Introduzione ad "Albino Pierro, Tutte le poesie, a cura di P. S., Roma, Salerno Ed., 2012."

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testi e documenti di letteratura e di lingua

xxxiii*

albino pierro

tutte le poesie

salerno editriceroma

albino pierro

tutte le poesieedizione critica

secondo le stampe

a cura di

pasquale stoppelli

tomo i

isbn 978-88-8402-771-9

tutti i diritti riservati - all rights reserved

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seguito a norma di legge.

Volume pubblicato con il contributo della Regione Basilicata

e della Banca popolare di Bari

SOMMARIO

pResentazione, di Vito De Filippo xi

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l ’ aRchiVio pieRRo, di Mariagrazia palumbo xlvi

BiBliogRaFia lix

nota ai testi lxvi

poesie italiane 3

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PRESENTAZIONE

custodire la memoria dei propri poeti è un segno di grande civiltà. quindi si dovrebbe dire quasi doveroso, per la basili-cata, testimoniare una sorta di gratitudine ad albino pierro, il grande poeta di tursi, piú volte annoverato tra i possibili candidati al premio nobel, il quale piú di ogni altro nel corso del novecento ha rappresentato il volto autentico della nostra terra.

nel caso di “don albino”, come affettuosamente lo chia-mavano tutti, c’è però qualcosa di piú. c’è un legame profon-do, quasi viscerale, che ha trasformato negli anni la sua poesia in un motivo di orgoglio per tutti i lucani. tanto da indurci a manifestare pubblicamente, come in un atto d’amore filiale, una doverosa testimonianza istituzionale. tenuto conto infatti che le raccolte di pierro sono pressoché introvabili in libreria e che esse sono consultabili, spesso a fatica, solo nelle grandi bi-blioteche, la regione basilicata ha ritenuto di promuovere la pubblicazione completa dell’opera del poeta lucano in un’edi-zione di pregio, curata con gli standard piú avanzati della filo-logia moderna da una casa editrice che nell’ambito delle edi-zioni di testi letterari è in italia una delle piú prestigiose.

Vede cosí la luce per la prima volta, dopo tentativi in passa-to non riusciti, tutta l’opera poetica di pierro, tanto in italiano quanto in dialetto tursitano. si tratta di un evento che spero pos-sa essere apprezzato come merita dalla cultura letteraria italia-na e trovare soprattutto accoglienza positiva nella nostra regio-ne. penso in particolare alle nuove generazioni, che attraverso la poesia di pierro hanno una straordinaria occasione per sco-prire le radici della propria lingua e il mondo culturale a cui es -sa rimanda.

le condizioni difficili in cui versa oggi il nostro paese richie-dono, per essere superate, uno sforzo collettivo che ristabilisca, tra l’altro, una gerarchia di valori con al primo posto l’uomo, la sua dignità e i suoi diritti inalienabili: il lavoro, l’istruzione, le

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pari opportunità, spesso anche di genere. di questi valori la cultura umanistica è depositaria e la poesia, che ne è l’espres-sione piú alta, da sempre li testimonia. diffondere la poesia si-gnifica testimoniare in modo concreto quei valori di civiltà che rendono l’uomo qualitativamente migliore, moralmente re-sponsabile e socialmente solidale. senza moralità e in assenza di solidarietà non può esistere progresso reale.

con questo spirito la regione ha promosso l’edizione del-l’opera di albino pierro, ritenendo di dover tutelare quello che per tutti noi lucani è un bene culturale primario, come lo sono i palazzi, i monumenti, le chiese e i paesaggi del nostro territo-rio, nella consapevolezza che l’immagine della basilicata è con-segnata, e tanto piú lo sarà in futuro, anche ai versi del grande poeta di tursi.

Vito De Filippo presidente della regione basilicata

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1. il nucleo originario di tursi si è costituito intorno al castello di epoca gotica sull’estremità di una collina di roccia arenaria (346 m. s.l.m.), tra le valli dei fiumi agri e sinni, sviluppandosi lungo il pendio sottostante ed espandendosi piú tardi nella zona pianeggiante ai suoi piedi. la piazza di santa maria d’anglona, che rappresenta oggi il centro della città, è a valle degli insedia-menti piú antichi, a un’altezza di 210 m. s.l.m. il dislivello di 150 m. circa tra la zona alta della città e quella dove hanno sede la cattedrale e oggi il municipio dà al centro storico un accentuato sviluppo in altezza. le strade strette che l’attraversano in for-te pendenza portano alla pitrizza, la salita da cui si raggiunge la rabatana, il rione piú alto di tursi, che, a eccezione di questo accesso, è separato da burroni dal resto della città. alcuni di que-sti configurano dei “fossi” che tagliano verticalmente il centro abitato dalla rabatana fino alla zona in pianura. oggi il comune di tursi conta piú di 6.000 abitanti, con un incremento di 1000-1500 unità rispetto al dato della popolazione degli anni ’30-’50 del novecento, quelli a cui la memoria del poeta si riferisce.

in quegli anni, come del resto ancora oggi, l’economia citta-dina era fondamentalmente agricola. esclusa la presenza di latifondo per la natura accidentata del territorio, la proprietà delle zone coltivate a valle era distribuita fra un numero ri-stretto di famiglie, tra le quali era anche la famiglia pierro. i figli di queste famiglie dopo gli studi lasciavano in genere tur-si per esercitare le professioni nelle città. tale fu la scelta anche di albino pierro e dei suoi fratelli. ma la realtà di tursi, il dia-letto arcaico dell’infanzia e dei primi anni giovanili resteranno sempre realtà viva nella memoria del poeta. la condizione di lontananza, vissuta come esilio, alimenta il ricordo e nel ricor-do il paese sfuma i connotati reali per acquistarne altri simbo-lici; quel dialetto “amaro” di paese diventa parlèta frisca, viene ricreato in un sol colpo come lingua poetica matura. non è accaduto molte altre volte nella nostra tradizione letteraria.

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a tursi pierro era nato il 19 novembre 1916, terzogenito di giuseppe salvatore e margherita ottomano. morta la madre poco dopo la sua nascita, il piccolo albino venne affidato alle cure amorevoli di due sorelle nubili del padre, le zie assunta e giuditta, piú volte ricordate nelle poesie in lingua e in dialetto (le dùie belle signurine del poemetto ’a posta). la ferita inferta da questa perdita non si rimarginerà e sarà la causa prima della condizione di figghie sfurtunète in cui il poeta si riconoscerà. al-la fine della scuola primaria pierro prosegue le classi medie e ginnasiali prima in collegio a taranto, poi a salerno, infine a policoro, facendo ritorno a tursi per le vacanze estive. per gli studi liceali si trasferirà a sulmona, dove insegnava il cugino guido capitolo, che seguirà anche a Fusine in Friuli e poi a Wissenfels presso tarvisio. la natura ribelle del giovane pier-ro, la sua predisposizione agli innamoramenti violenti, il fasti-dio per la routine scolastica non ne fanno uno studente model-lo. incontra tuttavia prima a salerno, poi a sulmona professori che ne intuiscono le qualità. sono anni in cui il futuro poeta si dedica a letture intense e disordinate. dopo un breve ritorno a tursi, avendo interrotto gli studi (albino non arriverà mai al-la maturità classica), si trasferisce nuovamente a Wissenfels, do-ve impara il tedesco frequentando un vecchio montanaro che aveva avuto una vita avventurosa e viveva ora poveramente in una capanna ai margini del bosco. insieme a lui legge la bibbia e i poeti romantici tedeschi. nel 1936 cambia ancora città: que-sta volta a novara, dove studia pianoforte rivelando un notevo-le talento musicale, in seguito tuttavia non piú coltivato.

nel 1939, lasciata novara, si trasferisce a lanuvio, in provin-cia di roma, presso il fratello maurizio, che è lí maestro ele-mentare (in seguito entrerà in magistratura). ma poco dopo pierro si stabilisce a roma, dove lavora come volontario presso la biblioteca universitaria alessandrina. qui riprende gli studi secondari, conseguendo da privatista il diploma magistrale e successivamente, nel 1944, laureandosi in pedagogia presso la facoltà di magistero con una tesi su sant’agostino. collaborava intanto già da qualche anno a « il balilla », per cui scriveva rac-

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conti e favole per bambini, e a « la rassegna nazionale », su cui veniva pubblicando le prime poesie. nel 1942 il poeta aveva sposato elvira nardone, matrimonio da cui nascerà l’unica fi-glia maria rita, la rita ispiratrice e dedicataria di tante poesie in lingua. avvia cosí una carriera di professore di filosofia nelle scuole secondarie; in seguito sarà ispettore ministeriale. l’ir-requietezza giovanile si placa nella quotidianità dell’insegna-mento e nell’assiduità dell’esercizio della poesia. le estati la famiglia pierro le trascorre tutti gli anni a tursi, dove albino ha l’opportunità di rinfrescare alla fonte quel dialetto che di-venterà la lingua poetica pressoché esclusiva della sua maturità artistica.

la biografia del poeta negli anni avvenire non conosce fatti degni di nota, coincidendo di fatto con la storia della sua poe-sia. da liriche del 1946 fino a nun c’è pizze di munne del 1992 le raccolte si susseguono con regolarità. l’interesse critico nei confronti della poesia in dialetto travalica intanto i confini na-zionali, dando luogo a traduzioni in tutte le piú importanti lingue europee. pierro può giovarsi di traduttori raffinatissimi quali madeleine santschi per il francese, edith Farnsworth per l’inglese e ingvar biörkeson per lo svedese. la diffusione della poesia di pierro negli ambienti culturali svedesi guadagna a lui l’attenzione dell’accademia di svezia, che lo tiene piú volte in considerazione nella seconda metà degli anni ottanta per l’at-tribuzione del nobel per la letteratura, riconoscimento che sfuma anche per una campagna denigratoria alimentata da am-bienti italiani.1 la vicenda amareggerà non poco il poeta, che viveva intanto in un modesto appartamento del quartiere ro-mano di monteverde, circondato dall’affetto di un numero sem-pre crescente di amici ed estimatori. i ritorni a tursi si era-no fatti intanto per lui sempre piú brevi e sporadici. nell’otto-bre del 1982 la città organizzò un grande convegno in suo ono-re, che rappresentò per il poeta la consacrazione nella sua ter -

1. su questa vicenda cfr. R. Brancati, Ritratto di poeta. albino pierro: intrigo a stoccolma, napoli, Rce, 1999.

