Le Culture dei Missionari (vol. I) e Le Lingue dei Missionari (vol.II) Nicola Gasbarro (Org.), Le...

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1 Adone Agnolin TRADURRE PER CONVERTIRE: IL “GRECO DELLA TERRA” “Translate Christian doctrine into the native vernacular transformed the vernacular and in time the consciousness of its speakers. Similarly, the Tagalogs‟ attempts to read and appropriate Christian-colonial discourse in their own language tended to change the meaning of that discourse and hence the very shape and feel of the colonial legacy as a whole”. V. L. Rafael Vorrei qui analizzare alcune importanti problematiche di carattere generale riguardanti la catechesi gesuitica indigena (tupì) elaborata a partire dalla seconda metà del XVI secolo e, progressivamente, “aggiustata” nella prima metà del XVII. Il materiale privilegiato è costituito dai catechismi in lingua indigena (tupì, ma anche guaranì e kirirì) prodotti da missionari gesuiti, a partire dai peculiari problemi di carattere linguistico (grammaticale, semantico e sintattico): l‟analisi, non specialistica a livello linguistico, fa parte di una ricerca di più ampio respiro che, servendosi della prospettiva storico-religiosa, vuole ricostruire la formazione di un caratteristico ibridismo culturale americano durante i primi anni dell‟impresa coloniale 1 . Prima di tutto un‟evidenza interlinguistica ed interculturale: i missionari gesuiti si trovano a dover fare i conti con “lingue carenti”, soprattutto di concetti e categorie grammaticali, retoriche, teologico-politiche e metafisiche, ovviamente necessarie per mettere in moto un progetto di conversione e di civilizzazione. Devono quindi “inventare” una “lingua generale della costa” come strumento essenziale di traduzione linguistica e culturale. Occorre immaginare una traduzione, al tempo stesso, del messaggio evangelico e delle sue categorie linguistiche (occidentali), ma anche della cultura (linguistica) indigena 1 Ricerca pubblicata recentemente: cfr. A. Agnolin, Jesuítas e Selvagens: a Negociação da Fé no encontro catequético-ritual americano-tupi (séc. XVI-XVII). São Paulo, Editora Humanitas, 2007.

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Adone Agnolin

TRADURRE PER CONVERTIRE:

IL “GRECO DELLA TERRA”

“Translate Christian doctrine into the native vernacular transformed the vernacular and in

time the consciousness of its speakers. Similarly, the Tagalogs‟ attempts to read and

appropriate Christian-colonial discourse in their own language tended to change the

meaning of that discourse and hence the very shape and feel of the colonial legacy as a

whole”.

V. L. Rafael

Vorrei qui analizzare alcune importanti problematiche di carattere generale

riguardanti la catechesi gesuitica indigena (tupì) elaborata a partire dalla seconda metà del

XVI secolo e, progressivamente, “aggiustata” nella prima metà del XVII. Il materiale

privilegiato è costituito dai catechismi in lingua indigena (tupì, ma anche guaranì e kirirì)

prodotti da missionari gesuiti, a partire dai peculiari problemi di carattere linguistico

(grammaticale, semantico e sintattico): l‟analisi, non specialistica a livello linguistico, fa

parte di una ricerca di più ampio respiro che, servendosi della prospettiva storico-religiosa,

vuole ricostruire la formazione di un caratteristico ibridismo culturale americano durante i

primi anni dell‟impresa coloniale1.

Prima di tutto un‟evidenza interlinguistica ed interculturale: i missionari gesuiti si

trovano a dover fare i conti con “lingue carenti”, soprattutto di concetti e categorie

grammaticali, retoriche, teologico-politiche e metafisiche, ovviamente necessarie per

mettere in moto un progetto di conversione e di civilizzazione. Devono quindi “inventare”

una “lingua generale della costa” come strumento essenziale di traduzione linguistica e

culturale. Occorre immaginare una traduzione, al tempo stesso, del messaggio evangelico e

delle sue categorie linguistiche (occidentali), ma anche della cultura (linguistica) indigena

1 Ricerca pubblicata recentemente: cfr. A. Agnolin, Jesuítas e Selvagens: a Negociação da Fé no encontro

catequético-ritual americano-tupi (séc. XVI-XVII). São Paulo, Editora Humanitas, 2007.

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in modo da renderli efficaci, con il minor numero possibile di malintesi. La costruzione di

questa “lingua generale della costa” – che emblematicamente sarà denominata, anche,

“greco della terra” – si realizza attraverso due apparati esterni alla cultura linguistica

indigena: la struttura grammaticale latina ed i modelli discorsivi dei catechismi iberici. Con

questi pressuposti, i missionari gesuiti valorizzano la lingua tupì come strumento di

comunicazione di un “altro” senso culturale: un processo di decontestualizzazione che

riorienta l‟uso e la struttura della materia linguistica indigena. Il processo catechetico rende

però evidente che questa “materia” non è inerte e passiva: la decontestualizzazione

linguistica realizzata dai missionari produce, anche e allo stesso tempo, peculiari forme e

modalità di significazione segnate dalla prospettiva indigena. E sono proprio queste a non

essere facilmente “amministrabili” (anzi a volte si rivelano, inizialmente, impensabili ed

insospettabili) da parte dei gesuiti, e costituiscono quell‟inevitabile ibridismo linguistico e

culturale che caratterizza in modo esemplare i testi scritti nelle lingue indigene. La nuova

grammatica e la nuova semantica, nate all‟interno di questo peculiare processo storico di

incontri culturali, rendono possibile la pragmatica del nuovo sistema coloniale a partire

dalla prospettiva religiosa (sub specie religionis) e cioè, dal punto di vista (strutturante) di

quella che risulta essere la “riduzione” più significativa (ossia, la possibilità interpretativa)

dell‟alterità culturale da parte dell‟Occidente. E questa “riduzione” è prima di tutto un

problema di traduzione.

La traduzione come problema

I missionari devono comprendere il significato delle pratiche e delle

rappresentazioni culturali indigene: è quindi necessario un perfezionamento degli strumenti

di traduzione linguistica e, conseguentemente, di una loro verifica nella pratica della

comunicazione coloniale. Fin dall‟inizio, nelle pratiche gesuitiche di insegnamento e

catechesi, la scrittura si costituisce con caratteristici generi utilitari, come le lettere, le

rappresentazioni teatrali, il poema didattico, il sermone, il catechismo, ecc. fino alle “arti di

grammatica”. Come hanno ben dimostrato i lavori di Pécora e Hansen2, questa scrittura è

2 A. Pecora, Teatro do Sacramento: a unidade teológico-retórico-política dos sermões de Antonio Vieira,

Edusp e Ed. Unicamp, São Paulo-Campinas 1994; Id., Arte das Cartas Jesuíticas do Brasil, in “Voz

Lusíada”, Revista da Academia Lusíada de Ciências, Letras e Artes, nn. 12-13 (Anais do Encontro

Internacional Nóbrega-Anchieta), 1999, pp. 31-78; Id., Cartas à Segunda E scolástica, in A. Novaes (org.), A

Outra Margem do Ocidente, Companhia das Letras, São Paulo 1999, pp. 373-414. J. A. Hansen, A Servidão

Natural do Selvagem e a Guerra Justa contra o Bárbaro, in A. Novaes (org.), A Descoberta do Homem e do

Mundo, Companhia das Letras, São Paulo 1998, pp. 347-73; Id., Nóbrega e a Missão Jesuítica: os anos

heróicos (1549-1570), in “Voz Lusíada”, Revista da Academia Lusíada de Ciências, Letras e Artes, nn. 12-

13 (Anais do Encontro Internacional Nóbrega-Anchieta), 1999, pp. 148-62.

3

sempre retoricamente ordinata, cioè rivela un‟intima fusione tra la retorica, le lettere

antiche e la teologia politica della neo-scolastica. Fin dal loro arrivo in Brasile, nel 1549, i

gesuiti hanno da un lato l‟esigenza di tradurre i contenuti ed il senso della dottrina cristiana

e di selezionare gli strumenti linguistici più adatti ai nuovi catecumeni; dall‟altro di

realizzare una necessaria politica linguistica: non a caso, infatti, come ha evidenziato V. L.

Rafael, i termini conquista, conversione e traduzione hanno una stretta relazione3. Il

problema è così sintetizzato da Hansen: “Parlando in modo generale, l‟enunciato gesuitico

postula il fatto che la lingua dell‟indio è segnata dal suo essere muta e cieca, proprio come

le sue pratiche peccaminose che oscurano la visione o la teoria del Bene, evidenziando così

una natura semper prona ad malum: una lingua che non ha memoria del Bene, parlata da

gente che si regge per inclinazione, „absque consilio et sine prudentia‟4, manifestando

anche nella lingua la propria mancanza di equità”5.

