I fantasmi del passato. Analisi semiseria di esperienze di insegnamento in Giappone

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Istituto Italiano di Cultura - Tokyo LA LINGUA ITALIANA IN GIAPPONE (2) Miscellanea A cura di Maria Katia Gesuato e Paola Peruzzi

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Istituto Italiano di Cultura - Tokyo

LA LINGUA ITALIANA IN GIAPPONE (2)

Miscellanea

A cura di Maria Katia Gesuato e Paola Peruzzi

Si ringrazia per la gentile collaborazione: Masako Toyoda.

INDICE

Edoardo CrisafulliNota introduttiva ................................................................................ 1

PARTE PRIMA: FORMAZIONE E AGGIORNAMENTO

Edoardo CrisafulliCapitale umano e aggiornamento ...................................................... 4

Maria Katia GesuatoAggiornamento e mercato della lingua italiana all’estero .............. 13

PARTE SECONDA: ITALIANISMI IN GIAPPONE

Massimo Vedovelli - Simone CasiniItalianismi e pseudoitalianismi in Giappone: le radici profonde di una consonanza culturale nel mondo globale ................................. 34

PARTE TERZA: SEMINARIO DI AGGIORNAMENTO

Paola PeruzziFra imperfezione e perfezione: uso dei tempi del passato indicativo italiano ........................................................................................... 108

Marcella MorgantiSpunti di riflessione per un’analisi contrastiva tra i sistemi verbali dell’italiano e del giapponese per esprimere azioni e situazioni passate............................................................................................ 124

Alessio CoppolaL’italiano ai giapponesi e l’italiano dei giapponesi ...................... 133

Chiara BertoniErrori più frequenti nell’uso del passato prossimo e dell’imperfetto in apprendenti di italiano LS in Giappone ..................................... 147

Gabriele RebagliatiPer un approccio creativo all’insegnamento della grammatica italiana ........................................................................................... 165

Michele MarcolinI fantasmi del passato. Analisi semiseria di esperienze di insegnamento in Giappone ............................................................ 179

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NOTA INTRODUTTIVA

Questa miscellanea raccoglie gli interventi – opportunamente rielaborati e approfonditi - del seminario di aggiornamento organizzato dall’IIC Tokyo il 29 aprile 2012, a cura di Maria Katia Gesuato e Paola Peruzzi, dal titolo Didattica del passato prossimo e dell’imperfetto nell’insegnamento dell’italiano a giapponesi e a cui hanno partecipato 22 insegnanti sia dell’IIC sia esterni. Inoltre la pubblicazione è arricchita dall’autorevole contributo del Prof. Vedovelli, Rettore dell’Università per Stranieri di Siena, che ringraziamo sentitamente. Il suo testo elabora ed interpreta dei dati raccolti attraverso un’iniziativa dell’IIC Tokyo Italiano a modo mio. Una raccolta – incompleta ma rappresentativa – dei numerosissimi italianismi presenti nella lingua giapponese, sui cui meccanismi di acquisizione ed utilizzo all’interno del giapponese il Prof. Vedovelli fornisce elementi e strumenti preziosi per l,analisi e la comprensione.Le esperienze e le riflessioni sulla lingua e sulla didattica della lingua italiana, i contributi della Direzione dei corsi sul valore dell’aggiornamento, l’analisi del linguista sono tutte testimonianze della vivace presenza dell’ ITALIANO IN GIAPPONE.

Edoardo CRISAFULLIAddetto culturale - Responsabile dei corsi

IIC Tokyo

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Michele MarcolinUn. Waseda - Istituto Italiano di Cultura Tokyoe-mail: [email protected]

I fantasmi del passato. Analisi semiseria di esperienze di insegnamento in Giappone

1. Premessa

Sebbene serio nelle intenzioni, questo intervento nasceva ed era stato sviluppato in forma discorsiva e volutamente ironica per un medium specificatamente orale. Per tale ragione era legato ad una serie di slides ed immagini, che ragioni di spazio ne hanno sconsigliato qui la riproposizione, tanto in forma completa, quanto modificata. Ciononostante, si è scelto di riprodurlo in forma molto vicina all’originale, con solo lievi “addomesticamenti”, per non snaturarne eccessivamente il tono ed i contenuti. L’apparato bibliografico impiegato in fase di compilazione, è qui riproposto in forma ridotta sia per ragioni di spazio, quanto anche di appropriatezza: non trattandosi della presentazione di ipotesi teoriche o dei risultati di una sperimentazione linguistica sistematica, opere di carattere generale sono state preferite ad altre più specifiche e aggiornate all’ultimo minuto, nonostante alcune delle intuizioni proposte possano offrire spunti meritevoli di approfondimento, tanto a livello informativo, quanto di ricerca ulteriore.