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ra. dieci anni piú tardi, nel 1992, l’università della basilicata lo avrebbe laureato honoris causa. ma l’insoddisfazione perma-nente, l’ansia di riconoscimenti, le precarie condizioni di salute che gli impedivano di portare a stampa una produzione mano-scritta diventata intanto imponente, non gli hanno consentito di vivere con serenità gli ultimi anni. pierro muore a roma il 23 marzo 1995. a un anno dalla sua morte il consiglio comu-nale decide di fregiare tursi del titolo di « città di albino pier-ro », come oggi entrando in città il visitatore può leggere già nella segnaletica stradale.

2. Fra le tante ragioni della particolarità, anzi dell’unicità, del caso pierro nel quadro della letteratura italiana di secondo no-vecento è anche quella di un poeta che si dedica alla sua arte con una devozione che non conosce alcuna distrazione o cedi-mento. dopo le prove narrative e un esperimento drammatur-gico degli anni giovanili avanti la seconda guerra mondiale, la poesia diventa per pierro passione esclusiva. di lui non ci sono scritti critici o teorici, neppure occasionali, non ha mai tenuto conferenze, non ha mai piú collaborato a giornali; nelle appa-rizioni in pubblico si limitava esclusivamente a recitare i suoi versi (che straordinario attore in quelle occasioni!); finanche la canonica lectio magistralis in occasione del conferimento della laurea potentina è consistita nella lettura di poesie. durante i convegni a lui dedicati restava immobile ad ascoltare, con lo sguardo fisso: non si capiva se consentisse o meno con quanto si veniva dicendo; si poteva avere addirittura l’impressione che non ascoltasse, ma non era cosí. non entrava mai nel merito di quello che si scriveva di lui. poeta letteratissimo, tollerava poco gli accostamenti, aveva un senso fortissimo della sua originali-tà. mostrava in genere disinteresse per i poeti italiani della sua generazione, tutti peraltro presenti nella sua biblioteca, non si sentiva affine a nessuno. i critici e i lettori dovevano contentar-si di quel poco che qualche intervistatore riusciva a strappargli. la sua visione del mondo, la sua ideologia, la sua poetica si do-vevano desumere esclusivamente dai versi.

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pierro è stato sempre gelosissimo della sua officina, non ha mai aperto ad altri il retrobottega della poesia. un poeta da questo punto di vista inattuale, che faceva parte a sé, estraneo a qualsiasi militanza. durante i lavori del convegno di potenza del 1992 giovanni battista bronzini si rivolse direttamente a lui nel corso della sua relazione lamentando l’assenza di uno zibaldone (il riferimento era ovviamente a leopardi) che aiu-tasse i critici a far luce sui presupposti filosofici del suo mondo poetico. pierro ribatté prontamente con le parole di ovidio: « et quod temptabam dicere versus erat ». tale riservatezza era chiusura assoluta nei confronti di ciò che temeva potesse incri-nare la purezza della sua arte; l’orgoglio solitario con cui la coltivava faceva di lui una sorta di omeride. pierro era la sua poesia, la sua identità umana vi si sostanziava interamente, non esisteva al di fuori di essa. l’immagine che ne risultava non lo rendeva certo gradito agli ambienti di tendenza, da nessuno dei quali era acquisibile. tra i critici di pierro numerosissimi sono sempre stati gli accademici, in particolare i filologi, posti dinanzi al miracolo della nascita di una nuova lingua poetica romanza nella seconda metà del xx secolo, come dire un poe-ta delle origini in ritardo di piú di sette secoli. l’attenzione con cui illustri professori ne seguivano il lavoro suscitava forse del-le invidie, ma nello stesso tempo accresceva la schiera degli ammiratori. malgrado la difficoltà permanente di reperimen-to dei suoi libri, tutti quelli che avevano l’opportunità di acco-stare i suoi versi ne rimanevano stregati. i lucani lo amavano e continuano ad amarlo come il poeta che ha dato voce al loro mondo, elevandolo a metafora della condizione umana; tutti continuano a restare sorpresi dalla forza dei suoni insieme dol-ci e aspri della sua lingua, musicalissimi anche nella dissonan-za, che affascinano anche quando il senso delle parole non ri-sulta trasparente.

per la capacità di comunicare a piú livelli, di aggregare intor-no a sé una rete di lettori fedeli, pierro ha avuto e continua ad avere le prerogative di poeta di culto, colto e popolare insieme, che trae ispirazione dalla realtà particolarissima della sua terra

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per affrontare i grandi temi della poesia di sempre: l’amore, il dolore dell’esistenza, la presenza del male nel mondo, il senso della vita e della morte.

3. pierro è noto alle storie letterarie soprattutto come “dia-lettale”, anche se esiste una lunga sua stagione di poesia in lin-gua. la conversione dalla lingua al dialetto pierro la racconta come una folgorazione avvenuta il 23 settembre 1959, nel corso di un viaggio di ritorno a roma da tursi, allorché compose prima di parte, ora in ’a terra d’u ricorde. ma il 1959 è anche l’anno di il mio villaggio, il 1960 quello di agavi e sassi, le due raccolte in lingua che facevano seguito ad altre sei, da liriche del 1946 a poesie del 1958. la critica si è interrogata sulle ragioni e le mo-dalità del passaggio da un codice linguistico all’altro, su quanto in realtà si tratti di un mutamento radicale o non piuttosto di un felice assestamento. È opinione quasi generale che ci sia continuità, non frattura, tra i due tempi della poesia di pierro: lo dimostra, se non altro, il fatto che egli continua a pubblicare in lingua anche dopo la scoperta del dialetto, come dimostrano le ultime raccolte (soprattutto la sezione di inediti nell’antolo-gia d’autore appuntamento, 1967) e come oggi è anche possibile verificare nelle sue carte. ma la novità della poesia tursitana e la meraviglia di critici e lettori per la nascita di una raffinata lingua poetica costruita coi mezzi linguistici poveri di un lon-tano paese lucano erano tali da indurre l’autore ad approfon-dire piuttosto la ricerca in quella direzione, a sperimentare fi-no in fondo e in una molteplicità di registri le risorse della sua “invenzione”. la maturità nella poesia dialettale pierro la rag-giunge comunque d’acchito, già nella prima raccolta (« ontoge-nesi che ripete la filogenesi », ha scritto con eleganza gennaro savarese).2 ciò tuttavia difficilmente sarebbe potuto accadere senza la precedente esperienza italiana: questa poesia aveva già

2. G. Savarese, pierro e il petrarchismo emblematico, in A. Pierro, Dieci poesie inedite in dialetto tursitano, a cura di a. Stussi, lucca, pacini Fazzi, 1981, pp. 119-29 (la cit. a p. 129).

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in sé elementi per cosí dire di “dialettalità”, per lo meno di ispirazione se non ancora linguistica.

mario marti, studioso legato a pierro da lunga amicizia e fedeltà critica, ha scritto di lui: « è un poeta di scavo non di svolgimento, il suo “mondo” praticamente è senza storia, tale nella poesia in lingua, quale poi in quella in dialetto, solo con le debite proporzioni di visuale e d’intensità ».3 È un giudizio illuminante: non è del resto un caso che le monografie critiche che penetrano piú a fondo l’opera di pierro, piuttosto che se-guirne il percorso raccolta dopo raccolta, preferiscono analiz-zarla in relazione alle tre grandi tematiche che la caratterizza-no (la poesia del ricordo, la poesia d’amore, la poesia esisten-ziale), al cui interno è continuo l’intreccio tra registro lirico e registro narrativo. tutto questo da liriche del 1946 a nun c’è piz­ze di munne del 1992. anche perché i singoli componimenti in-clusi via via nelle raccolte riflettono molto all’ingrosso o talo-ra per niente la cronologia di composizione. lo sguardo par-ziale che si è riusciti a dare ai manoscritti del poeta ha permes-so di osservare che non sono rari i casi di liriche o gruppi di li-riche che si lasciano depositare anche per piú di un decennio prima di essere pubblicati. ed è da aggiungere che la maggiore fertilità della musa pierriana non coincide, come si crede, con gli anni della scoperta del dialetto, tra il 1959 e il 1963, anni che vedono in sequenza la pubblicazione di ’a terra d’u ricorde, i ’nnammurète e Metaponte, ma sorprendentemente con gli anni tra il 1981 e il 1985, proprio quelli in cui pierro, pubblicando piú volte gli stessi gruppi di poesie, dava l’impressione di un inari-dimento della vena e del tentativo di mascherarla tenendo viva in questa maniera la sua presenza nel mondo delle lettere. in realtà proprio in quegli anni il poeta riempiva, a mo’ di quader-ni, quattro agende di un numero di poesie dialettali maggiore (e non di poco) di tutte quelle fino ad allora conosciute. di tale

3. M. Marti, la poesia di pierro: un’ipotesi di prospettiva storicizzante, in pierro al suo paese: dieci anni dopo. atti del convegno nazionale di potenza, 12 maggio 1992, a cura di c.d. Fonseca, galatina, congedo, 1993, pp. 35-44 (la cit. a p. 37).