La politica linguistica diventa dunque un indispensabile strumento di catechesi in

un ambiente culturale “orale”: la prima esigenza dei missionari è quella di “ridurre” –

prima degli stessi indigeni – le loro lingue seguendo i modelli della scrittura e, di

conseguenza, dell‟alfabeto e delle regole grammaticali latine. Non si tratta, pertanto, solo

di una conquista-conversione-traduzione e, nei limiti del possibile, di una nuova “lingua

generale della costa”, ma anche di un “incontro” (anche se nella peculiare forma di

“scontro”) che, per i problemi che possono essere intravisti nella scrittura (non è da questa

che parte il lavoro dello storico?) gesuitica di questo “dialetto coloniale”, può in qualche

modo rivelarci la pista di una significativa incomprensione e/o impossibilità di traduzione,

che in ogni caso è elemento prezioso. Prima di “costruire” catechismi, i missionari devono

indottrinare con un vero e proprio compromesso catechetico6: quando scrivono in tupì

discorsi diretti a indios ridotti alla stabilità dei villaggi (índios aldeados), i gesuiti operano

con concetti e categorie grammaticali, retoriche, teologico-politiche e metafisiche che non

esistono nelle culture – e specularmente negli strumenti linguistici, nella materia destinata

ad essere riplasmata da parte della catechesi missionaria – delle popolazioni indigene

brasiliane. Sono così inevitabili i compromessi linguistici di questa suggestiva

comunicazione religiosa e coloniale:

3 V. L. Rafael, Contracting Colonialism: Translation and Christian Conversion in Tagalog Society under

Early Spanish Rule, Cornell University Press, Ithaca-London 1988.

4 Do P. Manuel da Nóbrega ao Dr. Martin de Azpilcueta Navarro, Coimbra-Salvador, 10 de agosto de

1549, in S. Leite, Monumenta Brasiliae, Monumenta Historica Societatis Iesu, voll. I-V, Roma 1956-68, vol.

I, p. 136.

5 Comunicazione orale di J. A. Hansen all‟Università di São Paulo nel seminario di studi Instrumentos da

Comunicação Colonial (24 e 25 agosto 2000).

6 V. L. Rafael parla di un “contratto coloniale”.

4

1. l‟introduzione di termini portoghesi o latini (a volte con giustificazioni);

2. curiosi neologismi (composti da un termine portoghese o latino e da uno tupì

(generalmente un suffisso);

3. la selezione o l‟evidenza del significato di un termine indigeno all‟interno della

foresta di significati che questo aveva nella cultura tupì;

4. peculiari costruzioni sintattiche finalizzate alla costruzione di concetti (o funzioni

istituzionali) che non incontravano soluzioni linguistiche soddisfacenti nella

lingua indigena;

5. relazioni tra significante e significato di determinati simboli ecc.

In un primo momento, questa comunicazione linguistica può essere colta nel suo

costituirsi tra la scrittura gesuitica e la lingua indigena, fino ad un certo punto chiaramente

distinte, tra il prodotto storico e culturale di una o dell‟altra parte. Un‟analisi più attenta

mostra però il caratteristico ibridismo dello stesso atto comunicativo e del suo processo:

anzi è quasi messo in scena con la rappresentazione di un dialogo (catechetico) che, al di là

della reale imposizione (la gerarchia del Maestro-gesuita riduce, letteralmente, la risposta

partecipativa del Discepolo-indigeno ad un semplice consenso), rivela un incontro/scontro

di differenti sensi grazie ad una materia linguistica (nuova). Partiamo da due esempi, uno

appartenente al primo, l‟altro al quarto compromesso linguistico, evidenti nelle prime righe

del Diálogo da Fé, manoscritto, di Padre Anchieta7.

Alla domanda del Maestro: “Marãpe imongaraíbipýra renõindábeté?”

Risponde il Discepolo: “Cristiani” (in portoghese nel testo).

La risposta del discepolo, per la sua familiarità linguistica, suona strana all‟interno

di un testo tupì: è chiara la scelta di non tradurre il termine “cristiano”, così come

“Cristo”8. La giustificazione dello stesso missionario: introduce questi termini, e come

(vedremo) altri, perché anche le lingue europee hanno usato termini greci, ebraici ecc., al

fine di esprimere nuovi concetti. La strategia ha portato buoni frutti e quindi deve essere

efficace anche nel nuovo contesto, come è confermato dalla traduzione in portoghese della

7 J. de Anchieta, S. J., Diálogo da Fé, Loyola, São Paulo 1988. E‟ un testo tupì e portoghese con

introduzione storico-letteraria e note a cura di A. Cardosoo, S. J., che include i testi facsimilari manoscritti

classificati come APGSI N. 29 ms. 1730 e ARSI Opp. NN. 22 e una sua copia APGSI n. 33 ms. 1731.

Manoscritto: f. 2; testo in ortografia moderna: p. 119. Qui accetto la proposta di trascrizione del manoscritto

anchietano di padre Armando Cardoso: è lievemente diversa da quella di padre Anchieta, ma è accessibile e

chiara e quindi facilmente utilizzabile anche da chi non conosce la lingua tupì.

8 O “Jesú Cristo”. Qui (manoscritto: ff. 2 e 3) troviamo anche la ritrascrizione in portoghese di „Santa

Maria‟, „Santa Cruz‟, „Spirito Santo‟ e „Santos‟.

5

domanda, che rinvia al quarto compromesso in una situazione abbastanza comune nei

catechismi dell‟epoca. La traduzione è la seguente9: “Quale è la denominazione di [il modo

legittimo di nominare] quelli che „sono battezzati‟?”. Il termine “battezzato” è costruito,

dal missionario, con quattro termini tupì: il sostantivo “y” (pronuncia “ü”) che indica, in

questo specifico caso, l‟“acqua”; il verbo “monhanga” (contratto: pronuncia “mognanga”)

che significa “fare”10

; il sostantivo “karaíba” (che nasconde, in varie situazioni di

traduzioni catechetiche, una complessa e significativa problematica) che, sottratto alla

denominazione del – come possiamo definirlo? – “sacerdote itinerante” (?), “pajé” (?)11

,

passò ad indicare successivamente, per gli indigeni, l‟“uomo bianco” e, per mezzo della

strumentalizzazione linguistica realizzata dai catechismi missionari, “ciò che è sacro”; ed,

infine, il suffisso “pyra” (pronuncia “pürá”) che serve ad indicare, secondo la lingua tupì,

“parte prossima”, “ciò che è prossimo”, “prossimo di”. Letteralmente, dunque, padre

Anchieta12

traduce il termine “battezzato” in tupì con l‟espressione che corrisponderebbe a:

“fatto dall‟acqua ciò che è prossimo del sacro”.

Un altro esempio ci permette di sviluppare l‟analisi comparativa con il catechismo

di padre Antonio de Araújo13

. Il compromesso catechetico è ancora del primo tipo: in

relazione al “segno della Croce”, si utilizza all‟interno del testo tupì – tanto nel Diálogo da

Fé di Anchieta14

, quanto nel Catecismo di padre Araújo15

, il termine portoghese „Santa

Cruz‟ („S. Cruz‟, in Anchieta, „Sancta Cruz‟, latinizzato, in Araújo). Affiché possano

essere compresi, in qualche modo, il suo valore semantico e, soprattutto, il suo valore di

9 Si noti la particolarità: Anchieta costruisce la dottrina in tupì e, successivamente, traduce in portoghese, a

lato, in modo non letterale ma piuttosto liberamente, il messaggio che avrebbe elaborato seguendo i canoni

della lingua indigena.

10

Un “fare rituale”, secondo la prospettiva occidentale.

11

Dobbiamo evidenziare, a questo proposito, l‟importanza di un‟analisi in termini storici ed antropologici

riguardo all‟importante funzione culturale esercitata dal „karaíba‟ tupì (quasi un kula malinowskiano che, in

perpetua circolazione fra vari villaggi indigeni, aveva la funzione di amministrare e distribuire il meccanismo

della vendetta – con il suo altissimo valore simbolico – nelle guerre di cattura e poi nell‟esecuzione del

nemico), funzione che avrebbe “giustificato” la forte persecuzione messa in scena, fin dall‟inizio della loro

attività missionaria, dai gesuiti.

12

E‟ una scelta di Anchieta o una comune strategia gesuitica? Solo un‟attenta comparazione con altri

catechismi può chiarire il problema.

13

A. de Araújo, S. J., Catecismo na Lingoa Brasilica, no qval se contem a svmma da Doctrina Christã.

Com tudo o que pertence ao Myfterios de noffa fancta Fè & bõs cuftumes. Composto a modo de Dialogos por

Padres Doctos, & bons lingoas da Companhia de IESV. Agora nouamente concertado, ordenado, &

acrefcentado pello Padre Antonio d‟Araujo Theologo & lingoa da mefma Companhia. Com as licenças

neceffarias. Em Lisboa por Pedro Crasbeeck, ãno 1618. A cufta dos Padres do Brafil. Testo in riproduzione

facsimilare della 1ª edizione, con il titolo Catecismo na Língua Brasílica, Pontifícia Universidade Católica,

Rio de Janeiro 1952. Anche a questo riguardo occorre estendere la comparazione con altri catechismi e/o con

altre situazioni linguistiche indigene.

14

Manoscritto: f. 2; testo in ortografia moderna: p. 121.

15

Manoscritto: f. 13.

