuto come fosse compito essenziale del consultore in iure di argomentare “quel che è di raggione nel fatto o caso over negozio che gli vien proposto”. Un modo di argomentare essenzialmente pragmatico, poco incline a ricorrere alle elaborate riflessioni dei giuristi e volto piuttosto a ri-costruire sul piano storico e documentario le questioni che interessavano la

31 V. Piermatteo, Giovan Maria Bertolo…, p. 103. Il ristretto gruppo di deputati ad utilia costi-tuiva l’organo che presiedeva il consiglio cittadino.32 Sulla vicenda cfr. L. Ferrari, Giammaria Bertolli…, pp. 61-77.33 Il consulto venne pubblicato in Paolo Sarpi, Opere, a cura di G. e L. Cozzi, Milano-Napoli 1969, pp. 464-467, con la relativa nota introduttiva a pp. 461-463.

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Repubblica: erano questi, per fra Paolo Sarpi, i tratti che dovevano distingue-re le scritture che il consultore in iure redigeva per rispondere ai quesiti posti dalle magistrature lagunari. In quello, come in altri suoi scritti, il Servita suggeriva indirettamente l’opportunità che il consultore non solo non si la-sciasse imbrigliare da sofisticate questioni giuridiche, ma che pure rifuggis-se da pericolose affermazioni di principio, se non strettamente necessarie. Era fondamentale, continuava il grande consultore in iure, che l’affermazio-ne della sovranità della Repubblica fosse perseguita avendo come obbiettivo principale il mantenimento del rapporto di fiducia con i propri sudditi34. Con la spinosa questione dell’Interdetto e l’affidamento della carica di con-sultore in iure a fra Paolo Sarpi, l’attività consultiva aveva immediatamente assunto nella Repubblica di Venezia aspetti del tutto innovativi, staccandosi decisamente da quella che soprattutto nel secolo precedente era stata svolta da giuristi di formazione romanistica tramite i loro consilia35

La nuova attività consultiva rifletteva in realtà, in maniera esplicita, lo spiri-to profondo del diritto veneto. Un diritto eminentemente consuetudinario, poco propenso all’astrazione e tendenzialmente avverso ad ogni forma di mediazione giurisprudenziale proveniente dai giuristi di formazione roma-nistica. Il ricorso a questi ultimi era stato bensì praticato sino ad allora per dirimere cause giudiziarie o per riaffermare la sovranità della Repubblica, ma in un contesto in cui la forma dello stato giurisdizionale36 era ancora pre-valente, e nel quale era altresì necessario riflettere la complessità e il poli-centrismo dello stato da terra e dello stato da mar.Le profonde trasformazioni cinquecentesche e la vertenza dell’Interdetto ri-velarono come il diritto veneto, o per meglio dire il diritto veneziano atte-statosi da secoli nella città lagunare, avesse dovuto, in un certo senso suo malgrado37, affermarsi nei confronti del diritto romano imperiale, diffuso

34 Credo sia essenziale ricordare un passo importante del consulto del 1618, che riflette il timbro storiografico che lo scritto del consultore in iure doveva possedere: “Una minima scrit-tura tralasciata et anco un minimo passo di scrittura et una minima occorrenza non saputa, rende il consiglio inutile e non applicabile … nelli negozi connessi con le cose e massime di centenara d’anni chi non averà avuto tempo di ben vedere il tutto et esser certo che altro non vi sia di più non si sicurerà mai di dar una risposta risoluta”, cfr. C. Povolo, Un rapporto difficile e controverso: Paolo Sarpi e il diritto veneto, in Ripensando Paolo Sarpi, a cura di C. Pin, Venezia 2006, p. 395-397.35 Come ha osservato Antonella Barzazi, l’uso assai antico di ricorrere ad illustri giuristi per dirimere le controversie insorte si era poi, nel corso del Cinquecento, assai amplificato, soprattutto di seguito alle trasformazioni istituzionali di fine secolo e alle sempre maggiori ingerenze della Santa Sede, cfr. A. Barzazi, I consultori “in iure”, in Storia della cultura veneta. Il Settecento, 5/II, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, Vicenza 1986, pp. 179-180.36 Cfr. supra per la definizione di stato giurisdizionale.37 Suo malgrado in quanto Venezia aveva dovuto rinunciare, quantomeno sul piano sostan-

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soprattutto nell’ampio e diversificato territorio di Terraferma38. Sul piano politico la Repubblica, a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento aveva esteso la sua ingerenza, incrinando le prerogative e i sottili equilibri che sin dagli inizi del Quattrocento, reggevano la vita dei centri sudditi. Con l’Inter-detto, Venezia aveva inoltre aperto un vero e proprio rapporto di forza con la Chiesa.Erano state trasformazioni profonde e complesse, anche perché condotte con estrema prudenza e senza mai formalmente mettere in discussione gli antichi assetti istituzionali che formalmente legittimavano il tradiziona-le stato giurisdizionale. Trasformazioni, va aggiunto, che s’inserivano in un complessivo quadro europeo, che vedeva l’affermazione delle prerogative dei sovrani e dei principi nei confronti di centri di potere sino ad allora do-tati di piena legittimità politica39.Nella Repubblica di Venezia l’affermazione del diritto veneziano si era svolta in realtà senza che l’assetto istituzionale (e formale) complessivo subisse so-stanziali modifiche, pur di fronte all’innegabile rovesciamento dei rapporti di forza tra centro dominante e centri sudditi. La questione dell’Interdetto mise in evidenza talune contraddizioni che sarebbero rimaste irrisolte sino alla caduta della Repubblica. L’imposizione del diritto veneto e il ruolo pre-minente assunto dalle magistrature del centro dominante posero infatti in rilievo l’impossibilità per una repubblica e per il suo ceto dirigente aristo-cratico, di riorganizzare la forma dello stato, pur in presenza dei mutati rap-porti di forza40. Un problema tanto più rilevante di seguito al duro scontro con la Chiesa, il cui diritto si alimentava della stessa ideologia cui faceva riferimento il diritto romano imperiale che regolamentava la vita dei grandi centri urbani della Terraferma veneta.

ziale, alla separatezza giuridica e politica che aveva contraddistinto per secoli l’anrica città stato, cfr. C. Povolo, Un sistema giuridico repubblicano…, pp. 335 e sgg.38 Nel penale l’inserimento del diritto veneto (soprattutto tramite la delega del rito del Consiglio dei dieci ai rettori delle grandi città della terraferma) si era svolto sovrapponen-dosi o accostandosi alle giurisdizioni locali, mentre nel civile, talune magistrature come gli Auditori novi e l’Avogaria di comun avevano agevolato il ricorso alle magistrature d’appello lagunari (le Quarantie), cfr. per un esempio, ancorché originale, il capitolo dedicato alla vi-cenda di Polissena Scroffa.39 Per questi temi rinvio a A. De Bendictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Bologna 2001; I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino 2002, pp. 317-391.40 L’impossibilità di creare una struttura gerarchica sul piano amministrativo e giudiziario (cfr. per questo problema Damaška, I volti della giustizia…, passim) che, dietro i mutati rapporti di forza, potesse assorbire i ceti aristocratici della Terraferma, comportò una sorta di sotto-rappresentazione del potere e un accentuarsi dei conflitti, cfr. C. Povolo, L’intrigo dell’onore…, pp. 186 e sgg.

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La nuova attività consultiva, inaugurata con fra Paolo Sarpi, era dunque chiamata a rispondere e a interpretare tutta una serie di sollecitazioni che costantemente emergevano sul piano giuridico e politico. Con i suoi scritti il consultore in iure doveva essenzialmente cogliere la dimensione politica delle controversie e delle questioni che gli venivano sottoposte, affrontando i nessi complessi che ponevano in relazione il diritto veneto (espressione della legittimità del potere del ceto dirigente lagunare) con il diritto romano imperiale che ancora forgiava intensamente la fisionomia dei centri sudditi.L’attività del consultore in iure, se pure rifletteva la personalità e la cultura di chi rivestiva l’incarico, si conformava per lo più alla linea politica afferma-tasi in seno al patriziato veneziano ed ovviamente al ruolo, più o meno forte, giocato dalla Repubblica nei confronti degli altri stati e della stessa Santa Sede. Scomparsi tra gli anni ’20 e ’40 del Seicento i protagonisti dell’Interdetto e di fronte ai problemi politici e militari che intorno alla metà dello stesso secolo investirono la Repubblica, l’attività consultiva perse molto della sua forza propulsiva o, per meglio dire, s’indebolì la propensione del diritto ve-neto a costituirsi come elemento distintivo della prassi di governo41.Nel momento in cui Giovan Maria Bertolli venne nominato consultore in iure, l’attività consultiva poteva dunque vantare una certa tradizione, che si era però appannata di seguito sia all’indebolirsi dell’attività giurisdiziona-listica della Repubblica, che alle sue evidenti difficoltà incontrate sul piano politico e militare.A partire dagli anni ’80 del ’600 la Repubblica aveva però ritrovato nuovo vigore, sia in politica estera che sul piano interno. La conquista del Pelo-ponneso aveva prospettato un ruolo nuovo e attivo sullo scenario europeo42. Le contese con la Chiesa sembravano svolgersi secondo una linea politica incisiva e volta a riaffermare le prerogative secolari43. Sul piano giudiziario penale il Consiglio dei dieci, nei due ultimi decenni del Seicento, avviò una decisa attività di controllo nei confronti dei tribunali delle città suddite44.

41 Come è stato osservato da Antonella Barzazi, “il consulto tendeva a perdere, nella secon-da metà del Seicento, lo stretto rapporto con l’attualità e la vivace proiezione nella pratica tipici della sua struttura tradizionale e ad assumere invece un aspetto di relazione storico-erudita più tradizionale e prolissa, raramente frutto di nuove ricerche, spesso priva di legami con fatti specifici”, cfr. A. Barzazi, I consultori in “iure”…, p. 191. Cfr. inoltre M. Infelise, A propo-sito di Imprimatur…, pp. 287-288.42 Cfr. G. Cozzi, La Repubblica di Venezia in Morea. Un diritto per il nuovo Regno, in Cozzi, La società veneta…, pp. 267-310.43 Per una vicenda significativa cfr. M. Infelise, A proposito di Imprimatur…, passim.44 Cfr. C. Povolo, Retoriche giudiziarie, dimensioni del penale e prassi processuale nella Repubblica di Venezia: da Lorenzo Priori ai pratici settecenteschi, in L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII), II, a cura di G. Chiodi e C. Povolo, Verona 2004, pp. 25-32.

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Giovan Maria Bertolli svolse dunque la sua attività consultiva in un periodo in cui il consultore in iure era chiamato a rispondere su gravi e importanti questioni che richiedevano non solo preparazione e conoscenza dei proble-mi, ma pure la vocazione a farsi interprete oculato della nuova fase politica vissuta dalla Repubblica.Giurista di formazione romanistica, come già si è rilevato, Bertolli aveva però acquisito nel corso della sua decennale esperienza di avvocato tra-scorsa nella Dominante a stretto contatto delle magistrature veneziane, una conoscenza approfondita del diritto veneto e delle dinamiche politiche che animavano il ceto dirigente lagunare.Nei suoi numerosissimi consulti45 emergono la complessità e l’ampiezza dei temi affrontati nel ventennio in cui egli svolse l’attività di consultore in iure: dai temi di politica ecclesiastica e internazionale a quelli, frequentissimi, inerenti le vertenze confinarie, i diritti feudali e le pratiche devozionali46. Da questi consulti si delinea la complessa attività di governo esercitata dalle massime magistrature veneziane, ma anche l’atteggiamento personale e il profilo culturale di un uomo che nel corso della sua vita aveva saputo acco-gliere tradizioni giuridiche che, per molti versi, sembravano contrastanti, ma che incontravano una sintesi costante proprio nell’azione politica svolta dalla Repubblica in quei decenni di fine Seicento.In realtà la formazione giuridica di Giovan Maria Bertolli si costituiva, più che un vero e proprio strumento concettuale di analisi, come un sostrato culturale in grado di addentrarsi nel mondo multiforme e indefinito dello stato giurisdizionale, costituito di diritti che s’intersecavano e si sovrappo-nevano; di giurisdizioni che nascevano ex-novo oscurandone altre di più an-tiche; di consuetudini che sembravano riemergere dal passato per contrasta-re intrusioni che si avvalevano di un diverso linguaggio giuridico; di contese

45 I consulti sono conservati in Archivio di Stato di Venezia (= A.S.V.), filze 139-158. Luigi Ferrari che li esaminò, pubblicandone integralmente alcuni, scrisse che erano circa millecin-quecento. Molti consulti vennero firmati da Bertolli insieme ad altri consultori. Come notò lo stesso Ferrari alla sua epoca, mancano dai diciannove tomi alcuni consulti, tra cui quello, ampio ed importante, concernente l’amministrazione del Peloponneso.46 Sempre Ferrari così descrisse i molteplici interventi di Bertolli: “io lo trovo trattare que-stioni di diritto canonico, di diritto pubblico, internazionale, amministrativo, commerciale, feudale, ecc.; contese fra l’alto e il basso clero, litigi con Roma, con Stati e Principi; e conser-vare i diritti direi quasi illimitati del Governo, ingolfandosi in conflitti e contestazioni di con-fini, in violazioni di cerimoniale, in nomine dei Vescovi; eppoi tener dietro ai maneggi delle Corti, alle simulate intenzioni delle teste coronate compresa quella di Cesare, per discendere a discutere cause penali, interessi privati, fino il permesso per l’erezione di una fabbrica, di un oratorio, o l’assegnamento di una pensione, o lo stacco di un passaporto oltre la Dominan-te”, cfr. Ibidem, pp. 82-83. Sfuggiva in realtà al biografo di Bertolli come la complessa attività consultiva rispecchiasse la specifica dimensione dello stato giurisdizionale di antico regime, al di fuori di una visione giuspubblicistica che si sarebbe affermata nel corso dell’Ottocento.

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che coinvolgevano comunità pulviscolari, minacciando assetti confinari tra stati. Giovan Maria Bertolli si era però pure addentrato nei meandri complicati e tortuosi del potere veneziano. In qualità di avvocato aveva certamente po-tuto cogliere le sottili dinamiche che animavano le magistrature veneziane, emanazione di una struttura dello stato di forma repubblicana e di un ceto dirigente aristocratico, arroccato sulle proprie prerogative politiche. Un ceto dirigente elitario e plutocratico, che esercitava essenzialmente il suo potere tramite il controllo di alcuni organi politici, ma che comunque non poteva rinunciare al richiamo ideologico e culturale di equità e giustizia che da secoli informava l’esistenza stessa del patriziato e della repubblica lagu-nare.I nessi complessi e certamente non univoci che mettevano in relazione il diritto veneto con il diritto comune si esprimevano in particolar modo nell’atteggiamento assunto dalla Repubblica nei confronti della Santa Sede e delle sue inevitabili ingerenze nella vita politica veneziana. Ingerenze che potevano ovviamente mettere in discussione la sovranità dello stato, ma che erano pure percepite da un settore ampio del patriziato lagunare come una minaccia invasiva e destabilizzante del fragile (e ipersensibile) sistema di potere repubblicano. La nozione stessa del giurisdizionalismo, che si era espressa nella forma più ampia ed intransigente con l’Interdetto, traeva la sua logica più profonda dalla necessità di difendere l’innata vocazione egualitaria dell’aristocrazia e del suo repubblicanesimo. L’elargizione di prebende, be-nefici ed onori, che così frequentemente la Santa Sede riservava ad alcune potenti famiglie patrizie veneziane, poteva incrinare nelle sue fondamenta la legittimità stessa della Repubblica. Un problema che costantemente at-traversava pure la consueta dialettica che animava la vita delle magistrature lagunari, tra le prerogative, sempre rivendicate, da un organo rappresentati-vo come il Maggior Consiglio, e il potere effettivo detenuto da alcuni organi ristretti come il Collegio e il Consiglio dei dieci47.Non è un caso che l’attività dei consultori in iure si svolgesse eminentemen-

47 Una tensione ben riassunta da G. Cozzi: “La legge doveva essere … espressione di una volontà collettiva, sempre in atto, sempre in grado di modificare quanto era stato disposto at-traverso gli strumenti adeguati , quali il voto e la partecipazione al governo della Repubblica. La legge, per i cittadini di repubblica, non poteva pertanto esser un’imposizione dall’esterno, proiezione di un’autorità esterna. Ed esterna un’autorità poteva esserlo anche se affidata a membri della stessa aristocrazia, ma che si fossero sottratti al controllo degli altri e che aves-sero vanificato l’uguaglianza che avrebbe dovuto livellare tutti, sotto l’impero della stessa legge. Altrettanto valeva per la giustizia: senza l’uguaglianza, non si poteva fare né avere giu-stizia, senza la libera partecipazione di tutti al governo della Repubblica, non si poteva fare né avere giustizia…”, cfr. G. Cozzi, Repubblica di Venezia…, pp. 174-216; ed inoltre C. Povolo, Un sistema giuridico repubblicano…, p. 325.

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te nella materia ecclesiastica, in tutte le sue sfumature: dalle questioni di grande rilevanza politica, a quelle più minute, che coinvolgevano singoli individui, comunità e parrocchie. E, si può ancora aggiungere, non è nep-pure un caso che nella figura del consultore in iure si riflettessero l’essenza e la peculiarità del diritto veneto: nei suoi tratti tradizionali, riflesso di una struttura istituzionale e giuridica che riteneva irrinunciabile il richiamo del-le prerogative dell’antica città stato; ma anche nei suoi risvolti politici nuovi, espressione di una realtà statuale che si era ormai decisamente rivolta ad accogliere nel suo ambito, seppur senza rinunciare alla sua preminenza, la multiforme realtà dei centri sudditi e la tradizione giuridica romanistica che ancora, significativamente, li rappresentava.

Le dimensioni del sacro

Giovan Maria Bertolli, il parvenu proveniente da una città suddita ancora ge-losamente arroccata nei suoi privilegi, giunto nella grande città dominan-te, con il suo bagaglio di conoscenze giuridiche, che rapidamente arricchì addentrandosi nel complesso reticolo delle sue magistrature, fu chiamato a farsi custode e interprete di una grande tradizione che si richiamava ideolo-gicamente e miticamente alla figura carismatica di fra Paolo Sarpi.Nei consulti di Giovan Maria Bertolli, la materia ecclesiastica è decisamente preminente, in tutta la sua complessità.Nel consulto steso il 16 marzo 1690 Bertolli affronta quello che forse si può considerare il tema di spicco della dimensione giurisdizionalista della Repub-blica nei confronti della Santa Sede: le prerogative della chiesa di San Marco e della cappella regia del doge48. Nonostante si svolga come una sorta di concisa informativa che doveva essere comunicata all’ambasciatore presso la Santa Sede, il consulto esprime senza esitazioni i temi più classici del giurisdizionali-smo veneziano su tale argomento. Dopo aver rilevato che la chiesa di San Mar-co era parrocchiale, provvista di una sua fonte battesimale e di un territorio su cui esercitava la propria giurisdizione, Bertolli osservava come i dogi venezia-ni avessero sempre esercitato, tramite la loro persona o quella del Primicerio, una ben più ampia giurisdizione dai forti valori simbolici.I primiceri, difatti, avevano sempre svolto funzioni che erano proprie di quel-le dei vescovi:

Hanno sempre, doppo l’esame, concesse per ogni secolo agli intervenienti in San

48 A.S.V., Consultori in iure, busta 141, 16 marzo 1690, steso con altro consultore. Il tema è stato affrontato da G. Cozzi, Il giuspatronato del doge su San Marco. Diritto originario o concessione pontificia?, in Cozzi, La società veneta e il suo diritto…, pp. 231-247.

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Marco le dimissorie per poter ordinarsi e ricever gli ordini sacri. Hanno dato licenza di confessare et amministrare li sacramenti, così in essa, come nelle altre chiese et hospitali a quella uniti. Hanno dispensato le stride dei matrimoni, fatte le prove della libertà dei medesimi e quelli anche all’occorrenze celebrati col mezzo dei sagrestani.

Tutto ciò si era svolto, a detta di Bertolli, senza che il patriarca di Venezia e lo stesso nunzio apostolico potessero interferire nelle prerogative dogali. Aspetto, quest’ultimo, che induceva a credere, come all’origine della giuri-sdizione della chiesa di San Marco esistesse un’antica concessione pontificia, che probabilmente si era smarrita nel corso del tempo, “ma vivificata dall’u-so centenario che tiene la forza e si può allegare per qualunque privilegio”.Le prerogative dogali erano dunque sancite essenzialmente dalla consuetu-dine e dall’attitudine della Repubblica di mantenerle integre e vive nel corso del tempo. Di certo c’era consapevolezza da parte del consultore che si trat-tava di prerogative che apparivano tanto più importanti in una repubblica, in cui l’autorità del principe, a diversità di quanto avveniva nelle monarchie, era manifestamente più debole, sia sul piano carismatico che su quello po-litico.E del resto Bertolli, a conclusione della sua informativa, consigliava un’e-strema prudenza: le informazioni che aveva accuratamente steso dovevano essere comunicate all’ambasciatore perché potesse procedere nel modo più opportuno, ma non dovevano comunque essere formalizzate in maniera det-tagliata nei confronti della Santa Sede. Era sufficiente che la Repubblica ri-vendicasse le sue prerogative regali, convalidate dalla consuetudine e, sem-mai, mirasse ad ottenere un breve pontificio che le ampliasse e le potenziasse nel modo più appropriato.Di certo il consulto scritto per definire le prerogative dogali sulla chiesa di San Marco non ricordava che flebilmente le vertenze accesesi nella stessa materia, in momenti in cui la Repubblica era animata da un’inflessibile dife-sa delle proprie prerogative sovrane. Come già si diceva, gli ultimi decenni del Seicento vedono la Repubblica svolgere un ruolo più incisivo ed efficace sia in politica internazionale che in quella interna. L’attività dei consultori riflette, sotto molti aspetti, questo rinnovato dinamismo e, man mano che Giovan Maria Bertolli prese confi-denza con il ruolo che gli era stato affidato, è pure possibile scorgere un suo piglio personale che, pur tra esitazioni, sa abilmente riallacciarsi all’antica tradizione consultiva inaugurata da fra Paolo Sarpi.L’abilità del consultore risiedeva essenzialmente nella sua capacità di co-gliere da un lato l’essenza del diritto veneto e la sua anima repubblicana e, dall’altro, di valutare attentamente le dinamiche che animavano il ceto dirigente aristocratico. La propensione a considerare sempre come premi-

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nente una prassi duttile ed efficace, restia a far proprie questioni di prin-cipio, doveva comunque accompagnarsi per lo più alla sensibilità specifica del consultore nel saper sottolineare, con accortezza e prudenza, i rischi che potevano derivare da un allentamento di attenzione nei confronti della so-vranità dello stato.Significativo al riguardo l’ampio consulto che Giovan Maria Bertolli stese il 20 luglio 1699 nei confronti di uno dei temi più delicati inerenti i frastagliati e concorrenziali rapporti tra potere secolare ed ecclesiastico: la pubblicazio-ne della cosiddetta Bolla in Coena Domini49.In un’ampia e articolata disamina storica Bertolli ricordò come la Bolla che veniva solitamente pubblicata nel giorno del giovedì santo, fosse assai anti-ca, anche se solo nel 1569 era stata formalizzata dal pontefice Pio Quinto nei termini che avrebbero successivamente interferito nei rapporti tra Stato e Chiesa. La bolla pontificia, che doveva essere annualmente pubblicata in ogni città della cristianità, riaffermava in maniera perentoria l’autorità della San-ta Sede e comminava sanzioni e scomuniche nei confronti di tutti coloro che, in modi diversi, ledevano le prerogative della Chiesa e del suo clero.In realtà, come ricordava Bertolli, erano molti i punti di attrito suscitati dalla pubblicazione della bolla nei confronti della Potestà dei Principi: dalla materia fiscale a quella beneficiaria; dai ricorsi giudiziari alle immunità ecclesiasti-che50.

49 Il consulto è in A.S.V., Consultori in iure, busta 150, 20 luglio 1699.50 Credo sia utile riportare il punto in cui Bertolli affrontava la questione delle immuni-tà, anche perché argomento costante di numerosi consulti da lui stesi nella sua attività di consultore. “Il quarto [punto] è l’intromettersi i magistrati laici nelle cause criminali contro ecclesiastiche persone, con processarle, prenderle, bandirle o in altro modo condannarle in castigo de’ lor delitti, come che ciò offenda l’immunità ecclesiastica, ma questa immunità o sia essentione dalla potestà laicale che pretendono gli ecclesiastici, consta di due quasi par-ti; una concerne, come si è detto di sopra, le sole cose spirituali e sagre, delle quali Cristo Nostro signore gli ha instituiti et ordinati ministri per la salute de’ popoli; l’altro riguarda le cose temporali e mondane, nelle quali, a motivo di render più decoroso e più libero alle sagre funzioni il loro ecclesiastico ministero, si vedono parimenti esentate le lor persone. La prima immunità è de iure divino e chi l’offende o l’altera incorre senza dubbio nelle censure di questa bolla; ma la seconda non è se non de iure positivo humano, sì che in ordine a quella detta bolla, non può obligare, salvo che in quei luoghi e per quei casi civili o criminali che dir si vogliono, nei quali sia stata usu recepita. Di qui nasce che quando ella proibisce ai giudici secolari il procedere criminalmente contro i medesimi ecclesiastici, si devono eccettuar quei luoghi nei quali porta l’uso e la consuetudine originaria che si punischino anco in essi dalla giurisdizione del secolo certi delitti particolari, che come più attroci e conseguentemente più offensivi della publica quiete meritan pena di sangue, non contenuta nei sagri canoni. Tale consuetudine, per appunto, corre singolarmente in questo Serenissimo Dominio, che per es-ser legittimamente prescritta immemorabile, è nata colla medesima potestà che costituisce la Repubblica Serenissima nella ragione di Principe sovrano, non può essere né dalla bolla presente, né da altra legge positiva ecclesiastica, con qual si sia non obstantibus derogata,

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Giovan Maria Bertolli ricordò nella sua ricostruzione storica come la Bolla pon-tificia fosse stata avversata nelle grandi monarchie europee ed avesse infine suscitato nella Repubblica di Venezia la grande vertenza dell’Interdetto51.Quegli aspri conflitti erano però in gran parte svaniti e le cose erano muta-te. Sorprendentemente, quasi tra le righe, il consultore in iure ricordava ai suoi interlocutori un aspetto paradossale della situazione che si era venuta a creare a Venezia:

Già che la publicatione di questa bolla si ritrova posta, a poco a poco, in disuso, massime in molte città dell’Italia e forse in tutto il Serenissimo Dominio, eccetto che in Venezia, parerebbe per avventura che fosse cosa desiderabile il vederla andata qui pure in assoluta perpetua oblivione, massimamente sul dubbio che il lasciarla pubblicare ogni anno sugli occhi propri di Vostra Serenità, possa esser ricevuto per un publico interpretativo consenso alla medesima bolla, come sta e giace52.

Giovan Maria Bertolli proponeva una soluzione pragmatica, in sintonia con la collaudata tradizione consultiva, senza però risparmiare un’esplicita criti-ca nei confronti di un tale stato delle cose:

Ben all’incontro noi siamo di riverente parere che ogni passo si facesse presen-temente, per impedire la stessa publicatione, o qui o in altri luoghi ove sia solita

altrimenti il ius humano sarebbe sopra il divino, non potendosi negare che il Principato sia istituito per legge divina naturale et approvato per legge divina evangelica col fine preciso della publica temporale tranquillità. Che se Dio ha istituito con tal fine il Principato, ben deve anco haver dato al Principe tutti i mezzi necessari ed opportuni correlativi al medesimo, tra quali non v’ha dubbio essere de’ principali quello di castigare e di punire tutti i malfattori…”, Ibidem, busta 150, cc. 345-346, alla data. Argomentazioni che, come si può notare, si inserivano nel collaudato giurisdizionalismo veneziano.51 Vale la pena di riportare il passo in cui Bertolli ricordò l’Interdetto e la figura di Paolo Sar-pi. “La Santità di Paolo V, che nel principio del secolo corrente, appena assunto al pontificato, se ne mostrò di tal sorte mal soddisfatto che passò a fulminare coll’Interdetto la Serenissima Repubblica; ma con quale felice evento lasciaremo che lo racconti la verità dell’historie. Certo è che da quel tempo in qua il Serenissimo Dominio non ha punto mutato il solito e consueto stile di governare; né perciò ha incontrato con alcuno de’ successori pontefici, anzi col me-desimo Paolo V, la minima opposizione, rese in quella congiuntura troppo chiare le publiche ragioni, massime dalla virtù, dottrina e sapienza del famosissimo padre maestro Paolo. Non può dunque doppo di ciò questa bolla far più ombra di sorte alla suprema legittima potestà se-colare, mentre si sa hormai a qual segno s’estenda et in che grado militi la sua forza”, Ibidem, busta 150, c. 347, alla data. Bertolli si avvaleva del grande evento dell’Interdetto e dell’autorità di Paolo Sarpi per assegnare continuità alle scelte giurisdizionaliste della Repubblica. Come già si è notato, nel corso del Seicento, l’assenza di vistosi conflitti era dipesa piuttosto da una certa acquiescenza nei confronti delle scelte di Roma. Il richiamo era comunque funzionale per avvalorare quanto poi sostenuto nel prosieguo del consulto.52 Ibidem, busta 150, c. 347, alla data.

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pubblicarsi, oltre che sarebbe preso dalla parte di Roma per un’espressa novità, verrebbe la Serenità vostra in un certo qual modo a dar segni di dubitare della giustizia delle proprie leggi, per qualche concepita efficacia de’ suoi anathemi53.

Una critica che lasciava pure intravedere la situazione difficile in cui la Re-pubblica avrebbe potuto ritrovarsi nel caso in cui si fosse aperta una verten-za con la Santa Sede in ordine alla pubblicazione della Bolla in Coena Domini.Di seguito Giovan Maria Bertolli aggiustava il tiro, esplicitando chiaramente le cause che avevano prodotto una situazione che, a dir poco, si prospettava come paradossale. Non era infatti cosa indifferente che nella stessa Vene-zia apparissero alle stampe numerose pubblicazioni in cui alcuni interessati commentatori e glossatori della Bolla, ne rinverdivano la presunta legittimi-tà ed efficacia, a detrimento del potere secolare.Si trattava di una critica giustificata indubbiamente dall’ineliminabile fun-zione di stimolo svolta dalla figura del consultore, quantomeno di quella che si rifaceva al collaudato giurisdizionalismo repubblicano. Una critica che egli svolgeva senza mezzi termini, additando precise responsabilità e rifa-cendosi alla grande figura del Servita.Giovan Maria Bertolli prendeva di mira quella pubblicistica che, senza alcu-na forma di controllo, non aveva scrupoli ad avanzare argomentazioni che andavano a tutto favore del potere ecclesiastico. Ma la veemenza della sua accusa sembrava in realtà additare anche altre responsabilità, essenzialmen-te politiche, che non avevano prestato la dovuta attenzione ai pericoli pro-venienti dalle ingerenze della Santa Sede, a tutto discapito della sovranità della repubblica:

Lasciaremo ora in disparte e passeremo sotto silentio i molti libri di simil sorte che, nonostante l’essere velenosi e nocivi, così alle prefate leggi politiche e civili in generale, come in particolare a quelle della Serenissima Repubblica, nulla di meno si vedono stampati o ristampati in quest’istessa città di Venezia, sua me-tropoli, con publica permissione e talluni ancora con special privilegio. Non entreremo manco a discorrere se la dichiaratione impressa nei medesimi li-bri (cioè che si permette loro la stampa solo per favorire il traffico e la mercatura d’essi, non già per approvare in questo punto di giurisdizione la falsa opinione dei loro autori) sia veramente bastante per impedire a quelli che gli leggono col comodo di queste stampe il berne, come suol dirsi, per gli occhi tanto veleno quante sono le loro dannabili propositioni, colle quali si toglie nel temporale il libero assoluto dominio a prencipi e si fomenta l’inobedienza e la contumacia nei popoli.Solo concluderemo riverentemente col memorato padre maestro Paolo che quanta diligenza, vigilanza et attentione maggiore potranno usare i publici revi-

53 Ibidem, busta 150, c. 347, alla data.

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sori nel tenere purgati da simili fecciose e velenose dottrine i libri da stampare o ristamparsi, de cetero nel Serenissimo Veneto Dominio non sarà mai tanta che basti e sempre riuscirà senza comparatione più vantaggiosa alle ragioni ed inte-ressi publici del danno che potesse riceverne per aventura l’interesse privato di qualche stampatore o libraro54.

Il consulto steso in merito alla Bolla in Coena Domini denota la maturità e la capacità di Giovan Maria Bertolli ad inserirsi nella grande tradizione dei consultori in iure. Ovviamente la materia ecclesiastica si prestava più di ogni altra ad essere interpretata per salvaguardare le prerogative della Repubblica, soprattutto nelle questioni che toccavano più da vicino la sua sovranità. Ma si trattava d una materia assai complessa che investiva diritti, giurisdizioni e consuetu-dini di privati o di singoli ecclesiastici. Una materia, dunque che richiedeva non solo prudenza, ma anche la capacità di coglierne tutti gli aspetti che in definitiva, pur tramite la capillarità delle sue manifestazioni, potevano influire sensibilmente nell’attività di governo e nella regolamentazione dei rapporti tra governanti e governati.Basti pensare, ad esempio, alla fitta casistica inerente oratori e chiesette che costellavano il dominio di Terraferma. Rappresentavano una delle manife-stazioni del decoro e del prestigio ricercati da molti proprietari sui loro fondi. Presenza visibile di una religiosità barocca, ma pure manifestazione esplicita di uno status sociale privilegiato. La loro edificazione poteva evidentemente interferire con i consolidati diritti parrocchiali e, di certo, potevano comun-que alla lunga modificare gli antichi assetti giurisdizionali. La Repubblica era intervenuta con una legge importante nel 1603, richie-dendo che oltre al permesso vescovile fosse pure necessaria l’autorizzazione delle magistrature secolari. Una legge che aveva contribuito ad acuire le ten-sioni che sarebbero poi sfociate nella grande vertenza dell’Interdetto. In real-tà, già nel corso del ’600 una prassi assai duttile e molto restia ad intervenire attivamente in questa materia, aveva lasciato che l’iniziativa fosse affidata ai sudditi. Le richieste, subito inoltrate ai consultori per averne un parere, atte-stavano molto spesso come oratori e edifici sacri fossero stati edificati con il solo permesso vescovile, senza la necessaria autorizzazione secolare. In que-sti casi il consultore non poteva per lo più che raccomandare la concessione del permesso, la cui richiesta poteva nascere sia da un conflitto in corso, che dalla necessità di regolarizzare una situazione divenuta più complessa.Sono numerosissimi i consulti stesi da Giovan Maria Bertolli in tale materia. Ad esempio nel maggio del 1687 dominus Bortolo Patella aveva inoltrato una richiesta per ottenere il permesso di costruire un piccolo oratorio in vicinanza

54 Ibidem, busta 150, c. 348, alla data.

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della sua casa di villeggiatura posta a Villa Del Doge nel Polesine55. La richie-sta, come di consueto era motivata dalla lontananza della proprietà dalla chiesa parrocchiale e dal fatto che “non può alla volte, a causa delle pioggie et escrescenze d’acque adempir colla sua famiglia e serventi nelli giorni fe-stivi l’obligo d’ascoltare la santa messa”. La legge del 1603 prevedeva che oltre al permesso del vescovo e al consenso del parroco ci fosse pure l’auto-rizzazione secolare, che doveva valutare se la richiesta fosse meritevole di essere accolta e se avesse i requisiti previsti dalla legge.In realtà la supplica inoltrata dal Patella s’inseriva in un assetto giurisdizio-nale già consolidato, come faceva chiaramente intendere l’opposizione pron-tamente avanzata dal patrizio Angelo Dolfin, il quale con il titolo di feudo go-deva di un’ampia giurisdizione su Villa del Doge. Nel villaggio, come faceva chiaramente intendere il patrizio veneziano, esisteva una chiesa pubblica, eretta sin dal 1577, e nelle vicinanze altre due chiesette, tra cui quella da lui posseduta, nella quale “il Patella ha avuto il comodo et è stato sempre rice-vuto con cortesia”.Come attestava Giovan Maria Bertolli nel suo consulto, la richiesta di Bortolo Patella, pur meritevole di essere accolta, non aveva di certo tutti i requisiti previsti dalla legge del 1603.

L’ordine pare a noi che sia disordinato, mentre ricaviamo dalle stesse informa-tioni del reggimento che la fabbrica sia principiata coll’innalzamento de’ fonda-menti, cosa contraria alle leggi, mentre prima del principiare si doveva diman-dar licenza et hora haverebbe dovuto dimandare et ottener venia del fatto e di haver contravvenuto e poi richiedere di poter continuare. Pure, se così piacesse, si potrebbe nello stesso tempo scusarlo come causato da inavertenza, non da malizia, trattandosi massime de’ semplici fondamenti che arrivano alla sommità d’un argine, donde deve principiare il pavimento dell’oratorio.

Il parere positivo del consultore, volto ad accogliere la supplica del Patella, anche in presenza di una situazione giurisdizionale consolidata, rifletteva la consapevolezza politica che tali richieste attestavano e rafforzavano comun-que la legittimità del potere secolare in una materia che tradizionalmente era sempre stata di competenza delle autorità ecclesiastiche.Materia complessa, quella ecclesiastica, che si calava in una miriade di con-flitti e in una casistica giudiziaria in cui le competenze non erano così fa-cilmente definibili. Come avremo occasione di esaminare a proposito dei matrimoni clandestini, si ha l’impressione che in questo volgere di secolo la Repubblica fosse molto più attenta, quanto meno sul piano della prassi giudiziaria, a delimitare l’ingerenza delle autorità ecclesiastiche.

55 A.S.V., Consultori in iure, filza 140, 10 giugno 1688.

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Il 12 maggio 1703 Giovan Maria Bertolli fu richiesto di un parere intorno ad una torbida vicenda che era stata prontamente segnalata dal podestà di Chioggia56. Una donna aveva pensato bene di risolvere il problema della gra-vidanza della figlia nubile ricorrendo ad un brodo cui era stata aggiunta una particola consacrata. Le conseguenze erano state nulle, ma la donna era pure accusata del procurato aborto di un’altra figlia sposata, la quale per errore aveva ingerito la stessa pozione. Una pratica sociale che apparteneva all’in-distinto mondo della cultura popolare e che tradizionalmente era di compe-tenza del Sant’Ufficio. In realtà Giovan Maria Bertolli non aveva dubbi che “sceleratezza tanto enorme et esecranda” andasse punita dal foro secolare:

Li casi parimente d’herberie, stregarie, malie e maleficii non potranno esser co-nosciuti dal Sant’Ufficio se non vi sarà indizio o sospetto d’eresia per abuso de’ sacramenti o per altro rispetto … a riguardo che quella malefica operatione ha causato la morte di una creaturina prima del suo nascere57.

La definizione di competenze mixti fori si prestava evidentemente ad inter-pretazioni non univoche e precise. Dai suoi consulti Bertolli denota una forte attenzione nei confronti delle prerogative del potere secolare che, proba-bilmente, proveniva dalla consapevolezza di una politica giurisdizionalistica più incisiva da parte della Repubblica.

Devozioni e devozione

Sono molti i consulti di Giovan Maria Bertolli in cui il tema della religiosi-tà popolare viene affrontato alla luce dei conflitti che insorgevano a livello locale o da richieste che da più parti sollecitavano direttamente una sorta di legittimazione da parte degli organi della Repubblica. Un riflesso, quasi certamente, di quella crescita devozionale che quasi ovunque si registra in ambito europeo a partire dalla seconda metà del Seicento e che suscitava assai spesso tensioni e conflitti che si calavano sia sul piano giurisdizionale che in quello consuetudinario.Si trattava di consulti inerenti comunità, confraternite e associazioni laiche, ma anche pratiche religiose che talvolta non s’incardinavano nella tradi-zionale struttura parrocchiale. Giovan Maria Bertolli è attento a respinge-re ogni ingerenza proveniente da qualsiasi autorità ecclesiastica, ma anche

56 A.S.V., Consultori in iure, filza 155, 12 maggio 1703; il passo citato è a c. 72.57 Ibidem, filza 155, c. 72.

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propenso a favorire alcune forme di religiosità popolare, soprattutto se que-ste traevano legittimità dalla tradizione e dalle consuetudini.Una vertenza assai aspra in tale materia si può cogliere in uno degli ultimi consulti scritti da Giovan Maria Bertolli58. Il vescovo di Trento era diretta-mente intervenuto presso la Signoria lamentando come la comunità di Ti-gnale pretendesse tutta una serie di diritti nei confronti del parroco loca-le ed in particolare si arrogasse il diritto di escluderlo dalla gestione della chiesa campestre di Montecastello. Il nucleo della discordia, come osservava Bertolli, risiedeva nella custodia delle chiavi della chiesa e nella ripartizione delle elemosine. La chiesa difatti

È propria della communità che la fabbricò dopo la demolitione della rocca che era sopra detto monte. Anzi a quella, sino l’anno 1446 6 settembre fu con ducali della Serenità Vostra comandato che fosse consignata certa quantità de coppi che prima gli haveva donato per coprire la medesima chiesa59.

Giovan Maria Bertolli non aveva dubbi nel ritenere fondati i diritti della co-munità. Nel 1639 il provveditore di Salò aveva redatto un regolamento in cui si prescriveva che una chiave fosse pure consegnata al parroco, ma l’accordo non era stato approvato e comunque mai messo in pratica, anche perché contrario alle leggi della Repubblica, che “non vogliono che gli ecclesiastici s’ingeriscano nelle materie laiche”. In quanto alle elemosine e all’eremita che custodiva la chiesa di Montecastello, il consultore ribadiva che si trat-tava per entrambi di un diritto goduto dalla comunità per antica consue-tudine: un diritto comunque convalidato dalle leggi della Repubblica, volte chiaramente ad impedire che gli ecclesiastici “pongano mano in oblazioni laiche”.La comunità di Tignale era situata ai confini dello stato, anche se sul piano religioso apparteneva alla diocesi Trento. Godeva inoltre di ampli privilegi an-che rispetto alla giurisdizione esercitata dal provveditore di Salò. È dunque probabile che la difesa delle sue prerogative da parte di Bertolli muovesse da considerazioni esplicitamente politiche60.Un’altra interessante vicenda di cui Bertolli si occupò nel suo consulto del 22 marzo 1702 sembra convalidare tale ipotesi. La contesa riguardava la con-

58 A.S.V., Consultori in iure, filza 155, 3 agosto 1705.59 Ibidem, filza 155, cc. 323-324.60 Il consulto del 3 agosto 1705 concerne ancora una vertenza tra la comunità di Tignale e il suo parroco. Quest’ultimo aveva richiesto di poter giudizialmente procedere contro alcuni debitori nel foro di Salò. Bertolli osservò come la comunità nelle materie civili avesse la giu-risdizione di prima istanza, assegnata al suo vicario e che solo in appello fosse competente il provveditore di Salò, cfr. A.S.V., Consultori in iure, filza 155, alla data.

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fraternita laicale della Beata Vergine del Mesco di Ceneda e il vescovo loca-le61. Sin dall’epoca di Paolo Sarpi le prerogative godute dal vescovo di Ceneda avevano suscitato perplessità se non ostilità da parte di un certo settore del patriziato veneziano62. Il vescovo era giunto alla decisione di voler sospen-dere l’antichissima processione che da parte di molte confraternite della cittadina e dei villaggi vicini si conduceva sino al monastero camaldolese di Follina, nel quale veniva adorata un’immagine miracolosa della Vergine. La sacra immagine, osservava Bertolli, era talmente venerata:

Che non solo Ceneda e moltissimi altri luochi della stessa diocesi si portano ogni anno a processionalmente visitarla, ma anco quelli di molte terre lontane della Patria del Friuli, del Bellunese e del Trevisano e ciò per instituto antichissimo et immemorabile, non mai interrotto, ma sempre osservato63.

Di certo i vescovi avevano competenze nelle processioni, ma si trattava di una materia mista, continuava il consultore; tale processione non aveva mai suscitato alcun scandalo. E spinto dall’afflato giurisdizionalista non aveva esi-tazione ad affermare (e consigliare):

Si aggiunge che gli usi popolari che hanno apparenza di religiosa devozione (come quelli delle processioni) difficilmente si tolgono senza gravi querimonie e lamentazioni e specialmente se sono radicati nella lunghezza del tempo … Il corso centenario: questo legalmente e secondo li dottori nostri si può allegare per qualunque privilegio, non solo contro i vescovi, ma in faccia ancora della Santa Sede romana64.

Il forte e mai sopito richiamo delle consuetudini costituiva dunque per Ber-tolli l’essenza e la legittimità giuridica di una prassi religiosa popolare.Al di fuori dello spiccato profilo politico di alcune vicende, Giovan Maria Bertolli rivela comunque maggiore prudenza e un certo equilibrio di valuta-zione negli altri numerosi consulti dedicati alle confraternite laicali. Si trat-tava, infatti, di una materia assai delicata in cui l’esercizio di pratiche devo-zionali, con tutto ciò che queste comportavano, potevano non solo suscitare irritazione e conflitti, ma pure incrinare equilibri giurisdizionali che s’in-nervavano nella struttura stessa della società e nelle sue trasformazioni65.

61 A.S.V., Consultori in iure, filza 154, 8 maggio 1702.62 Sulle annose questioni inerenti Ceneda cfr. P. Sarpi, Opere…, pp. 479-480.63 Ibidem, filza 154, c. 65.64 Ibidem, filza 154, c. 66.65 Un tema affrontato in maniera approfondita da A. Torre, Il consumo di devozioni. Religione e comunità nelle campagne dell’Ancien Régime, Venezia 1995.

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Tanto più che, molto spesso, le richieste che venivano inoltrate a Bertolli per il consulto, attestavano senza ombra di dubbio vere e proprie situazioni di illegalità nei confronti dei provvedimenti assunti dalla Repubblica in materia di associazionismo laico66.Nel 1702 Bertolli fu richiesto di fornire un parere sulla vertenza che oppo-neva il piovano della chiesa di Santa Maria di Castelfranco e la confraternita del suffragio dei morti esistente nella stessa chiesa67. L’associazione laicale era stata isituita nel 1689, ma con il solo permesso vescovile: “cosa reprobata dal-le leggi”, annotava Bertolli, mentre ora essa richiedeva che il proprio altare potesse beneficiare di legati e che fosse il solo cappellano della confraterni-ta ad officiare alle cerimonie. Una vertenza solo apparentemente banale, in quanto le rivendicazioni della confraternita s’incuneavano nelle prerogative dell’arciprete. Giovan Maria Bertolli non aveva dubbi nel consigliare che non si permettesse alla confraternita di usufruire dei legati se questi si riferivano all’altare, mentre il suo cappellano avrebbe dovuto cedere il passo se l’arci-prete avesse inviato un suo rappresentante ad officiare nelle cerimonie.Il consulto di Bertolli si pronunciava quindi a favore dei diritti parrocchiali, evitando che le pratiche devozionali della confraternita mettessero in dub-bio la piena giurisdizione esercitata dall’arciprete. Una linea interpretativa costante, che è possibile cogliere anche in molti altri suoi consulti in materia: se le confraternite laicali non dovevano subire intromissioni da parte delle autorità ecclesiastiche, altresì non dovevano comunque accampare diritti che avrebbero potuto interferire nella consolidata giurisdizione parrocchiale.Nel consulto scritto il 22 dicembre 1703, sono gli statuti presentati dalle due confraternite del Santissimo Sacramento e del Rosario di Sandrigo (Vicenza) ad essere esaminati attentamente da Bertolli68. La prima confraternita era an-tichissima, mentre la fondazione della seconda risaliva al 1636, ma anche in questo caso con il solo permesso vescovile. Più che una conferma si trattava dunque di una sanatoria, che dava però l’occasione al consultore di rilevare anche altre incongruenze. Le due confraternite avevano infatti l’intenzione di costruire un loro oratorio, cosa che Bertolli riteneva del tutto superflua:

Potendosi vestir li confratelli nella chiesa, come hanno fatto sin al presente … se vorrano esponer le quaranta ore potranno farlo sopra i loro altari nella chiesa parrocchiale, senza costruir un’antichiesa69.

66 Situazione analoga, come si è potuto già costatare, per la richiesta di erezione di oratori e di chiesette private.67 A.S.V., Consultori in iure, filza 154, 8 febbraio 1702.68 A.S.V., Consultori in iure, filza 155, 22 dicembre 1703.69 Per questo, come per il passo successivo cfr. Ibidem, cc. 224-225.

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Inoltre gli statuti prevedevano che le nuove cooptazioni fossero accolte pre-via licenza dell’arciprete, il quale avrebbe dovuto pure partecipare a tutte le riunioni delle due associazioni laicali. Il che doveva però essere respinto, in quanto contrario alle leggi della Repubblica. E così pure un’altra facoltà che esse si riservavano:

Che i confratelli possano depennare i confratelli che non tenessero buona vita e che li massari e conservatori habbino facoltà di discorrerne fra di loro e di scac-ciarli, mentre questo è un formar processo de vita et moribus et un condannar senza diffesa, cosa insolita e che non si vede praticare in altre scuole.

Le osservazioni di Bertolli miravano dunque ad evitare che le pratiche de-vozionali, come era facilmente prevedibile, si prestassero a manipolazioni e abusi. In qualche caso il suo intervento censorio era ancora più analiti-co. Come ad esempio a proposito della confraternita degli Agonizzanti di Crema70. I suoi rilievi coglievano non solo aspetti organizzativi, ma anche questioni più propriamente spirituali. E così quel punto in cui si diceva che sarebbe stata celebrata una messa per ogni confratello defunto “all’altar pri-vilegiato e l’anima sua sarà libera dalle pene del purgatorio”, avrebbe dovuto essere modificato con le parole: “sarà celebrata la messa all’altare in suffra-gio dell’anima sua”.L’atteggiamento da assumere nei confronti dell’associazionismo laico richie-deva estrema prudenza soprattutto per il fatto, come già si osservava, che le pratiche devozionali ad esso connesse si riflettevano per lo più sul piano giu-risdizionale con l’inevitabile implicazione di diritti, prerogative e benefici.È comunque interessante notare come le riflessioni di Bertolli denotino nel loro complesso una maggiore attenzione nei confronti della consuetudine e della forza che essa giocava nelle vertenze di carattere giurisdizionale. È significativo, a questo proposito, il conflitto che nel 1689 oppose le regole della comunità di San Vito del Cadore con il parroco locale71. La comunità rivendicava il diritto di iuspatronato sulla chiesa di Santa Maria della difesa. Sia un’iscrizione apposta sul portale della chiesa, che un antico documento del 1521 attestavano inconfondibilmente le prerogative della comunità sulla chiesa. È però interessante l’analisi condotta da Bertolli per dirimere i diver-si punti della controversia. I rappresentanti della comunità lamentavano che il piovano pretendesse di presenziare alle loro riunioni col pretesto di avere ingerenza nell’amministrazione della chiesa. Il consultore aveva buon gioco nel sottolineare come le leggi proibissero qualsiasi intromissione del genere

70 A.S.V., Consultori in iure, filza 156, 22 agosto 1704.71 A.S.V., Consultori in iure, filza 141, 26 dicembre 1689.

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da parte degli ecclesiastici72. Sulla questione dell’elezione del mansionario egli non aveva poi dubbi nel ribadire le buone ragione della comunità, anche in virtù della consuetudine che attestava come la comunità avesse più volte esercitato tale diritto.

La chiesa è patronata e perciò il nominare il capellano spetta alli padroni, così osserviamo anche un’antica nominatione fatta sino l’anno 1546 4 settembre, ri-pigliata l’anno 1676 e continuata sino al presente. La ragione poscia per la quale non si veggono in un secolo frequentate simil nominationi non è provenuta da altro che dalla povertà delle rendite, quali non bastando per far celebrar una messa quotidiana, permetteva quell’università che il piovano esercitasse come eletto. Ma accresciute coll’elemosine e legati pii e ridotte in summa sufficiente per tale sagrificio, hora passano alle eletioni, che non gli possono venir impe-dite73.

La consuetudine era dunque intesa come una pratica che reiterava determi-nati diritti e possedeva una piena validità giuridica74. Il terzo punto affronta-to da Bertolli si presentava più delicato. La comunità chiedeva che il proprio sacerdote potesse celebrare la messa serale nei giorni di festa non solenni e di precetto. Una richiesta che il piovano aveva fortemente avversato. Ma il consultore aveva gioco facile nell’esprimersi a favore della comunità:

Trattandosi di chiesa iuspatronata laicale che non tiene dipendenza dalla matri-ce non crediamo che possano haver luoco tali prohibitioni. Tanto meno che tali celebrationi servono di necessario comodo a quei populi, parte de’ quali ascol-tando questa prima assai vicina e portandosi alle loro case dano luoco agli altri perché possano anche essi capitare alla parochiale ad udire il sagrificio. E molti testimoni provano che senza poter adempire il precetto, a causa che tutti delle famiglie non si possono portare in un istesso tempo alla chiesa, per non lasciar

72 È interessante notare come le leggi cui Bertolli si riferiva erano in realtà costituite da precedenti giudiziari : il primo inerente la Patria del Friuli e il secondo lo stesso Cadore, cfr. Ibidem, filza 141, c. 175.73 Ibidem, filza 141, c. 176.74 In un consulto steso il 25 dicembre 1690 intorno ad un’analoga richiesta della comunità di Vighizzolo d’Este, la quale pretendeva lo iuspatronato sulla chiesa parrocchiale in contra-sto con i monaci delle Carceri d’Este, Giovan Maria Bertolli espresse un parere decisamente negativo, in quanto i diritti consuetudinari si presentavano deboli ed incerti. Infatti se il di-ritto di iuspatronato non poteva essere avvalorato da documenti precisi (come stabilito dal Concilio di Trento), doveva comunque essere attestato da pratiche sociali (come ad esempio la nomina del parroco) che convalidassero un’antica consuetudine . E così, “se vi fosse il titolo reale di vero e canonico patronato si potrebbe nonostante il corso di tanti anni dar la mano a questa ragione, ma mancando il sudetto titolo, né essendovi alcuna presentatione per due se-coli, non sappiamo senza contravenire al Concilio di Trento come poter concorrere in questa opinione”, cfr. A.S.V., Consultori in iure, filza 142, 25 dicembre 1690, c. 3.

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nel totale abbandono le cose proprie, trattandosi però del maggior culto del si-gnor Iddio e di cosa grave et importante che non pregiudica al piovano (perché eccettuate le feste solenni nelle quali si prattica l’offerta, che è la pietra del scan-dalo) siamo di sentimento che meritino le regole di essere essaudite75.

Argomentazioni sin troppo esplicite, anche se provviste di una retorica espositiva che tradiva chiaramente la propensione di Bertolli ad accogliere le richieste della comunità. Dove, però, egli ritornava sui suoi passi era nel quarto punto, in cui erano le fraglie della chiesa ad avanzare la pretesa di poter svolgere due processioni mensili, pur in giorni non solenni e senza pregiudi-care alle prerogative del parroco. Bertolli riteneva però che su questo punto l’assenso del parroco fosse una condizione ineliminabile e la richiesta della comunità non potesse conseguentemente essere presa in considerazione:

Qui non si tratta di messe, né di cosa necessaria o di precetti, ma di pura devotio-ne, che riesce di poca importanza e però fa di mestieri che intervenga la licenza, non potendosi in dette funzioni, che sono differenti dal ius parochiale, come di-cono li canonisti, inferir pregiudicio allo stesso parroco, né levargli quello che è suo e che di ragione se gli aspetta76.

Giovan Maria Bertolli operava dunque una distinzione tra diritti di iuspatro-nato che concernevano più propriamente la comunità e pratiche devozionali che potevano facilmente interferire nella vita parrocchiale. Una linea inter-pretativa che possiamo rintracciare in molti suoi consulti e che rifletteva, da un lato, un’attenzione notevole nei confronti dei diritti consuetudinari acquisiti, soprattutto se rivendicati da comunità77 e, dall’altro, una riluttanza

75 Ibidem, filza 141, c. 176.76 Ibidem, filza 141, c. 176.77 È interessante il consulto steso il 6 settembre 1702 in merito ad una supplica di alcune comunità sottoposte alla podesteria di Camposanpiero, le quali possedevano da più di cinque secoli alcuni beni loro pervenuti in virtà del testamento istituito nel 1161 dal cittadino di Padova Galvano Mascarotto. Una denuncia anonima presentata ai Provveditori ai beni comu-nali affermava che si trattava di terre demaniali. Ad attestare che in realtà di trattava di beni comuni c’era una fitta casistica giudiziaria e una pronuncia dello stesso Consiglio dei dieci che aveva ordinato che le comunità non fossero più molestate nei loro diritti “quando vi sii prova che il comune oltre gli anni trenta habbi goduto pacificamente li beni”. E Bertolli, osservando come i beni descritti dai periti dei Beni comunali fossero gli stessi posseduti dalle comunità da alcune centinaia d’anni, come attestavano le imposte da loro pagate alla città di Padova, aggiunse: “Dovendosi notare che sono corsi da quel tempo sino al presente circa sei secoli nei quali infinite sono state le alterazioni e le mutazioni e basta che si ritrovi un titolo così antico per stabilire una buona ragione a dette ville”, cfr. A.S.V., Consultori in iure, filza 154, 6 settembre 1702, cc. 185-186.

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di fondo ad accogliere istanze, soprattutto se provenienti da confraternite laicali che avrebbero potuto modificare gli assetti giurisdizionali consolidati.

La tradizione

In realtà c’è da parte di Giovan Maria Bertolli una percezione del diritto con-suetudinario intimamente legata ai precedenti giudiziari. Ed in effetti nei suoi consulti è facilmente rintracciabile una sorta di ricerca storico-docu-mentaria78 che non è semplicemente individuabile come lo svolgimento di una linea interpretativa volta ricercare nella tradizione una sorta di rassi-curazione. Si tratta difatti, potremmo dire, di una tensione storiografica che mira a configurare il consulto come un’analisi politica in cui dati storici e dimensione giuridica si fondono per legittimare una prassi di governo estre-mamente duttile e sensibile all’ideologia repubblicana animata sia da istan-ze egualitarie che da spinte oligarchiche.Sono dati percepibili ovviamente non solo nei numerosissimi consulti ine-renti la materia ecclesiastica e beneficiaria, come si è potuto scorgere dagli esigui casi esaminati, ma anche nei frequenti interventi nelle materie confi-narie e feudali, in cui pure è avvertibile la complessità della situazione poli-tica della Repubblica.Può essere significativo in tal senso il consulto steso da Bertolli il 18 aprile 1700 in una vicenda che investiva sia la giurisdizione ecclesiastica che quella feudale79. Il vescovo di Belluno si era aspramente lamentato di fronte ai capi del Consiglio dei dieci per la lesione subita nella propria giurisdizione ad opera della città di Belluno. Una vicenda di non poco conto, che travalicava le consuete tensioni esistenti pure a livello locale tra autorità ecclesiastiche e secolari. Il capitano della Rocca di Pietore, giurisdizionalmente di compe-tenza della città di Belluno, aveva annullato il processo istruito dal cancellie-re vescovile di seguito ad un furto sacrilego avvenuto in una chiesa del luogo. Inoltre aveva provveduto ad istruire un rigoroso processo contro tutti coloro che si erano prestati a turbare la giurisdizione cittadina. La città godeva in-fatti di mero e misto imperio sulla stessa rocca e riteneva che il vescovo avesse compiuto un abuso ordinando l’istruzione del processo. Tant’è che aveva su-bito provveduto ad inviare degli oratori a Venezia per difendere quanto era stato operato dal capitano della rocca.Giovan Maria Bertolli non aveva esitazioni a condannare l’iniziativa della

78 Alcuni dei consulti di Giovan Maria Bertolli si presentano come veri e propri trattatelli storici inerenti talune materie. Si accenna qui, ad esempio, a quello inerente la Dalmazia in A.S.V., Consultori in iure, filza 151, 30 settembre 1691.79 A.S.V., Consultori in iure, filza 151, 18 aprile 1700.

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città, rammentando la logica di fondo che ancora animava lo stato giurisdi-zionale:

Ciò che seguì al tempo dei duchi di Milano, li privilegi della Serenissima Repu-blica, le ducale dell’eccelentissimo Senato e dell’eccelso Consiglio, la terminatio-ne del Magistrato de’ feudi e gli atti dell’Avogaria, tutti, ad uno ad uno, riferiti essatamente nell’informatione dell’illustrissimo signor podestà, altro non [con]fermano che l’unione della rocca e suo territorio alla città e consiglio col mero et misto imperio, cioè a dire con la giurisdittione ordinaria civile e criminale, che è quella per appunto che godono tutti gli altri castellani e jusdicenti della Patria del Friuli, li nobili homini conti Collanti, Savorgnan, Gabrieli, Brandolini et altri; le città che hanno vicariati e consolati, la comunità di Cadore e simili. E pur questi non hanno mai impedito alli vescovi il formar processi per quello che aspetta alla loro giurisdittione e molto meno hanno avuto coraggio di poner la mano e procieder criminalmente contro li ministri di quelle curie, come poco propriamente ha fatto il consiglio di Bellun.

Parole dure, che nascondevano in realtà l’irritazione manifestata contro i detentori di una giurisdizione locale che si erano arrogati poteri spettanti unicamente alla potestà del Principe, soprattutto in un ambito come quello penale in cui, da molti decenni, il Consiglio dei dieci aveva ampiamente este-so la sua autorità. E difatti, proseguiva il consultore:

È notissimo ancora, e lo vogliono le leggi, che quando tra due jusdicenti si con-tende non vi sii altro giudice che la maestà del Principe supremo. Contrasta Pa-dova con Treviso, Verona con Vicenza, Brescia con Bergamo, il Magistrato di Procuratore con quello di Petition in materia di giurisdittione, l’uno di questi non taglia gli atti dell’altro, ma sottopone il tutto alla publica notizia per haverne l’oracolo decisivo. E pure sono reggimenti e magistrati laici di molta auttorità; onde quanto meno ha potuto farlo il consiglio di Bellun contro un vescovo e con-tro gli atti e ministri della sua curia.

Ed infine l’affondo finale:

Notabile rendendosi che se in un processo venga formato o in Brescia o in Pado-va, o in altro luoco con l’auttorità ordinaria, cade indizio sopra qualche persona ecclesiastica, non si continua quel processo, ma se ne dà parte a questo eccelso Consiglio, dal qual solo dipendono i poteri e la facoltà. E però noi sappiamo ve-dere come tanto oltre si habbino avvanzato i Bellunesi, se non quanto nutriscano sentimenti che il loro consiglio habbi la stessa auttorità che tiene l’eccelso Con-siglio di dieci80.

80 Per i passi citati cfr. Ibidem, filza 151, alla data, cc. 336-337.

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Un consulto steso con estrema durezza e con toni che non lasciavano adito a dubbi sul pensiero del consultore. La rampogna rivolta alla città di Bellu-no sembrava contraddittoriamente esprimere sia l’intangibilità dello stato giurisdizionale, in tutte le sue componenti, compresa quella ecclesiastica, che le prerogative sovrane e assolute delle magistrature della Dominante, in particolare il Consiglio dei dieci. In realtà Giovan Maria Bertolli rifletteva, in questo come in altri consulti, le peculiarità di uno stato repubblicano, il quale pur dovendo indiscutibilmente affermare la sua sovranità era pure restio, se non impotente, ad allentare le logiche di potere che animavano i centri sudditi.Questo aspetto è pure splendidamente illustrato nel consulto scritto il 10 novembre 169081. La comunità del Cadore aveva presentato un memoriale in occasione della legge emanata alcuni giorni prima dal Consiglio dei dieci in merito all’obbligo dei rettori veneziani delle principali città di inviare le necessarie informazioni relative ad ogni caso di omicidio commesso nei loro territori. Giurisdizioni feudali e terre separate avrebbero dovuto inoltrare tali notizie ai rappresentanti delle rispettive podesterie82. Giovan Maria Bertolli, richiesto di esprimere un parere in merito alla richie-sta della comunità del Cadore di poter inoltrare direttamente al Consiglio dei dieci le informazioni concernenti gli omicidi avvenuti nella propria giu-risdizione, stese un ampio consulto in cui dapprima ripercorse le vicende storiche di una terra separata che aveva sempre mantenuto un legame parti-colare con Venezia:

Et osserviamo, come cosa di molto rimarco, che la giurisdittione de’ Cadorini è stata dall’eccelso Consiglio dichiarata differente dalle altre iusdicenze, perché essendo stato l’anno 1687 22 dicembre decretato che quando da qualsiasi iusdi-cente sarà notificato alcun caso d’omicidio seguito nella sua iurisdittione, quello non possa esser rimesso alla giudicatura del medesimo se non con deliberatione presa colle e forme e strettezze solite. L’eccelso Consiglio, sopra le supplicationi

81 A.S.V., Consultori in iure, filza 142, 10 dicembre 1690.82 In realtà un primo importante provvedimento era stato assunto l’11 settembre 1680, con cui si ordinava ai rettori di Terraferma di comunicare al Consiglio dei dieci le informazioni relative ad ogni omicidio commesso nelle loro giurisdizioni. Nel 1682 una successiva legge precisò che anche i giusdicenti feudali fossero sottoposti all’obbligo di comunicare ai rettori della città più vicina i casi di omicidio avvenuti nei territori di loro competenza. Probabilmen-te, come attesta il caso del Cadore, tale prassi divenne effettivamente vincolante solo a partire dal 1690, come è successivamente attestato dai numerosi consulti di Bertolli in merito alle numerose richiesta di giusdicenti di poter inviare le loro informazioni direttamente al Capi del Consiglio dei dieci, cfr. C. Povolo, Retoriche giudiziarie, dimensioni del penale e prassi proces-suale nella Repubblica di Venezia: da Lorenzo Priori ai pratici settecenteschi, in L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII), II, a cura di G. Chiodi e C. Povolo, Verona 2004, pp. 26-30.

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del Cadore, ha con nuova parte 1688 29 luglio commandato che a riguardo beni-gno di continuare alla detta communità gli ampli e distinti privilegi concessi in prima dedizione, che la diversificano dal genere di iusdicenza, restò dichiarito che non s’intendi compresa la medesima comunità di Cadore nel sudetto decreto 22 dicembre 168783.

In realtà, come avrebbero dimostrato le numerose analoghe deliberazioni concesse ad altre giurisdizioni signorili, la proposta di Giovan Maria Bertolli ben s’inquadrava nella struttura dell’antico stato giurisdizionale. L’esenzio-ne concessa al Cadore non interferiva in definitiva con i provvedimenti as-sunti da Venezia in questi due ultimi decenni del secolo in materia di ordine pubblico84. La richiesta inoltrata direttamente al Consiglio dei dieci raffor-zava inoltre il legame, apparentemente indissolubile, tra centro dominante e centri sudditi.L’attivita di Giovan Maria Bertolli si estese inoltre alla complessa materia confinaria: dai trattati tra stati alle vertenze tra singole comunità. Nei nume-rosissimi consulti stesi su tale argomento Bertolli ricorse ampiamente al suo ampio bagaglio di conoscenze giuridiche, ma anche all’esperienza acquisita nel corso dell’attività svolta a stretto contatto del mondo politico venezia-no85.Significativo, anche se di certo non della stessa rilevanza politica assunta da altri analoghi scritti in materia confinaria, è il consulto redatto il 24 set-tembre 1699 intorno alla vertenza accesasi tra due comunità limitrofe ap-partenenti rispettivamente all’Istria veneta e all’Istria austriaca. La piccola comunità di Baratto, facente parte della giurisdizione di Due Castelli aveva arrestato un bandito colto nel proprio territorio. Per condurlo alle carceri di Pinguente, gli uomini della comunità avevano attraversato il contado di Pisino (giurisdizione austriaca) ed in particolare la valle di Chersiela, senza il permesso del locale zuppano86 Il capitano della contea di Pisino aveva imme-diatamente richiesto che si rimediasse alla violazione confinaria, consegnan-do il bandito allo zuppano, il quale poi l’avrebbe posto in libertà.