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immenso tesoro è stata pubblicata postuma all’incirca la vente-sima parte.4 su questo che può essere considerato, e non solo per ragioni cronologiche, l’ultimo pierro (nun c’è pizze di munne mette insieme poesie di tipologie e anni diversi, alcune docu-mentatamente molto lontane nel tempo) tornerò piú avanti.

se mettiamo intanto sotto osservazione la prima raccolta in lingua, liriche, troviamo già molti degli elementi tematici e delle modalità espressive propri di pierro maturo. anzitutto una concezione della poesia come documento di verità esi-stenziale: « io canto solo allorquando / l’aguzza croce affonda-ta / in mezzo al mio petto / la scuotono i venti / del dolore e dell’estasi / fugace d’oblio, / canto solo allorquando / sento d’es sere io » (ecco il mio canto). quindi il gusto narrativo, con trapassi rapidissimi da una dimensione realistica a scene visio-narie (telegramma); il racconto drammatizzato (la canzone del figlio dei ghiacci); la contrapposizione fra la vita degli altri e la propria (spaccapietre); il desiderio di ritorno all’infanzia e al pae-se con i suoi riti e le sue feste (l’inestinguibile sete). ma è ancora piú interessante constatare quanto ruolo abbiano già in questa raccolta il colorismo acceso, la percezione di stati particolari della coscienza a cui si giunge attraverso la successione di im-pressioni visive e sonore; la presenza insistita della sinestesia e dell’ossimoro, figure che si prestano ad accendere un’immagi-nazione che in pierro resta sempre fondamentalmente baroc-ca. questo è proprio di tutta la sua poesia. la distanza fra il pierro giovanile e il pierro maturo si misurerà allora nel gua-dagno di una maggiore concisione, in una migliore capacità di dissimulare le fonti dell’ispirazione, ora soprattutto leopardia-ne, come quando, per portare un unico esempio riferibile a l’in finito, l’esperienza acustica della goccia che stilla consente la percezione del silenzio, metafora sinestetica dello spazio vuo-to, quindi della solitudine (il senso della solitudine).

caratteristiche che restano sostanzialmente le stesse anche

4. A. Pierro, poesie per il 1983. Diario inedito, a cura di l. Formisano = « in forma di parole », quaderno ii 1999.

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in nuove liriche del 1949, con una presenza qui non trascurabile della poesia religiosa, che sarà comunque una componente es-senziale di tutta la poesia di pierro e ne fa uno degli esponenti piú significativi del secondo novecento. ma anche l’amore è già presente nella raccolta con la bellissima i miei amori, ricca di invenzioni simboliche di straordinaria suggestione (« treni / disperatamente veloci, / i miei amori », vv. 12-14). un giudizio meno positivo merita forse una lirica abbastanza nota come lucania mia, nella quale gli elementi esistenziali non si fondono al meglio con una struttura un po’ retorica, nella quale risalta-no il titolo pascoliano, l’incipit dannunziano (« me ne andrò come i pastori della montagna / lontanamente, un giorno, all’imbrunire ») e il finale foscoliano (« e inquieto fuggirò, co-me fuggivo / in altri tempi, come andrò fuggendo / sempre e dovunque », vv. 31-33).

con la successiva raccolta, Mia madre passava (1955), entria-mo in pieno in quello che conosciamo come il mondo poetico di pierro. già il titolo, non piú generico come nelle prime due raccolte, evoca una poesia di memoria che pone l’infanzia e l’adolescenza al centro dell’ispirazione, e con esse il paese, poe-ticamente “il villaggio” (tursi), e una cultura, quella lucana tradizionale, che non stabilisce soluzione di continuità tra la vita e la morte. in quella realtà i morti non sono mai morti del tutto, i vivi ne avvertono la presenza, ne aspettano il ritorno, si preparano a raggiungerli; il rapporto con loro si consuma in-tanto nel sogno. un mondo magico in cui ogni oggetto, ele-mento o evento naturale (il paese con i suoi burroni e le sue frane, gli animali, le piante, il temporale, il vento, la neve, il caldo afoso dell’estate o il freddo pungente dell’inverno) ac-quista una valenza figurale, significa potenzialmente anche al-tro, si rende disponibile a investiture simboliche, a rappresen-tazioni di stati d’animo. già la lirica eponima d’apertura con-tiene tutto questo. il paese è per la prima volta presente nella poesia con i burroni « odorosi di argilla », il campanile del con-vento, il cane che ulula nelle notti di vento, il funerale con la bara al centro della piazza, i lavoratori che tornano dai campi,

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e poi, con un imprevedibile scatto visionario, la madre morta che passa leggera e misteriosa nella strada delle fontane, e il poeta e i fratelli bambini che volano via come nugolo di co-lombe per raggiungerla. singolare mescolanza di elementi con-creti e immagini fantastiche, come nelle piú belle poesie in dia letto.

cosí in Delitto a Frascarossa, nella stessa raccolta, dove un do-loroso fatto di cronaca trova eco nel cosmo trasformando il villaggio « nelle innumerevoli gocce / che formano l’onda mi-nacciosa; / e vola, / nuvola grossa dei temporali, / stuolo enor-me di calabroni / nell’afa solcata dai lampi; / popolo di naufra-ghi / che cerca il porto nelle barricate » (vv. 40-47). associazio-ni in sequenza che si svolgono una dall’altra, tipiche dello stile simbolista, in versi liberi che alternano movenze prosastiche a moduli piú cantabili. infine, esempio insuperabile di immagi-nazione nel rapporto coi morti, in il ritorno, la scena del cane che si mette a saltellare accanto al padrone morto, con i presen-ti che ritengono che il morto sia apparso all’animale: « “cosí, proprio cosí ”, pensava ognuno; / e facevano ressa intorno al cane / che uggiolava piú in fretta / saltellava / vicino a lui, vi-cino a lui, / (non c’era dubbio), / al morto che ritornava / con l’impalpabile rugiada dell’eternità sulle spalle / che avevano an-cora il peso della terra » (vv. 45-53). originalissimo, dello stesso genere, è il motivo, presente in piú poesie, del cane che sogna il padrone.

dopo Mia madre passava le successive raccolte si susseguono con cadenza annuale. in quattro di esse (il paese sincero, 1956; il transito del vento, 1957; il mio villaggio, 1959; agavi e sassi, 1960) la presenza del paese come luogo della memoria e realtà con-trapposta alla città si coglie già nei titoli. nelle dieci liriche di poesie del 1958 lo sfondo invece è prevalentemente urbano (ben tre di esse fanno esplicito riferimento a roma). nel paese since­ro e il transito del vento i temi non sono molto diversi da quelli di Mia madre passava: si registrano tuttavia una maggiore oscurità del dettato (tendenze ermetizzanti erano presenti già in liriche e nuove liriche) e una propensione piú accentuata alla simboliz-

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zazione. ma si colgono anche, a fare da contrappunto, poesie piú distese come oggi del paese sincero, nella quale la polemica contro la frenesia e la durezza del vivere moderno si conclude con una splendida strofa: « l’uomo, / non sa piú volgersi intor-no / alla ricerca di un palpito di vita nascosta; / passa, cieco, e va oltre, / mentre gli occhi tristi di una bambina / che si stringe a una bambola / fra le cupe rovine della sua casa, / lo seguono, e lo vedono sparire, / come un personaggio vestito di ferro / d’una favola dimenticata » (vv. 35-44). a poesie a tesi come que-sta si contrappongono nella stessa raccolta liriche che traduco-no una sensazione in maniera folgorante, come Breve cerchio (« la neve, / e giovani e vecchi hanno danzato: / sembravano lanterne, / lucciole impazzite / in una selva / a mezzanotte. // anche il buio dimenticò gli astri / per riposare sul bianco. // io? // breve cerchio / fulminato sull’acqua »).

stesse caratteristiche ha anche il transito del vento, espressione desunta da una terzina dantesca (par., xxvi 85-87) che sottolinea il piegarsi della fronda al soffio del vento e il suo immediato risollevarsi. “Vento” è parola chiave nella poesia di pierro sia in dialetto sia in lingua (ben 335 occorrenze complessive). della raccolta si ricordano in questa rapida rassegna le due liriche conclusive che sottolineano gli effetti consolatori della poesia (uomo che ignori le tue radici e Ringraziamento alla poesia). del re-sto facevano a essa da epigrafe i seguenti due versi di Verlaine: « allez, rien n’est meilleur à l’âme / que de faire une âme moins triste! » (sagesse, i 16, vv. 23-24).

il mio villaggio è la raccolta piú folta tra quelle in lingua. do-minano gli affetti familiari e i ricordi dell’infanzia nelle prime due sezioni (poesie per mia figlia e Ritorno nel tempo), mentre i temi esistenziali si concentrano soprattutto nella terza (le due rive). si manifesta qui piú esplicitamente la vocazione narrativa di pierro, che raggiungerà nei poemetti tursitani i risultati piú alti. una lirica di il mio villaggio consente di aggiungere un’altra tessera luminosa a quel poco che l’autore ha voluto dirci sulla poesia. È non cercare il segreto: « i poeti, / sono pianto nascosto. // non cercare il segreto: / è meglio che tu non sappia / cosa

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costa il frutto maturo. // sorridi alla brezza che ci fa lievi. // e tutto qui il mistero: / un tremore passato chissà dove / a farsi quiete ». infine nel 1960, lo stesso anno di ’a terra d’u ricorde (la raccolta d’esordio in dialetto) esce agavi e sassi, la piú organica e raffinata delle sillogi in lingua. l’essenzialità e la concisione proprie già di ’a terra d’u ricorde sono prerogative anche delle 19 liriche che compongono agavi e sassi. poesie brevi che rappre-sentano stati d’animo. la prima (il poeta) contiene ancora una dichiarazione utile a ricostruire la poetica pierriana: « se trove-rai pensoso un uomo curvo / che gesticola lieve, aereo panno / sopra i ventosi tetti, / penserai: / “sarà certo un poeta / iso-lato nel sogno”. // eppure, / se tu ti accosterai / a quell’ombra di neve silenziosa; / se ti vedrai sospeso / nel circolo di luce che l’accoglie, / saprai che non è morto / il poeta alle voci della terra, / e come dalla guerra / nasce il silenzio e dalla morte il sogno ».