6

“segno”, nel testo di Araújo segue l‟espressione “raangába recè”16

, dove il suffisso “(r)ecè”

determinerebbe, in questo specifico caso, causa e/o finalità, e il termine “(r)a‟ang-aba”

significherebbe qualcosa come “segnale”, “immagine”, “marca”. Potremmo quindi tradure

letteralmente questa traduzione tupì di Araújo con l‟espressione “per segno, come segnale

(marca) della Santa Croce”. E‟interessante osservare che, nella domanda del Maestro

proposta dal testo di Anchieta (che introduce la semplice risposta del Discepolo-

catecumeno, “Santa Cruz”), il gesuita sceglie di tradurre questo “segnale” con

l‟espressione “Jekuapába” che, tradotta letteralmente dal tupì, significherebbe qualcosa

come “mezzo per conoscersi (ie-kuáb-a)”: la traduzione di Anchieta quindi sembra rinviare

al gesto rituale in quanto forma di identità. D‟altra parte la relazione tra “Segno”,

“Simbolo” e “Identità cristiana” è fondamentale nel dibattito tra Riforma e Controriforma

in Europa, così come riemerge tra gli indigeni per differenziarla dalla pratica demoniaca

dell‟idolatria: occorre evitare ogni equivoco nella lettura indigena dei (nuovi) simboli

(materiali) cristiani. Il dialogo anchietano tra Maestro e Discepolo (da qui in poi M. e D.)

continua non a caso approfondendo il significato-senso della Croce:

M. Abápasé sumarã? (Chi è il nostro nemico?)

D. Añanga (Il Demonio) 17

Ed ecco il chiarimento proposto dal dialogo che segue:

M. Ojerokýpe asé Cruz supé? (Dobbiamo riverire la Croce?)

D. Ojeroký (Dobbiamo riverirla!)

M. Marã ybyrá supéñépé asé jerokýu? (Secondo il modo di stare davanti al legno,

dobbiamo riverirla?)

D. Aáni; saangábijára supéé, sesé omaenduáramo (No, solamente nella condizione di

ricordarci davanti al suo significare!)

M. Abápe Cruz raangábijára? (Cosa significa „Croce‟?)

D. Jandé Jára Jesu Cristo. (Nostro Signore Gesù Cristo!)

E ancora, di seguito, continua Anchieta:

M. Marã itáñépe, koipó ybyrá, ñaúma imoñángimbýra ñépe asé omoeté? (In quanto pietra, legno o terracotta, di cui sono fatte [le immagini], dobbiamo

rendere loro omaggio?)

D. Aáni; saangábijáraé, saangábamo sekóremeñé, sesé omaenduáramo.18

16

Il testo di padre Araújo non ha alterazioni grafiche del testo tupì né traduzione: l‟ortografia è quindi

quella dell‟autore.

17

L‟analisi di questa identificazione richiederebbe un approfondimento della funzione culturale della

“figura” indigena tupì, capace di chiarire le ragioni per le quali i missionari la identificarono con il Demonio

della cultura occidentale cristiana.

18

Manoscritto: ff. 3 e 4; testo in ortografia moderna: pp. 122-23.

7

(No, [ma nel modo] secondo cui significano nella condizione di significare, per il

nostro ricordare)

Anzitutto, a questo proposito, evidenziamo il fatto che, in relazione alla Croce,

Maria e i Santi, si usa il verbo “riverire” (in tupì “inclinarsi”), corrispondente alla

traduzione “Jeroky” (verbo intransitivo), un atteggiamento rituale che non deve essere

confuso con l‟idolatria, come può accadere all‟interno della cultura indigena19

: occorre

distinguere il Simbolo dal suo Significato, le Immagini dalla loro Essenza, la Materia dalla

sua Rappresentazione, soprattutto quando i termini servono appena a comprendere meglio i

(profondi) significati della dottrina salvifica.

L‟introduzione di termini portoghesi e latini è a volte unita all‟adozione di un

significativo termine tupì (che, successivamente, può essere esteso – e ciò accade spesso –

a gruppi indigeni non tupì), per rinviare ad un concetto o una figura tipici dell‟universo

culturale e religioso occidentale. Esempi di questo tipo si incontrano in tutte le opere

catechetiche, ma in alcuni casi occorre interrogarsi sulla plausibilità contestuale che si

pone al di là delle giustificazioni dei língoas missionari. È il caso delle tre Persone della

Trinità che appaiono in queste stesse pagine del catechismo di Anchieta20

e all‟inizio del

catechismo di Araújo.

“Tupã Túba, Tayra, Spirito Santo, mosapý abá, ojepé Tupã”

[lett.: Assieme con il (Anchieta traduce „in nome di‟) Padre, Figlio e Spirito Santo,

tre persone, in congiunto “Dio”]

così risponde il discepolo alla domanda del Maestro sulle forme di “benedire (se

stessi)” (così traduce Anchieta, ma dobbiamo osservare che il termine da lui usato,

“jobasab”, significa, letteralmente, “fare croci sul viso” e solamente per estensione è

utilizzato come “benedire (se stessi)”, “fare il segno della Croce”). La stessa formula è

utilizzata da Araújo, nella sua funzione di invocazione (incontriamo appena una variante

grafica e la denominazione della terza persona in portoghese: Tûba, Taîra, Efpirito

Sancto...). Nel caso della seconda Persona, la scelta ci appare logica, all‟interno della

specificità dei nomi di parentela tupì: di fatto, presso la cultura indigena, questi nomi

rinviano analiticamente al sesso della persona e del suo parente (paterno o materno),

19

Il problema della “confusione” è trattato dal giurista domenicano Francisco de Vitoria e dalla „Scuola di

Salamanca‟: si veda A. Pagden, The fall of natural man. The American Indian and the origins of

comparative ethnology. Cambridge University Press, Canbridge 1982; trad. it., La caduta dell‟uomo

naturale. L‟indiano d‟America e le origini dell‟etnologia comparata, Einaudi, Torino 1989; A. Prosperi,

Tibunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1998.

20

Manoscritto: f. 3; testo in ortografia moderna: p. 121.

8

all‟età, ecc.21

, per sottolineare il valore della relazione sociale; e non a caso sono più

comunemente usati del nome proprio. Nel nostro caso, (t)a‟yra rappresenta logicamente il

nome del “figlio di uomo” (“figlio di donna” è membyra). La “connotazione sessuale

maschile” del Dio cristiano non permette alternative: identità e traduzione missionarie sono

conseguenti22

.

Lo Spirito Santo non avrà mai una traduzione tupì, né nei testi di Anchieta, né nel

catechismo di Araújo, né nel Catecismo de la Lengua Guarani di padre Antonio Ruiz de

Montoya23

, né nel Catecismo Kiriri di padre Luis Vincencio Mamiani24

, né nel Catecismo

da Língua Kariri del frate Bernando de Nantes25

. Fin dall‟inizio e in tutti questi testi,

invece, è chiara l‟“identificazione” di Dio Padre con “Tupã”. Per i Karirì, il cappuccino

Bernardo de Nantes utilizza il termine Inhinho, mentre il padre gesuita Mamiani continua,

per gli stessi Karirì, a usare il termine Tupã. Parlo di identificazione tra virgolette perché è

difficile sapere se si tratta solo di uno strumento linguistico (come appare più probabile)

e/o se rinvia ad una “figura” indigena tupì compatibile, sempre in termini di traduzione,

secondo i gesuiti con la rappresentazione canonica del Dio cristiano. Forse è questo il

punto in cui l‟“incontro (catechetico)” rivela i limiti del nostro stesso universo linguistico e

culturale26

. È chiaro, infatti, che lo “strumento linguistico” „Tupã‟ non risponde ad una

scelta casuale: se il termine rinvia al tuono ed al lampo, occorre interrogarsi su questa

scelta missionaria, anche comparandola al “cielo” dei Cinesi, per esempio, ed ad altre

scelte di traduzione, per caratterizzare il Dio cristiano. Questo ci aiuterebbe a capire anche

cosa il Dio cristiano, in quanto „Tupã‟, potesse significare per le popolazioni indigene e

21

E. de A. Navarro, Método Moderno de Tupi Antigo: A língua do Brasil dos primeiros séculos, Vozes,

Petrópolis 1999, pp. 104 e 184.

22

Vale la pena osservare, almeno in termini di semplice evocazione, la curiosa coincidenza di Cristo

“figlio dell‟uomo”: ma il contesto e il significato sono altri...

23 A. R. de Montoya, S. J., Catecismo de la Lengua Guarani, Compuesto por el Padre Antonio Ruyz de la

Compañia de Iesus. Dedicado a la purissima Virgen MARIA. Concebida sin mancha de pecado original.

Com Licenzia. En Madrid, Por Diego Diaz de la Carrera, Año MDCXXXX. Che ho consultato nella

riedizione pubblicata “nuovamente sin alteracion alguna por Jiulio Platzmann, B.G. Teubner, Leipzig

MDCCCLXXVI”.

24

L. V. Mamiani, S. J., Catechismo Da Doutrina Christãa Na Lingua Basilica Da Nação Kiriri. Composto

Pelo P. LUIS VINCENCIO MAMIANI, Da Companhia de JESUS, Missionario da Provincia do Brasil.

Lisboa, Na Officina de MIGUEL DESLANDES, Impressor de Sua Magestade. Com todas as licenças

necessarias. Anno de 1698. Edizione facsimilare, Imprensa Nacional, Rio de Janeiro 1942.