83 A.S.V., Consultori in iure, filza 142, 10 dicembre 1690, c.56.84 Su questo tema cfr. C. Povolo, Dall’ordine della pace all’ordine pubblico. Uno sguardo da Vene-zia e il suo stato territoriale (secoli XVI-XVIII), in Processo e difesa penale in età moderna. Venezia e il suo stato territoriale, a cura di C. Povolo, Bologna 2007, pp. 47-50.85 Ricordo alcuni tra i tanti casi affrontati da Bertolli nella sua ventennale attività di con-sultore: Strassoldo (A.S.V., Consultori in iure, filza 139, 20 marzo 1685); Lastebasse (Ibidem, filza 142, 12 maggio 1691); Po (Ibidem, filza 150, 26 agosto 1698); Dalmazia (Ibidem, filza 151, 30 settembre 1699).86 In Istria i rappresentanti della comunità (analoghi ai merighi e degani veneti) erano de-finiti zuppani.

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Bertolli mise subito in rilievo la delicatezza politica assunta da una vicenda apparentemente banale:

Il punto però di far passare un ritento e con la mano armata per il stato di un altro principe porta seco, seconda la debolezza di noi consultori, qualche diffi-coltà, mentre si suole ricercare il suo consenso e la permissione ancora.

Non fu difficile per il nostro consultore ritrovare cavilli giuridici che poteva-no in parte giustificare l’errore compiuto dalla comunità di Baratto:

Al che si può accomodare ciò che scrivono li dottori nostri di quello che con arme e cavalli passasse per un regno dal quale fosse prohibito il farne estrattione sen-za la regia licenza, che in ogni modo possa continuare il suo viaggio e portarsi al proprio domicilio fuori di esso regno senza ricercar la detta licenza. Né si trala-scia di aggiunger l’altro caso di quel ritento che passando per il cimiterio o per la chiesa, condotto da birri, pretende l’immunità, nel quale concludono essi dottori che non sii capace di goderla, ma che possa da quella esser estratto, ancorché sii molto grande la giurisditione ecclesiastica. E ciò non per altra ragione se non per la differenza che corre tra il passare per modum justitiae, che offende, et il passare per modum facultatis, che non apporta pregiudicio. E per tal ragione fu decisa nel parlamento di Francia la presente questione, essendo stato decretato che sia lecito il condurre un ritento alle proprie carceri e passare per la giurisdi-zione di un altro.

Argomentazioni che probabilmente lo stesso Bertolli sentiva come prete-stuose e inconcludenti, tanto da suggerire immediatamente una soluzione politica:

Crediamo che si habbi a procieder con desterità e con promettere che saranno dati buoni ordini perché nell’avvenire sii proceduto con tutta l’avvertenza, ad altro non havendo mira la publica attentione che di comandare ai propri sudditi il ben vicinale et il conservare la buona corrispondenza con li confinanti. E in tal modo si potrebbe rispondere alle doglianze che venissero portate dal ministro dell’ambasciata cesarea87.

Una soluzione pragmatica, proposta da Giovan Maria Bertolli in una materia in cui le disquisizioni giuridiche potevano facilmente essere messe in gioco, ma che non erano comunque tali da giustificare decisioni politiche incisive da parte della Repubblica.

87 Tutte le citazioni in A.S.V., Consultori in iure, filza 151, 24 settembre 1699, cc. 90-91.

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Tra i disordini del matrimonio

Nell’attività consultiva di Bertolli emerge inoltre una casistica assai interes-sante inerente la complessa materia matrimoniale. Una casistica che riporta alla luce vicende il cui svolgimento poteva facilmente suscitare conflitti giu-risdizionali con la Chiesa, ma che aveva pure implicazioni sociali e politiche di grande rilievo. Nella seconda metà del Seicento Venezia aveva dimostrato maggiore atten-zione nei confronti di una materia che tradizionalmente era di competenza ecclesiastica. Come fu ricordato da Bertolli in uno dei suoi ultimi consulti, steso il 16 maggio 1705, il Senato era intervenuto nel 1663 (1662 more ve-neto) per porre rimedio ai disordini, puntualmente segnalati dal Patriarca, che avvenivano nella celebrazione dei matrimoni. Si era allora deliberato che l’Avogaria di comun iscrivesse nel libro d’oro solo i matrimoni di patrizi celebrati con le formalità previste dal Concilio di Trento. Si era inoltre, per tutti gli altri ceti sociali, affidato lo stesso compito agli Esecutori contro la bestemmia. Una fitta casistica dimostrava inoltre come lo stesso provvedi-mento fosse stato esteso anche alla Terraferma.88

Nei consulti scritti da Giovan Maria Bertolli in materia matrimoniale emer-geva il diffuso fenomeno dei matrimoni clandestini, che dopo i decreti tri-dentini, consistevano essenzialmente in uno scambio di consensi senza il ri-spetto delle formalità previste. Una materia, dunque, di stretta competenza ecclesiastica, ma che Venezia aveva ritenuto di sottoporre pure all’attenzio-ne del potere secolare, perseguendo proprio il mancato rispetto delle regole stabilite.La nuova politica in materia matrimoniale è ben riassunta nel consulto steso da Bertolli il 24 novembre 1689, a proposito di un matrimonio celebrato da due giovani bresciani, che si erano scambiati il consenso mentre il proprio parroco stava celebrando la messa:

In due parti però distinguendosi la materia, crediamo noi consultori di poter divotamente rappresentare. Che o si tratta dell’essenza delli suddetti matrimoni o della forma tenuta nel farli seguire. Se dell’essenza, questa essendo cosa pura-mente spirituale et ecclesiastica, ne spetta la cognitione alla curia episcopale. Se della forma, essendosi operato contro il decreto dell’eccelentissimo Senato 1662 28 febraro, spetta il giudizio al foro secolare, quale in questa parte ha voluto dar

88 A.S.V., Consultori in iure, filza 156, 24 novembre 1689. Due giovani, Marco Tezzoni di Co-negliano e Angela Maria Tezzi da Conegliano avevano pensato bene di aggirare i divieti loro imposti dalle autorità ecclesiastiche, scambiandosi senza tante formalità il reciproco consen-so: “mentre l’arciprete di Conegliano si era portato alla chiesa della Madonna per insegnar la dottrina christiana, di affacciarsi al medesimo e dirgli che la signora Maria era sua moglie e poco doppo soggiunse la medesima che quello era suo marito”, Ibidem, cc. 254-255.

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il braccio all’essecutione del Concilio. E tanto più che vi concorrono violenze, inganni, deflorationi et altre male qualità. Onde sarebbe nostra opinione che si comandasse l’essecutione della sudetta legge ad oggetto non solo di punire la reità dei delinquenti, ma per poner in obedienza quei sudditi e tenerli lontani col terrore del castigo da simili dannate procedure89.

Si trattava per lo più di casi che riflettevano tensioni ed inquietudini socia-li, che la pur flessibile normativa ecclesiastica non riusciva a contenere e smorzare. Il matrimonio clandestino era difatti considerato uno strumento per aggirare le consuete tensioni generazionali, oppure per risolvere prag-maticamente il valore ancora idealmente pregnante degli antichi sponsali (fidanzamento)90.La materia degli sponsali era particolarmente complessa, in quanto non so-lamente era prevista e regolamentata dal diritto canonico, ma s’innervava pure nelle antiche consuetudini matrimoniali. Anche dopo le disposizioni tridentine una promessa formalmente scambiata conservava un valore vin-colante per i contraenti e tale da impedire l’eventuale matrimonio con al-tra persona. In tal senso le cosiddette stride, affisse per tre domeniche di seguito alle porte della chiesa parrocchiale, avevano il fine di accertare se fossero stati contratti precedenti sponsali da parte dei due nubendi. Ma che cosa avveniva se uno di costoro nel frattempo ricorreva ad un matrimonio clandestino (cioè contratto senza le pubblicazioni in chiesa)? Nel corso del

89 A. S.V., Consultori in iure, filza 141, 24 novembre 1689. Un altro caso interessante è descrit-to nel consulto del 12 agosto 1700. Due giovani di Saletto (Montagnana) avevano celebrato il matrimonio clandestino con l’aiuto dello stesso loro parroco, il quale probabilmente aveva voluto così aggirare una precedente promessa di matrimonio (sponsali) contratta da uno dei due. È interessante notare come Bertolli consigliasse di concedere ai rettori la facoltà di procedere contro i due giovani, ma non contro il sacerdote. Difatti, egli osservava, il provve-dimento del Senato mirava a correggere un delitto che “non è capitale, né di quell’attrocità et enormità per la quale, quando gli ecclesiastici fossero anco principali avessero a restar sogetti alla giustizia secolare, ma è uno di quelli che si chiamano ordinari e che rimangono sottoposti ai propri vescovi, trattandosi massime di solo consiglio e di fomento, che rare volte e solo ne’ casi gravi et importanti sogliono cadere sotto la censura criminale”, cfr. Ibidem, filza 152, 12 agosto 1700, cc. 237-238.90 Nella dottrina matrimoniale pretridentina gli sponsali avevano un valore rilevantissimo. Con il decreto tridentino Tametsi, che stabilì l’obbligo della presenza del sacerdote e dei due testimoni, essi persero molto della loro rilevanza, anche se la Chiesa li ritenne idealmente vincolanti. Come ha osservato J. Bossy, “il Concilio di Trento, in particolare, varò un codice matrimoniale che si contrapponeva alle tradizioni collettiviste e contrattualiste della morale parentale, invalidando i matrimoni non celebrati pubblicamente davanti al parroco…Tutto ciò si caratterizzò di conseguenza come un vigoroso attacco contro sposalizi e fiançailles ex-trasacramentali che continuavano ad ispirarsi, in pieno XVI secolo, alla teoria contrattualisti-ca del matrimonio”, cfr. J. Bossy, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, Torino 1998, p. 13.

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Settecento i consultori se ne sarebbero occupati con una certa regolarità91, ma negli anni in cui Bertolli esercitò la sua carica di consultore il fenomeno non appare ancora visibile. È dunque probabile che la progressiva ingerenza secolare in materia matrimoniale finisse (nel corso del Settecento) per ri-durre ulteriormente i margini assai ampi entro cui la giurisdizione ecclesia-stica esercitava un’indubbia discrezionalità92.Il tema degli sponsali emerge comunque in un consulto scritto da Bertolli il 28 agosto 169293. Una giovane di Pirano, Lucia Contenti aveva querela-to Andrea Viezzoli, suo promesso sposo, sia presso il foro ecclesiastico che in quello secolare. Nel processo istruito dalla curia vescovile di Capodistria doveva essere accertato se tra i due fossero stati contratti gli sponsali che impedivano al Viezzoli di celebrare un altro matrimonio. Il podestà di Pira-no aveva invece proceduto contro il giovane per il delitto di stupro94. I due procedimenti potevano infatti benissimo coesistere in base alla tradizionale suddivisione mixti fori tra la giurisdizione ecclesiastica e quella secolare.Venuto a conoscenza che la curia vescovile di Capodistria aveva pronunciato una sentenza in cui si era stabilito che gli sponsali non erano validi e che il Vezzoli poteva contrarre matrimonio con una altra giovane, dietro il ver-samento di una somma di denaro alla Contenti, il podestà di Pirano reagì informando il Consiglio dei dieci, il quale richiese un parere al Bertolli. Il consultore osservò come le due giurisdizioni, ecclesiastica e secolare, aves-sero correttamente avviato i due procedimenti giudiziari nelle rispettive competenze. La pronuncia della sentenza del foro ecclesiastico doveva però essere annullata, in quanto aveva esorbitato dalle sue competenze:

Fino a tanto che ha detto non esservi sponsali e che l’huomo è in libertà di con-trahere con chi gli piace camina bene il suo giudicio, ma quando l’ha obligato a dover depositare ducati cinquanta da darsi alla donna, che viene ad esser una

91 Cfr. a questo proposito il capitolo L’emergere della tradizione, pp. 173-201.92 Come si vedrà, nel corso del Settecento i consultori in iure saranno chiamati a dirimere questioni che entravano direttamente nell’essenza del sacramento matrimoniale che Bertolli, negli anni in cui scriveva, indicava invece come di assoluta prerogativa ecclesiastica. La pro-gressiva ingerenza del Senato veneziano, anche se limitata ad una casistica che rifletteva la rilevanza dei conflitti in corso, è attestata dalle richieste rivolte ai consultori in merito alla presunta validità di un matrimonio clandestino pur in presenza della precedente esistenza di sponsali celebrati dal nubendo con altra donna.93 A.S.V., Consultori in iure, filza 143, 28 agosto 1692.94 Rientravano generalmente nel delitto di stupro (o stupro volontario) anche i casi di sedu-zione provvisti del consenso della donna. Tra Sei e Settecento invalse però la prassi che le accuse avrebbero dovuto essere sorrette dall’eventuale promessa di matrimonio. Su questo tema, assai complesso, cfr. C. Povolo, Il processo Guarnieri. Buie-Capodistria, 1771, Koper 1996.

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condanna et una pena del delitto, si è avanzato fuori della sua giurisdittione et si è intruso in ciò che spetta al foro secolare95.

Una valutazione che, se applicata, avrebbe inevitabilmente ridotto i forti margini di mediazione svolti dalla giustizia ecclesiastica. Con i suoi consulti in materia matrimoniale Giovan Maria Bertolli testimo-nia un nuovo interesse della Repubblica nei confronti di pratiche sociali che per secoli la Chiesa aveva duttilmente regolamentato, se non tollerato. Le norme tridentine, pur avendo radicalmente cambiato la tradizionale con-cezione del matrimonio, ancora a distanza di più di un secolo non avevano del tutto messo fuori gioco riti e pratiche matrimoniali che, soprattutto nel mondo contadino, s’innervavano profondamente nelle relazioni di parente-la e di comunità.

95 Ibidem, filza 142, alla data, cc. 143-144.

LA PICCOLA COMUNITÀ E LE SUE CONSUETUDINI

Alcuni problemi di definizione

Consuetudini e piccola comunità: due concetti che per molti secoli proce-dettero di comune e sostanziale accordo, riflettendo per lo più un unicum culturale e ideologico. In realtà, come vedremo, i riferimenti alla consuetu-dine furono ampiamente utilizzati dai giuristi colti e riferiti pure ad ambiti territoriali come lo stato e le città, anche se con significati molteplici e con-traddittori1. Non diversamente, il concetto di piccola comunità presuppone un approccio interpretativo in cui i tratti territoriali e culturali sono con-notati da una pluralità di variabili, anche se tra loro collegate, più o meno direttamente, dal sostrato della consuetudine.I due termini non sono essenzialmente definibili dai consueti tratti istituzio-nali e giuridici, nel senso cioè che la piccola comunità non è tanto individua-bile per il solo fatto di costituire una sorta di unità amministrativa, così come la consuetudine non si piega ad essere unicamente definita come un sistema giuridico alternativo alla legge scritta2.

1 Giuristi ed antropologi si sono soffermati sul concetto di consuetudine, cercando di indi-viduarne sia i tratti teorici che quelli materiali. Una delineazione della consuetudine giuridica si ha in M. G. Losano, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extraeuropei, Bari 2000, pp. 257-323. Di grande rilievo è la voce scritta diversi anni orsono da N. Bobbio, Consuetu-dine (teoria generale), in Enciclopedia del diritto, IX (1961), pp. 426-433. Importante per una storia della definizione del concetto di consuetudine è Assier-Andrieu, Il tempo e il diritto dell’identità collettiva. Il destino antropologico del concetto di consuetudine, in “Sociologia del diritto”, XXVI (1999/3), pp. 15-50, con un’ampia delineazione bibliografica sul tema. Pur riferito prevalen-temente ai sistemi giuridici tradizionali africani, il concetto di consuetudine è esaminato, in stretta correlazione a quello di comunità da N. Rouland, Antropologia giuridica, Milano 1992 (Paris 1988), in particolare alle pp. 177-200. Ampie e originali argomentazioni sulle consuetu-dini (e sulla loro declinazione nella vendetta barbaricina) in A. Pigliaru, Il banditismo in Sarde-gna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Milano 1975.2 Ed in quanto tale è spesso associata ad una delle manifestazioni più significative del di-ritto colto e cioè la prassi giudiziaria costituita dai precedenti, che, ad esempio, come nel caso del common law si erge a vero e proprio sistema ordinatore di una società nel suo complesso, cfr. ad esempio M. G. Losano, I grandi sistemi giuridici..., pp. 262-278. È evidente che l’adozione

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E va anche aggiunto che l’individuazione di un sistema culturale che riunisce i due concetti di piccola comunità e consuetudine non significa necessaria-mente privilegiare un’analisi storica condotta su una scala di valori micro, rispetto a realtà (o problemi) territoriali più ampie (come ad esempio lo stato)3.C’è evidentemente qualcosa di più o, per meglio dire, di altro. E questo altro si configura soprattutto per la delineazione di un soggetto storico fortemente connotato per la sua complessità, unicità e, potremmo aggiungere, riluttan-za ad essere descritto secondo parametri interpretativi astratti e facilmente comparabili con altre realtà.Come definire la piccola comunità e le sue consuetudini? Appare ovvio che la base territoriale, più o meno definita sul piano istituzionale (comunità, ma si pensi anche alla contrada), è un dato che seppure, di per sé, non è sufficiente a inglobare la complessità del concetto insito nel termine piccola comunità, è comunque un dato che permette di sgombrare il terreno da una definizione più lata di comunità, comprensiva, tra l’altro, di tutti quei raggruppamen-ti di persone che in comune gestivano interessi, valori e pratiche religiose (confraternite, fraglie, ecc.). Anche se va tenuto presente come i contorni istituzionali ed amministrativi della comunità rappresentassero molto pro-babilmente una definizione post factum di insediamenti che in origine si era-no costituiti all’insegna di fattori geografici, economici e demografici.Il fattore territoriale è dunque importante, anche perché, come si vedrà, presuppone un rapporto costante ed ineliminabile tra la piccola comunità e il contesto ambientale ed ecologico entro cui questa si colloca.La base territoriale pone, a sua volta, problemi di distinzione interna non

di un simile concetto culturale di consuetudine, tende a mettere in secondo piano alcuni dei tratti più significativi del diritto consuetudinario, che invece, in questo saggio, si è voluto non solo porre in rilievo, ma pure indicare come l’essenza di un mondo, che per le sue stesse dinamiche culturali e antropologiche si poneva spesso in antitesi con il diritto colto e scritto. Se alcuni tratti caratteristici della consuetudine (come ad esempio il sistema di faida nell’età medievale) potevano coniugarsi con la procedura elaborata dal diritto colto, va comunque precisato che si trattava per lo più di una commistione culturale e giuridica volta o a strumen-talizzare o a ingabbiare i conflitti in un sistema che, per la sua logica di fondo, era antitetico a quello consuetudinario.3 Un approccio definito microstoria e che ha goduto di ampia fortuna soprattutto in Italia, cfr. per un dibattito gli interventi di C. Ginzburg, E. Grendi e J. Revel in “Quaderni storici”, 86 (1994), pp. 511-575. La distinzione qui prospettata non è di poco conto. Il concetto di con-suetudine testé descritto presuppone, come nel caso della microstoria, una prospettiva, per così dire, tendenzialmente e inevitabilmente alternativa al modo consueto di porsi di fronte alla storia. Ma, a diversità della microstoria, esso non si caratterizza essenzialmente per le modalità dell’approccio interpretativo (pure, di per sé presenti), ma per i suoi stessi conte-nuti, cfr. per le particolari caratteristiche delle consuetudini le osservazioni di A. Pigliaru, Il banditismo..., p. 187 e ss.

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irrilevanti. Comunità su base territoriale è infatti una regione, una città, una quasi città (per usare un’espressione usata dagli storici): entità istituzionali (e non) indubbiamente provviste di elementi comuni. Di certo, però, quando noi ci volgiamo alla storia delle comunità (e alle loro consuetudini), intendiamo riferirci implicitamente ad una storia delle co-munità rurali, escludendo, senza troppe riflessioni di metodo, comunità di-sposte su base territoriale ampia o cittadina. Come vedremo, la cosa non è di poco conto perché, evidentemente, alla base di tale scelta si collocano alcuni criteri che potremmo apparentemente definire ideologici, ma che in realtà sono provvisti, comunque, di riferimenti storici ed antropologici ben precisi.Appare evidente che la nozione di comunità che ci interessa, prima ancora di connotarsi per la sua disposizione geografica (nel contado, nella campagna) sembra caratterizzarsi per la sua piccola dimensione (la piccola comunità).Una dimensione antropologica, dunque, prima ancora di essere geografica e questo non tanto perché esistessero pure comunità rurali e montane di amplissima estensione territoriale.La dimensione antropologica rinvia infatti ad uno dei nodi centrali della sto-ria delle comunità e delle loro consuetudini e suggerisce come l’accostamen-to culturale che si è scelto sia opportuno sul piano storico ed interpretativo. Elemento determinante della vita di una comunità era, ed è, infatti, quel reticolo comune costituito di interrelazioni sociali e famigliari che faceva sì che dimensione individuale e dimensione collettiva si fondessero in un uni-cum che costituiva la base unitaria della stessa comunità. Questo unicum era fondato sulla rete di conoscenze che annodava costantemente il passato al presente, che poneva ogni individuo in stretta relazione con gli altri membri della comunità (‘tutti conoscono tutti’) e che, infine, permetteva di indivi-duare una serie di valori (spesso più presunti che reali) che opponevano la comunità stessa a quelle circonvicine. 4

4 Una definizione del modello comunitario in base ad alcune caratteristiche che i suoi mem-bri condividono (una stessa vita, la totalità delle specificità e un comune campo decisionale) in N. Rouland, Antropologia giuridica..., pp. 197-199. L’approccio di Rouland, così come quello di Pitt-Rivers (per il quale cfr. le pagine seguenti) sottolinea sia gli aspetti che più propriamente si possono definire unitari, che quelli incentrati, all’inverso, sul conflitto. Una distinzione che trova un riscontro significativo negli stessi valori delle consuetudini, improntati, da un lato, da riferimenti ideali, e, dall’altro, dall’ordine giuridico vissuto. E, come sottolinea Rouland, “il controllo sociale esercitato dal diritto nell’ordine del vissuto ha per fine la gestione dei conflitti ..., o restaurando l’ordine iniziale o creandone uno di nuovo, nel rispetto, per quanto possibile, dell’ordine ideale”, cfr. Ibidem, p. 186. Diversamente Robert Redfield, in quello che può essere considerato un classico, La piccola comunità, la società e la cultura contadina, Torino 1976 (Chicago 1956), svolge la sua indagine accentuando gli aspetti ideali della vita della co-munità, a discapito dei suoi mutamenti che interagivano con i conflitti interni (cfr. per questo aspetto l’Introduzione all’edizione italiana di Lucetta Scaraffia).

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La dimensione antropologica (e, come vedremo, pure giuridica) della comu-nità, anche se assai rilevante, non è comunque tale da esaurire quei problemi di definizione di cui parlavamo. Talune comunità, anche se territorialmente e demograficamente piccole, erano attraversate al loro interno da una linea invisibile che, in base alla nozione di status e di precedenza, spezzava quell’unicum di cui si parlava. Comunità solitamente provviste di un’identità istituzionale particolare, la quale faceva sì che (come ad esempio in Istria o nel Trevisano, durante il dominio veneto), nonostante l’entità territoriale e demografica assai esigua, si creasse un diaframma al loro interno.In Istria le città disposte lungo la costa o taluni centri interni (come Montona e Pinguente) erano non solo insignite di una dignità politica, attribuita dai rappresentanti veneziani inviati in loco, ma erano pure connotate dall’esi-stenza di una stratificazione sociale che filtrava sia i rapporti con il territorio che le gerarchie politiche interne5. Va pure detto che, nell’ambito della stessa piccola comunità provvista di va-lori egualitari, si collocassero pure reti di relazioni privilegiate che facevano capo alle contrade. Reti di relazione che in molti casi creavano tensioni con le contrade limitrofe, oppure potevano persino divenire oppositive nei con-fronti della stessa struttura istituzionale della comunità. Ma la propensione rivolta da queste più modeste unità ad assumere una conformazione istitu-zionale compiuta (comunità o parrocchia) indica che le questioni in gioco erano molteplici. E, soprattutto, rende più sfaccettata la dimensione istitu-zionale della piccola comunità.Infine, molti degli elementi che abbiamo individuato nella dimensione an-tropologica della comunità possono benissimo essere riferiti al contesto istituzionale della parrocchia (e della comunità parrocchiale). E tale osser-

5 Il caso istriano è comunque assai interessante sia per la complessità delle culture esi-stenti, sia per talune specificità economiche e demografiche che interagivano profondamente al suo interno, condizionando i rapporti tra le città e i loro territori. La consistente rarefa-zione demografica incideva spesso sul consueto dominio esercitato dai centri cittadini nei confronti delle piccole comunità. È ad esempio paradossale, ma significativa, la situazione rappresentata nel 1559 alla Signoria veneziana dai morlacchi (popolazione che proveniva dalla Dalmazia) abitanti nei dintorni del centro di Due Castelli. Come esprimeva il loro rappre-sentante, essi avevano costruiti più di 2000 casoni “con le nostre case, orti, luochi, pradi et havemo redutto a cultura molte campagne sterile et luochi aspri e spinosi”. Gli esigui abitanti di Due Castelli avevano pensato bene di costringerli a condurre le loro entrate tra le mura del castello. “Nel qual luocho”, come facevano ancora notare gli otto rappresentanti dei mor-lacchi, “non habbiamo né casa, né locho da reponerle, oltra che tal cosa è contra l’antiqua osservantia e costume del paese e cosa insolita nell’Istria...havendone fatto comandamento, in pena de lire 20, che venissimo habitar in el castello, contra la decision di Vostra Serenità”, Archivio di Stato di Venezia (=A.S.V.), Collegio, Risposte di fuori, filza 313, 24 luglio 1559. Sull’I-stria cfr. E. Ivetic, Oltremare. L’Istria nell’ultimo dominio veneto, Venezia 2000.

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vazione sembra apparire tanto più pertinente se solo si riflette sulla forte accezione culturale dei valori religiosi e sul rilievo assunto dalla parrocchia a partire dall’età moderna6. Va comunque rilevato che la sovrapposizione comunità/parrocchia è in re-altà solo apparente. E non solo perché in molti casi non esisteva una coin-cidenza di confini tra le due, ma soprattutto perché i valori parentali che a lungo dominarono la società europea erano provvisti di una dimensione religiosa propria, che si esprimeva, in più di un caso, in forme oppositive rispetto all’entità parrocchia e ai valori che le erano sottesi. Come è stato notato da John Bossy, ancora agli inizi del XVI secolo l’Europa era costituita di comunità autonome la cui impronta ecclesiastica non era ancora stata necessariamente definita. Sarà solo a partire dal periodo controriformisti-co che si avvierà un sistema di conformità parrocchiale che trasformerà la Chiesa in un’istituzione fondata sulle parrocchie7.La piccola comunità era dunque un’unità territoriale ed istituzionale costitu-ita di individui e famiglie e caratterizzata da una dimensione antropologica in cui le reti di relazione erano a base egualitaria e dominate dai legami di parentela e da quello che possiamo definire il regime giuridico della consue-tudine.Il carattere egualitario delle comunità contadine è stato ripetutamente sotto-lineato dagli antropologi. Le disparità di ricchezza, di ruoli e di mestieri non erano tali da creare distinzioni di status e di precedenza. E tale caratteristica faceva sì che gli scambi matrimoniali e le alleanze parentali si allacciassero

6 Magistrale, ed ancora fondamentale, il vecchio libro di G. Le Bras, La chiesa e il villaggio, Torino 1979 (Paris 1976). Il Le Bras osservava: “Il villaggio è prima di tutto un agglomerato in cui noi distinguiamo elementi profani ed elementi sacri. Se il villaggio abbia un carattere economico, se sia cioè un luogo di scambio, un mercato, in opposizione al centro di produ-zione che è la proprietà; se abbia un carattere militare come il castello, o sociale, in quanto raggruppamento di famiglie, forma evoluta del clan; questi problemi possono essere studiati solo nella storia di ciascun popolo. Che invece vi siano nel villaggio elementi sacri, un dio protettore, un tempio, è sicuramente attestato, nei villaggi francesi, dalla presenza della chie-sa. Ma anche nella chiesa è possibile distinguere elementi sacri e profani. Essa ha un fine soprannaturale, cristianizzare il villaggio, e condurre ciascuno dei suoi abitanti alla salvezza. Ma lo persegue con mezzi temporali: personale, edifici, patrimonio, strumenti intellettuali”, cfr. p. 20.7 J. Bossy, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, Torino 1998. Come ha osservato lo storico anglosassone “la Chiesa medievale stava dalla parte della vita, mentre la Chiesa della Controriforma le era ostile. Vorrei dire, in sostanza, che ciò che rendeva la Chiesa medievale, a livello popolare, una vera comunità, per quanto ignorante e deviante, era l’accettazione del gruppo parentale, naturale e artificiale, in quanto elemento costitutivo della sua vita...”, p. 30.

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nell’ambito della comunità o comunque in un contesto geografico teso a privi-legiare innanzitutto le relazioni di vicinato8. La comunità contadina a base egualitaria privilegiava dunque quelle strategie che sono state definite di cooperazione. Strategie, cioè, che miravano a privi-legiare lo scambio delle donne in ambiti quanto più ristretti possibili.Se la base egualitaria veniva meno, si creavano immediatamente strategie di conquista rivolte ad allacciare più vantaggiosi scambi matrimoniali con l’esterno, mentre all’interno della comunità si creavano nuovi criteri di di-stinzione e, possibilmente, di status9.La base egualitaria e di cooperazione era strettamente collegata al prevale-re delle consuetudini orali. Il rinvio all’oralità e alla tradizione, tipico delle consuetudini, non sentiva infatti l’esigenza di ricorrere alla scrittura. Erano le relazioni parentali a garantire l’osservanza di determinate norme. Anche quando, soprattutto a partire dal Cinque-Seicento, in molte comunità rurali il ricorso al notaio diverrà frequente, saranno comunque sempre le consue-tudini a caratterizzare l’impronta decisiva degli scambi comunitari.Le strategie di conquista divenivano dirompenti rispetto al mondo consue-tudinario e alle tradizioni ed immettevano nell’ambito della comunità la propensione a ricorrere alla scrittura. Era inevitabile che, su questo piano, si accendessero costantemente conflitti di un certo rilievo: e gli archivi lo attestano generosamente, offrendo allo storico un’amplissima documenta-zione in merito.Ecco un esempio significativo, che traiamo dagli archivi veneziani. Siamo a Mirano (un piccolo villaggio situato tra Padova e Venezia), sul finire del Cinquecento. Una piccola comunità, dunque. E, inevitabilmente, c’è chi am-bisce ad un matrimonio di profitto per la propria figliola e, soprattutto, per il proprio parentado. Così Agostino Violato, mercante del luogo, pensa bene di destinare la sua unica figlia a Girolamo Mutona, cittadino di Treviso. La facoltà del Violato è ingente e non è strano che Antonio Bertolin, fornaio del luogo, aspiri ad impalmare la giovane. È forse arguibile che tra i due ci sia stato pure uno scambio amoroso. Nel giorno delle nozze i due sposi vengono accolti all’uscita della chiesa con frastuoni, schiamazzi e insulti allusivi. E la loro prima notte è accompagnata da una mattinata rumorosa, cui non è estraneo il pretendente locale rifiutato10.

8 J. Pitt-Rivers, Introduction, in Mediterranean countrymen. Essays in the social anthropology of the Mediterranean, Paris 1963, pp. 9-25.9 Su questo problema cfr. A. Burguière, Le cento e una famiglie d’Europa, in Storia universale della famiglia, a cura di J. Goody, 2 voll., Milano 1988 (Paris 1986), vol. II , pp. 87-94.10 A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 344, 2 marzo 1591: “Et adunati tutti insieme in una casa sulla piazza, avanti la quale convenivano i sposi passare con la loro compagnia nello andare al sponsalitio, aspettato il ritorno della chiesa e tutti questi ingiuriosi huomini alle

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Le strategie di conquista laceravano equilibri matrimoniali a lungo soppesati e suscitavano reazioni che si avvalevano del linguaggio rude ma significativo della consuetudine.La base consuetudinaria delle comunità rimarrà prevalente per molti secoli, anche quando, a partire dall’Ottocento, le codificazioni statuali tenderanno a derubricare le consuetudini in usi, oppure a negarle del tutto. Basti pensare non solo alla persistenza delle mattinate o dei riti giovanili sino alla seconda metà del Novecento (in alcune comunità collinari e montane)11, ma anche alla pratica di non registrare taluni passaggi di proprietà, oppure al ricorso a sistemi di successione che deviavano dal dettato dei codici12.A tale proposito, vale la pena di ricordare come, con la nascita dello stato territoriale italiano, l’istituzione del giudice conciliatore, (ma si ricordi pure il giudice di pace di età napoleonica), provvisto di un potere giurisdizionale di notevole rilievo, mirava probabilmente ad incorporare nell’ambito istituzio-nale e giudiziario l’estrema propensione da parte delle comunità di risolvere al proprio interno una vasta gamma di conflitti (come, ad esempio, talune divergenze successorie)13.Le consuetudini avevano tanta maggiore presa sulla popolazione quanto più la base egualitaria manteneva coesa la comunità. La stratificazione economi-ca non costituiva necessariamente una messa in discussione delle consuetu-dini, se non si accompagnava ad una divaricazione interna impostata sullo status e la precedenza14. In tal caso il ricorso a normative esterne diveniva inevitabile e suscitava un forte conflitto nell’ambito della stessa comunità15.

finestre gridando:’becchi, puttane, ecc.’, con le più obscene et vituperose ingiurie dei più vili et nefandi postribuli, con strepito de voci e vituperii accompagnarono quella honesta compa-gnia d’huomini e di donne, non mancando tuttavia più volte di ripetere i medesimi strepiti, con sbarare aechibugi et altri insolenti et vituperosi rumori, continuando sino alle sei hore di notte”11 Cfr. M. Fincardi, La cioccona. Dati etnografici dalla provincia reggiana, in “L’Almanacco”, 12 (1988), pp. 19-43.12 Cfr. per alcuni dei problemi connessi al rapporto tra diritto formale e diritto vivente P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1942), Bologna 1974, pp. 25-32.13 Sulla figura del giudice conciliatore L. Neri, L’istituzione dei giudici conciliatori, Torino 1866.14 Su quest’ordine di problemi si veda in particolare J. Pitt-Rivers, The fate of Shechem or the politics of sex. Essays in the anthropology of the Mediterranean, Cambridge 1977, pp. 13-17; M. P. Di Bella, Name, blood and miracles: the claims to renown in traditional Sicily, in Honor and grace in anthropology, a cura di J. P. Peristiany e J. Pitt-Rivers, Cambridge 1992, pp. 152-153.15 N. Rouland, Antropologia giuridica…, p. 197, il quale osserva che “la scrittura permette in effetti un controllo del tempo più spinto e più facile di quello consentito dall’oralità. Essa è uno strumento di potere relativamente facile da usare, a motivo del suo anonimato, e si adat-ta bene a società fortemente gerarchiche, complesse, imperniate sull’individuo o sul gruppo. L’oralità sembra a priori più rudimentale: il messaggio orale è di portata limitata, più difficile da conservare. Tuttavia l’apparente fragilità tende alla preservazione di un modello sociale

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Ma come definire la consuetudine? E, soprattutto, com’era intesa da chi con essa conviveva? Il concetto di consuetudine che si è qui adottato sembra presupporre un insieme di aspetti che l’etnologia, per molto tempo, è stata propensa a definire riti o folklore16. Un concetto lato, insomma. Vedremo come uno dei problemi centrali inerenti la consuetudine sia l’inserimento di una serie di pratiche sociali in una sorta di codice normativo compiuto, in grado eventualmente di racchiuderle tutte17.

Potere della parola, potere della scrittura

Il codice consuetudinario sembra dunque apparentemente ribadire la forza inespugnabile della tradizione e i valori imprescrittibili collegati alla religio-

più equilibrato – il comunitarismo – in cui gruppi e individui, nel necessario bisogno che han-no gli uni degli altri, più che contrapporsi, collaborano”.16 La storia controversa del rapporto tra discipline demologiche (ovvero inerenti la storia delle tradizioni popolari) e antropologia culturale è affrontata da P. Clemente, Il punto sul folklore, in Oltre il folklore, a cura di P. Clemente e F. Mugnaini, Roma 2001. Come osserva lo studioso, la parola folklore è stata introdotta negli studi agli inizi dell’Ottocento: “il folklore è nato dunque per il bisogno affermatosi con il romanticismo di utilizzare la risorsa culturale delle ‘radici’ dei popoli e conserva questa potenzialità di luogo d’appello delle civiltà”, p. 192. Clemente ricorda il progetto francese dell’Accadémie Celtique volto ad indagare sulla vita delle tradizioni popolari. Sull’applicazione di questo progetto per il Veneto cfr. F. Riva, Tradi-zioni popolare venete secondo i documenti dell’inchiesta del Regno italico (1811), in “Istituto veneto di scienze, lettere ed arti”, XXXIV (1966), pp. 3-93; e U. Bernardi, Gli studi sul costume e le tradizioni popolari nell’Ottocento, in Storia della cultura veneta. Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, 6, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, Vicenza 1986, pp. 311-341. L’indagine del folklore è considerata come attività da entomologo, incline a classificare e ad essere investita dal dram-ma della scomparsa quasi inevitabile delle tradizioni popolari . Clemente osserva che “in real-tà, negli studi sul folklore è mancata una precisa teoria del cambiamento sociale e culturale e si è fatto ricordo a modelli molto semplici che hanno indotto a opporre il nuovo e il vecchio in modo astorico: il nuovo e il vecchio ci sono a ogni generazione”, P. Clemente, Il punto…, p. 194.17 Soffermandosi sui primi studi che, sin dal secolo XVIII, affrontarono il concetto di con-suetudine, Louis Assier-Andrieu ricorda P.-J. Grosley, il quale intravide in essa “un elemento di capacità d’adattamento alla realtà mutevole dei rapporti umani, immediatamente dedu-cibile dall’esservazione empirica dei fatti sociali, e un elemento di essenzialità fondatrice di questi stessi rapporti, inscritto in una regolarità indisponibile e in una permanenza negatrice di ogni storicità. La consuetudine è dunque sia il luogo vivente del cambiamento, sia il ri-chiamo imperioso dell’obbedienza alle origini o, diremmo oggi, alla struttura, atemporale e astorica per definizione”. Con A.-Y Gouget il concetto di consuetudine acquisisce storicità e dinamicità, collegandosi al suo specifico contesto materiale: “se la ricerca della sua fonte primaria conduce, come già visto, ad una rappresentazione atemporale della consuetudine, quella delle sue cause materiali invita, invece, a relativizzarne l’influenza nel contesto di una determinata società, in un dato momento della sua evoluzione, e a situarla in rapporto a una pluralità di determinanti sociali che essa a questo punto cessa d’inglobare...”, cfr. L. Assier-Andrieu, Il tempo e il diritto..., pp. 20-21 e 27.

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ne, allo spazio e al tempo. Ma, come dimostra la vicenda carnica esaminata in questo volume, le pratiche sociali che si svolgevano all’insegna della me-diazione e dei rapporti di forza erano estremamente sensibili ad accoglie-re le innovazioni e i mutamenti sociali che investivano la comunità nel suo complesso.La difficoltà a descrivere ed interpretare l’essenza delle consuetudini e la loro estrema potenzialità a modificarsi e ad innovarsi è essenzialmente la conseguenza delle tensioni ideologiche insite nei valori ideologici portanti della tradizione. Le traversie giudiziarie della famiglia Corradazzo rivelano inoltre un altro aspetto importante: se la messa in discussione delle regole consuetudinarie proveniva essenzialmente dall’esterno, ciò poteva però re-alizzarsi solo perché veniva meno quello spirito egualitario di cui si diceva. E ciò avveniva soprattutto quando talune famiglie emergenti e protese a svi-luppare una strategia di conquista ricorrevano ad un linguaggio giuridico diverso ed utilizzavano strumentalmente il richiamo della legge scritta18.Il rapporto tra consuetudini e legge scritta mette in evidenza il diaframma che si viene a creare tra l’esigenza di ordine e di legge, implicito nella for-mulazione di ogni legge scritta (tendenzialmente astratta, generale e non facilmente adattabile ai singoli casi) e il senso di giustizia, di cui ogni società è provvista: un senso di giustizia che le consuetudini riflettevano (e in par-te ancora riflettono) al massimo grado, in quanto esse erano provviste, di quell’adattabilità necessaria a risolvere ogni conflitto senza alterare in pro-fondità l’armonia e gli equilibri sociali (come si dirà a proposito del sistema delle paci)19.Non va comunque trascurato il fatto che la dimensione della consuetudine nell’ambito della piccola comunità era strettamente correlata al mondo della campagna, ai suoi riti, al suo tempo e al suo spazio.Tutti questi elementi sono ad esempio bene sviluppati sul piano linguistico e delle immagini dall’avvocato che negli anni ’70 del Cinquecento stese la sup-plica per conto dei poveri contadini della podesteria di Treviso. La città aveva

18 Sulla vicenda cfr. pp. 15-45.19 In queste società la faida costituiva l’elemento che regolamentava i conflitti, una strut-tura fondata su regole: “la faida, nel suo tipo ideale, presuppone una struttura familiare segmentata, ossia i fratelli possono litigare tra di loro senza che nessuno intervenga, ma formeranno un fronte comune qualora uno di essi venga attaccato da un cugino, e ancora, ac-cantoneranno l’ostilità nei confronti di quest’ultimo raccogliendosi in difesa contro l’attacco di un estraneo”. Laddove un’autorità politica superiore tendeva a formarsi, la struttura della faida veniva incrinata, suscitando la reazione dei gruppi parentali. Nel Nord Africa, come osservò uno studioso della popolazione berbera “nella maggior parte delle regioni è diffusa la convinzione che quando il sultano controlla l’area, vengano garantiti l’ordine e la legalità, ma non si afferma la giustizia...”, cfr. J. Casey, La famiglia nella storia, Bari 1991 (Oxford 1989), pp. 55 e 62.

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proibito che si cacciasse nel territorio alla paissà, cioè con lacci, reti e cani. Si trattava di una risorsa inviata direttamente da Dio e dal cielo, sostenevano i distrettuali: una risorsa che non si poteva togliere loro che, a diversità dei cittadini, non potevano disporre di falchi, sparvieri e altri uccelli da rapina20.Riti e consuetudini che contrastavano con la cultura cittadina. E che in taluni casi riflettevano vere e proprie opposizioni culturali che gli avvocati filtra-vano attraverso le loro scritture. Come nella supplica presentata nel 1539 dai morlacchi insediati nei villaggi circostanti il centro istriano di Dignano. La prosa avvocatesca, abile e sottile nelle argomentazioni, si svolge in un lungo cahier de doléances che elenca sì i soprusi cittadini, ma ancor più fa trapelare usi e costumi che non erano facilmente accettati da una cultura stratificata21.La forza e la persistenza delle consuetudini si ricollegano, evidentemente, ai rapporti politici ed istituzionali entro cui si collocava la piccola comuni-tà. E a questi si deve probabilmente accostare pure quel fenomeno che gli storici del diritto hanno classificato come processo di omologazione, cioè della redazione per iscritto delle consuetudini. Un processo che fu massiccio in Francia a partire dal Quattrocento, ma che è possibile identificare pure nelle statuizioni che caratterizzarono (anche se, per lo più, solamente per alcuni specifici aspetti) molte comunità degli stati territoriali italiani a partire dal basso medioevo22.Questo processo di omologazione rifletteva in primis l’influenza politica delle città e del loro dominio sul territorio. Ricerche più specifiche e puntuali at-testano comunque come la base di partenza (con la richiesta di approvazione cittadina) sia per lo più costituita da conflitti interni alla comunità23. La stessa normativa cittadina attestò indirettamente la forza coesiva della consuetudine, prevedendo la responsabilità collettiva nei confronti della co-munità per molti reati di cui non era possibile conoscere l’autore.La redazione per iscritto delle consuetudini costituiva comunque un fattore

20 A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 330, 17 febbraio 1575 more veneto.21 Cfr. La supplica in A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 315, 24 maggio 1561. Ad esempio i capitoli cinque e sei recitavano: “Che li terreni per noi murlachi, sì ben per dui anni per noi sono lassati repossar come fano l’istessi de Dignano, non ne siano tolti, ma che el tertio anno li possiamo lavorar come è justo ... Che possiamo tenir nelle nostre case porci desligati, come per più decissione està dechiarito, senza esser condenati, mettendo pertiò quelle pene parerà a Vostra Signoria”.22 Cfr. R. C. Van Caenegem, I signori del diritto, Milano 1991 (Cambridge 1987), pp. 92-93.23 C. Povolo, L’intrigo dell’onore. Poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Sei-cento, Verona 1997, pp. 68 e sgg. La redazione per iscritto di talune consuetudini (in partico-lare quelle che, per dirla con Rouland, concernevano il rapporto uomo-cose), poteva pure provenire da esigenze di difesa nei confronti degli assetti politici ed economici esterni. Ma per lo più esse si inserivano all’interno di un iter conflittuale che coinvolgeva l’ambito stesso della piccola comunità.

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determinante alla luce dei rapporti politici interni alla comunità. Un caso as-sai interessante è ad esempio quello della comunità istriana di Momiano, che nel 1521, di seguito alla sua conquista da parte di Pirano, era stata costretta a redigere le proprie consuetudini in base ai mutati rapporti di forza. Divenuta poi giurisdizione signorile della famiglia Rota, quelle consuetudini scritte avrebbero costituito nei secoli seguenti motivi di attrito tra la comunità e i feudatari. Nel 1582, la comunità, per richiedere l’esenzione da un nuovo da-zio sui vini imposto da Venezia, ricordava in una supplica quell’accordo del 1521 in cui “furono costituiti molti ordeni et constitutioni con le quali noi poveri huomini di Momiano havessimo a vivere, sostenendo molte et impor-tantissime gravezze, quali ogni anno siamo tenuti a contribuire al castellano di detto luogo”. 24 Nel Sei e Settecento quelle consuetudini vennero però ripetutamente impugnate dalla comunità e contestate alla luce dei nuovi rapporti di forza. 25

Una buona parte delle consuetudini conservò però le sue caratteristiche aperte ed innovative e c’è da chiedersi in quale misura questo aspetto costi-tuì un freno rilevante alla penetrazione culturale e giuridica delle città. Si pensi, ad esempio, al quasi esclusivo monopolio della giustizia pena-le goduto dai tribunali cittadini e alla loro eventuale capacità (soprattutto tramite procedure inquisitorie) di vanificare o indebolire la faida rurale. È probabile che il linguaggio della parentela si riformulasse costantemente, per impedire che la giustizia cittadina divenisse l’elemento risolutore dei conflitti interni26. In questo senso e direzione – ma non è che un esempio – andrebbero esaminati e valutati gli atti di pace e i compromessi (con le loro trasformazioni formali) che caratterizzavano i rapporti parentali27.La pace costituiva un elemento determinante nella vita di una comunità e, come tale, era parte integrante dei conflitti. Essa era strettamente collegata al mondo della consuetudine, in quanto la sua stessa essenza era costituita e mediata sul filo degli equilibri e dei rapporti sociali. La sua dimensione era

24 Si veda la supplica in A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 336, anno 158225 Si veda a tal proposito l’ampio fascicolo processuale istruito in periodo austriaco in cui sono ricordati i momenti più significativi dell’acceso conflitto intercorso tra la comunità e la famiglia Rota proprio sull’interpretazione da assegnare alle consuetudini messe per iscritto nel 1521, cfr. Archivio di Stato di Trieste, Atti amministrativi dell’Istria (1797-1813), busta 14.26 Interessante, sotto questo profilo, il testo di G. Pinna, Il pastore sardo e la giustizia, Nuoro 2003 (prima edizione Cagliari 1967). L’autore, avvocato di Nuoro, descrisse la società barba-ricina alla luce della sua attività e della sua conoscenza del processo penale applicato in una società pastorale e fortemente ancorata alla faida e alla consuetudine.27 Per tutti questi problemi cfr. S. Roberts, The study of dispute: anthropological perspectives, in Disputes and settlements. Law and human relations in the West, a cura di J. Bossy, Cambridge 1983, pp. 12-14. Interessante è pure il capitolo La composizione delle controversie nelle società senza stato in P. Stein, I fondamenti del diritto europeo, Milano 1987 (London 1984), pp. 3-12.

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inoltre profondamente religiosa, in quanto ricreava l’armonia tra il mondo dei vivi e quello dei morti (non a caso molte paci erano celebrate nel cimi-tero del paese). Solo la pace, paradossalmente, poteva legittimare un nuovo conflitto. 28

Va inoltre osservato che se (tranne che per talune aree giurisdizionali ben precise) le antiche forme di risoluzione dei conflitti (che sono state riassunte nella fortunata formula di community law) vennero via via vanificate o inde-bolite (come ad esempio la giustizia degli astanti in Friuli), la capacità delle comunità di mantenere la loro coesione egualitaria costituì un certo argine all’irruzione delle procedure dotte29. I nessi tra consuetudine e legge scritta inevitabilmente assumevano un tim-bro politico se solo si considera che l’applicazione di quest’ultima era affida-ta ad un personale colto, provvisto di conoscenze tecniche autoreferenziali e tendenzialmente incline a mettere in secondo piano l’ordine della pace che muoveva i conflitti parentali, per sottolineare invece l’importanza di criteri di ordine diverso, tesi, all’inverso, a mettere in primo piano la sicurezza e la tranquillità sociale30. Un timbro politico che si rifletteva traumaticamente nell’ambito della piccola comunità e che è possibile avvertire in particolar modo esaminando le trasformazioni che investirono i riti processuali che ab antiquo regolamentavano la conflittualità tra gruppi parentali. Nel 1577 la comunità di Salò ottenne da Venezia che un giudice del maleficio si affiancas-se nell’amministrazione della giustizia penale al provveditore e capitano in-viato periodicamente da Venezia a reggere il vasto territorio disposto lungo la riva occidentale del Garda. Inutilmente le altre comunità che costituivano la Magnifica Patria si opposero ad un provvedimento che evidentemente in-deboliva fortemente le loro tradizionali prerogative giudiziarie incentrate su una forte autonomia politica e sulla loro predisposizione ad autoregola-mentare i conflitti interni. Nei decenni seguenti esse dovettero ricorrere a Venezia per contrastare la decisa impronta giurisdizionale che i giudici del maleficio avevano impresso ai riti processuali31.

28 J. Bossy , Postscript, in Disputes and settlements..., pp. 287-293.29 B. Lenman-G. Parker, The state, the community and the criminal law in early modern Europe since 1500, in Crime and the law. The social history of crime in Western Europe, a cura di V.A.C. Ga-trell, B. Lenman, G. Parker, London 1980, pp. 11-48.30 Rinvio per questi aspetti al mio Dall’ordine della pace all’ordine pubblico. Uno sguardo da Venezia e il suo stato territoriale (secoli XVI-XVIII) in Processo e difesa penale in età moderna. Venezia e il suo stato territoriale, a cura di C. Povolo, Bologna 2007, pp. 15-107.31 Per opporsi ad esempio alle cosiddette citazioni ad informandum curiam con le quali i giu-dici del maleficio imponevano alle persone di presentarsi al tribunale senza specificare aper-tamente se lo erano in qualità di testimoni o di imputati. Sulla vicenda cfr. C. Povolo, Zanzanù. Il bandito del lago, Brescia 2011, pp. 174-176.

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Un campo di ricerca che meriterebbe di essere approfondito, ad esempio, è quello delle testimonianze32. Il reticolo delle testimonianze costituisce il riflesso visibile della faida in corso nell’ambito di una comunità. La rego-lamentazione della testimonianza da parte del diritto colto (diritto comune) costituì uno strumento di pressione e di controllo da parte dei ceti egemoni cittadini. E da qui, quindi, tutta la vasta gamma di testimoni che potevano essere accettati e sottoposti a giuramento. Nel cosiddetto sistema di prove legali le due testimonianze de visu assurgevano (insieme alla confessione) a piena prova. Svalutata era invece la testimonianza de auditu. 33

Ma nell’ambito delle comunità il resoconto di un fatto in base a quanto si era sentito dire assumeva un valore di grande rilievo e probabilmente incontrava piena legittimità negli stessi rapporti interpersonali e nella considerazione sociale goduta da chi quello stesso resoconto formulava34. Il ricorso costante al sentito dire, più che provenire da un atteggiamento omertoso nei confronti della giustizia esterna, era dunque spesso motivato da una prospettiva cul-turale diversa35.Un altro aspetto culturale delle consuetudini è il loro timbro collettivo: un’im-pronta giocata sulla dimensione complessiva della comunità e sulla sua ca-pacità di esprimere valori ritenuti sostanzialmente comuni dagli individui e dai gruppi che la componevano. Era un’impronta che traeva linfa e signifi-cati dalla vita stessa del mondo rurale e che poteva essere paradossalmen-te sottolineata dagli stessi rapporti di subordinazione politica imposti dalla città tramite il criterio giuridico della responsabilità collettiva imputata alle comunità per tutta una serie di comportamenti individuali dei suoi membri e dei suoi rappresentanti. Non c’è, dunque, da stupirsi se, con il mutare dei rapporti di forza, la consuetudine si trasformasse proprio ricorrendo a quel-lo che da sempre era stato uno dei suoi criteri più distintivi.

32 Cfr. C. Povolo, Witnesses and testimonies of the past, in “Acta Histriae”, 19/1-2 (2011), pp. 29-41, introduzione agli atti del convegno dedicato a Testimoni e testimonianze del passato.33 G. Cozzi, Note su tribunali e procedure penali a Venezia nel ’700, in “Rivista storica italiana”, LXXVII (1965), pp. 945 e sgg. Nel momento in cui la cosiddetta prova morale venne ad affer-marsi, il giudice poteva ovviamente assegnare un valore probatorio a certe testimonianze che pure erano formalmente discutibili, cfr. C. Povolo, Witnesses and testimonies..., p. 8.34 N. Rouland osserva a tal proposito: “Se la scrittura insiste soprattutto sul messaggio che veicola e tende all’anonimato delle relazioni sociali, l’oralità valorizza l’individualizzazione dei rapporti sociali. Se il contenuto del messaggio orale è importante, le qualità individuali, la posizione sociale di chi lo trasmette lo sono altrettanto”, N. Rouland , Antropologia giuridica..., p. 196.35 Ovviamente è diverso l’atteggiamento della giustizia esterna. Come sottolineò l’avvocato Gonario Pinna, ad esempio in Sardegna la prova dell’alibi “ha subito nel tempo un logoramen-to e un deprezzamento che hanno condotto a un discredito difficilmente superabile”, cfr. G. Pinna, Il pastore sardo..., p. 116.

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È quel che si evince, ad esempio, dalle accuse di sedizione e conventicole mosse dalla città di Vicenza ad alcune comunità del territorio, che nel 1576 avevano deliberato di assumere a comune difesa ogni controversia penale che ciascun membro della comunità avesse dovuto sostenere con esponenti della nobiltà locale. Il concetto di responsabilità collettiva era stato dunque capovolto ed assunto attivamente dalle comunità per difendere le acquisi-zioni politiche raggiunte36.

All’interno del codice

Il tema delle consuetudini si rapporta poi strettamente alla dimensione an-tropologica e giuridica della grazia. In una piccola comunità i rapporti inter-personali erano tali che la dimensione economica e materiale si declinava in maniera significativa con il linguaggio della parentela e del vicinato37. Era tale rapporto ad insignire del giusto ed appropriato valore ogni forma di scambio o di prestazione38. Tale aspetto è tanto più visibile nelle prestazioni di carattere collettivo, in

36 A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 330, 14 giugno 1576. Sulla vicenda cfr. inoltre C. Po-volo, L’intrigo dell’onore..., pp. 72-74. 37 Cfr. M. P. Di Bella, Dire o tacere in Sicilia. Viaggio alle radici dell’omertà, Roma 2011 (Paris 2004).38 André Burguière osserva come logica economica e logica della parentela costituisca-no un denominatore comune delle strategie matrimoniali nelle società relativamente stabili dell’Europa moderna. Alcuni loro tratti si ritrovano in contesti regionali e sociali assai diversi che lo studioso francese è tentato di considerare come varianti comuni a tutte le forme di organizzazione sociale. Alcune strategie di alleanza come i ‘matrimoni doppi’ (cioè con scam-bio reciproco) o, soprattutto, la ‘ripresa di alleanza’ che univa (superando talvolta gli stessi limiti imposti dalla parentela proibita), dopo una o due generazioni, due famiglie già prece-dentemente imparentate, sono ampiamente diffuse in numerosi contesti europei. In questi casi la dote non era che un testimone simbolico che veniva reciprocamente scambiato, senza appartenere a qualcuno in particolare. Il gioco dello scambio dei congiunti, attraverso più generazioni, aveva evidentemente l’obbiettivo di impedire che la piccola proprietà venisse intaccata. Perché queste strategie si realizzassero bisognava che i matrimoni avvenissero in un contesto geografico alquanto delimitato e la scelta del partner si dirigesse, per quanto era possibile, nell’ambito di relazioni molto strette, come quelle di parentela o di vicinato. Quasi ovunque la dote obbediva quindi ad un principio di reciprocità che informava in par-ticolare le società contadine stabili, in cui le solidarietà di vicinato, di comunità e di classi di età assicuravano “un potere di arbitrato e di regolamentazione”, cfr. Burguière Le cento e una famiglie..., pp. 92-94. Questo sistema incontrava una valida difesa nelle pratiche di controllo esercitate dai gruppi giovanili. Come già si è osservato, il dato strutturante delle consuetudini era dunque costituito dai vincoli e dall’ideologia della parentela, che erano in grado, come nel caso di Forni di Sopra, di modellare e di metabolizzare quanto di nuovo si prospettava nell’ambito della comunità.

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cui ciò che veniva prestato gratuitamente costituiva la risultanza di complesse relazioni parentali, che sono decrittabili solo alla luce di quella dimensione egualitaria che costituiva il carattere e l’essenza della piccola comunità39.I beni comuni o comunali testimoniavano un aspetto significativo della fisio-nomia della comunità. La loro permanenza e, soprattutto, la loro specifica gestione, attestano l’intensità con cui la dimensione antropologica della gra-zia informava i rapporti interpersonali e, indirettamente, sanciva la labilità di ogni forma di predominio materiale individuale attestato sulla distinzione e la precedenza40. Il tema della grazia è direttamente correlato a quello dell’amicizia. Un fitto reticolo amicale collegava gruppi ed individui. Le relazioni di amicizia mette-vano a confronto i gruppi parentali, attestando, indirettamente, la coesione ideologica della comunità o, all’incontrario, in caso di una loro assenza, le tensioni e l’intensità dei conflitti41.Erano queste stesse relazioni di amicizia che segnavano i rapporti con l’e-sterno: con le altre comunità, ma soprattutto con i rappresentanti di quelle istituzioni (cittadine o statuali), che per la loro attività si occupavano di ta-lune questioni interne alla stessa comunità. L’ingerenza esterna poteva così essere filtrata e manipolata alla luce dei rapporti di potere locali.L’incapacità da parte della comunità di mediare i propri conflitti (faida) in-deboliva le relazioni di amicizia e la possibilità di contenere e piegare le in-gerenze esterne. Le relazioni di amicizia venivano inoltre intessute, pur in un ambito di subor-dinazione, con i membri di quell’aristocrazia che risiedevano, talvolta per periodi anche assai lunghi, nella stessa comunità. Un rapporto di subordina-zione, ma che comportava, comunque, un legame di reciprocità, che collega-va la capacità (e l’onore) di donare dell’esponente aristocratico, con taluni servizi resi da chi apparteneva alla comunità. Il ruolo di mediazione assunto da molti esponenti aristocratici nello stabilimento delle paci si inserisce in questa stessa logica. In questo senso, molti dei rapporti che, percepiti dall’e-sterno (anche dallo stesso occhio dello storico) potevano assumere il sapore

39 Sul concetto di grazia, cfr. J. Pitt-Rivers, Postscript: the place of grace in anthropology, in Honor and grace in anthropology..., pp. 215-246.40 Sulla dimensione culturale dei beni comunali in un’area di montagna, la Carnia, cfr. F. Bianco, Carnia XVII-XIX. Organizzazione comunitaria e strutture economiche nel sistema alpino, Por-denone 2000, in particolare pp. 85 e sgg.41 Sui rapporti di amicizia come vero e proprio sistema ordinatore della comunità cfr. J. Pitt-Rivers, Il popolo della Sierra, Torino 1976 (Chicago 1971). Sul concetto di amicizia cfr. M. Aymard, Amicizia e convivialità, in La vita privata dal Rinascimento all’Illuminismo, Bari 1987 (Paris 1986), pp. 357-392.

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della prevaricazione o, comunque di un dominio incontrastato dell’aristo-crazia, si caratterizzavano, in realtà, per la loro reciprocità.Il rifiuto del rapporto di subordinazione da parte di talune famiglie emer-genti oppure, come più spesso accadeva, il venir meno del legame di reci-procità, erano gli elementi che finivano per contrapporre la comunità agli esponenti aristocratici che detenevano proprietà nel suo territorio. Le fonti giudiziarie di antico regime sono assai prodighe nel presentare, allo storico che pazientemente le consulta, la figura retorica del tiranno aristo-cratico, oppressore e violento, o quanto meno prevaricatore dei diritti della comunità. Una figura retorica che si avvaleva di stilemi giuridici e culturali consolidati, ma che veniva abilmente utilizzata dagli avvocati, che, ricorren-do ad essa, volevano essenzialmente indicare colui che minacciava, tramite i suoi atteggiamenti violenti, lo stesso ordine costituito42.Che dire di quell’Andrea Morosini, contro il quale per ben due volte, negli anni sessanta del Cinquecento, si mosse la comunità di Villa del Conte, sotto Padova, lamentando, presso la Signoria, i soprusi e le prevaricazioni da lui compiuti? Il patrizio veneziano, difatti, si era astutamente impadronito di alcuni beni comuni e non solo si opponeva che i suoi mezzadri pagassero le dovute imposte alla comunità, ma taglieggiava pure i suoi abitanti denun-ciandoli per danni insussistenti e costringendoli a lavorare gratuitamente per lui. Il tono avvocatesco delle lamentele presentate dagli uomini della comunità potrebbero indirettamente indurre a ritenere il Contarini uno spregiudicato imprenditore, tutto proteso ad incrementare le rendite delle sue proprietà, a spese di un mondo comunitario arroccato su diritti anacro-nistici. Ma, a guardar bene, le azioni del patrizio veneziano suggeriscono un comportamento straordinario: la lesione, ad opera sua, del tratto forse più essenziale che distingueva l’onore (e il prestigio) aristocratico (cui lo stesso patriziato veneziano non poteva derogare) e cioè la sua intrinseca capacità di donare e, tramite il dono, di legittimare il suo predominio di status. E se la curiosità ci spingesse ad approfondire la vicenda, potremmo forse scoprire che erano più le difficoltà finanziarie che l’ambizione di potere a muovere le prevaricazioni compiute dal patrizio veneziano. 43

Tema complesso, dunque, quello dell’amicizia, che filtrava intensamente e significativamente i rapporti della comunità e delle sue parentele con l’am-biente esterno e contrassegnava gli equilibri interni.La ricerca di un presunto codice consuetudinario, in grado di svelare i meccani-smi reconditi che muovevano un sistema giuridico eminentemente orale ed

42 A. De Benedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Bologna 2001.43 A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 319, 23 gennaio 1565 more veneto; filza 325, 17 ottobre 1571.

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informale, si alimentava di certo delle regole che sottostavano ed animavano le strutture portanti delle parentele e le modalità tramite cui esse organiz-zavano i loro scambi.Il linguaggio della parentela si esprimeva innanzitutto attraverso le alleanze matrimoniali. Ma era altresì importante la parentela che si acquisiva tra-mite la scelta dei padrini al momento del rito battesimale. Come è noto, la Chiesa limitò notevolmente questa pratica, che collegava così direttamente il rito del battesimo ad una profonda religiosità insita nella natura stessa della parentela44. Sarebbe però interessante cogliere se questo divieto venne aggirato tramite altri riti, come ad esempio il taglio dei capelli (diffuso nei paesi balcanici), oppure taluni riti propiziatori e magici (attestatesi in Sud America dopo la conquista)45. Nell’ambito di una comunità la scelta dei padrini era dunque fondamentale e sarebbe interessante studiare il fenomeno alla luce delle stesse relazioni che si intessevano tra esponenti della nobiltà fondiaria locale e membri delle parentele contadine emergenti46.La coesione o l’indebolimento della parentela è ovviamente uno dei temi più interessanti, che trovano nell’ambito della piccola comunità un terreno privilegiato d’indagine. Esso si collega direttamente alla stabilità del gruppo parentale su un determinato territorio e alla gestione delle risorse47.In quale misura, ad esempio, la penetrazione fondiaria cittadina od ester-na incise su questa stessa stabilità? E, indirettamente, sulla fisionomia della comunità? Tema complesso, che deve considerare pure le diverse forme di gestione della terra. Di certo, la tipologia della proprietà (piccola, grande, cittadina, esterna), del possesso e la loro concreta gestione non costituisco-no un fatto indifferente. In presenza di un’alta densità bracciantile la coe-sione della parentela era probabilmente debole se non inconsistente. Ma se si escludono questi casi limite, va comunque osservato che una complessità di fattori (demografici, economici e culturali) agivano sul rapporto struttura della proprietà/coesione della comunità in maniera non univoca. La ‘gestio-

44 J. Bossy , Dalla comunità..., pp. 37 e sgg.; E. Muir, Riti e rituali nell’Europa moderna, Milano 2000 (Cambridge 1997), pp. 27 e sgg. Edwuard Muir ricorda come “in Francia, per esempio, i padrini e le madrine erano in genere consanguinei, scelti tra i parenti più stretti della madre e del padre. Ma nel sud, particolarmente nei Balcani e in Italia, i padrini e le madrine erano inseriti in complesse reti di rapporti clientelari” , p. 29. 45 C. Bernand-S. Gruzinski, I figli dell’apocalisse: la famiglia in Meso-America e nelle Ande, in Storia universale della famiglia..., pp. 177 e sgg.46 Tema affrontato diffusamente da G. Alfani, Padri, padrini, patroni. La parentela spirituale nella storia, Venezia 2007.47 Sul tema della parentela sia nella sua accezione politico-antropologica che in quella economica cfr. J. Casey, La famiglia…, in particolare pp. 53 e sgg.

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ne della terra’ agì per molto tempo come un fattore che condizionò nega-tivamente la forza stessa della struttura di proprietà48. Come, del resto, la stessa dislocazione geografica della comunità nell’ambito di un determinato territorio (vie di comunicazione, vicinanza a centri urbani, natura dei terre-ni, zone collinari o montuose, ecc.)49.Questa considerazione è del resto indirettamente attestata dalla permanen-za su vasta scala di quelle consuetudini di cui si parlava. Consuetudini che sottendevano un forte potere di mediazione da parte delle forze locali. Ma anche consuetudini che si esprimevano tramite riti collettivi che sancivano la comune identità: come ad esempio le feste50.La forza coesiva delle feste è difatti un dato che non si può semplicemen-te spiegare con i riti (nel corso dell’ottocento definiti folklorici) collegati al lavoro dei campi e al succedersi delle stagioni. Le feste esprimevano una coesione culturale della parentela e della comunità. Non solo le feste colle-gavano la dimensione del presente ai valori del passato, ma segnavano pure la presa d’atto della comunità nei confronti del proprio contesto territoriale. E non a caso nel secondo Settecento esse sarebbero state oggetto di attacco e di critica che muovevano da una diversa ideologia della proprietà e della rendita51.Nella festa il sentire religioso e la dimensione della parentela si fondevano in un’unica dimensione culturale. E, ad attestarlo, stava il profondo sentire nei confronti del culto dei morti. Molti dei suoi significati più reconditi sono difficilmente percettibili a causa della sovrapposizione ideologica imposta dalla Chiesa. Anche qui, significativamente, il punto di svolta si colloca agli inizi dell’Ottocento, con i provvedimenti napoleonici in materia di cimite-

48 Ad esempio in periodi di rarefazione demografica non solo la forza bracciantile diminu-iva, ma era altresì difficile per i proprietari fondiari affidare le loro terre ad affitto. In simili situazioni era d’obbligo ricorrere a contratti enfiteutici (come il livello) che permettevano alle famiglie contadine di insediarsi permanentemente su piccoli appezzamenti di terra, cfr., per un esempio, il volume collettaneo dedicato alla comunità vicentina di Dueville, AA.VV., Storia e identificazione di una comunità del passato, a cura di C. Povolo, Vicenza 1985.49 Come nel caso della piccola comunità di Lisiera nel Vicentino, cfr. AA.VV., Lisiera. Im-magini, documenti e problemi per la storia e cultura di una comunità veneta. Strutture, congiunture, episodi, a cura di C. Povolo, Vicenza 1981.50 Sui riti cfr. E. Muir, Riti e rituali... Lo studioso statunitense osserva: “La vita era un caos, e ciò voleva dire che la sterilità, il disastro enonomico, la morte potevano colpire chiunque in qualsiasi momento, ma i riti fornivano un principio di segno opposto, di ordine, quello che è stato chiamato ‘ordine cosmico’. Consentendo alle persone di accedere al potere divino, i rituali portavano l’ordine cosmico nella vita quotidiana...; la pratica rituale rendeva meno netta la distinzione tra sacro e profano, perché la gente viveva il sacro all’interno del mondo profano...”, p. 23. Questi aspetti spiegano pure l’apparente immutabilità delle consuetudini, che sembrano accordarsi al mutare incessante e perenne delle stagioni.51 Cfr. per questi aspetti pp. 203-255.

