Innovazione e sviluppo economico. Limiti e atipicità del modello italiano

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Corso di Laurea in Relazioni Internazionali e Studi Europei Tesi di Laurea in Storia Economica Innovazione e sviluppo economico. Limiti e atipicità del modello italiano Relatore: Prof. Luciano Renato Segreto Candidato: Lorenzo Tiberi Anno Accademico 2013/2014

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Corso di Laurea in Relazioni Internazionali e

Studi Europei

Tesi di Laurea in Storia Economica

Innovazione e sviluppo economico.

Limiti e atipicità del modello italiano

Relatore: Prof. Luciano Renato Segreto Candidato: Lorenzo Tiberi

Anno Accademico 2013/2014

2

INDICE

INTRODUZIONE ................................................................................................................ 4

CAPITOLO I

L’INNOVAZIONE NELLA TEORIA ECONOMICA ....................................................... 7

1 Progresso tecnico e innovazione nel pensiero economico ......................................... 7

1.1 I classici e il progresso tecnico ............................................................................ 8

1.2 Il pensiero Neoclassico e il progresso tecnico esogeno ..................................... 10

1.3 La Contabilità della Crescita ........................................................................... 12

1.4 Deviazioni dal pensiero Neoclassico ................................................................. 13

1.5 La flessibilità del filone Mainstream ................................................................ 15

2 Economia evolutiva dell'Innovazione ..................................................................... 16

2.1 Il pensiero di Schumpeter ................................................................................ 17

2.2 Approccio evolutivo .......................................................................................... 19

2.3 La teoria comportamentista ............................................................................. 20

3 Fondamenti di economia dell'innovazione ............................................................. 21

3.1 L’ambiente e gli agenti ..................................................................................... 22

3.2 Apprendimento e Routine ................................................................................ 23

3.3 La varietà nel sistema economico .................................................................... 25

3.4 La selezione ....................................................................................................... 26

3.5 La diffusione ..................................................................................................... 28

3.6 Path dependence ............................................................................................... 29

3.7 Le istituzioni ..................................................................................................... 30

3.8 Traiettorie, paradigmi e regimi tecnologici ..................................................... 31

3.9 Coevoluzione/Sistema di Innovazione .............................................................. 32

4 Innovazione: una possibile definizione ................................................................... 34

5 La complessità dell’innovazione ............................................................................. 36

CAPITOLO II

L'ITALIA DEL DOPOGUERRA: UNA STORIA INNOVATIVA DI SUCCESSO ......... 38

1 Dal dopoguerra agli anni Novanta .............................................................................. 39

1.1 La Guerra è finita ............................................................................................. 40

1.2 Età dell'Oro ...................................................................................................... 41