25

B. de Nantes, Katecismo Indico Da Lingua Kariris, Acrescentado de Varias Praticas Doutrinaes, e

Moraes, Adaptadas ao Genio, e Capacidade dos Indios do Brasil, Pelo Padre Fr. BERNARDO DE

NANTES, Capuchinho, Pregador, e Missionario Apostolico; Offerecido ao Muy Alto, e Muy Poderoso Rey

de Portugal DOM JOAÕ V, S. N. Que Deos Guarde. Lisboa, Na Officina de Valentim da Costa Deslandes,

Impressor de Sua Magestade. MDCCIX. Com todas as licenças necessarias. Edizione facsimilare pubblicata

da J. Platzmann, B. G. Teubner, Leipzig 1896.

26

Per il problema storico-religioso dell‟„identificazione‟ delle „figure‟ mitico-rituali e delle „divinità‟ è

necessario tener presente D. Sabbatucci, Sui protagonisti di miti, La Goliardica, Roma 1981.

9

come potesse essere, in qualche modo, “indigenizzato”27

. “Mistero” fondamentale della

religione cristiana, la Trinità diventa ancora più difficile da tradurre, e più ancora da

comprendere per le culture indigene. E‟ interessante confrontare, a questo proposito, il

libro III del Catecismo Brasílico na Doutrina Cristã (vol. I) di padre Anchieta28

con il libro

II del Catecismo na Língua Brasílica di padre Araújo, praticamente costruiti sulla base dei

medesimi compromessi linguistici, così come il Catecismo de la Lengua Guarani di padre

Montoya (capitolo IV:“Sobre los Articulos”, pp. 48-54), il Catecismo Kiriri di padre

Mamiani, (capitolo II :“Dos Mistérios que se contém no Credo”, pp. 42-46) ed il

Catecismo da Língua Kariris di frate Bernardo de Nantes (nella parte intitolata “Ensino de

Deus como Trino”, pp. 17-19). In tutti i catechismi è evidente la preoccupazione di definire

il mistero, che non deve essere confuso con tre “divinità”: l‟unità divina è rivelata, inoltre,

dall‟assenza di priorità temporale di una delle tre Persone. Quasi di conseguenza la

Vergine Maria può essere definita, subito di seguito nel testo anchietano29

, “Santa Maria

Tupãsý” (cioè, madre di Tupã): da un punto di vista cattolico è tutto chiaro, ma è difficile

immaginare il contesto di una “figura materna” associata al Tupã indigeno. Un altro

neologismo curioso si impone nei sistemi dottrinari in lingua tupì (ciò non vale per il

guaranì di Montoya, che utilizza lo stesso termine, in lingua spagnola, „angeles‟, così come

per il karirì Mamiani usa un‟altra espressione, e Bernardo de Nantes usa „anjos‟): si tratta

di „karaibebé‟, dove torna la curiosa ed interessante risemantizzazione di „karaíba‟, (che,

come abbiamo visto, in varie situazioni finisce per tradurre il „sacro‟) qui connessa al

verbo tupì „bebé‟, che significa „volare‟. L‟angelo si configura, dunque, come una sorta di

“santità che vola”, dove il termine „santità‟ rappresenta forse il nucleo più significativo per

comprendere la trasformazione di senso più forte nella terminologia tupì, ma, al tempo

stesso, la più evidente possibilità di una lettura “altra” di questa “santità” da parte degli

indigeni.

Il termine „peccato‟ è tra i più controversi: per la prima volta, la traduzione di

questo termine presenta soluzioni differenti dentro la stessa opera anchietana. A volte

Anchieta usa il termine portoghese, altre volte traduce peccato con „angaipaba‟. Il termine

27

La prospettiva storico-religiosa dà la possibilità di cercare tali “risposte”, o meglio di problematizzare

tali “convergenze”: D. Sabbatucci, Politeismo, 2 voll., Bulzoni, Roma 1998.

28

J. de Anchieta, S. J., Doutrina Cristã-Tomo I: Catechismo Basilico, Con testo tupì e português.

Introdução tradução e notas do Pe. Armando Cardoso, S. J. Incluindo o texto fac-similar (tupì) manuscrito

classificado como APGSI N. 29ms.1730, Loyola, São Paulo 1992. Id., Doutrina Cristã-Tomo II: Doutrina

Autógrafa e Confessionário, Introdução histórico-literária, tradução e notas do Pe. Armando Cardoso, S. J.

Incluindo o texto fac-similar manuscrito (em português) da Doutrina Autógrafa e texto (tupì) em ortografia

moderna (traduzido), Loyola, São Paulo 1992.

29

Manoscritto: f. 5; testo in ortografia moderna: p. 124.

10

in lingua indigena, invece, è utilizzato uniformemente dagli altri autori: in termini propri

nei due catechismi kirirì, e con lo stesso termine (contratto), “angaipá”, nel guaranì di

Montoya. In tupì, „angaipáb‟ significa “male”, “cattivo” e „angaipaba‟ indica la “cattiva

azione”: purtroppo, però, pare che il risultato delle ritrascrizioni dei vocabolari abbia

pregiudicato profondamente la possibilità di pensare in modo meno metafisico

(occidentale) questo concetto di “male” indigeno. Tuttavia è interessante notare che il

termine tupì è composto da “angá”30

e da “(t)up-aba”, che significa, letteralmente, „luogo

dove stare sdraiato‟ e quindi indica „letto‟, „luogo di riposo‟, „albergo‟. Si tratta quindi di

una sorta di stato psichico (?) che corrisponderebbe, nella composizione del termine, ad

uno “stare sdraiato dell‟anima” 31

.

Già da questi esempi è possibile evidenziare la complessità del lavoro storico di

comprensione di un processo interculturale ed interlinguistico che potremmo chiamare

“costruzione della traduzione”. Ovviamente queste analisi sono ancora approssimative ed

andrebbero integrate a livello specialistico ed interdisciplinare. In questa sede, anche per

delineare una prospettiva meno frammentaria, mi limito ad aggiungere esempi di

traduzione (e connessi problemi) concernenti i sacramenti della comunione e della

confessione. La scelta non è casuale all‟interno della catechesi missionaria: da un lato essi

sono al centro del dibattito teologico tra Riforma e Controriforma in Occidente, che

occorre sempre tener presente quando si ricostruisce una storia delle missioni, dall‟altro

sono alla base della ritualità cattolica in terra indigena. In Anchieta troviamo una parte

dedicata ai Sacramentos32

, e testi corrispondenti in Araújo33

, in Montoya34

, in Mamiani35

e

in Bernardo de Nantes36

.

30

Questo termine tradotto, in modo così complicato, per „anima‟ e che nella lingua tupì indicherebbe,

propriamente, un‟“ombra”, immagine che non rientra perfettamente nella materialità del suddetto termine.

31

O forse meglio, come suggerisce la possibile traduzione del termine „angá‟, indicata anteriormente, uno

“stare sdraiato nell‟ombra”.

32

Per la comunione: Diálogo da Fé, testo in ortografia moderna: pp. 140-142; Doutrina Cristã I,

manoscritto: ff. 49-50, testo in ortografia moderna: pp.214-217; Doutrina Cristã II, manoscritto: ff. 33-34.

Per la confessione: Diálogo da Fé, manoscritto: ff. 47-49, testo in ortografia moderna: pp. 144-147; Doutrina

Cristã 1, testo in ortografia moderna: pp.209-212; Doutrina Cristã II, manoscritto: ff. 30-32. Occorre tener

presente anche il confessionario: Doutrina Cristã I, manoscritto: ff. 51-67; Doutrina Cristã II, manoscritto:

ff. 43-54, testo in ortografia moderna: pp. 77-104.

33

Comunione: ff. 86-89; confessione: ff. 89-91; confessionario: ff. 96-113 (dove si trovano interessanti

“annotazioni sui nomi di parentela, utili nella confessione per comprendere le circostanze”).

34

Comunione: pp. 129-133; confessione: pp. 126-129; confessionario: pp. 286-302.

35

Breve introduzione sui sacramenti: p. 11; comunione: pp.118-126; confessione: pp. 126-134; ma anche

l‟“Interrogatório da Confissão”, pp. 169-192.

36

“Ensino do Sacramento da Penitencia”, pp. 76-81; “Ensino do Sacramento da Communhão”, pp. 81-86;

“Roteiro de Confissão”, pp. 125-49; “Discurso do Sacramento da Penitencia”, pp. 310-38; “Discurso do

Sacramento da Eucaristia”, pp. 338-63.

11

La Comunione

Fin dall‟inizio del testo di padre Anchieta37

troviamo un problema di grande

importanza antropologica, ripreso anche da padre Araújo.

Chiede il Maestro:

“Marãpe amó Sacramento, jandé ánga posánga, réra?”

[lett.: Quale è quel sacramento, rimedio della nostra anima?]

Risponde il Discepolo:

“Tupã rára” [lett.: Il mangiare (prendere) di Dio]

Al di là dell‟ovvio inserimento del termine “sacramento”, come succede,

successivamente, con il termine “hóstia”, è curiosa la scelta linguistica del termine “rára”.

Nel capitolo XXI del Catecismo de la Lengua Guarani, di padre Ruis de Montoya, alla

domanda iniziale “Mbaepe fantifsimo Sacramento”, segue la risposta: “Hoftia, hae Caliz y

confagrapira, ypi pêne Iefu Chrifto abáramo guecó rehebé Tupã namo cuecórehe bé o~i”.