2. Quesiti di deontologia professionale

Pur essendo io abituato a trattare a livello accademico tematiche specifiche di linguistica, l’orizzonte cronologico delle mie attività di ricerca riguarda solitamente l’antichità, particolarmente quella dell’Egitto antico e del Vicino Oriente, piuttosto che l’italianistica e la didattica dell’italiano nel presente, per le quali comunque detengo titoli ed una certa esperienza per occuparmene. Essendo stato invitato ad esprimere le mie idee in merito all’argomento in questione, ho accettato con piacere. Il contributo presente desidera, pertanto, porsi semplicemente come una riflessione su di una esperienza personale

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d’insegnamento, svolta attraverso un’analisi semiseria dei dubbi e dei fantasmi che sembrerebbero perseguitare tanto gli studenti nell’affrontare lo studio delle forme verbali qui considerate, quanto i loro stessi insegnanti, tanto in riferimento al loro insegnamento in classe, quanto – soprattutto per il sottoscritto – in riferimento alla riflessione resasi necessaria per la stesura di questo intervento. Perché effettivamente, solo dopo avere accettato di occuparmene, ho iniziato concretamente a riflettere, chiedendomi se la mia impressione di non avere mai incontrato nel corso degli anni di insegnamento qui in Giappone grandi difficoltà da parte degli studenti nell’apprendimento degli usi di passato prossimo ed imperfetto, fosse reale; o se, invece, non si trattasse di un’illusione riconducibile ad una sorta di inettitudine; una eccessiva fiducia nelle proprie capacità da non accorgersi di difficoltà così palesi per altri. Certo, l’idea di non avere incontrato difficoltà, non significava che tutti gli studenti avessero sempre mostrato facilità nell’acquisizione delle forme in questione: errori ricorrenti di modesta entità si manifestano sempre in contesti dubbi anche a distanza di tempo. Ma evidentemente non poteva trattarsi solo di quello, se la questione era considerata tale da meritare un confronto specifico tra insegnanti ed addetti del settore. Ed avendoci pensato per giorni senza riuscire a mettere a fuoco nulla di rilevante, che mi aiutasse a chiarire la situazione, non ho trovato di meglio che riconsiderare tutta la questione dall’inizio. E cioè, che cosa io insegnassi; come la insegnassi, e a chi la insegnassi; questo nella speranza di rinvenire nel processo qualche dettaglio rivelatore.

2.1 Che cosa insegno?

Ebbene, che cosa insegno? Non c’è di che stare allegri. Insegno l’uso di due tempi verbali fondamentalmente assenti nella lingua dello studente: il passato prossimo, un tempo composto da un ausiliare coniugato ed un participio, denotante una azione momentanea di aspetto compiuto in relazione con il presente (Dardano-Trifone 1997: 355); e l’imperfetto, un tempo atto ad esprimere azione passata durativa o ripetitiva di aspetto imperfettivo (Dardano-Trifone 1997: 353). Ma non solo questo: insegno anche e