mentre pierro in quello stesso anno dava alle stampe la pri-ma raccolta dialettale, che potremmo definire del tempo ritro-vato, cantava in lingua in agavi e sassi la desolazione del tempo perduto, come risulta dalla lirica eponima della raccolta (« mia terra, / aspra d’agavi e sassi, / non avevo che te nel fiume denso / dei miei candidi passi. // ma c’è ora l’esilio », vv. 1-5), ma an-che in quelle successive: « addio per sempre a te, mia adole-scenza / uomo di ieri nato per la morte » (addio a te, mia adole­scenza, vv. 1-2); « un giorno, tra quei sassi, / si correva felici, a piedi scalzi » (passa remoto il vento della festa, vv. 4-5); « o tempo, dolce tempo / degli avi » (la melagrana, vv. 15-16); ecc. la pre-valenza di endecasillabi e settenari non rimati dà luogo a una musicalità che esclude qualsiasi facile possibilità di canto. il ri-volgersi qui del poeta insistentemente a cristo, quasi a rimpro-verarlo della condizione in cui ha lasciato la sua vita (« c’era una volta l’iride, / ora è piú smorta della terra gialla. // io l’ho gridato a cristo questo assurdo », c’era una volta l’iride, vv. 1-3), getta un fascio di luce sulla sua religiosità tormentata.

agavi e sassi segna comunque la svolta, e in quanto tale intrat-tiene un rapporto di dare e avere con le contemporanee poesie

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dialettali. se non fosse avvenuta in quel torno di tempo la sco-perta del dialetto come lingua nuova della poesia, pierro avreb-be di sicuro pubblicato altre raccolte in lingua, come farà del resto con la sezione inedita dell’antologia d’autore appunta­mento (poesie 1960­1967), ma non avrebbe probabilmente ag-giunto molto altro di davvero significativo a quanto già sgorga-to dalla sua vena, come non molto aggiungono sia le 10 poesie iniziali degli inediti di appuntamento, che formano un sorta di piccolo canzoniere d’amore (nel 1963 era stato intanto pubbli-cato il ben altrimenti incisivo i ’nnammurète), sia le successive 14 che ritornano sulla tematica esistenziale già ampiamente svol-ta nelle raccolte precedenti. la lirica congedo che chiude poesie 1960­1967 ha da questo punto di vista valore di testamento, con uno spunto che fornisce un’altra illuminazione sulle finalità che pierro riconosce al lavoro del poeta: « domani, / questo affannarmi a scrivere, / diventerà per gli altri forse il mare, / e ognuno avrà una vela e un dolce vento / per navigare. // io certo sarò nel fondo / come un’antica nave, / e avrò la gioia dei padri / sereni e sigillati da un silenzio / che può ancora guida-re ». intanto appuntamento gli aveva dato occasione di selezio-nare fra tutte le poesie già pubblicate quelle che risultavano piú consone alla poetica di quegli anni e di riformularne in manie-ra piú asciutta il dettato, come la nota ai testi in altra parte di questo volume documenterà.

4. una questione su cui i lettori di pierro in genere si inter-rogano è quanto ci sia del dialetto realmente parlato a tursi nella lingua della sua poesia. i dialettologi che l’hanno studiata convengono che dal punto di vista fono-morfologico è assolu-tamente coerente col parlato, e anche il lessico è quello proprio del tursitano. ma la lingua della poesia va considerata oltre gli aspetti puramente grammaticali. contano la selezione delle parole, la loro frequenza, le associazioni in cui si combinano, i significati inediti che acquistano per effetto dei traslati. in que-sto si apprezza la differenza. se consideriamo tutto ciò, la di-stanza che corre tra il tursitano parlato e quello della poesia di

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pierro è la stessa che distingue in qualsiasi lingua il registro della comunicazione quotidiana da quello della poesia colta. la domanda potrebbe allora essere spostata su un altro piano: come ha fatto questa lingua letteraria a mostrarsi cosí matura fin dalle prime prove in assenza di precedenti? per rispondere alla quale vale la considerazione che qui la relazione fra dialet-to parlato e dialetto della poesia è forse meno decisiva di quel-la fra dialetto della poesia e italiano letterario: si tratta a ogni modo di una relazione a tre, come sempre avviene nella poesia delle origini, per la quale il rapporto con la lingua di base può essere addirittura meno determinante di quello con la lingua dei modelli letterari su cui si conforma. per effetto di questa triangolazione gli elementi linguistici e culturali primari si ri-compongono in una nuova rete di relazioni.

per portare qualche esempio, una delle parole che ha nella poesia di pierro una frequenza ben piú alta (22 occorrenze) di quanto non ne abbia normalmente nel parlato di tursi è cer-tamente ìrmice, il cui corrispondente italiano da un punto di vi-sta derivativo è embrice, ma che nella sinonimia interlinguistica corrisponde a ‘tegola’ o per sineddoche a ‘tetto’: ma se questo avviene, è anche per la forte impronta letteraria dell’italiano embrice, trisillabo sdrucciolo, non casualmente parola dannun-ziana e montaliana. e ancora: nessun tursitano ha mai usato, parlando, l’espressione i trimuìzze d’u chiante ‘i tremolii del pian-to’ (i ’nnammurète, v. 8), per spiegare la quale è necessario per lo meno riferirsi ai seguenti versi leopardiani: « ma nebuloso e tremulo dal pianto / che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci / il tuo volto apparia » (alla luna, vv. 6-8). e ancora: nu mère de è espressione che appartiene alla langue tursitana, equivalente in italiano a seconda dei casi a ‘un gran numero di ’ o a ‘una gran-de quantità di ’, ma che entrando nella poesia di pierro diventa parole proprio per l’interferenza del codice linguistico dell’ita-liano, per cui quando si legge nu mère d’erve si intende sí un’este-sa superficie d’erba, ma l’immagine risulta notevolmente arric-chita dalla percezione che immancabilmente il lettore ha di una distesa marina verde e ondeggiante.

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non è da dimenticare, insomma, che nel nostro caso siamo di fronte a un poeta che sperimenta la dialettalità dopo un lun-go esercizio in lingua e che costruisce perciò il suo nuovo lin-guaggio anche in virtú di ciò che potrebbe essere definito un travaso. in taluni casi non è infatti chiaro se certi esiti tursita-ni siano la traduzione di precedenti italiani o se ci fosse una dialettalità implicita già nei versi italiani, per cui il passaggio al tursitano altro non sarebbe che un portare a vista quanto pri-ma era velato; o ancora, ma forse è la stessa cosa, se pierro non faccia riferimento a una sua lingua profonda in grado di realiz-zarsi indifferentemente in entrambi i codici. in Mia madre pas­sava, poesia che apre la raccolta omonima, troviamo, ad esem-pio, già tanti degli “oggetti” e dei moduli tipici della poesia tur-sitana: vv. 5 « i burroni » (i jaramme), 6 « il convento » (u cummen­te), 16 « ah voi non lo sapete, fratelli » (cché ni sapése vùie), 21 « una piccola fionda » (’a freccicèlle), 24 « il pallore dei morti » (’a facce ianche d’i morte), 30 « il cane che triste ululava » (n’atu chène aggua­jàite), e altro ancora. la “dialettalità” delle poesie in lingua con-sisterebbe appunto in questo. ma potrebbe anche essere una sensazione ex post.

comunque, che il tursitano poetico di pierro si addica alla poesia del ricordo piú dell’italiano letterario si comprende, pri-ma di qualsiasi considerazione critica, quando si faccia riferi-mento alla natura dei luoghi e alla cultura in cui i ricordi si in-nervano. per il poeta moderno l’ambiente nel quale vive (geo-grafico, paesaggistico, antropologico) o a cui la memoria lo ri-porta non è un fatto neutrale: ci sono poeti di città e poeti di provincia, poeti di mare, di pianura e di montagna. pierro non è assimilabile a nessuna di queste tipologie. pierro è il poeta di tursi e di quel lembo della basilicata meridionale nella quale i paesi, battuti dal vento e scossi dai terremoti, sono aggrappati a colline d’argilla scavate a calanchi e perforate da grotte, minac-ciati permanentemente da frane, siccità e inondazioni. È un paesaggio che assume talora aspetto lunare, quanto mai distan-te dai panorami antropizzati della modernità. nella cultura di coloro che lo abitano è centrale la religione dei morti cosí

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come l’accentuata ritualizzazione dei momenti fondamentali della vita (nascita, matrimoni, feste, funerali). a questo mondo pierro ritorna col ricordo quando ormai ne è fisicamente lon-tano e lo rappresenta nel suo immaginario con una lingua che si fa essa stessa magica e rituale, originando da (e a sua volta esprimendo) una visione del mondo in cui i fili tra l’uomo e la natura non sono ancora tutti recisi. ciò consente di dar vita a una poesia d’immaginazione, impossibile da praticare per altre vie al poeta moderno. non avvertendo piú continuità tra l’io e il mondo, il poeta novecentesco ha soprattutto la metafora e il simbolo come strumenti per proiettare in immagini i conte-nuti dell’io. nella dialettalità arcaica del tursitano il continuum è invece ancora percepibile e pierro riesce in conseguenza di ciò a riconvertire il simbolo in similitudine; e, come i poeti di altre epoche, può dialogare ancora con la luna e restituire al lettore l’illusione appagante di una ricomposizione del proprio io con la realtà che lo circonda. ma non tutto è cosí consolato-rio come queste osservazioni potrebbero far credere: l’imme-desimazione in un mondo arcaico resta un’aspirazione illuso-ria che non risparmia al poeta (e al lettore) la dimensione do-lorosa della modernità. Frammenti di felicità possono coglier-si solo nel ricordo mitizzato del passato, mai nel presente. pier-ro lascia in questo modo trasparire l’essenza profonda del suo leopardismo.

i temi della lirica tursitana non differiscono molto dai pre-cedenti in lingua: poesia del ricordo e poesia esistenziale, nelle quali memoria del passato e scavo interiore ora si alternano, ora si intrecciano. c’è poi la poesia d’amore, con un’incidenza quantitativa e qualitativa ben altrimenti significativa rispetto all’esperienza in lingua; infine i poemetti narrativi, tipologia cosí caratterizzante dell’arte di pierro. una produzione dun-que a largo spettro, per descrivere la quale – come già detto – è piú funzionale seguire verticalmente lo sviluppo di ciascuna linea tematica. cominciamo dalla poesia del ricordo, come di-chiara già nel titolo il primo libro, ’a terra d’u ricorde (variazione di la terra del rimorso di ernesto de martino, viaggio etno-an-