Oltre ad aggiungere il termine spagnolo „caliz‟, Montoya costruisce un neologismo per

introdurre “consagrado”: il termine “consagra-pira” aggiunge allo spagnolo il suffisso

guaranì “pira”, letteralmente “quello che è chiamato (detto)”. Lo stesso Montoya traduce:

“Es Hostia, y Caliz consagrado, em que eftá la Humanidad, y Diuinidad de Chrifto”.

Possiamo dire dunque che “abáramo” significa “nella condizione di (come) uomo” e che

“Tupã namo” sta per “nella condizione di (come) Tupã (Dio)”. L‟azione rituale è resa da

Montoya con il verbo “riceverlo” (secondo la sua stessa traduzione): tuttavia notiamo la

particolarità della particella “Poî” (del verbo “poihúmboíbo”: non riscontriamo il

significato esplicito di tutta la parola guaranì), che significa [“poî(-io-)”, transitivo]

“alimentare”, “dar da mangiare”. Nel suo Compendio da Doutrina Christãa, padre

Betendorf 38

formula in altro modo la domanda che già contiene la risposta del Catechismo

di Anchieta. Dice infatti “Bäépe Sacramento Tupã râra, coipo Eucharistîa iâba?”

[letteralmente: Quale è il sacramento di mangiare (prendere) Dio, chiamato Eucarestia?].

Al di là di ogni strategia linguistica, è evidente che non esiste scelta che sia in grado di

salvare la teologia eucaristica e nello stesso tempo evitare le contingenze linguistiche e

culturali del mondo indigeno: Così, per esempio, si delineerebbe un:

37

Diálogo da Fé, testo in ortografia moderna: pp. 140-142; Doutrina Cristã I , manoscritto: ff. 49-50.

38

J. F. Betendorf, S. J., Compendio da Doutrina Christãa na Lingua Portugueza e Basilica. Composto pelo

P. JOAO FILIPE BETENDORF, Antigo Missionário do Brasil. E Reimpresso de Ordem de S. Alteza Real o

Principe Regente Nosso Senior por Fr. José Mariano da Conceição Vellozo. Lisboa. MDCCC. Na Offic. De

Simão Thaddeo Ferriera, p. 56.

12

- “mangiare Dio” (una “teofagia”), che suscita, quanto meno, una curiosa

attenzione in una cultura che ha tra i suoi valori fondamentali la pratica

antropofagica;

- “mangiarlo (prenderlo)” [port.: tomá-lo] che, anche se l‟azione verbale tupì non

rinviasse all‟alimentazione (come in portoghese), evoca fortemente un

“prendere” legato alla pratica rituale della cattura del nemico, alla base

dell‟antropofagia e dello scambio rituale delle vittime sacrificali39

.

La spiegazione catechetica, ovviamente elaborata a partire dal contesto europeo

cattolico della polemica antiprotestante, rende ancora più complessa la fruizione indigena.

Ecco, dunque, il dialogo proposto da padre Anchieta:

M.: “E, per caso, nell‟ostia si trova Gesù Cristo?”

D.: “In essa si trova”.

[...]

M.: “In essa si trova la sua divinità, il suo corpo e la sua anima?”

D.: “In essa si trovano”.

M.: “Noi lo vediamo?”

D.: “No, non lo vediamo”.

M.: “Ma che cosa vediamo, solamente?”

D.: “Solamente quello che era pane”.

M.: “Ed una volta cotto il pane, si trova ancora in questo?”

D.: “No”.

M.: “Quando veramente?”

D.: “Prima di innalzarlo, solo dopo che il padre pronuncia su di esso le antiche parole di Nostro Signore Gesù Cristo”.

[...]

M.: “E se si spezza l‟ostia in molte, molte parti, in ognuna delle parti si trova Nostro Signore Gesù Cristo?”

D.: “Si trova in ognuna”.

M.: “Si trova [in ognuna delle parti] esattamente come [stava] in quello intero?”

D.: “Esattamente”.

39

F. Fernandes, A organização social dos tupinambá, Huicitec-UnB, São Paulo-Brasilia 1989 (I ed. 1948).

Id., A função social da guerra na sociedade tupinambá, Livraria Pioniera, São Paulo 1970 (I ed. 1952). Ho

già analizzato il problema antropologico: A. Agnolin, O Apetite da Antropologia: o sabor antropofágico do

saber antropológico. Alteridade e identidade no caso Tupinambá, Humanitas, São Paulo 2005.

13

M.: “Che cosa veneriamo quando il padre innalza il calice, è questo solamente il vaso di metallo?”

D.: “No, ma il sangue di Nostro Signore Gesù Cristo che davvero si trova in esso”.

M.: “Ma non era davvero vino quello che in esso è stato posto?”

D.: “Sebbene fosse vino, in seguito al pronunciamento da parte del padre delle antiche parole di Nostro Signore Gesù Cristo, è diventato il suo sangue”.

M.: “Solamente il suo sangue si trova in esso?”

D.: “Non solo il suo sangue, ma anche il suo corpo, la sua anima, la sua divinità, esattamente come si trova nell‟ostia”.

M.: “E se questo vino si trovasse come se fossero molte, molte gocce, Cristo Nostro Signore si troverebbe in ognuna delle gocce?”

D.: “Si troverebbe in ognuna”.

[...]

Di questa delicata parte dottrinale troviamo anche alcune significative variazioni

all‟interno della stessa opera anchietana. Ad esempio, all‟interno del testo della Doutrina

Cristã II40

, alla domanda del Maestro sulle motivazioni dell‟istituzione di questo

sacramento, il Discepolo risponde:

“Per dire: „Sia il mio corpo alimento della loro anima‟ [toikó xe reté iánga remiúramo]; amandoci molto e desiderando restare assieme a noi”

Ciò perché:

“Siccome noi moriremo se non mangiassimo qualcosa qui, così là morirebbe la nostra anima se non mangiasse il corpo di Gesù Cristo”.

Sarebbe importante poter verificare se questo testo manoscritto preceda l‟altro (non

lo sappiamo): è evidente qui infatti una corrispondenza maggiore (troppa!) tra “teofagia”

(cattolica) e “antropofagia” (indigena)41

, che certamente diventa equivoca e deve quindi

essere eliminata. Padre Montoya insiste con numerosi esempi sul problema della

transustanziazione, dichiarando apertamente il mistero, differentemente da Anchieta, e

usando il termine portoghese. Nel Catecismo Kiriri di padre Mamiani, nella breve

introduzione riguardante i sacramenti, si trova una lunga espressione kirirì che rinvia alla

nozione di “eucaristia”, ma la scarsa conoscenza della lingua non mi permette di analizzare

il testo. Mamiani insiste molto sulle prescrizioni rituali della comunione, e questo non

sempre trova riscontro nell‟opera degli altri gesuiti.

40

Manoscritto: ff. 33-34.

41

Il curioso “voler rimanere assieme a noi” rafforza l‟equivoco con la caratteristica “disponibilità” del

prigioniero tupì, che si lasciava catturare dal suo nemico.

14

Nel catechismo kirirì di Bernardo di Nantes, la comunione è “o mayor & o mais

excell~ente dos Sacramentos”. E per la prima volta appare nel testo del missionario

cappuccino – ed è una caratteristica significativa che lo distingue dai gesuiti – una

caratterizzazione indigena del sacramento: “que chamais vosoutros apar~encias brancas”

[“che voi chiamate apparenze bianche”]. Le “cautele” linguistiche della traduzione

gesuitica sembrano scomparire in questo testo: la comunione è “mangiare” [“manjar”] e

l‟atto viene definito come un “mangiare il Corpo di Gesù Cristo”. Per la prima volta,

insieme al pane, è nominata la farina di manioca, lasciando trasparire ciò che, fin

dall‟inizio, doveva essere una sostituzione abbastanza comune nella pratica missionaria del

Brasile coloniale e che, inoltre, doveva sollevare particolari problemi interpretativi,

impliciti nel valore simbolico della manioca nella cultura indigena.

La Confessione

Il grande spazio dedicato, in tutti i catechismi, al sacramento della Penitenza ne

rivela l‟importanza nell‟azione missionaria gesuitica, anche perché legato all‟esame di

coscienza, analizzato nei suoi minuziosi dettagli nei fondamentali Esercizi Spirituali di

Santo Ignazio di Loyola. Sia la comunione sia la confessione sono definiti, nel testo tupì di

Anchieta, “rimedi” (posanga) (la prima “rimedio dell‟anima”, la seconda “rimedio contro i

peccati”). Confessare è tradotto con “ñemombeú” che sembra caratterizzare il modo di

parlare che implica, allo stesso tempo, descrizione e narrazione, un raccontare che si apre

e si rivela. Inoltre si parla di un “pentirsi dei propri peccati non desiderando tornare ad

essi” (oimoasý katú oangaipaguéra, serojebýpotáreýma): si tratta della contrizione inserita

in portoghese all‟interno del testo tupì. Lunga e attenta è la descrizione della possibilità di

dimenticare qualche peccato, che il Dio-Tupã perdona (la radice verbale tupì - in -, rinvia

più ad uno “stare quieto” che ad un “perdonare” vero e proprio). Uno “stare quieto” del

Dio-Tupã che esige un continuo esame di coscienza perché, appena si incontra (ricorda) il

peccato commesso, occorre confessarlo immediatamente. Questo “esaminarsi” è tradotto

con “oñeangerekó” che per un tupì significa un “preoccuparsi di e con se stesso”, “un

prendersi cura di sé”. “Iñyrõnamo” per “perdonare”? Pare che si traduca costantemente

“perdonare” per “calmare”, “placare” (Dio-Tupã). Non può mancare la centralità della

figura e del potere del sacerdote in quanto “Abaré asébe Tupã moñyrõmo...” [lett.: “Il

sacerdote (abaré) che per noi placa il Dio-Tupã...”], insieme ad altri aspetti della catechesi

sacramentale: come, per esempio, l‟importanza della confessione in occasione della Pasqua

(l‟espressione tupì rinvia ad un “grande digiuno”) ed in prossimità della morte. Sulla

15

confessione non si deve dimenticare, tra l‟altro, l‟importante testo del Confessionário di

Anchieta che si trova nella Doutrina Cristã.