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ri. Sarebbe interessante poter accertare l’impatto di tali provvedimenti sul sostrato culturale della comunità. Così come le trasformazioni istituzionali (con la riduzione di molte comunità in frazioni) che vennero imposte all’as-setto istituzionale tradizionale52.L’idioma dell’onore era poi un altro elemento importante, che connotava il diritto delle comunità. Un idioma che prescriveva comportamenti sia sul piano dell’amicizia che su quello sessuale. Era il linguaggio dell’onore a defi-nire sia le caratteristiche di genere più appropriate, che il comportamento ritenuto eticamente positivo. Riti collettivi come le mattinate agivano come punizione nei confronti di chi era ritenuto colpevole di gravi infrazioni53. Onore contrassegnato dalla mascolinità e onore contrassegnato dalla pudi-cizia. Se il primo, in ambito comunitario, nonostante la sua tensione aggres-siva, non era tale, di per sé da creare uno spazio simbolico entro cui confi-gurare una dimensione di potere e di distinzione (in questo senso la vicenda processuale di Paolo Orgiano è significativa54), il secondo si caratterizzava per i valori intensi assegnati al corpo della donna. Era la donna a costituire, infatti, il veicolo essenziale di alleanze e di scambi. Se tale onore non poteva essere accresciuto, esso era però dotato di forti valori simbolici. Cedere una donna, da parte di ciascuna parentela, costitu-iva sempre un fatto di grande rilevanza sociale: ridisegnava o ristabiliva gli equilibri interni alla comunità55. Da qui, l’importanza di celebrare il matri-monio nella parrocchia della donna stessa. E soprattutto la conservazione dell’immagine pubblica della sua purezza-verginità. Il corpo della donna era dotato di così forti valori simbolici, che bastava un bacio strappato ad una giovane, con sorpresa e a forza, di fronte a tutta la comunità, per incrinare le strategie della parentela cui ella apparteneva56.

52 Anche per questi problemi è utile il rinvio a G. Le Bras, La chiesa e il villaggio..., passim.53 Amplissima la bibliografia sull’onore. Rinvio agli atti del convengo tenutosi a Capodi-stria nel 1999: Honour: identity and ambiguity of an informal code, in “Acta Histriae”, IX e X, Koper 2000. Un quadro d’insieme in Di Bella, Name, blood and miracles.... Sulla dimensione politica dell’onore J. Pitt-Rivers, The fate of Shechem..., pp. 126-171. Sul rapporto conflittuale tra onore aristocratico e onore contadino cfr. C. Povolo, L’intrigo dell’onore..., pp. 355-412.Sulle mattinate cfr. D. Fabre, Il privato contro le consuetudini, in La vita privata..., pp. 426-457.54 C. Povolo, L’intrigo dell’onore..., pp. 355 e sgg.55 Cfr. J. Pitt-Rivers, The fate of Shechem..., pp. 126-171.56 Bortolamio Fondra di Serravalle nel 1603 inoltrò una supplica alla Signoria lamentando come la figlia Giustina avesse subito un grave oltraggio nell’onore. Pietro Fucati, dello stesso centro, che inutilmente gliela aveva chiesta in matrimonio, “il giorno di Santo Biasio, essen-do nella chiesa di Santa Augusta, ove è la testa del detto glorioso santo, grande devotione et concorso grandissimo di tutta essa terra di Serravalle, di Ceneda et altri lochi circonvicini, imaginandosi che ancho Giustina li serria andata a pilgiare la perdonanza, andò il detto gior-no appostatamente et pensatamente ad aspetarla alla strada, ove passar doveva. Et quella

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L’istituto del rapimento, assai diffuso nella prima età moderna, poteva rive-larsi dirompente qualora si fosse manifestato al di fuori del tacito consen-so dei gruppi parentali coinvolti57. Un aspetto, quest’ultimo, che già di per sé poteva assegnare a tale pratica un carattere predatorio che molto spesso esulava dalle intenzioni dei giovani coinvolti in un rito che per lo più aveva l’obbiettivo di strappare l’assenso dei giovani della futura sposa. Emblemati-ca la vicenda che si svolse nella zona occidentale dell’alta riva del Garda tra il maggio e l’agosto del 1704 e che ebbe come protagonista principale il dottor Francesco Parentini di Tremosine. Un uomo, come la sentenza sottolineava, non solo di carattere prepotente e disponibile a ricorrere alla violenza, ma pure incline ad occupare “posto e figura superiore alle proprie fortune”. Il Parentini aveva posato gli occhi su Giulia Zuanna di Gargnano, “giovane di casa civile e riguardevole”. Richiestala inutilmente in sposa allo zio paterno ed ottenutone un deciso rifiuto, aveva così deciso di rapirla con l’aiuto di al-cuni suoi servitori. Il testo della sentenza lasciava comunque trapelare come la giovane Giulia non fosse del tutto indifferente alle richieste del Parentini:

Doppo di che, retrocedendo per il lago e replicando essa Giulia le più vive que-relle et le più forti espressioni che palesavano il dolore della patita violenza, ma invano, la riducesse nella sua propria casa a Tremosine, dove ... procurasse d’esiggere con l’apparato di tanta forza dalla di lei simplicità e timore assensi spurii, illegitimi ... alla presenza del parroco di Tremosine, né di ciò contento estorquesse nelle predette detestate maniere attestato o costituto negli atti del nodaro Conaglio, in copia duplicate da essa dovute sottoscrivere alla presenza di esso Parentini58.

veduta che con altre figliole et done andavano a detta perdonanza, l’andò per di dietro et senza timore del Signor Iddio et della giustitia del mondo, immezzo della publica strada s’a-ventò adosso a detta figliola per bassiarla per forzza...”. Più che mirare ad un improbabile matrimonio con la ragazza (come suggeriva il supplicante) la violenza aveva probabilmente il fine di impedire un’eventuale trattativa di alleanza con altro casato. Pratica alquanto diffusa, la violenza esercitata in pubblico con l’imposizione di un bacio si calava sul fragile terreno dell’onore e probabilmente non rifletteva tanto l’iniziativa sconsiderata di un innamorato frustrato nelle sue aspettative, quanto piuttosto le tensioni esistenti nell’ambito della comu-nità tra parentele confliggenti. Il caso di Serravalle si trova in A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 356, 19 marzo 1603.57 Sul rapimento cfr. V. Cesco, Il rapimento a fine di matrimonio. Una pratica sociale in età moder-na tra retorica e cultura, in L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII). Retoriche, stereotipi, prassi, a cura di G. Chiodi e C. Povolo, Verona 2004, pp. 349-412.58 A.S.V., Capi del Consiglio dei dieci, Banditi, busta 13, sentenza del 14 agosto 1704. La sen-tenza aggiungeva poi: “e per corona di tanti misfatti insistesse per tentar la pudicitia di essa Giulia a compiacerlo e che per voler del signor Dio e della di lei costanza rimase intata et illesa; dopo tutte le quali insidie, violenze e scelerati maneggi, vedendo disperata l’impresa di persuaderla d’adherire con libera volontà alle di lui ingiuste premure, fu persuaso dalla resistente costanza di essa Giulia et avilito per l’orrore di tante colpe, di remetterla nella

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Passione, interesse, strategie matrimoniali e pratiche sociali si coniugavano e si intersecavano, dunque, ricorrendo al complesso linguaggio dell’onore che definiva il ruolo e il prestigio dei gruppi parentali coinvolti nell’ambito della comunità.L’idioma dell’onore non coincideva sempre con il diritto della Chiesa e dello stato e di certo si declinava secondo modalità specifiche del mondo rurale. Basti pensare, ad esempio, al diverso atteggiamento tenuto dalle comunità nei confronti di chi si era reso autore di adulterio, oppure ai riti del cor-teggiamento e dell’iniziazione sessuale59. Il matrimonio tridentino faticherà non poco a sovrapporsi alla dimensione religiosa della parentela.È interessante notare come queste norme e prescrizioni non venissero ap-plicate nei confronti di chi, pur residente nella comunità, proveniva da un ceto provvisto di qualifica di status cittadino o nobiliare. La mattinata e i riti di degradazione avevano infatti l’obbiettivo precipuo di contrassegnare e rendere pubblico non tanto l’azione compiuta, quanto la persona contami-nata che aveva infranto le norme consuetudinarie (ad esempio, il marito che aveva subito l’adulterio). La persona era infatti insignita di un valore sacro che si collegava all’onore medesimo della comunità.Era proprio il venir meno di questi valori a spingere la comunità ad espelle-re quelle persone che avevano completamente smarrito il senso dell’onore (come, ad esempio, le prostitute). Queste forme di esclusione e di espulsio-ne contrastano comunque visibilmente con la pena del bando applicata dai tribunali cittadini e, soprattutto, statuali. Sarebbe interessante verificare come, e se, questa pena, soprattutto nella fase più acuta del banditismo, ven-ne accolta all’interno delle comunità minacciando la solidarietà parentale o accentuando la faida locale60.I riti di degradazione o di derisione come la mattinata sembrano paradossal-mente registrare un’impennata a partire dalla seconda metà del Settecento, quando l’azione delle autorità più si muove nella direzione di regolamentare talune consuetudini e istituzioni del mondo della comunità (feste, confrater-nite, parrocchie). Si tratta, molto probabilmente, di un fenomeno da sempre vivo e diffuso, che emerge di seguito ad una maggiore sensibilità dimostrata

dovuta libertà”. La decisa reazione della parentela della giovane si costituì come un fattore decisivo negli esiti della vicenda. Il Parentini venne bandito e il Consiglio dei dieci decretò che sul luogo dove era avvenuto il rapimento fosse posta un’iscrizione a caratteri maiuscoli: “Francesco Parentini, bandito capitalmente dall’eccelso Consiglio di dieci con suoi sicari per il rapto violente seguito in detto luoco”.59 J. Pitt-Rivers, Il popolo della Sierra..., passim.60 Ad esempio analizzando la legislazione premiale in materia di banditismo che aveva come riferimento esplicito le comunità rurali, cfr. sul tema C. Povolo, L’intrigo dell’onore..., pp. 153 e sgg.

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dalle autorità nei confronti dell’ordine pubblico. Di certo, anche nel mondo rurale, la dimensione del privato ha assunto sul finire del Settecento, con-torni più precisi e meno disponibili a subire intrusioni da parte dei gruppi giovanili portatori del disordine e della derisione. Come non solo dimostra-no i provvedimenti assunti in molti paesi europei contro i giovani discoli, ma anche l’iniziativa che, assai prima, molte comunità intraprendono per scacciare, oltre i loro confini, quelle persone (soprattutto giovani) che con il loro comportamento minacciano la stabilità della famiglia e della proprietà privata.E la stessa figura del parroco, che sempre più svolge mansioni amministra-tive e fiscali per conto dello stato, sembra reagire, talvolta con durezza, ai riti che sconvolgono la celebrazione nuziale e la pace delle famiglie. Da qui, quindi, la possibile minore accettazione del disordine giovanile e la predi-sposizione a ricorrere alla giustizia pubblica.È però pure possibile che l’estendersi del fenomeno segnasse, all’incontra-rio, l’innata vitalità delle consuetudini e dei suoi riti. E che, quindi, di fronte alla minaccia esterna e all’insinuarsi di un’intolleranza interna nei loro con-fronti, taluni riti consuetudinari assumessero maggiore vitalità e pregnan-za di significato. Di certo, il loro emergere è comunque la risultante di un conflitto che, nella seconda metà del Settecento, sembra opporre i valori del mondo consuetudinario e comunitario a quelli provenienti dalla concezione di un ordine sociale provvisto di una diversa razionalità61.Il tema dell’onore (inteso come norma che prescriveva comportamenti e in-dicava valori) coinvolgeva pure la comunità nel suo complesso. Gli appel-lativi che ogni comunità affibiava a quelle circostanti (il cosiddetto blasone popolare) indicavano indirettamente i propri valori collettivi. Erano soprattutto i gruppi giovanili (o, per meglio dire i gruppi di celibi) che coltivavano questi valori e si ergevano a difesa dell’onore della comunità. Come ad esempio nel respingere aggressivamente ogni invasione di confine compiuta da giovani di altri paesi con il fine di corteggiare le giovani del luogo62. Questa fu una consuetudine che si protrasse assai a lungo in quasi tutte le comunità, nonostante le evidenti trasformazioni economiche e culturali. Una pratica che mirava a difendere le oculate strategie matrimoniali locali, ma che utilizzava apertamente il complesso linguaggio dell’onore. Era assai

61 Intorno a questo tema assai complesso cfr. le analitiche osservazioni di D. Fabre, Il privato contro le consuetudini.... Si veda inoltre l’approfondita ricerca di M. Fincardi, Il rito della derisio-ne. La satira notturna delle battarelle in Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia, Verona 2009.62 N. Schindler, I tutori del disordine: rituali della cultura giovanile agli inizi dell’età moderna, in Storia dei giovani dall’antichità all’età moderna, a cura di G. Levi e J.C. Schmitt, Bari 1994, pp. 316-317.

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facile che gli scontri tra gruppi giovanili sfociassero in atti di sangue, provo-cando l’intervento dei tribunali cittadini e statuali. Quando questo avveniva (e piuttosto di frequente, a dir il vero), come ha suggerito una ricerca condotta su materiale giudiziario ottocentesco, la con-suetudine non era mai apertamente svelata da testimoni, imputati e offesi. Non tanto probabilmente per un senso di omertà, quanto piuttosto per la considerazione da parte del mondo contadino di come questa stessa consue-tudine non potesse essere accolta e capita dal mondo esterno, provvisto di una cultura diversa (dotta)63.La consuetudine comunitaria si svolgeva infatti secondo criteri e valori ide-ologici che non collimavano con le aspettative delle istituzioni esterne. In fondo, la nascita assai tarda dei cognomi e la loro difficile stabilizzazione, resa ardua non solo dalle frequenti variazioni, ma anche da una loro declina-zione in funzione (e in subordinazione) del soprannome, attestano come il linguaggio della parentela contadina faticasse ad essere inglobato dalla cul-tura dotta e scritta. I soprannomi servivano a classificare il ruolo di ciascun individuo (e famiglia) all’interno della comunità e potevano servire come schermo nei confronti di un utilizzo strumentale dei cognomi da parte delle autorità statuali. Sarebbe interessante, ad esempio, verificare il rapporto tra soprannome e cognome in quelle comunità plurietniche, come nell’Istria del Novecento, in cui le autorità statali hanno utilizzato il cognome per afferma-re i propri valori ideologici.Non si trattava, comunque, tanto e solo di una difesa contro l’ingerenza esterna, che si manifestava sul piano fiscale e giudiziario. L’oralità e l’innata predisposizione alla mediazione, caratteristiche, come si è detto, delle con-suetudini, faticavano, di per sé, ad essere colte da una cultura giuridica che, in quanto scritta, costituiva un sistema chiuso ed astratto nel contempo.Fenomeno a sé anche se evidentemente collegato alle osservazioni che si sono descritte, era poi il conflitto che opponeva molte comunità a quelle circostanti. Conflitti per boschi e beni comuni, per confini, per il pascolo degli animali. Conflitti, comunque, che si svolgevano avvalendosi spesso del linguaggio dell’onore. L’onore della comunità era strumentalmente richia-mato per definire la propria identità. Questo avveniva in molti casi nel corso di processioni o di riti religiosi, soprattutto quando i confini della comunità e i confini della parrocchia tracciavano realtà territoriale e parentali diverse.

63 C. Povolo, Confini violati. Rappresentazioni processuali dei conflitti giovanili nel mondo rurale veneto dell’Ottocento, in La vite e il vino. Storia e diritto, a cura di M. Da Passano, A. Mattone, F. Mele, P.F. Simbula, Roma 2000, vol. II, pp. 1090-1091.

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Descrizioni

Il tema della consuetudine comporta il rilevante problema della sua perce-zione e della sua interpretazione. Un problema che, in un certo senso, è pure formulabile tramite il rapporto tra cultura dotta e cultura popolare, delle loro contaminazioni e soprattutto della possibilità di percepire quest’ultima (in quanto orale e rituale) tramite il controllo esercitato dalla prima64.È evidente che la consuetudine e i suoi riti possono essere colti solo alla luce delle relazioni di potere e delle gerarchie che queste imponevano. Riti, con-flitti e pratiche emergono dalle scansioni procedurali predisposte dall’asset-to istituzionale predominante e da chi lo gestiva e manipolava. Erano queste procedure a veicolare i loro contenuti, filtrandoli e deformandoli in funzione dello stesso assetto di potere.Un doppio livello di interpretazione si impone, dunque, ogniqualvolta ci si avvicina alle consuetudini comunitarie per coglierne l’essenza e le carat-teristiche. Strumento ineliminabile di conoscenza è la procedura o pratica istituzionale. In questo senso, credo, poco giova rifarsi alla persistenza di forme di ideo-logia politica definite comunalismo65, intesa come insieme di diritti che non potevano essere lesi senza mettere in discussione il carattere intrinseco di una società pattizia e cetuale. Il contenuto di quell’ideologia, apparentemen-te immutabile e intangibile, viene veicolato, nel corso dell’età moderna, tra-mite nuove e diverse pratiche di controllo o comunque di definizione dei conflitti.Basti pensare, ad esempio, a quello strumento giuridico importantissimo che collegava, individui, ceti e comunità al principe o al sovrano: le suppliche, le

64 Potrebbe benissimo essere esteso alla storia quanto Fabietti osserva a proposito dell’an-tropologia: “Superamento dell’oralità e della natura inconscia dei fenomeni sono processi che si realizzano entrambi grazie all’intenzionalità dell’antropologo. In quanto tali essi portano inevitabilmente con sè il riflesso di ciò che può essere definito una forma di ‘precompren-sione’. Quest’ultima è costituita dalle categorie epistemologico-interpretative mediante cui l’etno-antropologo seleziona la sua esperienza, cioè si avvicina al proprio oggetto per poi ri-distaccarsene attraverso il movimento della scrittura”, U. Fabietti, Antropologia culturale, Bari 1999, pp. 116-117. Il fatto che lo storico si avvalga per lo più di documentazione scritta (che di per sè comporta un primo livello di astrazione) rende l’interpretazione solo apparentemente più complessa , se si ritiene che “in ogni descrizione ciò che viene ‘descritto’ non è tanto una ‘realtà’ che ci sta di fronte, ma delle cose che in qualche maniera sono incastonate in rappre-sentazioni già nel momento in cui le percepiamo, tanto sul piano dei sensi che sul piano delle riflessione”. 65 Sul comunalismo cfr. A. De Benedictis, Politica, governo..., pp. 386-391: “nella società ce-tuale, insomma, non solo le città, ma anche i villaggi erano espressione di una societas civilis cum imperio, poichè nei diritti politici esercitati in nome della comunità non potevano essere compresi solo diritti delegati da un potere superiore” , p. 387.

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petizioni e i gravamina66. Come avremo occasione di vedere, il loro contenuto varia nel corso del tempo ed una ricerca attenta dimostrerebbe facilmente come nuovi soggetti e nuove istanze si muovessero al di fuori di quel sistema pattizio entro cui esse si inserivano e trovavano la loro stessa logica67.Tutti questi aspetti sono, ad esempio, ben delineati dalla lunga vicenda che coinvolse la combattiva comunità vicentina di Malo. La lunga controversia tra la comunità e la famiglia nobile Muzzan ebbe inizio a causa di alcuni an-tichi diritti che questi ultimi erano riusciti abilmente e fraudolentemente a sottrarle. L’azione di ripristino delle proprie consuetudini, condotta invano dalla comunità sul piano istituzionale e giudiziario, era infine sfociata in una sanguinosa rivolta68.

66 Intorno alle quali si veda B. Kümin-A. Würgler, Petitions, gravamina and the early modern state: local influence on central legislation in England and Germany (Hesse), in “Parliaments, estates and representation”, 17 (1997), pp. 39-60; C. Nubola, Supplications between politics and justice: the Northern and Central Italian states in the early modern age, in “International review of social history”, 46 (2001), suppl. 9, pp. 35-56;L. H. Van Voss, Introduction, in “International review of social history”, 46 (2001), pp. 1-34; e il più recente Suppliche e “gravamina”, Politica, ammini-strazione, giustizia in Europa (secoli XIV-XVIII), a cura di C. Nubola e A. Würgler, Bologna 2002.67 Angela De Benedictis prospetta osservazioni interessanti intorno alle consuetudini: “An-cora agli inizi del XVIII secolo i contadini rivendicavano libertà mantenute da tempo im-memorabile; si richiamavano ad antichissimi privilegi e diritti conservati da 50 e più anni. Attraverso la costruzione di leggende storiche nelle quali si parlava di privilegi caduti in di-menticanza, i sudditi – contadini e cittadini – cercavano di fondare una nuova consuetudine designata spesso come ‘buon diritto antico’ e in realtà effettivamente adatta ai loro desideri soggettivi, al loro tendere verso una vita migliore...attraverso la difesa di vecchie libertà pas-sava, cioè, l’ottenimento di nuove libertà”, A. De Benedictis, Politica, governo..., pp. 389-391.68 Tutta la vertenza è ricordata in supplica presentata dalla stessa comunità il 20 giugno 1562, due anni dopo, dunque, la sanguinosa rivolta. La comunutà ricordò, in tale occasione, come avesse sempre goduto dell’antico diritto di riscuotere la decima. Un diritto ottenuto sin dal 1407, di seguito ad un acquisto stipulato con la camera fiscale di Vicenza. Nel 1546 il nobile Zuan Girolamo Muzzan mise in discussione tale diritto sull’appezzamento di terreno che aveva acquistato da un certo Alvise Corà di Malo, sostenendo che quest’ultimo aveva precedentemente stabilito una convenzione con la stessa comunità, in base alla quale egli era esentato dal pagamento della decima. Il Muzzan non produceva però alcun documento che giustificasse le sue affermazioni, le quali erano semplicemente avvalorate dalla parola di alcuni testimoni. La comunità aprì una vertenza giudiziaria presso le magistrature cittadine: il tribunale dell’Aquila, dapprima, e poi il vicario del podestà, le diedero torto. Appellatasi agli Auditori novi, “non però essendo mai trovato, nè visto detto instrumento de conventione”, la magistratura veneziana confermò la sentenza del vicario in quanto “sentenza conforme”, che cioè confermava la precedente e, in base alle disposizioni statutarie, considerata inap-pellabile. Non demordendo, nell’aprile del 1551 la comunità ricorse agli Avogadori di comun in merito alla presunta inappellabilità ed ottenne giudizio favorevole. Ma la decisione avo-garesca venne poi impugnata dai Capi del Consiglio dei dieci che posero fine alla questione, affermando l’inappellabilità delle due sentenze vicentine. Un lungo e tromentato percorso giudiziario precedette dunque la rivolta. Nella supplica del 1562 la comunità affermò di aver ritrovato l’atto di convenzione stipulato da un notaio nel 1472, in cui si affermava che qua-

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Una rivolta che era stata preceduta, dunque, da un complesso iter giudiziario che aveva direttamente coinvolto sia le istituzioni cittadine che quelle della città dominante. La lesione irreversibile degli antichi diritti aveva spinto la co-munità, nel dicembre del 1552, ad una sorta di resa dei conti. Il suo svolgimen-to venne drammaticamente ricordato dai deputati cittadini, i quali decisero di inviare degli oratori a Venezia per richiedere una decisa azione punitiva:

Essendo stati di tanta audatia et temerità...li huomeni della villa di Malo, che bat-tendo campana a martello sono sulevati più de duecento huomeni et impetuo-samente andati alla casa di Marco et Francesco di Cavazzuoli, dove era anco An-tonio Losco...per amazzarli; et parendogli non poter esseguir et dil tutto adimpir il suo mal animo, circondata la detta casa di paglia, cane, fassine et altre cose atte al fuoco, hano cacciato fuoco in detta casa et colombara che era sopra detta casa, qual hano bruciata et dil tutto ruinata fino su ai fondamenti. Et de peggio è, durante detto incendio et campana per hore cinque sonando, sempre crudelissi-mamente hano amazati li tre...sopranominati cittadini...69

Negli anni successivi il conflitto si riaccese e la comunità, guidata da alcune famiglie emergenti, riuscì a ridimensionare notevolmente i rapporti di forza con l’aristocrazia locale70.Se si analizza, più da vicino, la procedura che accompagnava questi conflitti, in un lungo percorso, che apparentemente sembra sempre comunque mi-rare al ripristino di ciò che è stato leso od intaccato, si può scorgere come i

lora l’appezzamento di terreno fosse stato acquistato da persone fora del comun, il diritto di esenzione sarebbe immediatamente venuto meno. E chiedeva, dunque, per viam gratiae, che potesse, nonostante le due sentenze conformi, ristabilire i suoi diritti, cfr. per la vicenda A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 316, alla data. 69 Vicenza, Biblioteca civica Bertoliana, Archivio Torre, busta 863, c. 513. Il Consiglio dei die-ci assunse immediatamente il processo, ordinando l’arresto di 44 persone. Uno degli imputati venne condananto a morte e molti altri, resisi latitanti, vennero banditi e i loro beni furono confiscati, cfr. A.S.V., Consiglio dei dieci, Criminali, reg. 8, cc. 21-22, 42-49.70 Sull’intera vicenda si veda C. Povolo, L’uomo che pretendeva l’onore. Storia di Bortolamio Pa-squalin da Malo (1502-1591), Venezia 2010. Riassuntiva, in un certo senso, delle molte già pre-sentate dalla comunità e dai suoi avversari, è la supplica avanzata l’8 dicembre 1579, A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 333. In questa occasione la comunità ricordava la sollevazione contadina avvenuta alcuni decenni prima: “per queste antiche tirannidi, capitati già gli huo-mini del commune ad una ingiusta e disperata rabbia, si condussero a far un gravissimo ec-cesso, brusiando alcuni di essi cittadini in una colombara, dove s’erano salvati, crudelmente et tumultuariamente ammazzandoli. Per lo qual delitto furno e di morte e di esilio castigati. Il qual delitto, benchè fusse detestato dalla ragione e dal giuditio, non è però che non ne fusse causa una continuata et ostinata tirannide di questi ingiuriosi cittadini, i quali non volendo imparar dalla mansuetudine di questo paterno et mansueto governo, col trattar detti huo-mini del commune predetto come schiavi, turchi, nemici et infedeli, gli condussero a questa fiera disperatione” . Citazioni avvocatesche, certo, ma che pure attestano come il conflitto si svolgesse su piani molteplici.

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rapporti di forza si spostino comunque gradualmente verso forme di potere esterno. E avremo occasione di constatarlo più da vicino proprio esaminan-do quei veri e propri cahiers de doléance che erano le suppliche inoltrate dalle comunità alla Signoria.Procedure, contenuti, rapporti di forza e strutture istituzionali si amalga-mano, dunque, in un doppio livello interpretativo, da cui, come sembrano attestare le vicende che investirono la comunità di Malo, il valore della con-suetudine comunitaria trapela con le sue regole e i suoi valori.È la maggiore complessità e varietà delle procedure (e delle pratiche istitu-zionali) che in età moderna (e contemporanea) veicola le consuetudini o, per meglio dire, quella loro dimensione che più si presta a collegare ciò che è dentro e ciò che è fuori della comunità; e così ciò che di essa appartiene ad un prima con un dopo. La natura del linguaggio che opera ed articola tale pro-cesso trae ovviamente la sua origine prevalentemente dall’esterno, da forme di controllo o di regolamentazione di ciò che avviene dentro la comunità. Un linguaggio dotto, scritto, che spesso si trova a disagio nell’opera di descrizio-ne che si propone (come ad esempio nel tentativo di classificare riti nuziali e consuetudini dotali).L’operazione di descrizione, quando non solo proviene, ma anche viene con-dotta dall’esterno, dice ovviamente molto di più degli intendimenti di chi la sostiene, attua e porta a compimento. Ma nella sua conformazione istitu-zionale e di potere riflette, ovviamente, anche una certa dimensione della cosa descritta. È un problema di percezione se si guarda a chi la compie. È un problema, come già si è detto, di un doppio livello di interpretazione se la si considera dal punto di vista dello storico che la analizza.In tale direzione è estremamente significativa l’opera di descrizione attuata dagli avvocati (che nella quasi totalità dei casi operavano in centri cittadini) nei confronti delle istanze e dei conflitti che la comunità faceva emergere per sollecitare l’intervento di un’istituzione esterna. Generalmente si tratta di una descrizione selettiva sul piano culturale e provvista di stilemi linguistici in grado di conferire all’istanza stessa una fisionomia consona ai criteri poli-tici e culturali dell’istituzione cui è rivolta. Tipici esempi di questa descrizione sono le suppliche che, in ogni parte d’Europa, venivano rivolte alle autorità preposte ad accoglierle e che miravano per lo più a riaprire o proseguire un conflitto in corso. Una loro analisi dettagliata rivelerebbe, ovviamente, molte più cose sugli in-tendimenti politici e sulle caratteristiche culturali delle istituzioni cui sono rivolte, che non sull’effettiva dimensione culturale della comunità che le ave-va sollecitate. Un’attenta operazione di decrittazione e di reinterpretazione può comunque offrire elementi interessanti anche su quest’ultimo piano. L’analisi degli stilemi linguistici utilizzati potrebbe inoltre condurre ad una

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classificazione delle narrazioni non solo in funzione degli obbiettivi politici dell’organo superiore, ma anche della stessa formazione culturale degli av-vocati che si rivelarono decisivi nella stesura di questa documentazione71.Sotto questo profilo il caso istriano si presta, ancora, ad alcune annotazioni interessanti. L’opera di mediazione svolta dagli avvocati dei centri cittadini istriani si situa infatti in una realtà ricca di contrasti culturali e in cui il con-sueto antagonismo tra città e campagna è accentuato dalla costante immis-sione di nuove popolazioni. Le suppliche rivolte alla Signoria su iniziativa di comunità morlacche costituiscono l’esempio di una serie di conflitti assai specifici (ad esempio tra i nuovi arrivati e coloro che risiedono nei centri cittadini72). Ma la funzione svolta dall’avvocato cittadino è in questi casi es-senziale per filtrare non solo il contatto tra culture diverse, ma anche per dirigere il loro antagonismo verso le istituzioni centrali. Significativa, sotto questo profilo, la supplica rivolta nel 1563 alla Signoria dall’avvocato Zuan-ne da Veggia, abitante a Parenzo e difensore “de alcuni poveri murlacchi, a torto perseguitati dal magnifico podestà di detto luoco di Parenzo”. Egli aveva fatto ricorso a magistrature come l’Avogaria di comun e gli auditori novi, bloccando l’iniziativa del rappresentante veneziano contro alcuni mor-lacchi73. È evidente che la descrizione attuata dagli avvocati istriani si muove non solo sul filo delle tensioni e dei conflitti esistenti, ma pure nell’ambito di una logica politica che spingeva Venezia a favorire l’inserimento delle nuove popolazioni nella penisola.Tale opera di descrizione è forse ancora più interessante se si realizza all’inter-no della stessa comunità: da operatori locali (potremmo definirli) che si muo-vono sul filo di un linguaggio esterno (scritto ed istituzionalmente imposto o proposto) costantemente ed intimamente adattato alle consuetudini locali.

71 Per un’analisi di documenti simili (le lettres de rémission) cfr. N. Zemon Davis, Storie d’ar-chivio. Racconti di omicidio e domande di grazia nella Francia del Cinquecento, Torino 1992 (Stanford 1987). 72 Un esempio, tra i tanti che si possono riscontrare, è quello che nel 1593 oppose la comu-nità di Villanova a Rovigno. Lo zupano di Villanova era stato arrestato su ordine del podestà di Rovigno, “sdegnato con noi morlachi habitanti nella sua giurisditione per il giuditio im-petrato a favor loro dalla Serenità Vostra...”. Recatisi in città per chiedere la sua liberazione, i morlacchi erano stati assaliti dalla popolazione. Ciò era avvenuto perché “esso clarissimo podestà, unendo tutti quelli cittadini, nostri antiqui adversari et persecutori, ordinò con inu-sitata forma che fussero serrate le porte della Terra. Et venuto fuori di palazzo con un bastone in mano, accompagnato da giudici, officiali et cittadini con arcobuggi et pistole, cridando esso clarissimo et tutti li altri ad alta voce ammazza, ammazza il zupano et tutta questa canaglia”, cfr. A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 346, 11 settembre 1593.73 Il timore che il podestà si accanisse contro di lui per l’attività di difesa prestata ai mor-lacchi lo aveva spinto a ricorrere a Venezia per ottenere che alcune sue cause giudiziarie fossero risolte da altro rappresentante, cfr. A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 317, 12 agosto 1563.

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A tale categoria appartiene indubbiamente il notaio: formule, linguaggio ritualizzato e scansioni descrittive appartengono ad un idioma colto e ne-cessariamente astratto. Ma egli deve descrivere pratiche sociali connotate dalla consuetudine e dalla tradizione. Il testamento, l’atto di compravendita o la donazione si avvalgono di stilemi giuridici colti, che devono delimitare e formalizzare consuetudini che a quello stesso linguaggio possono opporsi o non del tutto inserirsi. È evidente che l’attività del notaio, prima ancora di un’opera di mediazione, attua un’elaborazione ideologica di comprensione. In tal caso la procedura di adattamento dentro/fuori, prima/dopo, si rivela di estrema importanza per la decodificazione del contenuto veicolato (com-pravendita, ecc.) e per le pratiche di manipolazione attuate.Nell’ambito della piccola comunità risulta poi decisiva l’operazione di descri-zione affidata dalla gerarchia ecclesiastica al parroco. Importante strumento a sua disposizione sono i registri canonici, formalmente istituiti con il Con-cilio di Trento: un caso evidente di descrizione di consuetudini tramite un linguaggio dotto e stilemi giuridici altamente elaborati. I registri canonici descrivono innanzitutto l’idioma della parentela, pur senza rivelarne aper-tamente i complessi meccanismi interni. L’idioma della parentela coniuga i numerosi riti che contrassegnano la vita del mondo rurale. Riti di passaggio sono stati definiti, in quanto determina-no le varie fasi degli individui e del gruppo. Ma essi sono stati pure definiti riti di istituzione, in quanto, piuttosto che sottolineare il passaggio da una fase alla successiva, sono emblematici della separazione che creano: tra il maschile e il femminile, tra il celibe e lo sposato, tra chi è dentro e chi è fuori. Si tratta di riti che parlano il linguaggio della parentela. Come, ad esempio, i riti di ostilità rivolti contro i matrimoni tra vedovi, che vengono inevitabilmente a creare possibili tensioni tra la vecchia e la nuova parentela. La consuetudine della piccola comunità vive profondamente di questi riti. Appare scontato che una loro descrizione non può che essere piegata e deformata da un linguaggio culturale diverso, che proviene da un ordine gerarchico esterno.Il rito del battesimo appare nella registrazione del parroco filtrato dalla dot-ta percezione ecclesiastica. In realtà trapela da queste registrazioni tutto un mondo consuetudinario costellato di mammane, padrini, nomi, soprannomi e convenzioni sociali (illegittimi, esposti, concubini). Nella registrazione di matrimonio vincoli ed alleanze parentali s’innestano sul tema della mobilità sociale e geografica, rivelando pure, tramite le cosiddette stride il linguaggio elaborato dell’onore. E in quelle di sepoltura le credenze e i valori cultu-rali contadini sono filtrati dalla cultura, non sempre scettica, del parroco (interessanti le definizioni di certe malattie, come ad esempio il ‘mal della maledizione’). E si ricordino, infine, gli stati d’anime che, per lo più, rivelano la costellazione della parentela contadina sul territorio. La loro fissità è solo

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apparente, se la percezione storica tramite cui li si esamina è duttile ed at-tenta ai dettagli74.Le registrazioni canoniche costituiscono, indirettamente, la complementa-rietà e, al contempo, la divaricazione che esisteva tra comunità e parrocchia (soprattutto a partire dall’età moderna). Confraternite e fabbricerie parrocchiali sono due degli elementi che denota-vano in maniera visibile tale nesso di interdipendenza e di dualità. Le confra-ternite manifestavano un sentimento di religiosità che si poteva esprimere in modo anche conflittuale con la parrocchia e l’esponente celibe cui era af-fidata. E nel culto dei morti, e nei riti che lo contrassegnavano (processioni, assistenza), questi conflitti potevano catalizzarsi intensamente. Le fabbrice-rie, a loro volta, sancivano il diritto della comunità a gestire la fabbrica della chiesa e del campanile. Chiesa, campanile e banchi erano in questi casi dei luoghi simbolici, in cui parroco e comunità esprimevano, talvolta duramente, la complessità della loro fisionomia75.È evidente che si tratta di consuetudini che si incardinano su pratiche sociali descritte non solo con il linguaggio dotto, o comunque scritto, ma che ven-gono pure percepite in una logica conflittuale/giudiziaria e di controllo. La conoscenza di questo linguaggio e di questa logica permette, come abbiamo già visto nella vertenza successoria poco sopra esaminata, di cogliere le di-namiche di adattamento delle consuetudini e alcuni specifici aspetti della loro dimensione culturale.

Culture

Di certo la relazione tra comunità e parrocchia si gioca su molti livelli. E in taluni casi l’identità dell’una sembra procedere con quella dell’altra, come nel caso (frequentissimo nel Settecento) di quelle contrade che, ad un certo momento, sentono l’esigenza di provvedersi di una propria chiesa e di un proprio parroco, denotando, indirettamente, il raggiungimento di un’iden-tità provvista dei tratti tipici della comunità.Si tratta di temi di una certa rilevanza, che rinviano, in primo luogo, alla questione inerente la fisionomia e la specificità di ciascuna comunità di fronte al grande tema delle consuetudini.Ma in che misura, ogni (piccola) comunità era diversa da quelle limitrofe e da tutte le altre? In quale misura, inoltre, talune caratteristiche erano tali da

74 Cfr. per questi aspetti F. Lebrun, Il prete, il principe e la famiglia, in Storia universale..., pp. 95-157.75 Per tutti questi temi rilevantissimi rinvio ancora al testo di G. Le Bras, La chiesa e il villag-gio..., in particolare alle pagine 115-128.

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connotare lo specifico profilo di ogni comunità rispetto a tutte le altre? E po-tremmo aggiungere, pure: su quale fondamento poggiava la consapevolezza di ciascuna comunità di essere diversa da tutte le altre?Appare ovvio che taluni aspetti emergono visibilmente a suggerire, se non la sua specificità e la sua singola sembianza, la presenza di tratti istituzionali, economici, geografici e culturali in grado di incidere sulla fisionomia della comunità. Diritti di ius patronatus, strutture ‘forti’ di proprietà e di condu-zione della terra, natura del terreno, presenza di ville padronali e di oratori, diritti di giusdicenti, ecc.: si tratta di alcuni dei fattori di cui lo storico tiene solitamente conto per condurre la sua analisi storica e per cogliere i dati specifici del contesto esaminato.Il problema di determinare l’origine e l’intensità del radicamento delle pa-rentele sul territorio sembra però, a mio giudizio, il fattore decisivo per con-notare quella che possiamo definire la cultura di ciascuna comunità. E il ra-dicamento sul territorio, ovviamente, si rapportava con tutti quegli aspetti che abbiamo testè descritto, salvo, poi, a misurarsi con un quid quasi inestri-cabile sul piano storico e culturale. È probabile che il reticolo delle parentele giocasse un peso rilevante nel con-notare l’identità della comunità. Era tale reticolo, come si è detto, a influire sulle alleanze matrimoniali e sulle relazioni di vicinato, incidendo, a difesa, sia nei confronti di intrusioni pericolose provenienti dall’esterno, che nel mantenimento di quelle tradizioni che più si enucleavano nello spirito delle consuetudini della comunità. Probabilmente non è quindi azzardato sostenere che ogni comunità era provvista di una propria cultura, anche se è possibile altresì ipotizzare come le strutture politiche esterne finissero infine per assumere un peso politi-co determinante, sebbene forse non decisivo, soprattutto nella direzione di rendere più difficile e complessa la manipolazione delle decisioni da parte del reticolo parentale comunitario.Il tema della parentela e del suo radicamento sul territorio costituiscono, molto probabilmente, il fattore che giocò un peso decisivo nel connotare alcuni dei tratti più tipici della piccola comunità: il suo conservatorismo, il suo attaccamento alle tradizioni e una sostanziale diffidenza, se non ostilità, nei confronti di quanto proveniente dall’esterno era percepito come ostile e pericoloso. Questi elementi stanno probabilmente all’origine della clas-sica distinzione tra originari e forestieri, che pure era motivata dall’esigenza di ripartire equamente le risorse locali. Per essere formulata e salvaguar-data, questa distinzione doveva ovviamente far perno su una forte con-notazione ideologica interna: la consapevolezza delle proprie tradizioni e consuetudini.

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Fu probabilmente questa consapevolezza, negli anni sessanta del Cinque-cento, a spingere la comunità di Marzana, sita nel Veronese, a deliberare una parte che vietava a coloro che da almeno dieci anni non risiedevano conti-nuativamente nel suo territorio (pagando le imposte) ad usare una fontana di proprietà collettiva. La fontana, difatti, era posseduta dalla comunità da alcune centinaia d’anni, “che non è memoria d’huomo in contrario” e il suo uso era sempre stata ripartito tra le sue famiglie. Qualcuno però aveva pen-sato bene di vendere la sua quota a persone esterne e aveva poi lasciato il villaggio, creando grossi problemi alla comunità per il recupero dei diritti comuni, tanto più che i nuovi acquirenti erano “per il più cittadini et perso-ne potenti”. Espressione avvocatesca, quest’ultima, di certo, ma il fatto che la comunità si spingesse a Venezia per far approvare la sua delibera esprime bene una strategia che mirava sia a salvaguardare talune consuetudini che a definire nuove strategie di conflitto76.Il conservatorismo tipico della piccola comunità e dell’ideologia consuetu-dinaria è un tratto ricorrente, che però si declina in modo non uniforme, in quanto trae la sua origine sia da talune caratteristiche interne che dalla specificità delle strutture istituzionali entro cui si cala.Il tema delle parentela si rapporta ovviamente alla gestione della struttura politica della comunità. Anche se nella piccola comunità non esistevano diffe-renze di ceto e di status, sarebbe ingenuo ritenere che la conduzione politica della comunità fosse a base democratica. L’esistenza e la forza delle convicinie (vicinie, regole, ecc.) attestavano, in verità, l’assenza, nell’ambito delle paren-tele, di un diritto di precedenza in grado di incidere nei rapporti di forza politici e sociali. È comunque ovvio che la gestione delle risorse e dei beni comuni si svolgesse all’insegna dei reticoli parentali, della loro forza e della loro capacità di incidere nella faida locale. Un aspetto interessante, che meriterebbe di essere approfondito, è il pro-cesso sociale e politico che si veniva a costituire quando, nell’ambito del-la piccola comunità, alcune parentele emergevano per la loro indubbia forza economica e miravano a dotarsi di un profilo sociale caratterizzato da para-metri ideologici e culturali esterni (cittadini). Per realizzare le loro strategie di conquista, molto spesso, tali parentele uscivano dalla piccola comunità per cercare uno spazio consono alla nuova identità. Ma questo non era, e non fu, sempre possibile, soprattutto quando, nel corso del Cinquecento, i consigli cittadini chiuderanno le loro fila, ricorrendo a criteri di accesso assai più severi. A tale fenomeno si ricollega certamente il nascere di istituzioni terri-toriali a più ampio respiro politico (e sarebbe interessante verificare l’artico-lazione delle parentele e delle loro alleanze in un ambito territoriale vasto,

76 A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 318, 16 maggio 1564.

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nonché la loro specifica individuazione in funzioni importanti come quelle svolte, ad esempio, dai notai dei vicariati)77.Questo processo sociale e politico ebbe certamente vistosi contraccolpi sulla struttura sociale della piccola comunità. Al suo interno si verificarono divari-cazioni e conflitti che non sono certamente assimilabili a quelli che traevano origine dalla consueta crescita della comunità verso forme che sono state de-finite di ‘quasi città’. In questi ultimi casi l’emergere di un ceto che si dota di un profilo politico e di uno status diverso è percettibile sia dalle divaricazio-ni che si creano all’interno dei consigli (nobili e popolari) che dall’acutizzarsi della faida verso forme violente e spesso incontrollabili.Nella piccola comunità, invece, l’emergere di talune parentele, non in grado, per la specifica situazione interna ed esterna, a dotarsi di criteri ideologici di distinzione, volti a creare un diritto di precedenza, agì probabilmente sulla stessa definizione e tipologia dei conflitti interni e sulle relazioni di patro-nato. Gli antichi rapporti di patronato che l’aristocrazia terriera deteneva con le parentele contadine s’incrinarono. I nuovi soggetti articolarono e resero più complessa la faida locale, mettendo in discussione il rapporto di sogge-zione nei confronti degli esponenti nobiliari proprietari di terre. Laddove questo fenomeno prese avvio, lo spazio politico della piccola comunità si rese più complesso, utilizzando ambiti istituzionali (come ad esempio i vicariati) che tradizionalmente riflettevano lo strumento di controllo della città sul contado. E non è certamente un caso che proprio nell’ambito di questi nuo-vi spazi politici che si enunceranno proposizioni rivendicative di notevole livello politico (come nel caso del vicariato vicentino di Orgiano)78.Oppure si delineeranno conflitti difficilmente riscontrabili nelle epoche precedenti. Come spiegare, altrimenti, quella supplica che la città di Padova, nel 1584, inoltrò alla Signoria per opporsi ad un contadino di Casale, un certo Alessan-dro Ferro? Costui, a detta degli avvocati della città, per ben quattro anni, in qualità di ministro aveva tiranneggiato il vicariato di Conselve, appropriandosi di grosse somme di denaro. Inquisito e imprigionato, il Ferro era però riusci-to a difendersi così bene che aveva dovuto essere rilasciato. E, lamentava la città, la sua abilità era tale, che probabilmente sarebbe sfuggito alla meritata pena. È evidente che il solo emergere di tali conflitti ( e la loro retorica espo-sitiva) è sintomo di nuovi e mutati rapporti di forza79.Forme tradizionali di amicizia e di patronato, come ad esempio il concubi-nato ancillare o la gestione di taluni conflitti, cominciarono ad essere messi

77 Cfr. C. Povolo, L’uomo che pretendeva..., pp. 65-85. 78 Cfr. C. Povolo, L’intrigo dell’onore..., pp. 76-80 e passim.79 A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 338, 7 aprile 1584.

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in discussione, aggirando il controllo della giustizia penale esercitato dalla città80.Il tema della fisionomia politica delle comunità si collega ovviamente ai suoi rapporti con le strutture istituzionali esterne e più in generale alla natura e alla dimensione politica dello stato di cui esse facevano parte. In definitiva si tratta sì di verificare l’articolazione dei rapporti di forza tra poteri locali e poteri statuali, ma, ancor più e, potremmo dire, al di là di questo stesso pro-blema, l’intensità dell’influenza esercitata dalle caratteristiche stesse della forma di potere dello stato. E questo non tanto per sostenere una possibile e decisiva incidenza di quest’ultimo sulla dimensione della piccola comunità, quanto piuttosto per delineare il reciproco adattamento di dinamiche di po-tere che si muovevano in contesti istituzionali notevolmente diversi.Come si diceva, giova poco sul piano storiografico rilevare la persistenza di quell’ideologia definita comunalismo, nel momento in cui le pratiche sociali attestano non solo nuove articolazioni sociali, ma soprattutto il modificarsi delle procedure che regolamentavano quelle che con i sociologi del diritto possiamo definire pretese giuridiche. Una delle più classiche forme di pretesa giuridica era costituita dalle cosiddette suppliche, petizioni, gravamina. Una lettura dei percorsi istituzionali che le veicolavano suggerisce, ad una certa epoca, trasformazioni rilevanti.Ecco alcuni esempi, tratti dal grande archivio veneziano. Esempi che voglio-no proporre una lettura di questi documenti, alla luce del percorso istituzio-nale che li fece emergere.Una grossa contesa opponeva da tempo il vescovo di Ceneda ad alcune fa-miglie di Costa, villaggio sottoposto alla giurisdizione di Serravalle. L’ogget-to del contendere erano alcuni appezzamenti di terreno che i contadini di Costa sostenevano essere di loro possesso da tempi immemorabili (proba-bilmente a titolo di livello), ma che, all’incontrario, il vescovo rivendicava appartenere al vescovado, che li aveva loro concessi a titolo di affitto. Una contesa antica e assai diffusa pure in molti altri territori, anche se in questo caso la giurisdizione di cui il vescovo di Ceneda era insignito rendeva la que-stione alquanto delicata sul piano politico81. Il 6 marzo 1569 il vescovo inol-trò una petizione alla Signoria, esponendo come, nonostante i molti giudizi negativi, i contadini avessero l’anno precedente inoltrato una supplica alla stessa Signoria, rivendicando i loro presunti diritti e chiedendo che le relati-ve informazioni fossero assunte dal podestà di Conegliano. Ma, proseguiva il prelato, essi non si erano poi preoccupati, dopo che il podestà aveva assunto le dovute informazioni, di sollecitare che lo stesso redigesse una risposta, che

80 Un esempio significativo in C. Povolo, L’intrigo dell’onore..., pp. 355-412.81 G. e L. Cozzi (a cura di), Paolo Sarpi. Opere, Milano 1969, pp. 468-496.

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avrebbe poi dovuto essere presentata alla Signoria82. E, dunque, era stato lui stesso, infine, a richiederla. Supplicando che le richieste dei contadini fossero licenziate, il vescovo inol-trava la stessa supplica che essi avevano precedentemente presentato e la relativa risposta del podestà di Conegliano (scritta in data 9 gennaio 1569 m.v.83). Quasi contemporaneamente, gli stessi contadini di Costa si presen-tavano alla Signoria con una nuova supplica, ribadendo il rispetto dei loro antichi diritti84. Il 13 ottobre 1570 i consiglieri decidevano che la loro richie-sta fosse accettata e che le relative informazioni fossero assunte dal podestà di Conegliano85. Quali indicazioni trarre da questa vicenda? Al di là del suo contenuto speci-fico, mi sembra importante soffermare l’attenzione sul percorso istituzio-nale seguito dalla contesa. Così come in altre situazioni, il contesto in cui il conflitto si svolge è quello tradizionale, caratterizzato da un estremo e formale ossequio nei confronti di patti e diritti acquisiti. I soggetti si muo-vono nell’ambito di uno sfondo istituzionale in cui giustizia e amministra-zione si fondono in un tutt’uno.86 L’iniziativa è nelle mani di chi, ritenendosi leso nei diritti acquisiti, sollecita un accertamento giudiziario volto ad ac-certare la lesione compiuta. In questi casi la Signoria si pone come garante della conservazione dello stato giuridico delle cose. La possibile delega ad un organo superiore, come l’Avogaria, sollecitata dagli stessi soggetti, non ha apparentemente il fine che di ripristinare l’esistente (anche se è difficile

82 Il vescovo di Ceneda intendeva così porre in rilievo come la comunità di Costa, temendo di ottenere un parere negativo, si fosse ben guardata dal sollecitare il rilascio della risposta dal podestà di Conegliano. E, come vedremo, in questo periodo, stava agli stessi supplicanti inoltrare le risposte al supremo organo veneziano.83 Cioè l’anno more veneto, che iniziava, come è noto, il primo di marzo. Il podestà di Cone-gliano aveva osservato come “la maggior ragione essere dal canto di detto vescoato...”.84 Nella nuova supplica essi motivavano l’esito inconcludente di quella precedentemen-te presentata: “sopra la qual, essendo stato commesso il respondeat al magnifico podestà et capitano di Coneian, siamo comparsi davanti sua magnificentia per far le iustificationi di quella, solite et ordinarie, ma non solamente, in tempo che si trattava questa materia, siamo stati brusciati fino in casa et le nostre scritture di maggior importanza insieme. Ma anco il detto magnifico podestà et capitano, litigando noi con persone potenti et ricche, che appena habbiamo chi ci volia defender, essendone stato tolto il nostro advocato vecchio di Serraval-le, con astutia et mezzi indiretti, non ha voluto admettere le nostre realissime et verissime iustificationi, sì come gli era imposto da Vostra Serenità; essendo noi poverissimi, per li uffici cattivi della parte contraria, travagliati et privi di poter usar delle nostre ragioni, non possen-do haver copia de alcun atto publico a Ceneda concernente il nome et interesse nostro et de tutto quello che ne potria giovare...”. 85 A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 324, 13 ottobre 1569.86 Sul cosiddetto Stato giurisdizionale di antico regime cfr. Lo stato moderno in Europa. Istitu-zioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, Bari 2002.

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negare come questo sbocco finisse, infine, per influire sulle stesse forme di manipolazione)87. Sono i contadini di Costa a sollecitare il ripristino dello status quo. Sono essi stessi a consegnare la lettera ducale della Signoria al podestà di Conegliano, sollecitando l’avvio di un processo atto ad accertare, in base a testimonianze e documenti, la validità dei loro diritti. Ed infine sarebbe spettato ad essi consegnare il resoconto dello stesso processo alla Signoria. In questo caso però ciò non avviene88. È allora il vescovo di Ceneda ad inserirsi attivamente e strumentalmente nello stesso percorso chiedendo che la loro (prima) supplica (che egli ripresentava in copia) venisse respinta. Si tratta di un percorso lineare, che in questa vicenda è forzato dalla specifi-ca tipologia del contesto, ma che rivela sostanzialmente lo svolgimento e la dinamica dei conflitti di questo periodo. Un percorso che, tra l’altro, era per lo più in grado di convogliare le tensioni esistenti all’interno della comunità verso forme istituzionali, vanificando potenziali sommosse e rivolte, condot-te proprio all’insegna dell’avvenuta lesione nei confronti delle consuetudini e degli antichi diritti della comunità.Nel corso dei decenni seguenti le suppliche conservano la dimensione di una pretesa giuridica rilasciata alla parte richiedente (e quindi affidamento della ducale, suo inoltro al giusdicente, escussione di testimoni per provare la va-lidità della richiesta), ma con alcune modifiche non trascurabili. A partire dagli anni novanta del Cinquecento la risposta del giusdicente deve per lo più essere inviata sigillata alla Signoria tramite pubblico corriere (o persona non interessata).Una modifica della procedura che incideva sul percorso tradizionale delle suppliche che da ogni parte dello stato giungevano alla Signoria. Apparente-mente un dettaglio non significativo, ma che in realtà, pur lasciando l’inizia-tiva alla parte supplicante, ne limitava notevolmente l’uso strumentale, così come rendeva più affidabile l’operato dei rappresentanti locali. Ecco un altro esempio. Siamo ancora a Serravalle, giurisdizione di Ceneda, nel 1605. Un certo Andrea Maddalena si rivolge alla Signoria, lamentando di essere stato assalito e ferito da un rivale, il quale può vantare non solo

87 I supplicanti chiedevano per lo più che il loro caso fosse sottratto alla giurisdizione or-dinaria per essere delegato all’Avogaria o ad altro giusdicente. 88 Nella seconda supplica, la comunità di Costa, non faceva che ribadire le pretese prece-denti, sottolineando però che venissero eliminate le difficoltà che erano state frapposte dal potente avversario: “la Serenità Vostra sia contenta degnarsi commettere al magnifico pode-stà et capitano di Coneian, o dove a lei parerà, che sopra la detta nostra supplicatione, servatis servandis, habbia a tuor quella informatione delle cose contenute in essa nostra supplicatio-ne et offerto di provare, iusta il solito et ordinario ut in similibus, con auttorità di poterci far dar tutte quelle copie di scritture et atti publici concernenti il nome et interesse nsotro, così a Ceneda, come altrove...”.

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aderenze con le famiglie più importanti del luogo, ma gode di protezione da parte dello stesso podestà. Chiede quindi che il giudizio sia sottratto alla giurisdizione del rappresentante di Serravalle e sia affidato a qualsiasi altro tribunale. La Signoria, accogliendo la supplica, incarica il podestà di Treviso di rispondere (nelle modalità che abbiamo ricordato), ma specifica altresì che la risposta sia sigillata e contrassegnata dal nome e luogo di provenienza del supplicante, per essere poi inviata con la stessa supplica “per cavallaro o altra persona publica”89.Un dettaglio non insignificante. Ma che in taluni casi poteva pure divenire decisivo. Stesso anno, ma in una località del vicentino: una vicenda ormai nota e provvista di una descrizione densa. La comunità di Orgiano ha inviato una lunga serie di gravami contro gli esponenti nobiliari locali. Ad infor-mare è incaricato il podestà di Vicenza, Vincenzo Gussoni. La comunità, ottenuta la ducale, la trattiene per più di una settimana; discute, si divide, poi decide finalmente di presentarla al podestà, richiedendo che sul suo contenuto siano escussi i testimoni che verranno indicati. Tutto regolare, dunque. In base alla nuova procedura il Gussoni avrebbe dovuto procedere alla formazione di un processo verbale e poi, di seguito alle testimonianze raccolte, stendere una lettera da inviare direttamente alla Signoria. Ma è questa nuova procedura a prospettare imprevisti e possibili sviluppi. Il Gussoni, infatti, ritiene che la cosa sia più grave del previsto e non si ac-contenta di redigere il solito processo verbale. Si informa, indaga nell’ar-chivio cittadino e si convince, infine, che è politicamente più opportuno informare il Consiglio dei dieci. Tale decisione fa saltare ogni aspettativa locale. Il processo che viene avviato su ordine del massimo organo politi-co-giudiziario veneziano è provvisto del rito inquisitorio e scalza qualsiasi possibilità di manipolazione e di compromesso (che le antiche procedure permettevano)90.Le suppliche inoltrate dalle comunità erano solitamente di grande rilievo po-litico perché attestavano la loro capacità di difendere diritti acquisiti e così pure erano indice delle trasformazioni sociali e politiche avviatesi al loro interno.La storiografia ha dedicato molta attenzione ai nessi intercorrenti tra pote-ri locali e poteri esterni (cittadini, statuali, ecc.), accentuando, secondo le prospettive, il prevalere dell’ordinamento pattizio di antico regime (che, se disatteso, poteva generare pericolosi sommovimenti), o, all’incontrario, l’e-mergere di poteri nuovi, che dall’esterno sono in grado di prospettare nuove

89 A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 358.90 Sul rito inquisitorio del Consiglio dei dieci cfr., Il processo a Paolo Orgiano (1605-1607), a cura di C. Povolo con la collaborazione di C. Andreato, V. Cesco e M. Marcarelli, Roma 2003.

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logiche istituzionali e decisionali. Un tema, in definitiva, che, soprattutto se esaminato tramite lo strumento delle suppliche e delle petizioni, rivela le caratteristiche e le tipologie della comunicazione politica nell’ambito di una struttura di potere articolata e policentrica91.Se la persistenza di logiche strettamente comunitarie è innegabile, anche dopo la fine dell’antico regime (si pensi alle sommosse originatesi in periodo di dominazione francese per motivi fiscali), è altresì facilmente verificabile come si attui nel corso dell’età moderna un trasferimento di funzioni verso centri decisionali esterni. Ad attestarlo sono una serie di osservazioni di ri-lievo indubitabile: l’indebolimento delle faide locali e il loro ripiegare verso relazioni di patronato che si muovono dal centro; il cambiamento di proce-dure giudiziarie (in senso lato) in grado di indebolire le manipolazioni dei conflitti da parte delle forze locali; l’indubbia capacità del centro dominante di assorbire, fagocitandole, le forze sociali che si muovono attivamente in ambito locale.Quest’ultimo aspetto, in una prospettiva antropologica, di certo aggira l’im-passe interpretativa sul piano istituzionale, in quanto esso rinvia a quello che possiamo definire il nodo centrale del problema: la distribuzione dei poteri in un contesto territoriale ben definito.È evidente che laddove si afferma una struttura di potere gerarchico (sul piano giudiziario, fiscale e politico in senso lato) la dimensione politica dei poteri locali è comunque condizionata da logiche che muovono dal cen-tro, agendo sia sul piano istituzionale, o, laddove quest’ultimo è più debole (come ad esempio nel corso della formazione dello stato nazionale italiano), ricorrendo a forme evidenti di patronato e di clientela (amicizia).In una struttura di potere priva di connessioni gerarchiche tra centro e pe-riferia (come ad esempio nelle repubbliche aristocratiche) il municipalismo e il comunalismo erano evidenziati al massimo grado sul piano ideologico. Inoltre l’impossibilità di ascesa da parte delle forze locali verso forme più compiute di potere faceva sì che si creasse una sorta di separatezza giuridica che esaltava i conflitti e la loro dimensione municipalistica (rendendo ogni forma di sommossa un caso piuttosto isolato)92.I nuovi stati nazionali, rafforzatisi nel corso dell’Ottocento, avrebbero dovu-to fare i conti con le eredità dell’antico regime e la persistenza di una cultura

91 Oltre ai riferimenti già ricordati cfr. inoltre A. Würgler, Voices from among the “Silent Mass-es”: humble petitons and social conflicts in Early Modern Central Europe, in “International review of social history”, 46 (2001), Supplement, pp. 11-34.92 C. Povolo, The creation of Venetian historiography, in Venice reconsidered. The history and Civilization of an Italian city-state. 1297-1797, a cura di J. Martin e D. Romano, Baltimore 2000, pp. 491-519.

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comunitaria ancora fortemente coesa intorno alle proprie consuetudini. Di certo, altre procedure ed altri meccanismi istituzionali e giudiziari avreb-bero reso sempre più complesse e difficili le forme di manipolazione poste in atto nell’ambito delle comunità. Ma il destino delle consuetudini sarebbe ancora stato ben al di là dal raggiungere il suo esito fatale e definitivo.

IRREQUIETUDINI FEMMINILI: LAURA MARIA GHELLINI

 

Introduzione

Figlia di Antonio e di Ottavia Capra1, la contessa Laura Maria Ghellini espres-se assai bene, nella figura di moglie, dapprima, e di figlia, poi le vistose con-traddizioni della famiglia aristocratica settecentesca. Destinata in sposa, nel 1765, al marchese Nicolò Colocci di Iesi, si vide costretta, di lì a pochi gior-ni, a chiedere l’aiuto dei genitori per sfuggire, ad un tempo, alle tirannie e all’assoluto disinteresse amoroso dello stravagante marito.E dire che quel matrimonio, certamente a lungo preparato dalle due famiglie mediante ben calibrate trattative, non aveva infine convinto i genitori di Laura Maria. Non era loro piaciuto l’atteggiamento altero e persino scortese del giovane Colocci: un atteggiamento che l’aveva spinto a scontrarsi con la stessa contessa madre. Per non aggiungere, poi lo scandaloso attaccamento che il marchese aveva apertamente dimostrato nei confronti del suo segre-tario nei giorni in cui, tra parenti ed amici, era stato accolto nella splendida villa di Villaverla.Le esitazioni, infine, erano però state messe da parte. Laura Maria, che pure inizialmente aveva mal accondisceso a quel matrimonio impostole dalla fa-miglia, alla vista del giovane marchese, sopraggiunto a Vicenza per definire

1 I Ghellini e i Capra erano tra le famiglie aristocratiche piu antiche ed in vista di Vicenza. Antonio era figlio di Agostino di Lelio. In biblioteca civica Bertoliana di Vicenza è depositato il fondo familiare del ramo collaterale a quello da cui discendeva Antonio Ghellini. Dai docu-menti ivi conservati si possono ricavare le poche notizie che lo concernono. Nel 1720 il con-te Alessandro Ghellini è procuratore per conto dei figli pupilli del fratello defunto Agostino. Agostino fa testamento il 26 gennaio 1708 presso il notaio Giovan Pietro Tomba. Entrambi i rami possedevano ampie proprietà e case domenicali in Villaverla, cfr. Biblioteca civica Berto-liana, Archivio Ghellini, libro 31 cc. 6, 7, 173. 210, 427, 489 per varie informazioni concernenti la successione genealogica dei due rami. Il 20 gennaio 1765 Antonio e Lelio Ghellini acquistano dai fratelli Zago e da altri proprietari la parte di palazzo contermine alla loro abitazione: “una casa posta in questa città in contrà di Carpagnon, sindacaria del Domo, la qual casa è cupa-ta, solarata con due appartamenti, ciascuno di due camere e granaro, con scala di legno, un mezato in solaro con sotto caneva terrena e un’altra sotterranea… tutte due con solaro con sua porta e ingresso...”, cfr. Archivio di Stato di Vicenza, Notai di Vicenza, busta 15286, num. 211 e 212.

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l’accordo, non aveva saputo resistere al fascino di un uomo che tutti erano pronti a definire altezzoso ed ambiguo. Le parti si erano, per così dire, inver-tite: pur di fronte all’improvviso innamoramento della figlia, Antonio Ghel-lini e Ottavia Capra erano stati sul punto di rescindere l’accordo.Alla fine, comunque, i due genitori e lo zio di Laura, il canonico Lelio Ghelli-ni, non avevano saputo ritornare sui loro passi: e d’altronde come giustifica-re, di fronte a tutta la città, un simile ripensamento? Il matrimonio fu infine fastosamente celebrato nella chiesa delle Madonna delle Grazie di Vicenza2 e, com’era d’uso a quei tempi, venne pure edita una altisonante raccolta di poesie3.Accompagnati dal sempre più inquieto e sospettoso canonico, Laura e il gio-vane marchese Colocci compirono il viaggio per Iesi, con un largo seguito di servitori e domestici. Le iniziali impressioni negative non si erano però rivelate erronee: al suo ritorno Lelio Ghellini riferì dello strano atteggiamento del marchese, così poco attento e disponibile nei confronti della graziosa sposa, al punto che non aveva affatto nascosto, tra lo stupore della numerosa comitiva, di non gradire affatto di dormire con lei. E, poi, che dire di quel suo morboso attac-

2 Archivio della curia di Vicenza, Registri dei matrimoni, 29 agosto 1763: “lI nobil signor mar-chese Nicolò figlio lei nobil signor marchese Adrian Colocci della città di Iesi, da una, e la nobil signora contessa Laura figlia del nobil signor conte Antonio Ghellini di questa parrocchia del-la cattedrale, dall’altra, ommesse le solite pubblicazioni in virtù di mandato episcopale sotto il giorno 25 cadente rilasciato e sottoscritta dall’eminentissimo nostro cardinale e vescovo Antonio Marin Priuli, servatis servandis, per verba de presenti, sono stati congiunti in matri-monio dal nobil signor conte don Lelio Ghellini canonico in questa cattedrale, specialmente delegato dal reverendissimo signor canonico parroco don Giuseppe Troncato, con l’assistenza di me don Lorenzo Bergamo curato in questa cattedrale, nella chiesa dei reverendi padri della beata vergine delle grazie, con la celebrazione della santa messa e benedizioni. Testimoni rogati e presenti il nobil signor conte Tomaso Piovene del nobil signor conte Francesco ed il nobil signor conte Pietro Zago quondam nobil signor conte Ortensio”.3 Corona di fiori offerta nelle nozze dei nobilissimi signori marchese Niccola Colocci, patri-zio romano e di Iesi, e la contessa Laura Ghellini, patrizia vicentina, Roma, 1765. Nella breve introduzione alla raccolta di poesie il Conte Maurizio di Belfort presentò una nota agiografica delle famiglie dei due sposi. Non mancò ovviamente di soffermarsi pure sulle qualità dei due giovani sposi, in particolare di Laura: “Soffra la vostra modestia che io finalmente soddisfi all’alta idea che ho di Voi e all’animo mio dia sfogo col dirvi, insieme con tutti quelli che li Voi parlano, che all’incomparabile bellezza vostra unite maravigliosarnente l’oneste maniere, gli atti cortesi, e che ai modi signorili e benigni aggiungete i pregi della mente: e per esprirner tutto in poco, che con Voi vanno del pari la Fortuna e la Virtù, le belle doti dell’animo e le fattezze più rare e che avete pienamente appagate le speranze de’ vostri generosi savissimi Genitori, il signor Conte Antonio Ghellini e la signora Contessa Ottavia della nobilissima fami-glia Capra. Solo dunque, Eccelsa Donzella, vi mancava uno Sposo che a paragone vostro non isconparisse e che meritasse la sorte di possedervi…”.

