L’apprendistato come politica formativa: teorie, pratica, esperienze

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Webmagazine sulla formazione Anno V – Numero 37 ottobre 2005 1 /¶DSSUHQGLVWDWRFRPHSROLWLFDIRUPDWLYDWHRULHSUDWLFDHVSHULHQ]H Stefania Capogna 1 “… la società del futuro sarà quindi una società che saprà investire nell’intelligenza, una società in cui si insegna e si apprende, in cui ciascun individuo potrà costruire la propria qualifica. In altri termini una società conoscitiva […] sia le possibilità offerte agli individui che lo stesso clima di incertezza chiedono a ciascuno uno sforzo di adattamento, in particolare per costituire da sé le proprie qualifiche, raccogliendo e ricomponendo conoscenze elementari acquisite in varie sedi […]. L’attitudine di un individuo al lavoro, la sua autonomia, la sua capacità di adattamento sono legate al modo in cui saprà combinare queste varie conoscenze e farle evolvere”. (Cresson E., , Commissione Comunità Europea, 1995: 16) 3UHPHVVD Il presente articolo si propone di interpretare i cambiamenti introdotti dalla riforma dell’apprendistato, nel passaggio dalla L. 25/55 alla L. 196/97, portando alla luce il mutamento di prospettiva che ha orientato l’intervento di policy nel passaggio dal fordismo al post-fordismo. L’articolo si distingue in due parti. Nella prima parte si presentano quattro distinti modelli interpretativi che in fasi differenti hanno ispirato il modo di concepire le politiche formative e occupazionali in funzione del modificarsi del contesto socio-economico di riferimento. Lo scopo è quello di illustrare come siano cambiati, e perché, i principi teorici che hanno ispirato la recente riforma al fine di delineare la complessità dei nuovi scenari. La seconda parte si sofferma sulla valenza formativa di tale istituto prendendo in considerazione dapprima la questione della qualità della formazione, anche in riferimento all’istituzione della figura del tutor, e poi alcune criticità e problemi aperti che gravano sulla corretta attuazione della legge. Per fare ciò si è scelto di ricorrere ad un approccio narrativo (Czarniawsca, 2000) al fine di dar voce ai destinatari diretti dell’intervento 2 . ’DOODOHJJHDOOD/O¶HYROX]LRQHGHOPRGHOORWHRULFR Il varo della Legge 196/97 può essere letto come esito di un processo multi-dimensionale che sembra essere stimolato da alcune condizioni di contesto: pressioni delle Parti Sociali in relazione alla necessità da parte del Governo di prendere posizioni forti e significative per combattere la piaga della disoccupazione, soprattutto giovanile; peso crescente dell’Unione Europea che stabilisce le linee di intervento comuni che i singoli paesi devono rispettare per quanto concerne le politiche per il lavoro e quelle formative; riduzione delle risorse finanziarie destinate all’attività ricorrente in vista del prossimo allargamento dell’Unione Europea che sarà caratterizzato da una revisione dei criteri di distribuzione finanziaria; 1 Cultore della materia in Sociologia dell’Educazione e dei processi di socializzazione presso la Facoltà di Sociologia, Università di Roma “La Sapienza”. 2 Gli stralci di intervista si riferiscono ad una ricerca svolta, attraverso il metodo del FDVHVWXGLHV tra il 2001 e il 2003 in due regioni del centro-nord. La disoccupazione giovanile è parte della disoccupazione strutturale, cioè ha radici profonde all’interno della trasformazione delle condizioni di produzione; nel fenomeno di ineguale distribuzione dei posti di formazione e di lavoro; nell’ampliamento degli accessi al la lavoro anche a gruppi sociali tradizionalmente marginali

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� Webmagazine sulla formazione Anno V – Numero 37 ottobre 2005

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Stefania Capogna1�

“… la società del futuro sarà quindi una società che saprà investire nell’intelligenza, una società in cui si insegna e si apprende, in cui ciascun

individuo potrà costruire la propria qualifica. In altri termini una società conoscitiva […] sia le possibilità offerte agli individui che lo stesso clima

di incertezza chiedono a ciascuno uno sforzo di adattamento, in particolare per costituire da sé le proprie qualifiche, raccogliendo e ricomponendo

conoscenze elementari acquisite in varie sedi […]. L’attitudine di un individuo al lavoro, la sua autonomia, la sua capacità di

adattamento sono legate al modo in cui saprà combinare queste varie conoscenze e farle evolvere”.

(Cresson E.,

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Commissione Comunità Europea, 1995: 16) ���3UHPHVVD�

Il presente articolo si propone di interpretare i cambiamenti introdotti dalla riforma dell’apprendistato, nel passaggio dalla L. 25/55 alla L. 196/97, portando alla luce il mutamento di prospettiva che ha orientato l’intervento di policy nel passaggio dal fordismo al post-fordismo. L’articolo si distingue in due parti. Nella prima parte si presentano quattro distinti modelli interpretativi che in fasi differenti hanno ispirato il modo di concepire le politiche formative e occupazionali in funzione del modificarsi del contesto socio-economico di riferimento. Lo scopo è quello di illustrare come siano cambiati, e perché, i principi teorici che hanno ispirato la recente riforma al fine di delineare la complessità dei nuovi scenari. La seconda parte si sofferma sulla valenza formativa di tale istituto prendendo in considerazione dapprima la questione della qualità della formazione, anche in riferimento all’istituzione della figura del tutor, e poi alcune criticità e problemi aperti che gravano sulla corretta attuazione della legge. Per fare ciò si è scelto di ricorrere ad un approccio narrativo (Czarniawsca, 2000) al fine di dar voce ai destinatari diretti dell’intervento2. 'DOOD�OHJJH���������DOOD�/����������O¶HYROX]LRQH�GHO�PRGHOOR�WHRULFR�

Il varo della Legge 196/97 può essere letto come esito di un processo multi-dimensionale che sembra essere stimolato da alcune condizioni di contesto:

pressioni delle Parti Sociali in relazione alla necessità da parte del Governo di prendere posizioni forti e significative per combattere la piaga della disoccupazione, soprattutto giovanile;

peso crescente dell’Unione Europea che stabilisce le linee di intervento comuni che i singoli paesi devono rispettare per quanto concerne le politiche per il lavoro e quelle formative;

riduzione delle risorse finanziarie destinate all’attività ricorrente in vista del prossimo allargamento dell’Unione Europea che sarà caratterizzato da una revisione dei criteri di distribuzione finanziaria;

1 Cultore della materia in Sociologia dell’Educazione e dei processi di socializzazione presso la Facoltà di Sociologia,

Università di Roma “La Sapienza”. 2 Gli stralci di intervista si riferiscono ad una ricerca svolta, attraverso il metodo del FDVH�VWXGLHV tra il 2001 e il 2003 in due regioni del centro-nord. La disoccupazione giovanile è parte della disoccupazione strutturale, cioè ha radici profonde all’interno della trasformazione delle condizioni di produzione; nel fenomeno di ineguale distribuzione dei posti di formazione e di lavoro; nell’ampliamento degli accessi al la lavoro anche a gruppi sociali tradizionalmente marginali�

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esigenza di favorire un maggior raccordo con la realtà produttiva locale; necessità di giungere ad un generalizzato miglioramento e ampliamento di servizi formativi qualificati su