1.3 Il rallentamento dell’economia italiana ........................................................... 47

3

2 Il sistema d’innovazione italiano ............................................................................. 53

2.1 Arretratezza, cambiamento strutturale o innovazione? ................................. 53

2.2 Misurare l’innovazione .................................................................................... 56

2.3 L’attività di Ricerca e Sviluppo ....................................................................... 59

2.4 L’attività brevettuale ........................................................................................ 64

2.5 Acquistare tecnologia dall’estero ..................................................................... 69

2.6 L’importanza dei beni capitali ......................................................................... 72

2.7 Istruzione formale e apprendimento informale............................................... 75

2.8 Uno sguardo d’insieme ..................................................................................... 78

2.9 Uno sguardo alle prestazioni settoriali ............................................................ 81

3 Sistema innovativo o Sistemi innovativi? ............................................................... 86

CAPITOLO III

DA TANGENTOPOLI ALLA CRISI: IL VENTENNIO PERDUTO ITALIANO .......... 94

1 L’Italia e il mondo che cambia ................................................................................ 94

1.1 Crollo politico ed economico ............................................................................ 95

1.2 La terza rivoluzione industriale e la terziarizzazione dell’economia ........... 102

2 L’andamento dei sistemi innovativi italiani ......................................................... 105

2.1 L’innovazione diminuisce .............................................................................. 105

2.2 Ricerca e Sviluppo: un mancato decollo ........................................................ 107

2.3 L’attività brevettuale ...................................................................................... 110

2.4 Acquistare tecnologia all’estero ..................................................................... 115

2.5 Macchinari e investimenti .............................................................................. 118

2.6 Istruzione formale e apprendimento informale............................................. 120

2.7 Pochi cambiamenti nelle prestazioni settoriali .............................................. 123

2.8 Diffusione delle ICT e altri ostacoli all’innovazione ..................................... 126

2.9 Che innovazione fa? ....................................................................................... 128

3 Un declino inarrestabile? ...................................................................................... 131

CONCLUSIONI ............................................................................................................... 136

BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................. 143

4

INTRODUZIONE

Lo sviluppo economico di un paese dipende in maniera cruciale dalle innovazioni introdotte nel

suo sistema produttivo poiché, procurando un guadagno di produttività, la loro diffusione

aumenta la competitività e il tasso della crescita economica. Ai giorni nostri questa relazione è

ancora più evidente rispetto al passato visto che l’effetto delle innovazioni sulla vita di tutti i

giorni e sul sistema economico è divenuto maggiormente percepibile.

Per molto tempo è stato affermato che esclusivamente attraverso la presenza di determinati

fattori e l’espletamento di certe attività era possibile attivare il processo innovativo. Solamente

l’attività di Ricerca e Sviluppo, l’attività brevettuale, la partecipazione di elevato capitale

umano e la presenza di grandi imprese nei settori avanzati potevano essere le vie attraverso le

quali perseguire questo scopo.

In Italia però questi fattori, riconosciuti generalmente come favorevoli all’attività innovativa,

non hanno avuto un ruolo cruciale poiché la loro consistenza è stata nettamente inferiore rispetto

a quella dei paesi avanzati per tutto il periodo che va dal dopoguerra fino ai giorni nostri. A

dispetto di questo l’Italia dal dopoguerra all’inizio degli anni Settanta ha fatto registrare tassi di

crescita molto alti, superiori a quelli degli altri paesi avanzati; tale dinamica, nonostante un

rallentamento evidente, è continuata fino all’inizio degli anni Novanta.

Alla luce di queste considerazioni è evidente per quale motivo, in molti degli studi economici

che hanno cercato di spiegare le ragioni del periodo di eccezionale crescita economica italiana,

sia stato escluso il ruolo dell’innovazione. Però si è lasciato insoluto il problema di determinare

quale fattore utilizzare per assolvere a tale compito.

Molti elementi differenti sono stati usati per spiegare la crescita economica italiana ma non ne

è emerso uno riconosciuto come preponderante. Questa indeterminatezza sulle cause del

fenomeno e l’apparente inadeguatezza dell’Italia ad ottenere prestazioni economiche elevate ha

portato gli studiosi a coniare per l’Italia il parallelismo con il volo del calabrone: secondo gli

scienziati, considerate le sue caratteristiche, esso non potrebbe volare, ma non sapendolo, lo fa;

così l’Italia, secondo gli economisti, non poteva avere performance così straordinarie valutate

le sue caratteristiche, ma comunque l’ha fatto.

5

Queste considerazioni sono legittime nell’alveo dell’economia neoclassica, la quale ha per

lungo tempo escluso l’innovazione dall’analisi economica, e oggi la considera parte integrante

in alcuni modelli formali comunque sempre rappresentata da una sola variabile, sia essa la

Ricerca e Sviluppo, il capitale umano oppure l’accumulazione di capitale. Quindi la teoria

neoclassica rimane inadeguata per analizzare le dinamiche innovative, ancora di più quelle

italiane.

Negli ultimi decenni si sono sviluppati campi di ricerca che hanno considerato il processo

innovativo sotto una diversa luce, non più caratterizzato da uno sviluppo lineare ma

contrassegnato da una straordinaria complessità e discontinuità. Per essere pienamente

compreso esso necessita quindi dello studio di molte variabili che esulano anche dal campo

dell’economia, così come variabili istituzionali, sociali, culturali e l’influenza delle decisioni

passate.