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camento verso il giovane cameriere – Giuseppino – trattato così familiar-mente in presenza della stessa Laura Maria? Ai primi di ottobre del 1765 Antonio Ghellini ricevette una lettera della fi-glia che confermava purtroppo quanto ormai tutti temevano e non osavano apertamente manifestare: quell’unione si era subito rivelata disastrosa; il marchese Nicolò Colocci non solo aveva emarginato la giovane moglie, ma la sottoponeva pure costantemente ad una gratuita e crudele persecuzione psicologica.Tra ottobre e dicembre si susseguirono le successive lettere di Laura Maria, da cui trapelavano in maniera sempre più aperta l’angoscia e il timore che avevano ormai colto la giovane sposa, in preda al furore e alle bizzarrie del marito, e pienamente consapevole di essere ritenuta un’intrusa e un ostaco-lo dalla stessa suocera, la marchesa Vittoria.Considerata la gravità della situazione (avvalorata pure da lettere di amici e confidenti) il conte Antonio Ghellini si decise infine ad intraprendere il pas-so gravoso, ma ormai inevitabile. Ricorrendo abilmente alla rete di amicizie e conoscenze che la sua Casa poteva vantare, Laura Maria venne prelevata da Iesi e ricondotta nella natia Vicenza.Il peggio era stato evitato, ma l’onore delle due famiglie aveva subito dei pesanti contraccolpi. Sul delicato terreno dell’onore si giocarono pure le ultime battute della vi-cenda. La richiesta di divorzio avanzata da Laura nei confronti del marito – prevedendo, qualora fosse stata accolta, se non l’annullamento del ma-trimonio quanto meno la separazione dei due coniugi – avrebbe infatti ine-vitabilmente ridefinito, a tutto vantaggio della famiglia Ghellini, l’esito di un conflitto svoltosi sotto gli occhi di un pubblico attento e curioso, sparso un po’ in tutta la penisola.Il dramma personale di Laura Maria lasciò quindi ampio spazio ad altri in-terlocutori che, dietro alla vicenda della sfortunata unione dei due giovani aristocratici, erano inclini a coglierne (e a temerne) i densi significati simbo-lici e la loro potenziale capacità di rottura nei confronti di una società assai fragile nella sua configurazione cetuale e politica.Le schermaglie tra le due famiglie vennero, infatti, ben presto ad inserir-si nei conflitti giurisdizionali tra autorità ecclesiastiche e autorità secolari, mettendo in evidenza l’indubbio rilievo politico assunto dalla fuga di Laura Maria Ghellini dalla casa del marito.La famiglia Colocci si oppose immediatamente all’istanza di divorzio di Laura Maria4, ricorrendo alle massime autorità ecclesiastiche. Alla fine di febbra-

4 Agli inizi di gennaio del 1766 la famiglia Ghellini aveva infatti presentato formale richie-sta di divorzio presso la curia vicentina, motivandola “ex causa saevitiarum, molestae cohabi-tationis, odii capitalis cum evidente pericolo vitae…” cfr. Archivio di Stato di Venezia (=A.S.V.),

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io del 1766 il nunzio pontificio a Venezia presentò al Collegio una formale protesta per il modo in cui si era svolto l’allontanamento della giovane dalla casa maritale, avanzando inoltre l’esplicita richiesta che l’organo politico or-dinasse al conte Antonio Ghellini 

...di dover ricondurre la detta sua figlia a Iesi, ore sarà collocata in luogo di sicu-rezza, finché o riesca col qualche maneggio di rappacificarla col marito, al qual effetto l’istessa Santità sua è disposta di prestarsi colla sua paterna premura, ovvero produca essa le sue ragioni con intentare quel giudizio che le aggraderà, potendo esser certa di avere riscuotere quella giustizia che sarà per competere alla sua causa.La Serenità vostra, l’eccellenze vostre intendono benissimo non essere nè giusto, nè decente che la moglie, qualunque possa essere la sua pretensione, resti in tali circostanze nella sua totale libertà ed abbandoni il luogo del domicilio del mari-to, specialmente quando in questo può esser sicura da ogni molestia, nel che la sua Beatitudine sarà per impegnare tutta la sua autorità….

 La situazione scandalosa di una moglie allontanatasi dalla casa del marito co-stituiva, infatti, una grave lesione all’onore delle famiglie. Requisito teorico preliminare perché la causa di divorzio potesse essere avviata e trattata era che la moglie, con il consenso del marito, fosse accolta in un monastero in attesa della risoluzione della vertenza giudiziaria5.

Consultori in iure, filza 520, c. 23.5 In una breve memoria, allegata al fascicolo presentato dal conte Antonio Ghellini si evidenziò come la questione fosse comunque tutt’altro che semplice: “Circa l’anno 1734. Na-quero un tempo vari dissapori tra marito e moglie per solo motivo di diversità di tempera-mento e di maniera diversa di pensare Crebbero gli dissapori, senza però verun atto di posi-tiva violenza, a segno che la moglie si misse in pensiero di separarsi dalla casa del marito, il quale mai acconsentì ad una tale separazione; e quantunque rimostrasse apparentemente in differenza sull’idea della moglie, pure vedendola in prossima disposizione di rissolvere, affine di sostanzialmente rillevare il suo dissenso, le fece intendere che una volta si fosse segregata dalla di lui casa più non l’avrebbe nè ricercata nè accettata, credendo con una tale minaccia e penalità ritraerla forse da sì precipitoso passo. Inutile fu questa salutare intimazione e però la consorte se ne partì, ricoverandosi in stato alieno da quello del marito. Questo per far cono-scere sempre più la di lui ripugnanza al partito preso dalla moglie, poco dopo la fece ricercare per mezzo di persone rispetabili, indi col ricorso all’autorità ecclesiastica e secolare, ma ogni tentativo riuscì inutile, poichè la moglie prima di venire alla riunione pretendeva condizioni e patti. Articolo che in verun modo mai si è voluto accordare dal marito col solo riflesso che un tale sistema ad altro non poteva finalmente servire che a tenere aperta una strada con-dutrice a nuovi e forse più facili dispareri, invece di conciliare la reciproca pace, sichè resasi la materia del tutto incolta, restò anche perpetuamente giacente”, cfr. A.S.V., Consultori in iure, filza 520. Il 15 maggio 1766 la famiglia Ghellini presentò comunque un’attestazione del medico fisico Giovan Maria Pigatti, il quale dichiarava che Laura Maria “si trova incomoda-ta presentemente da indisposizioni di salute, che ricercano un’attuale medicatura, attese le quali ed attese specialmente quelle morbose affezioni alle quali è proclive per ragion di tem-

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Il primo marzo 1766 il Senato veneziano richiese informazioni al podestà di Vicenza, il quale rispose il 25 dello stesso mese, allegando il memoriale del conte Antonio Ghellini6 con i documenti e le lettere di Laura che dovevano avvalorare il comportamento ostile del marchese Nicola Colocci7.Di lì ad alcuni mesi lo stesso organo veneziano autorizzò le autorità ecclesia-stiche vicentine a proseguire la causa di divorzio già avviata su iniziativa di Laura Maria Ghellini.Dopo alcuni anni il tribunale vicentino decretò infine l’annullamento del matrimonio contratto nel 1765 tra la contessa vicentina e il marchese Nicola Colocci.La vicenda, dunque, almeno per il momento, si era favorevolmente conclusa per la famiglia Ghellini. Ma un’amara sorpresa doveva ancora attendere il conte Antonio Ghellini.Nel giugno del 1772 Laura Maria Ghellini, dopo essersi furtivamente allon-tanata dalla casa paterna, contrasse un secondo matrimonio. Il nuovo sposo, Francesco Rizzi, era un chierico della cattedrale cittadina e il rito matrimo-niale prescelto, ben lontano da quello previsto dai canoni ecclesiastici, si era svolto clandestinamente di primo mattino. Il conte Arnaldo Arnaldi Primo

peramento, correrebbe un evidente pencolo di rilevare gravissimi sconcerti di salute quando fosse obligata a vivere ristretta nelle angustie di un monastero…”, cfr. Ibidem.6 Cfr. Ibidem p. 9.7 Di lì a qualche anno, nel processo istruito dalla Corte pretoria di Padova in occasione della successiva fuga della giovane, l’avvocato vescovile Giovan Francesco Zanadia ricordò le principali fasi della vertenza giudiziaria: “…mi par, non conservando precisa memoria, che fu nel fin del 1765 oppure nel principio del 1766 o poco più, che detta contessa incaminò una lite al marchese Nicola Colozzi in questo foro di Vicenza. Ottenne prima di tutto lettere di citazione da monsignor nostro vescovo perché comparisse in questo foro il detto marchese di lei marito a veder il divorzio del matrimonio, con risserva di ricercar in seguito la nulità del medesimo, dirrete dette lettere alla curia vescovile di Iesi, patria del marchese stesso. Ottenute le responsive con la rifferta da detta curia, ma non essendo comparso il marchese, nè alcun altro per lui, trascurò pur la contessa stessa ogni atto rapporto al ricercato divorzio, come se non avesse fatto alcun passo. Di là a qualche tempo, se non m’inganno fu nel 1769 o 1770, impetrò nuove requisitoriali con la citazione verso detto marchese per il punto della nullità del di lei matrimonio; e speditele alla curia di Iesi perché fosse praticata la citazione sudetta, ma non essendo state eseguite l’ultime lettere da quella curia, fu nella necessità la contessa Laura ricorrere dall’eccelentissimo Senato, colla produzione degli attestati e carte attinenti alla materia, dal qual Senato, essendo stato prescrito al nostro monsignor vescovo la prossecuzione della vertenza, ebbe egli in obbedienza alla pubblica volontà a devenire al giudizio di tal causa, in confronto del promottor fiscale don Gaetano Monari, deputato a dif-fender le ragioni del sacramento e come è il solito in simili casi, quando non vi parte che si difenda destinare un tal soggetto. Adempite nonostante da questi l’offizio che se gli incombe-va, naque sentenza favorabile per la detta contessa Laura, con cui monsignor vescovo annullò il matrimonio medesimo. Ed in tal modo fu definita la vertenza in questo foro…”, cfr. A.S.V., Consiglio di dieci, Processi criminali, Padova, b. 36.

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Tornieri, puntuale e acido cronista degli eventi cittadini non si lasciò sfuggi-re la nuova fuga di Laura Maria, annotando nel suo diario:

La contessa Laura Ghellina, figlia del conte Antonio Ghellini, giovane dama e adorna di belle qualità, è stata anni sono congiunta in matrimonio col marchese Colocci cavaliere di Iesi. Ma ritornata dopo non molto tempo in Vicenza fu per sentenza del nostro vescovo dichiarato nullo il matrimonio suddetto. Ora que-sta mattina, mentre in Duomo diceva messa il parroco Marchiori alle ore otto, mentre era alla benedizione, si presentò questa dama, unitamente ad un chierico altarista della detta cattedrale (giovine di diecinove anni in circa, non ancora in sacris), si presentarono, dico, in faccia al prete dicendo il chierico, gia gittata la vesta: ‘questa è mia moglie dicendo la dama: questo è mio marito con due testi-moni presenti.Il parroco faceva le meraviglie e li ha sgridati, ma toltisi di la, gittato il chierico l’abito clericale, partirono tosto insieme ambedue verso Venezia, per quanto si sa. Questo chierico è figliuolo di un povero uomo e non ha nulla. Questa nuova inaspettata ha fatto stordir tutta la città. La dama può aver 28 anni ha padre, madre, fratelli. Ah che caso, ah che avventura...8

Ma se il misogino conte Tornieri non coglieva nella vicenda altro che un ulteriore, riprovevole, evento dei brutti tempi in cui era costretto a vivere, il conte Antonio Ghellini dovette, ancora una volta, difendere il proprio onore, intaccato dall’imprevedibile – almeno così lasciava credere – comportamen-to della figlia.Nei due memoriali presentati al podestà di Vicenza il Ghellini lamentò la gra-ve offesa ricevuta, sottolineando come la figlia non avesse mai manifestato “l’idea di nuova elezione di stato”. Ma, improvvisamente, “si vidde da lei unitamente a certo Francesco Rizzi miserabile plebeo eseguito il più tenibile e non mai preveduto fatto”. Quella mattina del 2 giugno 1772

Era di già allestita la figlia, pronti dei testimoni, quando al terminar del sacrifi-cio, dandosi dal sacerdote la benedizione, con di lui sorpresa udì il Rizzi a chia-mar per moglie mia figlia e questa per marito il detto Rizzi. Compilo in tal guisa il dannatissimo clandestino matrimonio, ambedue montati sopra d’un legno a bella posta allestito, unitamente partirono verso la Dominante.Qual sia il cordoglio e la confusione da cui è oppresso l’animo d’un padre infelice ed un innocente famiglia, quale il senso dolorosissimo di tutte le altre famiglie nobili che hanno attinenze di sangue non si potrà esprimer giammai…9.

8 Biblioteca civica Bertoliana, Memorie di Vicenza del conte Arnaldo Arnaldi Primo Tornieri (1762-1822), ms. 3108, c. 40.9 A.S.V., Consiglio di dieci, Processi criminali, Padova, b. 36.

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Informato dal podestà di Vicenza, il Consiglio dei dieci delegò immediata-mente il caso alla Corte pretoria di Padova. Il processo non prese però con-cretamente forma che nell’aprile del 1773 con l’avvio dell’escussione dei te-sti citati presso la locanda Due Rode, dove il giudice del maleficio di Padova aveva preso alloggio.Pur ribadendo la gravità dell’episodio che aveva colpito l’onore della sua fa-miglia, il conte Antonio Ghellini si espresse in termini benevoli e comprensi-vi nei confronti della figlia che, ora, si ritrovava a Firenze. Supplicava, infine, che anche il Principe concedesse il perdono ai due fuggitivi10. Si concludeva così la tormentata vicenda di Laura Maria Ghellini, che sem-brava aver finalmente ritrovato la felicità tanto a lungo agognata11. È proba-bile che, tutto sommato, si ritenesse ugualmente soddisfatto anche il conte Antonio Ghellini. L’improvviso matrimonio clandestino della figlia gli aveva di certo risparmiato l’esborso di una dote, considerata sempre troppo gra-vosa per i tormentati bilanci di una casa aristocratica, ancorché detentrice di cospicui beni immobili. E poi, in fin dei conti, quel matrimonio, pur con-tratto con una persona di vile condizione, aveva posto fine ad ogni ulteriore

10 Cfr. il suo interrogatorio, avvenuto il 4 aprile 1773 in A.S.V., Processi criminali, Padova, b. 36. Dopo aver riassunto le disavventure della figlia, Antonio Ghellini sottolineò: “Siccome sin da principio de’ miei memoriali prodotti all’eccelso non ho fatto alcuna particolar istanza contro la figlia, nè contro il Rizzi, bensì raccomandata la causa dell’onor mio al Prencipe, per li motivi in essi espressi e per li opportuni ripieghi, molto meno ho motivo di fame addesso che tengo notizie di Firenze, dove ella s’attrova unitamente al marito, dei loro regolari dipor-tamenti e del loro contegno onesto, comosso anco moltissimo dall’arresto colà da essi sofferto e procurato da quell’arcivescovo della corte di Roma e forse per maneggio d’un qualche pre-lato parziale della famiglia Colozzi, in vista al taglio del primo matrimonio, ma avendosi si la figlia che il Rizzi giustificato appresso quel soprano, colla produzione della sentenza di nulli-tà, il taglio del matrimonio stesso, furono ambidue rimessi in libertà ed speranziti mediante il perdono del naturale loro Prencipe e dall’assoluzione dell’ecclesiastiche censure di qualche onorevole utile impiego, sì nell’uno che nell’altra. Per li quali motivi tutti imploro che venghi dal Prencipe ad essi perdonato il trascorso, nè ho altro da dire…”.11 Nel suo interrogatorio, svoltosi nell’aprile del 1773, la domestica di Laura Maria, Giu-stina Santin, declinò ovviamente ogni coinvolgirnento nel matrimonio clandestino, ma ag-giunse alcuni particolari interessanti sullo stato d’animo della contessa: “sorpresa da tal sua rissoluzione [l’abbandono della casa paterna], dubitando che essa andasse a gettarsi al fiume, giacché m’aveva confidato tempo avanti che non poteva continuar quela vita e che era di-sperata e che volesse o amazzarsi o butarsi in aqua, lamentandosi del suo stato, nel quale gli mancava il suo bisognevole, tantoppiù che una sera, condota dalla disperazione, tentò di acoparsì per un pergolo di casa, come averebbe fatto quando fosse mancata la mia fraposi-zione…”. Dopo la fuga di Laura Maria, Giustina Santin abbandonò casa Ghellini: “per tema di non esser rimproverata dal padrone e senza pensare più che tanto alla dipendenza che avevo verso quella casa… e tantoppiù seguitai a viver lontana dala casa Ghellini, sebbene dal proprio, in vista all’esigenza della contessa Laura, l’ho suffragata di quanto ho potuto, stante che essa aveva consumato il suo, nella lite del primo suo matrimonio...”, cfr. A.S.V., Consiglio di dieci, Processi criminali, Padova, b. 36.

150 Claudio Povolo

rivendicazione da parte della potente famiglia Colocci. E non siamo forse lontani dal vero nell’immaginare che quel che più desiderava il conte Anto-nio Ghellini, dopo lo sfortunato matrimonio della figlia, era di allontanare da sé ogni ulteriore molestia proveniente da quella famiglia così ammanigliata con la curia pontificia12. Laura Maria e il marito ritornarono nuovamente a Vicenza, in quella stessa città che, circa un anno prima, li aveva visti compiere l’improvviso colpo di mano. Così almeno sembra suggerire la seguente registrazione:

Adi 14 giugno 1773. D’ordine di monsignor illustrissimo e reverendissimo ve-scovo si fa il seguente registro: Adì 2 giugno 1772. Il signor Francesco Rizzi del signor Giacomo Rizzi e la nobil contessa Laura, figlia del nobil signor conte An-tonio Ghellini, ambidue parrocchiani di questa cattedrale, hanno contratto tra loro matrimonio per verba de presenti all’altare de Santi Nicola e Nicolò nella sacrestia maggiore della cattedrale medesima, alla presenza di me don France-sco Marchioni curato nella detta cattedrale. Presenti Filippo Belotto di Vicenzo e Giovan Battista Carraro di Sivestro, ambidue della parrocchia di Santo Stefano, testimoni13.

Di Laura Maria Ghellini non ho ritrovato alcuna altra traccia, se non un bre-ve ma significativo cenno nel testamento della madre, Ottavia Capra, steso alcuni decenni dopo:

lascio alla contessa Laura, terza mia figlia, di lei vita natural durante, lire due al giorno, le quali debbano esser alla medesima esborsate e da essa amministrate e da essa poste senza veruna dipendenza dal di lei marito e divise per mese con condizione però che se la suddetta, sotto qual si sia colore o pretesto, movesse qualche sorte di molestia al mio erede, intendo e voglio che all‘intimazione della prima carta sia ipso facto decaduta da tal legato...14

12 Come rilevò il podestà di Vicenza nella sua lettera del 3 giugno 1773, rivolta ai Capi del Consiglio di dieci, la sentenza di nullità ottenuta dalla contessa Laura Maria l’11 aprile 1771, non era mai stata notificata ai Colocci, cfr. A.S.V., Consiglio di dieci, Processi criminali, Padova, b. 36. Era dunque sempre prevedibile un eventuale ricorso da parte della famiglia marchigiana.13 Vicenza, Archivio della curia, Registri dei matrimoni, Cattedrale, b. 42/1208, alla data. In corrispondenza al giorno in cui era avvenuto il matrimonio clandestino (2 giugno 1772) era però rimasto uno spazio vuoto, riempito con il seguente rinvio: “Vedi in questo il registro del matrimonio del signor Francesco Rizzi di Giacomo colla signora contessa Laura figlia del nobil signor conte Antonio Ghellini adì 14 giugno 1773”.14 Archivio di Stato di Vicenza, Notai di Vicenza, b. 16650, n. 155, 19 aprile 1804. Orazia Capra destinò come erede il figlio Gaetano Agostino Ghellini “in ricompensa di quell’amore filiale, rispetto ed assistenza che sempre di continuo m’ha prestato e in riconoscenza di quella pro-bità e costumi che lo hanno sempre distinto…”.

151L’emergere della tradizione

Laura Maria Ghellini Colocci

Lettere15

1

Mio amatissimo e stimatissimo genitore,Agia, li 8 ottobre 1765

Al presente mi ritrovo in villa e la stimatissima sua mi capitò fedelmente alle mani. Mio caro genitore, quanta consolazione aportomi non posso spiegar-glielo, già m’era noto il suo amore, ma veggo che questo per misericordia e permissione d’Iddio benedetto, che così vole per mio bene, continua.Già che il signor zio stimò bene notificarle quanto per loro quiete io pregato l’avevo a tacere, sicome non è derivato per altro motivo il mio silenzio, ora posto ciò sinceramente a chi mi diede la vita mi spiegarò.Pur troppo è vero quanto il sudetto mio signor zio l’ha notificato, ma di più le dico che quando io continui così, molto alla lunga non andrà le mie sventure, mentre con la vita queste finiranno. Così è o caro e amatissimo padre: non le esaggero, tanto più che per me non v’è più rimedio, quanto ha veduto il mio zio è nulla a confronto di quanto dopo soffrii e tuttora soffro. Non c’è altri che mio cognato, il quale avendo sofferto e soffrindo mille sgarbi dal crudel mio marito, e conoscendolo perfettamente, perciò mi dà tutte le ragioni, ma qual consolatione è questa per me, altro che sentire un altro infelice che come me si lagna. Per quello riguarda la marchesa e il marchese mi dimo-strano affetto, ma se sapesse quanto questo mi costa e come debbo portarmi e quante cose mi conviene dissimulare, ma quel che sommamente mi conso-la è il pensiero che io sono dalla parte della ragione e che tutta la città di Iesi m’ama assai, ma per altro fin ora non sano nulla di quel che soporto, poichè io procuro con la maggior prudenza di dissimulare e quando m’attrovo in compagnia procuro di mostrarmi allegra e disinvolta, ma o Dio quanta fatica faccio a superarmi.

15 Le lettere di Laura furono trascritte dal notaio di Vicenza Giacomo Nichele il 15 marzo 1766 sull’originale allora esistente presso l’archivio familiare Ghellini. Furono poi allegate al fascicolo presentato da Antonio Ghellini al podestà di Vicenza, di seguito alla richiesta di in-formazioni del Senato veneziano, cfr. A.S.V., Consultori in iure, filza 520. Si è fedelmente seguita la trascrizione operata dal notaio (anche se alcuni termini furono forse da lui travisati), in-tervenendo solamente nella punteggiatura, nelle abbreviazioni e nelle maiuscole. Ho inoltre riportato, in aggiunta alle otto lettere, alcuni altri documenti che rendono più comprensibile lo svolgimento dell’intera vicenda.

152 Claudio Povolo

Io so benissimo quel che a questo mio piagner, così lo chiamo essendo io già morta, alla quiete, alla pace e all’allegrezze anco le più giuste e lecite, mi dirà dunque che chi è causa del suo mal pianga sè stesso, ma è vero con la mia ostinazione e testardagine mi sono tirata dietro la mia disgrazia; e una persona caritatevole che difender e discolpar mi volesse non potrebbe altro produr in mio vantaggio che questi riflessi, e sono che dalle mani di mio pa-dre, come cosa ottima e buona, mi fu offerto questo partito, che quando la prima volta andò sciolto m’adatai a voleri dello stesso e che quando di nuovo fu ripigliato ancor io fui con il suo saggio parere: ecco le mie prime difese.Ma per l’ultime, cosa mai potrà dire per me se non fosse il riflesso che non mancavano altro che pochi giorni a sposarmi e che ero incerta del mio de-stino: è vero che appresso a genitori sì cari, sì buoni e sì amabili non potevo perire, tanto più che di ciò ne ero da loro stessi assicurata, ma a quel che detto avrebbe il mondo, dal quale fui sempre perseguitata, il trionfo delli malevoli e poi la forza del destino, che lasciandoci Iddio padroni delle cause seconde, molte volte da noi stessi se lo fabrichiamo, tanto più che mai si cre-dono le cose cattive tanto quanto poi purtroppo le proviamo; ma tutto ciò sono riflessi troppo deboli e che facilmente si abattono. E già vede caro padre che non ardisco nepur dirli come da me, ma nascono dalla carità e amore di quella terza persona sopra accennata e questa non mi lusingo di ritrovarla che nel mio amarissimo padre e dilettissima madre, che se bene hanno di-versi figli e che io le sia lontana, pur nonostante mi considereranno sempre come parto delle sue viscere, primo frutto dei loro casti amori e sangue suo, quanto fecero per me ed ora certa sono non voranno abbandonarmi affatto in balia dell’averso mio destino.Vorei mi vedessero: le scrivo la presente prostrata con le ginochia a terra per implorare il loro amore e la loro assistenza. Più che d’inchiostro è vergata la mia lettera di lacrime, unico mio sfogo. Non so con chi parlare, priva d’amici, di parenti e d’appoggi.Altro compagno non ho che il mio dolore indivisibile, sempre per lacerarmi il core.E già s’estende il mal del spirito anco all’individuo, smagrindomi e toglien-domi il color al volto, il vivo agli occhi.Eccole, accennate in parte, le mie sventure, ma quanto le scrissi non è che un piciolo ristretto, mi riservo fargli saper ogni cosa meglio a voce per una per-sona che presto si porterà costà, se però crederò di potermi fidare poichè è necessaria gran cautella. Questa è superflua che a lei la raccomandi, essendo bastantemente fornito di discernimento. Quel che per sua regola posso dirle si è che mio marito ha delle spie a Vicenza e particolarmente il cameriere del marchese Repeta, amico intrinseco del perfido Giuseppino, con il quale dissimulo più che posso, ma il veleno mi rode. Le dico ancora che non mi

153L’emergere della tradizione

raccomandasero mai nè al vescovo nè al governatore, poichè questi in questi paesi, al contrario di quel che credevo, nulla possono e sarebbe molto peggio per me, mi partorirebbero maggior guai, onde per l’amor del cielo non fa-ciano niente senza prima che io provi se le cose vogliono mutar faccia, caso poi mai vedessi al contrario mi buttarò in braccio delli amati miei genitori.Questa mia la supplico non mostrarla alla signora madre, che non vorei trop-po si travagliasse e poi le apportasse male alla salute; e mi perdoni se m’a-vanzo a pregarla di chiuderla nel suo scrigno, poichè le cautelle per quante ne prenderà non saranno mai troppe, che se bene da lungi pur troppo ogni cosa può venir all’orrecchie di quelli che non vogliamo.Dica ancora alla signora madre che se di me le viene chiesto rispondi in ge-nerale che io sto bene, che sono ben voluta dalli miei suoceri e dalla città, che di questi sempre mi lodo, e quanto mio marito non lo nomini, nè in bene nè in male, ma con disinvoltura tronchi li discorsi e non si fidi di nessuno per carità se la mia vita l’è cara.La Giustina, povera donna, procura di consolarmi, ma ancor essa patisse per me, vedendomi sì mal contenta, la stessa li umilia li suoi rispetti. Io abbrac-cio li miei cari fratelli e a lei, signora madre e zio bacio umilmente le mani.

Di lei amarissimo genitore,

P.S. La riverita sua l’ho abbruciata per cautella. A questa facio la sopracoper-ta per la stessa ragione.

Vostra divotissima, obbedientissima,serva e figlia affezionatissimasfortunata Laura

2

Mio caro genitore,Iesi, li 25 ottobre 1765

Invece di cessare, sempre più s’accrescono li cattivi tratti di mio marito, che più arrivò l’altra sera a volermi bastonare: e l’avrebbe fatto se non fossero corsi ad impedirlo li suoi istessi genitori e suo zio preposto: non valse già l’auttorità degli sudetti, ma la forza con la qual violentemente lo ritennero, e durò buona pezza il contrasto. Quale fu il motivo di questo suo trasporto adesso con verità, senza niente levare, m’accingo a racontarglelo.Ero in compagnia di tutti di casa in corte e si trattenevano colà un poco dopo

154 Claudio Povolo

detto il Rosario per godere di queste belle sere che corrono. Io mi misi a passeggiare indietro e avanti con mio cognato, quando mio marito mi chia-mò dicendomi che non voleva io passeggiassi, non volendolo il costume, e mi soggiunse che m’aricordassi che ero donna e dama. Al qual dire risposi che per il primo non credevo fosse contrario al costume il passeggiare in sì piciol sito e con la compagnia di tante persone; che al secondo punto aver superfluo m’aricordasse eser io donna e dama, che già li miei genitori nel tempo stesso m’insegnarono li doveri di cristiana, m’istilarono ancora quelli di dama, lui dovermi ormai conoscere avendoli date prove del mio carattere, per grazia del cielo saggio, e le cose lecite ed oneste avermi permesso il farle. Di più non dissi.Lui seguitò a dirmi molti altri insulti, alli quali nulla risposi: ero troppo in-groppata il core sentendomi così a insultare in publico e fuor di ragione. Salii di sopra nella mia camera e poco dopo lo vidi a venire lui: mandò via quelli che c’erano e sochiuse solo, per mia fortuna, la porta. Principio con mille rimproveri e veramente pareva un forsennato. Io che ero punta al vivo li li-sposi che non meritavo esser trattata in tal maniera, che questo era volermi mortificare continuamente e che mi trattava con troppa crudeltà; e che que-sto era valersi della forza per soverchiarmi, ma che non avevo timore, perché Iddio m’avrebbe difesa conoscendo giusta la mia causa. Vegga se parlai male; epure si iritò in maniera tale che se non veniva li suoi al strepito, avendo io ad arte alzata la voce. Iddio sa cosa di me sarebbe stato.Da quel giorno in poi mi tenne un grandissimo ceffo. Ma già tutte queste cose per altro motivo non le fa che per passar il suo odio che ha contro di me e di mia madre. Mi credi, caro mio signor padre, che sono tanto infelice che non arriverò mai a spiegarglelo. E perché mai non ascoltar chi per mio ben mi consigliava al presente non mi ritroverei in tante angustie, poiché non solo deggio sofrire del marito, ma veggo ancora verificato tutto quello si diceva d’altre cose ancora e che noi credevamo lingue maligne, ma pur troppo per mia sventura tali non erano. E la contessa Bianca Pagello aveva ragione di dire; almeno potessi avere la consolazione di sfogarmi con li miei, ma ne sono tanto lontana che appena posso avere il misero conforto di scri-verli, dico appena poichè le lettere che da lor mi vengono e quelle che gli spedisco devono prima passare per le mani di mio marito; e anzi perché un giorno m’azardai a mandarle a prendere alla porta vi fu un sussurro tanto grande che durò per più giorni. Epure egli sapeva di certo che non ne avevo ricevute altre che dalli miei di casa dallo stesso mistro di posta, che è tutto di lui. E fu ispirazione del cielo quella che ha avuta signor padre stimatissimo, altrimenti non avrebbe mai avute sinceramente le mie nuove perché temo molto di loro, sapendo ben lui, che per loro bontà e per providenza del cielo m’amano assai.

155L’emergere della tradizione

Io lo prego signor padre non far niun passo a mio favore sopra quanto li dis-si, senza prima non gle ne dia io stessa l’aviso. Voglio vedere come andran le cose, se di bestia voglia diventar uomo ragionevole e metterò in pratica tutti li suoi ricordi datimi prima di partire e che per dir la verità sin ora ho posti più che ho potuto in pratica, e lo stesso mio zio canonico me ne può far fede essendo lui stato testimonio del mio procedere, ma temo assai di non riuscire, perché debbo fare con un uomo ingratissimo, di cuor crudele e di pensar roversio. Oltre di ciò non mi posso valere nepure delle arti donesche, conoscendole già alle prove inutili.Caro mio amatissimo genitore mi raccomandi a Dio che ne ho sommo biso-gno, non volendovi per la mia quiete che patenti miracoli e per la conser-vatione pure della mia vita, che per dirle il vero non credo molto sicura, ma non abadi a questo e lo credi solo un mio mal fondato sospetto. L’averto pure a non raccomandarmi nè al vescovo nè al governatore, che già l’averto non possono nulla, come prima della mia partenza da costà mi lusingavo, sarebbe questo anzi per me magior male, tanto più che per mia disgrazia lui è tanto furbo che il suo mal animo contro la mia persona non lo dimostra in pubbli-co, anzi fa creder d’amarmi assai e io dovendolo secondare se non voglio di peggio così il mondo credesi in perfetta concordia e pace. Però caro padre quando non potrò più reggere tanti travagli mi getterò nelle sue paterne braccia, sperando mi vorà soccorrere piuttosto che vedermi morta di dolore e le giuro che le dico meno di quello potrei, e facio ciò per non afliggerla. L’aricordo ancora per sua regola che qui a Vicenza vi sono delle spie e non mancaranno di star in attenzione per poi ogni cosa con mio danno riferire.Mi conservi per carità il suo afetto, non avendo altra consolazione e spe-ranza. Mi riverisca la cara mia madre, non le dica tutti li miei travagli, acciò non patisca e con tutto il ri.spetto baciandole le mani la supplico della sua benedizione.

Di lei carissimo signor padre,

Umilissima, divotissima, obbedientissimaserva e figlia affezionatissimaLaura Maria Ghellini Colocci

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3

Amatissima signora madre, Iesi, li 31 ottobre 1765

La lettera secreta per farmi intendere questa volta invece di mandarle al signor padre l’invio alla mia carissima signora madre e per la posta poi scri-verò al signor padre di cose indiferenti, poichè quella dovrà passare sono le bacchette, cioè per le mani di mio marito vegga un poco come è vero che chi è in difetto vive in sospetto.Se ne viene il signor prevosto e potrà essere costì alli 6 o 7 dell’entrante mese; al sudetto per pietà le facia le maggiori finezze, ma nel tempo stesso non si fidi, poichè lui è parte. È vero che finora non posso lamentarmi, aven-do sempre tenuta la mia parte, ma come poteva far di meno, avendo la mia ragione tanto patente? È vero che lui è un uomo di pietà e giusto, ma con tut-to questo parli sì ma non le dica già mai quello hanno pensato di fare per mia quiete e sicurezza. Già il detto le dirà qualche cosa perché sa (che gle lo dissi io acciò parli anche lui e mi sia testimonio); le dissi dunque che già loro ne vivevano informati di quello che il mio barbaro consorte mi fa passare, onde il detto li racontarà per tal motivo qualche cosa, non potendo contradire a quello che mio zio canonico è stato testimonio, ma come dissi li palesi ogni cosa fuori che quello hanno divisato di fare per la mia quiete, acciò non passi il detto render informata la sorella sua e di me madona. La prego, cara si-gnora madre a prender il mio consiglio e non se chiamerà pentida, so perché parlo, ed ho le mie giuste ragioni. La supplico però di farli tutte le maggiori finezze si perché le merita, come pure per politica li parli ancora di me e si alarghi ancora se vole, ma vadi riguardata solo in quel punto che l’accennai.Giovanni, il servitore del prevosto come supone le avrà detto, il raggio pare mandato dal cielo per il mio bene, poichè mai niuna lettera secreta nè avrei potuta ricevere nè spedirle se non fosse stato per il di lui mezzo e non sarei venuta in cognizione di tante cose se il medesimo non fosse stato, perché l’averto che di Antonio mio stalliero non si fidi per l’amor del cielo, essendo già corrotto, parte con le minacie e parte con li doni da mio marito, onde devenuto essendo suo partigiano sarei tradita. Aggiunga ancora che avendo tuttora la febre e non sapendo de che razza sia è facile che se ne vadi dal mio servizio, onde e per una e per altra ragione non si prevaglia più di lui. Dal detto servitore del prevosto intenderà ogni cosa e circonstantialmente le spiegarà la infelice mia sorte, la quale già non spero vedere cambiata che con la mia morte e con la materna sua assistenza, che per grazia, carità la supplico di volermi donare. La supplico pure d’usar le maggiori finezze a Nane che verà con il prevo-

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sto, essendo io obbligata a questo giovane posso dir della vita e riconosco questo quasi per un miracolo, poichè avendomi io raccomandata al Si-gnore acciò m’insegnasse una persona per fìdarli le mie lettere, permise che questo da sè si presentasse e si esibiss, abenchè potesse tor di mezzo la sua vita con li tradimenti che li avrebbe saputi rendere la crudeltà di mio marito. Con tutto questo tanto li fece compassione le mie disgrazie che ad ogni cosa s’espose e quel che più mi fece restare, senza interesse, e li dovetti per forza acciò prendesse qualche piciola ricognizione, potendo io poco, non avendo altro che quello mi portai e mi conviene pensare a tutto, e quando li pochi quatrini saranno finiti non so cosa mi farò e questo servi per risposta alla richiesta che mi ha fatta sopra l’assegnamento: sono stomachi di ferro quelli con li quali ho a trattare e il suo decoro lo fondano sopra il loro storto cervel-lo. Credo che lei mi capisca. Non seguo più oltre perché Nane sovraccennato è andato a veder di mie lettere, onde aspetterò a chiuder la presente al suo arrivo.Ho ricevuta una lettera del signor padre e sebene il tempo non li permise d’alargarsi, pure mi disse quel che basta per consolarmi. Io mi riporto inte-ramente a quello crederanno sia per lo mio meglio: operino dunque quello che li sugerirà Iddio, per mezzo della lor prudenza, ma li supplico di far tutto con la maggior secretezza.Io sono ancor in villa e mi pasco della mia allegrezza al rovescio, ma un gran delirio nepure il primo anno posso passar, non dico felicemente ma neppur sufficientemente contenta.Giustina li umilia li suoi rispetti e dice che dia pure al cognato ogni cosa, avendo da pagare per lei la spicieria. Farò quanto mi disse intorno allo scri-vere alle signore zie monache e lei pensa benissimo. Li prego abbraciarmi il mio caro Giacomo: le dica che le sono grata alla memoria che di me conserva e che io non meno fo di lui e che non passa giorno che non lo nomini e che ringrazio il cielo della sua avantaggiata salute e del pericolo che felicemente ha passato e che desidero sentirlo interamente rimesso, che ho piacere mi somigli nel core che mi posso vantare aver anche tenero ed amoroso, ma tol-ga il cielo mi somigliasse nella fortuna, che ghe la desidero totalmente dalla mia diversa; e se tanto io la provo rigida, lui tanto benigna la trovi.Abracio pure li altri fratelli e sorelle, presento li miei divoti ed affettuosi rispetti alli signori padre e zio, riverisco il conte Pietro, il signor Alvise Zen e Lodovico, se costi più s’attrovano, come pure Scipione (che esperimentai pur troppa quanto mi predisse: posso dire con fatidico labro) e così pure il mio caro signor Rinaldo Fioretti. Dica a Bastiano che non so per qual ragione mi privi di sue lettere, che mi dovrebbe almeno rispondere quando io li scrivo. Saluto pure la mia fiozza e il gastaldo. Non tralascio per ogni riguardo di dar

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alle fìame la presente sua con le sue proprie mani, poichè non posiamo di verun fidarsi e la supplico della materna sua benedicione.

Di lei signora madre amatissima,

Umilissima, divotissima, obbedientissimaserva e figlia affezionatissimaLaura Maria Ghellini Colocci

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Amatissimo genitore. Iesi, li 9 novembre 1765

Per lo stesso motivo che tardò ad arrivare le lettere costà, anche da noi seguì, cosichè invece del martedì arivarono il mercordì, cosa che asai m’incresce contando li giorni ed aspettando quello con la maggior ansietà, e resto assai mortifìcata allor quando delusa vego la mia speranza.Così è amatissimo genitore: io l’amo tanto che non so esprimerlo, poichè conosco in effetto che maggior premura ed afetto di quello dei genitori tro-vare non si puole qui in terra. Parlo però di quelli che a lei somigliano e nele angustie nelle quali mi trovo non è piciola, anzi è una grandissima consola-zione per me il riflettere che ho genitori sì buoni e tanto per me interessati.Già a questa ora avrà ricevuto la ultima mia anteriore alla presente ed avrà pure ogni cosa inteso, ma molto più intenderà dal servitore del signor pre-vosto e dallo stesso prevosto, pure quando sinceramente e cristianamente parlar vorà. In questa non posso se non confirmare con mio grande dolore quanto fin ad ora le scrissi e quanto potrà dal sumentovato intendere e sa-pere. Quello che le raccomando far tutto con la maggior secretezza, poichè gioca di mezzo la mia vita e niente meno ho io a trattare con persone tante astute e traditrici che allor quando mostrano buone grazie è quando pensa-no a tradire. Quello che sommamente m’incresce è il non avere persona con la quale possa sfogarmi e consigliarmi, però io vivo sempre in pena ed in continui timori.La presente, se mi riuscirà impostarla ad un’altra posta, lo farò poichè es-sendo partito Nane dal Prevosto non ho di chi fidarmi, mentre essendo in villa (facendo la data come se fossi a Jesi, acciò le lettere non si smariscano ed invece di venire a me vadino all’Agia in Olanda); dunque essendo ancora in campagna non so per chi mandarle a quella terza persona. Basta, vedrò quello posso fare. Se mai potessi mandarglela lo farei volentieri, In ogni caso

159L’emergere della tradizione

la straterò piutosto de espormi. Gran fatalità è il mio viver in continui timori senza mia colpa.Signor padre stimatissimo mi soglia bene e si ricordi di questa sua povera sventurata figliola; mi riverisca la signora madre, il signor zio canonico. Stia attento di non fidarsi dei mobili, nè meno del marchese Adriano, che per minchionagine ci potrà tradire; e baciando- le le mani le chiedo la paterna sua benedizione.

Di lei signor padre stimatissimo,

Umilissima, divotissima, obbedientissimaserva e figlia affezionatissimaLaura Maria Ghellini (e per disgrazia) Colocci

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Amatissimo genitore, Iesi, li 16 novembre 1765

Non m’estendo lungamente come sarebbe necessario, poiché sono talmente osservata che è un prodigio s’arivo solo questi pochi sentimenti miei a spie-garglieli, amato mio genitore.Io sono veramente disperata: mio marito segue ad usarmi tratti tali inumani e per conseguenza fuor di ragione, che non posso più vivere; e quel che è più li marchesi paiono che di lui abbiano timore. Il marchese Adriano terrebbe bene le mie ragioni, ma la marchesa lo svoglie, non mi dà torto apparente-mente perché non può, ma si crede col dirmi che tante principesse e dame distinte soffrono tanti strappazzi dalli mariti; si crede, dico, di consolarmi e poi conclude che abbia pazienza, ma loro che sono padre e madre dovreb-bero metter riparo, tanto più che lo scorso martedì sera, appunto che ari-vai in città dalla villeggiatura, hanno veduto di cosa è capace, poichè non si contentò di strapazzarmi coi dirmi mille ingiurie, tocanti ancora la casa mia paterna, ma volse aggiungere le bote.Io so certamente che la mia vita è in continuo pericolo, poichè quella istessa sera suaccennata, se non si fossero fraposti il suocero e cognato, non so se più lei fosse al presente più a tempo per aggiutarmi. De’ caro signor padre, non tardi a soccorrermi, che già purtroppo conosco che la speranza che ave-vo concepita di poterlo con le buone moderare fu fallace.Io dunque, mio caro padre, mi getto nelle sue bracia, mi venghi a levare da quest’uomo crudele, se mi voi viva (perché se sapesse quanti della mia vita

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temono). Se può ritrovi un compagno, sopra il tutto venghi improvviso, mentre se mio marito arivasse mai a saper la sua mossa per Iesi, o che mi darebbe un veleno. Perciò quando da vero si partirà sparga voce che si porta a Venezia per suoi affari, perché, come in un’altra mia le dissi, costà vi sono grandi spie, e lo so di cero. Onde lo faccia con la maggior cautella e quando poi sarà a Iesi arrivato, dica perché è venuto per voto fatto d’andar a Loretto per la salute di Gaetanello tosto rimesso, ed allora più s’intenderemo assie-me, ma di nuovo le dico, caro padre, che sono superflue le raccomandazioni, ma vi vol rissolutione. Cara lei mi soccori per pietà.Non posso più oltre proseguire per la gran copia di lacrime che irrigano que-sto foglio (riflettendo a cosa mi costringe a fare la barbara mia sorte) e poi ancora per timor d’esser sorpresa nel mentre scrivo. Suppono che dal fido messo avrà sentito il mio stato infelice, cioè dal servitor del signor prevosto e dal prevosto istesso.Avevo un’altra sua anteriore all’ultima e nulla l’accennai nell’ultima scritta-le, stante che in allora non l’avevo ancora ricevuta, non avendola da quella fida persona mandata a prendere che tre giorni dopo, sì per non dar da so-spettare, come pure perché prima non vi si potè portare l’altra persona già notale.Li supplico de’ miei rispetti alli miei cari signori madre e zio, abbracio ca-ramente li fratelli e particolarmente Gaetanello, che spero già interamente ristabilito, ed al mio amarissimo genitore. Baciandole le mani le chiedo la sua benedizione.Umilissima, divotissima, obbedientissimaserva e figlia Laura Maria Ghellini Colocci

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Signora madre stimatissima, Iesi, li 24 novembre 1765

Avendo da rispondere ad una del signor padre per la posta ordinaria per non dar nell’occhio per la straordinaria scriverò a lei mia cara signora madre, imperciochè non solo mio marito conta li momenti che mi chiudo in camera, ma il suocero e suocera ancora, che a guisa di Arghi sempre osservano li miei andamenti, ma non mi maraviglio che chi è in difetto già ancor vivono in sospetto, potrei valermi per scriverle delle ore della notte, ma siccome mio marito ha una porta che immediatamente corrisponde nella mia camera e che io dalla mia parte non posso inchiavare, onde sebene so che non viene

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mai da me, pure atardar non mi voglio, non essendo nel mio caso mai super-flua la cautella.Quello che le posso dire del presente è il solito e come un tempo che rugge, ma se bene muto, sempre si sta con timore che scopia con maggior furia, tanto più che non vi sono ripari forti come vi dovrebbe essere, e questi nelle perone delli marchesi Adriano e Vittoria. Ma, o che non possono o che per pulitica non vogliono, certo si è che io in loro niente confido. Il primo, che è il marchese Adriano, è troppo buono e perciò debole; la marchesa Vittoria lei è una volpe, onde lascio pensare a lei e all’ottimo suo discernimento giudi-care in quali circostanze rn’attrovo. Loro sempre dicono faremo, ma quando siamo al caso non sanno altro che dire e fare, se non abbiate pazienza. Ma a me non basta.È vero, la pacienza è bella e buona e io la porto in una maniera che posso dire d’aver cambiato totalmente il mio naturale, ma se veggo che è lo stesso, altra strada ci dunque è necessarissimo tenere, e la più retta e sicura non credo vi sia che quella di arivar a condurmi nelle amorosissime bracia dei miei genitori, che ramentandosi esser io parte delle loro viscere e del suo sangue, molto volentieri mi riceveranno e tanto più volentieri quanto vedono la mia causa giusta.E perciò merito tutta la compassione, come ancora questa per tal motivo riscuoto da tutti li abitanti di Iesi, tanto dalla nobiltà che dal popolo e dalle stesse donne ancora; vegga sin dove arriva! E già tutti s’aspettano che il si-gnor padre mi venghi a prendere (se bene io non ho mai parlato, che tanto sciocca non sono), pare ciò vanno dicendo, ma non li facia spetie ciò che già parlano di questo tutto in suposto e come se io fossi loro figlia farebbero, onde ciò la vedere che all’oscuro di quanto noi maneggiamo afatto sono.E ciò deve essere, poichè solo è nel petto mio l’arcano e non lo sa che la Giu-stina, ma mi consolano tali parole che in favor mio vengono dette, poichè quando venirà a prendermi il signor padre tutti così diranno che fa bene e ci daranno ragione. Fu il vescovo a ritrovami e mi disse che il signor mio zio canonico li aveva scritto e raccomandata la mia persona: e s’esibì in tutto quello poteva in mio favore. Che bella congiuntura mi aprì la sorte per poterli svelar il mio cuore! Ma non potei nepur cominciare perché il marchese Adriano viense tosto ad interompere, come sempre già spia tutte le mie azioni, così tosto saputo chi era in mia compagnia viense, come di sopra dissi, acciò non avessi campo di poterli parlare. Sanno la loro coscienza e perciò operano in tal guisa. Lo stesso vescovo se ne accorse, ma prudentemente dissimulò. Eri poi fu da me il vicario del sudetto e fecero la stessa scena; temono che io parli e perciò scomparirebbero assai se ancor dicessi la metà di quello passo, ma già posso-no far quanto vogliono, che già tutti sono in mio favore Amata e cara signora

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madre, mi mandi a levare da questo purgatorio, non dico inferno avendo la speranza d’esser liberata da Iddio benedetto per loro mezzo. Io non vorei che il signor padre venisse solo e se il conte Piero volesse venir in sua compagnia avrei molto caro. Insomma alla mia cara madre mi raccomando, so che mi ha contentata in tutte le giuste cose e lo farà ancora in questa. Cara lei, io la prego con le lacrime agli occhi di liberarmi, madre mia, vivamente ne la scongiuro.Farò quanto mi disse circa d’andar in chiesa, ma crederei bene che il signor padre con il compagni si fermassero in una città vicina a Iesi, ma secreti, cioè sotto altro nome e patria; e intanto m’inviassero sotto abito mentito Nane del prevosto, che sebene è con il suo padrone, bastarebbe che li scrivessero che sotto qualche pretesto si portasse a Vicenza senza saputa del suo pa-drone, che sono certa che essendo un uomo assai destro riuscirebbe assai bene in nostro vantaggio. Non li dico Bastiano, perché non si puol trasfor-mar come l’altro, stante le ciglia, barba che ha nera, che l’altro non avendo… trasformerebbe affatto l’idea e m’avisasse della lor vicinanza, che a parole e a voce li potrò insegnare quello che assolutamente mi si rende impossibile dire in lettera. E chiedendo la sua benedizione per le viscere di Christo me le raccomando.

Umilissima, divotissima, obbedientissimaserva e figlia affezionatissimaLaura Maria Ghellini Colocci

PS.: se scrivono a Nane faciano in modo che la lettera non vadi in mano del suo padrone, ma al sudetto solo nelle proprie.

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Carissimi genitori stimatissimi, Iesi, li 13 dicembre 1765

Quanta consolazione apportomi il messo da loro speditomi, tanto piu per-ché era accompagnato d’una di ciaschedun di loro, non posso esplicarglelo. L’esser io stata priva per due ordinari di stimatissime sue per la via secreta m’aveva posta in una grandissima inquietudine che mi possi aver tradita o l’uomo per il qual le mando a quella terza persona, opure la stessa, lo quasi mi lusingo certamente di no, ma sicome io dal sudetto non posso portarmi, per tema di dar nell’occhio, così v’andrà Giustina, onde domani le scriverà per la posta la positiva sicurezza: se li ritrovarò rei (che il ciel non voglia)

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opure se sono (come spero) innocenti, ma mi spiegarò metaforicamente in quella come un povero priggioniero o, come per meglio dire, un sventurato condannato a vivere in continue pene, ricerca la lieta nuova che s’approssi-ma la sua liberatione e assoluzione, tal io con egual contegno ricevei la lieta nuova che li miei cari genitori siano per liberarmi da questo purgatorio, che non lo dico inferno per la speranza che tengo in Dio benedetto, che per lor mezzo di cola mi cavi.Che il signor prevosto l’abbia detto giustamente come le cose passano, sebe-ne fratello della marchesa, sebene ne temono pure, non m’arecò maraviglia, prima perché un buon cristiano e poi perché se fosse informato o testimonio de’ miei casi un mio stesso nemico si moverebbe a pietà. Oh pensi un poco quanto grandi sieno le mie sventure.Quanto poi la speranza che loro hanno nel marchese mio suocero la lasciano pure da parte, poichè questo è un uomo tanto debole che altro non consiste che in parole la sua bravura, per altro lui trema del figlio, dall’altro canto dipende interamente dalla moglie, la quale essendo donna superbissima e fuor di modo astuta, sa sotto il manto di pietà cristiana e un finto amore per me, sa, dico, condur la cosa in modo di sempre più unita al figlio esprimermi, per poi da ciò cavarne l’assoluto continuo suo dominio senza il timore che dar io le possi ombra, non sostenendomi mio marito, onde costretta mi veg-go per non far al contrario di quello loro miei amorosissimi genitori m’han comandato facia.Costretta dunque sono a domandarli per grazia li cavalli (che non ve ne sono altro che un paio), la qual cosa raro mo concede senza che non venghi lei con me. E pensi un poco cari loro la mia pena dovendo andar con una la quale so di certo che è la mia più fiera nemica, tanto più terribile quanto padrona in casa e finta verso di me; pure io tutto sofro, ma perché spero in Dio e in loro che mi liberino, altrimenti sarei costretta ad andarmi ad anegare, mentre darei volta al cervello certamente.Quanto poi al punto se mio marito viene con me li dico nepur per ombra, dico per ombra perché se non altro per non dar tanto da dir al mondo do-vrebbe per pulitica venire, che già io non vi sarebbe pericolo che turbassi li suoi sonni, che pensarci aver presso a me un’ombra apunto o un spirito, nè niente mi curarei della spoglia. Se poi esca la notte non posso saperglielo dire. Che lo possi fare à tutta libertà certo, poichè nel suo apartamento ha scala e porta secreta, dalla quale può quanto vuole uscire senza dar niente nell’occhio.Ora vengo al particolare del cameriere e li dico che veramente è un gran furbo, ma che tutto il male vien dal capo, il quale, come le dissi, è troppo debole nel marchese Adriano e poi nel cattivo core di mio marito, perché come potrebbe il cameriere senza ragioni metterlo su contro me, e come (se

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avesse buon core) potrebbe mio marito (per quanto non m’ami), potrebbe dico, tormentarmi, strappazzarmi senza motivo? Dunque qui potiamo ca-varne le conseguenze che ambo sono perfidi e scelerati. Onde se fosse il ca-meriere licenziato (la qual cosa non sarà mai certo), pure su questo suposto sarebbe per me lo stesso e se non peggio, perché, si persuadino pure cari li miei genitori, che o lo faranno andar con le buone, e lui e il suo padrone non consentiranno già mai, opure con le buone ma però sforzate, come sa-rebbe che qualche personaggio distinto lo desiderasse. L’Ecate, a costo del suo interesse, dal suo Enea non vorebbe separarsi: dunque ecco che sarebbe il marchese Adriano costretto, per mezzo di quel tal personaggio, d’usar la forza autorevole: e chi torebbe di mezzo sarei io, che veruno non li torebbe giù di testa che non fossi stata io la cagione, onde sopra questo punto niente v’è da sperare per li suaccennati motivi, ma piutosto da temersi per questa ultima ragione.Circa poi li miei abiti ed altra robba, credo necessario in qualche maniera trafugarla, poichè molte cose vi sono che lui non sottoscrisse d’aver ricevute e ciò importerà per più di ottocento ducati almeno. E se io farò l’inventano niente mi valerà, però quando signor padre sarà in una città vicina (ma non la più vicina) mi mandi per fido messo ad avisare, che io spero ritroverò il modo di trafugar la mia robba e consegnarla o a una dama mia amica, della quale ho prova di potermi fidare (sebbene nulla le dissi dei nostri maneggi, non perché fìdar non mi possa, ma per maggior cautella) overo a monsi-gnor vicario del vescovo. Ma caso mai non mi riuscisse la lascierò poi come mi disse lei, ma non tralascia davisarmi allora quando sarà a me vicino. Per maggior cautella si muti il nome e cognome, si conduca servi fidati e venghi in la più politica e scaltra maniera che sia possibile.Un’altra cosa li raccomando: che sino io sto qui non faccia valere veruna delle mie ragioni. Insomma alli miei cari genitori raccomandandomi con as-sicurarli che quando sarò in loro compagnia non li darò certo motivo di me dolersi, al loro affetto raccomandandomi li chiedo la loro benedicione e li bacio le mani. Un saluto ali fratelli.

Umilissima, divotissima, obbedientissimaserva e figlia affezionatissimaLaura Maria Ghellini Colocci

P.S.: Ho fatto trattener un giorno di più il messo per sapere di certo l’affa-re delle mie lettere. Però mandai, come in questa mia le dissi che volevo, mandai dico, Giustina dalla terza persona dalla quale con mio giubilo re-stai assicurata che il portator della mia era fedele, onde su questo riflesso la presente gle la invio per la solita via secreta, sì perché le giunga più presto

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(essendo stato un accidente il ritardo delle altre, che già a quest’ora le avran-no ricevute) e il motivo fu perché l’amico corrispondente dell’altro di Iesi era a Ferrara: ora che s’è portato a Venezia sarà più a portata di spedirglele più facilmente con prestezza. Aggiunga che il messo, essendo stato veduto e sapendosi che è vicentino, potrebbe darsi che gli mandassero dietro e che o con la promessa e con le minaccie gli levasse la mia lettera, onde anche per più sicurezza in altra maniera glela invio.

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Stimatissimo signor padre. Iesi, li ... dicembre 1765

Lo scorso ordinario non vi fu caso che scriverle le potessi, essendo sempre stata osservata o dal suocero o dal marito e le mie circostanze sono tali che è impossibile che senza vederle venino capirle le possi, non potendo nemen io che le provo spiegarle.Quello che posso ben dire con verità è della donna di me più infelice non credo che siavi sopra la terra. Le lascio considerare un poco.Una sposa giovane, di qualche spirito e senza (lode a Dio) difetti di corpo, si dovrebbe ritrovare fra contento, almeno il primo anno. L’ha fino le contadi-ne, ma io tutto il contrario. Pacienza fino che si può resistere, ma sono poi tiraneggiata a un segno tale che reggere più non posso.Mi veggo circondata da inimici con li quali debbo vivere e conversare e lon-tana da genitori, parenti e amici che mi consolino se non altro con li consigli. Ma che debbo fare con li marchesi se tentati ho tutti li mezzi per vincerli? Ma fu lo stesso che fare un foro nell’acqua. E che speranza mi resta? Se la mar-chesa Vittoria, alla quale usai tutti li atti del maggior rispetto (che il signor zio canonico ne fu testimonio), questo dico essendo la donna più doppia e finta che si possi ritrovare, è unita con il figlio per tormentarmi. Ed ecco il fine suo politico: lei è una donna avara e superba al maggior segno, onde così salva e l’interesse e il suo fasto, mercè la mia oppressione.Oltre ciò c’è un altro motivo particolare, cioè la vendetta, perché io sono da tutta la città, veramente per dir il vero, amata. Ma sicome io sieguo il suo consiglio e quello della signora madre di star in general cortese con tutti, così ho la consolatione in mezzo li miei travagli di vedermi amata e compa-tita (a motivo del deplorabile mio stato). Amata, dunque, e compatita sì dal povero che dal ricco, sì dal nobile che dal plebeo, sì dagli uomini che dalle donne. Questa cosa dunque mia suocera sapendola non posso dirli quanto le dispiacia. Finge con me, ma io che la conosco so quanto pesa, che mor-

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daci rimproveri e ingiustissimi debbo ingogire, che tentationi mi vengono di risponderli una cosa sola e con questa farla venire di più colori, ma tacio perché così m’ha comandato il mio caro padre e così voi la prudenza, ma se lei non mi viene presto a soccorrere o che muoio o che mi vado a confinar in un eremo, che qualunque penoso e disastroso loco mi sani sempre meno disastroso di quello sia la compagnia tanto tormentosa con la quale ora per mia fatalità m’attrovo.Per quello poi riguarda il marchese Adriano si lascia tanto dalla moglie con-durre che non fa che quello che la stessa le dice, ma il peggio di tutto è che queste sono persone tanto finte e maligne e peggio ancora pazze e volu-bili che non saprebbe con loro convivere in pace un santo stesso: e lo dico francamente. Però signor padre amato non tardi a soccorrermi, la prego per pietà e per le viscere di Cristo, per l’amor di Maria Vergine e di tutti li santi.Lo scorso ordinario non ricevei sue lettere a motivo che il corriere non potè passare a cagione delle acque, ma può essere venghi questa sera. Ho piacere che il prevosto sia stato, e così lui o Nane suo servo l’avrà, come lei mi disse, informata del mio stato.Venghi, de’ venghi per pietà.Le lettere ostensibili sono arivate e le ho ricevute, ma quel che mi sorprende per la via secreta non ne ho ricevuta veruna, la qual cosa mi dà gran penso. Dica alla signora madre che certamente non le posso dar raguaglio circa l’a-ver ricevute sue lettere li altri ordinari, perché non so capire come vadino smarite. Questo ultimo però ne ho ricevute due: una sola e una inclusa in una del signor zio canonico. Li presentai al foco per vedere se cerano parole mercè il timore [sic], ma non vidi niente, nepur inpalese. Questo ordinario non ho ricevuto lettere di lei signor padre, non so capire cosa sia questo.Amatissimo genitore, al suo affetto mi raccomando e le chiedo la sua paterna benedizione

Di lei signor padre amatissimo,

PS.: La cagione per la quale le mie lettere secrete tardano a capitarle è perché quella persona non fidandosi d’impostarle a Iesi le manda a un suo amico a Ferrara, acciò poi lui le spedisca a Vicenza, ma non incontrandosi li corrieri perciò ritardano. La cosa m’è di sommo rincrescimento, ma per sicurezza maggiore opera così.

Umilissima, divotissima, obbedientissimaserva e figlia affezionatissimaLaura Maria Ghellini Colocci

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Antonio Ghellini, padre di Laura Maria, presentò una supplica al podestà di Vicenza, chiedendo che la causa di divorzio della figlia fosse trattata presso la curia arcivesco-vile di Vicenza. In tale occasione presentò numerosi documenti (tra cui le lettere di Laura) che potevano avvalorare la sua richiesta, riassumendo le vicende che avevano coinvolto l’intera sua famiglia:

Illustrissimo et eccelentissimo signor podestà vice capitano,

In obbedienza de’ comandi di vostra eccellenza relativi alle ossequiate ducali dell’eccelentissimo Senato primo del corrente, esporrò con tutta sincerità la dolorosa istoria de’ mali miei e della amatissima figliuola Laura.Ho concluso li 10 ottobre 1764, per sua e mia disgrazia, matrimonio d’es-sa mia figlia col marchese Nicolò Colocci di Iesi, a me fatto credere giovine umano e di cristiani costumi, il quale fu celebrato in faccia di santa chiesa 29 agosto prossimo passato.Per l’inurbanità, disattenzioni e dispreggi suoi nel tempo di sua dimora in Vi-cenza et in mia casa prima che il matrimonio seguisse, mecos’accorse la con-tessa Ottavia mia moglie essere egli d’un strano temperameto e divisavimo di scioglierlo quasi presaghi delle futture peripizie, se non si fosse opposta la figliuola Laura, che innocente e colta dall’amore di lui e posta in sogezione delle vicine publicate nozze pensava meno conveniente il scioglimento.Seguito però il matrimonio e dal canonico conte don Lelio mio fratello e di lei zio accompagnata nel lungo viaggio sino a Iesi, fece impressione che nulla egli curasse la novella sua sposa, riposando con essa una sola volta nel viag-gio, non gia per genio ma per la ristrettezza dell’albergo, tal che da queste premesse e da questi principi, simili in progresso nel tempo di sua dimora in Iesi, a ragione ha temuto le disaventure che indi sono derivate. Mostrò bensì, e stando in Vicenza e nel ritorno in sua casa, premura oltre il dovere appassionata per il giovine suo cameriere, che seco teniva unito e di giorno e di notte, tal che liggio si dimostrava della volontà di costui.Lasciata adunque la povera figlia in potere, non dirò d’un marito ma d’un tirranno, ritornò il religioso fratello alla Patria, assai mal contento di lui, quando mi giunse in data 8 ottobre passato la prima lettera della figliuola che umilio colle susseguenti, delle quali avrò trista occasione di parlare, che tutte mi partecipavano li di lui mali trattamenti, le minaccie, gli strapazzi, gli attentati sino con l’armi alla mano, impedito non dalla riverenza, ma dalla forza del proprio suo genitore, il funestissimo effetto e le offese che senza immaginabile causa all’innocente inferiva; mi palesavano le susseguenti con l’ommissione d’ogni suo più decente e necessario provedimento, li pericoli di sua vita e le disperazioni sue, e me le affermavano l’altre di persone di cre-

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dito e di carattere, che pure a lume presento, ch’io colà giugnessi a riceverla, prima che mi capitasse l’aviso di sua morte.Solo può dire chi è padre in quali angustie l’animo mio s’attrovava a così grave sciagura d’una figlia da me e da suoi tanto lontana. Onde procurate et ottennute per quella parte commendatizie con l’unito amplo passaporto di monsignor nunzio apostolico, preso in mia compagnia il conte Pietro Zago con li nostri servi, partendo il 12 dicembre decorso, corsi colà frettoloso a procurare il di lei salvamento. Feci che detto conte Pietro Zago da me si di-staccasse all’ultima posta detta le Cà Brugiate, otto miglia discosta prima di giugnere a Iesi, onde prevenendo il mio arivo presentasse le commendatizie con il passaporto sudetto a quel monsignor governatore nobil homo Savor-gnan, si come fece, et insieme fargli notto il fine del mio viaggio, ch’era il condurre meco a salvamento la figliuola. Egli, notte essendogli le sue disa-venture contro ragione sofferte, come fan fede le sue lettere che pure umilio, rispose che in quanto a lui niuna opposizione avrebbe fatto, ma che conveni-va rilevare prima il sentimento di quel monsignor vescovo, perché essendo il distacco della moglie, benché non curata e strapazzata dal marito, un punto ecclesiastico, a lui spettava la permissione.Quello fece però a lui venire e io dopo nel giorno stesso 17 detto circa l’ore 23 arivai, smontando tosto nel pubblico apostolico palazzo a preventivo uma-nissimo invito di lui. È la casa Colocci quasi di facciata al palazzo stesso, onde in vista del conte Zago, compreso già dalla figlia per le precedenti lettere imminente il mio arivo, si distaccò dalla casa del marito, giungendo per suo refuggio da monsignor governatore antedetto; e ciò pochi momenti prima che capitassi. Era quella svenuta et afflitta e con filiali amplessi, abraciando il suo paterno liberatore, narrò misti di singhiozzi le sventure sue, le tirannie che sofriva e il pericolo in cui si trovava, rifermando con maggior precisione le cose a me scritte, ben notte all’universale di Iesi, che universalmente la compiangeva, dimandava aiuto e soccorso.Allora alle mie modeste quanto giuste istanze fatte a quel monsignor vesco-vo, tendenti alla salvezza della figlia con ricondurla alla paterna casa, assentì et accordone il dissesso, volendo anche che di ciò fosse avisato il marito, lusingandosi come in sua lettera si esprime e ciò a contemplatione de’ suoi riguardi, che ritornata sarebbe dopo che presa l’aria natia conciliate fossero le questioni e fosse a più cristiane, oneste leggi ridotto il marito.Risolsi adunque sul fatto di partire di colà e meco condurre alla patria l’in-felice figliuola, ma monsignor governatore cortesissimamente mi obligò a fermarmi da lui in quella notte. Intanto vi fu più d’uno di quei nobili cavalie-ri congiunti deella Casa Colocci, che contemplando il mio contegno di non essermi portato al mio arivo per le dolorose cause in quella casa, cercò in quel tempo di fraporsi per farmi entrare nella stessa, ma non accordate le

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proposizioni più oneste ho dovuto risolvere di partire di colà nella seguente mattina, siccome feci.Pernottò in quella notte l’afflitta figliuola nel palazzo di quel monsignor go-vernatore, riposando nella stessa mia camera e nel partire ivi giunse artifi-zioso dissenso dello scorretto marito, con reclamo d’asporti d’effetti precio-si, levato da quell’ecclesiastico uffizio, che fu tosto incontrato col solenne protesto in calze di quello descritto e per indennità et onesto procedere del-la figlia una nota distinta di quanto aveva seco, consistente nei regali avuti nel tempo del suo noviziato.Partito adunque col pubblico assenso di quei monsignori illustrissimi vesco-vo e governatore, lontano perciò dal proprio fatto e auttorità e solo spinto dall’amore e dovere di padre montò la figlia nel birozzo in cui ero io colà giunto, condotta colle proprie sue mani di monsignor governatore antedet-to, a vista di tutto il popolo che dalle botteghe, dalle strade e sulle fenestre raccolto era giustamente commosso della di lei sciagura, compassionando et applaudendo alle mie paterne deliberationi. Non potrei abastanza spiegare l’irritamento dell’universale in tutte le classi contro il marito, di maniera che provano alcune delle lettere che presento, che se in partendo alcuno avesse alzato la voce si sarebbe contro quella Casa sollevato il popolo e contro il scorretto marito, tanto era l’odio cor lui concepito e tanto l’amore che in pochi giorni, per il buon tratto et oneste maniere, come dalle lettere si rile-vano, colà si era conciliato la figlia.Lo detestarono e lo detestano li stessi suoi congiunti, come provano le loro lettere e cercando con retto animo di ridurlo sulla via onesta e cristiana di riconciliazione e di pace, resa addesso quasi impossibile, studiano di levargli il suo cameriere dal fianco, creduto la pietra di scandalo e d’ogni disordine nella famiglia. E mentre sospirando la riunione cercano di persuaderlo a fare li santi esercizi.Giunto però con la figlia in Vicenza, convenne per necessità proporre rno-nitorio e causa di divorzio. E appunto nella curia episcopale di detta città, 9 genaro decorsa cui per ragione di nascita, di contratto stesso de sponsali de futturo et de presenti seguiti, non che per le pubbliche leggi universali è soggetta; qual fu al marito colle dimissoriali 18 detto rilasciata di queste 17 detto dalla curia vescovile di tesi la facoltà di quello intimare al convenuto marchese Colocci, colla riferta della insinuazione 18 detto, seguendo il ri-lascio delle lettere risponsive senza che da quella giustizia, nè dal marito seguisse inibizione veruna, come sarebbe occorso se fosse stato creduto con-veniente l’eccezione del foro.Questo è tutto ciò che è seguito e che esposi con tutta sincerità. Che se di tutto ciò si ricercasse le prove, assumendo il conte Pietro Zago, il conte Enea Arnaldi e il conte Scipione Piovene si rileveranno le disattenzioni sue, li di-

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spreggi e modi inurbani tenuti da lui colla figlia prima della sacramentale unione stando in Vicenza et in mia casa; scoprirà il contegno suo nel viaggio verso la moglie dal conte don Lelio canonico mio fratello, da Sebastiano To-niazzo suo servo e da Giustina Santin cameriera; conoscerà dalle lettere della figlia li mali trattamenti, le minaccie, le violenze, gli attentati, non solo dalle altre di persone di credito a me pervenute, per le quali fu dura necessità che intraprendessi per essa il lungo disastroso viaggio; del che pure renderanno testimonianza la sudetta Giustina Santin e Giovanni Muraro, che in casa Co-locci dimorarono e che ora qui si ritrovano. E questi pure comproberanno, unitamente all’accennato conte Pietro Zago, nonché Giovan Battista Gottar-do detto Gatton, Bortolamio De Marchi detto Ribello e Bortolamio Ebene et il sudetto Sebastiano Toniazzo, servi capitati in Iesi col padre, che nel palazzo di monsignor governatore era la figlia lorchè in Iesi capitai: che ivi chiamato giunse quel monsignor vescovo; che in quella notte pernottò nella mia ca-mera la figlia; che alla seguente mattina sono partito con essa accompagnata e condotta colle proprie sue mani da quel monsignor governatore sino al birozzo, in cui partendo essa montò.Assunti che siano con tutta la maggior carità e diligenza li sopranominati contesti, vedrà Vostra Eccellenza quanto sia stato da me lontano il proprio arbitrio, quando dalla autorità e mano stessa di quella ecclesiastica e lai-ca giustizia fu a me consegnata l’infelice figliuola, s’accerterà insieme della compassione e commozione universale di quella città in vederla partire.Avute queste notizie, verità ed evidenze in tanti inconcussi modi stabilite, non potrà certamente il serenissimo augusto mio Principe sopra qualsiasi tentativo avversario non estendere la reggia sua protezione sopra una inno-cente oppressa figliuola sua suddita assieme col padre tradita, ma salvarla in casa di lui come luogo sicuro e non discordante dal costume, dalla ecclesia-stica disciplina e dalle sacre decisioni per li dovuti indenegabili effetti sopra la causa di ben giusto proposto divorzio in Vicenza per le contestate cause gravissime, come unite alla stessa supplica riverentemente.Grazie.