Sin dall‟inizio della sua azione missionaria, difensore della pratica della

confessione tramite gli interpreti – contrariamente alla posizione del vescovo Sardinha –,

padre Nóbrega intende produrre una “performatività” della pratica confessionale, al fine di

produrre, letteralmente, la nozione di peccato che non sembra trovare corrispondenza nelle

categorie grammaticali, linguistiche e culturali tupì. Il Confessionário di Anchieta è una

sorta di sforzo parallelo, linguistico e culturale, che mette in azione una memoria specifica

ed una sorta di coscienza indotta. L‟“accoglimento e istruzione iniziale” rivela il valore

consolatorio della confessione, e al tempo stesso l‟inutilità di nascondere le proprie colpe

all‟onniveggenza di Dio-Tupã. Questa parte iniziale si sofferma lungamente su questa

doppia dimensione consolatoria/impositiva della confessione. Sono qui evidenziate42

le

grandi e, agli occhi dei gesuiti, caratteristiche trasgressioni indigene:

“opákatú mbaéaíba rerobiáguéra, [tutte le cose cattive che furono credenze]

nde poromotáreýmaguéra, [il tuo essere stato nostro nemico]

nde poropotáraguéra, [il tuo aver desiderato persone ]

nde mondarõaguéra, [il tuo aver rubato]

nde sabeyopóra, [il tuo distinguerti nell‟ubriacarti]

mbaé poxy resé nde araá [di cose brutte tu agitato

aporeýmaguérabéno” non aver ancora desistito]

La battaglia contro i costumi indigeni è esplicita: la superstizione-idolatria, la

guerra e la cattura dei nemici (destinati ad alimentare il sistema rituale dell‟antropofagia),

la sensualità (i loro costumi sessuali), l‟ubriacarsi (relativo al rituale, strettamente legato a

quello della guerra e dell‟antropofagia, del cauinagem) e il rubare, peculiarità abbastanza

curiosa in un contesto indigeno dove, generalmente, questa azione non è percepita in

quanto caratteristica comune a queste popolazioni. Sui comandamenti mi limito a segnalare

gli elementi più interessanti sui costumi indigeni: relativamente al primo (“adora un unico

Dio”, lett.: “honrar só Tupã”) occorre notare una vera e propria dichiarazione di guerra

contro il “pajé” e, quindi, contro l‟istituzione culturale che costui rappresenta, tanto temuta

e, al tempo stesso, concorrenziale del lavoro dei missionari.

“Ereixubánukárpe abá amó pajé supé?”

42

Doutrina Cristã 1, manoscritto: f. 52.

16

[ti lasciasti succhiare (= pratica del pagé per la quale si supponeva fosse succhiato

l‟oggetto causa del malessere di colui che lo consultava), qualche volta, dal pajé?]

“erejesubánukárpe pajé angipába supé?” [ti lasciasti succhiare dal pajé il tuo „cattivo spirito‟? 43]

“ereñemopajépajépe erimbaé?” [ti sei fatto molto pajé in tempi lontani?]

“ereimoupíxuárpe pajé, serobioá, isuí ekysyiábo?” [ti sei reso conforme il pajé, credendo ed avendo paura di lui?]

“eremosángúukárpe abá amó, nde rausúbáguámarí?”[lasciasti rimedio per qualcuno (al fine del) tuo ottenere il suo amore?]

“ererobiárpe pajé porapití moangaúba, jekaraímoñánga, morangiguána pitángñeénga, Guajupiá moraséia, marakáporaséia, mosausúba?”

[credesti nel pajé fingendo uccidere gente sdraiato, facendo “santità” (karaíba), in auguri (facendo divinazioni) con parlare di bambino, in danze del Guajupiá (= “spirito del pajé buono”), in danze di maracá, in sogni?]

Ovviamente il quinto comandamento è sviluppato in relazione alla guerra indigena,

mentre il sesto occupa la metà della parte del Confessionário dedicata ai comandamenti, e

meriterebbe un‟analisi particolare in quanto “traduzione, normativa e produzione della

„perversione‟ della sessualità indigena”. Qui è possibile solo sottolineare alcune domande

formulate nella traduzione che troviamo al lato del testo trascritto in ortografia moderna

nell‟edizione citata: questa, purtroppo, non include l‟originale manoscritto di Anchieta. Per

un primo confronto occorre tener presente il Catecismo na Língua Brasílica di padre

Araújo che ci offre un lunghissimo testo in tupì, che richiama lo schema di Anchieta.

Le prime domande sul “non desiderare gente sensualmente” [dal verbo poropotar

che in tupì pare significare semplicemente “volere”, “desiderare”] vogliono “svelare il

disordine” del “matrimonio” indigeno, chiedendo, per esempio, “con quante donne vivi?”,

o se “vivi con una che è sposata con un altro (o che è già stata sposata)?”. Ma l‟indagine

diventa particolare sui costumi sessuali: si chiede, ad esempio, se “tu forzasti [ma il verbo

tupì usato da Anchieta, “mombuk”, significa letteralmente “forare”] qualche giovane,

violentandola [il verbo tupì di Anchieta, “mokuára” significa, nuovamente “forare”],

stuprandola [“mondoróka”, che significa “dilacerare”, “strappare”]”. Non mancano

particolari su abbracci e baci, e poi desideri, sguardi, ecc… riferiti ai genitali (virilhas),

masturbazione maschile (toccarsi eccitandosi, secondo la traduzione, mentre il verbo

43

Angaipába, già analizzato, torna qui in un contesto rituale. La mia traduzione letterale di queste prime

due domande rinvia, contrariamente alla traduzione proposta, ad un “peccato” più di omissione che di

volontà. Non si tratta di un particolare trascurabile nella comprensione che i missionari hanno della cultura

indigena, mediata da rappresentazioni occidentali che appaiono praticamente normali.

17

moagüyagüy significa “sbattere”, “far vibrare”), pratiche omosessuali, ecc.. Anche

provocare una donna, trattarla come una prostituta, proporsi come un “alcoviteiro”

(mediatore di relazioni amorose) o permettere a qualcuno di farlo con il proprio consenso

sono condizioni gravi di “peccato”. Il riferimento a situazioni di concubinato, a relazioni

con un certo grado di parentela (definito, nel testo, come „grado di fratellanza‟), certe

indicazioni di promiscuità, rivelano, secondo padre Armando Cardoso, curatore del testo,

“l‟evidenza di un confessionario molto antico, poiché si parla ancora di costumi indigeni

che, anni dopo [i primi contatti] già non esistevano più, quando finalmente la cultura

coloniale si impose nei villaggi e nei piccoli centri urbani, con le sue case di privacy

familiare”. Una breve parte conclusiva di queste interrogazioni riguarda pensieri, desideri

e fantasie che, tuttavia, sono posti in relazione, ancora una volta, con la pratica della

masturbazione44

. Segue quindi una parte destinata ad ammonire (“Quod Deus avertat”)

colui che eventualmente ha risposto “sì” all‟interrogatorio: lo stato di colpa e la relativa

coscienza – di fatto una delle forme (e forse la più sofisticata) per imporre un “processo di

civilizzazione” – permettono così l‟efficacia degli interdetti sui costumi sessuali e

matrimoniali, fino ad imporre una convivenza dell‟uomo con la propria donna sottratta alle

relazioni sessuali, trasformando la “sposa in sorella”, per placare (mojerekoápa) Dio. Il

testo non permette di capire la durata di questa forma di “penitenza”, per ottenere il

“perdono”, “la pace” (ñyrõnamo) di Dio-Tupã.

Molte le domande fatte alle donne, “principalmente mimboáia (serve domestiche)”.