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soprattutto l’uso combinato di questi tempi; il che implica, quindi, l’avere a che fare in certa misura con la sintassi della frase complessa (Dardano-Trifone 1997: 442), particolarmente, ma non solo, di quella con subordinate temporali (Dardano-Trifone 1997: 457-60). E faccio questo con studenti parlanti una lingua agglutinante e non flessiva (Tollini 2002: 10-11), caratterizzata da un sistema verbale che non solo non conosce distinzione di persona e numero ed esprime le singole differenze attraverso particelle e ausiliari posposti (Kubota 1989: 54-6), ma possiede anche un unico tempo passato, che, per marcare la distinzione tra un avvenimento compiuto distante nel tempo (una nostra azione perfettiva da passato remoto) e un’azione più recente (un nostro passato prossimo) deve sempre fare uso di localizzatori temporali (Kubota 1989: 73-4) o espressioni avverbiali di tempo quali ieri, la settimana scorsa, oggi, ecc. E dell’imperfetto, nessuna traccia? Non proprio, anche se una certa tendenza ad indicare la compiutezza dove noi vedremmo la imperfettività sembra esserci1. All’apparente mancanza di una categoria temporale equivalente al nostro imperfetto, il giapponese supplisce in parte con la forma passata della coniugazione progressiva (Kubota 1989: 82-5). Questa forma, infatti, con verbi transitivi e intransitivi di azione durativa esprime una progressività/continuità del tutto analoga alla nostra: da 食 べ る taberu “mangiare” ottengo 食 べ て い る tabeteiru “mangio/sto mangiando”, che al passato diventa evidentemente un imperfetto. C’è, però, un problema: con verbi momentanei e risultativi (spesso intransitivi) questa forma si trasforma nello stato risultante da essa. Come dire: da 行く iku “andare”, ottengo 行 っ て い る itteiru, che non significa “sto andando”, inghippo in cui finiscono tutti gli studenti di giapponese alle prime armi, bensì “ci sono/sono già arrivato/sono nella condizione di esserci” e che al passato mi dà un trapassato prossimo, se non anche altri tempi non sempre congrui (Kubota 1989: 85). In altre parole, categorie raramente considerate nei manuali di italiano per studenti, quali aspetto e azione, presentano una significativa rilevanza tanto per una corretta comprensione dell’imperfetto e passato prossimo, quanto

1 Per un esauriente compendio delle caratteristiche differenziali tra giapponese e italiano, cfr. Sugeta 2009: 35-46.

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anche per il presente, perché tra le due lingue esse non coincidono: come abbiamo notato, 行く iku “andare”, in italiano è continuativo, ma in giapponese è momentaneo; lo stesso dicasi di 落 ち る ochiru “cadere”, 乗る noru “salire” e molti altri. E ci sono poi le eccezioni vere come il progressivo di 知る shiru “sapere”, 知っている shitteiru con il significato di presente semplice “lo so” (in realtà, quindi, “lo sto sapendo = ne sono a conoscenza”) e 知らなかった shiranakatta, passato compiuto “non l’ho saputo”, per l’imperfetto “non lo sapevo. Potrei pensare anche ad altri dettagli, ma preferisco non andare oltre per ora2.

2.2 Come gestire tutto ciò in classe?

In sostanza, come lo trasformo in insegnamento? Mi accorgo che dipende dal contesto in cui mi trovo ad operare. E quelli ricorrenti sono fondamentalmente due: quello privato e quello non privato. Il primo è evidentemente quello in cui lo studente privato, o una classe, concordano con me insegnante un percorso di studi tailor-made, con tempistica ed obiettivi chiari e condivisi. Stiamo evidentemente parlando di studenti adulti e chiaramente motivati (Balboni 2002: 181-87), per i quali procedo secondo teoria, ma certamente con accorgimenti dettati dall’esperienza. Lo studente giapponese, infatti, è tendenzialmente una persona pragmatica; abituata dalla sua educazione più elementare a considerare lo studio in una cornice di insegnamento diretto, dove le conoscenze sono trasferite in modo lineare dall’insegnante al discente in chiave prepotentemente cognitiva; cognitiva sì, ma lontana dai modelli costruttivisti (Serra Borneto 1998: 31). Se vogliamo, siamo all’esatto opposto dei principi individuati dagli approcci comunicativi a cui attualmente ci si ispira per la maggiore (Scalzo 1998: 137-68). In questo contesto, l’esperienza rivela quanto sia controproducente provare a modificare queste abitudini in modo troppo drastico. Pena, trovarsi di fronte una classe con “filtri affettivi” accesi e alla massima potenza, con tutta la serie di ben noti effetti sgraditi (Longo 1998:

2 A questo riguardo si veda anche il recente contributo di Zotti 2011 (http://opar.unior.it/629/).

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260). Sfruttare questo imprinting, invece, anche attraverso tecniche ed attività che potremmo in qualche modo definire “antiquate”, ma che in realtà antiquate non sono – perché approcci e tecniche, vale ricordarlo, sono solo adatti o inadatti, o più o meno efficaci per gli scopi da raggiungere (Balboni 1998: 2-3) – pare tornare più produttivo. Quindi, all’interno di una dinamica di apprendimento che, proprio per le caratteristiche del contratto stipulato con gli studenti, tende a qualificarsi come umanistico-affettiva, quasi una sorta di Community Language Learning (Serra Borneto 1998: 33-6; anche Piva 2002: 196-7), in cui però è l’insegnante che dirige effettivamente tutte le operazioni e non è una semplice guida o coordinatore nell’apprendimento, quello che faccio di solito è di rispettare fin dove possibile il ruolo tradizionale di passività che lo studente-cliente si sceglie, cercando di farlo familiarizzare quanto prima con la morfologia, per poi passare ai significati. Per l’imperfetto mi avvalgo, di solito, di una progressione: una scaletta di materiali di difficoltà possibilmente di ordine crescente (Krashen 1985; Krashen 1991), con due livelli distinti di due moduli ciascuno, uno per morfologia ed uno per significato. Nel primo livello lo studente è portato ad acquisire la coniugazione del verbo e il suo significato imperfettivo in antitesi alla compiutezza in contesti identificati da espressioni avverbiali predefinite (da bambino, da studente, di solito, normalmente, una volta, ecc.). Una volta “condizionato” a sufficienza “a salivare” in imperfetto al suono della campanella avverbiale, un po’ come i cani di Pavlov, lo studente passa al secondo livello, dove incontra gli usi dell’imperfetto in contesti di contemporaneità / incidenza, e nelle descrizione di situazioni / stati d’animo nel passato, ecc. La progressione naturalmente è inserita all’interno di unità didattiche il più vicino possibile a quelle classiche e si avvale di attività pertinenti ciascuna delle sue singole sezioni di motivazione, globalità, analisi, ecc. (Balboni 2002: 100-6). La riflessione sulla lingua, punto cardine del procedimento (Balboni 2002: 117-19; Balboni 1998: 105-15), si colloca preminentemente nella seconda fase, dove minore è il ruolo di segnali visivi e lessicali legati alla presenza/funzione dell’imperfetto e maggiore è il bisogno di ricondurre a schemi semplificativi le casistiche d’uso. Si tratta tuttavia di una versione modificata della classica analisi, perché per

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quanto il processo di riflessione presupponga l’azione analitico-organizzativa dello studente, il rapporto di base instaurato con la classe, prevede il soddisfacimento delle aspettative in fatto di esplicitazione di metodi ed obiettivi durante il percorso (Balboni 2002: 90-2; 181-87) e richiede una mediazione in L1 da parte dall’insegnante quale fondamentale integrativo. Un integrativo che riguarda non solo gli aspetti più tipicamente traduttivi o interpretativi del nuovo input grammaticale, quanto piuttosto un confronto contrastivo degli aspetti di L2 assenti in L13. Infatti, laddove lo studente non abbia usufruito di esperienze di studio precedenti in altre lingue, la sua sostanziale estraneità ad operare con categorie e analisi metalinguistiche e funzionali anche solo intuitive, si traduce spesso in perdite di tempo, ansie o peggio4. Per tale ragione la riflessione è seguita da ulteriori attività, non solo di verifica, ma di nuova fissazione, per recuperare usi prima poco convincenti.Il secondo contesto, quello non privato, è rappresentato da studenti che affrontano lo studio dell’italiano scegliendo un prodotto linguistico da un catalogo di offerte; un pacchetto, insomma, con una sua identità e caratteristiche indipendenti dalle volontà dell’insegnante e da quelle dello studente medesimo. Qui i margini di manovra chiaramente si restringono: si tratta spesso di un gruppo di persone non omogenee per età, cultura e attitudine allo studio; è necessario operare all’interno di un sillabo deciso da altri e nel rispetto di determinati tempi prestabiliti; i materiali di riferimento sono imposti e non sempre è possibile integrarli o cambiarli; in più, se va male, anche il metodo d’insegnamento e l’indipendenza dell’insegnante sono ridotte (si pensi al metodo Berlitz, solo per citarne uno molto noto e diffuso, dove non è consentito usare la L1). In un contesto come quello dei corsi dell’Istituto Italiano di Cultura, per esempio, queste limitazioni si applicano virtualmente tutte, particolarmente nei corsi curricolari, dove, previo test d’ingresso, lo studente sceglie un percorso adatto al suo livello e lo frequenta per la scansione temporale prefissata, usando il materiale didattico prestabilito. Ciononostante non sembra impossibile fare di