Tra le testimonianze escusse dal podestà di Vicenza, quella del conte Pietro Zago riassunse minutamente il salvataggio di Laura Maria da parte del padre:

Prima del mese passato di dicembre il conte Antonio Ghellini che avea, da Iesi ove avea colocata in matrimonio la contessa Laura sua figlia, avuti vari riscontri di mali trattamenti che ad essa venivano praticati, ebbe a pregarmi fargli compagnia nel viaggio fin colà, che avea destinato di fare sul fine di

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ricondurre in sua casa la figlia che sentiva in pericolo imminente di qualche precipizio.Non seppi come amico negarglielo e ai 9, se non fallo, del detto mese siamo unitamente partiti con un camerier per cadauno e due staffieri della Casa Ghellini.Quando fummo a Sinigaglia io mandai un viglietto a monsignor govemator Savorgnan, che già prima mi era noto, avvisandolo che avevo neccessità il giorno seguente di abboccarmi seco. Altro viglietto dal conte Antonio fu spe-dito alla figlia contessa Laura coll’avviso che il giorno seguente sarebbe stato in Iesi per ricondurla alla patria.Il giorno susseguente io solo andai avanti col mio cameriere verso Iesi e due miglia fuori fui incontrato dal detto monsignor governator. Gli ho presenta-ta una lettera commendatizia di monsignor nunzio pontitìzio, indi per di-steso gli ho significato che v’era non molto distante il padre della contessa Laura per l’intenzione di ricondurla a Vicenza, onde torla dal pericolo de strani trattamenti che pativa in casa Colocci.Rispuosemi che molte cose erano a lui note per i molti discorsi che si faceva-no e che già stava aspetando l’arrivo all’effetto di questo gentiluomo. Lo sup-plicai allora di alloggio ed egli mello accordò gentilmente, non solo per me, che per il conte Antonio, a cui mandai tosto avviso di sua condiscendenza.Intanto capitò ad un mio cenno fattole dalle fenestre la contessa Laura; e dopo arrivò anco il conte Antonio suo padre e stabilirono per la partenza, riflettendo che altro riparo ai correnti mali non vi fosse.Monsignor governator propose di chiamarsi monsignor vescovo, che anche venne, il quale era non men informato degli altri delle cose che correvano, ma che mai nè da una, nè dall’altra parte gli era mai stato dato alcun motivo. E qui poi s’estese a dire che non capiva come il conte Antonio si fosse indotto darglin isposa al marchese Colocci la detta contessa Laura sua figlia, mentre qualunque fosse stata una sua nepote non l’avrebbe certamente ad una tal persona accompagnata, per il suo carattere e contegno.Monsignor governator intanto mandò a chiamar anco il detto marchese Nic-colò per il fine di partecipargli la venuta del conte Antonio cd il fine di ricon-dur la figlia a Vicenza.Fu esso marchese incontrato da monsignor vescovo e da lui prevenuto di questi divisamenti e la sua risposta fu che volea di ciò partecipare suo padre prima di dar risposta e se ne partì.Invece di ritomar il marchese capitò là il signor cavalier di Malta Ripanti a dire che detto signor marchese si doleva che il conte Antonio non fosse an-dato in casa Colocci ad alloggiare e che però gliene faceva l’invito. Rispose il conte Antonio che in quel caso non era in grado di ricevere l’esibizione e che lo ringraziava, ma ben accettò la proposizione che fece esso cavaliere Ri-

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panti di andar la sera a casa Colocci in compagnia anco della figlia a riverir la marchesa e la mattina susseguente ritomarei prima della partenza e montar in legno là al suo palazzo, appunto per togliere ogni motivo di discorso alla gente, ma niente si volle acettare dallo sposo negando che il conte Antonio dasse effetto al suo divisamento di seco condur la figlia.In questi complimenti cavalereschi si perdè qualche tempo e sempre la Casa Colocci insistente ad ogni progetto capitò intanto a repplicar l’invito dell’al-loggio al conte Antonio, anco il padre del marchese Niccolò, e questo pure fu ricusato, giacchè per parte di suo figlio niente si voleva accordare.Per la qualcosa monsignor vescovo, non potendo sperare che la Casa Colocci si conciliasse ad accordar senza dimostrazione questa partenza, andò al suo palazzo; nè per quanto già facesse in seguito anco monsignor governator cosa alcuna pottè riuscire.Stassimo dunque la notte a casa o sia in palazzo dello stesso governator tutti alloggiati. La mattina susseguente per parte dei marchesi Colocci fu al conte Antonio intimata una carta di dissenso della partenza sua colla figlia, accen-nando che non dovesse asportar nepure quei mobili che seco avea tratti.Alla qual carta spiccata già dal vescovato fu risposto dal conte Antonio con un protesto solenne e sullo stesso tempo fu esibita la notta di tutti i mobili che seco aveva la contessa Laura. E giacchè non si vedeva temperamento ad alcuna composizione cavaleresca, nè alla buona intelligenza che si cercò a tutto pottere conciliarsi e dal detto conte Antonio e dai mediatori monsi-gnor governator e cavalier Ripanti, si concluse la partenza dal palazzo di monsignor governator, il quale si diede l’incomodo d’accompagnar la con-tessa fino alla carozza, o fosse birozzo.S’era già unita quantità di persone che tutte declamavano contro il marito, mostrando della particolar considerazione ed affetto per la contessa Laura.Questa è tutta la storia di questo caso, colle più minute circostanze. Per altro, venendo a dir quel che io ho potuto conoscere e far concetto del detto mar-chese Niccolò, dirò che prima già che seguissero i sponsali m’accorsi che non avea molto genio per detta contessa Laura e che più in lui operava l’impegno e la parola: e feci un cattivo pressagio alla contessa medesima, che fu egual-mente conosciuto dalli stessi suoi genitori, che a dir il vero s’erano pentiti anco prima che seguisse di lasciar correre lo sposalizio, ma la contessa Laura, lusingandosi che il marchese potesse mutar pensieri e distaccarsi a poco a poco dall’affetto osservabile che era conosciuto avere per il suo cameriere, non volle aderir alli divisamenti dei genitori, per non rendersi motivo di discorsi alla città. Ma qui si è ingannata perché il marchese, dopo che l’ha tradotta a Iesi, tanto più le manifestò il suo stravagante temperamento ed essa ne ha avuto a sperimentar i mali effetti. E la causa principale s’imputa quelle cative insinuazioni del detto camerier sia derrivata.

L’EMERGERE DELLA TRADIZIONE. MATRIMONI CLANDESTINI E MATRIMONI SEGRETI TRA CINQUE E SETTECENTO

Un episodio singolare (al di là della clandestinità e della segretezza)

Francesco Brigo abitava a Granze di Vescovana, piccolo villaggio del terri-torio padovano, che ricadeva sotto la giurisdizione del podestà di Este1. Un manipolo di case raccolte attorno la chiesa parrocchiale, una piccola comu-nità che si muoveva lungo carrarecce che percorrevano, quasi senza sosta, una vasta distesa di campi alternati a canali. Un visitatore esterno, ancorché provvisto di una minima dose di perspicacia e di capacità di osservazione, non avrebbe faticato molto a scorgere in quel paesaggio piatto e quasi de-solato i segni più che evidenti della grande proprietà veneziana e cittadina. Quel piccolo villaggio, così come la più parte di quelli che, a distanze di un certo respiro, lo circondavano, non poteva di certo suggerire quei tratti che abitualmente contrassegnavano l’identità di una comunità caratterizzata dalla piccola proprietà contadina o dall’esistenza di beni collettivi: il pae-saggio, di cui esso stesso con i suoi casoni, le sue modeste dimore e la casa padronale sembrava costituire parte integrante, era ormai divenuto un trat-to distintivo di gran parte di quella bassa pianura che dalle propaggini dei Colli Euganei e Berici si spingeva verso l’Adige, per poi dilatarsi estesamente verso il lungo corso del Po2.Tuttavia la vicenda che aveva avuto come protagonista Francesco Brigo po-teva certamente essere definita alquanto originale. O quanto meno originali furono indubbiamente gli eventi che la fecero emergere sino a condurla sullo scrittoio di lavoro di un illustre giurista che in quegli anni svolgeva l’attività

1 La vicenda narrata è tratta dal consulto steso dal conte Giovan Maria Bertolli il 6 gen-naio 1697 (m.v.), posto in Archivio di Stato di Venezia (=A.S.V.), Consultori in iure , filza 149, alla data. Sulla figura e l’attività di Bertolli si veda il capitolo a lui dedicato in questo volume.2 Per un quadro sociale ed economico concernente il Basso Padovano e, soprattutto, le sue trasformazioni socio-economiche, rinvio a M. Vigato, Il monastero di S. Maria delle Carceri, i comuni di Gazzo e Vighizzolo, la comunità atestina. Trasformazioni ambientali e dinamiche socioecono-miche in un’arca del basso Padovano tra Medioevo ed età moderna, Padova 1997.

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di consultore in iure per conto della Repubblica di Venezia. Le prime notizie erano giunte al rappresentante veneziano di Este, il quale non aveva avuto esitazione a valutarne la gravità e, conseguentemente, a decidere di infor-mare il Senato, uno dei massimi organi di governo della Dominante. E poi, come avveniva di frequente per tutti quei casi valutati di una certa rilevanza politica e giuridica, si era deciso che uno dei consultori in iure esprimesse il proprio parere intorno ad una vicenda che coinvolgeva direttamente le autorità ecclesiastiche.Il conte Giovan Maria Bertolli svolgeva ormai da anni l’attività di consultore in iure. I pareri di cui era richiesto da organi quali il Senato o il Consiglio di dieci riguardavano prevalentemente tutte quelle materie che per la loro particolare natura presupponevano, o lasciavano comunque presupporre, una sovrapposizione di interessi e di giurisdizione tra potere ecclesiastico e potere temporale. La sua era stata un’attività svolta con notevole perizia tecnica e giuridica, anche se assai raramente i suoi pareri lasciano denotare quella tensione intellettuale e politica che in più di un caso aveva caratteriz-zato l’ormai consolidata tradizione culturale di consulenza della Repubblica. Di certo, con il suo lavoro, egli poteva ormai annoverare una vasta casistica di consulti inerenti vicende tra le più disparate. Anche in materia matrimo-niale egli era intervenuto in più di un’occasione, rivelando sempre un certo equilibrio espositivo e ideologico3.Quella vicenda di cui Francesco Brigo era stato principale protagonista, Gio-van Maria Bertolli proprio non era riuscito a capirla. E sì che, leggendo il resoconto del podestà di Este, trasmessogli sul finire del 1697, lì per lì, tut-to faceva credere che si trattasse di una delle consuete cause matrimoniali giunte al foro ecclesiastico o secolare per la prevedibile mancata promessa di matrimonio o per l’improvvisa clandestinità di un’unione realizzata sen-za rispettare talune formalità previste dal Concilio di Trento. In realtà, era proprio l’esito sorprendente di quella vicenda che l’aveva stupito e gli aveva fatto smarrire la consueta prudenza.Nel suo consulto Giovan Maria Bertolli ricordò al Senato come si erano svolti i fatti. Francesco Brigo aveva avuto una relazione amorosa con la giovane Domenica Francato. A quanto risultava, il rapporto amoroso era stato prece-duto da una classica promessa di matrimonio. Ben presto però il contadino di Granze di Vescovana aveva dirottato il suo interesse verso un’altra giova-ne, Barbara Malacarne. Nei confronti di quest’ultima il Brigo aveva subito di-mostrato di fare sul serio, tanto che aveva rapidamente contratto con lei un

3 Si veda, ad esempio, il consulto steso il 24 novembre 1689 (A.S.V., Consultori in iure, filza 140) intorno a due matrimoni clandestini celebrati nel Bresciano, oppure quello successivo, scritto il 28 agosto 1692 (Ibidem, filza 143), relativo ad un caso di deflorazione e mancata promessa di matrimonio avvenuto in Istria (per i quali si veda il capitolo dedicato all’attività di Bertolli).

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atto ufficiale di fidanzamento (sponsali). Di lì a poco, la giovane abbandonata aveva pensato bene di far valere i suoi presunti diritti e, con un atto formale presentato al foro ecclesiastico di Padova, si era opposta alla nuova unione che il fedifrago pretendente aveva ormai pensato di realizzare. Francesco Brigo, ben determinato a raggiungere il suo obbiettivo, e poco curando l’at-to di formale opposizione presentato dalla precedente amata, si era rivolto allora al curato del paese per poter comunque celebrare il matrimonio con la Malacarne. Ottenutone un più che prevedibile diniego (in assenza eviden-temente delle necessarie fedi di libertà che proprio la Curia vescovile doveva rilasciare), il giovane non si era arreso. Egli avrebbe potuto tentare l’ormai classico colpo di mano: presentarsi con l’aspirante nubenda, a sorpresa, da-vanti allo stesso sacerdote (magari mentre questi stava celebrando la messa domenicale), esprimendosi reciprocamente la volontà di considerarsi mari-to e moglie. Ma – e qui Giovan Maria Bertolli non aveva potuto nascondere la sua sorpresa – il Brigo aveva pensato di risolvere assai pragmaticamente la delicata questione che lo riguardava così da vicino, ricorrendo alla tradi-zione culturale cui egli apparteneva, ad una sorta di legge della comunità che evidentemente sopravviveva ancora pure in quella sterminata pianura dominata dalla proprietà signorile e dalla sua logica di appropriazione e di potere.Passando sopra ad ogni disposizione canonica il giovane contadino di Granze di Vescovana era ricorso a quella figura che ancora rivestiva una certa auto-rità nel villaggio. Interpellato il fabbro del paese ed ottenutane la collabora-zione, si era quindi diretto, insieme all’amata, al cimitero del villaggio, che con le sue tombe e le sue croci racchiudeva la chiesa parrocchiale. In quel luogo, considerato da tutta la comunità come lo spazio entro cui passato e presente, sacro e profano, incontravano simbolicamente un’intima fusione contrassegnandone l’identità culturale, il fabbro celebrò (rilasciando pure un attestato scritto di quanto era avvenuto)4 quella che agli occhi di Giovan Maria Bertolli non poteva apparire che un’assurda cerimonia.Francesco Brigo e Barbara Malacarne si erano così scambiati gli anelli e la reciproca volontà di unirsi in un vincolo perpetuo davanti all’uomo cui essi riconoscevano evidentemente autorità in materia religiosa e civile, e in presenza di quei muti testimoni che ancora, in base alla loro convinzione,

4 Sono di estremo interesse le osservazioni che Gabriel Le Bras stese a proposito della figura del fabbro: “Certi mestieri, come il fabbro o il mugnaio, esercitarono una cena influenza sulla loro clientela, ma soprattutto in campo politico. Fino alla fine del diciannovesimo secolo, la fucina è stata uno dei luoghi di ritrovo dei contadini, “il lavatoio degli uomini”, e il fabbro ha goduto di una grande autorità. Nel villaggio egli è spesso il solo artigiano del ferro, perciò è anche carradore e maniscalco”. Ma in effetti è ad altre attività che egli deve la sua popolarità: “Si ricorreva a lui molto spesso, perché era al tempo stesso stregone, guaritore, medico e ve-terinario” G. Le Bras, La chiesa e il villaggio, Torino 1979 (Paris 1976), p. 140.

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sigillavano la sacralità e la sacramentalità dei riti e delle consuetudini del villaggio. Nel suo consulto Giovan Maria Bertolli ricostruì quello che poteva essere definito il quadro tradizionale della vicenda: il ricorso al foro ecclesia-stico della prima giovane, la presunta validità della promessa a lei rivolta dal Brigo, l’eventuale sua deflorazione ed infine il possibile ricorso al foro seco-lare per reclamare un’istanza di risarcimento. Di fronte alle pieghe assunte successivamente dalla vicenda il Bertolli non riusciva però a rintracciare un fondamento logico che giustificasse quanto era avvenuto e non nascose, con imprevedibile durezza, come i responsabili avrebbero dovuto essere puniti con severità dallo stesso potere secolare:

Il professar di far funzioni da parocho, l’operar in un cimiterio, il far un matri-monio con poner l’anello e fargliene attestato è cosa da pazzo o è un burlarsi o pur un far poco conto della religione, anzi un offender la carica dei sacerdoti et insieme la dignità della Chiesa. Questa natura de’ sprezzi in cose tanto impor-tanti non si tolera dai principi cattolici et se il poco rispetto alli sacri tempii o pur all’orazioni che si cantassero contrafatte chiamerebbe la sferza et il rigore dei tribunali, quanto più quello che cade nei sagramenti che sono dei principali fondamenti della nostra santa fede. Anzi se per più decreti dell’eccelentissimo Senato si puniscono criminalmente, così per il magistrato gravissimo sopra la bestemmia et in Terraferma per li pubblici rappresentanti, quelli che con la spo-sa loro e con testimoni si portassero avanti il parocho e dicessero, l’uno: questa è mia moglie, e l’altra: questo è mio marito, e ciò non per altro se non perché tale formalità è diversa dal sacro Concilio di Trento, cosa si deve dire nel caso presente dove invece del parocho vi è un secolare che essercita il suo ministero? Meritano però et il Brigo et il fabro, così per la materia come per la forma, e per essempio insieme, di essere castigati e puniti5.

Giovan Maria Bertolli, dall’alto della sua cultura giuridica e dotta, non riusci-va dunque a cogliere la dimensione culturale di un episodio che rintracciava le sue origini e la sua stessa ragion d’essere in una concezione sacramentale della parentela e della religiosità che nei secoli precedenti, soprattutto nel mondo rurale, si era fusa intimamente con lo spirito e la vita delle comunità. Nonostante i vistosi cambiamenti culturali e politici intervenuti nel corso del ’500, e che il Concilio di Trento, pur contraddittoriamente, aveva rac-colto ed interpretato, questa visione del mondo e della società era riuscita a sopravvivere e a mantenersi (apparentemente integra), ancora a distanza di un secolo, pur in un contesto sociale ed economico provvisto di contenuti e di motivazioni ad essa sostanzialmente estranei6.

5 A.S.V., Consultori in iure , filza 149, 6 gennaio 1697.6 Intorno a questi problemi rinvio a J. Bossy, L’occidente cristiano. 1400-1700, Torino 1990 (Oxford 1985) e Idem, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa

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Stato, Chiesa e politica matrimoniale

L’antagonismo e i conflitti tra potere secolare e potere ecclesiastico raggiun-gono nel corso dell’età moderna un’intensità tale da coinvolgere alcuni dei settori più importanti della vita sociale. Tale intensità, così come la com-plessità delle interrelazioni esistenti tra i due poteri (al di là della scontata dicotomia e, talvolta, della convergenza dei reciproci obbiettivi) inducono a riflettere sulla natura e sull’esatto significato da attribuire alla nozione di Stato (pur inteso nella sua accezione di antico regime) e Chiesa, due entità considerate essenzialmente come strutture istituzionali dotate di un profilo gerarchico che, prima ancora di esercitare un’influenza diretta sulla società, traggono da questa origine, motivazioni e sviluppo. Interrogarsi sulla natura concreta dei conflitti intercorsi tra i due poteri, seppure limitatamente alla rilevante materia matrimoniale, significa, in fin dei conti, entrare in uno dei nodi storiografici che più avvicinano alla comprensione della vita delle isti-tuzioni nel corso dell’età moderna.La vicenda, di cui Francesco Brigo fu intraprendente protagonista, riporta evidentemente a pratiche sociali, tradizioni giuridiche e consuetudini reli-giose che non solo erano state vive e consolidate nei secoli precedenti, sino a costituire quella nozione sacramentale del matrimonio che si inseriva in una sorta di religiosità della parentela assai diffusa in tutti gli strati sociali, ma che pure costituivano, in una certa misura, il sostrato culturale e interpretativo entro cui il diritto canonico e la stessa dottrina matrimoniale si calavano prestando la loro elaborazione dotta e culta . Nonostante queste tradizio-ni culturali non fossero del tutto ignorate, il Concilio di Trento fissò nuove regole giuridiche che con la loro maggiore rigidità mirarono a trasformare l’istituto matrimoniale, come ha efficacemente ricordato John Bossy, “da processo sociale garantito dalla Chiesa a processo ecclesiastico dalla Chiesa amministrato”7. Le trasformazioni, di fatto, non trovarono pieno compimen-to che in un lungo periodo, soprattutto a causa delle forti resistenze che, particolarmente nel mondo rurale, si manifestarono nei confronti di una dottrina matrimoniale le cui nuove regole si distaccavano profondamente da una concezione intimamente sacramentale della vita e delle relazioni in-terpersonali8.La nuova dottrina matrimoniale elaborata dal Concilio di Trento, attenta in realtà ad imporsi con cautela ed attenzione su pratiche sociali assai conso-lidate, mirava in definitiva a contemperare esigenze di ordine e di control-lo nei confronti di una società sottoposta a profondi processi di trasforma-

moderna, Torino 1998.7 J. Bossy, L’Occidente..., p. 31.8 J. Bossy, Dalla comunità..., pp. 13, 18-19.

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zione, con la prudente difesa di equilibri ed assetti sociali, il cui sostrato culturale era tenacemente innervato in tradizioni e ritualità, espresse solo in minima parte sul piano giuridico e formale9. L’elaborazione dottrinaria tridentina in materia matrimoniale ebbe così l’effetto di far emergere, tal-volta in maniera vistosa, ma comunque di certo in quanto problema per-cepito dalle autorità secolari e religiose come politicamente rilevante nelle sue presunte dimensioni e conseguenze, fenomeni sociali che sino ad allora erano convissuti, spesso pacificamente o comunque senza rilevanti tensioni, con una struttura cetuale che sul piano antropologico e politico traeva la sua giustificazione ideologica da una profonda concezione dell’onore e dello status privilegiato10.Nel corso del secolo XVII e, più ancora, nel successivo, la politica matrimo-niale venne percepita soprattutto alla luce di fenomeni che, come i matrimo-ni clandestini, erano ritenuti pericolosi se non lesivi dell’autorità costituita, oppure, come nel caso dei matrimoni segreti, considerati fonte di disordine sociale o comunque turbativi di una corretta e ordinata trasmissione del pa-trimonio. Matrimoni clandestini e matrimoni segreti costituirono così un rilevante problema politico un po’ in tutta Europa11. Pratiche sociali, sino ad allora accettate o comunque tollerate, ed investite di una forte capacità manipolatrice degli equilibri cetuali, emersero nella loro nuova dimensione negativa e potenzialmente pericolosa. Gradualmente il potere secolare ri-vendicò ed ampliò la sua sfera giurisdizionale nei confronti di una materia (la politica matrimoniale) che sino ad allora era stata di esclusiva compe-tenza del potere ecclesiastico. Stato e Chiesa si trovarono così a ridefinire le loro strategie e le loro scelte. I conflitti che si accesero (o all’incontrario, in talune situazioni, rimasero sopiti) rivelano come la questione non fos-se di poco conto e, ancor più, lungi dal costituire una nota significativa di una complessa strategia politica caratterizzata dal gioco delle parti o dalla comunanza di obbiettivi perseguiti dai due poteri, mirasse, in definitiva, at-traverso le scelte via via attuate, a ridefinire o, all’incontrario, a mantenere inalterati gli equilibri sociali esistenti.

9 John Bossy ha osservato, a tal proposito che “ci sono molte argomentazioni a sostegno del punto di vista secondo cui il grande ostacolo all’uniformità tridentina non fu costituito né dalla ricaduta nel peccato a livello individuale, né dalla resistenza protestante, bensì dalle articolazioni interne di una società nella quale la parentela era il vincolo sociale più impor-tante e la faida, per quanto in forma ‘convenzionata’, una fiorente attività sociale”, J. Bossy, Dalla comunità..., p. 11.10 J. A. Maravall, Potere, onore, élites nella Spagna del secolo d’oro, Bologna 1984, pp. 75-86.11 J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, Torino 1989 (Paris 1987).

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Il detto di Graziano e il matrimonio clandestino

Quando, nel 1765, le sue rimostranze erano infine giunte sino alle supre-me magistrature veneziane, Bortolo Rocco di Rovigno poteva di certo essere considerato uno dei tanti padri di famiglia (a cui altri di numerosi si sareb-bero via via aggiunti) il cui onore era stato vilipeso non tanto dal comporta-mento della figlia (che egli stesso non avrebbe probabilmente avuto dubbi a definire irreprensibile), quanto piuttosto dalle scappatoie offerte da una dottrina ecclesiastica matrimoniale ad uomini privi di scrupoli o comunque non inclini, per loro tornaconto o disposizione d’animo, a mantenere la pa-rola a suo tempo data.La storia di Giovanna Rocco ci è nota – dopo che le istanze del padre avevano percorso un lungo e tortuoso tragitto istituzionale – tramite il resoconto, breve, denso ed intercalato da osservazioni giuridiche, steso da un consul-tore in iure, cui, come di consueto, era stato chiesto il parere in una materia che così da vicino toccava il fragile ed apparentemente inconsistente con-fine che separava la giurisdizione ecclesiastica da quella temporale.12 Gio-vanna aveva celebrato gli sponsali con Antonio Binussi, pure di Rovigno. Si era trattato di un fidanzamento ufficiale, celebrato, nell’ormai lontano 1757, alla presenza di amici e parenti: un atto che aveva sancito davanti a tutta la comunità l’impegno reciprocamente assunto dai due giovani, l’uno nei con-fronti dell’altra. Fatto sta che le cose non erano andate per il verso giusto. Antonio aveva preso a frequentare un’altra giovane, Eufemia Sustichi, e a nulla erano valse le proteste (e, crediamo, le minacce) avanzate dalla fami-glia di Giovanna nei suoi confronti. Si era allora ricorsi alle vie istituzionali e l’esito era stato ampiamente positivo. Giovanna e la sua famiglia avevano ot-tenuto dai tribunali ecclesiastici ben tre sentenze a favore. Infatti gli sponsali contratti tra la giovane e Antonio Binussi erano stati considerati del tutto legittimi, dapprima dalla Curia vescovile di Parenzo (sotto la cui giurisdizio-ne ricadeva Rovigno), poi dalla Curia metropolitana di Udine ed infine dalla stessa Nunziatura apostolica. Antonio Binussi, dunque, non solo sarebbe sta-to tenuto a mantenere l’impegno assunto nei confronti di Giovanna Rocco, ma pure non avrebbe mai potuto contrarre unione con qualsiasi altra donna. Anche dopo la dottrina elaborata al Concilio di Trento gli sponsali, cioè l’atto ufficiale di fidanzamento tramite cui due giovani s’impegnavano di sposarsi in un futuro più o meno determinato, avevano, per così dire, teoricamente conservato il carattere sacrale che li aveva caratterizzati nei secoli preceden-ti. E la Chiesa, con il suo diritto e i suoi tribunali aveva ripetutamente ribadi-

12 A.S.V., Consultori in iure, busta 230, 23 febbraio 1764 m.v.

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to il carattere impegnativo di quello che poteva essere considerato a tutti gli effetti un contratto stabilito di fronte a tutta la comunità.Fatto sta che le cose erano in realtà profondamente mutate dopo che, nello stesso Concilio, era stata introdotta la nuova dottrina matrimoniale: la vera e legittima unione matrimoniale (che, prima del Concilio era chiamata spon-sali de praesenti per distinguerla dall’atto di fidanzamento, cioè gli sponsali de futuro), pur incentrandosi sempre sul reciproco scambio di consensi tra i due sposi, non avrebbe potuto essere considerata se non quella celebrata di fronte al proprio parroco e alla presenza di almeno due testimoni13 . No-nostante gli sponsali de futuro avessero mantenuto il loro carattere impegna-tivo di fronte alla comunità, in concreto avevano però finito per smarrire quell’essenza che li aveva contraddistinti in origine, nel momento in cui il definitivo scambio di consensi avrebbe dovuto essere celebrato in chiesa e alla presenza del parroco14. La nuova configurazione istituzionale dell’unio-ne matrimoniale aveva sancito in definitiva la scissione tra contratto e sa-cramento, due nozioni che nell’ambito della comunità erano convissute per secoli nell’ambito di una concezione religiosa della parentela e dell’amicizia.Di certo la Chiesa vegliava perché l’impegno assunto tramite il fidanzamento venisse rispettato (e con esso il reciproco ed impegnativo scambio di con-sensi per il futuro): la concessione delle cosiddette fedi di libertà da parte delle curie vescovili avrebbe in realtà dovuto impedire che persone già im-pegnatesi con un atto di fidanzamento ufficiale potessero contrarre una di-versa unione matrimoniale e rispettassero quindi l’impegno contrattuale as-sunto da due famiglie o da due gruppi. Ma come si potevano impedire abusi ed ingiustizie in una società così profondamente divaricata, socialmente ed economicamente, al suo interno?15

La normativa matrimoniale deliberata al Concilio di Trento era inoltre solo apparentemente rigida. In quell’occasione, difatti, nonostante le pressioni esercitate da paesi16 come la Francia, non si era definitivamente sancita l’il-legittimità dei cosiddetti matrimoni clandestini, cioè di quei matrimoni ce-lebrati senza il rispetto di tutte quelle formalità giuridiche previste, le quali pur non costituendo l’essenza dell’unione (data invece dal libero scambio

13 Sull’elaborazione del decreto tridentino Tametsi cfr. J. Gaudemet, Il matrimonio..., pp. 213-221.14 D. Lombardi, Fidanzamenti e matrimoni dal Concilio di Trento alle riforme settecentesche, in Storia del Matrimonio, a cura di De Giorgio M. e Klapish-Zuber, Bari 1996, pp. 225-227. 15 Si veda a tal proposito le taglienti osservazioni di fra Paolo Sarpi nel consulto stilato a proposito dell’intricata vicenda che ebbe come protagonista emblematica la giovane Polisse-na Scroffa, cfr. pp. 56-57. 16 D. Lombardi, Fidanzamenti..., p. 221.

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dei consensi, dalla presenza del parroco e dei testimoni) erano comunque richieste per attestarne la liceità.In realtà la nozione di clandestinità, dopo l’adozione delle disposizioni tri-dentine, mutava non di poco la sua essenza, quanto meno sul piano formale. Se a qualificarla, dapprima, era stata l’assenza di ogni forma di pubblicità nello scambio dei consensi tra i due nubendi, dopo il Concilio di Trento essa sarebbe invece stata determinata dall’assenza delle cosiddette stride (cioè pubblicazioni) che dovevano essere affisse sulla porta delle chiese per tre domeniche di seguito17. Le istituzioni ecclesiastiche divenivano dunque ga-ranti, a tutti gli effetti, della validità dell’unione che sarebbe stata contratta.Sarebbe però fuorviante sottolineare fuor di misura il ruolo di sottrazione svolto dalla Chiesa nei confronti di pratiche sociali consolidate nella società. Le normative matrimoniali tridentine – così come l’imposizione della tenu-ta dei registri canonici a tutti i parroci – riflettevano l’esigenza (avvertita da più parti) di affrontare le profonde trasformazioni sociali ed economiche che, in particolare, richiedevano un controllo più attento sulla trasmissione ideologica dei valori genealogici e patrimoniali18.I matrimoni clandestini, in primo luogo, riflettevano evidentemente le ten-sioni esistenti da sempre tra generazioni contermini, tra chi si trovava a gestire l’autorità dei singoli gruppi parentali e chi ad essa, soprattutto per diretta filiazione, era sottoposto. Tra chi, in definitiva, era detentore di un patrimonio e dei valori culturali che lo qualificavano, ritenendosi pure re-sponsabile e tutore della loro trasmissione, e chi, infine, quei beni e quei valori avrebbe ricevuto (tramite successione legittima o testamentaria). Qualificando alleanze e parentele l’istituto matrimoniale (insieme alla suc-cessione testamentaria) definiva la natura e la specificità dei rapporti tra ge-nerazioni. Ad eliminare ogni forma di clandestinità sarebbe stato sufficiente decretare chiaramente l’autorità del capo del gruppo parentale, richiedendo quindi per la legittimità dell’unione matrimoniale pure il consenso del padre di famiglia19.

17 J. Bossy, Dalla comunità..., pp. 30-31.18 Sul rilievo culturale di queste trasformazioni cfr. A. O. Hirschman, Le passioni e gli inte-ressi, Milano 1979.19 È da osservare che nella società di antico regime alcuni istituti giuridici come la patria potestà e la successione testamentaria legittimavano il passaggio dei beni da una generazio-ne alla successiva solo alla morte di colui che li deteneva (e non al momento del matrimonio di chi fuoriusciva dalla famiglia). Questo fattore comportava un controllo molto forte sulla generazione che sarebbe subentrata nella gestione dei beni. Un controllo che evidentemente interagiva con le scelte matrimoniali e successorie. È presumibilmente intuibile che le fami-glie della grande aristocrazia, detentrici del potere politico e religioso, riuscissero agevol-mente non solo ad influire sulle scelte matrimoniali dei figli, ma anche a far annullare unioni realizzatesi in maniera clandestina o segreta. La rinuncia, da parte del Concilio di Trento, a

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È probabile che la Chiesa non adottasse misure severe contro i matrimoni clandestini (quantomeno atte ad eliminarli definitivamente) perché consapevole che le nuove normative matrimoniali, per poter essere accolte ed interiorizzate in tutti i ceti sociali, avrebbero dovuto essere dotate di una certa flessibilità ed ambiguità. Ipotesi non priva di plausibilità, ma che comunque non giunge a spiegare la permanenza di una sostanziale ambiguità nella dottrina matrimoniale adottata a Trento. È molto probabile che i matrimoni clandestini (così definiti, evidentemente, con una dizione calata dall’alto) riflettessero pratiche sociali e tradizioni culturali profondamente innervate in una società basata sullo status e l’onore. Una società, dunque, in cui i matrimoni costituivano innanzitutto la sanzione di alleanze e di nuove parentele, ma anche la qualifica goduta da ciascuna famiglia sul piano della scala cetuale. Ogni matrimonio ridefiniva inoltre equilibri patrimoniali e, in taluni casi, rilevanti spostamenti di ricchezza. Laddove onore e ricchezza confliggevano appare evidente che una normativa matrimoniale flessibile e dai contorni imprecisi agevolasse alleanze non del tutto irreprensibili20. La stessa e assai diffusa pratica del rapimento volontario, calandosi ambi-guamente sul terreno dei conflitti generazionali e facendo presa sulla pre-gnanza dei valori collegati all’onore femminile (la ragazza rapita e poi non più sposata dal rapitore sarebbe infatti stata colpita dal disonore) aveva pro-babilmente l’obbiettivo di ridefinire gerarchie sociali solo apparentemente consolidate21.

considerare il consenso paterno come un elemento decisivo per la validità del matrimonio aveva dunque la funzione di non irrigidire in maniera eccessiva l’istituto matrimoniale, al fine di permettere la continuità di pratiche sociali che si sentivano ancora come vitali.20 Lo studioso anglosassone James Casey ha osservato a tal proposito: “Le dottrine matrimo-niali di cattolici e protestanti tendevano a convergere, ma ognuna di esse si adattava al tipo di società cui si rivolgeva. Il fidanzamento e il matrimonio clandestino probabilmente posso-no godere di una certa tolleranza solo in determinati tipi di comunità. In primo luogo deve sussistere una qualche incertezza sulla vera natura della mésaillance accusata da una delle due parti. Nell’area mediterranea vi erano le due gerarchie conflittuali dell’onore e della ric-chezza e l’intervento dei tribunali ecclesiastici contribuiva ad appianare questa tensione ...; in secondo luogo, e di conseguenza, in una società basata sul lignaggio tenderà a crearsi una qualche incertezza relativamente all’autorità” cfr. J. Casey, La famiglia nella storia, Roma-Bari 1991 (Oxford 1989), pp. 135-136.21 Sul rapimento e relativa bibliografia cfr. G. Ribordy, Mariage aristocratique et doctrine ec-clésiastique: le témoignage du rapt au Parliament de Paris pendant la guerre de cent ans, in “Crime, History and Society”, I/2 (1998), pp. 29-48. Una buona analisi delle rappresentazioni giudizia-rie tramite cui il rapimento emerge a livello istituzionale, ma che però non scende a cogliere i nessi profondi che sul piano sociale legittimavano la pur contrastata pratica del ratto. Alcune osservazioni interessanti invece in J. Casey, La famiglia..., pp. 129-133: “La tipica istituzione del ratto nasce dall’ambivalenza che caratterizza il corteggiamento nei paesi mediterranei. Fu senza dubbio per facilitare la riconciliazione e per evitare le faide tra famiglie che la Chiesa cattolica escogitò l’espediente del rapimento legalizzato che consentiva di salvare le appa-

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Nel contrastato campo dell’onore la prassi dei matrimoni clandestini funge-va dunque da valvola di sfogo nei confronti di una società pregna dei valo-ri dell’onore e delle prerogative conferite dallo status. Non è forse un caso che il matrimonio clandestino (preceduto, molto spesso, da un rapimento consensuale) venisse realizzato per aggirare quella che a tutti gli effetti ap-pariva come una ferma opposizione del gruppo parentale e seguisse, non di rado, un precedente fidanzamento (sponsali de futuro) celebrato da uno dei due giovani. In quest’ultimo caso apparivano però in tutta la loro evidenza le contraddizioni sottese alla normativa matrimoniale tridentina. Di fronte, infatti, a sponsali celebrati in tutta la loro ufficialità e di fronte alla parente-la dei due fidanzati e di tutta la comunità, come poteva essere considerato valido un matrimonio celebrato clandestinamente, attuato con sorpresa e contro la volontà dello stesso celebrante?Si trattava di un problema che i tribunali ecclesiastici avevano dovuto af-frontare ben prima della riforma tridentina, ma, come si diceva, la nozione di clandestinità era profondamente mutata a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento ed inevitabilmente, di seguito alle nuove norme, si era pa-radossalmente trasferita nell’ambito di un istituto matrimoniale gestito e controllato dalle istituzioni ecclesiastiche. Il paradosso (se così lo possiamo chiamare) era costituito dal fatto che la normativa tridentina aveva sancito, di fatto, una scissione più netta tra sacramento e contratto. Prima di Tren-to la Chiesa aveva interpretato istanze ed aspettative, i cui tratti sacrali e sacramentali si individuavano nella cerimonia degli sponsali, che costitui-vano pure l’attestazione visibile dei vincoli contrattuali stabiliti dalla nuova unione di fronte alla comunità. Dopo il decreto Tametsi e l’ufficialità eccle-siastica della cerimonia nuziale, appariva evidente una scissione marcata tra nozione sacramentale del matrimonio (oramai attestata dalla cerimonia in chiesa) e la sua nozione contrattuale (ancora espressa da accordi e patti che si coagulavano per lo più intorno alla cerimonia degli sponsali)22. Il parados-

renze... I matrimoni clandestini potevano godere della protezione ecclesiastica solo se non contrastavano eccessivamente con le convenzioni sociali, ossia se potevano conciliare due concezioni confliggenti della gerarchia sociale, quella più antica basata sull’onore e quella più recente basata sulla ricchezza. L’amore, o passione, che sfidava queste convenzioni doveva contentarsi di un’esistenza fuorilegge”. Alcuni esempi significativi di manipolazione della pratica del ratto da parte delle famiglie aristocratiche della Terraferma si ha inoltre in V. Cesco, Due processi per rapimento a confronto. Repubblica di Venezia, seconda metà del XVI secolo, in “Acta Histriae”, VII (1999), pp. 349- 372.22 “Il Concilio di Trento, in particolare, varò un codice matrimoniale che si contrapponeva alle tradizioni collettiviste e contrattualiste della morale parentale, invalidando i matrimoni non celebrati pubblicamente davanti al parroco... Tutto ciò si caratterizzò di conseguenza come un vigoroso attacco contro sposalizi e fiançailles extrasacramentali che continuavano ad ispirarsi, in pieno XVI secolo, alla teoria contrattualistica del matrimonio”, cfr. J. Bossy, Dalla comunità..., p. 13.

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so di cui si parlava appariva in tutta evidenza nel momento in cui la Chiesa, pur ribadendo i vincoli sacramentali generati dagli sponsali, doveva pure attestare la legittimità di unioni celebrate clandestinamente di fronte ad un proprio rappresentante.Fu probabilmente questa divaricazione tra contratto e sacramento ad incen-tivare le ingerenze del potere secolare in una materia che la Chiesa aveva autonomamente interpretato da secoli. Si potrebbe dire che nel momento in cui, facendosi interprete delle nuove istanze sociali, la Chiesa elaborò una configurazione più nettamente istituzionale dell’istituto matrimoniale (sen-za per questo rinunciare, come si è visto, a raffrontarsi con tradizioni cul-turali ancestrali), essa si trovò in difficoltà proprio nella gestione della sua consueta opera di mediazione e di rielaborazione dei valori e delle pressioni sociali. Difficoltà a mediare tra contratto e sacramento, tra una società anco-ra pregna dei valori dell’onore, ma profondamente incrinata dalla gerarchia ascendente della ricchezza; e, ancora, tra una concezione ideologica intrisa dei valori del lignaggio e della parentela ed un’altra diversamente impernia-ta sull’autorità del capofamiglia.I contrasti tra potere secolare e potere ecclesiastico trovarono probabilmen-te origine dalla difficoltà a coniugare valori così contrastanti, ma, si potreb-be aggiungere, anche dalle scelte di fondo, non indifferenti, che comportava lo scioglimento di conflitti sociali e cetuali che influivano direttamente sugli assetti politico-istituzionali.È probabile che Antonio Rocco di Rovigno non cogliesse le sottili differenze esistenti tra contratto e sacramento, ma di certo – e di questo vi possono essere pochi dubbi – era perfettamente consapevole di avere buone ragioni da vendere, ancora avallate dalla tradizione e, paradossalmente, dallo stesso diritto canonico. Consapevole, all’incontrario, di quanto fosse intricata la matassa, era invece il consultore Fanzio, cui le autorità veneziane si erano rivolte per ottenere un parere giuridico in merito alla questione.Il consultore ricordò da subito come gli sponsali costituissero una promessa di matrimonio futuro e, come tutti gli impegni, conservassero implicitamen-te un valore contrattuale vincolante:

Questa promessa è della stessa natura delle altre promesse e niente meno delle altre obbliga le parti ad adempiere a tempo debito, cioè alla celebrazione del ma-trimonio, astringendole di tal sorta che ponno bensì mettersi in libertà di comun consenso, ma non mai una sola di esse può ritirarsi ad arbitrio dell’incontrato impegno; il che non potrebbe fare se non con grave offesa della giustizia, quando non convenissero ragionevoli cause che coonestassero il di lei pentimento.

Dalla vicenda esposta nell’istanza di Antonio Rocco non si scorgeva come lo sposo potesse infrangere gli sponsali e perciò sembrava auspicabile che

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la giustizia secolare lo costringesse infine a mantenere la parola data, an-che per evitare lo scandalo e le inevitabili ritorsioni che sarebbero insorti all’interno della comunità. In realtà però – continuava il consultore – le cose non apparivano così semplici. Se, difatti, il matrimonio clandestino si fosse realizzato a tutti gli effetti,

Detto Binussi non potrebbe esser obbligato al matrimonio con Giovanna Rocco, perché il matrimonio clandestino celebrato con Eufemia Sustichi sarebbe valido, benchè illecito, ed in conseguenza sarebbe un vincolo indissolubile che stringe-rebbe molto più forte il Binussi alla Sustichi di quello che gli sponsali lo strin-gessero alla Rocco, onde ben scorge la gloriosa prudenza di Vostra Serenità che prima di obbligarlo a servar la fede data alla Rocco sia necessario certificarsi che il matrimonio tentato colla Sustichi sia tentato invano ...Circa il matrimonio procurato dal Binussi clandestinamente, che è il secondo punto delle umilissime nostre considerazioni, il Concilio di Trento condanna non solo i matrimoni clandestini contratti senza la presenza del parroco e di due testimoni, ma ancora quelli che si celebrano senza le previe tre proclamazioni da lui providamente prescritte, dandosi però tra gli uni e gli altri questa diferenza: che i primi non sono solo illeciti, ma ancora invalidi, là dove i secondi non sono invalidi ma soltanto illeciti23.

Il consultore Fanzio indicava dunque la diversa nozione di clandestinità ge-nerata dalle norme tridentine, ma anche l’inconsistenza del valore contrat-tuale degli sponsali di fronte ad un matrimonio clandestino celebrato alla presenza del proprio parroco24 e di alcuni testimoni (pur occasionali). Sotto-lineando l’illegittimità dei matrimoni clandestini pretridentini (tali perché celebrati di nascosto) egli avvertiva indirettamente il paradosso dottrinale elaborato al Concilio di Trento. Non così invece per un altro consultore, il Dalle Laste, che nel 1783, richiesto di un parere su un matrimonio clandesti-no celebrato in tutta regola, osservò come la presenza del proprio parroco, pur colto di sorpresa, e di alcuni testimoni costituisse un requisito sufficien-

23 A.S.V., Consultori in iure, busta 230.24 In un consulto redatto nel 1793 Piero Franceschi ricordò sinteticamente come questo re-quisito fosse essenziale: “sopra il caso partecipato a questo eccelso tribunale dal padre Ludo-vico Gallo, superiore dei padri Minimi di questa Dominante, è manifesta la contravvenzione commessa dalle cinque persone a lui sconosciute, cioè tre uomini e due donne, che entrate in chiesa e due di loro avvicinate all’altare nell’atto che il medesimo sul fine della santa messa era per dar la benedizione al popolo, la donna gridò: questo è mio marito, e l’altro: questa è mia moglie, dopo di che presa una barca passarono alla locanda dell’imperatrice di Moscovia a San Luca. Senza l’intervento del parroco o di sacerdote specialmente delegato ogni matri-monio è clandestino ed è nullo, come sarebbe anche il presente” (A.S.V., Consultori in iure , b. 288, 9 dicembre 1793). La presenza del parroco o di sacerdote appositamente delegato aveva evidentemente la funzione di verificare le fedi di libertà dei contraenti.

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te a trasformare uno scambio di consensi in un vero e legittimo matrimonio. E di questo, egli continuava, non c’era di che stupirsi:

Sarà l’atto in tal forma illecito o peccaminoso, ma non invalido, né può invalidar-lo né la mancanza della benedizione parrocchiale, né l’omissione delle stride or-dinate dallo stesso Concilio, né sentenza vescovile a favor d’una contraddizione, poiché la promessa fatta ad altra femmina non rende invalido il matrimonio con-tratto con un’altra. E questo pure sta deciso in chiarissimi termini nel decreto di Graziano: che chi avrà data parola ad una non deve prender per moglie un’altra; se poi prenderà un’altra deve far penitenza della mancanza di fede, ma si resti con quella che ha preso, non si dovendo tagliare un sacramento sì grande25.

Con un vero e proprio escamotage il Dalle Laste individuava dunque una sorta di continuità nella normativa dottrinale elaborata a partire dal XII secolo sino al Concilio di Trento, non avvertendo come lo spostamento di accento nel concetto di clandestinità avesse modificato il valore sostanziale di con-trattualità insito nello scambio dei consensi tra i due nubendi26. A riprova di quanto il quadro interpretativo e conflittuale fosse ormai mutato stava del resto a testimoniarlo non solo l’ingerenza del potere secolare sul versante, per così dire contrattualistico, delle cause matrimoniali – prima di Trento di quasi esclusiva pertinenza dei tribunali ecclesiastici – ma pure la palese intromissione dei tribunali statuali in una sfera giurisdizionale, quale quella dei matrimoni clandestini, che, per la sua stretta attinenza con gli aspetti es-senzialmente sacramentali dell’unione matrimoniale, avrebbe dovuto com-petere alle autorità religiose27.Sul versante della politica matrimoniale e delle unioni clandestine Stato e Chiesa, lungi dall’operare in accordo e in una sorta di divisione delle com-petenze, dovettero dunque soggiacere ad una sostanziale pressione (e sele-zione) degli inputs rivolti dalle forze sociali alle istituzioni giudiziarie, elabo-rando di conseguenza, spesso in maniera controversa, scelte, se non vere e

25 A.S.V., Consultori in iure, busta 267, 2 maggio 1783.26 Con la nuova normativa matrimoniale il potere manipolatore dei gruppi parentali veni-va notevolmente a ridursi, ma le istituzioni ecclesiastiche dovettero affrontare le contraddi-zioni insite in una divaricazione così vistosa tra sacramento e contratto (ben presto rivendi-cato, quest’ultimo, dal potere secolare).27 Si veda quanto osservò nei suoi consulti in materia matrimoniale il consultore in iure Giovan Maria Bertolli ed in particolare in riferimento alla legge emanata dal Senato venezia-no nel febbario del 1662 (more veneto) alle pp. 98-99.. Ad esempio nei territori della Repubblica di Venezia i matrimoni clandestini cominciarono ad essere perseguiti da tribunali che come la Corte pretoria di Padova erano insigniti di notevole autorità giurisdizionale direttamente conferita dal centro dominante, cfr. su tale problema C. Povolo, Il processo Guarnieri. Buie-Capo-distria, 1771, Koper 1996, p. 56.

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proprie strategie ideologiche, che alla lunga assai difficilmente non avrebbe-ro potuto influire sul piano degli equilibri cetuali e politici28.

L’emergere della tradizione

Potere secolare e potere ecclesiastico, quantomeno a partire dalla fine del ’500, erano dunque sollecitati dalla complessità delle istanze sociali a fornire risposte sul piano giuridico-istituzionale e, aspetto ancor più importante, su quello giudiziario. Risposte che, nel discorso giurisdizionale che si sviluppò tra Sei e Settecento, tesero principalmente ad enuclearsi nella distinzione operata in maniera più netta tra contratto e sacramento, ma che evidenzia-rono pure la preoccupazione delle autorità secolari ad intervenire, in manie-ra più intensa e decisa, in una materia che come quella matrimoniale tocca-va così da vicino la salvaguardia della famiglia e degli equilibri patrimoniali ed ideologici che le erano sottesi.La tradizionale competenza della Chiesa nella sfera sacramentale sottoline-ava la sua adesione a valori ed interessi che affondavano le loro radici in una società ancora pervasa dal senso dell’onore, della parentela e dello sta-tus. La stessa struttura gerarchica della Chiesa poteva essere considerata, in un certo senso, come riflesso diretto di una società profondamente intrisa della distinzione di ceto e di status. L’idioma dell’onore, pur riflettendo va-lori tendenzialmente generali che, come quelli collegati al genere maschi-le e femminile, connotavano l’intera società, definiva pure la posizione di ogni individuo e di ogni gruppo secondo una gerarchia di precedenza e di status giuridico. La dottrina matrimoniale elaborata a partire dall’XI seco-lo dai teologi esprimeva questo stato delle cose e, lungi dal porsi come un vero e proprio sistema impositivo, rifletteva valori sostanzialmente condivi-si dall’intera società. Era compito del diritto canonico e dei tribunali eccle-siastici veicolare la pluralità delle istanze che giungevano alle istituzioni e, di conseguenza, mediare e manipolare la normativa esistente alla luce delle esigenze dei ceti superiori e delle loro aspettative in campo patrimoniale e successorio. Un istituto come il matrimonio presunto, ad esempio, che ten-deva a considerare teoricamente valida la promessa di matrimonio (anche se informalmente scambiata) subito seguita dal rapporto sessuale, esprimeva la risposta fornita dal diritto canonico ad istanze che non potevano essere contemperate da una dottrina matrimoniale alquanto rigida29.

28 Strategie che si ridefinirono in maniera significativa tra Sei e Settecento; cfr. ancora, a questo proposito, quanto osservato nel saggio dedicato al consultore Bertolli.29 Sul matrimonio presunto cfr. J. Gaudemet, Il matrimonio..., pp. 134-135, il quale osserva che “la teoria del matrimonio presunto d’altronde fu accolta dai teologi non senza resistenze.

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Esplicitando regole matrimoniali più ferree il Concilio di Trento, come già si è detto, mise indirettamente in rilievo l’esistenza di pratiche sociali che sino ad allora avevano proliferato nella sfera informale delle relazioni familiari e cetuali30, nonché il ruolo essenziale svolto dagli stessi tribunali ecclesiastici nell’adeguamento delle normative giuridiche alla pluralità delle istanze e degli interessi in gioco. Se la più incisiva dottrina matrimoniale tridentina era stata elaborata sulla spinta delle esigenze che il nuovo contesto econo-mico e sociale aveva ormai prospettato come ineliminabili, era pur vero in-fatti che una parte, consistente ed influente, della stessa società era ancora intensamente rivolta al passato, ai suoi valori culturali e, non ultima, alla vischiosa sfera dell’onore e dello status. Di riflesso alla nuova concezione del matrimonio e della famiglia, antichi istituti, che sino ad allora avevano svolto una funzione importante nel mantenimento degli equilibri esistenti, cominciarono ad essere percepiti come estranei o persino ostili alla nuova sensibilità con cui si percepiva la famiglia e il ruolo che essa avrebbe dovuto svolgere nell’ambito della società.È probabile che le tensioni originatesi dalla complessità dei risvolti sociali ed economici sottesi alla normativa tridentina finissero infine per far emergere le contraddizioni insite nella politica matrimoniale della Chiesa e nella difficile opera di mediazione e di interpretazione svolta dai suoi tribunali. Tensioni che, come si è osservato, muovevano dall’esigenza di far proprie istanze ed interessi dall’impronta innovativa, ma anche dalla constatazione che larghe, e di certo non minoritarie, fasce della società erano ancora sorrette da una concezione tradizionale della famiglia e della parentela. Contraddizioni che inevitabilmente assunsero una dimensione politica, soprattutto nel momento in cui vennero a calarsi sul decisivo terreno della trasmissione del patrimonio e dei suoi valori culturali. Fu, forse, proprio per affrontare la dimensione politica dell’istituto matrimoniale e i suoi indubbi riflessi sugli equilibri cetuali che il potere secolare s’intromise, con sempre minori esitazioni, in settori giurisdizionali che tradizionalmente erano sempre stati di quasi esclusivo appannaggio ecclesiastico. Si trattò a volte di rivendicazioni di principio, ma più spesso le intromissioni scelsero più pragmaticamente la via giudiziaria e processuale.

Lasciando ai canonisti la sua valutazione in foro esterno, essi, per la validità del matrimonio in foro interno, esigevano che l’unione fosse accompagnata da un consenso reale al matrimo-nio”. È probabile che l’istituto del matrimonio presunto servisse in realtà per avallare pratiche sociali che, come il rapimento consensuale, erano assai diffuse nella società mediterranea.30 Quella che Jack Goody ha definito l’economia nascosta della parentela, cfr J. Goody, Inheri-tance, property and women: some comparative considerations, in Family and inheritance. Rural society in Western Europe, 1200-1800, a cura di J. Goody – J. Thirsk – E.P. Thompson, Cambridge 1976, pp. 215-227.

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Tra gli istituti che il Concilio di Trento, con le nuove scelte normative, fece indirettamente emergere nella sua complessità e valenza politica, un posto di rilievo lo occupò il cosiddetto matrimonio segreto. E non si trattò di cosa di poco conto come stanno a dimostrare sia gli interventi che in taluni stati il potere secolare assunse contro questo istituto, così come, in negativo, la scelta intrapresa in altri contesti politici di non interferire nei suoi confronti per il timore di incidere sensibilmente sugli equilibri sociali esistenti.

La legittimità di Euriemma Saraceno

Pietro Saraceno di Biagio apparteneva ad un illustre casa nobiliare vicentina. A causa di una sorvegliata politica matrimoniale e di più casuali eventi de-mografici, il lignaggio Saraceno era rappresentato sul finire del Cinquecento da solo due linee genealogiche di discendenza. E del resto, Pietro Saraceno non aveva curato di allacciare un’alleanza matrimoniale con un’altra casa aristocratica, per assicurarsi una discendenza maschile cui trasmettere con il patronimico il consistente patrimonio fondiario accumulato dagli avi. Si trattava di vaste proprietà immobiliari situate nel Basso Vicentino, soprat-tutto a Finale località del villaggio di Agugliaro. E proprio a Finale di Agu-gliaro i suoi avi avevano costruito un’imponente dimora denominata Palazzo delle Trombe, mentre il padre di Pietro, Biagio il giovane, aveva affidato ad Andrea Palladio il rifacimento di una antica abitazione di famiglia. Pietro, a diversità della maggior parte degli esponenti del suo ceto, aveva preferito vivere in quel mondo rurale nel quale svolgeva indubbiamente un ruolo di primo piano, fissando la sua dimora nella severa costruzione di Palazzo del-le Trombe31. E del resto, considerato da molti come ‘uomo terribile’, aveva avuto diversi guai con la giustizia proprio per il suo temperamento violen-to e poco incline ad essere messo in discussione. È alquanto probabile che alla consistente proprietà non corrispondesse un’altrettanta disponibilità finanziaria. Gli avi avevano infatti vincolato gran parte del patrimonio che gli era pervenuto tramite l’istituzione di rigidi fidecommessi. E questo spie-ga, molto probabilmente, la relazione che egli intrattenne, nei primi anni ’70 del Cinquecento con la vedova Trivulzia Braccioduro, pure appartenente ad una casa nobiliare vicentina e con la quale aveva un lontano legame di consanguineità che avrebbe reso più ardua la celebrazione di un possibile matrimonio32. Una relazione del tutto informale e caratterizzata più dall’in-

31 Sulle due ville di Finale di Agugliaro cfr. I. Cavaggioni, C. Del Zoppo, Villa Saraceno a Finale di Agugliaro attraverso i documenti e la cartografia, in “Arte Veneta”, LLIII (1989-90), pp. 142-152; Il territorio nella cartografia di ieri e di oggi, a cura di P. L. Fantelli, Venezia 1994, pp. 96-97.32 Tutta la vicenda qui esposta è stata ricostruita tramite i numerosi fascicoli conservati

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teresse che dall’amore, al punto che Pietro Saraceno, per raggiungere il suo scopo, si era inizialmente trasferito nella casa della donna posta in Noventa Vicentina. Era infine ritornato a Finale, nel Palazzo delle Trombe dove, nel settembre del 1574 era nata la figlia Euriemma33. Ma quella intrattenuta con Trivulzia non era di certo l’unica sua relazione. Assai probabilmente, già da tempo egli coltivava quella che possiamo ritenere una vera e propria affe-zione amorosa con una donna di casa: una giovane domestica che prestava servizio nel palazzo delle Trombe a Finale di Agugliaro. Una relazione an-cillare dunque, nota a tutti e che avrebbe dato luogo alla nascita di almeno due figlie naturali34. Figlie che, teoricamente, il padre avrebbe potuto anche beneficiare con lasciti ereditari, come talvolta avveniva35.L’arrivo di Trivulzia Brazzoduro a Palazzo delle Trombe e la successiva nasci-ta di Eriemma crearono un inevitabile clima conflittuale, determinato molto probabilmente dalla volontà di Pietro Saraceno di non contrarre un’unio-ne matrimoniale che forse non sarebbe stata ritenuta del tutto adeguata al suo lignaggio e che avrebbe comunque messo in discussione la relazione in-trattenuta con la sua domestica. Ma gli avvenimenti precipitarono nel 1577, quando, colpita da una grave malattia, Trivulzia Brazzoduro, poche ore pri-ma di fare testamento, pretese ed ottenne che il Saraceno contraesse con lei la tanto sospirata unione matrimoniale. Un’unione segreta, celebrata da un sacerdote amico di famiglia e alla presenza di un unico testimone, il conte

in Archivio di Stato di Vicenza, Archivio privato Caldogno-Curti, in particolare i pacchi 103-104.33 La registrazione del battesimo di Euriemma rifletteva manifestamente l’ambiguità dell’unione tra i due suoi genitori: “Adì 30 settembre 1574, è stata battezata per me don In-nocentio Ricco una figliuola del signor Pietro Sarasasino [Saraceno] et della signora Trivultia Brazzadur et li è stato posto nome Uriena [Euriemma] Antonia. Il compare fu ....”, Archivio della Curia di Vicenza, Registri canonici di Agugliaro (Vicenza), Battesimi. Il parroco aveva dunque deliberatamente evitato di indicare la presunta irregolarità dell’unione dei due genitori. Nel corso della causa successoria, gli avversari di Euriemma sottolinearono comunque l’assenza del termine giugali (coniugi) che compariva invece nelle altre registrazioni di battesimo; così come rilevarono, tramite attestazione del parroco, l’assenza di qualsiasi registrazione di ma-trimonio tra Pietro Saraceno e Trivulzia Braccioduro.34 Nei registri canonci di Agugliaro sono registrati due battesimi. Del primo non è indica-ta la madre, ma il parroco di allora (don Marcantonio Buttafuoco) non era solito indicarla nelle sue registrazioni: “6 zunio 1572. Fu batezada Angiola fiola del signor Pietro Sarasino, il compare messer Alovisio Barbarano, la comare quella vechia che alieva le creature”. E un decennio dopo, il nuovo parroco annotò il successivo battesimo di una bambina, nata, molto probabilmente, dalla stessa unione: “Isabetta figlia del signor Piero Saraxino et di Alba sua di casa, fu battizata per mi pré Piero soprascripto alli 8 febraio 1582, il compare il reverendo pré Francesco Aquani et la comare Paula Belverata”, cfr. Ibidem, alle date. La presenza delle due figlie venne successivamente attestata nel conflitto accesosi tra Euriemma e la zia Ludovica Ghellini (cfr. infra).35 Alcuni esempi nel mio L’intrigo dell’onore. Poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Seicento, Verona 1997, pp. 396-397.

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Giuseppe da Porto, parente della stessa Trivulzia. Il Saraceno raccomandò però che il matrimonio dovesse rimanere segreto e privo di alcuna registra-zione scritta. Nel suo testamento Trivulzia lasciò come dote alla figlia Eu-riemma la somma rilevante di cinquemila ducati, ma non poté esimersi di nominare come erede universale del rimanente del suo patrimonio Pietro Saraceno36.In punto di morte Trivulzia Brazzoduro era dunque riuscita a strappare la celebrazione di un vero e proprio matrimonio segreto, che non aveva di certo i requisiti giuridici stabiliti dal Concilio di Trento37 e che comunque non avrebbe teoricamente avuto alcuna conseguenza sul piano successo-rio, a meno che l’unione non fosse stata esplicitamente resa pubblica dallo stesso Saraceno. Cosa che, successivamente, l’uomo si guardò bene dal fare: Euriemma venne ben presto inviata in un monastero cittadino sino all’età di diciotto anni. Ritornata a Finale, fu poi costretta a vivere a Palazzo delle Trombe per altri dieci anni, senza che il padre si preoccupasse di provvedere al suo matrimonio38.Nel 1603 Pietro Saraceno morì. Alcuni esponenti del lignaggio Saraceno, con in testa Ludovica Ghellini, sorella di Pietro, accorsero prontamente a Palazzo delle Trombe e, dopo aver requisito gran parte dell’archivio di famiglia, con-dussero Euriemma con loro a Vicenza. La giovane, pur avvicinandosi ormai all’età di trent’anni, era comunque considerata sul piano matrimoniale un partito più che appetibile. E difatti, di lì a qualche mese, sottrattasi alla sor-veglianza dei Saraceno e con l’aiuto dell’influente parente conte Giuseppe da Porto, la giovane contrasse matrimonio con Scipione Caldogno, esponente di rilievo della nobiltà vicentina. Inevitabilmente si aprì un duro conflitto tra il lignaggio Saraceno e i due coniugi in merito ad un consistente patrimonio che, sin dai primi anni del Cinquecento, era stato sottoposto a diversi fide-commessi e limitazioni. Inoltre Ludovica Ghellini si mosse personalmente contro Euriemma mettendo apertamente in discussione la legittimità dei suoi natali e il presunto matrimonio dei suoi genitori. Il patrimonio perso-nale di Pietro Saraceno, come avrebbe ben presto rivendicato tramite i suoi avvocati, le spettava quasi interamente per via di legittima e di usufrutto, in quanto l’unione tra Trivulzia Brazzoduro e Pietro Saraceno era stata del

36 Il quale pretese ed ottenne di non essere nominato come suo marito. Il legame è comun-que indirettamente attestato da un successivo passo del testamento, che Trivulzia riuscì ad inserire: “Si autem predicta pupilla decesserit sine filiis vel filiabus legitimis et naturalibus, tali causa ipsa domina testatrix substituit loco illius d. Petrum infrascriptum eius patrem aut heredes ipsius d. Petri”. 37 Si vedano le successive osservazioni stilate dagli avvocati di Euriemma.38 Evento che l’avrebbe costretto ad esborsare i cinquemila ducati previsti come dote di Euriemma.