A cominciare dall‟eventuale cessione di qualche compagno alla propria signora concubina

fino all‟offrirsi ad alcuni come mediatrice (di relazioni amorose: “alcoviteira”), o ad un

“adornarsi desiderando un uomo che ti desidera”; o al sottrarsi alla casa del proprio signore

per andare con qualcuno, senza evitare dettagli piccanti, per scovare tutte le minuzie di un

“peccato” che si costituisce, secondo i missionari, nel pensiero e nella volontà (“provasti

desiderio angoscioso”, “desiderasti”, “pensasti”, “rimanesti incantata”), oltre che nelle

azioni (“abbracciasti”, “toccasti”, “facesti cenno”, “ti dipingesti”), fino ad una (possibile)

interruzione di una (eventuale) gravidanza (“ti spremesti, dopo che un uomo abbia avuto

una relazione con te, non desiderando avere un figlio?”, “desti alla luce, in tempi passati, di

buona volontà?”). La donna sposata ha i suoi peccati specifici: l‟eventuale consenso

concesso al marito su possibili relazioni con altre donne, la gelosia nei suoi confronti a

44

Nella sua ingenuità (religiosa) è tuttavia significativo quanto evidenziato dallo stesso padre Cardoso che,

a questo riguardo, commenta: “era necessario insistere anche sui peccati di cattivi desideri, per delicatezza di

coscienza alla quale l‟indio non era abituato; con una maggiore attenzione alle cattive inclinazioni interiori,

egli avrebbe più facilmente evitato cadute nell‟azione” (p. 95).

18

causa di qualche donna, la resistenza ad eventuali unioni con lui, ecc.. Veri e propri

„tribunali della coscienza‟, queste “indagini confessionali” si concludono ovviamente con

l‟ammonimento (“admoestação”): il quod Deus avertat. Comunque, anche in relazione alla

confessione, è importante e possibile estendere l‟analisi comparativa, attenta e completa, ai

diversi catechismi di Araújo45

, Montoya46

, Mamiani47

e Bernardo de Nantes48

.

Concetti, parole e grammatiche

La catechesi gesuitica è rivolta ad indios che vivono in villaggi (aldeados) per i

quali i missionari producono la “lingua generale della costa”, servendosi, come si è visto,

della struttura grammaticale latina e dei modelli discorsivi utilizzati nei catechismi iberici.

Questa stessa lingua si configura nel risultato di un ibridismo culturale, in quanto la

materia linguistica tupì è piegata, con un forte processo di decontestualizzazione, a

trasmettere contenuti e sistemi normativi “altri”, ma anche a veicolare nuovi significati

indigeni, frutto del processo di evangelizzazione e di civilizzazione. Sono significati

difficilmente amministrabili dai missionari, spesso persino impensabili, per lo meno

inizialmente: ed è qui che diventa determinante il lavoro dello storico per inferire strutture

antropologiche delle culture tradizionali. È un fatto, quindi, secondo quanto indicato da

Hansen, che “la scrittura gesuitica in tupì è una poetica, nel senso del verbo poiéo:

produzione di una memoria artificiale per la lingua tupì che la forza a subordinarsi alla

respirazione cattolica, nei casi in cui il tupì è reso in versi (“metrificado”), accentuato,

ritmato e rimato, come una poesia costruita alla moda medievale e, ancora, quando il tupì è

usato nelle rappresentazioni teatrali”. Questa “respirazione linguistica” non si configura

più però come esclusivamente e totalmente cattolica, creando un universo, una poetica

nella quale l‟artificio non può configurarsi né come una somma delle parti in causa, né

come la predominanza di una delle due parti. La nuova memoria artificale non assume

45

Op. Cit., fogli 89v-91. Così come nel “Confessionário Brasílico” di Anchieta, troviamo anche un

Confessionario nel Sesto Libro (“Do Confefsionario pella ordem de h~us, & outros Mandamentos”), fogli

96v-113v (che prende in considerazione anche la “anotação, fobre os nomes de parentefco, pera intelligencia

das circunftancias, que podem occorrer na Confiffão”).

46

Del quale interessa osservare, soprattutto, il capitolo X (“Sobre los Sacramentos”), alle pp. 126-29 dove

si parla riguardo alla Confessione. Tutto ciò, oltre alla parte intitolata “Lo que contienen quatro tratados”

dove nel terzo (trattato) si incontrano le informazioni riguardo “como fe há de confeffar, y comulgar”, pp.

233-54, e oltre al Confessionario, da p. 286 a p. 302.

47

Dove incontriamo una breve introduzione riguardante i sacramenti (p. 11). Riguardo alla Confessione, il

testo si intrattiene alle pp. 126-34. Sempre in relazione alla Confessione è importante, ancora, l‟analisi del

Capitolo III della Terza Parte, “Interrogatório da Confissão”, da p. 169 a p. 192.

48

Che elabora un suo “Ensino do Sacramento da Penitencia”, da p. 76 a p. 81. Oltre a ciò, troviamo il

“Roteiro de Confiffão”, alle pp.125-49; ed ancora il “Discurso do Sacramento da Penitencia”, alle pp. 310-

38.

19

semplicemente le sembianze di una vera conversione che, in quanto tale, conquista e

colonizza, “poiché la sua pratica traduce la novità per mezzo dei codici della similitudine e

della tradizione che normalizzano la differenza e, soprattutto, prevedono misure [di

sicurezza] capaci di amministrarla, come quelle della riduzione e della subordinazione” 49

.

Possiamo parlare forse di conversione nel senso di un “convergere” in termini di istituti –

linguistici e culturali – che, con la loro novità, producono una presupposta normalizzazione

della differenza nella misura in cui forniscono strumenti (istituzionali) nuovi per una

diversa trascrizione dell‟identità culturale indigena – come, per esempio, quella dei

movimenti di contestazione – reinscritta all‟interno dei modelli offerti e riconosciuti dalla

cultura occidentale. E‟ quanto accade nell‟adozione da parte dei missionari di metodi

(“retoriche”) propriamente indigeni nella comunicazione orale (che, molto spesso, provoca

serie censure agli stessi missionari); e nella “riduzione” scritta della parola indigena i

missionari, di fatto, devono “sottomettersi” al potere acquisito della parola indigena

radicato nell‟uso e nella memoria culturalmente dati. Certamente si tratta di riformularne il

senso, ma spesso è difficile trascriverlo liberamente, dal momento che occorre sempre

pagare un prezzo alla possibilità di una comunicazione interculturale. Non a caso i gesuiti

devono giustificare l‟uso di codici orali, così come padre Nóbrega è costretto a fare per

spiegare la necessaria riutilizzazione di determinati costumi indigeni:

“Se noi abbracciassimo alcuni costumi propri di queste genti, che non sono contrarie alla nostra fede cattolica, né hanno riti dedicati ad idoli, [costumi] come quello di cantare cantici di Nostro Signore secondo il tono della loro lingua e suonare i loro strumenti di musica che usano nelle loro feste quando uccidono nemici e quando si muovono ubriachi [durante la cauinagem]; e tutto ciò al fine di attrarli affinché abbandonino i loro costumi [...]; e così predicare loro alla loro maniera con un certo tono, andando itineranti e battendosi il petto, come fanno loro quando vogliono persuadere e dire qualcosa con molta efficacia [retorica]; ed allo stesso modo tagliare i capelli dei bambini del luogo, che abbiamo in casa [con noi] secondo il loro modo. Perché somiglianza è causa di amore. E altri costumi simili a questi”50

.

La “politica linguistica” non è altro che la sistematizzazione della “lingua

generale”, sempre più necessaria non tanto e non solo per comunicare con i gruppi indigeni

tupì, che scompaiono progressivamente, ma perché il tupì tende a diventare una “lingua

49

J. A. Hansen, cit. in nota 4.

50

Do P. Manuel da Nóbrega ao P. Simão Rodrigues, Lisboa (Baía fins de agosto de 1552), in S. Leite, S.

J., Monumenta Brasiliae, cit, vol. I, pp. 407-408, citato in J. M. Monteiro, Traduzindo Tradições:

Gramáticas, Vocabulários e Catecismos em Línguas Nativas na América Portuguesa, testo presentato al XV

Encontro Regional de História do ANPUH (Università di São Paulo, 5 settembre 2000).

20

(destinata alla comunicazione) coloniale”: un fatto importantissimo nella costruzione del

progetto catechetico in Brasile. Questa lingua generale dei gesuiti è il frutto di un lungo

processo di costruzione, e la prima fase risale alla seconda metà del XVI secolo51

.

Attribuito a padre Leonardo do Vale, il famoso Vocabulário na Língua Brasílica è copiato

e ricopiato, in questo secolo, in tutti i luoghi della colonia e nei collegi ignaziani, ad uso

dei língoas apprendisti52

. E‟ una sorta di opera missionaria collettiva, vero esempio di

pazienza e di ingegno nell‟apprendimento e nella sistematizzazione, sempre incompleti,

della lingua indigena.