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tropologico nella realtà del sud), per la quale la continuità con Mia madre passava, il paese sincero e il mio villaggio non ha bisogno di essere dimostrata. prosegue con Metaponte e soprattutto con la prima sezione di nd’u piccicarelle di turse; ritorna nella mag-gior parte di Dieci poesie, in ci uéra turnè, nella quarta sezione di nun c’è pizze di munne, intitolata per l’appunto a lu paise; infine, ma non cronologicamente, nei poemetti usciti separatamente e poi raccolti in si pó’ nu jurne (qui terza sezione di poesie sparse) e nelle poesie pubblicate in prima edizione nella rivista « polio-rama » e riproposte in tante ca pàrete notte (quarta sezione di poe­sie sparse).

la tematica del “paese” costituisce dunque una delle assi portanti della produzione dialettale di pierro. i luoghi delle poesie, seppure rappresentati realisticamente (da cui l’oppor-tunità esegetica di individuarli e descriverli),5 diventano proie-zioni del suo animo. il territorio di tursi fatto di colline brulle e burroni, ma a valle ricco di campagna verdeggiante, si tra-sforma in un paesaggio interiore in grado di rappresentare l’in-tera gamma dei moti di un animo sempre altalenante tra stati euforici e disforici, accompagnato incessantemente dall’ango-scia della morte. e con i luoghi gli edifici (le chiese, i conventi, il municipio, il palazzo del barone e soprattutto u pahàzze, cioè casa pierro) e le strade, ai quali si ricollegano ricordi e sensazio-ni, e poi gli animali (il cane, il gatto, il lupo, l’asino, il gallo, la civetta, la lepre, il pipistrello, la lucertola, i colombi), i riti (la festa, il carnevale, le processioni con la banda, i funerali). ma ciò non si risolve mai in documentazione folclorica, i significa-ti della poesia sono quasi sempre altri da quelli che la superficie descrive. la materia tursitana diventa pretesto per rappresen-tare la condizione lacerata dell’animo e la conseguente ansia di ricomposizione.

prendiamo una poesia molto nota, anche perché era una di quelle che pierro abitualmente recitava: Quanne accirìne u porc.

5. cfr. E. Boccardi, guida ai luoghi pierriani. tursi ­ città di pierro, policoro, tip. grafidea, 2004.

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È il racconto di quando bambino sentiva le grida strazianti del maiale che stava per essere scannato, grida che arrivavano ad-dirittura alle stelle, e scappava via piangendo nei piani alti della casa, suonando forte la chitarra per tentare di coprire quegli urli; ma poi, fattosi grandicello, parteciperà anche lui con gli adulti a quella violenza e avrebbe reagito con rabbia se qualcu-no gli avesse ricordato i suoi ancora pochi anni. le due scene, il prima e il dopo, non hanno nulla di bozzettistico, sono una rappresentazione per immagini, cioè nei modi in cui la poesia, e soprattutto la grande poesia, comunica, dell’indurimento di cuore che gli adulti col loro esempio inducono nell’animo in-fantile. ma quella poesia dice anche come pierro riesca a strut-turare con le “cose” di tursi una sua personale mitografia, ren-dendole universali in una lingua poetica costruita paradossal-mente su di un dialetto di periferia estrema. nell’italiano della poesia novecentesca sarebbe stato impossibile rappresentare lo stesso contenuto con le stesse immagini.

all’interno della poesia del ricordo un posto particolare è occupato dai poemetti. la data della loro pubblicazione in rac-colte o alla spicciolata, stante l’abitudine di pierro di lasciar de-positare a lungo le sue poesie, dice poco sui tempi di composi-zione. quello che oggi risulta è che pierro ha coltivato durante tutta la sua attività di poeta in dialetto il racconto in versi, con risultati di notevole qualità. e non meraviglia – come informa mariagrazia palumbo piú avanti in questo volume – che egli avesse in mente di raccoglierli per pubblicarli autonomamen-te, disegno che sarebbe ancora oggi interessante perseguire. al centro di molti poemetti sono personaggi bizzarri di paese al limite o dentro il confine della follia, raccontati in scene esila-ranti tra il grottesco e il surreale, coi quali la massa corale dei paesani interferisce e a cui talora lo stesso poeta-personaggio fa da spalla. don celestino, compare luigi, l’arciprete innamo-rato geloso della sua asina, stefano mafone, pasqualozzo, don nicola, tutte figure reali: pierro non li inventa, li racconta at-traverso la lente deformante del suo straordinario umorismo. ma non ci sono solo personaggi stralunati nei poemetti. Vorrei

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ricordare adduurète, la poesia che racconta della madre infelice che passa la vita accanto al figlio pazzo chiuso in una stanza, se-duta su una sedia a snocciolare rosari, e che la crudeltà dei gio-vinastri del paese costringe a imbandire tavola ogni volta che irrompono chiassosi nella sua povera casa col pretesto di dover fare la barba al pazzo.

una pietà immensa dimostra il poeta nei confronti di questa donna come nei confronti delle madri sfortunate di altre poe-sie, tutte madonne addolorate (come la sua, quando la descrive in ’a Ravatène col volto bianco trasportata morente su una sedia con lui appena nato in seno, « com’a na maronne / cc’u bam-binelle mbrazze », vv. 31-32). ma è nel poemetto Metaponte che l’arte di pierro raggiunge uno dei suoi vertici, anche per lo spessore di pensiero che i versi lasciano intravedere. la grande piana di metaponto, che tante bellezze un tempo ha conosciu-to e ancora racchiude entro di sé (« ci su’ tante billizze, / a metaponte, / ca s’abbràzzene mute suttaterra », vv. 1-3), dove forse pitagora continua a tornare di notte a giocare con le stel-le, è descritta in dissolvenza come una landa desolata che vede solo cani infreddoliti e “cristiani” silenziosi come morti. quan-do il poeta vi passa sentendosi come cristo schiodato dalla cro-ce vorrebbe fare qualcosa per dare un po’ di gioia a quei suoi fratelli infelici, ma è tutto inutile: le cose belle o brutte in quel-la piana sono immutabili. il passato non può nulla sul presente, i tempi della storia fra loro non parlano.

la poesia d’amore, come già anticipato, costituisce dal pun-to di vista tematico la novità sostanziale del pierro in dialetto rispetto a quello in lingua. la prima e piú celebre raccolta di argomento amoroso, i ’nnammurète, leggibile come un can zo-niere,6 si apre con la celeberrima lirica che le dà il titolo, nel-la quale lo stato di pienezza a cui giungono i due innamorati

6. cfr. S. Sgavicchia, poesia e narrazione nella raccolta ‘i ’nammurète’, in la poesia in dialetto di albino pierro nel decennale della sua scomparsa. atti del convegno di poten-za-rende, 25-27 novembre 2005, a cura di n. Merola, soveria mannelli, rubbet-tino, 2008, pp. 55-66.

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raccontati dal poeta e il loro perdersi in una condizione estatica (« avìne arrivète a lu punte juste: / […] / ma nun fècere nente: / stavìne appapagghiète com’ ’a nive / rusète d’i muntagne, / quanne càlete u sóue e a tutt’i cose / ni scìppete nu lagne », vv. 40-50)7 ha in sé l’imminenza della fine: il lamento della na -tura per il sole che tramonta, introdotto in maniera ap paren-temen te surrettizia dalla similitudine, ne è presagio. solo su-perficialmente le due figurine di pierro possono essere accosta-te, com’è stato fatto, agli innamorati di peynet o agli sposini in volo di chagall: la loro felicità implica il rischio della caduta (« nun mbògghi’a die / ca si fècere zanghe mmenz’ ’a vie », vv. 67-68).8 la raccolta i ’nnammurète descrive fondamentalmen-te l’impossibilità dell’idillio, cioè dell’amore pacificamente go-duto: i rari momenti di grazia degli amanti sono intervallati da pianti, angosce, incomprensioni, allontanamenti e difficili ri-torni. la lirica d’apertura fa già presagire tutto questo. e nel dolore per la felicità assaporata e subito perduta unica consola-zione è il ricordo. insomma anche la poesia d’amore è in pier-ro soprattutto poesia del ricordo. e come in ogni canzoniere anche i ’nnammurète si chiude con una lirica di impianto, un ringraziamento solenne, forse anche un po’ facile, all’amore “dolce e onnipotente”, bello come il sole anche quando dà an-goscia o tormento.

le poesie di eccó a morte? replicano uno schema identico. alla prima lirica, che allude con reticenza alla felicità di un amore nascosto (na bella cosa), seguono altre in cui si racconta la difficoltà se non l’impossibilità di un rapporto sereno, e dun-que ancora pianti, incomprensioni, attese deluse, ricordi e infi-ne, nella lirica di chiusura (si murére mó mó), la consapevolezza del poeta che, se anche lí lí lui morisse, il pianto dell’amata

7. « erano arrivati al punto giusto: / […] / ma non fecero niente: / stavano im-bambolati come la neve / rosata delle montagne, / quando il sole tramonta e a tutte le cose / strappa un lamento ». le traduzioni riportate in nota sono tutte d’autore.

8. « dio non voglia / che si fecero fango in mezzo alla via ».