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tutto informale e priva di qualsiasi requisito che ne attestasse la legittimità. Si trattava di un conflitto duro e condotto senza mezzi termini, in quanto si estendeva inevitabilmente sul piano dell’onore e della rappresentazione sociale. Quell’unione matrimoniale, celebrata in fretta e furia e, soprattutto, segretamente, ben difficilmente avrebbe potuto essere giustificata come tale da conferire ad Euriemma i crismi della legittimità, tanto più che la zia era ricorsa immediatamente al foro ecclesiastico. E che Ludovica Ghellini non fosse certo incline a ricorrere a mezze misure lo si vide sin dalle prime fasi del conflitto, a proposito della presunta sottrazione dell’archivio di famiglia da Palazzo delle Trombe e a quello che Euriemma denunciava come un vero e proprio sequestro della sua persona. Ribattendo alle accuse degli avversari Ludovica Ghellini in una lunga scrittura affermò:

Sono andata al Finale al tempo della morte di mio fratello; sono andata avvisata per messo, aposta mandatomi da lei, per il quale mi dava conto del stato suo disperatissimo. Per il che, aggravata da così fatta occasione per la perdita di un solo carissimo fratello, se mi risolsi d’andare in questa occasione al Finale non credo che ciò sia stato atto reprensibile. Et essendo mancato il detto quondam mio fratello; e vedendo essa signora Euriema, seben giovane di molto spirito et adulta d’anni trenta, restare in una casa in villa, situata in mezzo d’una campa-gna, senza governo d’huomini, l’haverle offerto la mia casa in Vicenza, invece di far qualche altra deliberazione, a lei fosse dispiacevole, non vedo come habbia essa ardire di rimproverarmi di così fatta attione, havendola massime tenuta in casa mia onoratamente, non solo lei, ma le due sue sorelle da parte di padre, con sua madre, un ragazzo et altri che dipendevano da essa per il spatio di mesi quatro.

Un vero e proprio colpo basso, che esplicitava chiaramente non solo l’esi-stenza delle due sorellastre di Euriemma, ma anche, indirettamente, le am-bigue scelte operate da Pietro Saraceno nei decenni precedenti39. Ma il vero problema, evidentemente, era quel lontano e segreto matrimonio. In un’in-formazione stesa da un giurista, interpellato dai due coniugi per conoscere le vie più opportune da intraprendere per opporsi alla causa intentata da Ludovica Ghellini presso il foro ecclesiastico, si sottolineò come Euriemma dovesse appellarsi alla voce comune, evidentemente sensibile alla sua supe-

39 Affermazione cui difficilmente Euriemma poteva ribattere se non appellandosi alla sua superiore condizione di status e di onore: “insidiosamente nella scrittura ultimamente pre-sentate vanno comparando la mia persona a due figliole che si dicono esser filiole naturali del quondam Pietro mio padre, nate d’una sua massara, le quali in casa del detto mio padre sono state sempre tenute come cameriere al servitio della persona mia, cosa che è così vera che detta signora Ludovica non ardirà negarlo, come non ha avuto ardire di negare che io sono stata sempre tenuta et trattata da detto mio padre come figliola legitima et naturale et che doveva esser suo herede”.

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riorità sociale, evitando di entrare nel merito di un’unione celebrata palese-mente in antitesi con i nuovi canoni stabiliti dal Concilio di Trento:

Oltre di ciò s’haveria la publica voce et fama che la sposasse et che habbi tenuta questa per figliola et sopra ciò si fa il maggior fondamento, parendo a molti che anzi, quando si provasse il matrimonio fatto alla presenza delli due soli, delli quali havendo fatto il sacerdote l’officio delle parole, resta il parente solo testi-monio, saria pregiudiciale et perciò si ritiene d’alcuno che non si debba parlar della forma del matrimonio, né esaminar sopra quello, ma star solamente sopra la publica voce et fama che l’havesse sposata et che tenesse questa per legitima.

Argomentazioni sensate, ma che difficilmente avrebbero potuto essere suffi-cienti a sostenere una causa che si fosse svolta presso il foro ecclesiastico in base ad una documentazione che attestava inconfutabilmente l’irregolarità dell’unione40. La normativa tridentina era chiara, ma quella vicenda, presa nel suo complesso – osservava ancora il giurista – conteneva dei risvolti che potevano comunque essere abilmente utilizzati nei tribunali della città la-gunare, sensibili ad accogliere ogni istanza che si appellasse ad uno spirito di equità:

Si desidera sapere quello si potesse sperare circa la validità del matrimonio et sopra la legittimità della signora Euriema, non solo nel rigore del Concilio, delli canoni e delle leggi imperiali, ma anco nell’honestà et equità del giudicio di Ve-netia, dove litigandosi la causa harà da terminare et dove, quando apparerà della promessa del matrimonio a principio et delle blanditie del padre verso la madre gentildonna, per godere lei et la sua robba et poi le sevitie usate contro quella che tenne sempre strettissima; et che ultimamente in articulo mortis la sposasse, ma con tanta secretezza et senza i requisiti necessari, et che non s’habbi pur de-gnato di farsi chiamar marito nel testamento et nominar la moglie in scrittura; et che li facesse far quel testamento così inofficioso, nonostante che lasci il terzo alla figliola loro legitima et che doppo morta habbi venduta tutta la sua robba a pregiuditio della povera figliola; et che in loco di maritarla nelli 18 l’habbi tirata nelli 28 et doppo levata di monastero tenuta in vita miserabilissima et come se-polta in una stanza terrena, con una meretrice in casa, per la quale si habbi fatta vita durissima, ma ben sempre intanto publicando che fosse una figliola legitima et trattando di maritarla nobilmente et darli dotte grande.

A detta del giurista, una volta che la causa fosse stata trattata nei tribuna-li veneziani, nonostante la severità dei canoni tridentini, quasi certamente avrebbe potuto avere un risultato favorevole. Ed in effetti, nel 1610, a causa degli esiti incerti del conflitto, trasferitosi nel frattempo nel foro veneziano, ma anche probabilmente per il fatto che la vertenza aveva ormai investito la

40 Come ad esempio le registrazioni di battesimo o l’assenza di quello di matrimonio.

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dimensione dell’onore di tutto il lignaggio, Ludovica Ghellini preferì giunge-re ad un compromesso con Euriemma, abbandonando ogni tentativo volto a contestare la legittimità dei suoi natali.La vertenza successoria, nell’ambito dello stesso lignaggio, aveva fatto emer-gere una pratica assai antica: il matrimonio segreto, diffuso molto probabil-mente a tutti i livelli sociali, ma che nell’ambito dell’aristocrazia inevitabil-mente si coniugava con la necessità di assicurare l’integrità di patrimoni che dovevano affidarsi a strategie matrimoniali oculate. Ma il conflitto tra Euri-emma Saraceno e Ludovica Ghellini venne indirettamente amplificato dalla normativa tridentina, che avendo stabilito regole assai più certe e severe per definire la legittimità di un matrimonio, costrinse pratiche sociali che sino ad allora si erano duttilmente affidate alla tradizione e al ruolo sociale dei soggetti coinvolti, ad emergere e a manifestarsi palesemente manifestando tutta la loro strumentalità ed ambiguità.Nel corso dei due secoli successivi il matrimonio segreto continuò ad essere ampiamente praticato ed utilizzato da tutti i soggetti sociali, ma, come di-mostrano i pareri stesi dai consultori in iure su richiesta dei massimi organi veneziani, essi sarebbero stati percepiti come fonte di incertezza giuridica e di instabilità sociale.

Il matrimonio segreto

Tra il giugno e l’agosto del 1790 Piero Franceschi, illustre consultore della Repubblica, stese due pareri scritti sui matrimoni segreti41. A richiederglieli erano stati i Capi del Consiglio di dieci, sollecitati da due suppliche loro per-venute rispettivamente da Brescia e Belluno. Si trattava, in entrambi i casi, di vicende ingarbugliate, dall’indubbio rilievo patrimoniale e successorio42.La prima riguardava le figlie eredi di Giuseppe Rocca, che sollecitavano aper-tamente le autorità secolari ad intervenire nei confronti della Curia vesco-vile di Brescia per ottenere una specifica dichiarazione sulla presunta esi-stenza di un matrimonio segreto tra Maria Pizzimenti, vedova del defunto, e Francesco Feriani, suo agente e dipendente. Da alcuni anni verteva una lite giudiziaria tra le eredi del Rocca e la moglie di quest’ultimo, la quale era sta-ta espressamente nominata usufruttuaria dei beni caduti in successione. Il diritto di usufrutto era infatti condizionato dalla persistenza dello stato ve-

41 Su Piero Franceschi si veda M. Selva, L’ultimo dei consultori in iure: Piero Franceschi (1786-1797), in “Il diritto della regione”, 2 (2009), pp. 133-199.42 I due consulti sono in A.S.V., Consultori in iure , b. 285, 16 giugno e 10 agosto 1790.

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dovile, e un secondo matrimonio, ancorché celebrato segretamente, avrebbe leso le volontà del testatore.Il contesto entro cui si collocava la seconda vicenda era ancor più denso di tensioni e conflitti e vedeva coinvolta un’intera famiglia civile di Bellu-no. Paolo Antonio Odoardi aveva appena compiuto i diciotto anni quando, nel maggio del 1790, si era segretamente sposato con Francesca Pagliaro. Non aveva incontrato particolari difficoltà ad intraprendere tale scelta in quanto, per la morte di entrambi i genitori, non era soggetto alla paterna potestà. Il matrimonio non poteva certo essere definito tra i più social-mente irreprensibili. Francesca, infatti, proveniente da Cison era giunta da poco tempo in casa Odoardi in qualità di domestica. La giovane età dello sposo e la sua superiore estrazione sociale avevano dunque consigliato la celebrazione di un matrimonio segreto. Si era però trattato, come osservò il Franceschi, di un’unione perfettamente regolare. Il matrimonio, infatti, era stato celebrato da un sacerdote appositamente delegato dal vescovo e alla presenza di due testimoni. La registrazione dell’atto e le relative fedi di libertà con l’esenzione dalle consuete pubblicazioni erano segretamente conservate nell’archivio della curia vescovile di Ceneda, diocesi cui appar-teneva la giovane sposa.Ma di lì ad alcuni mesi, giunti a conoscenza dell’accaduto, i fratelli e lo zio dell’Odoardi avevano reagito duramente. Tanto avevano fatto che infine Pa-olo Antonio Odoardi aveva ceduto alle loro richieste. Tramite un avvocato scelto dalla famiglia il giovane aveva richiesto alla curia vescovile che il suo matrimonio fosse pubblicato e quindi reso conforme a tutte le altre unioni. Una volta pubblicato, il matrimonio infatti avrebbe potuto essere impugnato e invalidato. Gli Odoardi avevano però pensato bene di non intraprendere una causa giudiziaria presso il foro ecclesiastico (anche perché di altra dio-cesi). Erano così ricorsi ai Capi del Consiglio dei dieci mettendo in rilievo alcune presunte irregolarità compiute dal parroco che aveva celebrato il matrimonio e persino taluni presunti abusi commessi dal cancelliere vesco-vile cui competeva il rilascio di copie dell’atto matrimoniale. Di fronte alla complessità giuridica e giurisdizionale che le richieste d’intervento rivolte al potere secolare lasciavano chiaramente denotare, i Capi del Consiglio di dieci ritennero opportuno sottoporle all’attenzione di Piero Franceschi per ottenerne un parere.Entrambe le vicende erano dunque incentrate sulla celebrazione di un ma-trimonio segreto e sulle inevitabili implicazioni che la sua pubblicazione avrebbe comportato, non solo nei confronti dei rispettivi contraenti, ma an-che dei loro familiari e parenti. Il matrimonio segreto aveva alcuni tratti in comune con il matrimonio clandestino. Sia l’uno che l’altro erano infatti ca-ratterizzati da un dato non irrilevante: l’assenza di quelle formalità giuridi-

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che che, pur non invalidando il matrimonio, impedivano che la nuova unio-ne incontrasse l’esplicito od implicito consenso da parte della comunità. A diversità del matrimonio clandestino quello segreto veniva però celebrato senza le necessarie pubblicazioni (e senza essere registrato negli appositi registri canonici) previa autorizzazione delle autorità ecclesiastiche, le qua-li, verificata la legittimità dei requisiti previsti, potevano a tal fine delegare un sacerdote diverso dal parroco dei due nubendi. Ovviamente, data la sua segretezza, tale tipo di matrimonio non aveva immediati riflessi sul piano civile, se non dopo la sua eventuale pubblicazione e conseguente omologa-zione alle altre unioni matrimoniali.Clandestinità e segretezza sono due concetti che, se pure sul piano giu-ridico presuppongono la diversa liceità dell’unione celebrata, suggeri-scono in realtà un’interpretazione univoca: l’esigenza riflessa dal diritto canonico di interpretare e mediare in maniera flessibile pratiche sociali che evidentemente, dato il loro radicamento e diffusione, avrebbero fa-ticato ad essere integrate nella normativa matrimoniale vigente. Fu tale normativa, come già si è osservato, che le fece visibilmente emergere dal terreno in cui prosperavano da secoli, prospettandole come un problema politico e sociale di tutto rilievo. Matrimonio clandestino e matrimonio segreto indicavano, in definitiva, l’esistenza di un pluralismo giuridico che era diretta emanazione di una società suddivisa in ceti ed amalgama-ta dall’idioma dell’onore.Paradossalmente era dunque la palese mediazione predisposta dalle autorità ecclesiastiche nei confronti di spinte ed istanze sociali a caratterizzare la clandestinità o la segretezza dell’unione celebrata. Se tali spinte, come avven-ne sensibilmente nel corso del Settecento, fossero profondamente mutate, i due istituti avrebbero finito per smarrire i loro contorni precisi. Come ebbe ad osservare Piero Franceschi, a proposito di una delle due vicende sotto-postegli dai Capi del Consiglio di dieci, il destino del matrimonio segreto “si trova ondeggiante negli arbitrii privati che non vengono sotto l’occhio del Principe; e quel legame segreto, che molto assomiglia ai matrimoni clande-stini proibiti dall’accennato Concilio, passa felicemente nell’opinione comu-ne come per una materia interiore di coscienza e del solo foro dell’anima”.Nel suo consulto, redatto per la vicenda bresciana, l’illustre consultore col-se chiaramente i problemi sottesi all’esistenza dell’istituto del matrimonio segreto. Un istituto assai antico, o per meglio dire una pratica che i canoni-sti facevano risalire alla seconda metà del dodicesimo secolo sulla scorta di una decretale del pontefice Alessandro terzo. Egli notò come il matrimonio segreto fosse stato proibito in Francia ormai da molto tempo, con la conse-guenza che i figli nati da tali unioni venivano esclusi da ogni diritto sul pa-trimonio paterno, mentre “in Italia e nel Veneto Dominio vennero tollerati

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sino al giorno presente, essendosi lasciato il governo di questo affare, senza veruna legge, in mano del sacerdozio”43.Piero Franceschi colse assai bene come tale pratica traesse origine da una società ancora pregna dei valori dell’onore:

Il motivo di concedere queste licenze, o per meglio dire dispense dalle vere so-lennità prescritte dal Concilio di Trento e protette da molte leggi sovrane viene dedotto dal bisogno di qualche asoluzione per delitto occulto, dall’oggetto di convertire il concubinato in matrimonio, dalla notabile differenza de’ coniugan-di, dal desiderio di conservare il decoro e la pace delle famiglie, dalla supposta necessità di provvedere al buon concetto e da altri rispetti particolari de’ con-traenti44.

Spinte assai diverse potevano dunque consigliare il ricorso ad un istituto che per il requisito essenziale della segretezza aveva evidentemente il fine precipuo di evitare che l’unione matrimoniale producesse effetti giuridici sul piano patrimoniale e successorio. Il matrimonio segreto, in maniera an-cora più visibile di quello clandestino, era espressione di una società in cui le caratteristiche dello status e dell’onore definivano rigidamente la qualità dei rapporti sociali. Si potrebbe anzi aggiungere che se il matrimonio clan-destino rifletteva le tensioni esistenti all’interno di una società sottoposta all’emergere di valori nuovi incentrati sulla ricchezza e su diversi rapporti economici, quello segreto era espressione della forte resistenza opposta da forze sociali che individuavano il loro prestigio e la loro stessa ragion d’esse-re nella tradizione e nella continuità dei suoi valori ideologici.Vero e proprio strumento manipolatore delle strategie matrimoniali dei li-gnaggi, il matrimonio segreto incontrava evidentemente un più disponibile accoglimento soprattutto laddove la difesa del patrimonio della famiglia si coniugava ad un ruolo politico rilevante occupato dai suoi membri. Come ha dimostrato V. Hunecke tale istituto venne ad esempio utilizzato ampiamente dallo stesse ceto dirigente veneziano45. Difatti si trattava di uno strumento assai duttile che, come già si è osservato, aiutava a mantenere integro il pa-trimonio familiare, ma che poteva altresì costituire eventualmente il neces-sario supporto (trasformandosi, tramite la sua pubblicazione , in un regolare matrimonio) ad una politica matrimoniale che, per le sue scelte di fondo, doveva frequentemente fare i conti con gli eventi biologici negativi.Laddove, nel corso dell’età moderna, una gerarchia sociale fortemente ca-ratterizzata dai valori dell’onore e del privilegio fu comunque sottoposta alle

43 A.S.V., Consultori in iure , b. 285.44 Ibidem.45 V. Hunecke, Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica, Roma 1997, pp. 131-132.

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pressioni provenienti dalle trasformazioni economiche e sociali che sottoli-neavano il peso determinante occupato dalla ricchezza, il matrimonio segre-to rivelò in maniera esplicita e visibile il suo carattere manipolatore, essen-zialmente funzionale al mantenimento degli equilibri cetuali predominanti. Nei paesi in cui il potere centrale monarchico favorì l’emergere di un’élite e l’ascesa di nuovi ceti, tale istituto venne apertamente additato come una pratica pericolosa nei confronti del corretto ordine sociale. E, di fatto, esso finì per smarrire qualsiasi valenza politica di fronte alla decisa volontà delle autorità secolari nel definire i precisi criteri giuridici che qualificavano la validità dell’unione matrimoniale e, di converso, il suo rilievo contrattuale.Iniziative di tal sorta, come ebbe ad osservare Piero Franceschi, non vennero intraprese in Italia, dove più forte era il peso della tradizione e dei valori imperniati sull’onore. E tanto meno potevano essere assunte in uno stato come la Repubblica di Venezia, retta, al suo vertice, da un ceto aristocratico. Il matrimonio segreto costituiva difatti uno strumento indispensabile per risolvere le contraddizioni esistenti all’interno delle Case aristocratiche e per caratterizzare una politica matrimoniale in grado di assicurare quella trasmissione del patrimonio che più era consona al mantenimento e alla ge-stione del potere. E, difatti, a differenza di quanto non avvenne per il matri-monio clandestino46, non si ebbero mai interventi legislativi per limitare o condannare una pratica sociale assai diffusa tra i ceti medio-alti.Alcuni consulti stesi nella seconda metà del Settecento indicano però come, nella complessiva ridiscussione dei rapporti tra potere ecclesiastico e potere secolare nei confronti della politica matrimoniale, anche l’istituto del matri-monio segreto fosse ormai avvertito come un problema che stonava, se non contrastava, con la nuova sensibilità tramite cui si percepiva la dimensione della famiglia.A far emergere la questione dei matrimoni segreti, in tutta la sua rilevanza politica, fu nel 1755 un’aspra contesa tra due famiglie aristocratiche vicen-tine. Da tempo una relazione segreta univa i due giovani Orsola Tornieri e Muzio Negri. L’ostilità delle rispettive famiglie li aveva spinti a contrarre un matrimonio segreto nella parrocchia veneziana di Sant’Apollinare. Di segui-to alle tensioni emerse, il caso venne sottoposto all’attenzione del consulto-re Montegnacco, il quale rilevò non solo le palesi irregolarità dell’unione tra i due giovani, ma pure l’estensione di un fenomeno sommerso che le auto-rità secolari avrebbero ben faticato a percepire nei suoi contorni precisi. Il parroco di Sant’Apollinare, come osservò il Montegnacco, non solo teneva

46 Gli interventi contro i matrimoni clandestini si possono ragionevolmente spiegare con il fatto che essi miravano a contenere pratiche sociali di più difficile controllo e che, rispetto, alla loro originaria funzione, si erano sviluppate ed estese ben al di là dei consueti limiti di mediazione predisposti dalle autorità ecclesiastiche.

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irregolarmente un registro dei matrimoni segreti, ma negli anni precedenti aveva pure celebrato alcune di tali unioni senza essere provvisto della neces-saria delega concessa dal Patriarca o comunque avallando abusi ed irrego-larità (come quella, ad esempio, di celebrare matrimoni segreti tra persone appartenenti a diocesi diverse da quella veneziana)47.Il matrimonio tra Orsola Tornieri e Muzio Negri venne annullato dal vesco-vo di Vicenza, cui lo stesso Montegnacco aveva consigliato fosse rimessa la decisione del caso. Il consultore, pur rivendicando il diritto della potestà se-colare di intervenire penalmente nei confronti di chiunque avesse procedu-to a degli abusi in una tale materia, individuava comunque le implicazioni politiche sottese alla celebrazione dei matrimoni segreti. Il Principe aveva infatti il potere di punire “non solo sopra le persone laiche, ma eziamdio sopra delle ecclesiastiche le ingiurie fatte a Dio, con abuso del loro ministero e de sagramenti, non che quelli inferti alli rispetti del Principato, mettendo a pericolo la quiete pubblica, la pace privata de sudditi e lo stato delle famiglie colla loro imprudenza”48. Il consultore, del resto, consigliando la massima prudenza, non poteva di certo rivendicare nettamente istanze giurisdizio-naliste in una materia in cui lo stesso patriziato veneziano era pienamente e contraddittoriamente coinvolto.Nel 1764 il patriarca di Venezia ordinò che tutte le registrazioni dei matri-moni segreti fossero depositate in curia. Era quanto, poco più di vent’anni prima, il pontefice Benedetto XIV aveva già decretato in una bolla. Il decreto patriarcale aveva subito consigliato i Capi del Consiglio dei dieci a richiedere il parere dei propri consultori in tale materia. Commentando il contenuto del decreto, il consultore Fanzio osservò, senza infingimenti, che “l’uso di Venetia è che sì fatti matrimoni si notino a parte, ora da parochi ed ora da confessori, da quelli cioè a quali dalla sacra penitenzieria vien specialmente commesso d’assistere ai sudetti; le quali note alle volte si perdono perché passano da una mano all’altra ed altre volte non è possibile ritrovarle per essere elleno in mani del tutto ignote ai bisognosi ricorrenti”49.Si trattava di affermazioni non prive di una certa dose di esagerazione, ma che esprimevano comunque come il matrimonio segreto fosse un istituto

47 Il lungo consulto di Montegnacco è in A.S.V., Consultori in iure, b. 234, cc. 355-364. Il con-sultore si soffermò in particolare sui brevi concessi dalla Penitenzieria romana che, analoga-mente alle dispense vescovili, permettevano la celebrazione dei matrimoni segreti: “Simili carte della penitenzieria, cioè di questa seconda qualità, in Francia non hanno luoco, peroc-chè essendo vietato in quel regno, coll’editto 1697, ogni qualità di matrimoni senza le solen-nità ricercate da quella legge, non ardirebbe alcun curato, in contraventione del decreto reale far uso di carte forastiere che potessero in qualunque forma renderlo inano”.48 Ibidem.49 A.S.V., Consultori in iure, b. 230, 14 settembre 1764

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ampiamente e discrezionalmente gestito dal potere ecclesiastico sulla scorta delle più svariate richieste provenienti dal contesto sociale. Le vicende che, tramite questi consulti, giungevano sino alle supreme magistrature venezia-ne esprimono comunque come, nonostante la sua delicatezza, il problema emergesse per le sue implicazioni patrimoniali e successorie.I conflitti tra famiglie o all’interno della stessa famiglia erano dunque resi più acuti dalla persistenza di un istituto che per la sua duttilità (come già si è visto poteva difatti essere reso pubblico a discrezione dei due contraenti) contrastava con le norme giuridiche esistenti e con l’esigenza, sempre più avvertita, di una certezza del diritto. È molto probabile (come del resto avve-niva per altre questioni emerse sulla ribalta politica) che in questi ultimi de-cenni del secolo il matrimonio segreto non fosse più praticato di quanto non lo era stato nel periodo precedente. Di certo, ora, lo si avvertiva, nonostante la ritrosia ad affrontarlo direttamente, come una presenza imbarazzante che contrastava con la nuova sensibilità sociale tramite cui si percepiva la fami-glia e la proprietà.Questo aspetto emerge, ad esempio, proprio nelle parole di Piero France-schi, il quale pure, nei due casi sottoposti alla sua attenzione non sapeva esimersi dal consigliare la massima prudenza ed evitare ogni intervento in una questione che solo le autorità ecclesiastiche erano in grado di gestire con le dovute attenzioni. Nonostante fosse considerata una materia stret-tamente inerente la sfera personale e religiosa, il consultore coglieva però gli effetti spesso dirompenti e negativi che l’utilizzo del matrimonio segreto suscitava in contesti sociali assai inclini alla conflittualità giudiziaria. Infatti, egli osservava:

Non può negarsi però che molti e gravi incomodi temporali non sovvengono agli interessi dei sudditi da uno stato simulato ed equivoco, mentre col mantello di tal segreto spesse volte si coprono contro il buon ordine della nuova società eredi non conosciuti, obbligazioni dotali, poligamie simultanee, inganni decisivi nella fede dei contratti e defraudi notabili al patrimonio delle famiglie50.

Osservazioni penetranti, che comunque erano accompagnate dalla racco-mandazione ad intervenire con la massima prudenza solo laddove si indi-viduavano palesi ingiustizie51. Raccomandazione, forse, persino superflua considerando la qualifica politica degli interlocutori.

50 A.S.V., Consultori in iure , b. 285.51 Nel Caso Rocca, Franceschi osservò: “noi per verità non sapressimo negar al Principe l’eminente diritto e l’uso di mezzi di poter sciogliere questo incantesimo che nell’aspetto esposto dalle femmine ricorrenti presenta l’immagine di oppressione e di giustizia negata. Ma considerato lo spazio di un triennio quasi consumato in silenzio da ambe le parti, dopo

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Di lì a qualche anno la Repubblica sarebbe caduta. Il nuovo ordine politico avrebbe imposto, con nuove leggi, la tanto sospirata certezza del diritto. In realtà le cose non sarebbero mutate così facilmente considerando l’estrema vischiosità ed attaccamento alla tradizione del contesto sociale veneto ed italiano in genere52. Di certo l’istituto del matrimonio segreto perse molto di quella carica eversiva che aveva manifestato nell’ultimo periodo dell’antico regime, ma esso dimostrò di possedere una vitalità assai maggiore di quell’a-ristocrazia che per secoli l’aveva ampiamente e disinvoltamente utilizzato.La storia del matrimonio segreto è in gran parte legata a quella, assai com-plessa, delle relazioni di parentela e delle strategie matrimoniali. La sua vi-sibilità, come dimostra la vicenda di Euriemma Saraceno, è essenzialmente legata alla conflittualità sociale, soprattutto in ambito successorio, che ca-ratterizzò la vita della famiglia e del lignaggio. Ma i consulti stesi in parti-colare a partire dalla seconda metà del Settecento, denotano come il matri-monio segreto da istituto consuetudinario e dai tratti fortemente informali, come era sempre stato, avesse orami assunto una dimensione giuridica rile-vante, che non poté più essere ignorato dalle istituzioni secolari e religiose. E da tali consulti è possibile pure scorgere come esso costituisse una parte non secondaria del diritto veneto e dei suoi risvolti repubblicani e pragmatici.

i primi atti ed osservato nella supplica al vescovo 19 luglio 1787 il cenno di diverse liti fatal-mente incontrate dalle coeredi nella usufruttuaria, ci sembra indispensabile qualche migliore confronto e rischiarazione dei motivi di tal inazione, prima di porre in essercizio l’autorità”. Diversamente nella vicenda Odoardi il consultore non solo sottolineò la strumentalità del ricorso, ma consigliò pure “se opportuno fosse il passo, di far sapere ai ricorrenti colla voce del pubblico rappresentante che restano licenziati i lor memoriali … ammonendoli insieme di prender nell’avvenire misure più riverenti e più fondate prima di presentar somiglianti richiami”. Egli non si esimeva comunque dall’osservare come “sarà dalla maturità di Vostre Eccellente il conoscere sino a qual segno abusivo si coltiva oggidì e s’inoltra dall’accortezza forense l’industria dei ricorsi per multiplicare le controversie matrimoniali”, cfr. A.S.V., Con-sultori in iure, b. 28552 Per le resistenze avutesi in Italia all’introduzione del Codice napoleonico cfr. P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1942), Bologna 1974, pp. 85 e ss.

UNO SGUARDO RIVOLTO ALLA RELIGIOSITÀ POPOLARE:L’INCHIESTA PROMOSSA DAL SENATO VENEZIANO SULLE FESTIVITÀ RELIGIOSE (1772-1773)

La religiosità popolare: dal folklore all’antropologia giuridica

Descritto, sia dalle autorità ecclesiastiche che da quelle secolari, con tratti decisamente negativi che, di conseguenza, richiedevano urgentemente in-terventi istituzionali, volti a conferirgli una nuova fisionomia, il vasto e indi-stinto fenomeno della religiosità popolare e dei riti festivi ad essa collegati, assunse negli ultimi decenni del Settecento un’importanza di grande rilievo in tutta l’Europa cattolica1.Soverchia molteplicità delle feste sarà il concetto che, con toni e modalità tra i più diversi, ma comunque sempre diretti a coglierne perentoriamente la negatività, verrà ripetutamente ed instancabilmente esplicitato nella fitta documentazione elaborata in quei decenni dalle istituzioni della Repubblica per giungere ad una riforma che, in accordo con le autorità ecclesiastiche,

1 Come è stato notato da Peter Burke, il fenomeno è collocabile in quel movimento culturale che è stato definito Il ritiro delle classi dominanti o, per meglio dire, di quella rilevante scissione tra cultura dominante e cultura subalterna, i cui valori, ancora nel ’500, erano parzialmente condivisi. Sia da parte protestante cha da parte cattolica, seppure con intensità e ragioni non coincidenti, ci fu una forte opposizione nei confronti di molti aspetti della cultura popolare. I riformatori “si opposero soprattutto a certe forme della religione popolare, come le sacre rappresentazioni (“miracoli” e “misteri”), i sermoni popolari e, in particolare, le feste reli-giose, come i giorni dedicati ai santi o i pellegrinaggi...Nodo cruciale di tutti questi esempi si direbbe l’insistenza dei riformatori sulla separazione fra sacro e profano, separazione che si fece ora molto più netta di quanto non fosse durante il Medioevo”. Le feste erano indicate come “occasioni di peccato, più in particolare, di ubriachezza, di ingordigia e di libertinag-gio..; altro argomento d’ordine morale contro molti divertimenti popolari era l’idea che essi fossero “vanità”, non graditi a Dio, perché facevano perdere tempo e denaro”. Come ha no-tato lo studioso inglese “i riformatori cattolici della cultura popolare furono meno radicali di quelli protestanti; non si opposero al culto dei santi, bensì solo ai suoi “eccessi”, come il culto dei falsi santi, la credenza in certi aneddoti sulle vite dei santi o l’attesa di favori mondani, come cure o protezione, da parte loro; pretesero che le feste venissero parificate, ma non del tutto abolite...”, cfr. P. Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, Milano 1980 (London 1978), pp. 203-211.

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ponesse dei limiti quanto più precisi fosse possibile alle festività che costel-lavano il variegato calendario popolare e contadino2.Si trattava di interventi esterni, che nella loro tipologia descrittiva e nei loro stessi obbiettivi indicavano una percezione culta, proveniente dall’alto e che, pure, sembrano quantomeno suggerire allo storico di oggi uno stacco di ri-lievo tra quella che è possibile definire come cultura dominante e la sottostan-te cultura popolare, diffusa in particolare nel mondo rurale3.Di certo, è tale percezione, nei suoi tratti univoci, se non pretestuosi4, a suggerire come il mondo variegato della cultura popolare potesse, in un cer-to senso, essere esaminato da una prospettiva esterna, che intendeva in pri-mo luogo operare una descrizione di un fenomeno incerto ed indistinto, le cui origini sembravano risalire nei secoli più lontani5.

2 Come avremo occasione di vedere la soverchia molteplicità veniva attribuita sia alle feste di precetto (approvate cioè formalmente dalle autorità ecclesiastiche), che alle più diffuse feste di popolare devozione.3 Il problema, in un certo senso, è di estrema attualità e pone, sul piano teorico, alcuni rilevanti problemi inerenti le concezioni religiose e le loro relazioni con altre prospettive tra-mite cui il mondo è interpretato dagli uomini. Clifford Geertz, sottolineando che la prospet-tiva religiosa è un modo particolare di interpretare il mondo, osserva come essa differisca da quella del senso comune, in quanto costituisce un completamento delle realtà della vita quoti-diana ricorrendo ad altre realtà più ampie. E così differisce pure da quella scientifica in quanto mette in dubbio la stessa realtà quotidiana in funzione di verità più vaste. Nel rituale la con-cezione religiosa si rafforza e acquisisce la convinzione di essere valida. Tutto questo, eviden-temente, ha un forte impatto sociale. Geertz osserva che questo impatto dei sistemi religiosi sui sistemi sociali “rende impossibile valutazioni generiche della religione in termini morali o funzionali...Uno dei principali problemi metodologici quando si scrive scientificamente della religione è di mettere subito da parte il tono dell’ateo del villaggio e quello del predicatore del villaggio, come pure i loro equivalenti più sofisticati, così che possano emergere in una luce chiara e neutrale le implicazioni sociali e psicologiche delle particolari credenze religio-se...Naturalmente resta il problema non trascurabile se questa o quella asserzione sia vera, se questa o quella esperienza religiosa sia genuina, o se siano possibili asserzioni religiose veridiche e esperienze religiose genuine. Ma non si possono porre simili domande, nè tanto meno trovar loro una risposta, entro i limiti che la prospettiva scientifica si autoimpone”, cfr. C. Geertz, Interpretazioni di culture, Bologna 1987 (New York 1973), pp. 168-182.4 Non ci si riferisce solo agli obbiettivi apertamente esplicitati per motivare una riduzione delle feste popolari (cfr. infra, pp. 210-217), ma anche alla percezione con cui il fenomeno, come si vedrà, venne per lo più pregiudizialmente colto, classificandolo riduttivamente nella sfera delle superstizioni.5 A questo proposito Peter Burke rileva come sia proprio il divario venutosi a creare tra le due culture a spingere infine intellettuali e riformatori ad osservare la cultura popolare in un’ottica che mira alla descrizione: “il mutamento degli atteggiamenti presso gli uomini di cultura fu veramente considerevole: se nel 1500, infatti, essi disprezzavano la gente del popolo ma ne condividevano la cultura, nel 1800, invece, i loro discendenti avevano smesso di partecipare spontaneamente alla cultura popolare, ma erano sul punto di riscoprirla come alcunchè di esotico e, perciò, di interessante. Essi cominciavano, anzi, ad ammirare quello

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Il diverso clima culturale, economico e politico ormai affermatosi nella se-conda metà del Settecento aveva probabilmente contribuito a delineare la nuova prospettiva e quello stesso distacco di cui si diceva. Un distacco che, pur non nascondendo i suoi obbiettivi di intervento e di contenimento, si profilava come uno dei primi sguardi nei confronti di un mondo che, con molti pregiudizi, si sentiva diverso e che, in un certo senso, si muoveva all’in-segna di codici culturali altri.Già ci si stava interrogando su quel vasto mare delle consuetudini, la cui fisionomia, tracciata dall’oralità e da un presunto attaccamento alle tradi-zioni, si delineava come antitetica non tanto all’ordine giuridico esistente, quanto piuttosto alle tensioni politiche e culturali che si sarebbero ben pre-sto attestate sul predominio della legge e dei codici6.Di lì a qualche decennio quel mondo subalterno, in cui credenze religiose e culturali sembravano raggrumarsi in codici culturali di natura apotropaica, cominciarono ad essere descritti nell’ambito di studi ben presto qualificati come folklore o tradizioni popolari. 7

stesso “popolo”, dal quale questa cultura profondamente diversa traeva origine”, cfr. P. Burke, Cultura popolare…, p. 277.6 Louis Assier-Andrieu si è soffermato sui primi studi che affrontarono il tema delle con-suetudini. In particolare P.-J. Grosley, il quale vide in essa “un elemento di capacità d’adatta-mento alla realtà mutevole dei rapporti umani, immediatamente deducibile dall’osservazione empirica dei fatti sociali, e un elemento di essenzialità fondatrice di questi stessi rapporti, in-scritto in una regolarità indisponibile e in una permanenza negatrice di ogni storicità. La con-suetudine è dunque sia il luogo vivente del cambiamento, sia il richiamo imperioso dell’ob-bedienza alle origini o, diremmo oggi, alla struttura, atemporale e astorica per definizione”. Con le riflessioni di A.-Y. Gouget il concetto di consuetudine acquisì storicità e dinamicità, collegandosi al suo specifico contesto materiale: “se la ricerca della sua fonte primaria con-duce, come già visto, ad una rappresentazione atemporale della consuetudine, quella delle sue cause materiali invita, invece, a relativizzarne l’influenza nel contesto di una determinata società, in un dato momento della sua evoluzione, e a situarla in rapporto a una pluralità di determinanti sociali che essa a questo punto cessa d’inglobare...”, cfr. L. Assier-Andrieu, Il tempo e il diritto dell’identità collettiva. Il destino antropologico del concetto di consuetudine, in “So-ciologia del diritto”, XXVI (1999/3), pp. 20-21 e 27.7 Come ad esempio il progetto promosso dall’Accadémie Celtique tra il primo e il secon-do decennio dell’Ottocento, volto ad indagare sulla diffusione di alcune tradizioni popolari. Sull’applicazione di questo progetto per il Veneto cfr. F. Riva, Tradizioni popolari venete secondo i documenti dell’inchiesta del regno italico (1811), in “Istituto veneto di scienze, lettere ed arti”, XXXIV (1966), pp. 3-93; e U. Bernardi, Gli studi sul costume e le tradizioni popolari nell’Ottocento, in Storia della cultura veneta. Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, 6, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, Vicenza 1986, pp. 311-341. Ed inoltre P. Clemente, Dalaure il girondino. Qual-che appunto sull’inchiesta napoleonica in Italia come occasione di riflessione sulla storia, in “La ricer-ca folklorica”, 32 (1995), pp. 45-50. Clemente sottolinea come “le inchieste sono proiezioni di modelli concettuali che si traducono in domande a interlocutori diffusi, i quali peraltro, sono intellettuali, colti o responsabili di attività politiche. Le nozioni relative agli usi e costumi ‘di-versi’ della vita quotidiana di contadini o cittadini, vengono definendosi a partire da impulsi

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Si trattava di studi la cui pretesa scientifica si misurava essenzialmente negli obbiettivi espliciti che venivano formulati: la descrizione di una cultura che, se pure si sentiva come diversa, era comunque percepita alla luce dei para-metri e dei codici culturali profondamente influenzati dalla scrittura e da stilemi interpretativi astratti.L’affermazione, nel corso dell’Ottocento di studi etnografici e le prime espe-rienze di ricerca sul campo degli antropologi complicarono ovviamente la no-zione di diversità e di tradizione, anche in riferimento agli studi storici che più propriamente si rivolgevano alle società subalterne del passato.La stessa nozione di cultura popolare e i suoi rapporti di commistione o di diversità nei confronti delle culture egemoni sarebbero stati investiti dalla complessità e dalle diversificazioni interpretative con cui, soprattutto nel corso del Novecento, gli antropologi si misurarono studiando le cosiddette società primitive8.L’elaborazione di concetti interpretativi definibili vicini e lontani 9 comin-

forti di natura filosofico-letteraria, presenti nella cultura di strati intellettuali innovativi e non sempre pervenuti all’orizzonte dell’intellettualità intermedia” (pp. 46-47). Nonostante la profonda diversità dei contesti istituzionali, politici e culturali sono evidenti i nessi ideologi-ci culti che collegano questa inchiesta con quella promossa dal Senato veneziano negli anni settanta del Settecento.8 Sulla terminologia e i significati connessi alla definizione di cultura popolare cfr. A. M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palermo 1973. Come si potrà constatare da queste pagine il termine cultura (o religione) po-polare (nella sua accezione al singolare), è intesa soprattutto nella sua dimensione giuridica e consuetudinaria, caratterizzata essenzialmente dall’oralità e dalla flessibilità ed apertura delle sue proposizioni. Sottolineare la pluralità di forme di cultura popolare può apparire sin ovvio e scontato sul piano storico, se solo si considera la molteplicità dei contesti che le ca-ratterizzava. La sottolineatura del termine consuetudine, soprattutto nella fase qui esaminata, vuole però evidenziare alcuni dei tratti comuni che agivano all’interno delle culture popolari.9 I concetti di vicino e lontano, utilizzati dall’antropologia interpretativa di Clifford Geertz sono bene esplicitati da Ugo Fabietti: “Il processo conoscitivo in antropologia si articola, se-condo Geertz, attraverso due tipi di concetti, quelli “vicini” e quelli “lontani” dall’esperienza del nativo. I primi sono quelli “che chiunque...nel nostro caso un informatore può utilizzare naturalmente e senza sforzo per definire ciò che lui e i suoi colleghi vedono, sentono, pen-sano, immaginano e che comprenderebbe prontamente quando utilizzati in modo simile da altri”. I concetti “lontani dall’esperienza” sono quelli con caratteristiche contrarie: “amore” e “nirvana” sono due concetti vicini all’esperienza per noi e per l’indù, così come “cathexis dell’oggetto” e “sistema religioso” sono, per la maggior parte degli innamorati e dei credenti rispettivamente due concetti “lontani” dall’esperienza. Il conoscere antropologico, dice Ge-ertz, oscilla tra questi due poli, tra la ripresa dei concetti “vicini” e quelli “lontani” dall’espe-rienza dei nativi, in un continuo tentativo, diremmo noi, di traduzione controllata dei primi nei secondi”, cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale, Bari 1999, p. 299. Come vedremo a proposito della grande inchiesta veneziana del 1772-73, il tema della descrizione assume storicamente un grande rilievo, in quanto la cultura consuetudinaria si trasmetteva essenzialmente solo tramite l’oralità (e i rituali ad essa connessi): il ruolo e la funzione dell’interprete assumono

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ciarono ad essere utilizzati per studiare la stessa dimensione culturale e so-ciale di comunità europee del Novecento.Concetti come ad esempio faida, onore, oppure amicizia e grazia, la cui con-tiguità interpretativa con la dimensione culturale europea del Novecento, assumeva gradazioni ed intensità diverse a seconda del contesto in cui pote-vano essere calati, cominciarono ad essere ampiamente utilizzati dagli sto-rici e dagli antropologi10.Nel peculiare contesto italiano, come è stato osservato, lo studio delle tra-dizioni popolari o demologia rimase sempre prevalente rispetto ai successi-vi studi etnografici11. La specificità dimostrata dalla cultura antropologica italiana rispetto agli altri paesi europei dipese, molto probabilmente, dal ritardo con cui si giunse all’unificazione politica nazionale12.Se la permanenza sul piano culturale di piccole patrie a dimensione comuni-taria, cittadina o regionale favorì la tradizione demologica su quella etno-logica, quest’ultima fu comunque profondamente influenzata, soprattutto a partire dalla fine dell’Ottocento, dagli studi storico-giuridici, tradizional-mente orientati verso lo studio del mondo classico13.La storia del diritto, sensibile per tradizione14, nei confronti di quel mondo consuetudinario, che raccoglieva quanto di informale o di collegato all’ora-

così un’importanza di grande rilievo. La lettura condotta da quest’ultimo presuppone in primo luogo da parte dello storico la consapevolezza della complessità dell’operazione di decodifi-cazione, implicita in ogni documento scritto, tanto più se di carattere istituzionale.10 Un esempio significativo è costituito dal testo di J. Pitt-Rivers, The people of the Sierra, London 1954. Nella second edition (Chicago 1971), Pitt-Rivers affrontò alcuni dei problemi in-terpretativi connessi all’indagine da lui svolta sulla comunità andalusa presa in esame. A suo giudizio, l’antropologo “must therefore recognise as a preliminary step to the investigation of another culture that the ideology of his own society is no less an ideology than that which he is studying. It is part of his culture. For anthropology gives western civilazation no special dispensation. Its premises must be drawn from the comparison of the whole corpus of other cultures...The ethnographer who does not lay aside his own culture risks the discovery that he has used the people he was studying only as a mirror to return him his own image and prove to himself the correctness of his prejudice...”, cfr. Ibidem, p. xxii.11 Un esempio significativo di questo approccio demologico è P. Toschi, Guida allo studio delle tradizioni popolari, Torino 1962.12 Cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale…, pp. 126-127, il quale ricorda pure l’opinione di Ernesto De Martino, secondo cui la tradizione demologica prevalse su quella etnologica come “conseguenza della troppo breve durata della dominazione coloniale italiana”.13 Cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale…, pp. 129-130.14 Un ottimo esempio delle interconnessioni tra diritto e antropologia fu ad esempio il testo di N. Tamassia, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e decimosesto, Milano-Palermo-Napoli 1910. Ricco di suggestioni, aperte alla ricerca è il testo di P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1942), Bologna 1974, in particolare i primi due capitoli, in cui il tema della consuetudine ha un posto di rilievo.

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lità, poteva emergere dalla società, si prestava a ragione a fornire alla na-scente etnologia italiana quegli strumenti interpretativi necessari per uscire dall’impasse demologica15.Se, come è stato giustamente osservato, la prospettiva storico-giuridica pre-supponeva nella sua stessa impostazione una visione giuspubblicistica che privilegiava il punto di vista del legislatore16, lo sguardo rivolto dagli storici del diritto al mondo consuetudinario finì comunque per far emergere alcune delle dinamiche antropologiche e politiche17 che la tradizione demologica metteva in sordina di fronte all’esigenza di una descrizione unidirezionale (dall’alto verso il basso) e assai raramente sensibile nei confronti delle dina-miche interne che agivano nell’ambito del fenomeno descritto18.

15 Un’impasse che in questi ultimi anni ha investito gli stessi studi demologici. Il rapporto controverso tra discipline demologiche e antropologia culturale è affrontato da P. Clemente, Il punto sul folklore, in Oltre il folklore, a cura di P. Clemente e F. Mugnaini, Roma 2001. Clemente osserva come la parola folklore sia stata introdotta negli studi agli inizi dell’Ottocento: “il folklore è nato dunque per il bisogno affermatosi con il romanticismo di utilizzare la risorsa culturale delle ‘radici dei popoli’ e conserva questa potenzialità di luogo d’appello delle civil-tà”, p. 192. L’indagine condotta dal folklorista o dallo studioso di tradizioni popolari è conside-rata come attività di entomologo, incline a classificare e ad essere investita dal dramma della scomparsa quasi inevitabile delle tradizioni popolari. Clemente osserva ancora che “in realtà, negli studi sul folklore è mancata una precisa teoria del cambiamento sociale e culturale e si è fatto ricorso a modelli molto semplici che hanno indotto a opporre il nuovo e il vecchio in modo astorico: il nuovo e il vecchio ci sono a ogni generazione”, cfr. Ibidem, p. 194. Si potrebbe aggiungere, in realtà, che il concetto di tradizione può essere considerato una variante del mondo consuetudinario e le consuetudini, come avremo occasione di rilevare proprio a pro-posito della grande inchiesta veneziana del 1772-73, costituivano un sistema giuridico aperto, le cui proposizioni erano intimamente fuse con i fatti sociali.16 Fabietti osserva che la prospettiva storico-giuridica “dipendeva da una impostazione “razionalistica” del problema, proiettando sull’origine stessa del processo di costituzione dell’ordine il punto di vista del legislatore”, cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale…, p. 130.17 Come esempio di questo approccio si veda N. Bobbio, La consuetudine come fatto normativo, Padova 1942 e, dello stesso, la voce Consuetudine ( teoria generale) in Enciclopedia del diritto, IX (1961), pp. 426-433. Nonostante la presenza della dicotomia legge-consuetudine, le osserva-zioni di Bobbio affrontano alcuni dei problemi storico-politici più rilevanti del diritto con-suetudinario.18 Le relazioni tra diritto e antropologia sono divenute più intense e proficue negli ultimi decenni sotto la spinta della reciproca influenza. Di particolare interesse, anche se molti dei temi affrontati devono superare lo scoglio della suggestione teorica ed interpretativa è il te-sto di A. M. Hespanha, Introduzione alla storia del diritto europeo, Bologna 2003 (Lisboa 1997). Hespanha sottolinea la visione complessa e multiforme del diritto medievale e moderno: “Il diritto poteva incorporare anche contenuti antropologici molto profondi nell’organizzare e controllare le relazioni sociali...In un certo senso i giuristi rendevano esplicito ciò che la vita quotidiana manteneva implicito, benchè operante. Così come gli analisti, che rivelano in ragionamenti e spiegazioni l’inconscio individuale, essi esplicitavano in teorie l’inconscio sociale. Lo restituivano poi alla società sotto forma di un’ideologia articolata che si conver-tiva in norma di azione, rafforzando ulteriormente il primitivo immaginario spontaneo...È

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Ricco di suggestioni, il tema della religiosità popolare ha così non solo susci-tato l’attenzione di numerose discipline (ovviamente con diverse prospet-tive e interpretazioni), ma è stato anche variamente etichettato a seconda dello sguardo di chi lo percepiva. Devozione popolare, consuetudini rurali, riti folklorici, culto dei santi, non sono che alcune delle tante formule che hanno cercato di definire un fenomeno assai complesso e variegato.Un fenomeno la cui identità sembrava comunque essere tracciata, per la pri-ma volta, dalla percezione di una cultura che veniva a descriverlo avvalen-dosi di concetti culturali lontani. Quanto questi concetti si siano realmente avvicinati alla realtà riportata dalle fonti storiche (descritte da numerosi interpreti) fa parte ovviamente dello sforzo, altrettanto complesso ed irri-solto, condotto dagli storici per avvicinarsi alla comprensione della cultura popolare19.

per questo che la storia del diritto non può essere ignorata se si ha di mira la comprensione, globale o settoriale che sia, dell’antica società europea”. E per quanto riguarda i temi qui affrontati: “La lettura pluralista del potere e della disciplina nella società di antico regime va oltre il diritto com’è concepito oggi. Il diritto costituiva (e costituisce) un ordine minimo di disciplina intrecciato con altri più efficaci e più quotidiani. Ne è un esempio quello che nella letteratura del diritto comune si chiamava diritto dei rustici (iura rusticorum), ossia quelle pratiche cui il diritto comune non concedeva neppure la dignità di consuetudini, ma che costituivano la norma di comportamento e il parametro di soluzione dei conflitti nelle co-munità contadine”, cfr. A. M. Hespanha, Introduzione…, pp. 29 e 45. Per un altro verso sono di estrema importanza i lavori di Norbert Rouland, improntati da una visione pluralistica del diritto e della società. In particolare Antropologia giuridica, Milano 1992 (Paris 1988), in cui la visione pluralistica del diritto è tratta dagli studi condotti prevalentemente sulla società africana. Più vicine alla realtà europea e ai suoi problemi giuridici-antropologici esaminati in una lunga prospettiva storica sono altri suoi studi: Aux confins du droit, Paris 1991 e L’état français et le pluralisme. Histoire des institutions publiques de 476 à 1792, Paris 1995. Rouland rileva come l’etnologia giuridica si sia sviluppata in Europa a partire dagli anni ’60 del Novecento, in concomitanza al processo di decolonizzazione, che provoca un riflusso degli etnologi verso il campo europeo. A diversità degli “esperti di folklore, essi hanno il vantaggio di disporre del campo di riferimento delle società esotiche, e questo rende possibile, se non effettivo, un approccio comparatistico. L’allargamento dei metodi e degli oggetti, relativamente recente, segna la vera nascita dell’etnologia dell’Europa, mentre non possono pretendere di essere giunti a tanto gli esperti di folklore, cui tuttavia va il merito di un inestimabile lavoro di rac-colta dei materiali”. Rouland aggiunge che, nonostante le ovvie diversità dei contesti, alcune logiche possono coesistere e “la simultanea presenza di modelli ideali diversi nelle società reali è uno dei punti su cui insistono maggiormente le teorie comparatistiche attuali”, cfr. N. Rouland, Antropologia giuridica…, p. 379.19 L’operazione di decodificazione condotta dallo storico non è, soprattutto in questo caso, molto diversa di quella condotta dall’antropologo. A proposito dell’antropologia, Fabietti os-serva: “Superamento dell’oralità e della natura inconscia dei fenomeni sono processi che si realizzano entrambi grazie all’intenzionalità dell’antropologo. In quanto tali essi portano ine-vitabilmente con sè il riflesso di ciò che può essere definito una forma di ‘precomprensione’. Quest’ultima è costituita dalle categorie epistemologico-interpretative mediante cui l’etno-antropologo seleziona la sua esperienza, cioè si avvicina al proprio oggetto per poi ridistac-

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Venezia e la diminuzione delle feste religiose

Nel settembre del 1772 il Senato veneziano diede il via alla grande inchiesta sulle feste popolari diffuse sia a Venezia che nello stato di Terraferma20.Il provvedimento in realtà era stato preparato da una precedente delibera-zione del 2 gennaio 1769 tramite cui si erano incaricati due patrizi di provata esperienza come Sebastiano Foscarini e Francesco Pesaro di redigere una relazione sulla materia. Analogo incarico era stato inoltre affidato ai consul-tori in iure21.L’incipit della legge riassumeva molto bene lo spirito con cui il supremo or-gano veneziano si era accinto ad affrontare una materia che sembrava im-procrastinabile. Un incipit esteso ed argomentato e che, come per molti altri analoghi provvedimenti assunti all’epoca, tradiva una certa ritrosia ad en-trare in una materia così delicata:

Una lunga esperienza fermamente comprovata, or da scritture di magistrati or dal sentimento di riputati cittadini or dai richiesti pareri de’ canonisti, pur troppo ha dato a conoscere alla maturità del Senato che tanto più agevolmente

carsene attraverso il movimento della scrittura”, cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale…, pp. 116-117. Il fatto che lo storico si avvalga per lo più di documentazione scritta (che di per sè comporta ovviamente un primo livello di astrazione) rende l’interpretazione solo apparen-temente più complessa, se si ritiene che “in ogni descrizione ciò che viene ‘descritto’ non è tanto una ‘realtà’ che ci sta di fronte, ma delle cose che in qualche maniera sono incastonate in rappresentazioni già nel momento in cui le percepiamo, tanto sul piano dei sensi che sul piano della riflessione”, cfr. Ibidem.20 La parte del 17 settembre 1772, con allegati i pareri e i consulti che erano stati redatti per la sua deliberazione, sono in Archivio di Stato di Venezia (=A.S.V.), Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 105. Sulla riforma delle festività si soffermò, ricordando la principale legislazione assunta B. Cecchetti, La Repubblica di Venezia e la Corte di Roma, Venezia 1874, vol. I, pp. 101-109; Cfr. inoltre M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956, p. 225; e F. Venturi, Settecento riformatore, vol. V: L’Italia dei lumi, tomo II, La Re-pubblica di Venezia (1761-1797), Torino 1990, pp. 108 e sgg., in cui il tema è affrontato nell’ambito del più vasto interesse rivolto da istituzioni e intellettuali nei confronti del mondo rurale.21 I due patrizi avevano presentato la loro relazione il 29 gennaio successivo, mentre i tre consultori Triffon Vrachien, Natale Dalle Laste e Giovan Battista Billesimo la inoltrarono al Senato rispettivamente il 16 marzo 1769 e il 29 gennaio 1769. Inoltre il Foscarini e il Pesaro, considerando che la precedente scrittura era rimasta “sepolta nel più profondo silenzio”, ri-presentarono una successiva relazione il 15 febbraio 1771. Come vedremo, i tempi lunghi che caratterizzano sin dall’inizio l’intervento del Senato si dilateranno, a più riprese, nei decenni seguenti. I due patrizi accennarono inoltre nella loro scrittura come un primo intervento del Senato deliberato nel 1754, di seguito ai tentativi di riforma intrapresi nella Lombardia asburgica, era abortito sul nascere: “una certa lentezza prodotta dalla diversità delle opinioni, le angustie e le circostanze dei tempi e una certa fatalità alla quale molte volte soggiaciono li migliori regolamenti, privarono di questo vantaggio la nazione”, cfr. A.S.V., Senato, Deliberazio-ni, Roma Expulsis papalistis, filza 105.

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s’indusser le genti a profanare l’esterior ordine della nostra cattolica religione, quanto più si viddero di tempo in tempo accresciute in largo numero le annuali festività proibitive dell’opere servili. Cosicché quel riposo che per istituto di pie-tà nei dì festivi è prescritto, resosi ormai troppo comune tra il volgo, con grave senso de’ buoni e con sommo danno della nazione, sembra soltanto riservato a fomentare nell’ozio il mal costume e la colpa, nel tempo medesimo che sospende ne’ popoli l’esercizio di quelle azioni che tanto più si rendono grate a Dio, quanto più riescono utili alla società.

Le troppo numerose festività avevano dunque diminuito l’operosità della popolazione, accresciuto il suo ozio e, conseguentemente, incentivato discu-tibili pratiche di malcostume.E così, continuava la legge:

...dalla soverchia moltiplicità delle feste, oltre al danno spirituale delle profana-zioni, derivano tali distrazioni perniciose all’agricoltura, alle arti ed al commer-cio, che non lieve minorazione ne rissente la nazionale ricchezza. Anzi maggior-mente lo stato nostro ne rileva lo svantaggio, dacché le utili sollecitudini e gli editti di religiosissimi sovrani, che a questi tempi han diminuite le feste, porsero il mezzo all’estere e principalmente alle finitime popolazioni d’impiegarsi con più frequenza de’ sudditi nostri nella coltura così dell’arti come dei terreni, in guisa che e gli agricoltori e gli artefici son posti in grado di somministrare i pro-dotti e manifatture in maggior copia e a minor prezzo e di supplire più agevol-mente de’ nostri, con più giorni di guadagno al mantenimento di loro famiglie in meno giorni festivi.

Le numerose festività avevano dunque provocato conseguenze negative non solo sul piano spirituale, ma soprattutto in quello economico, in quanto lo stato veneto, di seguito ai provvedimenti intrapresi dalle potenze circonvi-cine, non avrebbe saputo reggere alla concorrenza sia nelle attività agricole che in quelle commerciali.Il Senato veneziano percepiva dunque il fenomeno delle festività religiose (e la sua dilatazione) in un’ottica decisamente negativa, attribuendogli effetti che risultavano nefasti soprattutto sul piano economico.Non si trattava di certo di una posizione isolata, in quanto analoghi provve-dimenti stavano per essere assunti in numerosi stati italiani ed europei22.In realtà, nell’insieme, come già si diceva, la natura di tali provvedimenti e la retorica da essi utilizzata nel descrivere alcuni significativi aspetti del sotto-

22 Oltre che nelle scritture dei singoli consultori interpellati dal Senato (copie delle quali sono generalmente inserite come allegati nei decreti deliberati dalla stessa magistratura), molte altre informazioni sulle modalità e sui tipi di intervento adottati negli altri stati si tro-vano in A.S.V., Consultori in iure, busta 514, con una miscellanea di documenti inerenti i decreti che il Senato assunse nella seconda metà del Settecento.

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stante fenomeno della religiosità popolare, suggeriscono come nell’ambito di quella che possiamo definire cultura dominante si fossero affermati codici culturali che indicavano ormai un distacco notevole rispetto a forme di cul-tura che contrassegnavano i ceti subordinati.E del resto, sia i due patrizi nella loro relazione, che i consultori nei pareri loro richiesti non avevano certo indugiato a calcare la mano nei confronti di quello che ritenevano ormai un fenomeno che bisognava contenere e cor-reggere.Il Foscarini e il Pesaro ripercorsero le tappe storiche degli interventi appron-tati dalle autorità ecclesiastiche nei confronti di una disciplina la quale era sempre apparsa “varia, incerta e quasi arbitraria”23. Il grande grande nu-mero delle festività religiose, osservavano essi, era talmente accresciuto a dismisura nei quattro secoli precedenti, che nel 1642 il pontefice Urbano VIII, aveva proceduto ad un’operazione di diminuzione e di uniformazione. Ma, negli anni seguenti le festività si erano nuovamente dilatate, un po’ per l’iniziativa arbitraria dei devoti, un po’ per le concessioni rilasciate dagli stessi vescovi. E così papa Benedetto XIV aveva prospettato la necessità di affrontare nuovamente la spinosa questione.I due patrizi, consigliando al Senato di affidarsi alle autorità religiose per condurre a buon termine l’operazione che si intendeva intraprendere, non nascondevano il loro pessimismo:

Il popolo, che profittar deve dell’indulto, rozzo di sua natura e materiale, pre-dominato dalla forza della consuetudine e allettato dalle lusinghe dell’ozio e dei piaceri, si va formando alcuni interni ostacoli e nutrendo certe occulte ri-pugnanze, a distrugger le quali non è valevole l’esterna forza coattiva, ma può solo superarle un’efficace interna persuasione, destramente introdotta nel di lui animo. Di qualunque minima novità si tratti in materia di religione, la forza usa-ta dal Principe secolare gli diviene sospetta ed il sospetto lo aliena ed alienato che sia una volta, è quasi impossibile di ricondurlo alla bramata tranquillità e sicurezza.24

23 I due patrizi, consapevoli delle difficoltà che il progetto avrebbe incontrato nella sua attuazione presso gli stessi vescovi “non tanto circa la massima, quanto intorno ai modi”, consigliando il Senato di rivolgersi alle due principali autorità ecclesiastiche esistenti nella Dominante e nel dominio di Terraferma, osservarono come fosse opportuno prima decidere l’abolizione delle feste di popolare devozione e poi, in un successivo momento, procedere pure alla diminuzione di quelle di precetto. Per quanto riguardava le prime, essi osservarono che “sono state introdotte o dal capriccio degli uomini o dalla loro mal diretta divozione o dall’av-version alla fatica o da una vana epoca di qualche particolare felicità o sciagura o finalmente da alcuni rei ed indiretti fini, de’ quali si ha pur troppo qualche tristo e riprensibile esempio nel nostro secolo”, cfr. A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 105.24 Essi suggerivano di fissare i criteri in base ai quali si sarebbe proceduto alla diminuzione delle feste, ma poi di affidarsi alle autorità ecclesiastiche (“fissata la masima, intieramente si

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Non diversamente, anche i tre consultori in iure ribadirono la necessità dell’intervento del Senato, ricorrendo prudentemente all’aiuto delle auto-rità ecclesiastiche. Dei tre consulti, quello di Natale Dalle Laste, scritto il 14 settembre 1772, si prospetta come quello meglio informato ed argomenta-to25.Il Dalle Laste ricordò come, nonostante Urbano VIII nel 1642 avesse signifi-cativamente distinto le feste di precetto che “erano di stretta osservanza” da quelle di pura devozione, il culto dei santi si fosse poi intensificato con altre feste votive. Si trattava di un numero considerevole di feste, introdotte “per approvazione e stabilimento di divote consuetudini, e talora per proprio im-pulso de’ vescovi, de’ sinodi, de’ pontefici”26.

spogli dell’esecuzione”), rivolgendosi in particolare al patriarca di Venezia e all’arcivescovo di Udine perché si facessero portavoce presso i vescovi per procedere in ciascuna diocesi all’esecuzione di quanto deliberato dal Senato. I due patrizi ricordavano inoltre le possibili soluzioni al problema prospettate da Bendetto XIV (“primo è di abolire intieramente alcune feste; il secondo di trasferire nelle domeniche la commemorazione di alcuni santi; il terzo di accoppiare in un sol giorno festivo più d’una di queste commemorazioni; ed il quarto di conservare il corrente sistema di calendario, ma in alcuni di questi festivi non solenni tenen-do vivo il precetto dell’udir la messa, permettere che dopo il popolo s’impieghi ne’ consueti lavori”). Ipotesi, quest’ultima, verso cui propendeva lo stesso pontefice, ma, continuavano il Foscarini e il Pesaro, “noi temiamo assai che’egli sia il più inutile e il più pericoloso degli altri, sembrandoci che mal si combini col precetto dell’udir la messa l’attendere al lavoro e preve-dendo dover facilmente succedere che l’uno distrugga l’altro, sicché o reo si renda il popolo dalla trasgressione d’un precetto ecclesiastico o in buona parte il frutto si perda della bra-mata restrizione. Oltre di che il precetto dell’udir la messa mantien viva la rimembranza del giorno festivo, la qual rimembranza, formando nei rozzi animi il maggior ostacolo a profittar dell’indulto, convien che sia con ogni studio cancellata...”. Nella successiva relazione del 15 febbraio 1771 il Foscarini e il Pesaro riassunsero quanto nel frattempo si stava concordando tra la sovrana asburgica e il pontefice; cfr per questo e per tutte le citazioni richiamate in precedenza A.S.V., Senato, Delibearazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 105. Sul clima del periodo e i protagonisti dello scenario politico esiste una vasta bibliografia. Mi limito qui a ricordare G. Tabacco, Andrea Tron e la crisi dell’aristocrazia a Venezia, Udine 1980; M. Berengo, La società veneta…, in particolare pp. 225 e sgg.; F. Venturi, Settecento riformatore…, pp. 37-39, 95-129. A questi lavori rinvio anche per quanto riguarda il profilo politico del Foscarini e del Pesaro.25 Triffon Vrachien, consigliando il ricorso al potere ecclesiastico, menò un vero e proprio fendente alle festività religiose: “Reso inteso ciascun prelato delle supreme zelanti intenzioni ed eccitata vieppiù la di lui coscienza dal riflesso aggiuntovi, se non d’impedire omninamente almeno di raffrenar e ristringere per tal via le scandalose dissolutezze e il reo libertinaggio del basso popolo e della plebe, solita a festeggiare (volevam dire) di profanare i sacrosanti misteri e la comemorazion de’ beati tra crapule, ubbriachezze, risse, danze e lupanari, col richia-marnela dall’ozio, cioè dal fermento abituale delle più viciose e sregolate passioni al lavoro delle campagne, al travaglio delle manifatture e all’esercizio delli peculiari suoi mestieri, ci fa presagire ed insieme sperare fervido l’impegno...nel conformarsi alle di lei pietose e gravide mire...”, cfr. A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 105.26 In una scheda, inserita come allegato al decreto definitivo del sette settembre 1787 (cfr. infra, pp. 220-221), si definivano le feste di precetto quelle che “obbligano tutti i cristiani. Per

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Il piano da lui predisposto avrebbe dovuto trasferire, per quanto possibile, quasi tutte le feste di precetto alle domeniche dell’anno.Le osservazioni alquanto pacate del consultore miravano dunque a contem-perare la tradizionale vocazione cattolica nei confronti del culto dei santi27 con le esigenze prospettate come essenziali dalle autorità secolari.Ma a chiosa del suo consulto il Dalle Laste non mancava di ricordare come l’ampio e ancora assai variegato spettro delle feste di precetto non esaurisse il grande affresco della religiosità popolare:

Il far qui parola delle feste di semplice popolar divozione non appartiene al piano divisato: ma perché queste potrebbero impedirne in parte gli importantissimi oggetti, oltre il dovere de’ parrochi di purgarle dal culto materiale e superstizio-so, sarà cura della pubblica sapienza il moderarne in maniera le pratiche che con le feste di precetto non si confondano28.