Nel XVII secolo, “con „la nuova scoperta del Maranhão‟, si apre un nuovo campo

di catechesi, dove i missionari arrivano muniti non solo della parola di Dio, ma anche di

una lingua indigena e di un‟ampia esperienza di traduzione. E‟ la lingua generale a stabilire

una mediazione tra indios delle più diverse origini etniche e linguistiche ed i missionari. La

rapida espansione della lingua in Amazzonia nei secoli XVII e XVIII è un elemento

fondamentale per comprendere i progetti coloniali portoghesi, tanto nella dimensione

missionaria quanto nelle attività condotte da interessi particolari”53

. Le missioni in

Amazzonia danno un ulteriore stimolo alla produzione e alla pubblicazione di nuovi

manuali di grammatica – a cominciare dall‟Arte da Língua Brasílica di padre Luís

Figueira, stampata a Lisbona nel 1621 – e di catechismi – con la nuova edizione del

catechismo di padre Antônio Araújo (Catecismo Brasílico da Doutrina Cristã, con le

aggiunte di padre Bartolomeu de Leão, nel 1686) e il Compêndio da Doutrina Cristã na

Língua Portuguesa e Brasílica di padre João Felipe Bettendorf (nell‟anno successivo);

senza dimenticare l‟importante esperienza di traduzione in altre lingue indigene, come i già

citati lavori di Mamiani e di Bernardo di Nantes. In questo secolo, tuttavia, c‟è un‟altra

lingua indigena sud-americana, chiamata “lingua generale”, che condiziona la missione

catechetica gesuitica: la lingua guaranì. Come ha ben osservato Bartomeu Meliá, la politica

linguistica dei gesuiti, fin dal 1610 attraverso la strategia missionaria delle “Riduzioni”, tra

i Guaranì del Paraguay era ben strutturata, dal momento che si aveva chiara coscienza del

guaranì come lingua generale54

. Nel Sinodo di Assunción del 1603 possiamo leggere:

51

Questa prima fase è completa con la pubblicazione dell‟ Arte de Grammatica di Anchieta nel 1595: J. de

Anchieta, S. J., Arte de Grammatica da Lingua mais usada na costa do Brasil. Feita pelo padre Ioseph de

Anchieta da Cõmpanhia de IESU. Com licença do Ordinario e doPreposito geral da Cõmpanhia de IESU. Em

Coimra per Antonio de Mariz, 1595.

52

L. do Vale, Vocabulário da Língua Brasílica [1622], II ed. rivista, organizzazione e note di Carlos

Drumond, Universidade de São Paulo, São Paulo 1952.

53

J. M. Monteiro, Traduzindo Tradições, cit.

54

B. Melià, Elogio de la Lengua Guarani: Contextos para una educación bilingüe en el Paraguay, Centro

de Estudios Paraguayos “Antonio Guasch”, Asunción del Paraguay 1995.

21

“per il fatto di esserci molte lingue in questa provincia e molto difficili, ché per realizzare traduzioni secondo ognuna di queste sarebbe una grandissima confusione [...] ordiniamo e comandiamo che la Dottrina e Catechismo che si devono insegnare agli indios sia [redatta] secondo la lingua guaranì per il fatto di essere la più chiara ed essere parlata quasi generalmente in queste provincie...” 55

.

La storia della lingua guaranì è analoga a quella tupì: anche i Guaranì hanno tratto

vantaggio da una certa unità linguistica nei loro spostamenti e, soprattutto, come nel caso

del Brasile, alcuni viaggiatori europei del primo periodo coloniale si sono serviti della

stessa lingua in luoghi diversi e distanti. Se un linguista contemporaneo come Aryon

Dall‟Igna Rodrigues56

può affermare che, malgrado l‟enorme dispersione geografica, le

lingue della famiglia tupì-guaranì mostrano poche differenze, si può in qualche modo

comprendere, nonostante una giustificabile (in termini missionari) esagerazione, l‟enfasi

relativa a una (certa) estesa unità linguistica, in questi territori, descritta da padre Montoya

nella Prefazione al Tesoro de la Lengua Guaraní:

“Così universale [questa unità linguistica], che domina entrambi i mari, quello del Sud attraverso tutto il Brasile, e cingendo tutto il Perù, con i due più grandiosi fiumi che l’orbe conosce, che sono quello del Plata [...] e quello del Maranhão, per niente inferiore a quell’altro [...], aprendo [...] il passo agli uomini Apostolici, invitandoli alla conversione di innumerevoli gentili di questa lingua” 57

.

Oggi i linguisti indigeni identificano ventuno lingue vive della famiglia tupì-

guaranì in territorio brasiliano58

, senza prendere in considerazione le differenze dialettali.

Questo significa sì “unità” delle rispettive lingue generali, ma è impossibile parlare di una

loro “unicità”. Melià è su questo molto chiaro:

“l‟unità della lingua guaranì, appresa come sistema capace di garantire la

comprensione tra vari gruppi indigeni, fu presa in considerazione in quanto

principio di un altro tipo di unità: cioè, come norma che poteva essere promossa tra

i parlanti. Dall‟unità come struttura comune si passa all‟unità come norma

generale. L‟elaborazione di grammatiche e la divulgazione di scritti di fatto furono

due meccanismi dei quali si servirono i gesuiti del XVII e del XVIII secolo [ma

anche del XVI, in relazione al tupì], con l‟obbiettivo di creare, per così dire, una

55

“Por haber muchas lenguas en estas provincias y muy dificultosas, que para hacer traducción en cada una

de ellas, fuera confusión grandísima [...] ordenamos y mandamos que la Doctrina y Catecismo que se há de

enseñar a los indios sea en la lengua guaraní por ser la más clara y hablarse casi generalmente en estas

provincias...”. Sínodo de Asunción. Primera parte, 2ª Constitución. Cfr. Bartomeu MELIÀ. La Création d‟un

Langage Chrétien dans les Réductions des Guarani au Paraguay. 2 voll. Université de Strasbourg. 1969, pp.

28-29.

56

A. Dall‟Igna Rodrigues, Línguas Brasileiras: Para o conhecimento das línguas indígenas, Loyola, São

Paulo 1986, p. 32.

57

A. R. de MONTOYA, S. J., Tesoro de la Lengua Guaraní, Madrid 1639. Edizione facsimilare a cura di

Julio Platzmann, B.G. Teubner, Leipzig, 1876.

58

Aryon Dall‟Igna, RODRIGUES. Línguas Brasileiras. Citato, p. 33.

22

„lingua generale‟ che fu la più rappresentativa di un periodo coloniale e alla quale si

applicò, con un po‟ di esagerazione, l‟epiteto di „classica‟” 59

.

Non a caso l‟analogia della “politica linguistica” riguarda sia il percorso normativo

sia il processo di assimilazione al mondo occidentale: se la lingua guaranì è „classica‟, il

tupì è definito, a buon diritto, “greco della terra” 60

.

Due sono, a mio avviso, i principali processi che di fatto realizzano l‟unità

normativa, linguistica e culturale indigena finalizzata a fondare una possibilità

interpretativa gesuitica (occidentale). Da un lato la costruzione di villaggi (aldeamentos)

nei territori culturali tupì creano, con modalità ed intensità differenti, quel melting pot che

sarà soprattutto caratteristico delle Reducciones gesuitiche e che, determinando movimenti

di esodo di gruppi guaranì, realizzerà anche “discese” (descimentos), organizzate da

missionari, e massicci spostamenti di popolazioni native, realizzate da truppe di riscatto

(tropas de resgate), dopo la “nuova scoperta del Maranhão”; dall‟altro il processo di

meticciato linguistico favorisce la costruzione di regole necessarie per l‟elaborazione di

“lingue generali”. D‟altra parte il progetto coloniale, necessariamente politico,

caratteristico tanto delle “riduzioni” quanto delle missioni in Amazzonia, esige grandi

concentrazioni di villaggi indigeni: una nuova grammatica ed una nuova semantica

rendono possibile la pragmatica di questo nuovo sistema. La “politica linguistica” è

possibile quindi solo con la “riduzione” delle popolazioni indigene: anzi la “riduzione”

delle lingue orali alla scrittura, alla grammatica ed al dizionario è necessaria e funzionale a

questo processo. E‟ una vera e propria “conquista spirituale” delle lingue tupì e guaranì,

che è nello stesso tempo creazione pratica di un nuovo linguaggio61

.

E‟ certamente un fatto che, “la conversione poteva significare, per gli indigeni,

molto più che un‟esperienza religiosa: [...] [si prefigurava, soprattutto, come]

l‟acquisizione di un idioma capace di tradurre i sensi ed i limiti della dominazione

coloniale. [...] La conversione stabiliva un campo di mediazione determinando non solo i

contorni della sottomissione degli indios, ma offrendo anche gli strumenti per la

contestazione”62

. Ed è dunque, ancora, un fatto che “[in quanto] strumenti di traduzione, i

catechismi, i vocabolari e le arti di grammatica traducevano più che le [semplici] parole:

traducevano tradizioni [...]”.63

59

B. Melià, Elogio de la Lengua Guaraní, cit., p. 18.

60

Ch. de Castelnau-L‟Estoile, Les ouvriers d‟une vigne stérile. Les jésuites et la conversion des Indiens au

Brésil – 1580-1620, Centre culturel Calouste Gulbenkian, Lisbonne-Paris 2000, pp. 141ss.

61

B. Melià, Elogio de la Lengua Guaranti, cit., pp. 18-19.

62

Cfr., a questo riguardo, Vicente L. RAFAEL. Contracting Colonialism. Citato, p. 7.

63

John MONTEIRO, “Traduzindo Tradições”. Parte finale della comunicazione citata.

23

Tutti questi fatti non devono però far dimenticare la struttura comune, fondamento

ed origine del processo: la nuova grammatica e la nuova semantica permettono di

comprendere la pragmatica di questo nuovo sistema indigeno sub specie religionis: ed è

certamente questa la “riduzione” più significativa – ovvero sia, la possibilità interpretativa

più interessante – dell‟alterità culturale per la civiltà occidentale.