3 A tale riguardo cfr. Nannini 2007; Zamborlin 2003.4 Per analoghe problematiche cfr. Nannini 2005; Nannini 2009.

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necessità virtù. Non casualmente, anche il manuale adottato nei corsi curricolari, Espresso 2, impiega la stessa scansione in due momenti distinti nel presentare gli usi dell’imperfetto. Certo tutta una serie di adattamenti si rendono necessari. Per esempio le attività proposte per la morfologia sembrano troppo stringate a fronte di tematiche non sempre conciliantisi con le previste attività di fissazione. Per una utenza che vive a Tokyo, forse la città meno pet-friendly del pianeta, l’insistenza tematico-lessicale dell’unità 2 (Balì-Rizzo 2001: 20-23) sugli animali posseduti da bambini è spesso presto esaurita: pochi o nessuno possiedono/possedevano animali o il rapporto che avevano non era tale da fare del ricordo uno sprone all’uso del nuovo input linguistico. Lo stesso discorso vale per la tematica delle vacanze al mare, che segue (Balì-Rizzo 2001: 24-6): in un paese dove la gente raramente si permette più di cinque giorni di ferie l’anno e, quando lo fa, si sposta di continuo, è virtualmente impossibile reperire esempi di ripetizioni di attività o abitudini a cui contrapporre eventi occasionali del tipo “... la sera andavamo in discoteca, ma solo una volta abbiamo fatto qualcosa di diverso ...”. Il riciclo degli esercizi per casa o, meglio, la fantasia e la conoscenza dell’ambiente locale tornano utili nel indirizzare il discorso su tematiche più vicine alla loro sfera personale condivisibile: descrizioni di luoghi/persone dell’infanzia; i tempi della scuola; le attività di club; i compagni che non si sono visti fino alla cena di dousoukai (incontro dei compagni) anni dopo, ecc. La riflessione sulla lingua anche qui si pone alla fine, ad unità 5, in relazione ad un testo descrittivo (Balì-Rizzo 2001: 58-9) e per essa valgono un po’ le stesse considerazioni elaborate sopra. L’assunto glottodidattico della necessità di uno studente motivato per la reale efficacia dell’attività (Balboni 1998: 107), è posto strenuamente alla prova qui, e quando non intervenga una accorta mediazione, meglio se in L1, quale imprimatur ufficiale agli sforzi individuali, la disomogeneità di attitudine, motivazione ed enciclopedia degli studenti, fa presto a tradursi in confabulazioni “sindacali”, iperboli di solipsismo linguistico, plateali give-up, mormorii ed altre visibili manifestazioni di insofferenza. Quindi, anche qui sintesi contrastive e spiegazioni si rendono più che gradite.

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2.3 E che dire, del destinatario? A chi insegno?