tutto il territorio nella logica del �OLIHORQJ�OHDUQLQJ. Profondi cambiamenti sono alla base dell’impianto teorico economico sotteso alla ideazione delle due leggi relative all’apprendistato: la prima del 1955 e la seconda del 1997. L’impianto teorico che ispira la L. 25/55 è fondato su una relazione funzionale e lineare tra educazione e lavoro e da un impianto economico produttivo tipicamente IRUGLVWD�WD\ORULVWD caratterizzato da un ambiente stabile, chiuso, protetto. Richiamando una classificazione operata da Lipari (2002) questa fase può essere definita PRGHUQLVPR. Il principio economico che ispira questa visione è quello della razionalità sinottica, assoluta, che prevede la massima prevedibilità e il miglior rapporto costi/benefici. E’ evidente che la cornice macrosociale che orienta queste concezioni è di tipo funzionalista. In una visione di questo tipo il soggetto è considerato perfettamente adattabile al sistema, si presenta alla stregua della macchina, una sorta di protesi della stessa: il lavoro dell’uomo è rigidamente predefinito e standardizzato. Secondo questa ottica vige il criterio della mansione parcellizzata; è la definizione minuziosa della procedura a guidare il processo. Si tratta, dunque, di un PRGHOOR�PHFFDQLFLVWLFR della realtà organizzata. Questo sistema regola perfettamente le società contadine e pre-moderne dove gli uomini erano a diretto contatto con la natura dalla quale traevano sostentamento e ricchezza grazie alle tecniche di lavoro acquisite nei secoli e tramandate in modo efficiente dal reticolo familiare e ambientale (De Mauro, 1997). Il sistema meccanico, dunque, si connette alla prima fase di sviluppo del sistema formativo italiano caratterizzato da accessi limitati (scuola d’élite), dove alla maggioranza delle persone era appena richiesto di saper leggere e scrivere (competenze di base), per assumere il ruolo ascrittivamente prescritto. In un sistema siffatto, l’istituto dell’apprendistato (L. 25/55), in coerenza con l’impianto teorico che lo ispira, considera il giovane apprendista un soggetto da socializzare al lavoro attraverso l’imitazione del “mastro”. Tutto il sapere è concentrato nell’esperienza pratico-operativa dell’operaio anziano e solo a lui spetta il compito di iniziare l’apprendista al mestiere: non serve altro. Al giovane, in genere, non è richiesta alcuna particolare abilità o conoscenza teorica. Nonostante il tumultuoso sviluppo economico che ha contrassegnato gli anni ’50-’60, in questo periodo, si resta ancora all’interno di un impianto fondato su una relazione lineare tra domanda e offerta di lavoro, anche se qualcosa comincia a cambiare. In questa seconda fase, che ricorrendo alla medesima classificazione può essere definita QHR�PRGHUQLVWD, la richiesta di manodopera specializzata comincia a far intravedere la necessità di valutare le persone per quello che sanno fare. Entra in gioco la soggettività dell’individuo, viene meno la regola della perfetta adattabilità e intercambiabilità tra le persone. Il lavoro cambia, chiede nuove conoscenze (Accornero, 1997). Non esiste più la sicurezza derivante dalla prescrizione della mansione e della procedura. E’ in questo spazio di tempo che si affermano “visioni pedagogiche più attente a promuovere capacità di adattamento alle variabilità del sistema e dell’ambiente (logica dell’adattamento attivo e formazione al ruolo)” (Lipari, 2002). Il modello di riferimento è quello RUJDQLFLVWLFR capace di rappresentare “sistemi in movimento” ma, pur sempre, all’interno di una logica ispirata all’adattamento funzionale. Nella ORJLFD� GHO� VLVWHPD� RUJDQLFR la formazione è diretta ad attivare, esaltare, guidare le motivazioni e le attese dei soggetti, è stimolo al cambiamento. E’ in questo filone di pensiero che si afferma e si diffonde la formazione extrascolastica, dove l’apprendimento, rivolto alla responsabilizzazione e alla gestione del ruolo, prende le distanze dall’apprendimento per affiancamento e imitazione. In questo nuovo equilibrio si insinua un bisogno di flessibilità eufunzionale: si richiede alle parti non di essere assolutamente stabili e invariabili ma adattabili. L’attenzione si sposta, quindi, dalla rigida prescrizione delle mansioni all’assunzione di ruolo che può essere variamente interpretato (Habermas, 1981) e svolto nel rispetto dell’equilibrio del sistema. Nella nuova configurazione, l’integrazione viene garantita dalla specializzazione funzionale del ruolo. Il controllo, in questo caso, è dato dalle norme e dai valori che si addensano attorno al ruolo stesso garantendo l’adattamento reciproco e continuo. Tale modello ci può aiutare a comprendere la seconda fase attraversata dal sistema educativo italiano, quella di massa (’50-’60), in cui una porzione sempre più ampia di popolazione accede ad una formazione superiore -sospinta anche dall’espansione industriale che assorbe rapidamente la nuova offerta di lavoro- nella speranza di acquisire posizioni migliori rispetto ai genitori. �Con gli anni ’80, si rompono i vecchi equilibri, entra in crisi la logica funzionalista, classica e lineare alla base di questi modelli. Il cambiamento, ovviamente, è dettato dal radicale mutamento dello scenario economico-politico: dall’affermazione di un mercato aperto e instabile, dallo sviluppo tecnologico, dalla competizione sempre più serrata, dagli effetti della scolarizzazione di massa, dall’affermazione di YDORUL�SRVW�PDWHULDOLVWL ecc. (Inglehart, 1983). Comincia a farsi strada la visione di un’organizzazione come VLVWHPD� FXOWXUDOH (Morgan, 1997) ove gioca in maniera determinante la soggettività dell’individuo come portatore di cultura e

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istanze proprie. Nella nuova visione, il concetto di ruolo perde la sua valenza prescrittiva e si inserisce in una cornice relazionalei. E’ la dimensione culturale, dunque, a giocare un ruolo determinante. In questa fase, definita SRVW�PRGHUQLVPR, la cornice macrosociologica di riferimento diviene O¶LQWHUD]LRQLVPR� VLPEROLFR, si diffondono “prospettive pedagogiche capaci di promuovere forme nuove di consapevolezza della realtà organizzata, e capacità di riflessione sull’esperienza (logica dell’apprendimento)” (Lipari, 2002). In tale visione il sistema è prodotto dalle interazioni tra i soggetti. L’attore diviene predominante; mentre nella logica del VLVWHPD�PHFFDQLFR si tende al cambiamento del soggetto verso il ruolo, e nella logica del VLVWHPD�RUJDQLFR si tende all’adattamento del ruolo verso una maggiore funzionalità del sistema, nella ORJLFD�GHOO¶DWWRUH� H� GHO� VLVWHPD� FRQFUHWR� (Maggi, 1997) si tende al cambiamento delle relazioni interpersonali, dunque, del sistema stesso. Nelle prime due prospettive –e soprattutto nella prima – il problema centrale è nell’ordine del sistema, nella terza visione diviene l’equilibrio del sistema medesimo: dunque, muta l’obiettivo. Il PRGHOOR� UHOD]LRQDOH è utile a interpretare la terza fase di sviluppo del nostro sistema educativo ed economico-sociale (anni ’80) che si distingue per un rapido processo di terziarizzazione, legato a cambiamenti strutturali nel modo di organizzare e gestire il lavoro. In questa fase il soggetto prende coscienza della propria esperienza per mezzo della formazione. La formazione non è più trasmissione dogmatica di nozioni e prescrizioni, ma stimolo al cambiamento del soggetto all’interno di un sistema flessibile, proponendosi, altresì, come orientamento non direttivo volto a sensibilizzare, sviluppare, potenziare ed affinare la capacità di comprensione dei fenomeni che caratterizzano la realtà sociale. E’ in questa logica che si comincia a delineare anche se in modo ancora impreciso, la funzione di orientamento. L’istituto dell’apprendistato ha attraversato indenne tutti questi cambiamenti, vivendo un periodo di ampia espansione, sia nel settore industriale che in quello artigianale, fino ai primi anni ’80, momento dopo il quale ha conosciuto una parabola discendente (Capogna, 2004). Si è dovuti giungere al 1997, con la L. 196, prima che l’impianto generale dell’istituto dell’apprendistato venisse rivisto. Questi anni sono stati segnati da una radicale metamorfosi che ha modificato completamente i principi teorici ispiratori della società moderna. In questa fase, da molti osservatori definita “seconda modernità” (Beck, 2000), viene definitivamente superata la relazione funzionale e lineare tra educazione e lavoro che un tempo ha orientato i sistemi educativi e lavorativi aprendo, così, una serie di criticità che diventa necessario interpretare e gestireii Infatti, è cambiato ulteriormente il sistema economico mondiale, si è affermato un mercato estremamente dinamico, aperto e flessibile, per lo più votato ad un modello SRVW�IRUGLVWD e SRVW�WD\ORULVWD, e costretto all’interno di una razionalità limitata che non consente il raggiungimento del miglior rapporto costi/benefici, bensì della soluzione più accettabile (Simon, 1969). Un mercato ove le organizzazioni, come in un ipertesto, sembrano aver perso i loro confini in quanto questi mutano continuamente a seconda del punto di osservazione prescelto. In un contesto siffatto, l’organizzazione diviene “logos del cambiamento” ovvero un continuo flusso in divenire (Morgan, 1997). Nel nuovo contesto segnato da turbolenze continue, la cornice macrosociale di riferimento, abbandonata l’ottica IXQ]LRQDOLVWD� si ispira ad una lettura FRVWUX]LRQLVWD della società: la società viene intesa, secondo questa visione, come FRVWUX]LRQH� VRFLDOH� (Berger, Luckman,1996�. E’ all’interno di questo IUDPH che si afferma la visione di un PRGHOOR�SURFHVVXDOH (Maggi, 1997) ove il sistema è concepito come un processo sociale: una successione di azioni e decisioni dotate di senso e orientate da scopi e valori. In questa logica l’attore è inscindibile sia dall’azione che dal processo medesimo e, al tempo stesso, è centrale perché è chiamato ad agire e progettare l’azione medesima. Il processo non è inteso come entità oggettivata, osservabile dall’esterno; l’osservazione, in questo caso, può avvenire solo dall’interno. Il processo non esiste né prima dei soggetti, né dopo i soggetti e le loro azioni, bensì si identifica con essi e con il divenire delle azioni medesime. Anche la formazione è concepita in maniera assolutamente diversa rispetto a prima, perché differente è il modo di interpretare il sistema. Cadono le distinzioni tra aula e addestramento, aula e formazione, formazione e vita attiva. La formazione diviene sviluppo e al contempo ausilio al progetto di vita e al suo svolgimento. L’accento si pone sull’azione riflessiva dell’agire e sulla sua capacità di produrre apprendimento. Questo modello, sembra il più utile ad interpretare la fase attuale, caratterizzata da una rapida tecnologizzazione del lavoro, dei processi e dei servizi in ogni ambito di vita, con una conseguente alterazione dei concetti VSD]LR�WHPSR��YLFLQR�ORQWDQR� ed una frantumazione dei punti di riferimento. In questo sistema la formazione diviene un LSHUWHVWR dove il percorso formativo non è mai finito, né univoco, ma può avvenire attraverso infinite modalità sotto la spinta del dibattito sul OLIH� ORQJ� OHDUQLQJ� e delle nuove opportunità offerte sia dalla molteplicità dei percorsi possibili, sia dallo sviluppo della formazione a distanza e dell’H�OHDUQLJ. ���

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intercambiabilità adattamento passivo

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M. organicistico:

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adattamento funzionale

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Modello culturale:

soggettività apprendimento

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Modello processuale (metafora dell’ipertesto)

inter-soggettività

adattamento negoziale

A ;�BC;,D <�> VH;W<�VWE0V�b <�E$b @Wc,> GJEdWe fJghjiHk�e l�m naljoJp�q f�oHh dWe hjp�g�e q r�q fjoHhsiJhjte kjfjt f gfjoHijq u�q pq fjoJhsiJhjt t l^e hJljt v w4p�fJg�q ljt h gfjn9d�hjv hjoJr�h

Fonte: nostra elaborazione da Lipari 2002

���La PHWDIRUD� GHOO¶LSHUWHVWR è utile a rappresentare questa visione dinamica del percorso formativo, dove il soggetto diviene protagonista e responsabile della via prescelta. Inoltre, è utile a rappresentare un sistema aperto dove sono possibili infiniti contatti e soluzioni differenti. E come nell’ipertesto diviene strategica la conoscenza dei giusti canali di ricerca, così per muoversi nel nuovo HGXFDWLRQ� V\VWHP, il soggetto ha bisogno di precise meta-competenze per ULFHUFDUH�� DFFHGHUH�� VHOH]LRQDUH�� GHFRGLILFDUH e LQWHUSUHWDUH� le informazioni, qualsiasi sia il livello di formazione raggiunto, pena il riproporsi di disuguaglianze ove il disagio e l’esclusione passa per vie più sottili, ambigue e simboliche. ���,QWHJUD]LRQH�H�FRPSHWHQ]D��L�QXRYL�³FHQWUL�GL�JUDYLWj´��In un complesso di elementi così delineato entra in crisi la visione di un soggetto perfettamente adattabile e intercambiabile all’interno dell’organizzazione, viene meno, altresì, la visione socio-tecnica propria dell’approccio sistemico e si afferma quella di un individuo concepito come risorsa strategica in virtù delle sue conoscenze e delle sue potenzialità creative: le sole in grado di garantire il confronto e la sopravvivenza nell’economia globale. In assenza di procedure standard che garantiscano l’organizzazione del lavoro, e in una situazione di elevata complessità e dinamicità, che si traduce in carenza di informazioni e necessità di adattamento continuo, si sente il bisogno, a tutti i livelli ed in tutti i settori, di individuare un nuovo “centro di gravità” attraverso il quale razionalizzare e riorganizzare i sistemi e le relazioni tra di essi. Si affermano, dunque, due SDVVHSDUWRX concettuali capaci di operare come “centri di gravità”, attivando forze centripete:

�LO�FRQFHWWR�GL� integrazione che attraversa tutta la sociologia sin dai prodromi della disciplina ma che trova oggi nuova forza in diverse declinazioni quali: QHWZRUN, rete, partenariato, accordi di programma, accordi di settore, concertazione, protocolli di intesa ecc.. Tutte queste modalità rappresentano le vie attraverso le quali è possibile, nell’attuale società, perseguire un tentativo di integrazione, a tutti i livelli di governo, per favorire un maggior coordinamento tra settori, persone e organizzazioni, interventi ecc.. Del resto, il tentativo di costruire un nuovo sistema formativo integrato si sviluppa almeno attraverso cinque distinte dimensioni: quella politica (politiche integrate, progettazione integrata, progettazione per obiettivi ecc.); quella territoriale (reti, partenariati ecc.); quella organizzativa (servizi per l’impiego, servizi di orientamento, percorsi di bilancio di competenze); quella che contraddistingue la filiera (tipologie di offerta: IFTS, apprendistato, stage, FP-scuola); quella didattico-pedagogica (relativa alle modalità di insegnamento) ���

�LO�FRQFHWWR�GL�competenza che rappresenta un superamento rispetto a quello di ruolo presentandosi come un oggetto intersistemico, trasversale, entrato nel lessico quotidiano di tutti gli attori ai differenti livelli, e attraverso il quale ognuno tenta un ripensamento del proprio assetto. Sulla scorta del nuovo concetto di competenza si è avviata una nuova comunicazione tra i differenti soggetti che contribuisce a delineare una rinnovata definizione della PLVVLRQ di ciascuno nel nuovo sistema formativo globale.

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Una sintesi del ragionamento fin qui svolto può essere riproposta attraverso lo schema seguente (schema n. 1), il quale mira a mettere in evidenza: cornice teorica, modello di riferimento, logica, modo di concepire il soggetto e principio integrativo che ispirano i diversi modelli, i quali passano da una visione statica presente nelle prime tre fasi ad una dinamica che contraddistingue l’ultima fase. Si passa, dunque, da un modello pedagogico di tipo LQIRUPD]LRQLVWD prettamente trasmissivo (presente nella prima e nella seconda fase) dove la formazione dell’apprendista passa per l’osservazione del mastro e l’imitazione; ad uno di tipo UHOD]LRQDOH�volto a recuperare la dimensione affettiva e interattiva all’interno della relazione educativo-formativa (III fase); per giungere, infine, a sviluppare un modello pedagogico di tipo FRVWUX]LRQLVWD che attribuisce piena responsabilità ai soggetti che partecipano al processo educativo (destinatari, insegnanti, agenzie formative, imprese) e che fanno dell’apprendista e del tutor (formativo e aziendale) i nuovi cardini nella costruzione delle competenze necessarie ad esercitare una cittadinanza attiva. ��Il processo di cambiamento avviato con la L. 196/97 è caratterizzato da una notevole complessità in quanto si inserisce nel quadro di un disegno istituzionale più vasto accompagnato, da una parte, dall’attuale processo di decentramento che conferisce nuovi poteri alle regioni e agli enti locali e che, in vista della GHYROXWLRQ, rende ancor più incerto lo sviluppo di questa tendenza; e, dall’altra, dalla riforma dei servizi per l’impiego che riconosce nel ruolo dei nuovi centri per l’impiego l’attore SLYRW: la cerniera e il collante della complessa rete tratteggiata dalla riforma del nuovo apprendistato. ,�GLIIHUHQWL�OLYHOOL�GHO�FDPELDPHQWR� La difficoltà che accompagna questo cambiamento istituzionale dipende dal fatto che procede a diversi livelli di profondità e in differenti sfere. Innanzitutto, agisce sulle competenze degli attori delle quali si richiede non solo la ridefinizione ma anche, e soprattutto, il potenziamento. In secondo luogo, incide sulla revisione dei piani organizzativi attraverso una rimodularizzazione dei discorsi interni e del rapporto di ogni singola organizzazione con il sistema più ampio (trasformazione ruolo CFP, enti locali, associazioni datoriali o sindacali ecc.). E, infine, produce nuovi RJJHWWL (Gherardi e Lippi, 2000, 2002) (norme, decreti, modelli, progetti ecc.) intorno ai quali si devono articolare i processi dell’organizzare nel nuovo quadro istituzionale. Questo inarrestabile processo, dunque, conduce all’affermazione di nuovi linguaggi, di nuove visioni, di nuove strategie che faticosamente, ma progressivamente, si attestano nella prassi quotidiana come, ad esempio, i concetti di: QHWZRUN, programmazione, co-progettazione, co-gestione, concertazione ecc.. Sinteticamente si può affermare che la riforma si articola su tre assi fondamentali attorno ai quali ruota tutta l’innovazione:

• la rivalutazione e l’obbligatorietà della formazione esterna all’azienda (pari ad almeno 120 ore annue) intesa come insegnamento complementare;

• l’integrazione tra sistema formativo-scolastico e sistema occupazionale nell’ottica del OLIH� ORQJ�OHDUQLQJ��

• il concetto di competenza. Ne consegue, dunque, un cambiamento profondo nelle relazioni e nei flussi di comunicazione di un sistema divenuto di grande complessità e di difficile gestione. Il raggiungimento degli obiettivi designati da questo complesso intervento di riforma implica, all’interno dei sistemi, l’introduzione di forti innovazioni le quali si pongono su tre livelli. Ad un primo livello -macro- si colloca il tentativo di ridisegnare l’intero assetto del sistema che, sulla base della recente normativa, si dovrebbe comporre di diversi sub-sistemi tra loro integrati e comunicanti. Ad un livello intermedio -meso- si delinea la ristrutturazione dei diversi sotto-sistemi (educativo, formativo, produttivo) in relazione al nuovo contesto di riferimentoiii. Il terzo livello, infine, quello micro, riguarda direttamente le pratiche quotidiane degli attori richiedendo un adattamento nei modi di lavorare, di relazionarsi ecc.. ���/D�IRUPD]LRQH�SHU�DSSUHQGLVWL��XQ�SUREOHPD�GL�TXDOLWj��Le sfide poste dal mondo della produzione alle soglie del terzo millennio mutano lo scenario nel quale la formazione professionale è chiamata ad operare. In questo modificato contesto, le azioni formative devono necessariamente assicurare il raggiungimento di standard di qualità, tali da garantire una risposta efficace ai

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bisogni professionali espressi dal mercato del lavoro senza trascurare quelle che sono le aspirazioni dei lavoratori. La rilevanza anche quantitativa che gli investimenti in formazione vanno assumendo in tutti gli ambiti di attività, fa sì che vi sia una crescente attenzione nei confronti dell’elaborazione di strategie progettuali metodologicamente fondate, nonché della valutazione e del monitoraggio dei dispositivi di azione formativa originati dalle medesime strategie. La qualità del processo formativo, in questa prospettiva, viene concepita come il risultato della messa in opera degli aspetti qualitativi insiti negli elementi che compongono il servizio stesso. Per produrre qualità nella formazione, secondo questa accezione, è necessario che si rispetti un principio di qualità nelle seguenti componenti del processo formativo: nelle componenti KDUG della formazione (tecnologia formativa in senso ampio); nell’organizzazione; nel sistema di erogazione; nel modo in cui si costruisce e si gestisce il momento relazionale. Realizzare interventi di qualità significa: porre il cliente al centro delle attenzioni; caratterizzare in termini di competenze la qualità del servizio erogato; gestire e presidiare la qualità dell’intero processo di formazione; riconoscere che l’acquisizione e la messa in opera delle competenze sono il risultato di una co-produzione che mette in relazione contesti e attori; realizzare modalità strutturate di misurazione (Montedoro, 2000). La ricerca della qualità richiede, dunque, un approccio multidimensionale ed una vigilanza costante della coerenza di un insieme di azioni: l’atto pedagogico non può essere concepito come un atto isolato. La qualità della formazione professionale è il risultato di una serie concatenata di iniziative che vanno dall’analisi dei fabbisogni formativi, allo sviluppo dei curricoli e dell’organizzazione della formazione fino alla valutazione dei risultati (Pavan, 1998). In generale, tutti gli studi nazionali parlano di un cambiamento da parte delle imprese nei confronti della formazione professionale, sia di quella permanente, sia di quella iniziale. Essa assume un ruolo strategico ai fini della realizzazione degli obiettivi economici dell’impresa e, di conseguenza, non viene più offerta o acquisita come una prestazione subordinata, bensì inclusa nella pianificazione dell’impresa stessa. Ma anche alla luce di queste riflessioni risulta difficile definire in maniera univoca il concetto di qualità applicata alla formazione. Essa dipende da diversi fattori quali la natura stessa dei prodotti o dei servizi, il contesto in cui essi vengono forniti, le aspettative di utenti o fruitori: è, in pratica, un concetto relativo e pluridimensionale. E’ comunque fondamentale sottolineare che le percezioni dell’utente circa la qualità di un servizio, e, quindi, anche della formazione, derivano sempre da un costante confronto tra le sue aspettative e l’esperienza effettiva. Partendo da questo presupposto emerge l’importanza di ricercare e definire non tanto, e non solo, la qualità della e nella formazione, quanto la TXDOLWj� SHGDJRJLFD

iv dell’offerta formativa medesima. L’innalzamento complessivo del livello di qualità può essere ottenuto attraverso la valorizzazione della dimensione pedagogico-didattica dei servizi formativi. La qualità delle attività formative -sia nella formazione iniziale che in quella continua- dipende non solo dalle aspettative del mercato del lavoro ma anche da quelle degli utenti: genitori/alunni e dipendenti. E’ possibile asserire che la produzione di qualità del servizio in un qualsiasi centro di formazione professionale, dipende da tre macro-variabili: le risorse umane, le tecnologie, l’organizzazione. Tralasciando tutto il dibattito sulla qualità nella formazione - che in questo caso ci porterebbe fuori tema - si può asserire che i concetti ritenuti capaci di rilevare la presenza di una qualità delle azioni applicabili ai progetti di formazione sono: l’orientamento dei processi; la corretta messa a fuoco dell’utente; l’assicurazione di qualità dei processi interni; la verifica costante dello sviluppo della qualità delle azioni (ISFOL, 1999/a). Tutto questo discorso diventa ancor più delicato alla luce della complessa relazione pedagogica che esiste tra momento formativo di aula ed esperienza pratico-operativa che il giovane -in contratto di apprendistato- svolge sul luogo di lavoro. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’esperienza RQ� WKH� MRE è assolutamente preponderante rispetto all’aula e che i due luoghi di apprendimento tendono a presidiare bisogni di formazione differenti: la formazione esterna è deputata a formare, prevalentemente, competenze di base e trasversali; mentre la formazione sul lavoro mira a forgiare la competenza tecnico-specifica. Favorire la connessione e la coerenza tra queste diverse aree di bisogno formativo non è cosa semplice e, ancor oggi, come si avrà modo di osservare, vi sono molte criticità irrisolte. Anche rispetto alla valutazione si pongono problemi di interpretazione. E’ utile ricordare, infatti, che nelle esperienze di alternanza formazione-lavoro la valutazione viene effettuata attraverso la verifica degli apprendimenti. Valutare gli apprendimenti significa verificare quali risultati, in termini di mutamento, ha prodotto nei soggetti un intervento formativo, ma resta aperto il problema della valutazione delle competenze: a chi spetta tale compito, come deve essere condotto e sulla base di quali criteri e standard di riferimento. Tuttavia, l’analisi valutativa dell’apprendimento e, più in generale, della formazione, viene a