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continuerebbe a trafiggergli il cuore. infine nu belle fatte (‘una bella storia’), l’ultima raccolta di contenuto interamente amo-roso. rispetto alle due precedenti, il tono cambia radicalmen-te. nu belle fatte potrebbe essere definito il libro dell’amore “pe-troso” di pierro, cioè il diario di un amore sensuale raccontato con toni accesi, addirittura vampireschi nella poesia d’apertura (Mbàreche mi vó’ ): « mi iunnére dasupr’a tti, / e tutte quante t’i suchére, u sagne, / nda na vìppeta schitte e senza fiète » (vv. 6-8), cioè ‘mi getterei sopra di te e ti succhierei tutto il sangue in una sola bevuta, senza rifiatare’. l’erotismo pierriano prende, come si vede, vie e forme inusuali. la materia passionale sele-ziona immagini forti e un lessico aspro: « nda ll’arie / nun ni tròvese cchiù scarde di vitre »9 (Véne, vv. 2-3); « ci ha’ stète ave-ramente, e ferme, / addi mi, / com’ ’a pétre nd’ ’a càvece »10 (le sàpese tu, vv. 4-6); « mi stève turcinianne nd’i scannìje / com’a na zuca ammullète »11 (nun ni vó’ sapè, vv. 4-5); « e si vasème a la logne, / e, musse a mmusse, / si mmischème all’ùtime nd’ ’a scorze, / com’a dui sbutte di sagne »12 (u nùmere tre, vv. 8-11). ma anche qui i componimenti della seconda parte denunciano difficoltà e incomprensioni: « si stavìme facenne nimice a mor-te / e già s’avìme ditte “statte bbone” / vicin’ ’a porte »13 (nu ’ampe, vv. 1-3). la lirica finale ripropone tuttavia, malgrado tut-to, i toni celebrativi dell’ultima poesia di ’i nnammurète: « “a -more”, chiste è chille c’àt’ ’a dice / sta vocia; mó’ stu munne è tante belle, / nun c’è nisciune cchiù ca i’è nfilice / e nun su’ fridde cchiù nd’u cée i stelle »14 (ti vógghie bbéne, vv. 21-24).

9. « nell’aria, / non ci trovi piú schegge di vetro ».10. « ci sei stata veramente, e ferma / da me / come una pietra nella calce ».11. « mi sto torcendo nell’angoscia / come una fune bagnata ».12. « e ci baciamo a lungo, / e, muso a muso, / ci mescoliamo infine nella scor-

za, / come due fiotti di sangue ».13. « ci stavamo facendo nemici a morte / e ci eravamo già detti “statti bene” /

vicino alla porta ».14. « “amore”, questo è quello che dovrà dire / questa voce; ora il mondo è

tanto bello: / non c’è nessuno piú che sia infelice, / e non son fredde piú nel ciel le stelle ».

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intorno alla poesia di memoria e alla poesia d’amore si svol-ge l’altro grande motivo della lirica di pierro, quello definito per comodità espositiva della poesia esistenziale, rappresenta-to da alcune raccolte in maniera specifica (Famme dorme, curtel­le a lu sóue, com’agghi’ ’a fè’?, sti mascre), ma i cui temi affiorano, qualsiasi sia il contesto, ogni volta che il poeta scava all’inter-no del suo animo. tutta la poesia di pierro ha di fatto carattere introspettivo. curtelle a lu sóue e sti mascre appaiono come i ri-sultati piú alti di questo aspetto per essenzialità del discorso li-rico e omogeneità stilistica, che nel caso di sti mascre mette a frutto le risorse linguistiche del tursitano per creare una tessi-tura verbale aspra che significhi adeguatamente sul piano foni-co lo spaesamento e la conseguente pena di vivere non solo del poeta come soggetto lirico, ma dell’uomo moderno che egli figuralmente rappresenta. il dialetto di tursi e gli “oggetti” di quel mondo vanno a costituire, grazie all’uso che ne fa il poeta, un repertorio di simboli utili a rendere in forme originalissime la condizione umana. « tegne nu dulore ca nun mi làssete / com’a lu core i zanne di nu lupe », cioè ‘sento un dolore che non mi lascia, come se nel cuore avessi conficcate zanne di lupo’; è questo l’incipit della prima poesia di sti mascre. quelle cose (elementi del paesaggio, oggetti, animali), che nella civiltà con-tadina hanno uno spessore semantico che conferisce loro un accentuato valore simbolico, sfumano i significati originari per assestarsi in un sistema di secondo grado che risponde anzitut-to agli stati della coscienza individuale.

un poeta per realizzare questo ha a disposizione esclusiva-mente la scrittura, vale a dire un sistema retorico-linguistico in grado di reinventare a suo uso il mondo. la retorica di pierro ha una tendenza agli accostamenti ossimorici, alle giustapposi-zioni dissonanti (« s’assimmìgghiene assèi assèi, / sti dui belle cose, / com’u zoppe e nu cichète, / com’u iaròfue e na rose »,15 ’a morte e lu sonne, vv. 22-25), allo srotolamento centrifugo delle

15. « s’assomigliano assai assai / queste due belle cose / come il cieco e uno zoppo, / come il garofano e una rosa ».

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immagini (« e mi chiàmete u vente ca ’untène / si rùppete nda sone e sonicèlle / di trombe e d’urganètte, / quanne pàrete ’a rise nu cristalle / ca si scrafàgnete, / e i colp-scure su’ tanta ja-stéme / come di chi si pùngete nd’i vespe »,16 e cannìje, vv. 10-16). in questa chiave l’antitesi si attesta come figura decisiva della lingua poetica di pierro. la maggior parte delle poesie è costruita su una struttura contrappositiva, per lo piú esplicita, a volte implicita. il paese è contrapposto alla città, l’infanzia alla maturità, il passato al presente, l’allora all’ora, gli altri all’io. il pronome “io”, ié, ha in questa poesia una frequenza altissima. pur assumendo come materiali quelli del mondo contadino lucano, pierro è tutt’altro che il cantore delle sue tradizioni. nella realtà contadina manca l’anima individuale, come man-ca l’idea lineare del tempo. il tempo del contadino è un tempo ciclico, scandito dal succedersi delle stagioni; molta poesia di pierro si costituisce invece sulla contrapposizione del presente al passato. ci si può interrogare allora da dove vengano a lui le suggestioni per questo tentativo ossimorico di conciliare una sensibilità individuale con le forme e con la lingua di un mon-do che conosce solo la dimensione collettiva. ma per spiegare questo la psicologia e l’antropologia non sono piú sufficienti, è necessario guardare nella letteratura.

la cultura poetica (e anche filosofica) di pierro è tanto vasta quanto dissimulata. se nelle raccolte in lingua è abbastanza ri-conoscibile la presenza della tradizione poetica italiana otto-novecentesca, da Foscolo e leopardi a pascoli, d’annunzio, i crepuscolari, ungaretti e quasimodo, nelle raccolte in dialetto l’intertestualità diventa piú difficilmente decrittabile. la per-sonale lingua poetica di pierro, per tanti versi fuori dal tempo, lascia intuire presenze che vanno dai lirici greci ai poeti latini (lucrezio in particolare), dai provenzali, gli stilnovisti e dante ai romantici tedeschi e ai simbolisti francesi. una menzione

16. « e mi chiama il vento che lontano / si rompe in suoni e suonettini / di trombe e di organetti, / quando sembra il riso un cristallo / che si frantuma / e i mortaretti sono tante bestemmie / come di chi si punge fra le vespe ».

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particolare in questo ventaglio di autori merita l’amato leo-pardi, tanto dei canti quanto delle operette morali: per il dialogo con la luna (nd’u sonne, a chist’ora, e cannìje), per la constatazio-ne dell’indifferenza del cielo al pianto dell’uomo (i’è ncùrte na­tèhe), per il sonno che pervade tutto (tante ca pàrete notte), per la fantasia della morte e del sonno che si rimpallano la vita del poeta (’a morte e lu sonne) come ercole e atlante in un’operetta giocano a palla con la terra.

aggiungerei alla rassegna da ultimo, ma fra i primi per im-portanza, il libro dei salmi.17 sono numerosi i luoghi pierriani che lasciano trasparire in filigrana stilemi e moduli propri del testo biblico. ma ai nostri fini non sono tanto significative le riprese di movenze particolari, come di certi modi vicini al parlato: « non ve n’è uno che operi il bene, / neppure uno » (sal., 14 3), in pierro: « nisciune nisciune, mó, si rivigghièrete, / proprie nisciune » (tante ca pàrete notte, vv. 51-52); o ancora: « la mia vita è come un nulla / dinanzi a te. / proprio cosí: / ogni uomo che vive / non è altro che un soffio » (39 6), e nel pierro in lingua: « e gli uomini / […] / divennero le ombre in fondo a un pozzo / con riflessi di luna. // “cosí, proprio cosí ”, pensava ognuno » (il ritorno, vv. 39-44); la frequente ripresa ego autem nei salmi, in pierro ié, ma ié. e neppure taluni calchi narrativi come quello che si incontra in maniera sorprendente nel poemetto Don cilistine, dove il pazzo che entra di prepotenza in piena notte nel “palazzo” dov’è la veglia funebre, con la bava alla bocca (« pó’ / sintènnese cchiù strinte nd’u mantelle / ca nvéce di si ssògghie si mbrugghiàite / nd’i strappe ca stutàrene ’a lan-tèrne, / ci mancàvite picche / ca nun le fècete / u mòte, / tante ca pur’i stelle, / c’avìne viste ’a scóme supr’ ’a vucche, / si mittìrine a rire belle belle », vv. 19-28),18 rimanda ai traditori di

17. prendo a riferimento: salmi. cantico dei cantici, trad. dai testi originali del rev. p. d. Colombo, pres. critica di l. Moraldi, milano, garzanti, 1977.

18. « poi / sentendosi piú stretto nel mantello / che invece di sciogliersi si im-brogliava / alle stratte che spensero la lanterna, / poco ci mancò / che non le fece / le convulsioni, / tanto che pure le stelle, / che avevano visto la schiuma sulla bocca, / si misero a ridere bel bello ».