Comunque le osservazioni del Dalle Laste venivano tenute nelle dovute con-siderazioni ed inviate all’ambasciatore presso il pontefice per richiedere l’appoggio ecclesiastico alla progettata riforma.Inoltre, lo stesso 17 settembre 1772, il Senato incaricò alcune magistratu-re della città lagunare e i rettori dello stato di Terraferma di avviare quella grande inchiesta che, in meno di un anno, avrebbe raccolto una mole consi-

diminuirle occorre l’autorità pontificia e secolare”. Diversamente le feste popolari “obligano soltanto coloro che hanno fatto il voto o instituita la divozione particolare. Per diminuirle basta l’autorità vescovile sostenuta dalla secolare”, cfr., A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma or-dinaria, filza 255. Divergenti da questa definizione di precetto, come vedremo, furono alquante descrizioni di parroci, interpellati sui giorni festivi esistenti nella loro giurisdizione parroc-chiale, cfr. infra, pp. 233-237.27 Il Dalle Laste osservò come il culto dei santi fosse del tutto spontaneo nella “chiesa trionfante” e che pertanto fu del tutto lodevole l’intenzione di pontefici e di vescovi di ac-crescerlo maggiormente “con obbligar universalmente anche il popolo”, cfr. A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 105.28 Il Dalle Laste operava dunque una distinzione tra feste di precetto e feste di pura devo-zione in base all’approvazione rilasciata dalle autorità ecclesiastiche (sinodi diocesani e bolle pontificie che si erano aggiunte, in maniera però non sempre uniforme all’elenco stabilito nel 1642 da Urbano VIII), cfr. A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma, Expulsis papalistis, filza 105. Come vedremo, l’inchiesta ordinata dal Senato veneziano avrebbe appurato come questa distinzio-ne non fosse sempre così facilmente identificabile nella vasta e variegata costellazione delle festività religiose. Va comunque rilevato come, a diversità del Foscarini e del Pesaro, Nata-le Dalle Laste non cogliesse le difficoltà implicite nella dimensione politica della questione inerente le feste di precetto. I due patrizi, come si è visto, avevano infatti consigliato di pro-cedere innanzitutto all’abolizione delle semplici feste di devozione, per affrontare poi, in un successivo momento, la riduzione di quelle di precetto. Furono forse le ambiguità insite nello stesso decreto del 1772 e le esitazioni successive a muovere le critiche, neppure troppo velate, di Piero Franceschi nei confronti di questa fase inziale della riforma (cfr. infra, pp. 218-219).

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derevole di informazioni provenienti da tutte le parrocchie della città domi-nante e dello stato di Terraferma29.Dovevano però trascorrere ancora alcuni anni perché il Senato, esaminati i dati raccolti e sulla scorta dei pareri dei consultori, giungesse ad una nuova deliberazione30.Il 26 agosto 1775 il supremo organo veneziano stabilì che nella città domi-nante e nei territori e città dello stato di terraferma fossero vietate tutte le feste infrasettimanali che non fossero state decretate festive per ecclesia-stico precetto, ad eccezione del giorno, stabilito da ciascuna diocesi come proprio santo protettore. Le festività non stabilite per precetto ecclesiastico

29 Cfr. infra, pp. 222-224.30 Come avrebbe ricordato, molti anni dopo, il grande consultore Piero Franceschi, i ri-tardi, in questa come nelle fasi successive, non furono casuali: ”quantunque da molti anni, cioè nel 1742, fosse emanato il breve del sommo pontefice Benedetto XIV, che offrì le prime aperture per la diminuzione delle feste, nondimeno la massima nel Serenissimo dominio non fu adottata se non dopo trenta anni col decreto 17 settembre 1772. Le difficoltà affacciatesi in Roma sul piano allora proposto per quelle di ecclesiastico precetto e gli studiati, ovvero accidentali, ritardi delle informazioni spedite dalla Terraferma per le altre che si chiamano popolari, votive e di divozione, portarono il delicato argomento ad una seconda dilazione di tre anni, come si rileva dal decreto 26 agosto 1775”, cfr. A.S.V., Consultori in iure, busta 285, con-sulto del 27 ottobre. È probabile però che il trascinamento che si nota in tutto lo svolgimento della vicenda si possa pure attribuire (si pensi, ad esempio, alle lunghe cadenze tra i decreti del Senato e la presentazione di relazioni richieste, via via, a patrizi che, per la loro esperienza avrebbero dovuto informare su quanto si stava per deliberare) alla convinzione, diffusa quan-tomeno in alcuni settori del patriziato veneziano, dei rischi che si sarebbero inevitabilmente corsi affrontando una materia così delicata. Anche Franceschi, come molti altri suoi contem-poranei, descrisse il tema delle festività popolari in un’ottica che, pregiudizialmente, dall’e-sterno ne percepiva gli effetti negativi sul piano religioso ed economico: “Si porti la vista sulla condotta dei popoli nelle festività che vietano le opere servili e si troverà che il riposo concesso per adorare con minor distrazione i principali misteri della religione e Dio Signore nei suoi santi, si risolve comunemente in un ozio fomentatore del malcostume ed in molte abitudini feraci di colpe e misfatti, i quali succedono più frequenti nei giorni festivi che negli operanti. Quindi avviene che la divozione de’ fedeli in luogo d’infervorarsi secondo lo spirito della Chiesa, per lo più si converte in pratiche di gozzoviglia, e il culto divino, in luogo di ri-cevere aumento, si ravvisa nella copia eccedente delle feste o neglette dai cristiani più freddi, o profanato dai più viziosi. A questi sommi danni spirituali ed a quelli di una funesta indo-lenza e quasi generale poltroneria, stanno congiunti eziandio i temporali e civili per la fatal sospensione delle azioni necessarie al commercio, alle arti e all’agricoltura...; sono immensi li discapiti che provengono alla ricchezza e alla prosperità nazionale, la qual è sempre forma-ta dalle particolari fortune, possibilmente multiplicate; nè sarebbe esaggerazione il dire che calcolate le domeniche, le feste di obligo, quelle di divozione e la diminuzione dei lavori nei giorni alle medesime susseguenti, senza computare la frequenza de’ mercati, una rilevante parte dell’anno si rimarca perduta dalle opere utili delle città e delle campagne, all’esercizio della giustizia, a molti rami del governo politico e sino alla educazione della gioventù...”, cfr. A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 139, consulto del primo marzo 1787, firmato insieme a Natale Dalle Laste.

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avrebbero dovuto essere trasferite ai giorni di domenica. Si esortavano tutti i vescovi ad adottare i provvedimenti più opportuni perché la riforma fosse compresa ed accolta31.Nel consulto steso il 14 luglio 1777, Natale Dalle Laste, ricordando come i ve-scovi avessero inoltrato le pastorali inerenti le feste “di popolar divozione”, osservò come

...i due punti del decreto, tanto il principale sopra le feste arbitrarie e abusive, quanto l’accessorio sopra la religiosa osservanza di quelle di ecclesiastico precet-to, si trovano in tutte eseguiti, eccetto quella del prelato di Crema, che si restrin-ge ad una breve esortazione sopra le feste comandate dalla Chiesa e si dispensa dal far parola delle altre, delle quali dice non esservi abuso nella sua diocesi...

Per il resto tutti i prelati avevano pienamente adempiuto al decreto del Se-nato, raccomandando l’osservanza dei giorni festivi stabiliti dalla Chiesa e condannando “con dottrina e con zelo, chi diffusamente, chi succintamente, l’abuso delle arbitrarie feste del popolo”.Se alcuni dei vescovi annunciavano l’imminente decreto pubblico, altri già avevano provveduto, di propria autorità, ad abolire le feste di semplice de-vozione popolare.Il Dalle Laste notava come gli interventi non fossero comunque uniformi, poichè qualche vescovo si era limitato ad affermare che nella propria diocesi non sarebbero state ammesse che le sole feste di precetto. Ma se il decreto di

31 A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 112. Si incaricavano inoltre il sa-vio di Terraferma Zuan Battista da Riva e il consultore Dalle Laste di esaminare le pastorali emanate dai vescovi in ordine al decreto veneziano. Come vedremo subito, il Dalle Laste, a distanza di due anni, commentò le diverse modalità d’intervento attuate nelle numerose dio-cesi della Terraferma. Di scarso interesse, la relazione del Da Riva, presentata pure due anni dopo, vale la pena di essere ricordata per i toni accesi tramite cui riassumeva quanto era stato deliberato dal Senato nel 1775: “...che fossero per sempre tolte quelle occasioni nelle quali, sotto l’ombra di pietà, nascevano vari inconvenienti e conducevansi gli uomini ad invertire le loro occupazioni nei maggiori stravizzi e dissolutezze. Queste occasioni nascevano dall’es-servi quantità di giornate abusivamente consacrate ad arbitraria festività, prodotte dall’ac-cordo di alcune fraglie, scuole, comunità, nelle città e nelle campagne, solennizzate queste dall’attenta cura de’ sacerdoti e dalla debolezza delle persone del volgo. In tali giornate, nelle quali ogni occupazione era tolta, dominava un ozio malefico, per cui riscaldavansi tutte quelle passioni pur troppo sentite dall’uomo e dalle quali una religione retta, una educazione atten-ta, una occupazione continua ad un qualche offizio o mestiere sogliono sempre allontanare. Quindi nasceva che li lavori erano diminuiti, le arti non progredivano nel loro avanzamento, il commercio da queste dipendente tendeva alla sua decadenza, il suddito nell’inerzia non si arricchiva e, quel che è peggio, la pietà vera e la religione, base fondamentale degli imperi e delle repubbliche, ne soffriva, perché col pretesto di onorare Iddio e li santi, e col sacrifizio forse di pochi momenti in cui si assisteva alla santa messa, tutto il rimanente della giornata si passava, non nell’occupazione, ma nell’ozio e nell’ubbriacchezza”, cfr. per le relazioni del da Riva e di Dalle Laste A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 118.

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Urbano VIII aveva chiarimento stabilito l’elenco di queste, successivamente, come già egli aveva osservato nei consulti precedenti, alcuni sinodi e decreti vescovili avevano introdotto altre festività.La disciplina non era dunque uniforme e il consultore consigliava al Senato di abolire dai calendari diocesani tutte le feste di precetto introdotte dopo la bolla del 164232.Il 5 settembre 1778, esaminate le relazioni del da Riva e di Dalle Laste, il Senato ordinò a tutti i rappresentanti della Terraferma, dell’Istria e del Do-gado, di rivolgersi ai vescovi della propria diocesi per lodarne l’operato e per incoraggiarli a promulgare, nel corso di una messa solenne, quanto era stato da loro stabilito di seguito al precedente decreto del 1775.Il supremo organo veneziano riteneva inoltre di giovamento

...che la pubblicazione sia accompagnata da saggio, divoto discorso al popolo, che lo renda instrutto dei beni spirituali e temporali contemplati dal salutare decreto; e che insieme lo esorti ai doveri dell’ubbidienza, sicchè resti abbolito del tutto qualunque segno degli abusi introdotti, dichiarandosi per altro che, trasferendosi le anniversarie popolari divozioni nelle feste di precetto, non si vuol fatta alcuna novità o alterazione nel calendario o nel rito ecclesiatico di giorni festivi...

La così a lungo progettata riforma sembrava dunque essere giunta a conclu-sione. In realtà la non uniforme accoglienza del decreto da parte di tutte le diocesi di Terraferma e alcune difficoltà insorte pure nella sua applicazione nella stessa città dominante, costrinsero il Senato ad intervenire con un suc-cessivo decreto il 24 novembre 177933.

32 Il consulto sta in A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 118, allegato al decreto del Senato del 5 settembre 1778.33 A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 121. A promuovere il decreto era stata la relazione presentata dal savio di terraferma Francesco Battaglia, cui il 26 agosto pre-cedente era stato ordinato di accertare come procedesse la riforma approvata con la parte del 26 agosto 1775. Il Battaglia aveva osservato come la sua esecuzione fosse ancora languida, in particolare per l’equivoco insorto tra alcune magistrature della Dominante. Perciò il Senato ordinò che l’esecuzione del decreto fosse commissionata sia ai Giustizieri vecchi che ai Prov-veditori sopra la giustizia vecchia, rispettivamente per le arti di loro competenza. Che non si trattasse di un semplice disguido istituzionale, ma di un’inerzia e di una ritrosia di fondo a risolvere il problema, anche da parte di una frangia del mondo ecclesiastico, è attestato dallo stesso Piero Franceschi, il quale, oltre a menzionare il decreto del 1779, concernente la Dominante, ricorderà, alcuni anni dopo, quanto pure avvenne in Terraferma di seguito al provvedimento del 1778. Con il decreto del 26 agosto 1775, osservò il consultore, “peraltro si stabilirono li mezzi soltanto d’impedire le arbitrarie solennità e di trasferirle alla dome-nica; al quale oggetto venne richiesta la cooperazione dei vescovi, proponendo loro anche l’esemplare di una dotta e molto efficace pastorale di monsignor arcivescovo di Udine Giovan Girolamo Gradenigo, d’illustre ricordanza. Malgrado però la scorta luminosa di tal esempio e

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Gli sforzi compiuti dal Senato veneziano, dal 1772 al 1779, avevano raggiunto l’obbiettivo, apparentemente più facile, dell’abolizione delle feste di sempli-ce devozione popolare. Si era prudentemente preferito non assumere alcuna deliberazione nei confronti di una possibile riduzione delle feste di precetto, che pure era sembrato il fine principale del decreto del 177234.Un eccesso di prudenza che, di lì ad alcuni anni, il consultore Piero France-schi non avrebbe mancato di additare come la causa prima della così sofferta attuazione della tanto auspicata riforma35.

le sollecitudini fatte dal governo, s’interposero tuttavia altri tre anni prima che si verificasse la raccolta delle pastorali estese dai prelati della Terraferma e dell’Istria. Nè la raccolta stessa, in quell’intervallo, restò compiuta o le pubbliche mire vennero del tutto soddisfatte, poichè fu necessario di far riformare la pastorale di Crema e di attendere la produzione di quelle di Ceneda, Feltre e Pola, come ci avvisa lo stesso decreto. Inoltre anche nell’anno susseguente, e nella medesima Dominante, sono occorsi più efficaci stimoli della podestà secolare per far valere col braccio de’ magistrati la disciplina comandata, del che ci ammaestra l’altro decreto 24 novembre 1779”, cfr. A.S.V., Consultori in iure, busta 285, consulto del 27 ottobre 1790.34 Trasferendo, come si è visto, quelle infrasettimanali alle domeniche immediatamente successive.35 Convien seguire il pensiero di Franceschi, esplicitato il 12 gennaio 1787, nella successiva fase di elaborazione della riforma, in cui il Senato si decise ad affrontare pure la questione della riduzione delle feste di precetto. Il grande consultore non ebbe reticenze nell’adde-bitare alle molte titubanze del ceto di governo il grosso ritardo nella risoluzione di questo ultimo importante aspetto della riforma. Titubanze che egli riteneva tanto più reprensibili se si considera che la Repubblica aveva denotato in altre materie una spiccata vocazione giuri-dizionalistica, costituendosi come esempio nei confronti degli altri stati italiani ed europei: “...l’eccelentissimo Senato stabilì fermamente col decreto 17 settembre 1772 la massima di minorare anche nel veneto stato le feste di precetto, scegliendo a tal fine quel piano che più gli parve adattato alle sue circostanze e più condecente ad un effetto sicuro e completo. Quat-tro però essendo i metodi di diminuire le feste proposti ai vescovi dal sommo pontefice Bene-detto XIV nel 1742, il primo cioè di sopprimere affatto alcune feste, il secondo di traslatarle alle domeniche, il terzo di unirne diverse insieme ed il quarto di santificarle col solo udire la messa, fu dalla pubblica maturità preferito allora il secondo, che sembrava il più semplice ed opportuno, rivolgendosi per la sua verificazione alla corte di Roma. Ma una certa singolarità di combinazioni, che indusse la prudenza del governo a seguitare in questo importante affare l’esempio di quegli stessi principi ai quali Vostra Serenità lo aveva dato in tante altre materie di ecclesiastica disciplina, fece sorgere varie inattese difficoltà per parte di Clemente VII, benchè un altro papa avesse giudicato il trasporto delle feste fra settimana alle domeniche come uno dei mezzi più degni di essere posti in uso dai vescovi...Quantunque però gli obbietti fossero suscettibili di un facile scioglimento, così in linea di ragione, come in linea di fatto, nondimeno la trattazione per qualche tempo restò silenziosa; e forse alla tarda comparsa del progetto relativo al minoramento delle feste di obbligo, deve con dolore attribuirsi la causa che neppure le altre susseguenti deliberazioni di Vostra Serenità, 26 agosto 1775, le quali col pieno concorso di tutti i vescovi dello stato prescrissero la traslazione nelle domeniche delle feste popolari o votive o sian di divozione, abbiano finora conseguito il dovuto perfetto adempimento e che in ciò vadano risorgendo alla giornata gli inconvenienti aboliti con tanta solennità”, cfr. A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 139, consulto del 12 gennaio 1786 m.v., firmato insieme a Natale Dalle Laste.

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La fragilità politica dello stato veneziano aveva probabilmente consi-gliato il suo ceto dirigente di muoversi con estrema attenzione e pru-denza36 nei confronti di un fenomeno che, al di là degli aspetti così ne-gativi che si volevano additare, si sapeva toccare nel profondo la cultura e le pratiche religiose, soprattutto della popolazione rurale, che in più di un’occasione aveva dimostrato il suo attaccamento nei confronti delle proprie tradizioni37.È probabile che l’intervento iniziale, limitatamente condotto nei confronti delle cosiddette feste di popolare devozione, fosse giustificato dalla consapevo-lezza di poter più agevolmente muoversi al di fuori della sfera di competenza e di controllo esercitata dall’autorità pontificia, che si rivolgeva direttamen-te alle feste di precetto.

36 Ricordo le splendide pagine iniziali del sesto capitolo delle Confessioni di un Italiano, in cui Ippolito Nievo, lanciando acutamente lo sguardo al di fuori del microcosmo di Fratta, ricorda efficacemente lo stato di inerzia in cui si era ormai venuta a trovare la Repubblica negli ultimi decenni del Settecento. Accennando al discorso improntato alla prudenza pronunciato nel 1780 dal doge Paolo Renier in occasione del tentativo di riforma propugnato da Carlo Conta-rini e Giorgio Pisani, il grande scrittore osservò: “Il Doge, parlando a questo modo mostrava a mio credere più cinismo che coraggio; massime che per solo riparo a tanta rovina non sapea proporre altro che l’inerzia, e il silenzio. Gli era un dire: ”Se smoviamo un sasso, la casa crolla! non fiatate non tossite per paura che ci caschi adosso”, cfr. I. Nievo, Opere, a cura di S. Roma-gnoli, Milano-Napoli 1952, p. 216.37 Nel corso del ’600 alcune comunità rurali vicentine richiesero alla Santa Sede di essere liberate da una presunta scomunica o interdetto che a loro giudizio era la causa delle molte ca-lamità naturali che le avevano colpite. Un evidente richiamo all’Interdetto del 1606-07, ripreso a distanza di molti decenni, cfr. per questi episodi C. Povolo, Gaetano Cozzi, ieri e oggi, in “Annali di storia moderna e contemporanea”, 8 (2002), p. 509; Idem, Un rapporto difficile e controverso: Paolo Sarpi e il diritto veneto, in Ripensando Paolo Sarpi, a cura di C. Pin, Venezia 2006, pp. 395-416. Qualcosa di simile sembra riaffiorare pure dall’inchiesta del 1772-73. A Castelcovati (Brescia) si festeggia la festa della benedizione della campagna “che si celebrava alli 13 di maggio, mi è riuscito, sebben con grandi ostacoli farla trasportar alla seconda domenica di maggio. Questa era assegnata alli 13 di maggio, perché in tal giorno nello scaduto secolo furono gli abitanti di questo paese da delegato pontificio assolti dalle censure che temevano aver contratte. Non so dir il preciso tempo, perché la carta che ciò indicava, assieme con altre, fu presentata da me all’eminentissimo nostro vescovo presente, quando in principio del mio ecclesiastico governo volle con una particolar informazione aver ancora i particolari fondamenti dalli parrochi, onde è restata in sua mano con tutte le altre, che non ho più potuto ricuperare”. Sempre nel Bresciano, il curato di Offlaga ricorda qualcosa di simile a proposito delle sette feste celebrate in parrocchia: “Nè ritrovo di questa introduzione altro fondamento se non che, essendo stata questa terra da gran tempo per cinque o sei continui tempestata, ricorse assieme coi signori gentiluomini a Roma da Sua Santità per aver la sua beneditzione e così ricevette ancor la gra-zia di osservar le feste sudette...”, cfr. Il culto dei santi e le feste popolari nella Terraferma veneta. L’inchiesta del Senato veneziano, 1772-1773, a cura di S. Marin, Vicenza 2007, p. 136.

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Erano, inoltre, le stesse feste di precetto a costituire la compenetrazione, se non la simbiosi, tra cultura religiosa popolare e l’azione pastorale ecclesia-stica, efficacemente rappresentata dalle parrocchie38.Sta di fatto che anche la limitazione delle feste di precetto, soprattutto nel momento in cui pure negli altri stati si era ormai proceduto in tale direzione, venne assunta come obbiettivo dalla lenta e prudente azione di riforma del Senato veneziano.Nel dicembre 1785 e nel febbraio ed agosto 1786 il supremo organo di governo repubblicano incaricò i consultori di illustrare con le consuete informazioni lo stato delle cose inerenti la diminuzione delle feste di precetto nello stato veneziano, il quale, si osservava quasi con rammarico, “solo quasi rimane fra tutti i domini cattolici privo finora di così provida e pia regolazione”39.E così, dopo ancora qualche pausa ed incertezza, e la necessaria approvazio-ne da parte della Santa Sede40, il 7 settembre 1787 anche nella Repubblica

38 Per questi aspetti cfr. infra, pp. 237-239. E, in quest’ottica, è possibile pure intravedere da parte delle autorità veneziane anche uno sguardo d’attenzione nei confronti di un certo notabilato locale che si identificava maggiormente in quelle pratiche devozionali che avevano come riferimento la chiesa parrocchiale.39 A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 135, 4 febbraio 1785 m.v. In tale occasione si incaricava il Revisore dei brevi di esaminare i decreti pontifici tramite cui la Santa Sede aveva concesso la riduzione delle feste di precetto allo stato sabaudo e alla Lombardia austriaca. I due consultori, Giovan Battista Billesimo e Antonio Bricci, nella scrittura del 22 gennaio 1785 sottolinearono ancora una volta i nessi che, a loro giudizio, mettevano in rela-zione i giorni di festività con l’ozio ed azioni di malcostume: “basta osservare la condotta dei popoli nelle festività che portano seco il divieto delle opere servili per vedere che il riposo concesso ad oggetto di poter con minor distrazione adorare i principali misteri della nostra religione e venerar Dio ne’ suoi santi, si risolve comunemente in un ozio fomentatore del mal costume ed in pratiche generatrici di colpe e delitti che pur troppo, come ingrata conseguen-za dimostra, succedono più frequentemente nei dì festivi che nelli operosi; e se taluno, spinto dal bisogno o dall’avidità, si applica al lavoro, che in tali giorni il culto di Dio, ben lungi dal ricever alcun aumento, viene anzi a diminuirsi grandemente per mille generi di profanazio-ne”, cfr. Ibidem.40 Il primo marzo 1787 il Senato, osservando che rimanevano “però tuttavia giacenti le sue paterne premure nell’articolo che riguarda le feste di ecclesiastico precetto”, incaricava l’ambasciatore presso la Santa Sede di ottenere la diminuzione di queste, così come era stato deciso nello stato sabaudo e nella Lombardia austriaca. Il breve concesso dal pontefice avrebbe dovuto essere inviato al patriarca di Venezia e, dopo il necessario decreto di approvazione da parte della Repubblica, venire inviato a tutte le diocesi dello stato di Terraferma e dell’Istria. Il Senato intraprese tale passo sulla scorta del consulto steso da Franceschi (ma firmato an-che da Dalle Laste) il 12 gennaio precedente. I due consultori osservarono che “calcolate le domeniche, le feste d’obbligo, quelle di divozione e la diminuzione dei lavori nei giorni alle medesime susseguenti, una rilevante parte dell’anno si rimarca perduta alle opere utili della città e delle campagne, all’esercizio della giustizia, a molti rami del governo politico e sino all’educazione della gioventù”, cfr. sia per il decreto che per i consulti e altra documentazione A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma Expulsis papalistis, filza 139.

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veneta si giungeva alla tanto auspicata riduzione delle feste di precetto41.In tale data il Senato deliberò che il breve pontificio, inviato al Patriarca di Venezia, fosse accolto e, dopo l’approvazione del Collegio, registrato nei libri commemoriali della Repubblica. Il nuovo regime, che sarebbe iniziato con il primo gennaio 1788, prevedeva l’abolizione di una ventina di feste che sino ad allora erano state considerate di precetto. I riformatori allo Studio di Padova venivano incaricati di comu-nicare a tutti i librai e stampatori dello stato di non apporre in almanacchi e lunari42

minima indicazione di giorno festivo, né con caratteri rossi, né con croci, né con stellette, né con altro cenno o segno di sorte alcuna...: abolita volendosi egual-mente qualunque indicatione di tutte le altre ancora popolari o arbitrarie, che dalle pastorali dei vescovi furono già trasferite alle domeniche dino dall’anno 1778.

Era quanto i consultori avevano consigliato di fare perché il decreto potesse divenire effettivamente operante e venisse rispettato.Natale Dalle Laste e Piero Franceschi, consapevoli delle difficoltà che sareb-bero inevitabilmente insorte, non tanto nell’applicazione del decreto, quan-to piuttosto nel suo effettivo e puntuale rispetto, avevano pure aggiunto che

inoltre si rende necessario anche l’altro divieto che li parrochi e gli altri rettori di chiese, predicatori e superiori ecclesiastici di ogni grado, non abbiano più a denunciare in veruna guisa al popolo l’osservanza delle soppresse festività e far pur di mestieri che sia inibito qualunque invito e segnale di solennità, funzione o particolare celebrità in quei giorni, sia con apparati d’altari, con esposizione di sacre reliquie, con lampade e lumi accesi in copia maggiore dell’ordinario, sia con festoni alle chiese, con suoni di campane, con musiche e qualsivoglia altra pubblica dimostrazione di giorno distinto dagli altri feriali43.

41 A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma ordinaria, filza 255.42 Le feste di precetto che rimanevano vigenti erano le seguenti: “Il giorno di Pasqua col susseguente. Il giorno della pentecoste col susseguente. Il giorno del Natale del Signore. Della circonsizione. Della Epifania. Dell’ascensione. Del Corpus Domini. Della purificazione. Della annunziazione. Della assunzione. Della natività. Della concezione. Dei Santi Pietro e Paolo. Di tutti li santi. Di santo Stefano protomartire. Di san Marco. Di un solo principale patrono per cadauna diocesi in cui vi è sede vescovile”. Il Senato incaricava le due magistrature degli Esecutori contro la bestemmia e i Provveditori sopra i monasteri (per quanto riguardava la città dominante) e i rettori dello stato di Terraferma di punire tutti coloro che, al di fuori delle feste di precetto stabilite, avessero sospeso il lavoro, cfr. A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma ordinaria, filza 255.43 Cfr. A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma ordinaria, filza 255.

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Non erano cose da poco. Si trattava, in definitiva, di entrare e di interferire in profondità in quel sostrato devozionale che animava non solo la religiosi-tà popolare genericamente intesa, ma pure le pratiche religiose che costitu-ivano parte integrante della stessa vita parrocchiale.È assai improbabile che questi consigli potessero essere eseguiti o comunque del tutto rispettati. Quanto meno sino al punto da impedire definitivamente il riemergere di quel sostrato culturale che caratterizzava la pietas popolare e il suo rapporto con il soprannaturale.Di certo, con il primo gennaio 1788, il mondo consuetudinario popolare e, più in particolare, quello contadino venivano investiti, in maniera irruenta e con intenti mai registrati in precedenza, da direttive provenienti dall’ester-no, che si prefiggevano obbiettivi, la cui logica era tratta da codici culturali e politici antitetici.La cultura dominante, in quel volgere del secolo, sembrava dunque aver af-fermato i nuovi valori ideologici di cui era portatrice. Di certo, quantomeno con i progetti di riforma inerenti la riduzione delle festività religiose, essa sancì un netto e rilevante stacco culturale con il variegato mondo della cul-tura popolare.

Alla ricerca delle origini

A chiosa del decreto emanato il 17 settembre 1772, il Senato deliberò pure fosse scritto a tutti i rettori dello stato di Terraferma e, per quanto riguar-dava la città dominante, alle due magistrature competenti della Giustizia vec-chia e dei Provveditori alla giustizia vecchia, perché fossero raccolte le opportu-ne informazioni da cui si potessero rilevare

quali e quanti giorni fra l’anno, eccettuando le feste di ecclesiastico precetto, tanto in codesta città quanto in ogni altro luogo o villaggio alla vostra giuridizio-ne soggetto per ordinario, si osservino dalle genti colla sospensione dei giorna-lieri lavori, distinguendo i gradi dell’usata osservanza e specificando individual-mente l’origine o institutione di ciascheduna di tali festività44.

Prendeva così avvio quella grande inchiesta45 che, nel corso dell’anno se-

44 A.S.V., Senato, Roma, Expulsis papalistis, filza 105. Il Senato si rivolse ai rappresentanti del-le principali città dello stato di Terraferma, i quali inoltrarono il decreto alle curie vescovili delle rispettive diocesi. Da qui le direttive del supremo organo veneziano furono estese ai vicariati foranei e alle singole parrocchie. 45 L’inchiesta promossa dal Senato veneziano può costituire, in un certo senso, una varian-te etnografica interessante di quegli “strumenti elaborati per avvicinare fenomeni della vita

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guente, condusse alla raccolta di una mole considerevole di dati inerenti le festività diffuse in una parte considerevole dello stato veneziano46.Non furono certamente i risultati dell’inchiesta a spingere il Senato ad as-sumere la successiva deliberazione del 26 agosto 1775. Come già si è notato, alcune difficoltà frapposte dalla Santa Sede e la stessa connaturata rilut-tanza del ceto dirigente veneziano ad inoltrarsi in un terreno così delicato, avevano consigliato di soprassedere alla riduzione delle feste di precetto, adottando significativamente il drastico provvedimento di abolizione delle feste infrasettimanali di devozione popolare.L’inchiesta, di certo, aveva contribuito a far emergere la vasta e variegata costellazione della religiosità popolare, che denotava segni inequivocabili di vitalità anche grazie all’atteggiamento permissivo delle autorità ecclesiasti-che, quantomeno restie ad opporsi con determinazione nei confronti di pra-tiche devozionali che sembravano animare nel più profondo del suo essere la vita del mondo popolare e, soprattutto, contadino47.La prudenza delle autorità veneziane era stata dunque ben giustificata, tanto più che quei dati, affluiti dalle parrocchie dello stato di Terraferma, rivela-

sociale ignoti, poco o mal noti che divengono significativi, visibili e pregnanti in rapporto ed in risposta all’emergere di spinte conoscitive le cui motivazioni ed i cui campi di applicazione mutano nelle diverse epoche storiche in stretto rapporto con il mutare delle richieste teori-che”. Un tema che è stato affrontato nel numero 32 di “La ricerca folklorica”…., dedicato a Alle origini della ricerca sul campo. Questionari, guide e istruzioni di viaggio dal XVIII al XX secolo”. La citazione è tratta dall’Introduzione di S. Puccini (p. 5).46 I dati giunti sino a noi e ancor oggi conservati presso la Biblioteca nazionale Marciana sono stati trascritti da Simonetta Marin e sono pubblicati in Il culto dei santi e le feste popolari…, con una sua nota introduttiva, cui rinvio per quanto concerne i criteri prescelti nella trascri-zione e per le caratteristiche stesse della documentazione raccolta in cinque volumi. Nono-stante il decreto del Senato, la raccolta delle informazioni non fu uniforme, forse anche per un diverso atteggiamento delle autorità ecclesiastiche. I dati di alcune diocesi sono pure rin-tracciabili negli archivi delle curie cittadine, come risulta, ad esempio, per la Valpolicella, cfr. S. Zanolli, Tradizioni popolari in Valpolicella. Il ciclo dell’anno, Verona 1990, in cui sono riportate le descrizioni dell’inchiesta del 1772 relative alle diverse parrocchie della vallata (cfr. pp. 39-44).47 Nel suo consulto, steso il 14 agosto 1773, Natale Dalle Laste, esaminando “le carte volu-minose pervenute dalla Terraferma”, osservò come la bolla di Urbano VIII del 1642 fosse ri-masta del tutto disattesa: “Indarno Urbano VIII nel 1642, mosso dalle istanze de’ vescovi, dalle querele de’ poveri, dagli abusi scandalosi nel culto de’ santi, con la costituzione Universa ha determinato il numero delle feste di precetto con astinenza dal lavoro. Indarno dichiarò sciol-te da precetto di obbligazione le altre tutte che in qualunque luogo si osservassero e impose ai vescovi, in virtù di obbedienza e sotto pena della sua indignazione, l’esatta osservanza della bolla, l’uniformità e l’uguglianza de’ dì festivi e di astenersi in perpetuo dal decretare nuove feste di precetto per l’importunità de’ popoli e per soverchia facilità d’essi vescovi. La conni-venza de’ prelati diocesani, l’insinuazione industriosa de’ direttori di spirito, l’intemperanza e materiale divozione del volgo, ad onta delle apostoliche providenze, ritennero tenacemente l’osservanze di voti e consuetudini antiche e di tempo in tempo ne accumularono di nuove”, cfr. A.S.V., Consultori in iure, filza 365.

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vano non solo quanto il fenomeno fosse esteso e radicato, ma pure come esso fosse difficilmente descrivibile in tutta la sua complessità alla luce dei quesiti che si erano enunciati nel decreto del 177248.Se, infatti, nel loro insieme, le risposte fornite dai parroci ci offrono un qua-dro vivido della religiosità popolare e ci informano sull’ampia fortuna godu-ta dal culto dei santi in moltissime realtà del Friuli e della Terraferma veneta e lombarda, esse rivelano pure una sostanziale inadeguatezza da parte dei loro stessi estensori (nella quasi totalità parroci o sacerdoti che avevano la cura d’anime) a cogliere la specificità del fenomeno che erano chiamati a descrivere.I dati che ci sono pervenuti esprimono certamente, per quasi tutte le realtà diocesane, lo sforzo di cogliere le caratteristiche e le origini delle festività allora esistenti. Se si escludono alcune descrizioni decisamente laconiche nella loro formu-lazione, oppure, altresì, diverse attestazioni, francamente poco credibili, in cui, senza esitazioni, si afferma se non l’inesistenza di festività non di pre-cetto49, il loro numero decisamente esiguo50, le dichiarazioni dei parroci trasmesse a Venezia dai rappresentanti dello stato di Terraferma, indicano chiaramente lo sforzo compiuto dai loro estensori per individuare quanto meno l’origine delle festività locali51. Sono molti i parroci che, di fronte alla richiesta proveniente dal supremo organo veneziano, compulsano i loro registri o ricercano altrove l’origine delle festività della loro parrocchia. Si ricordano così antichi documenti, atti notarili, registri canonici, vacchette di elemosine, diplomi vescovili e quanto

48 In particolare per quanto concerneva un’ipotetica distinzione incentrata sui “gradi dell’usata osservanza”, cfr. supra, pp. 222-223.49 Sorprendente l’assenza di feste (al di fuori di quelle di precetto) nella città di Bergamo, cfr. Il culto dei santi e le feste popolari…, p. 23.50 Attestazioni che spesso contengono pure osservazioni decisamente ostili a pratiche re-ligiose che si definiscono festicciole e che suggeriscono, nell’insieme, la volontà da parte degli scriventi di non concedere loro alcuna legittimità. Ad esempio il parroco di San Daniele (Friu-li) puntualizza come “in questa terra oltre le feste di precetto comuni a tutta la diocesi non si osserva come festa d’obligo giornata alcuna o per antica consuetudine o per publico voto o per altro universale motivo...A ricordo de più vecchi ci erano molte festicciole che dovevano osservarsi come di precetto e chi lavorava soggiaceva a certa condanna pecuniaria, ma poi restarono tutte abolite, senza che neppure una ve ne sia rimasta”, cfr. Il culto dei santi e le feste popolari…, p. 23. Una descrizione dubbia che, come in molti altri casi, tralasciava deliberata-mente di ricordare pratiche devozionali che erano limitate ad alcune contrade del villaggio e che facevano riferimento a chiesette o oratori campestri.51 Singolare, ad esempio, per la ricchezza di informazioni e di citazioni dotte l’attestazione rilasciata dal parroco di Gemona (Friuli), cfr. Il culto dei santi e le feste popolari…, pp. 322-324.

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altro52. Ma, laddove tutto questo non è di aiuto, pure verbali di vicinie e altri documenti conservati negli archivi della comunità, nonchè iscrizioni poste sugli altari, lapidi, affreschi, ex-voto.È la ricerca del monumento, che attesti l’avvio di una pratica devozionale che pone in relazione la comunità (o parte di essa) con il suo santo protettore. Ma, più spesso, l’estensore della descrizione deve arrendersi e richiamare le semplici attestazioni degli anziani, dei vecchi della parrocchia, che, per lo più, non possono confermare che la forza e la legittimità della tradizione53.Come, ad esempio, il parroco di Caloneghe (Belluno), il quale, dopo aver elencato le numerose festività esistenti in parrocchia, osserva:

Tal descrizione non potendosi rilevare neppur dalle tavolette in cui sono regi-strate, mentre non è descritto nè anno, nè mese, nè giorno quando sono state instituite, ma solo riesce di rilevare il motivo e la causa della loro instituzione, come viene in questa connotato: onde neppur dalli più atempati si può aver cer-

52 Si veda, ad esempio, la relazione di Nicola Giuseppe Botti rettore della chiesa di Allone (Brescia), il quale si avvalse pure degli annali della chiesa per attestare l’origine di alcune feste (San Gottardo e Santa Monica, “instituita nel secolo passato perché vi erano molti indemo-niati”; oppure la festa della visitazione di Maria Vergine ad Elisabetta, istituita nel ’600 “a motivo d’una mezza pestilenza principialmente nella virginità”), cfr. Il culto dei santi e le feste popola-ri…, p. 102.53 La registrazione del voto da parte della comunità in un rogito notarile attesta evidente-mente una percezione diversa della consuetudine. Una percezione che probabilmente de-rivava da una dimensione conflittuale non più contenibile entro i confini della comunità. Il voto era infatti per lo più accompagnato dall’obbligo sancito dalla convicinia (e cioè dalla riunione dei capifamiglia) nei confronti di tutti i membri della comunità. Un’eventuale tra-sgressione nei confronti della festività (considerata dunque a tutti gli effetti come una festa di precetto) sarebbe stata colpita da una pena pecuniaria. Molti gli esempi. Per Carrè (Vicenza), dove in occasione della pestilenza del 1630 la comunità decide di fare voto alla Madonna e di festeggiare in perpetuo il 21 novembre con messa solenne, cfr. M. Scremin, Peste e devozione a Carrè nel 1630, in Carrè. Antologia di scritti e di immagini, a cura di A. Canale, M. Crosato e M. Dal Santo, Vicenza 1988, pp. 86-88. Per Torreselle (Vicenza) cfr. C. Povolo, Valdilonte. La contra-da di Geltrude e Matteo, Vicenza 1996, p. 8 e 40: nel 1613 la comunità, riprendendo un’antica consuetudine, decide di festeggiare ogni 25 del mese perché “Iddio si degni per sua infinita misericordia et clemenza liberar la detta villa et beni in essa situati dalle tempeste, cattivi tempi et altri pericoli che possono succedere giornalmente”. Ciascun membro della comunità avrebbe dovuto astenersi dal lavoro ogni 25 del mese e partecipare alla consueta processione annuale delle rogazioni. Inoltre si stabiliva di festeggiare ogni anno, dedicandolo al riposo, il sei dicembre, giorno di san Nicolò, cui era dedicato un altare della chiesa parrocchiale. La re-gistrazione notarile sanciva ovviamente un salto qualitativo rispetto all’antica consuetudine. Il voto stabilito dalla comunità nel 1613, come è attestato dall’inchiesta promossa dal Senato, era ancora operante negli ultimi decenni del Settecento. La scelta del 25 di ogni mese come giorno festivo sembra essere una pratica assai antica e diffusa particolarmente nel Vicentino, cfr., per un esempio, G. Mantese, San Vito di Leguzzano dalle origini ai nostri giorni, Vicenza 1959, pp. 130-136, in cui si osserva come l’origine di tale festività risalisse al secolo XV.

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ta contezza del tempo della loro instituzione, ma viene riferto essersi nel loro riccordo sempre stillato in tal guisa54.

È una ricerca spesso puntigliosa, che si avvolge, come vedremo, sulla stessa definizione della tipologia della festività (di semplice devozione o di voto). A Siviano d’Iseo il parroco, dopo aver enumerato le festività celebrate in par-rocchia, osserva perplesso:

Io, in quattro anni di mia residenza, le ho sempre annonciate come di pura divo-zione, e nessuno m’ha mai contradetto. Or che in questa occasione ho ricercati i fondamenti, mi vien detto da uomini vecchi come cosa probabilissima per tradi-zione che la festa di s. Rocco sia di voto per la sola contrata però di Mazze, la qua-le dicesi che andasse onninamente libera dalla peste l’anno 1630 (nonostante la strage che faceva nel resto del paese) appunto pe’l voto fatto al santo di celebrar annualmente la sua festa. Questa asserzione però, anche dopo diligenti ricerche, non mi si è potuto provare né co’ libri della parrocchiale, né della communità, né di alcun particolare. 55

Al di là delle classificazioni

Dietro alle affermazioni dei parroci, e ai loro giudizi spesso perentoriamente negativi, è possibile evidentemente intravedere non solo stilemi culturali che denotano difficoltà a comprendere le pratiche religiose descritte, ma anche la riluttanza ad accogliere forme devozionali che rivestivano, in più di un caso, specificità giuridizionali che, inevitabilmente, erano entrate in conflitto con l’istituzione parrocchiale.Questo è ad esempio ben ravvisabile nello sforzo compiuto dai parroci nel definire le caratteristiche delle festività esistenti nelle loro parrocchie. Ca-ratteristiche che, evidentemente, potevano essere colte, oltre che dall’indi-viduazione dell’origine ed istituzione delle festività, anche dal grado di os-servanza che le contrassegnavano56.È così che, nelle loro descrizioni, i parroci si affannano a distinguere le festi-vità in votive o di semplice devozione. Una distinzione ambigua, che i parroci cercavano di chiarire sia individuando il momento preciso in cui la festività

54 Cfr. Il culto dei santi e le feste popolari…, p. 112.55 Cfr. Ibidem, pp. 96-97.56 Quesiti che, come si ricorderà, erano stati formulati dal Senato avviando l’inchiesta nel settembre del 1772.

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era stata introdotta tramite un voto collettivo57, sia attestando il suo grado di osservanza da parte dei fedeli58.Le descrizioni stese dai parroci si dispiegano così ricorrendo a stilemi retorici che molto spesso denotano non solo pregiudizi59, omissioni60, contraddizioni61,

57 Il parroco di Branzi (Bergamo) osserva: “Cerca l’origine di tali feste si asserisce che ri-guardo la festa di s. Rocco in ogni parochia si suppone voto, ma non si anno fondamenti e perciò non si può dire generalmente parlando se non che siano tutte di devozione”, cfr. Ibidem, pp. 33-34.58 Natale Dalle Laste, nel consulto del 14 agosto 1773, basandosi soprattutto sui dati dell’in-chiesta, tentò inutilmente di definire le caratteristiche dei due tipi di festività: “Tutta questa farragine di feste è distinta in votive e di semplice divozione. Alle prime è dedicato il giorno intiero, alle seconde intiero la maggior parte e a molte la metà solamente. Di poco numero di votive appare il fondamento onde possano dirsi tali, cioè per parti prese nelle comunità e vicinie...Più numerose sono le votive che anno il solo fondamento di tempo immemorabile e di volgari tradizioni...Quelle poi che si dicono di divozione altre anno l’oscuro titolo di antica usanza degli antenati, che ciecamente è seguita, altre riguardano il culto de’ santi titolari, non solo di chiese parrocchiali, ma eziandio di oratori campestri, altre di santi protettori di fraglie divote...Queste di voto comunemente si festeggiano da mattina a sera con totale abbandono del lavoro, con più rigore però le decretate dalle vicinie...Quanto alle feste di divozione se ne incontrano alquante imposte con precetto con astinenza dal lavoro per decreti di vescovi o di sinodi diocesani...Del resto la maggior parte delle feste di volontaria divozione occupa tutto il giorno e sospende i lavori. Nondimeno in parecchi luoghi si passa dalla messa al lavoro, non però in tutte...”, cfr. A.S.V., Consultori in iure, filza 265. 59 A Portobuffolè (Treviso) il parroco osserva: “In tutti li giorni sudetti il popolo si è facil-mente portato dalla propria devozione, o dirò meglio ignoranza, che, quantunque inculcato più volte dall’altare a proseguire i lavori per ordinario, si astengono più volentieri che nelle feste di precetto”, cfr. Il culto dei santi e le feste popolari…, p. 237.60 Sorprendente l’attestazione del vescovo di Crema il quale rileva che, oltre alla festa del santo patrono della diocesi e di ciascuna parrocchia, “ve n’è qualch’altra pure in quasi tutte le parrocchie della diocesi che chiamano di divozione, nelle quali però, eccettuato il solo tempo della messa cantata e vespro, si attende al lavoro della campagna od altro che più bisogna”, cfr. Ibidem, p. 193. Le omissioni sono in realtà assai più frequenti se si considera che in molte descrizioni si evita di soffermarsi su quelle festività che erano specifiche di singole contrade od oratori. Un esempio la descrizione di Vedelago (Treviso), cfr. Ibidem, p. 254.61 È ad esempio decisamente contraddittoria la descrizione stilata dal parroco di Mariano (Bergamo), che sembra riflettere l’impossibiltà di delimitare pratiche religiose che si svolgo-no al di fuori del suo controllo: “Di tutte queste feste io non so ritruovare monumento alcuno, quando abbiano avuta origine, né per qual motivo siano state instituite, o da chi, o con quale auttorità, né cosa alcuna ho potuto ricavare da più vecchi de parrochiani. Solo mi dicono che le anno sempre vedute a farsi, né si ricordano aver mai sentito da loro antenati quando sia-no incominciate. Si celebrano tutte con messa cantata e vespro. Quanto ai lavori giornalieri, volendo io introdurli massime in que’ giorni ne quali sono più interessanti le faccende dell’a-gricoltura, alla quale attendono tutti questi parochiani, vi ho trovata gagliarda opposizione e quanto più procurava di levarle tali feste, tanto più io mi andava conciliando di odiosità. Niu-no mi sa però dire avere avuto origine da qualche voto. Non si fa però scrupolo questa gente di fare qualche opera servile di minor fatica in tali giorni, nemmeno di viaggiare qua e là pei

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ostilità62 e, in taluni casi, pure atteggiamenti neutrali63, o persino benevo-li64, ma anche, e soprattutto, una percezione che, inevitabilmente, non è in grado di cogliere i nessi culturali che muovevano nel più profondo il mondo consuetudinario popolare che nei rituali delle feste incontrava uno dei suoi momenti più significativi.Le festività religiose e i rituali ad esse collegate (processioni, veglie, preghie-re) si inseriscono a pieno titolo in un discorso culturale la cui valenza giuridica consuetudinaria era caratterizzata dall’oralità, da un’estrema flessibilità e dalle sue componenti mitiche65.

loro interessi, in guisa che è sempre quasi vuota la chiesa, perché la maggior parte in queste feste vanno anche ai loro diporti”, cfr. Ibidem, pp. 62-63.62 A Pognano (Bergamo) il curato riferisce delle feste di divozione o votive, in cui i suoi fedeli si astengono dal lavoro “ma di queste non avendo mai potuto ritrovare l’origine ho procu-rato sin al principio di mia residenza in questa cura d’indurli ad abbandonarle, per essere a medemi giorni piuttosto di libertà, che divozione, e pregiudicevoli anche a loro impieghi di campagna; il che senza frutto essendomi riuscito ho io omesso già da alcuni anni per loro disinganno l’officiatura”, cfr. Ibidem, p. 62.63 Il parroco di Chiare (Brescia) descrive le feste precisando: “Se male non ho inteso il co-mandamento, parmi che a bene eseguirle sia spediente dividerle in quattro classi. La prima sia di quelle la cui origine si sa...La seconda sia di quelle di cui non si può appuntare l’origine se non per devota consuetudine introdotta a poco a poco...Le feste di queste due classi sono osservate generalmente da tutti coll’astenersi da lavori, seppur s’eccettuino poche persone che in privato lavorano. Terza classse è di quelle che molti osservano, ma che molti pure non osservano...Quarta classe è di quelle che si osservano da qualche classe di lavoratori, ma da niun altro...”, cfr. Ibidem, cfr. pp. 81-82.64 Un buon esempio è costituito dalla bella descrizione fornita dal parroco di Collebeato (Brescia), il quale si sofferma analiticamente sulle feste esistenti in parrocchia. Decisamente simpatetico il ricordo del miracolo avvenuto il 30 settembre 1618: “Narrasi che apparisse il santo in forma di vecchiarello nella publica piazza alli reggenti di cotesto publico, che afflitti sotto i rami di ben esteso olmo ed interrogati del lor dolore li rispose di dover celebrare la festa di detto santo, sparve. Si onorò il santo con fare la sudetta festa con publico voto e cessò immanente il flagello...”, cfr. Ibidem, pp. 85-86.65 Le consuetudini vennero essenzialmente percepite nel loro ordine ideale, cogliendone spesso, come nel caso delle riforme attuate nella seconda metà del Settecento gli aspetti este-riori e più visibili. L’ordine ideale, come ha sottolineato Rouland, in realtà nasconde al suo interno l’ordine del vissuto. Una differenziazione tra teoria e prassi, tipica di tutti i sistemi giuridici, ma che nel caso delle consuetudini assume una certa rilevanza se si pensa che assai raramente esse parlano di se stesse e sono invece raccolte e interpretate da esponenti della cultura dominante (che si avvalgono della scrittura). Ed anche quando il mondo consuetu-dinario riflette su se stesso, ogni cosa e ogni relazione sono percepite nell’ambito del mito. Si veda ad esempio la contesa giudiziaria che ebbe come protagonista Caterina Corradazzo, pp. 15-45. A questo proposito Rouland ha rilevato che “in generale, i giuristi occidentali de-finiscono la consuetudine come un uso prolungato considerato vincolante, e insistono sulla sua flessibilità, sulla facilità con cui essa si adatta all’evoluzione dei costumi. Ciò significa mescolare l’ordine dell’ideale a quello del vissuto...; la consuetudine non è affatto immutabile, e...evolve secondo i bisogni del gruppo sociale che la genera. Ma, idealmente, chi la applica

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Vero e proprio sistema giuridico aperto, le cui proposizioni erano eminen-temente sociali66, la consuetudine era interpretata dagli anziani (i vecchi), i quali, ricorrendo al mito, legittimavano la funzione vincolante del passato e la sua funzione di ripetitività, anche di fronte a quanto di nuovo inevitabil-mente emergeva67.

valorizza la sua funzione di ripetizione del passato, pronto, in caso di necessità, ad adattarla al cambiamento. In realtà, il primo carattere della consuetudine nell’ordine ideale è quello della ripetitività”, cfr. N. Rouland, Antropologia giuridica…, p. 184.66 Si tratta di un concetto fondamentale se si considera la consuetudine rispetto agli altri sistemi giuridici e alla specifica forma del ragionamento giuridico di ciscuno di essi. Il tema è stato affrontato dal sociologo americano Lawrence Friedman. Il ragionamento giuridico è uno strumento di legittimità specifica, che serve cioè a collegare le decisioni di organi o di istitu-zioni dotati di autorità derivata con organi o istituzioni investiti di autorità primaria (che non devono giustificare le loro proposizioni). Il ragionamento giuridico è tipico, ad esempio, dei giudici che devono motivare le loro decisioni rispetto ad organi superiori. La forma logica del ragionamento può essere composta di asserzioni sul diritto e asserzioni sul fatto. Si definiscono sistemi chiusi quei sistemi che prevedono che chi deve decidere deve farlo solo basandosi su premesse legali, che si rifanno a norme certe, condivise e scritte. Un sistema aperto, all’incon-trario, si basa su asserzioni di fatto e non traccia distinzioni tra premesse legali e quelle che non lo sono. Inoltre questi due grandi sistemi possono accogliere oppure negare l’innovazione e cioè se accettano che nuove proposizioni legali vengano in essere. Le asserzioni e le propo-sizioni del sistema giuridico sono quindi assai importanti per definire le caratteristiche stesse del sistema giuridico cui si riferiscono. Friedman distingue quattro tipi di sistema, che corri-spondono a quattro tipi di ragionamento giuridico. Un sistema può essere sacrale e rifarsi ad un testo sacro: in questo caso si tratta di un sistema chiuso e che nega ovviamente l’innovazione. In un certo senso anche il common law classico apparteneva a questo tipo di sistema. Nel se-condo tipo ricadono i sistemi che possiamo definire sistemi a scienza giuridica, cioè quei sistemi che considerano il diritto una scienza: si tratta evidentemente di sistemi chiusi, ma nei quali l’innovazione è accolta (in quanto il diritto è una scienza e come tutte le scienze si evolve). È una tipologia che ha avuto fortuna nei paesi dell’Europa continentale, dapprima con il di-ritto comune e poi con i codici. La terza tipologia è rappresentata dai sistemi che sono aperti, ma rifiutano l’innovazione: come, ad esempio, quelli consuetudinari, in cui il ragionamento giuridico è costituito da asserzioni di fatto. I giudici, che non sono professionisti, attingono al costume, al buon senso, alla morale. Le norme giuridiche, nei sistemi consuetudinari, sono in realtà le norme sociali e politiche. I sistemi aperti si affidano quasi esclusivamente all’ora-lità e ritengono che il diritto sia comunque già esistente e, spesso, fondato da Dio. L’ultimo tipo, i sistemi aperti e che accolgono esplicitamente l’innovazione, sono, ad esempio, i diritti rivoluzionari. Nei sistemi chiusi che rifiutano o considerano difficoltosa l’innovazione, le tra-sformazioni sono mascherate dal legalismo o dalla finzione giuridica. Mi è sembrato importante soffermarmi su questa distinzione per chiarire le dimensioni culturali della consuetudine e, di converso, della religiosità popolare che, di quella, è parte integrante. Va aggiunto, come già si è detto, che il rifiuto (come nel caso delle consuetudini) o l’accoglimento dell’innovazione appartiene all’ordine ideale, perché, ovviamente, nessun sistema può rifiutarsi di accogliere le innovazioni e, conseguentemente, di trasformarsi. Per questi problemi cfr. L. Friedman, Il sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, Bologna 1978 (New York 1975), pp.389-40867 Rouland osserva: “Per attualizzare nel presente l’ordine ideale e per farlo trionfare sul disordine del vissuto, l’istituzione incaricata di dire il diritto procede secondo una tecnica detta di accumulazione delle fonti. Nessuna fonte nuova può rimpiazzare una fonte antica:

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Nell’ambito delle festività religiose, le consuetudini contrassegnavano emi-nentemente il rapporto tra l’uomo e il divino ed esercitavano un diretto con-trollo sul tempo, mirando a legittimare ogni atto giuridico prodotto nell’am-bito della comunità68.La festività religiosa veicolava rituali collettivi collegati al culto dei defunti e ai patti sanciti dagli antenati con il mondo del divino per preservare ogni aspetto materiale della vita quotidiana69. Dall’inchiesta del 1772-73 emerge vivido il richiamo del passato e dello stret-to legame che univa gli uomini del presente con i loro antenati. Il tentativo dei parroci di definire il carattere votivo o devozionale del giorno festivo sembra passare in secondo piano rispetto alla forza coesiva del mito suscita-to da antichi miracoli, culti consolidati o pratiche religiose innervate nella vita stessa della comunità70.Nel contado di Mel, dove sono gli stessi anziani dei villaggi ad attestare qua-li siano i giorni dedicati al culto dei santi, le festività sono quasi esclusiva-mente descritte di devozione. A Col, il giurato osserva come le feste “si fanno senza obbligo di sorte, benchè istituite da nostri padri, delle quali non esiste più memoria”. Nella regola di Corve “per uso e costume antico lassà da suoi predecessori osserva per devotione li giorni de sotto scritti santi, nè saper la sua origine”.Ma il legame tra passato e presente è soprattutto attestato in questi villaggi dal taglio personale delle descrizioni stilate dagli anziani. Il miracolo e il voto invocati dagli antenati si riverberano direttamente su tutti gli uomini

essa si aggiunge alle precedenti, senza distruggerle”, cfr. N. Rouland, Atropologia giuridica…, p. 185. Sia per le osservazioni di Friedman che per quelle di Rouland si veda comunque la vicen-da friulana affrontata a pp. 15-45.68 Cfr. N. Rouland, Antropologia giuridica…, pp. 186-187.69 “A contatto con la natura e le sue manifestazioni, l’uomo contadino vive nel ciclo stagio-nale la lotta incessante tra le forze benefiche che danno la vita, la grazia e le forze malefiche che hanno con sè la morte, la disgrazia; teme l’oppressione del male, della fame, delle malat-tie. Contro il male, la peste, la carestia, l’inondazione e la siccità, egli si rivolge alla protezione della Madonna, dei santi, secondo un suo modo di concepire l’atto religioso e il culto, molto spesso senza alcuna mediazione della Chiesa. È una religiosità in cui non mancano aspetti di una magia legata a riti arcaici e soprattutto alla ritualità agraria di origine pagana”, cfr. D. Coltro, L’altra cultura. Sillabario della tradizione orale veneta, Verona 1998, p. 143.70 È esemplificativa la testimonianza del parroco di Madrisio di Varmo (Friuli): “L’origine poi ed instituzione non si rileva che per tradizione popolare, asserendo li vecchi aver inteso da padri, ed altri, l’instituzione dell’osservanza per disgrazie sofferte e favori conseguiti nei giorni di tali santi; onde per averli prottettori contro le tempeste, mortalità e malattie di persone ed armenti, come pure favorevoli avvocati ne bisogni spirituali e temporali, diedero principio a tali festività, in tal piede, anche di presente, osservate”, cfr. Il culto dei santi e le feste popolari…, p. 342.

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della loro comunità. La dimensione del tempo sembra essere univoca, senza cesure che indichino la rottura dei patti ancestrali stabiliti:

17 genaro s. Antonio abatte, molti fanno festa per divozion di detto santo pre-gando il Signore che ci liberi dall’incendio del fuocco, perché una volta antica-mente fu ridotte in ceneri molte abbitazioni di questa villa...14 detto s. Valentin prette, molti fanno festa per divozion di detti santi pregando il Signore che ci liberi dal mal caducco...13 giugno s. Antonio da Padova, molti fanno festa per divozion di detto santo, pregando il Signore che ci liberi dalle disgrazie...71

Ovviamente il quadro offerto dall’inchiesta è quanto mai variegato e mosso. Ad antiche ricorrenze festive, la cui origine sembra calarsi nel-la notte dei tempi, si accostano giorni festivi di più recente istituzione ed eventualmente ripresi dopo un lungo silenzio, oppure culti di santi entrati ormai in desuetudine72.

Consuetudine e giurisdizione

Se risulta assai difficoltoso tracciare un quadro omogeneo, di fronte a real-tà così diverse sul piano geografico, economico e sociale, dall’inchiesta del 1772-73 emerge però la sensazione diffusa che lo sfondo consuetudinario, rappresentato dalle festività religiose e dal culto dei santi, mantenesse an-cora, in molti contesti, una forza coesiva di tutto rilievo.Una sensazione che appare tanto più rilevante se solo si riflette che nel cor-so del Sei-Settecento la dimensione del sacro e dei rituali devozionali erano cresciute a dismisura, conferendo ai loro detentori laici ed ecclesistici pre-stigio, immunità e privilegi giurisdizionali73.La frammentazione sul territorio e negli stessi edifici parrocchiali di pra-tiche devozionali che si riflettevano visibilmente nella magnificenza degli

71 Attestazione dei giurati di Villa del Contado di Mel, cfr. Ibidem, p. 245.72 A Pagliaro (Bergamo) si festeggiavano alcuni santi, “e perché poi col decorso degli anni non si sapeva se questa osservanza fosse di voto o di sola divozione l’anno 1630 li 16 agosto affine d’esser liberata dal mal contaggioso fece voto di osservarle con astenersi ancora dalle opere servili e finalmente l’anno 1679 sotto li 26 novembre rinnovò il detto voto, ed aggionse ancora il voto d’osservare il giorno della Presentazione della Beata Vergine Maria ed il giorno di s. Antonio da Padova, affine non solo d’esser liberata dalla peste, ma ancora dalla morte improvisa, dalle guerre, carestie, tempeste, e per aver la grazia di viver cristianamente”, cfr. Ibidem, p. 48.73 Come è ben attestato nelle diocesi piemontesi studiate a A. Torre, Il consumo di devozioni. Religione e comunità nelle campagne dell’Ancien Régime, Venezia 1995.

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altari laterali e nella presenza di ex-voto74 indurrebbe ad associare questo revival devozionale alla fortuna goduta dalle festività religiose popolari.In alcuni casi l’inchiesta promossa dal Senato veneziano sembra conferma-re questa tendenza, che, in un certo qual modo, contrastava con lo sforzo condotto dalle autorità ecclesiastiche di affermare una pratica religiosa par-rocchiale uniforme, incentrata sulle prerogative giurisdizionali del parroco, sulla preminenza dell’edificio parrocchiale e, in particolare del suo altare maggiore75.In questo senso, però, le pratiche e i rituali devozionali crescevano e si mo-dellavano alimentandosi di una rete di conflitti che vedeva come protagoni-sti gruppi parentali, associazioni laicali, comunità e parroci. Una rete di con-flitti che, come ha sostenuto Norbert Rouland, apparteneva a pieno titolo a quell’ordine giuridico vissuto che caratterizzava il mondo consuetudinario nei suoi valori più specifici76.Nonostante la loro frammentarietà territoriale e devozionale77 e, pure, i ri-

74 Molti parroci, nel corso dell’inchiesta, segnalano la stretta relazione tra altari laterali e culto dei santi, menzionando pure la presenza di ex-voto. Notevole l’esempio di Clusone, cfr. Il culto dei santi e le feste popolari…, pp. 46-47. Curioso l’esempio segnalato da G. Dellai nella chiesa parrocchiale di Schiavon (Vicenza), in cui era stato creato un nuovo altare laterale in onore di San Liberale. Nel corso della visita pastorale del 1658 il vescovo notò come alla base della pala raffigurante il santo era stato posto un altare che giungeva quasi fino alla metà del-la chiesa, “impedendo nella sua area la regolare disposizione di banchi con relativi problemi di capienza per la chiesa e di pericolosa promiscuità (così fu definita) tra uomini e donne”, cfr. G. Dellai, Schiavon e Longa. Storia di due comunità e di un territorio nell’alta pianura vicentina, Vicenza 1994, p. 101.75 Come è stato notato da Edward Muir, i vescovi puntarono all’eliminazione di culti se-miprivati e all’esibizione di ex-voto (per questo aspetto cfr. infra, pp. 224-225) e a porre sot-to controllo l’utilizzo degli altare laterali: “Si trattava, per i vescovi, di trovare un difficile equilibrio tra interessi privati e collettivi, e ottenere che questi gruppi si assumessero la re-sponsabilità di mantenere una parte della chiesa, senza però consentire loro di distruggere il carattere pubblico della parrocchia e delle sue forme di devozione”, cfr. E. Muir, Riti e rituali nell’Europa moderna, Milano 2000 (Cambridge 1997), p. 261.76 “La valorizzazione dell’armonia e dell’equilibrio assume significato soltanto quando la si confronta con le tensioni e i conflitti del mondo reale: orbene, questi non sono risparmiati alle società tradizionali, anche se esse tentano di prevenirli o di regolarli nel modo meno trau-matico per la società. Allo stesso modo, i gruppi sociali, la cui complementarietà viene pur valorizzata, restano portatori di valori specifici, che possono essere contraddittori. In genere un valore è dominante, ma gli altri persistono, enfatizzati soltanto da alcuni gruppi, o espressi in forme velate. Il controllo sociale esercitato dal diritto nell’ordine del vissuto ha per fine la gestione dei conflitti che possono risultare da questo stato di fatto, o restaurando l’ordine iniziale, o creandone uno nuovo, nel rispetto, per quanto possibile, dell’ordine ideale”, cfr. N. Rouland, Antropologia giuridica…, p. 186.77 Nel senso cioè che molti giorni festivi erano caratteristici di alcune contrade o confra-ternite.

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tuali loro connessi78, l’ampia gamma di festività rappresentata dall’inchie-sta del 1772-73 sembra affermare in primo luogo una forte tensione mitica rivolta al controllo del tempo e della morte.In definitiva il variegato culto dei santi, così spesso descritto dai parroci con accenti negativi, rinvia a quell’ordine ideale che nel mondo consuetudinario, riallacciandosi al passato, al culto degli antenati e ai patti ancestrali da loro stabiliti con il divino, intendeva affermare la forza della tradizione e il ri-chiamo del mito, concepiti come elementi aggreganti in grado di assorbire i conflitti, vanificandone le tendenze centrifughe.

Il lavoro e la preghiera

Nel giorno festivo, pratiche e riti devozionali potevano prevedere la parziale o totale sospensione dei lavori, così come momenti di aggregazione ludica79.Un insieme di fattori, che potevano essere dirompenti rispetto ai significa-ti simbolici che i giorni festivi sottolineavano esplicitamente richiamandosi alla dimensione del tempo e del mito80.In realtà, intervenendo direttamente sulla dimensione tempo, le festività ri-spondevano pure ad un bisogno profondo della popolazione. Come è stato no-tato da Edward Muir, “i ritmi di lavoro stessi creavano un senso di periodicità

78 In moltissime festività i parroci segnalano però l’assenza di specifici rituali devozionali.79 Regolarmente descritti, spesso senza vena d’indulgenza, da molti parroci nell’inchiesta del 1772-73, cfr. infra, pp. 238-239. Su questi aspetti cfr. J. L. Flandrin, Amori contadini, Milano 1980 (Paris 1975), pp. 89-92. Flandrin osserva: “Per passare dall’associazione con i membri del proprio gruppo, maschile o femminile, a una relazione personale con un individuo del sesso opposto, occorreva del tempo, l’esempio e il sostegno dei compagni, il soccorso dei riti”, (p. 90).80 Etnologia e antropologia giuridica sono tra gli strumenti più indicati per avvicinarsi alle vicende storiche in cui i conflitti si innescano o si catalizzano nel giorno festivo e nei riti ad esso connessi. Un processo istruito nel 1769 su delega del Consiglio dei dieci per alcuni disor-dini avvenuti nella comunità vicentina di Zugliano, è significativo su questo piano. Il cappel-lano della parrocchia, spalleggiato da altre persone, tutte ostili alla nomina del nuovo vicario economo (che doveva assistere il vecchio parroco ammalato), si oppose alle novità introdotte da quest’ultimo nelle processioni parrocchiali. Il nuovo vicario aveva infatti stabilito che la consuetudine sempre seguita di far precedere le donne agli uomini nei cortei che partivano dalla chiesa, fosse abrogata. “La novità dell’abrogazione, benchè salutare, non soddisfacendo alla maggior parte di quei villici, prestasse occasione all’inquisito sacerdote, mal disposto d’animo verso il Giordani [il nuovo vicario economo], come ragionevolmente persuade per la motivata di lui esclusione, di fomentare il popolo con aperte declamazioni a contraoperarvi, onde ripristinare l’antica costumanza”, cfr. A.S.V., Consiglio dei dieci, Processi criminali, Vicenza, busta 19, cc. 55-58.