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delinearsi come investimento non materiale delle imprese. Una problematica strettamente connessa alla valutazione della formazione in impresa è insita nel suo non poter prescindere da considerazioni riguardanti anche le motivazioni e la disponibilità degli individui interessati dal processo formativo. La formazione, secondo questa logica, costituisce, un co-investimento che coinvolge simultaneamente le persone che si formano e quelle che determinano la messa in pratica delle loro capacità. La valutazione di tipo economico della formazione parte da un assunto: che si desideri non tanto ‘spendere’ quanto ‘investire’. � /D��WXWRUVKLS�FRPH�JDUDQ]LD�GL�TXDOLWj������ Gli strumenti utilizzati per l’alternanza, quali l’apprendistato (o i tirocini)� non costituiscono di per sé degli strumenti di apprendimento. Gli attori che, in un modello ideale, contribuiscono a determinare il successo del progetto formativo sono molteplici e hanno compiti e ruoli differenti: responsabili del corso, coordinatori, tutor. In particolare, è l’azione del tutor aziendalev che riveste un ruolo determinante all’interno di un progetto di alternanzavi . La scelta e la nomina del tutor aziendale hanno un’importanza fondamentale dal momento che il suo ruolo è cruciale per la qualità dell’esperienza che il giovane potrà realizzare. La designazione di tale figura non dovrebbe consistere in un mero adempimento burocratico, perché è lui che dovrebbe accogliere il giovane e sostenerlo nell’intero percorso di apprendimento sul luogo di lavoro. Il principale compito del tutor è quello formativo, in base al quale dovrebbe svolgere “funzioni istruttive, educative, disciplinari od organizzative per incarico o delega di colui che ne ha il mandato responsabile” (Di Nubila, Fabbri e Margiotta, 1999). Il ruolo del WXWRU��dunque��si giustifica come responsabile di un sistema di azioni eminentemente protese ad assicurare: approfondimento e personalizzazione degli apprendimenti; incremento dell’efficacia didattica e formativa dei corsi; progressiva esplicitazione degli obiettivi reali perseguibili nella dimensione di studio, di relazione e di orientamento. Il ruolo del WXWRU, tuttavia, racchiude in sé una particolare complessità in quanto richiede non solo conoscenze mirate ed approfondite ma anche competenze ed abilità che devono essere proprie della persona che ricopre tale funzione (conoscenze e competenze multidisciplinari, disponibilità a farsi carico di responsabilità burocratiche e personali nel rapporto con il giovane, apertura al dialogo e alla negoziazione tra i vari soggetti che animano la formazione professionale). Per quanto vi siano indicazioni di quale sia il percorso formativo per diventare WXWRU mancano ancora oggi, tuttavia, definizioni univoche circa i requisiti richiesti in ingresso per questa figura professionale. Nella realtà chiunque può svolgere tale professione, anche se non possiede i requisiti richiesti, normalmente la scelta di tale figura viene fatta in base a criteri personali o di disponibilità. Essere WXWRU, in molte situazioni, non corrisponde a una professione specifica, ma solamente ad una mansione svolta da una persona ritenuta idonea. Per quanto riguarda l’apprendistato, possono ricoprire questo ruolo didattico-organizzativo sia un lavoratore scelto dall’azienda, sia lo stesso titolare (soprattutto se si tratta di un’organizzazione di modeste dimensioni). Per tutti questi motivi, dunque, sarebbe più coerente definire la WXWRUVKLS come una funzione svolta da un individuo e non da una figura professionale specifica, poiché chi si dichiara tale, nella maggior parte dei casi, non ha alcuna competenza distintiva: non si ha quasi mai la garanzia che i WXWRU�designati possiedano le conoscenze/competenze necessarie a svolgere tale funzione. Infatti, non si tratta più solamente di trasmettere la competenza tecnico-specifica per affiancamento, ma di muoversi all’interno di una complessa rete di relazioni al fine di accompagnare il giovane apprendista all’acquisizione-costruzione di un ventaglio di competenze (suffragate da precise conoscenze teoriche) ben più articolato. Il nuovo modello formativo dell’apprendistato (L. 196/97) trova un elemento di profonda innovazione e di sistematicità nell’introduzione della figura del tutor aziendale, infatti, la nuova disciplina dell’istituto dell’apprendistato costituisce il primo esempio in cui la figura del WXWRU viene esplicitamente prevista e in qualche misura normata. In quest’ambito la funzione di tutore è istituita “DO�ILQH�GL�DVVLFXUDUH�LO�QHFHVVDULR�UDFFRUGR�WUD� O¶DSSUHQGLPHQWR�VXO� ODYRUR�H� OD� IRUPD]LRQH�HVWHUQD” (art. 16 della legge 196/97. Nel decreto 22/2000, riguardante il tutore aziendale per l’apprendistato, sono definiti il ruolo, le funzioni e le competenze (Cacciani, 2000) vii. Tale figura professionale, in paesi come Francia, Danimarca, Germania e Austria, dove esiste una lunga esperienza sull’apprendistato, è uno dei cardini del sistema formativo. Il suo ruolo riveste un’importanza crescente nell’ambito delle nuove prassi formative cosiddette duali, che abbinano la formazione all’attività lavorativa vera e propria, al fine di ottenere qualifiche il più possibile rispondenti alle esigenze del mercato del lavoro. La funzione tutoriale in ambito organizzativo costituisce l’interfaccia con l’azienda per favorire iniziative di formazione continua ed assicurare valore formativo al lavoro. Tuttavia, in Italia le potenzialità di questa nuova politica formativa restano ancora largamente

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sottovalutate e incomprese vista la scarsa attuazione che ha fatto seguito alla riforma, la quale si presenta fortemente squilibrata a livello territoriale. �

&ULWLFLWD¶�H�SUREOHPL�DSHUWL� In Italia il dibattito sul “sistema integrato” è passato da uno stato di debolezza tipica degli accordi dei primi anni ’90 a delle forme di integrazione forte che, grazie alla fervida attività legislativa e di concertazione degli ultimi anni, ha teso a ridisegnare l’intera architettura e a ricondurla all’interno di un sistema di regole unitario. Questi anni di attuazione, dibattito e monitoraggi hanno messo in luce che l’entrata a regime richiede ancora tempi lunghi e che la dimensione territoriale assume un ruolo cruciale. Lo stato di attuazione della riforma che prevede l’obbligo della formazione esterna per apprendisti, infatti, è caratterizzato da differenti velocità sul territorio nazionale frutto di differenti tradizioni amministrative e realtà socio-economiche dalle quali non si può prescindereviii. I tempi lunghi necessari per la realizzazione di questa riforma dipendono da diversi fattori tra loro correlati: la difficoltà di definire una volta per sempre e inequivocabilmente l’oggetto della riforma in un mercato del lavoro convulso come quello moderno; la difficoltà di gestire le variegate tematiche che in essa convergono; la necessità di consolidare uno stile di governo fondato sul dialogo inter-istituzionale e non più sulla separatezza amministrativa, l’inadeguatezza dello strumento in rapporto al terziario caratterizzato da spiccata flessibilità. Allo stato attuale i recenti monitoraggi dell’ISFOL e il dibattito politico-istituzionale consentono di porre in evidenza alcuni nodi problematici, cui sarebbe necessario far seguire un nuovo adeguamento normativo, al fine di armonizzare quanto finora realizzato. Tra le criticità più rilevanti è possibile annoverare, come ricorda la Montedoro (2000): a) la necessità di una politica formativa di indirizzo nazionale che chiarisca meglio il ruolo di ciascun soggetto coinvolto, le finalità formative, le responsabilità politico gestionali, le funzioni e le competenze dei singoli attori. E’ vero che la forza dell’integrazione sta nella capacità di dialogare a livello locale ma è anche vero che perché questo possa avvenire senza frizioni è necessario che vi sia un’insieme strutturato di regole definite e un sistema di valutazione in grado di garantire omogeneità e trasferibilità su tutto il territorio nazionale; b) la necessità di definire in maniera chiara ed univoca gli standard formativi, le modalità di certificazione e di riconoscimento dei crediti; c) le finalità da assegnare al sistema formativo; occorre pensare ad un sistema formativo multiculturale che porti a superare l’attuale impostazione centrata su un modello scuolacentrico e che conduca all’affermazione di un vero modello policentrico capace di riconoscere piena dignità alle modalità di formazione alternative che possono venire dalla formazione professionale o dal mondo del lavoro. Il rischio che si profila è quello di inserire nell’attuale crisi SRVW�IRUGLVWD che caratterizza la società della conoscenza, una sorta di modello aziendacentrico, dove la scuola continua ad essere la depositaria delle teorie, mentre l’azienda resta il luogo della pratica, del reale e dell’esperienza (Chiari , 2000). Tra le altre criticità, tuttora irrisolte, si possono ricordare: la difficoltà a conciliare l’attività formativa con le esigenze produttive dell’azienda (la modalità di fruizione preferita dalla maggioranza è, comunque, l’alternanza tra momento teorico-operativo); la necessità di effettuare un’analisi delle competenze in entrata che non deve assolutamente essere percepita come una prova; la creazione di banche dati regionali con l’individuazione del livello di imputazione del dato e di gestione dell’informazioneix; la necessità di garantire un’assistenza tecnica regionale (in tutte le regioni) e magari la presenza di strutture di coordinamento intermedio (che in parte già esistono, si pensi, ad esempio, alle Agenzie regionali del lavoro o alle Agenzie di sviluppo locale) che supporti la creazione della rete, ma, al contempo, anche un’assistenza tecnica alle regioni che sono rimaste più indietro nel processo di implementazione. Altri nodi critici, inoltre, riguardano le fonti di finanziamento e la formazione del personale preposto al coordinamento e alla docenza per questa particolarissima tipologia di utenza per la quale va ripensato completamene l’approccio e le metodologie di insegnamento; senza contare, inoltre, i vincoli burocratici e amministrativi che ancora pesano sul corretto svolgimento di un percorso che deve essere improntato alla massima flessibilità (D’Arcangelo, 1998). Oggi, tutti gli operatori della scuola, della formazione e gli stessi imprenditori sono d’accordo in modo unanime su un punto: il sapere che gli allievi devono poter acquisire nella scuola per essere autonomi e produttivi nel mondo del lavoro si riassume nel saper progettare; cioè essere in grado di individuare le variabili essenziali di un problema in modo da impostare una corretta