In buona parte il profilo è già emerso. Studenti giapponesi, adulti in un contesto LS; spesso ampiamente eterogenei per età, background ed obiettivi, con le implicazioni che sappiamo. A cui si aggiunge la presenza di questo fattore condizionante socio-culturale che abbiamo menzionato: dove esperienze precedenti di vita o studio all’estero non abbiano già innescato processi di relativizzazione culturale e capacità di porsi nei confronti di lingue nuove con prospettive cognitive diverse, il modello educativo tradizionale, assieme alla natura verticale dei rapporti sociali giapponesi, tendono ad inibire significativamente la didattica, particolarmente quella comunicativa (Davis-Ikeno 2002: 187-93). Questo anche laddove sia la comunicazione l’aspetto preminentemente richiesto dallo studente. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di una comunicazione secondo le categorie mentali giapponesi, non quelle italiane o della glottodidattica. Si tratta di comunicare solo quello che la società richiede o lo studente ritiene consono condividere per la sua immagine e posizione. Si pensi alle varie dimensioni comunicative tradizionali a noi estranee e difficilmente definibili, a meno di non usare estese e dettagliate descrizioni, di 本音 honne e 建前 tatemae, di 腹芸 haragei, o di 以心 ishin e 伝心 denshin (Davis-Ikeno 2002: 51-60, 103-107, 109-112, 115-16). 雄弁は銀、 沈黙は金 yuuben-ha gin, chinnmoku-ha kin “Il parlare è argento, il silenzio è oro” recita un antico proverbio giapponese; oppure 言わぬは花 “Non parlare è un fiore”. Come nella società spesso anche in classe, i ruoli tendono ad essere prefissati e la dimensione personale – di solito fondamentale alla comunicazione ed ai rapporti con l’altro – vi rientra solo a determinate condizioni. In questo senso, la stessa motivazione allo studio, abbastanza ben delineata dalla teoria (Villarini 2002: 74-6), presenta dimensioni inconsuete qui. Mi riferisco al fatto che non di rado in Giappone sostenere di voler imparare l’italiano, iscriversi ad un corso, pagarne la retta e frequentarlo anche per anni, non corrispondono necessariamente ad una determinazione ad acquisire la lingua nell’accezione che potremmo immaginare noi che la insegniamo. Per lo meno non sempre secondo scelte profondamente meditate da parte dello studente. Qui infatti si può

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studiare per moda, evasione, socializzazione, curiosità, ecc5. Non sempre quindi la motivazione dello studente medio giapponese costituisce di per sé fondamenta idonee per un edificio linguistico dall’alzato imponente quanto sarebbe quello richiesto dalla teoria (e naturalmente anche dalla pratica). Esistono effettivamente molti casi di quella che personalmente definirei come una dimensione di “intrattenimento linguistico”, piuttosto che di educazione linguistica, con tutta una sua serie esigenze peculiari legate anche a quella che più semplicemente si potrebbe definire “la soddisfazione del cliente”. Perché, non bisogna dimenticarlo, prima ancora che studente egli è – e lo è soprattutto in un contesto privato come ad esempio quello dell’Istituto – un cliente! Ecco quindi che altrettanto importante quanto la didattica, si rivela la giusta interpretazione e soddisfacimento di tutta una serie di variabili sociali, psicologiche e commerciali, legate tanto agli interessi del soggetto, quanto al cosiddetto prodotto di cui egli desidera godere, che è si un prodotto culturale, ma che è fondamentalmente un bene acquisibile. E lo scambio di beni e servizi in Giappone, più che altrove, si muove secondo regole estremamente articolate e maniacalmente rispettate6.

3. Conclusioni

Arrivato a questo punto della mia riflessione, nel tentare di trarre le fila di quanto detto, ho la sensazione di trovarmi al punto di partenza. Nel senso, che con questa analisi ho sì individuato una serie di caratteristiche del mio metodo di insegnamento che potrebbero dirsi interessanti, ma non ho ancora compreso dove posso avere sbagliato. O meglio, dove non ho sbagliato (!), dato che in effetti sto solo cercando di capire il perché ho la sensazione di non incontrare problemi nell’insegnamento di passato prossimo e imperfetto. È, evidentemente, giunto il momento di gettare la maschera e di rivelare la verità: e cioè che i fantasmi non esistono! Essi sono solo ombre, illusioni. I fantasmi del passato del titolo, lungi dall’essere 5 In riferimento alla varietà di motivazione ed ragioni dello studio, cfr. Balboni 2002: 90-2; 181-87.6 La bibliografia è sterminata e si citano alcuni riferimenti rappresentativi quali Alston-Takei 2005; Nishiyama 1999; Johansson 1997.

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i fantomatici spettri di studenti ed insegnanti invocati più su, altro non sono che ombre; le difficoltà oggetto del tema in questione; cose di cui sentiamo spesso parlare, ma che quando cerchiamo di identificare o di esaminarle rivolgendo loro qualche luce in più, tendono a diventare evanescenti o a scomparire del tutto. O almeno ciò è quello che io, che non credo ai fantasmi, avverto. Credo invece che – ma premetto subito che non ho fatto ancora studi specifici o sistematici sulla cosa – il fatto che io non senta di incontrare particolari problemi con queste due forme verbali nell’insegnamento, dipenda semplicemente dalla coincidenza di due fattori precisi, che tenderei a identificare con “contesto di insegnamento” e “modalità di insegnamento”. Sembrerà banale, e ripeto, non ho approfondito adeguatamente la materia, cionondimeno ritengo che tutto si riduca a questo.