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cui dice il salmista (59 7-9): « tornano a sera e latrano come cani, / s’aggirano intorno per la città. / effondono, ecco, bava dalla loro bocca, / tengono spade fra le loro labbra: “ma chi ci ode?”. / ma tu, o Jahvè, li irridi, / tu ridi di tutte le genti ». il comportamento furioso, la bava alla bocca (« ’a scóme supr’ ’a vucche »); lí la terribile irrisione di Jahve (« tu ridi di tutte le genti »), qui il benevolo e divertito sorriso delle stelle (« tante ca pur’i stelle / […] / si mittìrine a rire belle belle »). anche dietro al tema ricorrente dei maldicenti e dei nemici che il poeta scor-ge dietro le sue avversità potrebbero essere adombrati prece-denti biblici (sal., 30 14; 34; 41; 59; ger., 18 18-23; ecc.).

il fatto è che esistono coincidenze strutturali tra i salmi e le poesie di pierro. il paesaggio a cui pierro si riferisce è molto simile a quello descritto nella bibba: anche lí il vento, la rupe, l’argilla, la parete che crolla, i fossati, l’erba che nasce (è la na-tura affine a sollecitare la memoria letteraria?). sullo sfondo dei salmi, come del resto dell’intera bibbia, è una realtà conta-dina nella quale la dimensione individuale è garantita a ogni uomo dal rapporto diretto con dio. È sul modello di questa poesia che pierro riesce forse a conciliare la soggettività dell’io con la dimensione corale del mondo che rappresenta e con cui interagisce. prospettiva che il poeta contamina con altre moda-lità di poesia religiosa, come risulta per esempio nel ricorrente uso metaforico della tematica della luce e del buio o nell’aspira-zione all’annichilimento coglibile nell’insistenza im pie tosa di paragoni svolti col gusto barocco di tanta letteratura mistica: « i’ére ammuccète com’u fihicèlle / di pàgghie nda na rote at-turcigghiète / di nu traìne vruscète / nd’u funne di una dru-pe »19 (nd’a ’a gente ca rirìte, vv. 3-6). seppure secolarizzato, il lin- guaggio religioso conserva ben visibile l’impronta originaria.

la rappresentazione dell’io lirico sullo sfondo di una realtà popolata di simboli impone nell’organizzazione delle immagi-ni e nell’invenzione delle metafore una logica regolata indivi-

19. « ero nascosto come il filino / di paglia in una ruota contorta / di un carro bruciato / nel fondo di un dirupo ».

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dualmente da un rapporto di corrispondenza organica tra il mondo fisico e l’universo interiore, tra le cose e il poeta. da qui la soggettività e anche l’ambivalenza, cioè la positività o la ne-gatività, dunque la dualità simbolica che ogni oggetto può as-sumere nel momento in cui diventa segno del linguaggio pier-riano. tutto si rende disponibile a una dinamica oppositiva: sono in genere marcati come positivi il passato, l’infanzia, il paese, la luce, il giorno; come negativi il presente, la maturità, la città, il buio, la notte. ma non stabilmente: la funzione è de-terminata dal sistema relazionale in cui di volta in volta l’ogget-to si iscrive.

i lettori di pierro conoscono quanta parte abbiano nella sua poesia le jaramme , i burroni scavati a calanchi che circondano tursi. ma quale valore simbolico acquistano nella poesia que-sti elementi del paesaggio? se appartengono al presente le ja­ramme possono rappresentare una sorta di bocca infernale, un incubo notturno: « e pure quanne dorme / mi mànnete nd’u sonne / iaramme ca mi súchene e curtelle »20 (Mi sicùtete ’a mor­te, vv. 24-26), o oscurità vomitante spiriti maligni: « ti pàrete ca […] u nivre d’i iaramme / lle nfùete nda ll’arie tante spìrite / ca si iùnnene e spìngene cchi gghi’èsse / da supre ll’ate »21 (u mort, vv. 53-56). ma possono anche essere porto di pace e di felicità se considerate nostalgicamente come luoghi dell’infanzia: « ci agghie iute nu mère nd’i jaramme / e quante mi piacìte / di mi cucchè nd’i grutte / doppe c’avìj’ scappète / com’u lébbre »22 (’a jaramme, vv. 1-5).

un lessico ragionato della poesia di pierro contribuirebbe a far luce sui meccanismi di costruzione del suo apparato simbo-lico, consentendo di osservarne le logiche e avvicinare cosí il nucleo profondo della sua ispirazione.

20. « e pure quando dormo / mi manda nei sogni / burroni che risucchiano e coltelli ».

21. « ti sembra […] il nero dei burroni / catapulti nell’aria tanti spiriti / che s’avventano e spingono per essere / di sopra agli altri ».

22. « ci sono andato un mare di volte nei burroni, / e quanto mi piaceva / cori-carmi nelle grotte / dopo che avevo corso come la lepre ».

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5. anche se la presente edizione riguarda il pierro già a stam-pa, non sarà inutile gettare uno sguardo anche sui materiali ine-diti del poeta, in particolare su quelle quattro agende di cui piú indietro si è detto. sulle loro pagine dal 14 febbraio 1975 (è la data della seconda poesia, la prima non è datata) al 18 ottobre 1985 il poeta, per lunghi periodi quotidianamente, annotò pres-sappoco 1400 poesie in dialetto, dunque un numero tre volte e mezzo maggiore delle circa 400 dialettali pubblicate in vita. negli ultimi anni pierro teneva in vista questo materiale sul termosifone del suo studio della casa romana di monteverde. a ogni componimento è apposta con scrupolo ragionieristico la data di trascrizione e la sigla « a.p. ». la prima agenda (relati-va al 1973) copre meno di sette anni, fino al 16 settembre 1981. le poesie annotate sulla seconda (del 1976) vanno dal 1° otto-bre 1981 al 25 aprile 1983, poco piú di un anno e mezzo dunque, con un evidente intensificarsi della scrittura. la terza (del 1975) registra poesie dal 6 giugno 1983 al 6 marzo 1985;23 sulla pagina d’apertura è trascritta la massima « il mestiere piú bello e piú antico del mondo è fare di ogni bambino un galantuomo »; piú avanti una poesia dal contenuto sconvolgente (M’aves’ ’a pir­dunè si nu m’accire) datata 21 aprile 1992, dunque annotata anni piú tardi; quindi dopo alcune pagine bianche l’incipit di una poesia di pessoa, strabiliante per la pertinenza con la prospet-tiva di pierro poeta: « dal mio villaggio io vedo quanto dalla terra si può vedere dell’universo ». infine la quarta e ultima agenda (anch’essa del 1975), con un foglietto incollato sul retro della copertina su cui ritorna la stessa frase di pessoa e cosí an-notato: « ore 19,50. televis. 15-7-85 »; segue una poesia di anni piú tardi, a data 6 luglio 1993 (chi le sàpete mó si ci agghie stète), e altre tre dell’11, 12 e 13 ottobre 1985, trascritte qui dopo che la sequenza che va dal 7 marzo all’11 ottobre 1985 aveva occupato tutte le pagine utili; infine su una facciata bianca recuperata in extremis alla fine dell’agenda una lirica del 18 ottobre 1985. do-

23. da questa agenda Formisano (poesie per il 1983, cit.), pubblica 78 delle 98 liri-che che si riferiscono al 1983.

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po di che piú nulla, come se l’indisponibilità di altri spazi per la scrittura avesse comportato l’esaurimento della vena.

non sembra che il poeta abbia attinto a questi testi per le sue raccolte. lo avrebbe certamente annotato, come fa – ed è l’uni-ca volta – per quella del 23 aprile 1985 con un appunto a penna rossa: « data a dell’arco 27-7-85, per l’apollo ». si tratta della poesia che prenderà il titolo i finucchie e uscirà nell’« apollo del buongustaio » del 1986, l’annuario gastronomico-letterario idea-to e curato da mario dell’arco (qui poesie sparse, 16). tutte le poesie sono comunque senza titolo e senza traduzione e riflet-tono uno stadio di elaborazione non uniforme: per alcuni trat-ti sembrano copie in pulito, nella maggior parte abbondano di cancellature e riscritture.

nonostante dal 1975 al 1992 e oltre pierro abbia ancora con-tinuato a dare alle stampe poesie inedite (ma quando compo-ste?), tra le quali quelle di nun c’è pizze di munne, dal punto di vista della cronologia compositiva il materiale delle agende, in particolare quello relativo agli anni dal 1983 al 1985, segna di fatto l’ultima stagione della sua poesia. nel 1985 soprattutto, la portata dell’ispirazione assume carattere torrenziale. il dato uni-ficante di questa produzione è l’uniformità metrica della gran-dis sima maggioranza delle liriche, cosa mai accaduta prima: quat tro quartine di endecasillabi regolari a rima alterna (ab-ab), con a o b variate talvolta in assonanza o in consonanza. questo schema, che il poeta aveva già sperimentato occasional-mente nelle raccolte a stampa, diventa qui elemento caratte-rizzante e per la sua portata (oltre un migliaio di poesie) fatto criticamente rilevantissimo.

il componimento di quartine di endecasillabi a rima alter-na o incrociata è presente nella tradizione poetica italiana fin dal medioevo; in età rinascimentale diventa la forma propria dell’ode, a imitazione della struttura tetrastica delle odi di ora-zio. la sperimentano già bembo e trissino, ma troverà impie-go stabile soprattutto con chiabrera e testi, affermandosi co-me una delle forme tipiche del classicismo barocco. i manuali di metrica italiana non ne segnalano riprese successive, se non

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forse occasionalmente nella poesia popolare. pierro regolariz-za in quattro il numero delle strofe, riproducendo in questa maniera la struttura quadripartita del sonetto. dalle forme li-bere delle prime raccolte, approda dunque alla fine della car-riera alla metrica regolata.

in astratto la quartina di endecasillabi a rima alterna è una forma facile, cantabile, tanto è vero che se ne appropria la poe-sia popolare. ma la poesia delle agende è tutt’altro che facile o cantabile: contiene forse l’espressione piú accentuata del pessi-mismo di pierro. la raccolta che piú l’avvicina, anche per le sonorità aspre che la caratterizzano, è probabilmente sti mascre. pierro aveva fatto ricorso con frequenza alla rima nelle poesie dialettali, ma liberamente, senza vincoli di forma metrica. qui invece, costringendosi tanto a lungo a versi rimati a schema obbligato, ingaggia una prova di forza continua con la sua lin-gua, sottoponendola a una tensione che deforma semantica-mente le parole e le carica di un’espressività ai limiti dell’oscu-rità. la critica di pierro è ricorsa con frequenza alla categoria dell’espressionismo per definirne la poesia: ebbene, le poesie delle agende fanno segnare la punta piú avanzata del suo spe-rimentalismo espressionista. il che, se l’impressione di una ra-pida lettura troverà conferma in studi piú meditati, non avrà solo interesse all’interno della carriera del poeta, sarà un fatto rilevante anche nel quadro della poesia italiana di secondo no-vecento.