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metodologia per risolverlo. Questo accordo di fondo presuppone la necessità di uscire dal tradizionale sapere nozionistico per mettere i giovani nella condizione di imparare un metodo di apprendimento. Non è chiaro, tuttavia, attraverso quali strategie è possibile realizzare questo obiettivo volto al trasferimento di meta-competenze fondamentali per lo svolgimento di un ruolo lavorativo nel moderno processo di produzione. ��

4XDOH��IRUPD]LRQH�HVWHUQD�SHU�JOL�DSSUHQGLVWL���,O�SXQWR�GL�YLVWD�GHL�GHVWLQDWDUL���D]LHQGH�H�DSSUHQGLVWL� Le criticità più ricorrenti emerse da questo lavoro di ricerca, e che pesano sul buon esito della formazione esterna, riguardano primo fra tutti la forte frammentazione territoriale che si concretizza per molti apprendisti nella difficoltà a raggiungere la sede del corso. La difficoltà di raggruppare territorialmente e settorialmente un consistente numero di apprendisti costringe a creare gruppi eterogenei. Ma, tale eterogeneità si riversa pesantemente sulla gestione dell’aula. Non solo è diversa la professione di riferimento dei singoli apprendisti e quanto fanno in azienda ma anche le loro motivazioni, aspettative, esperienze pregresse ecc.. Tali problematiche, spesso, rendono molto difficile l’attuazione delle diverse fasi del processo di apprendimento. Per questo motivo, si sente l’esigenza di comporre gruppi più omogenei (le regioni si sono organizzate in modi diversi per fronteggiare questa necessità) sui quali effettuare l’intervento formativo in modo da garantire una maggiore coerenza e favorire una più alta motivazione e partecipazione. Se l’apprendista trova inutile la formazione esterna o non è interessato ai suoi contenuti, l’insoddisfazione e il rischio di abbandono aumentano. Al contempo, l’azienda che già vive con sacrificio l’assenza di una risorsa umana, specie se si tratta di una piccola realtà produttiva, tende ad opporre resistenze o, comunque, a non considerare positivamente l’impegno formativo esterno scoraggiando la partecipazione dei giovani alla formazione esterna. Le imprese, per lo più, “YHGRQR� OD� IRUPD]LRQH� FRPH� XQ� PDOH� QHFHVVDULR� H� OD� YHGRQR� WXWWD� OHJDWD� DO� ORUR�LPPHGLDWR� H� VSHFLILFR� ELVRJQR� GL� LPSUHVD� VHQ]D� ULXVFLUH� D� FRQVLGHUDUH� FKH� XQ� ODYRUDWRUH� GRWDWR� GL� XQD�IRUPD]LRQH�SL��DPSLD�SXz�HVVHUH�XQD�ULVRUVD�DQFKH�SHU�O¶LPSUHVD” (formatore). La questione dell’equilibrio – e della trasparenza – tra preparazione trasversale (che sostiene il soggetto nel reinserimento sul mercato del lavoro) e preparazione tecnico-specifica (che protegge l’impresa dal rischio della mobilità interaziendale) diviene cruciale, dunque, per rendere appetibile la formazione sia agli occhi degli imprenditori sia a quelli dei giovani che oggi “QRQ�YHGRQR�TXHVWD� IRUPD]LRQH�FRPH�XQ� �SDWULPRQLR� H�QRQ�FDSLVFRQR�FKH�KDQQR�ELVRJQR�GL�IRUPDUVL�SHU�QRQ�UHVWDUH�HVFOXVL�>GDO�PHUFDWR�GHO�ODYRUR@” (formatore. Per quanto concerne le parti datoriali è fin troppo evidente che esistono molteplici e diversificati interessi a seconda se si parla di piccola - piccolissima - o grande industria. Ma la molteplicità di questi interessi può essere ricondotta sotto un unico FRPXQ� Genominatore: l’impresa (ma anche l’apprendista) ha bisogno di conoscere e riconoscere i propri interessi (mediati o immediati) nella formazione esterna altrimenti non ha alcun interesse a rispettare - o partecipare responsabilmente - all’obbligo. E il punto di equilibrio rispetto a questi interessi è molto lontano dall’essere raggiunto: per questo motivo, l’impresa schernisce, rifiuta e si sottrae all’obbligo di una formazione alla quale non riconosce alcun valore, alcun credito e alcuna certificazione (Capogna, Lipari 2002). E questo perché le aziende non riescono a riconoscere una coerenza tra gli obiettivi formativi teorici previsti dai programmi proposti e quelli pratici perseguiti dall’impresa nella formazione RQ�WKH�MRE del giovane apprendista. Nel nostro paese, senza dubbio, il contratto di apprendistato continua a svolgere un ruolo significativo nella costruzione di competenze riconosciute dal mercato ma questo senza nessun riconoscimento per la formazione prevista ed erogata che resta solo un obbligo “XQD�JUDQ�SHUGLWD�GL�WHPSR; XQD�FRVD�GD�HYLWDUH�SRVVLELOPHQWH” (imprenditore). Ed è questo un dato che non viene confortato nemmeno dal monitoraggio nazionale il quale, al contrario, rinforza in maniera netta il diniego verso una formazione di cui il mondo imprenditoriale non riconosce alcuna utilità. Certamente, questo è un elemento critico su cui riflettere se si vuole valorizzare questo strumento secondo il modello� GXDOH� WHGHVFR

x ove le imprese svolgono un ruolo di primo piano grazie anche al tornaconto di cui godono. Tornaconto che non è solo di natura economica ma anche di investimento in una formazione che si presenta utile e necessaria agli interessi stessi dell’impresa, al suo sviluppo e al suo posizionamento nel mercato globale e nella società della conoscenza. Il bilanciamento tra l’interesse specialistico della parte datoriale e l’interesse più generale della collettività -più orientata a salvaguardare nel giovane l’acquisizione di competenze di base e trasversali- sembra il punto cruciale su cui cade l’intervento.

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Anche nelle poche regioni dove si è riusciti a garantire la formazione esterna a tutti gli apprendisti il punto di vista delle imprese è, in linea generale, assolutamente negativo: ³ODVFLDWHOD� IDUH�DOO¶D]LHQGD� OD� IRUPD]LRQH��0D�FKH�QH�VD�O¶HQWH�GHOOD�IRUPD]LRQH�FKH�VHUYH�DOOD�PLD�D]LHQGD�H�GL�TXDOL�FRPSHWHQ]H��H�FRPH�RUJDQL]]R�LR�

LO�PLR�ODYRUR��3XUH�VH�FL�VRQR�GXH�D]LHQGH�LGHQWLFKH�LO�PRGR�GL�ODYRUDUH�GL�TXHVWH�q�FRPSOHWDPHQWH�GLYHUVR´��LPSUHQGLWRUH���perché sono diversi i valori che orientano le scelte, il processo decisionale e relaziona interno all’azienda, la stessa dinamica di processo ecc.. L’imprenditore e l’apprendista devono capire a cosa serve tale sforzo e quali benefici ne possono trarre. A questo scopo, è necessario un maggiore sforzo di informazione, pubblicizzazione e promozione, ma anche di contestualizzazione e negoziazione dei contenuti formativi forniti. Presumibilmente, le aziende sarebbero più motivate se potessero co-definire il progetto formativo dell’apprendista insieme all’agenzia formativa deputata all’erogazione dei contenuti, piuttosto che accettare un pacchetto di argomenti standard, a volte inutile o ripetitivo rispetto al proprio operato. Purtroppo, è molto forte il rischio, che è bene evitare, di riprodurre il modello scolastico dal quale, del resto, questi giovani sono per lo più fuggiti. E’ necessario suscitare nuove motivazioni e proporre modelli alternativi maggiormente legati all’esperienza di apprendimento in azienda. �Questo significa tuttavia, sviluppare un intenso e attento lavoro orientato alla declinazione dei contenuti più generali secondo le esigenze del tessuto economico-produttivo locale. E ciò non può avvenire in assenza di una reale ed efficace pratica negoziale volta a definire l’obiettivo e l’interesse comune e a strutturare i nodi cruciali di questa difficile relazione. Una pratica che non può essere di natura adempimentale, ma che deve essere ispirata al confronto serrato poiché l’equilibrio delle parti, delle competenze come anche dei contenuti formativi e dei modi e tempi di erogazione, vanno trovati in un terreno tutto da scoprire, ove si sappia davvero produrre strumenti di programmazione, gestione, monitoraggio e valutazione completamente nuovi.���Tuttavia, le resistenze non si incontrano solo da parte delle imprese che non riconoscono il loro interesse in una formazione che non hanno richiesto, di cui non comprendono l’utilità e che spesso è lontana dal loro interesse reale e immediato. Ma si incontra anche una effettiva resistenza da parte del “GLSHQGHQWH�SHUFKp�VH��PDQFD�XQD�VHWWLPDQD�GDO�ODYRUR�YXRO�GLUH�FKH�OD�VHWWLPDQD�GRSR�QRQ�SXz�XVXIUXLUH�GHOOD�PDODWWLD��R�GHYH�UHFXSHUDUH� SHUFKp� WURYD� LO� ODYRUR� DPPXFFKLDWR�� 3XUWURSSR� TXHVWD� q� OD� UHDOWj” (tutor formativo). E, in particolare, proprio di quelli che avrebbero un maggior bisogno della formazione perché usciti troppo presto dal circuito educativo-formativo. Un’ulteriore categoria di problemi emersa, e tutta da valutare, investe il ruolo giocato dai sindacati nella promozione dell’attività di formazione esterna: “l¶D]LHQGD�QRQ�SXz�IDUH�XQ�FRUVR�GL�IRUPD]LRQH�WXWWR�LQ�RUDULR�GL�ODYRUR��&L�GRYUHEEH�HVVHUH�XQ�LQWHUHVVH�FRPXQH�D�VYROJHUH�LO�FRUVR�SHU�PHWj�LQ�RUDULR�GL�ODYRUR�H�SHU�PHWj�IXRUL�RUDULR��$QFKH� LO� ODYRUDWRUH�KD� � LQWHUHVVH�DG�XQ�DFFRUGR�GHO�JHQHUH�SHUFKp���VH� O¶D]LHQGD�FKLXGH�UHVWD�VHQ]D� ODYRUR�� 1RQ� VDUHEEH� PHJOLR� � LQFRQWUDUVL� D� PHWj?” (formatore). Molto forte, dunque, è il bisogno di orientarsi verso una formazione fondata sul principio del co-investimento, della cor-responsabilità, dove l’azienda, ma anche l’apprendista, decidano di spendere parte del loro tempo per un comune e più esteso interesse. Solo una reale motivazione intrinseca (Fransson, 1977) a partecipare responsabilmente all’attività formativa può dare in esito un effettivo apprendimento ed un miglioramento delle SHUIRUPDFHV� mentre una partecipazione passiva, obbligatoria o finalizzata semplicemente ad allontanarsi dal luogo di lavoro si presenta per tutti gli attori coinvolti nella relazione educativa come un’opportunità sprecata. �

&RQFOXVLRQL��Sulla scorta delle considerazioni sinora svolte è possibile operare qualche riflessione sul valore e l’utilizzo del contratto di apprendistato come politica -e strumento- formativo. L’apprendistato, infatti, è ritenuto, dai più, il migliore tra i contratti a FDXVD� PLVWD proprio per la sua formazione spiccatamente tecnica che consente, anche ai giovani con scarsa qualificazione, di accedere -e rimanere- nel mercato del lavoro, grazie a qualifiche professionali forti. Dalle evenienze emerse, nondimeno, si possono rilevare due differenti ordini di problemi. Innanzitutto, è opportuno considerare che l’apprendistato non può essere considerato alla stregua di qualsiasi altro intervento formativo, bensì necessita di un ripensamento radicale sin dal suo approccio. Infatti, 120 ore di formazione esterna sono solo un’appendice dell’esperienza professionale che il giovane

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svolge in azienda e non si può pensare che l’offerta sia decontestualizzata rispetto al suo ambito di formazione primario. Gli esiti di un intervento decontestualizzato si possono leggere nella chiara avversione e derisione dimostrata da giovani e imprenditori ma, evidentemente, e ancor di più, anche nell’inefficacia dell’intervento. Infatti, se non si stabilisce una connessione (una coerenza) tra il FDSLWDOH�XPDQR� formato e il contesto economico-produttivo locale, l’efficacia dell’intervento formativo perde tutto il suo valore intrinseco poiché le competenze acquisite andranno rapidamente disperse con un evidente e incalcolabile spreco di risorse. Da questo punto di vista, il coinvolgimento, la responsabilizzazione e il reale accordo delle aziende circa l’utilità e la validità dei contenuti erogati non è solo questione di stile ma rappresenta una opzione di sviluppo locale che, tuttavia, non deve essere asservita, né schiacciata, sulle ristrette esigenze economico-produttive territoriali, pena il rischio di comprimere, anziché sostenere processi di innovazione più estesi. Il secondo ordine di considerazioni si riferisce, alla questione dello spostamento di competenze dal centro alla periferia. Nel nuovo quadro istituzionale la Regione viene ad assumere un ruolo preminente di guida, programmazione, assistenza, monitoraggio e valutazione. In altri termini, diviene soggetto politico locale. Se prima si poneva solo come riferimento gerarchico senza che vi fossero legami di alcun tipo con i co-attori locali, ora, questo non è più possibile. Bensì, alla Regione è richiesto di assumere quel ruolo di FRDFKLQJ�(Capogna, 2004)�necessario a facilitare la costituzione di una rete stabilmente dialogante nell’ottica di uno sviluppo collettivo. Si prefigura, per questa via, una sorta di regionalizzazione della occupazione -così come è avvenuto per le politiche sanitarie ed educative- caratterizzato da un sistema a due polarità (Benadusi, Serpieri, 2000) dove coesistono due differenti livelli di politiche: quelle dello Stato orientate a definire linee di indirizzo generali, e quelle della regione che assumono un carattere spiccatamente gestionale. In questa prospettiva, tuttavia, forse maggiore attenzione va posta alla questione della responsabilità dei due attori e della missione compensativo-perequativa che lo Stato dovrebbe svolgere in vista di eventuali e sempre possibili fallimenti. Da tutto ciò, emerge la necessità di una chiara politica formativa di indirizzo nazionale che definisca in maniera definitiva il ruolo, le responsabilità, le funzioni e le competenze dei singoli attori istituzionali. In assenza di un sistema di regole strutturato e di un metodo di valutazione condiviso, l’unica cosa che si può rilevare è una sorta di “giungla” delle qualifiche, della formazione e dell’implementazione al livello territoriale. �In conclusione, infine, può essere utile riflettere sulla lettura critica condotta da alcuni esponenti del mondo istituzionale e scientifico. Come si può leggere nella sintesi del Libro verde (1994, p. 10) sulla politica sociale europea, infatti: “il sistema trilaterale dello Stato, del sindacato e delle aziende, benché sostenuto dai governi e dalle parti sociali di quei paesi ove esso è correttamente praticato, è ritenuto da altri, trattandosi di un modello studiato precipuamente per un contesto industriale meno valido per il futuro, quando è probabile che la creazione di nuovi posti di lavoro si verifichi piuttosto nel settore dei servizi, soggetti ad un’evoluzione rapida e costante, e in nuovi settori (solo a titolo di esempio, quello delle energie alternative o delle tecnologie informatiche e telematiche dove si lavora prevalentemente per progetti). Si ricordi, inoltre, l’ampia diffusione di lavori che, grazie alle nuove tecnologie, possono essere svolti in proprio attraverso le nuove modalità di lavoro flessibile introdotte prima dalla riforma Treu (L.196/97) e poi ampliate dalla recente riforma Biagi (L. 30/2003). Se si considera che tali riflessioni sono argomento di dibattito negli stessi paesi dove l’apprendistato ha fatto storia (si pensi alla Germania) è inquietante pensare che così tanti sforzi vadano verso un modello che per alcuni versi appare superato dato il progressivo indebolimento del settore industriale e, in particolar modo, della manifattura, al quale fa seguito un declino molto evidente dell’occupazione industriale, legato, in particolare, all’investimento in tecnologie avanzate (Tronti, 2001). E viene da chiedersi se il fallimento e le criticità evidenziate dai monitoraggi nazionali non siano anche il frutto di tale controversa tendenza. ���%,%/,2*5$),$� ACCORNERO A. (1997), (UD�LO�VHFROR�GHO�ODYRUR, Il Mulino, Milano. BECK U. (2000), /D�VRFLHWj�GHO�ULVFKLR.9HUVR�XQD�VHFRQGD�PRGHUQLWj, Carocci, Roma. BENADUSI L., SERPIERI R., (2000), 2UJDQL]]DUH�OD�VFXROD�GHOO¶DXWRQRPLD, Carocci, Roma.