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che rendeva necessario un momento di tregua dal lavoro, da regole opprimen-ti, dai conflitti abituali”81.Dimensione mitica insieme ad esigenze ed irrequietezze della vita quotidia-na sembrano così annodarsi contraddittoriamente intorno alla celebrazione della festività82.Il Senato veneziano, avviando la grande inchiesta del 1772, aveva esplici-tamente sottolineato di venire informato, per ogni parrocchia, intorno a quali e a quanti giorni si festeggiassero “colla sospensione dei giornalieri lavori”83.Una richiesta che rispondeva all’istanza di fondo che aveva mosso le autorità della Repubblica, così come altri governi politici, ad avviare la riforma che avrebbe condotto alla soppressione di molte festività sino ad allora celebra-te.Su questo punto le risposte dei parroci, pur variegate e non prive di pregiu-dizi84, offrono uno spaccato di estremo interesse .Nell’insieme le descrizioni dei parroci attestano come il rispetto delle festi-vità religiose si rivolgesse in moltissime realtà parrocchiali sia alla celebra-zione di alcuni fondamentali riti devozionali che all’astensione dal lavoro.Quest’ultimo aspetto è colto in molte descrizioni da una prospettiva, per così

81 E. Muir, Riti e rituali ..., p. 94.82 John Bossy ha notato come il senso stesso della comunità parrocchiale costituisse anco-ra nel Seicento “un sentimento eccezionale, temporaneo, precario, eventualmente connesso a rari e ben determinati momenti di petizione rituale o festività, che costituivano delle pa-rentesi nella prosa dell’esistenza quotidiana, e forse aiutavano ad affrontare una vita fatta di tensioni altrimenti insopportabili”, cfr. J. Bossy, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, Torino 1998, p. 58. Tali tensioni sono ben evidenzia-te, ad esempio, nella delibera assunta dalla comunità vicentina di Malo nel 1575. Lamentan-do come poche persone, “anci pochissime”, partecipassero all’annuale rito delle rogazioni nel mese di maggio, il consiglio della comunità interveniva contro coloro che lavoravano in tempo di festa “manualmente, anci col proprio bestiame, col condur robbe delli loro campi e possessione, cosa veramente oprobriosa et contra il volere et institutione della Santa Chie-sa et a danno molte fiate delli frutti, quali nella campagna si attrovano, per le tempeste et inondationi di aque che avengono. Et tutte queste cose per gli peccati che dagli homini del mondo sonno commessi, essendo che le feste sonno state instituite dalla Chiesa santa”, cfr. Vicenza, Biblioteca civica Bertoliana, Archivio Torre, busta 806, c. 611. Come si può notare, ad essere stigmatizzato era il lavoro praticato al di fuori della dimensione familiare. Per molti altri esempi secenteschi cfr. Ibidem, busta 239.83 Cfr. supra, pp. 222.84 Cfr. infra, pp. 236-237. In più di un caso è la stessa genericità della descrizione a suggerire il pregiudizio che la accompagna. A Corteno (Brescia), il parroco scrive: “Dio volesse pure che almeno si santificassero le altre feste [di precetto], solennità e domeniche, quali sono profa-nate dalle opere servili o più che servili, nonostante le prediche e dottrine cristiane contro tali abusi”, cfr. Il culto dei santi e le feste popolari…, p. 77. Oppure, come a Lavone (Brescia), in cui, per alcune feste, si dice “si canta messa e chi vuol lavorare lavora”, cfr. Ibidem, p. 133.

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dire, esterna, che apertamente mira ad enfatizzare una presunta estraneità del rito festivo dalla realtà parrocchiale. Emblematica, sotto questo profilo, la testimonianza dell’arciprete di Coca-glio nel Bresciano:

Né da alcuno si sa perché si facciano, ma si fanno perché vi è consuetudine di cantar messa e vespro in tali feste. Ma a me pare però che queste andaranno in oblivione se in tali giorni si cessi di cantar messa e vespro. Anzi, in tali tre feste, finiti li divini uffizi, da tutti si lavora senza scrupolo, perché ogni anno da parochi si avverte il popolo che si può lavorare. Alli 22 di novembre si fa poi festa ad onore de santi Maurizio e Giacinto protettori di questa parrocchia, de quali abbiamo li loro due corpi intieri, ed ogni anno si solenniza la loro festa con offizio e messa di doppio maggiore e con musica e grande apparato, ed il popolo si lasciarebbe sbudelare più tosto che lavorare in tale giornata, tanto è grande la divozione che si ha in questo paese a questi santi protettori e così miracolosi inverso Cocaglio.85

L’impressione che si ricava dall’inchiesta è che a connotare le diverse tipo-logie di descrizione sia più il diffuso atteggiamento ostile nei confronti della sospensione dei lavori da parte della popolazione, che non le specificità lo-cali.Non diversamente dal suo collega bresciano, anche il curato di Ciserano nel Bergamasco esplicita la sua ostilità contro le festività popolari, ma la sua testimonianza non sa nascondere, nonostante tutto, una certa inclinazione contadina a sospendere i lavori alla campagna:

Indubitata cosa ella è che in tali giorni non si vedono frequentanti li sagramenti, né visitata la Chiesa, e pochissimi sono quelli che intervengono alle publiche fonzioni. Codeste feste sono anzi dalla maggior parte considerate come giorna-te le più libere ed opportune a far viaggi, a divertirsi su le piazze e quello ch’è peggio a passarle in divertimenti per le bettole, ovvero osterie. Non è tampoco universale nel popolo in tali festività la sospensione dei rurali lavori, alcuni da questi si astengono, altri all’opposto in essi si occuppano e non rare volte con reciproco impegno fra di loro; lo che adiviene con maggiore facilità negli venerdì di maggio, dacchè in sì fatta stagione le facende della campagna sono assai più pressanti e moltiplici86.

Lavoro e pratiche devozionali sembrano in realtà alternarsi, seppur con un’intensità variabile da diocesi a diocesi e da luogo a luogo.Le descrizioni prospettano nell’insieme una religiosità popolare in sintonia

85 Cfr. Ibidem, p. 95.86 Cfr. Ibidem, p. 64.

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con le consuetudini del luogo e provvista di una dimensione familiare e co-munitaria della festa che non si lascia facilmente imbrigliare da valori cultu-rali esterni volti a descriverne le caratteristiche essenziali.La nozione di precetto è reinterpretata dal mondo contadino secondo una particolare visione del divino e alla luce delle specifiche esigenze materia-li87. E questo emerge tanto più significativamente laddove la descrizione del parroco sembra aderire profondamente ai valori consuetudinari locali.Nella splendida descrizione stesa dal curato di Comune Novo (Bergamo), le cinque feste della comunità sono raccontate con una partecipazione che suggerisce come egli sia provvisto di una percezione vicina ai valori culturali dei suoi parrocchiani. Ad esempio, la festa di San Rocco, celebrata il 16 di agosto,

è una festa costumata a farsi anticamente da questa gente, ma essendo alcuni anni andata in disuso e dismessa per unanime consenso del popolo si è messa nuovamente in uso da alcuni anni prossimi scorsi come festa di divozione e non di voto. In essa communemente il popolo si astiene da lavori meccanici ma ognun è in libertà di lavorare se vole. In questo giorno si cantan la messa ed il vespero col intervento del popolo. L’origine di questa festa si è la divozione verso del santo, perché difenda questa communità dalli mali epidemici, sì nei corpi umani, come nelle bestie. Si come questa nelli anni in cui non si facea la festa del santo si amalavano e ne morivano con grave danno dei proprietari, così di novo il popolo ha messo in uso novellamente e nel primo anno si celebrava con qualche dimostranza di solennità, ma ora si fa strida quiete e senza pompa di sollenità88.

Molte delle descrizioni provenienti dallo stato di Terraferma indicano come l’astensione dal lavoro nei giorni festivi sia assai praticata, ma venga per lo più applicata soprattutto nei confronti dei lavori più impegnativi.Si lavora, di certo, uomini e donne89, nell’ambito domestico, tralasciando

87 Aspetto tanto più significativo se solo si riflette sul fatto che le istanze che avevano mosso la riforma avviata nel 1772 avevano l’obbiettivo di combattere sia le diffuse pratiche di super-stizione che l’ozio inveterato, dannoso all’agricoltura e al commercio, cfr. per questo supra, pp. 210-211.88 Cfr. Ibidem, pp. 55-56.89 Molte anche le indicazioni sul lavoro delle donne. A Pozzuolo (Friuli), la popolazione è solita ascoltare la messa e partecipare ad altri riti religosi “e fra il giorno di astenersi da certe opere servili più gravi e faticose, come appresso da villici è levare, escavar fossi, alberi, e impiegandolo per altro in altre opere, come essi dicono, meno faticose, meno gravi e più triviali. Questo riguarda gli uomini. Rispetto poi alle donne, queste si astengono dal filare, ma adoprano l’ago dalla mattina alla sera, e fanno tante altre cose da esse meno faticose e, secondo il loro parere, compatibili coll’osservanza delle feste da esse loro dette di devozione”, cfr. Ibidem, p. 278.

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comunque gli impegni più gravosi: e questo dato spiega come i parroci, sul-la scorta dei loro pregiudizi o del sospetto suscitato dalle loro prerogative giurisdizionali, possano contraddittoriamente sottolineare sia il mancato ri-spetto del precetto (di non lavorare) che l’inclinazione popolare verso l’ozio e il divertimento.È dal Friuli che provengono alcune delle descrizioni più interessanti. Da que-sta area molti parroci testimoniano la specificità della festa contadina nei confronti del lavoro90.Con sfumature e con toni diversi i parroci di Chiopris, Tarcento e Cussignac-co attestano la specifica dimensione del precetto contadino:

...Quasi tutti in tutti quei giorni fanno delle opere servili leggiere, ed a diman-darli perché le osservino, chi dice per divozione, chi per voto. Loro stessi ne sono dubiosi se peccano non osservandoli...[Chiopris]

...a mio credere, però, io le dico solamente di divozione, perché fuorchè nelle feste de titolari delle rispettive ville, in tutte l’altre s’esercittano l’opere servili, o d’un sfendere legna, ed altre di simil sorte...[Tarcento]

...coll’intervenire in queste la maggior parte almeno degli abitanti, alla santa messa e colla sospensione de lavori, entro però solamente i confini della loro campagna, facendosi per altro lecito il lavorare cogli animali ovunque fuori di questa...[Cussignacco]91

Nel Friuli, descrizioni più precise e puntuali attestano una dimensione della festa contadina che, pur con peculiarità e sfumature diverse, è presente an-che nelle altre diocesi di Terraferma.

Interpreti di culture

Rituali di devozione e raccoglimento nei lavori domestici suggeriscono la peculiare dimensione della festa popolare e contadina nella seconda metà del Settecento.

90 Il consultore Natale Dalle Laste, commentando i dati dell’inchiesta, riassunse così la spe-cificità friulana: “Del resto la maggior parte delle feste di volontaria divozione occupa tutto il giorno e sospende i lavori. Nondimeno in parecchi luoghi si passa dalla messa al lavoro; non però in tutte, nel che decide la riputazione de’ santi e in talune si fa lecito un lavoro e l’altro no: la qual sottile distinzione corre nel Friuli, dove gli uomini ponno tagliare erba e condur fieni, ma non arare e zappare, e le donne possono cucire, ma non possono filare”, cfr. A.S.V., Consultori in iure, filza 265, consulto del 14 agosto 1773.91 Cfr. Il culto dei santi e le feste popolari…, pp. 270, 271, 281.

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È soprattutto in questo periodo che il mondo consuetudinario contrasse-gnato dalle festività religiose viene investito dall’alto o, per meglio dire, dall’esterno, da istanze culturali e politiche provviste di nuovi significati.Inseriti pienamente, per la loro attività pastorale, in questo stesso mondo consuetudinario, i parroci, come già si è osservato, rivelano nei suoi con-fronti una percezione che non nasconde un atteggiamento critico e diffi-dente, se non ostile, e, in più di un caso, essi sembrano farsi veri e propri portavoce delle istanze provenienti dall’esterno92.I dati raccolti nel corso dell’inchiesta del 1772-73 offrono a tal riguardo una testimonianza assai eloquente. Non sono poche, infatti, le descrizioni che abbandonando i toni prudenti o una pur velata opposizione, veicolano, sen-za mezzi termini, un’aperta critica nei confronti di quella religiosità popo-lare che viene essenzialmente percepita come frutto dell’ignoranza, della superstizione e che, in quanto tale, non può condurre che a disordini.Se, come già si è osservato, la diffidenza e l’ostilità nei confronti dei rituali devozionali collegati alle festività popolari potevano originare dalla preoc-cupazione dei parroci di riaffermare le loro pretese giurisdizionali, va co-munque osservato come l’inchiesta del 1772-73 contribuisca a far emerge-

92 L’inchiesta, come già si è osservato, si inseriva in quel clima riformistico suscitato da un nuovo interesse per l’economia e il commercio (cfr. G. Tabacco, Andrea Tron…, pp. 177 e sgg.), ma rifletteva pure nuove istanze di carattere religioso e devozionale. Come è stato sottoline-ato da Mario Rosa, nel corso del Settecento emerge una tendenza volta a spiritualizzare la re-ligione ,“sia mirando alla formazione di un nuovo tipo di sacerdote, in particolare il parroco, attraverso il miglioramento della sua condizione materiale e degli studi nei Seminari che ven-gono incrementati e migliorati, sia tentando di diffondere sulla scia della ‘regolata devozione’ muratoriana, ma con tipiche accentuazioni illuministiche, una pietà ‘illuminata’ a livello po-polare”. Il vero problema delle campagne é quello di una riforma della pietà popolare, in cui “lo scontro appare più duro, tanto per le lontane sedimentazioni storiche e lo stato di abban-dono contro cui si imbatte l’opera dei riformatori, quanto per la ‘concorrenza’, per così dire, di un parallelo sforzo compiuto da Ordini e congregazioni religiose, spesso costituitisi col fine precipuo della riconquista o addirittura della conquista delle popolazioni locali”, cfr. M. Rosa, Politica e religione nel ’700 europeo, Firenze 1974, pp. 27-28. Giansenismo e parrocchismo furono fenomeni culturali e religiosi che assunsero una notevole importanza negli sforzi compiuti dalle autorità politiche ed ecclesiastiche per riformare taluni aspetti della devozione popo-lare. Come osservò Marino Berengo nel basso clero veneto circolò uno spirito che si rifaceva esplicitamente alla dottrina giansenistica. Un’inclinazione più che una vera e propria dottri-na dichiarata. La dottrina giansenistica “che aveva attenuato e combattuto il potere del Papa sui vescovi, e di questi sul parroco, che aveva ricordato ed amato l’antica unione evangelica tra i fedeli ed il loro pastore, che ripugnava da gerarchie e da gradi ebbe, svuotata di quel con-tenuto teologico che le avevano infuso i controversisti di Pavia, una profonda eco nell’umile clero. Ed il rigorismo che combatteva l’amore per il lusso, ed il piacere corruttore delle città, l’istintiva avversione verso una troppo facile fiducia nella salvezza, il richiamo costante alla miseria ed alla fragilità dell’uomo, si accordò o si fuse talora all’insofferenza di molti uomini del clero settecentesco per la statica ed orgogliosa immobilità dei governi assoluti”, cfr. M. Berengo, La società veneta…, pp. 229-231.

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re un più diffuso fenomeno culturale e religioso, di cui molti parroci erano espressione, e che non solo si opponeva decisamente alle tradizionali ma-nifestazioni di giubilo nei confronti del culto dei santi, ma mirava pure a riformarne gli aspetti più deleteri, imponendo una religiosità decisamente incanalata nell’alveo della parrocchia.In questo senso, dunque, il clima culturale e politico entro cui si inserì la riforma delle festività religiose, può definirsi sostanzialmente omogeneo ed ostile al mondo consuetudinario che manifestava, soprattutto nelle campa-gne, una pervicace resistenza ad essere riformulato e rinnovato alla luce di codici culturali e ideologici esterni.Sono perciò ben comprensibili i giudizi sferzanti rilasciati da molti parro-ci nelle loro descrizioni verso un fenomeno devozionale che l’inchiesta del 1772-73 rivela essere diffuso in quasi tutte le realtà dello stato di Terraferma.Giacomo Antonio Rodari, parroco di Paspardo nel Bresciano non ha esitazio-ni ad infierire sull’atteggiamento dei suoi parrocchiani nei confronti delle feste religiose da essi osservate:

in questa mia parrochia oltre le feste di ecclesiastico romano precetto si osserva-no, o per dir mellio si strepazzano, ancor le seguenti colla sospensione de gior-nalieri lavorieri in questo modo: la comunità fa cantare la prima messa a bon mattino, dopo la quale per non lasciar l’anime prive affatto di pane in festa io vi ho introdotto almen mez’ora di cattechismo, in generale uomini e donne e dopo questo si celebrano da reverendi capellani le loro messe, e sulla sera si dice il ve-spro senza canto ed un terzetto di rosario. Il restante del giorno sel passano chi in giochi, chi in bettole, chi in amori, e chi in viaggi qua e là per li loro familliari interessi, e vi sono molti che vengono a far una visita alla chiesa93.

Una commistione evidente tra sacro e profano, che suscitava l’indi-gnazione del parroco, ma che l’inchiesta rivela comunque essere un atteggiamento assai diffuso94.

93 Cfr. Il culto dei santi e le feste popolari…, p. 81.94 Martine Segalen osserva come sia innegabile “che le feste presentino una commistione di elementi e che in esse l’aspetto sacro e sacralizzante sia sempre associato a quello del diver-timento. In realtà rito e festa si compenetrano, senza tuttavia identificarsi completamente: sono campi che si intersecano, caratterizzati dalla definzione spazio temporale”. Inoltre la studiosa riporta la definzione di festa enunciata da François-André Isambert. Una definizione complessa che mette in evidenza il carattere simbolico della festa e spiega, in una certa misu-ra, la difficoltà insita in ogni tentativo di descrizione di un evento che raccoglie in sé aspetti apparentemente contraddittori: “La festa è in primo luogo e incontestabilmente un atto col-lettivo, caratteristica che è d’obbligo evidenziare. La festa si circonda di rappresentazioni, di immagini materiali o mentali, che però fungono da accompagnamento della sua componente attiva. La stessa cosa si può dire dei diversi oggetti materiali, arredi sacri, cibarie che servono a inscenare la festa. In secondo luogo la festa è un’attività, se non totale, almeno complessa,

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L’irruzione del privato

Superstizione e profanazione sono due termini che sembrano contraddittoria-mente avvolgersi in talune descrizioni per connotare negativamente la reli-giosità popolare95.In realtà la festa popolare e contadina costituiva evidentemente, per il mon-do giovanile, pure l’occasione di manifestare non tanto e non solo la propria esuberanza96, ma anche la possibiltà concreta di applicare quelle forme di derisione e di controllo che costituivano alcuni degli aspetti più significativa della vita contadina e popolare.Pratiche sociali collegate al mondo dei celibi e a quello degli sposati si collo-cavano infatti nell’ambito della vita comunitaria e delle sue festività religio-se, coniugandosi inestricabillmente con i rituali devozionali.97

poichè mette in gioco diversi registri della vita sociale. Da questo punto di vista la nozione di festa travalica la nozione di rito e persino quella di cerimonia, sequenza di riti. Infine, l’a-zione rituale è simbolica, nel senso che evoca un essere, un avvenimento, una collettività ... La proprietà specifica della festa è la simbolizzazione. Il carattere simbolico implica un’altra caratteristica, che tuttavia, del simbolo, costituisce soltanto un aspetto: affinchè il simbolo sia riconoscibile, occorre che esso sia relativamente fisso. La festa riveste delle forme rituali, obbligatorie, senza che il rito vi assuma necessariamente una valenza religiosa o il carattere vincolante di un valore morale”, cfr. M. Segalen, Riti e rituali contemporanei, Bologna 2002 (Pa-ris 1998), p. 84.95 Diversi gli esempi. A Venzone (Friuli) il parroco si sofferma sulla festa del patrono della chiesa, divenuta, su istanza della comunità, di precetto, nonostante la sua opposizione. Una festa che “non ha partorito sennon cento e mille guai e che l’anniversario ben può dirsi di più e più peccati”. E sulla scia dell’indignazione non si perita di descrivere le feste popolari osservate in parrocchia. A San Odorico (Friuli) l’abbandono dei lavori pesanti nei giorni fe-stivi (festucce) è frutto del “pensamento villico e forsi superstizioso”. A Zugliano, sempre nel Friuli, sono i giovani ad essere additati negativamente dal parroco. Alcune feste “sì puono dire più tosto feste delli morosi e morose e poco giova che il paroco si affatichi per impedire in certuni queste circostanze”, cfr. rispettivamente in Il culto dei santi e le feste popolari…, pp. 285, 328, 237.96 È interessante l’episodio segnalato da G. Dellai nel suo studio su due comunità vicentine. Nel 1750. è la stessa comunità di Schiavon ad intervenire presso il parroco per ovviare a certi comportamenti scandalosi che avvenivano nel corso delle processioni festive, al riparo del campanile del villaggio: “Per levare il grave scandalo che porta in conseguenza il necessario incontro degli uomini con le donne nel giro che si fa con le processioni per la nostra strada in faccia alla chiesa parrocchiale”, gli uomini della comunità supplicavano il parroco di “per-mettere il giro di dette processioni per la terra detta il Castellaro, che è fondo del benefizio di detta chiesa...obbligandosi all’incontro dal canto loro li suddetti governatori di assicurare le due parti del campanile verso il giro di dette processioni sopra il detto Castellaro con cancelli o grate per il dovuto riguardo e buona risserva”, cfr. G. Dellai, Schiavon e Longa…, p. 127.97 Una commistione frequentemente segnalata dai parroci è la frequentazione di osterie e bettole da parte dei contadini (cfr. un esempio a p. 235). In questa critica i parroci incontra-vano tenaci alleati nel notabilato locale. Un esempio interessante è registrato nel 1764 nella piccola comunità vicentina di Torreselle. Era allora giunta notizia ai governatori locali che

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Riti di rivelazione, riti di derisione, veglie98, opposizioni alle intrusioni esterne: sono tutte pratiche sociali intimamente collegate alle festività religose. È nella seconda metà del Settecento che esse incontreranno una forte oppo-sizione sia da parte delle autorità ecclesiastiche che da parte di quelle seco-lari99. Queste ultime, pur non intervenendo direttamente contro lo charivari100 o altre pratiche di derisione e di controllo, hanno ormai affermato nel cor-so del Settecento una dimensione della giustizia penale più severa sia nelle procedure che nelle pene101. È attraverso gli interventi di una nuova giustizia punitiva che i riti di derisione, che molto spesso (di fronte ad una maggiore insofferenza) sfociano nella violenza, emergono visibilmente rappresentan-dosi agli occhi dello storico in tutta la loro dimensione etnografica102.

“certe persone estere siano per venire ad abitare in questo comune, con deliberata intenzione di poner in essere un’osteria. la qual osteria vien considerata non solo superflua in questo co-mune, per non esservi strade maestre per bisogno de’ passagieri, ma bensì per questa divenir occasione prossima d’innumerabili iniquità e sceleragini e ricovero di gente infesta, con evi-dente pericolo che siano per accadere oltre li infiniti mali anche più d’un omicidio, come s’ha purtroppo havuto l’esempio nel tempo andato, quando fu in essere detta ostaria”. I capifami-glia deliberarono così di opporsi a tale iniziativa, cfr. per l’episodio C. Povolo, Valdilonte..., p. 8.98 Sulle veglie (o filò) e il mondo giovanile cfr. il saggio di Hans Medick, Village spinning bees: sexual culture and free time among rural youth in early modern Germany, in Interest and emotion. Es-says on the study of family and kinship, Cambridge 1984, pp. 317-339. Medick nota a conclusione della sua ricerca come lavoro, tempo libero e sociabilità fossero strettamente intersecati nel Settecento, non diversamente dalla cultura e dalla moralità, con l’economia. Difficile scindere ciascun aspetto dall’altro, così come non è consigliabile alcuna idealizzazione di quel mondo: “Instead of a romanticization and idealization of the past, one should pause to consider that sensuality boisterousness, and serenity in popular cultural life always went togheter wuth a rigorous and violent social-moral control and – what is perhaps more important – with per-manent insecurity of life and with want”, (p. 336). Sulle veglie cfr. inoltre J. L. Flandrin, Amori contadini…, pp. 97-100. Con l’avvento del folklore il mondo contadino viene idealizzato e mi-tizzato. Ma in un certo senso la stessa riforma del 1772-1787, indicando negativamente nelle festività religiose sia il momento ludico che quello della superstizione religiosa, svolgeva una prima (strumentale) decontestualizzazione della società rurale rispetto alla sua cultura e ai suoi legami con l’economia.99 E, come vedremo, anche da parte di un certo notabilato locale, pp. 246-250.100 Charivari o mattinate, tramite cui i gruppi giovanili, con manifestazioni chiassose e de-risorie, colpivano i matrimoni tra vedovi oppure situazioni moralmente disapprovate dalla comunità. La bibliografia è amplissima; mi limito a ricordare qui N. Schindler, I tutori del disor-dine: rituali della cultura giovanile agli inizi dell’età moderna, in Storia dei giovani dall’antichità all’età moderna, a cura di G. Levi, J. Schmitt, Bari 1994, pp. 316-317.101 Cfr. per alcune osservazioni sul rapporto tra giustizia pubblica e riti sacrificali che si svolgevano in chiesa, Bossy, Dalla comunità..., p. 177.102 Per quanto concerne la Repubblica di Venezia cfr. L’amministrazione della giustizia pena-le nella Repubblica di Venezia, voll. 2, a cura di G. Chiodi e C. Povolo, Verona 2004; C. Povolo, Dall’ordine della pace all’ordine pubblico. Uno sguardo da Venezia e il suo stato territoriale (secoli XVI-

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Ma i riti collegati al mondo giovanile incontrano soprattutto una forte oppo-sizione di fondo proprio nell’emergere di quella dimensione del privato che Daniel Fabre ha individuato come antagonista principale della consuetudi-ne. Una borghesia possidente, rivendicando “un’assenza di trasparenza nella vita privata” è ora incline denunciare all’autorità pubblica ogni attentato, ancorchè rituale, alla propria sfera familiare e personale103.L’avversario più determinato dei gruppi giovanili e delle intemperanze pro-venienti dai riti da loro praticati è però, nella seconda metà del Settecento lo stesso curato, che si erge a difesa della quiete pubblica e familiare, additando negativamente i disordini giovanili104.Sono molti gli esempi che emergono dalla realtà sociale settecentesca di seguito ai conflitti innescati da tensioni che si muovono sul piano cultura-le, prima ancora che religioso o di ordine pubblico. Di certo, è nella sfera giudiziaria che il tema della festa assume quelle sue valenze dirompenti e conflittuali. L’azione penale svela così come lo scontro serrato tra parroco e gruppi giovanili possa clamorosamente debordare dai confini parrocchiali sino a coinvolgere le supreme magistrature della città lagunare.Nella parrocchia di Rovetta, situata in Val Seriana (Bergamo), sul finire del secolo il prevosto locale, don Alessandro Ferrari, presenta una dettagliata denuncia contro il giovane fabbro del paese Giuseppe Pedrocchi. L’uomo è accusato, senza mezzi termini, di essere

perturbatore della quiete degli abitanti di Rovetta, perché insidiatore della inno-cente onestà, adultero, defloratore e reo di tentato aborto violente, armigero e scorretto calunniatore, irreligioso, disturbatore delle sacre funzioni e spargitor di massime contrarie al buon costume.

È quanto basta per indurre il Consiglio dei dieci ad avviare un processo, de-legandolo al tribunale di Bergamo con l’autorità di poter procedere con il proprio rito inquisitorio.Le numerose deposizioni di testimoni, raccolte nel corso dell’inchiesta avviata

XVIII), in Processo e difesa penale in età moderna. Venezia e il suo stato territoriale, a cura di C. Povolo, Bologna 2007, pp. 15-107. Dalla fine del Seicento, ad esempio, tutti i reati di omicidio e ferimento sono sottoposti al diretto controllo delle autorità centrali. Più in generale sulla nuova dimensione di giustizia punitiva cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino 1976 (Pa-ris 1975). Per una descrizione etnografica dei conflitti giovanili cfr. C. Povolo, Confini violati. Rappresentazioni processuali dei conflitti giovanili nel mondo rurale veneto dell’Ottocento, in La vite e il vino Storia e diritto, a cura di M. Da Passano, A. Mattone, F. Mele, P. F. Simbula, Roma 2000, vol. II, pp. 1071-1111.103 D. Fabre, Famiglie. Il privato contro la consuetudine, in La vita privata dal Rinascimento all’Illu-minismo, a cura di P. Ariès e G. Duby, Roma-Bari 1987 (Paris 1986), pp. 447-451. 104 Cfr. D. Fabre, Famiglie…, pp. 452-455.

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per convalidare le pesanti accuse rivolte al giovane dal prevosto del villaggio, si dimostrano ben presto contraddittorie e rivelano semmai una certa ostilità nei confronti di un atteggiamento ribelle ed insofferente della nuova dimen-sione della vita privata che sembra prospettarsi ormai come prevalente.Questo atteggiamento si manifesta in particolare in alcune ritualità religio-se, in cui una diversa percezione del rapporto tra sfera pubblica e comporta-mento individuale, ritiene ormai intollerabile ogni intromissione esuberan-te e goliardica.Giuseppe Pedrocchi aveva ripetutamente dimostrato di non voler attenersi al nuovo stato delle cose. Ma alcune accuse rivolte contro di lui sono di estre-mo interesse nel connotare indirettamente il rapporto conflittuale che si era innescato tra i gruppi giovanili e il curato del villaggio:

qualvolta costui si riduceva alla chiesa riesciva di scandalo e di distrazione agli abitanti, stando sempre rivolto alle femmine e...caporione di alcuni altri giovina-stri, contro le sinodali, contro un decreto relativo vescovile, da alcuni anni publi-cato a Rovetta, e contro l’espresso sentimento del signor prevosto, approfittando della sua allontananza, volle introdursi nella processione stessa, stravestito ed in figura di manigoldo, con asta alla mano e con una lanterna nella sua cima105.

I gruppi giovanili di Rovetta avevano evidentemente tentato di ripristinare un’antichissima usanza che prevedeva un’incursione di uomini (manigoldi) armati e travestiti nella processione del venerdì santo.Cosa non gradita al prevosto del villaggio, che aveva pensato bene di togliere di mezzo un personaggio troppo esuberante ed insofferente delle nuove re-gole, ricorrendo alle vie della giustizia.Una reazione assai diffusa, quella del prevosto di Rovetta, e che si alimentava di una nuova dimensione della giustizia penale, ormai affermatasi sul finire del Settecento. Ma, a ben guardare, l’esuberante comportamento di Giusep-pe Pedrocchi, l’uomo che guardava le donne, attesta comunque indirettamente la vitalità di alcune tradizionali ritualità collegate alle festività e al ruolo dei gruppi giovanili.

Nella nuova dimensione della giustizia penale

La grande inchiesta del 1772-73 si colloca dunque in un contesto culturale e politico da cui emerge una forte opposizione nei confronti della consuetu-

105 Il processo è in A.S.V., Consiglio dei dieci, Processi criminali, Bergamo, busta 55, anno 1794. Il Pedrocchi venne arrestato, ma infine il tribunale sentenziò di non procedere nei suoi con-fronti.

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dine e dei riti tradizionalmente celebrati per connotarne i valori e le dimen-sioni simboliche.Le osservazioni critiche dei parroci nei confronti delle festività religiose popolari riflettono, nell’insieme, una percezione che possiamo definire più sensibile alla dimensione privata e individuale sia della vita religiosa che della sfera familiare.Tale dimensione, con ogni probabilità, prese forma e si impose in concomi-tanza con il fenomeno poco sopra ricordato: l’affermarsi, cioè, di una giusti-zia penale provvista di uno spiccato timbro punitivo, non più volta a ristabi-lire la pace, quanto piuttosto ad imporre un nuovo concetto di ordine sociale106.Laddove infatti, come in Carnia, nel corso del Settecento, la documentazione scritta emerge dal profondo sostrato consuetudinario, delineando in manie-ra più dettagliata taluni aspetti della vita delle comunità e delle parrocchie, nel cui ambito, come si è visto, il culto dei santi e le festività religiose sem-brano essere ancora ben radicati, si può cogliere come si stia ormai affer-mando una diversa percezione di ordine e di devianza.A Sutrio e Paluzza, piccoli ma vivaci villaggi della Carnia, in cui i parroci segnalano la presenza di numerose festività religiose107, i provvedimenti as-sunti dalle due comunità (e verbalizzati da un notaio) suggeriscono come già a partire dalla prima metà del Settecento si delinei un clima sociale volto a contenere, se non a reprimere, ogni comportamento individuale o collettivo ritenuto ostile o pericoloso.Se nel 1735 e nel 1748 era stato il timore di possibili incendi a spingere la comunità di Sutrio ad intervenire contro i gruppi giovanili del villaggio che intendevano celebrare il carnevale con “festa publica”108, nel 1761, ad essere oggetto dell’attenzione dei suoi rappresentanti fu invece

106 Come è stato notato da Bruce Lenman e Geoffry Parker, che diversi anni orsono traccia-rono le linee di fondo del passaggio da una forma di community law ad una definita state law, “by the middle of the eignteenth century...the theory and practice of criminal law in western Europe were very different from the situation three century before. Above all, there had been a decisive shift from the private to the public domain”, cfr. B. Lenman – G. Parker, The State, the Community and the Criminal Law in Early Modern Europe since 1500, in Crime and the law. The Social History of Crime in Western Europe since 1500, a cura di V.A.C. Gatrell, B. Lenman and G. Parker, London 1980, p. 42.107 Cfr. Il culto dei santi e le feste popolari..., pp. 297, 300.108 Archivio di stato di Udine (=A.S.UD.), Archivio Gortani, documenti, busta 19. In data 30 gennaio 1735 si delibera che “havendo la gioventù di questa villa accordato il carnevalle con resolution di far festa publica, commemori hormai del castigo ricevuto già due anni e mezo dell’incendio successo alla medema villa, e ciò ad onta del reverendissimo curato et dell’ho-norando comune, perciò fu convocata vicinia de more e passò parte a pieni voti che sia asso-lutamente impedita, la resolutione già presa, dalli huomini tutti del comun da doversi unire in ogni evento e portarsi tutti a far l’impedimento e non solo per questa volta, ma etiamdio in avenire e tanto in occasion di sagre che di carnevali. E così anco siano prohibite le mascare

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l’insolenza di certa gioventù che si fano lecito di praticare la sacristia della loro veneranda chiesa di San Odorico di Sutrio in tempo che li reverendi sacerdoti devono fare le loro preparationi per i divini offici, con loro grave disturbo. Per-ciò, per oviare l’inconveniente li signori meriga e giurati attuali, con ordine della publica vicinia, a pieni voti, sia noto e si fa intendere a cadauno, tanto minori che maggiori, che ogni qualvolta s’introdurano nella sacristia, senza interesse, per ivi far permanenza considerabile e pregiudiciale, incorrerano subito nella pena di numero uno oglio da esser applicato alla medesima veneranda chiesa, coll’in-combenza al meriga d’esser irremissibilmente da lui scossa...etiam coi mezzi di rigorosa giustizia...109

Episodi che rivelano le prevedibili tensioni esistenti tra i gruppi di celibi e gli anziani del villaggio, ma che, senza ombra di dubbio, si collocano in un nuo-vo clima sociale caratterizzato dalla percezione più severa con cui si guarda a taluni comportamenti individuali e collettivi110.

et ogni altro disordine”. Il 28 febbraio 1748 si infligge una pena ai guardiani del fuoco che non erano intervenuti ad impedire un festino che era stato organizzato contro le disposizioni della comunità, “con lumi et lanterne”.109 A.S.UD, Archivio Gortani, documenti, busta 19, 2 aprile 1761.110 Il nuovo stato delle cose è pure percettibile dall’emergere di una pratica sociale che si evidenzia nel corso del Settecento in molte realtà della Terraferma: la tendenza, cioè, da parte di persone, coinvolte a diverso titolo in vicende che possono essere sottoposte ad un’indagine giudiziaria, di recarsi da un notaio per dettare una dichiarazione che appare come una vera e propria testimonianza preventivamente rilasciata per chiarire la propria posizione rispetto al procedimento penale che si è avviato o che sta per essere avviato dal tribunale competen-te. Un esempio interessante si registra nel 1719 ad Arta, comunità della Carnia: “Costituito presso di me nodaro et testimoni sudetti messer Nicolò Capellano, uomo di questa villa d’Ar-ta, qual abbia sentuto a gridare D. Giovan Pietro quondam Zuanne Molinari coll’eggregio D. Giorgio Rumpil certe parole di romore con alta voce, et tra l’altre disse che il Molinari che ello è nato nella villa d’Arta et non l’eggregio Rumpil et non altramente...Così parimente il medesimo Capellano, insieme con messer Nicolò Lena, altro uomo di questo loco, et Antonio Mecchin di Clauzeit, ora abitante qui in Arta, quali tutti e tre dicono et attestano che abbiano sentuto parimente a gridare tra lo sudetto D. Giovan Pietro Molinari contro lo predetto eg-gregio Rumpil et Zuane Molinari nepote del detto Giovan Pietro, che Zuane abbia detto che se Giovan Pietro di lui zio transiterà questa sera per il cortivo per andar a casa, che esso Zuane gli vuol trahere. Così parimente dicono che abbiano sentito a proferire dall’eggregio Rumpil che ello vuol andare a Tolmezo quando a lui gli piacerà et non quando comanda il Molinari...Parimente constituta appresso di me nodaro et testimoni sudetti D. Lucia figliola di messer Nicolò Capellano sudetto constituente, qual dice et attesta che D. Maria, madre del detto D. Zuane gli abbia detto a detta constituente che procuri di allontanar D. Giovan Pietro sudetto da D. Zuane figliolo della predetta D. Maria, dicendo che suo figlio Zuane ha la pistola sotto l’a-bitto; et così parimente dice che abbia sentuto che l’eggregio Rumpil habbia deto che Giovan Pietro, avanti abbia il pagamento da Zuane sudetto nepote, anderà avanti nel cemiterio della veneranda chiesa d’Arta. Et così dice et attesta d’aver parimente visto l’eggregio Rumpil che lo medesimo eggregio haveva sotto l’abitto qualche cosa et che ello insieme il predetto Zuane, ad alta voce, ambi inusitavano con minaccie il predetto Giovan Pietro fuori dalla ostaria in la strada...”, cfr. A.S.UD., Archivio notarile, busta 76, 4 maggio 1719. Per molti altri esempi concer-

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Ad Avosacco, nel 1731, è una giovane donna, proveniente da un altro villaggio della Carnia a preoccupare i rappresentanti della comunità: il suo compor-tamento scandaloso è infatti additato come pericoloso e di cattivo esempio e vengono perciò assunti provvedimenti severi contro chiunque l’ospiterà111.Un atteggiamento di insofferenza verso chi può turbare la tranquillità della comunità si coniuga con il timore di possibili incidenti e disordini.Si tratta indubbiamente di un nuovo clima sociale, che nella seconda metà del Settecento vedrà sia un certo notabilato locale che le autorità della Re-pubblica muoversi compatti contro i cosiddetti malviventi: persone, cioè, che, per lo più nullafacenti, assumono atteggiamenti ostili nei confonti del quieto vivere delle comunità112.A Paluzza, negli anni ’70 del Settecento sono numerose le iniziative intra-prese dalla comunità contro alcuni giovani che dimostrano insofferenza e

nenti il vicentino cfr. M. S. Grandi Varsori, L’esercizio della professione notarile a Lisiera tra ’600 e ’700, in Lisiera. Immagini, documenti e problemi per la storia e cultura di una comunità veneta, a cura di C. Povolo, Vicenza 1981, pp. 698-700. Come è stato notato da Lenman e Parker “steadily...popular demand and government response led to changes in the practice of criminal justice. As it did so, and as the vigour of the law was experienced by an increasing number of people, a greater degree of prudence in personal behaviour became advisable...”, cfr. Lenman-Parker, The State..., p. 40.111 A.S.UD, Archivio Gortani, documenti, busta 3, 27 marzo 1731: la donna, una certa Giacoma, nativa di Forni, andava questuando per il paese ed era stata ospitata da più di un uomo nella propria casa. “Fatti perciò palesi e quasi publici li cattivi e scandalosi portamenti d’essa don-na, hanno gli homini dell’honorando commune... deliberato ripararsi delle disgrazie che detta donna colla sudetta sua pratica e mal esempio gli può causare”. Il consiglio della comunità decideva così di infliggere una pena pecuniaria a chiunque l’avesse ospitata. E la decisione avrebbe dovuto essere notificata dal notaio della comunità a tutte le famiglie di Avosacco.112 A Sutrio nel 1772 si accenna esplicitamente ai sovrani comandi rivolti ai comuni perché denuncino i malviventi. La comunità ha segnalato al competente tribunale di Tolmezzo li pravi costumi e mala vita” di Pietro Dorotea, “senza veder però alcun effetto di giustizia”. Poichè il giovane era giunto “geri nella villa stessa con franchezza et havendo fatta l’espressione di dar fuoco alla villa se il commune non gli contribuiva certa summa di soldo, fu destramente te-nuto in custodia a cauto riparo d’un male sì luttuoso minacciato”. Il consiglio della comunità, “presa in esame la delicatezza della materia presente, oltre gli altri delitti commessi”. decide-va di informare nuovamente il tribunale di Tolmezzo, ma qualora questo non fosse intervenu-to, si autorizzava il meriga “ad implorar il brazzo di Sua Eccellenza signor Luogotenente”, cfr. A.S.UD, Archivio Gortani, documenti, busta 19, 26 febbraio 1772. Come è stato notato da Lenman e Parker il fenomeno è avvertibile in tutta Europa già a partire dal Settecento: “Nevertheless the underlying trend towards punishing criminals in court is clear: there was less reluctance to prosecute. Prosecution was encoureged not merely by the growing polarization of society into a rich minority who controlled the courts and a poor proletariat who came before them. There were other groups besides landowners who demanded a more punitive system...An-other powerfull group which repeatedly called for more deterrents against crime were the commercial classes: merchants, shopkeepers and industrialists...”, cfr. Lenman-Parker, The State…, pp. 37-38.

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ribellione nei confronti dell’autorità familiare e minacciano la tranquillità della comunità.Nel luglio del 1772, la comunità aveva sollecitato i Sindaci Inquisitori in Ter-raferma, perché procedessero contro Nicolò Englaro, additato come perico-loso malvivente. Il giovane era riuscito ad evitare l’arresto fuggendo in Ger-mania.Ma, con disappunto, gli uomini della comunità, il 31 maggio 1773 annotaro-no come il giovane, ritornato a Paluzza, non avesse dismesso le sue perico-lose inclinazioni:

rimpatriato essendo questo e continuando nel suo pessimo sistema di vivere, con mal esempio e scandalo universale, inveindo ora contro l’uno, ora contra l’altro, non rispetta il padre, non conosce li doveri di marito, non sente amor per la famiglia, grida, minaccia e bastona, essendo ridotta intollerabile la di lui avanzata temerità, perché diretta a togliere la pace e la tranquillità alli propri abitanti, che temono di giorno e di notte della propria vita. E però fu a pieni votti terminato di ricorere all’autorità di Sua Eccellenza signor Luogotenente, vindice delle violenze e sopraffazioni, acciò in ordine ai suoi venerati proclami del quieto e pacifico vivere, degni passare a quei castighi che alla sua giustizia sarano ripu-tati opportuni contro la persona di detto Englaro e repristinare il comune nella bramata sua tranquillità113.

Nel 1775 è la volta di un altro giovane, Pietro Englaro, a preoccupare la co-munità. Le vicende che lo videro come protagonista rivelano come esistesse una stretta connessione tra la nuova concezione di ordine sociale e la diversa percezione con cui, in questi stessi anni, si guarda alle festività religiose. Pietro Englaro era stato ripetutamente, ma inutilmente, sollecitato dai nota-bili della comunità a cambiare il suo stile di vita:

Doppo che nell’anno 1754 seguì nel giorno della sagra di San Giacomo in publico festino un omicidio, documentato il commune da un tale spetacolo per la morte di uno e di più feriti, non si trova esempio che il commune avesse permesso in tali giorni di sagre e mercati che alcuno si fosse fatto lecito di fare publici festini nelle respettive case. Il primo ed ultimo che si fecce lecito ad alterare una tale conveniente pratica fu per appunto il detto Englaro, che nel 1770, a questa sagra detta di piazza, si arogò la libertà di fare publico festino in casa sua, che portati li meriga e giurati a darli pena, ebbe corragio d’ingiuriarli con parole, come si vede dal di lui constituto 11 settembre dell’anno stesso. Ma questo non basta, perché anche in quest’anno, alla fiera di San Giacomo, senza abbadare al diviet-

113 A.S.UD, Archivio Gortani, documenti, busta 12, alla data. Sempre a Paluzza, il 19 novembre 1773, la comunità procede contro Zuanne Englaro per la sua “avanzata temerità...diretta a togliere la pace e la tranquillità alli propri abitanti, che temono di giorno e di notte fino alla propria vita”, cfr. Ibidem, alla data.

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to del commune, fecce publico festino e portati li meriga e giurati a darli pena, oltre che li maltrattò con parole, si aventò contro di essi, sichè furono costretti a dover partire, per non sogiacere a qualche inconveniente. Finalmente, poi, li tre corrente, nella sagra di piazza, avendo fatto altro publico festino, poco mancò che non seguisse un criminale, che pose in...costernazione tutto il popolo, come da fede di questo reverendo paroco114.

Di lì a due anni, la stessa comunità di Paluzza delibera che “a senso de’ pri-vileggi di questa provincia [la Carnia], ogni forestiero che fosse venuto ad abitare nel villaggio avrebbe dovuto rilasciare apposita fideiussione de bene vivendo115.Si tratta di iniziative che denotano come una nuova sfera del privato si stesse delineando in sintonia con una dimensione pubblica della giustizia penale che aveva sensibilmente indebolito la tradizionale concezione della giusti-zia, incentrata prevalentemente su accordi ed atti di pace stabiliti nell’am-bito della comunità.L’estensione della nuova giustizia punitiva e della diversa concezione di ordi-ne pubblico è del resto attestata dalle frequentissime iniziative assunte dalle comunità nel corso del Settecento per contenere le forti spese processuali in cui esse avrebbero potuto eventualmente incorrere di seguito al verificarsi di crimini e disordini.A Sutrio nel febbraio del 1763 il consiglio della comunità discusse animata-mente se si dovesse comunicare al competente tribunale di Tolmezzo l’im-provvisa morte di un abitante del villaggio. Di estremo interesse, la delibera riflette significativamente quale fosse la percezione locale della nuova giu-stizia punitiva:

114 A.S.UD, Archivio Gortani, documenti, busta 12, 9 settembre 1775. La delibera della comunità mise in rilievo come le iniziative dell’Englaro durante le festività religiose si inserissero nella sua più complessiva personalità di malvivente: “A tali disordini e perché poi, inoltre, continua egli con prepotenza a far...risse ed esser di universale scandalo per il suo contegno libertino e disonesto e continuando pure a dar ricetto in casa sua a persone sfacendate e vagabon-de, che girano di giorno e di notte armate e delle quali persone si ha giusto fondamento di dubitare che possino esser quegli che comettono anche delli furti, de quali pur troppo ne vanno seguendo in queste ville, s’implora da Sua Eccellenza signor Luogotenente, come capo di provincia, a passare verso detto Englaro a quelle correzioni che dalla sua giustizia sarano credute opportune, ad esempio degli altri e per la tranquillità di questi popoli”. Molti di que-sti malviventi, come si può constatare, sono giovani e sposati, ma, con il loro comportamento, sembrano porsi deliberatamente in una fascia liminare, al di fuori del gruppo degli sposati. La dura reazione nei loro confronti è dettata, molto probabilmente, dal loro atteggiamento di rifiuto nei confronti dello stile di vita consono agli uomini sposati. All’incontrario, era molto più complesso contrastare i gruppi giovanili, i quali, come si è notato, assumevano spesso atteggiamenti e comportamenti ritenuti potenzialmente pericolosi ed ostili (cfr. il caso di Sutrio, poco sopra ricordato) da parte di un certo settore della comunità.115 A.S.UD, Archivio Gortani, documenti, busta 12, 9 settembre 1775.

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Finalmente, a contezza dell’onorando comune, che nel caso fusse legge di dover dar di simili casi parte all’ufficio, per sottraer l’onorando comune da qual si sia spesa che li havesse potuto succedere per mancanza di dar parte, fu presa parte che li meriga e giurati havessero procurato che il signor Giovan Battista Vazani-no chirulgo, havesse fatta la visita al cadavere e poi havessero subito data notizia all’ufficio di Tolmezo di tal morte repentina, prima che l’onorando comune, es-sendo legge come detto, non fusse statto dall’ufficio condanato116.

Se la nuova dimensione del penale, come già si è visto, trova riscontri signifi-cativi anche nell’ambito di contesti sociali che, come nel caso delle comunità della Carnia, possono essere considerati, tutto sommato, periferici, appare evidente come essa si riflettesse contraddittoriamente sulle stesse dinami-che che caratterizzavano i rapporti individuali e comunitari.Nel 1771 la comunità di Sutrio è sollecita ad intervenire contro due donne del villaggio che avrebbero potuto creare non pochi problemi di fronte all’i-nevitabile intervento della giustizia esterna:

passò a pieni voti di levar e far presentare un protesto a Cattarina relicta quon-dam Francesco Vezanino e figlia, che se succederà qualche inconveniente o cri-minale per loro colpa, esse avrano da rimborsare il commune di tutti li danni e spese.

Due potenziali infanticide potevano evidentemente costituire una minaccia per la comunità, ma la tradizionale concezione della giustizia sembra pure essere messa in discussione dal suo stesso interno; da chi è così poco incline ad accogliere possibili mediazioni e pattuizioni. È sempre a Sutrio, il 12 gen-naio 1769, che il notaio della comunità deve infatti annotare:

116 A.S.UD, Archivio Gortani, documenti, busta 19, 4 febbraio 1763. Nel 1766, dopo che il meriga ha denunciato al tribunale di Tolmezzo “le sassate butate nelle fenestre e sbare dela casa ove habita Domenico Chitassi”, delibera in merito all’imminente cavalcata del giudice inviato dal-lo stesso tribunale: “sopra che riflettito e balotato de more, passò a pieno di non contradire il cavalcare, acciò siano esaminati i fati. Col pagare per hora le spese il commune”. La comunità era infatti tenuta ad affrontare le spese processuali, salvo poi il suo diritto di rivalersi su colui che fosse stato individuato come colpevole del fatto. Il tribunale di Tolmezzo aveva giurisdi-zione penale su quasi tutto il territorio della Carnia. Il rappresentante veneziano, inviato ad Udine con la qualifica di Luogotenente, aveva la possibilità di interferire con diversi strumenti giudiziari (tra cui gli appelli) nei confronti delle numerose giurisdizioni della Patria del Friuli. Inoltre, se provvisto dell’autorità delegata dal Consiglio dei dieci, giudicava con il proprio tribunale ogni caso penale che gli fosse stato indirizzato dal supremo tribunale veneziano. Per il Friuli e la Carnia rinvio ai numerosi studi di Furio Bianco. Cfr. in particolare Comunità di Carnia, Udine 1995 e Contadini e popolo tra conservazione e rivolta. Ai confini orientali della Repub-blica di Venezia tra ’400 e ’800. Saggi di storia sociale, Udine 2002. Ed inoltre, per la stessa Carnia, F. Bianco, Una doppia identità: cramars e contadini nella montagna carnica (secoli XVI-XVIII), in Cramars. L’emigrazione dalla montagna carnica in età moderna. Secoli XVI-XVIII, a cura di F. Bianco e D. Molfetta, Udine 1992.

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Comparve su questa vicinia il reverendo signor don Osvaldo Selenato, qual instò a dover l’onorando commune denonciar alla giustizia, nel termine di giorni tre, li furti che sono stati fatti nella sua stalla d’una capra ed un castrone, acciò siano esaminati li fatti, altrimenti recusando il commune denonziare, farà ello stesso le sue incombenze. Il che balotato de more, passò a pieno di dar le denonzie, e ciò a spese del commune117.

In questi ultimi decenni del Settecento ogni occasione che avesse potuto creare possibili problemi di ordine pubblico era dunque percepita nell’ambito stesso delle comunità rurali come potenzialmente pericolosa, soprattutto da parte di un certo notabilato locale, così poco incline ormai ad accettare la presenza di elementi devianti e non in sintonia con la nuova dimensione del privato che si stava affermando.La riforma delle festività religiose, avviata dal Senato veneziano, incontrava dunque, per certi versi, un terreno fertile nell’ambito stesso delle comunità rurali, soprattutto da parte di quei ceti di possidenti e di commercianti non più inclini ad accettare la tradizionale cultura comunitaria incentrata sulle pattuizioni e i compromessi118.

Il culto dei santi e i miracoli

Un altro, rilevante, aspetto, che l’inchiesta del 1772-73 contribuisce a far emergere è l’amplissimo e, in un certo senso, variopinto, culto dei santi dif-fuso in tutte le diocesi interpellate dalle autorità veneziane.Una casistica di grande rilievo, che molto potrà offrire allo storico interessa-to ad inoltrarsi nel personalissimo calendario liturgico popolare.I dati dell’inchiesta vennero immediatamente sottolineati dal consultore Na-tale Dalle Laste e confermarono come le festività popolari si muovessero in uno spettro assai ampio, che andava dal culto di santi più vicini all’ortodos-sia ecclesiastica (festività insignite spesso della stessa qualifica di precetto) a quello, assai più lontano, che traeva origine dall’immaginario popolare119.

117 Cfr., per entrambe le vicende, A.S.UD, Archivio Gortani, documenti, busta 19, 3 dicembre 1771 e 12 gennaio 1768.118 La legge, assunta dal Senato veneziano il 13 marzo 1782, contro i cosiddetti malviventi, che “pravi nel costume e dediti al vizio mal soffrono di procacciarsi il giornaliero alimento colla propria industria”, era dunque l’estrema conseguenza di questo nuovo clima sociale. Con due soli testimoni e l’attestazione del parroco costoro avrebbero potuto essere inviati ra-pidamente ai lavori forzati in Levante, cfr. su questa legge e il fenomeno dei malviventi F. Me-neghetti Casarin, Il vagabondaggio nel Dominio veneto alla fine del diciottesimo secolo, Milano 1985.119 Il Dalle Laste, pur inframmettendo le sue personali convinzioni, riassunse assai bene alcuni risultati dell’inchiesta. A questo consulto rinvio per la specifica diffusione del culto dei

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Da Sant’Antonio Abate, San Rocco e il culto della Vergine, sino a giungere al mitico San Difendente, per non accennare che ad alcuni nomi tra i più diffusi, il vasto florilegio dei santi, caratterizzato da rituali devozionali, pro-cessioni, venerazione di reliquie e quanto altro, rinvia al tema del miracolo e della grazia.Un tema di indubbio interesse, che ha suscitato l’attenzione di storici e an-tropologi e che, proprio nel corso del Settecento, non diversamente da altri fenomeni culturali, registra una significativa diversificazione nella percezio-ne da parte della cultura dominante rispetto a quella subordinata.Come ha dimostrato Lorraine Daston, a partire dalla fine del Seicento si af-ferma una nuova concezione del miracolo, volta essenzialmente a dettare un criterio che fosse in grado di distinguere un miracolo vero da uno contraf-fatto. Si riteneva che le contraffazioni potessero provenire dalla superstizio-ne o da un’immaginazione troppo fervida. In entrambi i casi si temeva che tutto questo potesse avere forti implicazioni politiche e religiose sull’ordine sociale costituito.Non più considerati provvisti di una prova interna, immanente per così dire, anche i miracoli seguirono quel processo culturale più generale che inve-stì il rapporto tra fatti e prove. Se i fatti cominciarono ad essere percepiti alla luce di teorie che determinavano conseguentemente pure il concetto di prova, così, inoltre, i miracoli potevano essere accolti solo dopo il vaglio della dottrina. A determinare la validità del miracolo (fatto) stava comunque la sua non intenzionalità, che altrimenti poteva presupporre l’inganno o la finzione. Le inchieste condotte dai vescovi (e già stabilite con il Concilio di Trento) sui presunti miracoli dovevano evidentemente porre un argine alle superstizioni popolari120.Ovviamente le teorie dei teologi cattolici dovettero scontrarsi con la tenacia del mondo consuetudinario e con le pressioni esercitate dalla religiosità popo-

santi nelle varie diocesi , cfr. A.S.V., Consultori in iure, filza 265, 14 agosto 1773.120 Cfr. per tutto questo cfr. L. Daston, Marvelous facts and miraculous evidence in early modern Europe, in Questions of evidenze. Proof, practice and persuasion across the disciplines, Chicago 1994, pp. 243-274.

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lare121 che, come già si è notato, assegnava un ruolo centrale al culto dei santi e alla mediazione da loro esercitata tra il divino e la vita materiale122.

Onore e grazia

L’inchiesta del 1772-73 introduce pure direttamente al grande tema della grazia e a quello del concetto di onore ad essa collegato. In un saggio paradigmatico, dedicato alcuni anni orsono al tema dell’onore in Sicilia, Maria Pia Di Bella ha sottolineato le relazioni assai strette esistenti tra grazia, onore e miracoli. La grazia collettiva, così come l’onore collettivo, apparteneva alla famiglia ed era trasmessa da ciascuna generazione a quel-la successiva. L’intercessione di un miracolo, accompagnato da promesse e voti, creava un rapporto particolare con il santo protettore. Se il miracolo veniva concesso, colui o coloro che l’avevano invocato acquisivano prestigio ed onore. I numerosi santuari dislocati un po’ ovunque (con gli ex-voto che attestavano gli avvenuti miracoli) testimoniavano le virtù benefiche del san-to protettore.Riti devozionali, adorazione di reliquie, pellegrinaggi e processioni in onore del santo patrono o del santo benefattore erano tutti aspetti che manifesta-vano la fede della famiglia e della comunità nei suoi confronti, ma costitui-

121 Nella sua visita pastorale del 1687, il vicario episcopale vicentino ricordava perplesso il culto dedicato dalla popolazione della comunità collinare di Ignago a san Leonardo, cui era dedicato l’altare maggiore della chiesa parrocchiale: “Il cappellano di detta chiesa dispensa fili di ferro ad amalati che per devozione li ricevono, et si dice che ricuperata la salute, quale ricevuta ritornano il filo di ferro al santo”. Interrogato, il cappellano rispose: “Vengono assai infermi a questa chiesa alla veneratione di san Leonardo e dove hanno l’infermità legano un filo di ferro, et il ferro è benedetto da me”, cfr. L. A. Berlaffa, Itinerario di una comunità. Terra, uomini, istituzioni nella storia di Castelnovo e Ignago, Marano Vicentino 1998, p. 234.122 Questo tema è vastissimo e costituisce, a mio giudizio, lo sfondo culturale e simbolico entro cui si colloca la stessa inchiesta del 1772-73. In questa sede non si indicano se non alcu-ne suggestioni. Le pressioni esercitate dal basso di fronte ad un presunto miracolo si interse-cano con ideologie ed obbiettivi delle gerarchie ecclesiastiche, riformulandosi costantemente alla luce del contesto sociale e politico in cui la vicenda si svolge. Molti esempi in P. Vismara Chiappa, Miracoli settecenteschi in Lombardia tra istituzione ecclesiastica e religione popolare, Milano 1988. Per l’area oggetto dell’inchiesta cfr. Lo straordinario e il quotidiano. Ex voto, santuario, reli-gione popolare nel Bresciano, Brescia 1980. Ovviamente la bibliografia sul tema è amplissima. Ri-cordo qui il numero tematico di La ricerca folklorica, 29 (1994), dedicata a Miracoli e miracolati, a cura di Maria Pia Di Bella, con una serie di interventi sulla dimensione culturale del miracolo; cfr. inoltre Le feste, le terre, i giorni, a cura di A. Falassi, Milano 1988. Vasta è pure la bibliografia sui santuari. Ricordo il lavoro di G. Maccagnan, La Madonna dello spasimo di Cologna Veneta, Co-logna veneta 1995, con inserito il processo canonico istruito nel 1596 di seguito ad un evento prodigioso avvenuto nel 1595 e ai successivi miracoli atribuiti alla Vergine.

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vano pure, rispetto alle altre comunità, il segno della sua benevolenza e della sua generosità nel concedere i miracoli richiesti123.Il culto dei santi collegava il mondo materiale a quello spirituale e la grazia costituiva il segno visibile di un patto che si era realizzato e veniva mante-nuto in virtù dei voti stabiliti. Un patto che, evidentemente, poteva essere pure infranto, da entrambi i contraenti, se una grazia non veniva concessa, oppure un voto non veniva rispettato124.Il culto di determinati santi era associato alla memoria collettiva. Una me-moria, come abbiamo potuto constatare, quasi sempre indeterminata, ripo-sta nella testimonianza degli anziani, ma che, in virtù dei miracoli ottenuti, si riproponeva costantemente, accrescendo il prestigio del santo venerato.Il concetto di grazia rinvia dunque al passato e, in quanto tale, è incardinato nel diritto consuetudinario. Le festività religiose, pur veicolando tensioni giurisdizionali, conflitti giovanili e riti di rivelazione, attraverso la dimen-sione della grazia e il culto dei santi riproponevano quei valori ideali che sancivano la forza e la legittimità della consuetudine.

Dopo la riforma...

Con il primo gennaio 1788 le festività religiose vennero notevolmente ridot-te e regolamentate. Una sorta di omologazione delle consuetudini che, come è stato osservato, aveva il fine precipuo di realizzare una sostanziale forma di controllo nei confronti di un sistema giuridico che per sua natura era flessi-bile ed aperto125.

123 Come ha osservato John Bossy, il culto dei santi era più preventivo che di cura e l’aiu-to da loro concesso era più quello dell’amico che quello del potente (in questo senso i dati dell’inchiesta sono istruttivi), ma, “oltre che agli individui, i santi dovevano ovviamente la loro protezione anche alle collettività di cui erano patroni, ma non dobbiamo considerarli come semplici ostaggi delle rispettive clientele. Il santo avrebbe protetto la propria parroc-chia, confraternita, nazione, solo se ne avesse ricevuti i dovuti onori, onori che consistevano nel dimostrarsi una comunità autenticamente cristiana; per questo la festa del santo com-portava, oltre ai riti formali, uno sforzo da parte dell’intera comunità per superare se stessa sul piano della penitenza e della carità”, cfr. J. Bossy, L’occidente cristiano. 1400-1700, Torino 1990 (Oxford 1985), p. 87.124 Cfr. M. P. Di Bella, Name, blood and miracles: the claims to renown in traditional Sicily, in Honor and grace in anthropology, a cura di J. G. Peristiany e J. Pitt-Rivers, Cambridge 1992, pp. 151-165. È questa reciprocità stabilita tra il santo e i fedeli che spiega per lo più la resistenza, se non l’opposizione, del mondo popolare nei confronti di qualsisasi tentativo volto ad abrogare o a modificare i riti connessi al giorno festivo.125 Cfr. R. C. Van Caenegem, Introduzione storica al diritto privato, Bologna 1995 (Cambridge 1992), pp. 60-61. John Bossy ricorda come “in Francia l’erudizione giuridica cinquecentesca ridusse a stampa le consuetudini, e tra queste anche la miriade di variazioni locali del rito ma-

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Se la riforma delle festività, pur tra molte tergiversazioni, giunse infine in porto, quali furono successivamente la sua fortuna e il suo accoglimento? In che misura il mondo consuetudinario, che leggi del Senato, sulla spinta evi-dentemente di ben precise forze sociali, avevano voluto irrigidire, si adeguò alla normativa esterna?I due consultori Natale Dalle Laste e Piero Franceschi, a chiusura del loro consulto steso il 12 gennaio 1787, quando le ultime fasi della riforma delle feste di precetto stavano per concludersi, riferivano al Senato come la prece-dente riforma delle feste popolari potesse forse essere stata disattesa, quan-tomeno in alcuni suoi, non irrilevanti, aspetti:

ci troviamo in dovere di aggiungere che sebbene sono state regolate da Vostra Serenità e dai vescovi negli anni andati le feste popolari, restano però negli al-manacchi e lunari li segni di prima; il che può far credere alla gente rozza che il comando non sia uscito o che sia rivocato o che possa impunemente tragredirsi. Queste che, in addietro, solevano essere comunemente in numero di trentaquat-tro, oggidì si leggono contrassegnate come per l’innanzi in quasi tutte le edizioni dello stato; ed anzi in un lunario, che porta la data di Padova e Bassano, si rimar-cano in numero di quarantotto per l’anno 1787126.

Un retroscena sorprendente, che induce a riflettere sugli esiti stessi della riforma delle feste di precetto che, di lì ad un anno, sarebbe entrata in vigo-re127.

trimoniale, contribuendo sì ad assicurarne la sopravvivenza, nei confronti del rito romano, ma con ogni probabilità impedendo l’ulteriore incorporazione di costumi sociali vivi”, cfr. J. Bossy, L’occidente...., p. 122.126 Cfr. A.S.V., Senato, Deliberazioni, Roma, Expulsis papalistis, filza 139.127 Keith Thomas, nel suo ampio saggio dedicato alla religione e al declino della magia in In-ghilterra, ha notato come i Puritani avessero mirato a sostituire, con un certo successo, l’anno tradizionale, costellato di feste ecclesiastiche, con “una successione regolare di sei giorni di lavoro e di uno di riposo”. Un obbiettivo simile, per certi versi, a quello perseguito dagli stati cattolici nella seconda metà del Settecento. Questo però poteva avvenire solo in presenza di determinate circostanze. Infatti “le credenze sull’irregolarità del tempo erano il naturale prodotto di una società di natura sostanzialmente agricola e dalla tecnologia relativamente primitiva: costituivano cioè il riflesso del valore ineguale che il tempo inevitabilmente aveva per quanti fossero impegnati in attività agricole o in semplici attività manifatturiere nelle quali un fattore cruciale era rappresentato dal tempo atmosferico. Le diverse dottrine cir-ca giorni infausti, giorni dei santi, anni climaterici, anni bisestili, eccetera, erano tutte più facilmente accettabili in una società che dipendeva dalle stagioni per la sua sopravvivenza. Il vecchio calendario ecclesiastico si fondava sulla necessità di genti che vivevano attaccate alla terra, laddove la richiesta puritana di un ritmo settimanale sostitutivo di uno stagionale promanava dalle città, non dalle campagne”, cfr. K. Thomas, La religione e il declino della magia. Le credenze popolari nell’Inghilterra del Cinquecento e del Seicento, Milano 1985 (Londra 1973), pp. 696-697. In questi ultimi decenni del Settecento, in cui si colloca la riforma delle festività reli-giose, come abbiamo potuto notare, istanze simili muovevano pure da certi settori del mondo

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È probabile che il mondo consuetudinario mantenesse sostanzialmente la sua flessibilità di fondo, annullando o riducendo l’impatto suscitato dalla ri-forma intrapresa dal Senato veneziano128.Quella riforma, di certo, un effetto di rilievo lo ebbe indubbiamente: che fu quello di aver prodotto la grande inchiesta del 1772-73, i cui risultati, nono-stante le contraddizioni e le ritrosie insite nelle relazioni dei parroci, furono di grande rilievo, in quanto aprirono uno squarcio illuminante sul grande mare delle consuetudini.

rurale, anche se la forza delle consuetudini riuscì, molto probabilmente, a contrastarle e a ridurne quantomeno la portata.128 Piero Brunello ha giustamente notato come i provvedimenti e le direttive delle autori-tà ecclesiastiche intrapresi nel corso dell’Ottocento dovessero comunque raffrontarsi con il variegato mondo di credenze e di ideologie diffuse nella campagna veneta: “Il parroco infatti doveva fare i conti, oltre che con le richieste del vescovo o del potere politico, anche con le aspettative dei fedeli. Il clero dell’Ottocento continuò a lamentare la persistenza di supersti-zioni difficili da estirpare, relative ad esempio all’esistenza di spiritelli maligni o alla facilità con cui le donne vecchie e vedove erano credute streghe che facevano morire i bambini. Si aprirono così conflitti i cui esiti dipesero da un gioco di accordi, compromessi, tentativi di controllo e difesa di spazi di autonomia”. Più malleabili, ovviamente, erano i parroci, che do-vevano muoversi a stretto contatto del mondo consuetudinario. Brunello ricorda la fortuna goduta dal santuario di Clauzetto (Friuli), “dove ogni anno ossessi e posseduti dal demonio, soprattutto donne, venivano liberate da esorcisti non autorizzati dalla chiesa”, così come le disposizioni del vescovo di Padova che in una lettera pastorale del 1825 intervenne contro la pratica diffusa di esporre reliquie e di suonare le campane in occasione di temporali: “Il vescovo sapeva che i preti si adattavano a queste pratiche non per convinzione, ma per ar-rendevolezza alle richieste dei fedeli. E infatti in quella stessa circolare invitò i parroci a non tollerare “ignoranza” e “credulità” dei parrocchiani”, cfr. P. Brunello, Acquasanta e verderame. Parroci agronomi in Veneto e in Friuli nel periodo austriaco (1814-1866), Verona 1996, pp. 39-44.

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