6. ultimo argomento, le traduzioni d’autore. i poeti dialetta-li che accompagnano i loro testi con versioni in lingua è prassi che siano loro stessi a realizzarle. ci sono dialetti per cui le tra-duzioni sono imprescindibili e altri no. quello di pierro appar-tiene alla prima specie, anzi tra questi occupa un posto premi-nente. la lingua di pierro è difficile, direi ostica. il dialetto tur-sitano è capito senza sforzo solo in una cerchia ristretta di paesi intorno a tursi; comporta difficoltà di comprensione già negli altri paesi nella basilicata meridionale. Vale ricordare che la frammentazione linguistica della regione è tale che solo con-

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venzionalmente si può parlare di dialetto lucano. gli altri poeti dialettali possono giovarsi di una sintonia linguistica con una base di parlanti incomparabilmente piú ampia. ciò pone a pier-ro dei problemi che quelli o hanno meno o non hanno affatto.

sul suo modo di tradurre il poeta si espresse in un’intervista ad antonio altomonte su « il tempo » del 20 agosto 1972: « la versione in lingua dei miei versi vuole essere solo esplicativa, non ha e non vuole avere alcun valore poetico ». non è sempre cosí, naturalmente: ci sono non poche poesie in cui l’autore si allontana dalla lettera stretta dell’originale per cercare soluzio-ni metricamente regolari, addirittura introducendo inversio-ni e troncamenti. ma non si può certo negare che la traduzio-ne italiana della prima edizione di ’a terra d’u ricorde di giorgio petrocchi (1960) e soprattutto quella metrico-ritmica di tom-maso Fiore a Metaponto (1966) hanno nell’insieme maggiore au-tonomia di quelle dell’autore. sull’argomento hanno sviluppa-to delle riflessioni anche due dei critici piú illustri di pierro, contini e Folena, i quali, a leggere fra le righe, qualche riserva la esprimono. cosí scrive contini: « c’è una progressiva lette-ralizzazione, e si arriva a una totale interlinearità. queste tra-duzioni non sono traduzioni “belle”, detto fra virgolette, ma sono traduzioni utili, che hanno un significato, un’utilità con-trastiva enorme, perché traducono letteralmente, interlinear-mente anche nei minimi particolari morfo-sintattici, e in que-sto atto stesso dimostrano e come ostentano quale sia la diffe-renzialità rispetto alla lingua nazionale ».24 quindi il critico dà alcuni esempi che definisce “goffaggini”, ma anche “prove di intelligenza”, e conclude: « il fatto che pierro abbia fedelmente seguito, elemento dopo elemento, la traslitterazione, mi pare una prova della sua, come posso dire, involontaria sagacia, del suo preterintenzionale acume ».25 in precedenza Folena aveva

24. A. Pierro, com’agghi’ ’a fè? ­ come debbo fare ? ­ comment dois­je faire?, traduit par m. Santschi, postface de g. contini, milano, all’insegna del pesce d’oro, 1986, p. 73.

25. ivi, p. 75.

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osservato: « la sorte di un poeta in dialetto, e poi d’un dialetto remoto e arcaico, costretto, per rendersi accessibile alla comu-nità non locale che gli compete, alla traduzione a fronte, che non può essere che “parodica”, in senso etimologico, resta sem-pre crudelmente precaria, perché quello che egli guadagna in profondità e intensità espressiva, perde necessariamente in estensione comunicativa ».26

la tendenza a tradurre interlinearmente e sempre piú alla lettera si coglie in realtà nel percorso poetico di pierro a partire da curtelle a lu sóue del 1973, continua con nu belle fatte del 1975 e com’agghi’ ’a fè? del 1977, si stabilizza definitivamente con sti mascre del 1980 e Metaponto del 1982. il sapore della traduzione è quello di un italiano dialettale. le particelle pronominali pro-lettiche con funzione espressiva, disseminate da pierro quasi in ogni verso, sono trasferite in lingua. la preoccupazione dell’au-tore è di stabilire il piú possibile delle equivalenze formali fra i due sistemi, anche a scapito delle corrispondenze semantiche. cristiène, che in curtelle a lu sóue era tradotto ancora con ‘uomo’, sarà in seguito reso con il calco ‘cristiano’; i tanti diminutivi come chepicèlle, vrazzicèlle, occhicèlle, che nel contesto della poe-sia non esprimono piccolezza ma sono dei diminutivi affettivi, meglio si direbbe di compassione (‘la povera mia testa’, ‘le po-vere mie braccia’), resi in italiano con le corrispondenti forme diminutivali non conservano piú la sfumatura dell’originale. l’espressione mi riminèje nd’u lette in Metaponto 1982 è tradotta, per corrispondenza sillabica e attrazione di significante, « mi di-menavo nel letto », mentre il senso è piuttosto ‘mi giravo e r i-giravo’. sempre in Metaponto 1982 l’espressione deittica ci scaffài­ne tante nu piscone, cioè ‘ci mettevano una pietra grande cosí ’, è per cosí dire traslitterata in un poco elegante « ci schiaffavano tanto di pietrone ». nelle ultime traduzioni si ha un tendenzia-le annullamento della polisemia dialettale. Frusce è, nel dialetto

26. a. Pierro, nu belle fatte - una bella storia - une belle histoire, traduit par m. Santschi, introduction par G. Folena, milano, all’insegna del pesce d’oro, 1977, p. 9.

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di tursi, un termine di largo spettro semantico: può indicare sí ‘fruscío’, ma anche ‘scroscio’, ‘rumore’, ‘frastuono’ (frusce de ma­ne e de risate, frusciazze de campane, frusce di trene); in un primo tempo frusce è tradotto con pertinenza di significato, poi tutte le differenze sono azzerate nell’italiano « fruscío », che però co-pre un’area di significato molto piú ristretta della corrispon-dente forma dialettale.

concettualmente il punto di arrivo di questa tendenza è il riconoscimento dell’intraducibilità del dialetto. già in Meta­ponto 1982 cominciano infatti ad apparire le glosse: pierro con-serva nella traduzione il termine dialettale, che viene tuttavia glossato tra parentesi con l’equivalente italiano. avviene per la cristarelle, il ‘gheppio’, e per u katoie, parola di forte impronta greca, il ‘sottoscala’: questi termini, non avendo in italiano for-me parallele, sono ritenuti glossabili ma non traducibili. sotto un tale atteggiamento c’è il riconoscimento del valore rivelato-re della parola poetica, che sarebbe portatrice di un incanto connaturato irripetibile: l’orfismo, evidente fin dalla celeberri-ma epigrafe di ’a terra d’u ricorde (la parlata fresca di paese che spalanca le porte) va trasformandosi in magia.

in quanto sviluppo di poetica, dal punto di vista dell’autore ciò è assolutamente legittimo e per noi di grande interesse cri-tico, ma certo non ha giovato a una diffusione piú larga della poesia. tra l’italiano e altre lingue romanze come il francese o lo spagnolo corre forse, per certi aspetti, minore distanza di quanta non ne corra fra l’italiano e il tursitano; e quei (pochi) lettori che leggono abitualmente poesie sentono a prima im-pressione piú familiare l’inglese che non la lingua di pierro. la traduzione per esercitare davvero una funzione di servizio non può limitarsi in queste condizioni a offrire la parola italiana formalmente corrispondente a quella tursitana: deve ricreare, nei limiti del possibile, il sapore dell’originale, deve assumersi il compito di avvicinare il lettore alla sua bellezza. Venendo al dunque, l’auspicio è che in futuro le poesie di pierro possano godere di buone traduzioni italiane moderne, fedeli, non libe-re, ma neppure costrette dalla corrispondenza parola per paro-

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la e verso a verso. come quelle, appunto, della santschi per il francese, della Farnsworth per l’inglese e di björkeson per lo svedese. sarebbe questo un caso in cui contravvenire alla vo-lontà dell’autore potrebbe rendere a lui un servizio migliore.

nel licenziare l’edizione sento il dovere di ringraziare quanti mi hanno sostenuto nella sua realizzazione. nel reperimento e la ripro-duzione del materiale documentario e bibliografico avrei avuto enor-mi difficoltà senza l’aiuto di giuliana zagra ed eleonora cardinale della biblioteca nazionale centrale « Vittorio emanuele ii » di ro-ma, di gabriella donnici del centro « archilet » del dipartimento di Filologia dell’università della calabria e di Filippo panzuto della bi-blioteca « angelo monteverdi » della sapienza di roma. mariagra-zia palumbo, che ha lavorato a una prima sistemazione dell’archivio pierro, mi ha invece introdotto alle carte del poeta. un grazie parti-colare devo anche esprimere a Francesco ottomano, presidente del centro studi « albino pierro », che con pazienza mi ha fatto per piú giorni da guida nel territorio di tursi ed è stato mio informatore per tanti aspetti della cultura tursitana. ma senza la sensibilità del presi-dente della regione basilicata Vito de Filippo quest’edizione non avrebbe mai visto la luce. la maggiore gratitudine va comunque a maria rita pierro che ha acconsentito con grande liberalità che si pubblicasse l’opera del padre. se infine mi è consentita una nota per-sonale, devo confessare che, da lucano, mi sento enormemente ono-rato di poter contribuire con questo lavoro alla migliore conoscenza e, mi auguro, anche al rilancio di un poeta che ha elevato un apparta-to paese della basilicata e il suo dialetto marginale a paesaggio e lin-gua universali.

Pasquale Stoppelli