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i In questo quadro teorico vengono ad affermarsi letture che tendono ad evidenziare la dimensione politica degli insiemi organizzati (Crozier, Friedberg 1977; Friedberg , 1994). ii E’ in quest’area problematica, infatti, che si colloca la nascita di tutte quelle agenzie di intermediazione pubblico-privata affermatesi negli ultimi anni in Italia (CILO, COL, centri per l’impiego, agenzie interinali, collocamento privato ecc.), e tutti gli interventi volti a favorire un progressivo avvicinamento dei sistemi scuola-formazione-occupazione, allo scopo di ridurre la complessità della transizione scuola-lavoro e proteggere dalla crescente precarizzazione del lavoro medesimo caratterizzato oggi da numerosi passaggi. iii I cambiamenti che caratterizzano questo rinnovato contesto sono così sintetizzabili: maggiore promozione e maggior coordinamento tra formazione teorica e formazione pratica; riassetto delle nuove agenzie formative fondato sul principio della flessibilità organizzativa e del servizio; innalzamento dell’obbligo scolastico al 18° anno di età; rivalutazione dell’apprendistato e della formazione professionale; nuovo assetto fondato sull’autonomia scolastica e possibilità di promuovere sperimentazioni locali; passaggio da un sistema di finanziamento a pioggia ad uno basato su progetti e spostamento crescente verso le fonti comunitarie; diversificazione delle fonti di finanziamento; introduzione del principio di qualità nella formazione; apertura al contesto e al mercato; avvio di una progressiva integrazione tra sistemi formativi diversi; individuazione di figure di coordinamento intermedio definite figure di sistema o di processo; avvio di un dialogo con la controparte economica al fine di trovare strategie di collaborazione; avvio di strategie di riorganizzazione interna di azione e di apprendimento; interpretazione e interiorizzazione del cambiamento. iv La TXDOLWj�SHGDJRJLFD può essere definita come il prodotto dell’azione formativa finalizzata a produrre uno sviluppo dell’apprendimento in un contesto di insegnamento intenzionalmente predisposto che abbia come suo presupposto la centralità dell’individuo, inteso come soggetto attivo a cui riconoscere il diritto dell’accesso alle competenze come condizione di cittadinanza, oltre che requisito cardine per l’accesso al lavoro. Le motivazioni che spingono verso la crescente richiesta di qualità sia nell’istruzione che nella formazione professionale sono molteplici, tra le più importanti si può ricordare: l’ampia scelta e gli alti livelli di qualità dei prodotti e dei servizi attualmente disponibili nei paesi industrializzati fanno aumentare le aspettative degli individui e rendono maggiormente critici circa le prestazioni di cattiva qualità in qualsiasi campo, compreso quello dell’istruzione e della formazione; la vasta disponibilità di confronto nella società fa aumentare il desiderio di cambiamento, flessibilità e personalizzazione delle scelte. Nel campo dell’istruzione e della formazione questa tendenza si manifesta attraverso le sempre più diversificate e sofisticate richieste di qualificazione. v Il termine WXWRU�ha origini antichissime e racchiude in sé significati e funzioni molteplici. Nell’accezione dominante il termine si ispira alla lingua inglese ma è di origine latina. Deriva, infatti, dal verbo ³WXHUL´�che significa proteggere, difendere, custodire era, questo, il termine giuridico normalmente usato per indicare la cura, l’attenzione prestate a individui deboli fisicamente e socialmente. E’ tuttavia con l’avvento della Rivoluzione industriale che il termine si apre a realtà molteplici e non più semplicemente codificabili come mero completamento dell’istruzione di tipo formale. Nel corso degli anni ’80 si sviluppa intorno al termine WXWRU�un’area semantica specifica: si inizia a porre l’accento sulle funzioni, i fini e le modalità correlate piuttosto che sulla singola persona deputata ad esercitarlo per competenze proprie della professione. Il tutore della formazione assume l’esistenza di una figura professionale autonoma per il tutoraggio con la caratteristica di essere “persona diversa dall’insegnante titolare, incaricata di seguire lo sviluppo della formazione dei giovani”. Il profilo del WXWRU perde, così, le connotazioni originarie e si trasforma in una figura indispensabile e strategica per l’effettiva realizzazione degli scopi formativi di qualsiasi programma educativo; in generale, la funzione di tutoraggio acquista carattere di necessità e di appartenenza alla natura stessa di qualsiasi rapporto educativo e formativo al punto da giustificare l’esistenza di un ruolo professionale autonomo e specifico. Questo brevissimo H[FXUVXV del termine tutor non è solo testimonianza dell’estensione del suo uso e della crescente complessità del suo ruolo, ma sta a sottolineare anche l’importanza di un nuovo paradigma pedagogico che pone al suo centro il soggetto in apprendimento e tutte le problematiche a lui inerenti. vi La tutorship può essere considerata come una SRVL]LRQH� GL� FROOHJDPHQWR� con funzioni di coordinamento. Nelle circostanze in cui si rende necessario un ammontare considerevole di relazioni –come nel caso dell’apprendista in formazione, si rileva di estrema utilità creare una posizione di collegamento (liaison) per canalizzare direttamente tutte le informazioni aggirando i canali verticali. La posizione pur non detenendo un’autorità formale diviene un centro nevralgico dell’organizzazione poiché si trova all’incrocio di tutti i canali di comunicazione; per questo motivo acquisisce un considerevole potere informale derivato dalla conoscenza e non dalla posizione (Mintzeberg, 1983). viiIl WXWRU�aziendale deve porsi nei confronti dell’apprendista come punto di raccordo tra lavoro e formazione, punto di riferimento privilegiato a cui l’apprendista può rivolgersi per tutta la durata dell’attività formativa. L’allievo, in questo modo, è guidato ed accompagnato lungo tutto il processo di integrazione nella struttura aziendale dal WXWRU presente in azienda che riveste un ruolo insostituibile nel rapporto tra formatori e formandi, conoscendo in modo approfondito le problematiche connesse alle attività lavorative e le esigenze del proprio settore di lavoro. Gli strumenti che dovrebbe possedere il WXWRU�aziendale sono costituiti dalle competenze, sia di tipo comunicativo che relazionale, che egli deve possedere per accogliere, guidare ed aiutare il giovane nel delicato percorso di alternanza ed inserimento lavorativo. Il WXWRU aziendale dovrebbe essere in continua interazione con tutti gli attori coinvolti nel progetto formativo ed è proprio

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per questo motivo che deve accrescere e potenziare la propria capacità di lavorare in gruppo e di manifestare una OHDGHUVKLS non solo flessibile ma anche stimolante e propositiva. viii Per un approfondimento sulle diversità territoriali si rinvia ai citati rapporti di� monitoraggio ISFOL (1999, 2000, 2001). ix La questione è strettamente connessa alle singole realtà regionali e al livello di delega raggiunto. In alcune Regioni questo problema è stato risolto con la delega alle Province. Dove questo non è ancora avvenuto, come per esempio nel Lazio, non è ancora chiaro FKL�� GHYH� IDUH�� FRVD per la messa a punto e il mantenimento della banca dati in rete. In prospettiva, bisognerebbe tener conto che, in una logica di mobilità delle conoscenze e dei lavoratori, la banca dati dovrebbe poter essere nazionale. x Il sistema duale tedesco prevede uno stretto raccordo tra azienda e formazione in aula; i ragazzi assunti con contratti di apprendistato svolgono due/tre giorni a settimana di attività formativa in aula.