3.1 Il contesto

Un fattore casuale quest’ultimo. Credo di essere l’unico, se non uno dei pochi insegnanti dell’Istituto ad insegnare italiano esclusivamente in corsi presso scuole private; niente università o scuole superiori e professionali7. Sono contesti dove non esistono esami o prove di valutazione in itinere o a fine percorso, né ci sono specifici obiettivi da raggiungere, oltre al completamento del programma del singolo corso. E anche quello in forma nominale. Quindi ho a che fare con studenti rilassati, che vengono a lezione quasi esclusivamente per puro interesse. Questo naturalmente non significa – per i più maliziosi – che mancando le occasioni istituzionalizzate di verifica, i reali progressi degli studenti e le difficoltà che incontrano, restino sconosciute all’insegnante. L’andamento di ogni singolo studente è, infatti, sempre monitorato e noto all’insegnante, anche in virtù del numero contenuto degli individui in quel tipo di classi (raramente più di 6-7 individui). Semplicemente essendo le occasioni di stress ridotte e l’incidenza psicologica dell’errore minimizzata, lo studente – assieme 7 La mia appartenenza universitaria riguarda ambiti di ricerca afferenti l'Egittologia ed il Vicino Oriente Antico e non riguarda l’insegnamento della lingua italiana o la ricerca ad essa legata.

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all’insegnante – si può porre di fronte ai nuovi input linguistici e alle relative attività senza significativi patemi d’animo, secondo modalità che presentano molti punti di contatto con le idee del cosiddetto built-in syllabus (Corder 1967)8. Non è un caso, se l’Istituto ha sempre evitato e continua a farlo, prove, test e valutazioni. Lo studente non diventerà sempre un gigante dell’italiano in tempi brevi, ma un cliente rilassato e soddisfatto è un cliente che ritorna. Come non apprezzarlo in un contesto privato!

3.2 La modalità

Un fattore ricercato. La conoscenza e l’uso di L1 non è mai tabù in classe. Anzi. Sapientemente gestita nell’esplicitazione regolare non solo delle dinamiche e degli obiettivi di studio, ma soprattutto di osservazioni di grammatica contrastiva o riferimenti alla storia della lingua, sembra rispondere ai bisogni psicologici e di comprensione degli studenti, che, seppure accomunati dallo stesso tipo di diritti e aspettative in relazione al prodotto linguistico scelto, sono sempre eterogenei per attitudine ed obiettivi. Per l’insegnante, il comprendere ed essere in grado di fornire giustificazione a fenomeni grammaticali assenti nella lingua dello studente, possibilmente in L1 e con riferimento proprio agli usi e alle categorie linguistiche di L1, si rivela strumento efficace nell’aiutare gli apprendenti proprio a riflettere sulla lingua, particolarmente quando similitudini e punti di contatto tra L1 ed L2 non si offrano in modo evidente, o, tipico qui, quando variabili socio-culturali autoctone non abbiano predisposto lo studente a quel tipo di pensiero (Spagnesi 2001: 56-7, 59). Possiamo forse considerarla una sorta di customer-care linguistico, non proprio in linea con i principi didattici degli approcci comunicativi moderni, ma non per questo meno efficace e da scartare (del resto molte altre linee comunicative qui in Giappone si dimostrano impraticabili). Insomma la situazione richiede spesso di attingere ampiamente alla competenza interculturale (Castiglioni 2005; Balboni 2002: 65-72; Benucci: 2001: 32-43; Weidenbiller 1998: 209-26) e alla

8 Indicative al riguardo le considerazioni del recente Mahdi-Ehsan-Javad 2013.

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linguistica educazionale (Ferreri 2010: 1-14; Ferreri 2005: 13-38; De Mauro-Ferreri 2005: 17-28) per un rapporto ad hoc, userei quasi ad personam, espressione che oramai rievoca a più di qualcuno veri fantasmi, per cercare di tenere insieme, soprattutto in contesti privati, i cosiddetti “capre e cavoli”: le necessità/esigenze individuali degli studenti-clienti e gli obiettivi concreti di apprendimento linguistico.

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