Utilizzando questa nuova interpretazione dell’innovazione come processo complesso e

procedendo con lo studio di molteplici variabili, lo scopo di questo lavoro è dimostrare come il

ruolo dell’innovazione sia stato fondamentale nello sviluppo economico italiano dal dopoguerra

alla fine degli anni Ottanta. Ciò è avvenuto senza che le attività generalmente associate ad alti

livelli di innovazione abbiano avuto in Italia uno sviluppo paragonabile a quello degli altri paesi

avanzati. L’Italia ha saputo sopperire a questa mancanza con lo sviluppo di dinamiche

innovative atipiche che hanno consentito grossi guadagni di efficienza trainando la crescita

economica italiana.

Il secondo obiettivo del presente lavoro è quello di delineare le caratteristiche di queste

dinamiche alternative che hanno permesso al “calabrone” Italia di volare.

Il terzo obiettivo è invece inquadrare il ruolo dell’innovazione nel periodo di declino che l’Italia

sta vivendo dall’inizio degli anni Novanta ai giorni nostri, mostrando quali possono essere le

ragioni che hanno portato ad un affievolimento della dinamica innovativa. Inoltre si vuole

delineare quali siano le prospettive future per l’innovazione e per lo sviluppo economico

italiano considerato il loro inscindibile legame.

Il lavoro è strutturato come segue. Nel primo capitolo viene riassunto il ruolo che il progresso

tecnico e l’innovazione hanno avuto nella teoria economica a partire dai classici. Viene

analizzato il pensiero che più si è concentrato sul ruolo dell’innovazione negli ultimi anni,

ovvero l’approccio evolutivo all’economia dell’innovazione di cui vengono descritte le origini

e i concetti chiave. Nell’ultima parte viene delineata una definizione di innovazione prima di

6

chiudere il capitolo con alcune considerazioni metodologiche sul presente lavoro.

Nel secondo capitolo viene compiuta un’analisi storico-economica dell’andamento dell’Italia

nel periodo che va dal dopoguerra alla fine degli anni Ottanta, dando rilievo anche alle variabili

sociali, culturali e istituzionali. Viene proposta una misurazione dell’attività innovativa a partire

dalla contabilità della crescita e viene stimato il contributo che essa ha fornito nello sviluppo

economico italiano. Vengono poi analizzate una serie di statistiche legate all’attività innovativa:

le spese in Ricerca e Sviluppo, l’attività brevettuale, l’importazione di tecnologia incorporata,

la bilancia tecnologica dei pagamenti, il capitale umano, le esportazioni. Di tutte queste

statistiche sono esaminati gli andamenti italiani per farne il confronto con gli altri paesi avanzati

e, dove possibile, un raffronto anche tra i diversi settori produttivi. Infine vengono esposti gli

esiti di questa analisi e viene tracciata una relazione tra lo sviluppo economico italiano e le

dinamiche innovative, delle quali vengono descritte le caratteristiche e i tratti peculiari.

Nel terzo capitolo viene inizialmente proposta un’analisi analoga a quella presente nel secondo

per il periodo che va dal 1990 ai giorni nostri. Si passa dall’analisi storica alla misurazione

dell’innovazione fino ad arrivare all’esame degli stessi dati analizzati per il periodo precedente

usando gli stessi criteri. In seguito vengono esaminati i risultati e viene delineata la relazione

tra l’innovazione e l’andamento dell’economia italiana prestando particolare attenzione a come

i cambiamenti connessi alla globalizzazione e alla terza rivoluzione industriale hanno

influenzato lo sviluppo economico. Infine, attingendo dagli elementi presentati in questo lavoro,

una volta posizionata l’Italia nel contesto globale e schematizzati i risultati delle dinamiche

innovative, vengono tracciate le azioni da intraprendere affinché si possa sperare in una ripresa

delle dinamiche innovative e conseguentemente nel risveglio dello sviluppo economico.

7

CAPITOLO I – L’INNOVAZIONE NELLA TEORIA ECONOMICA

Nel corso del capitolo viene proposto un breve resoconto sulla prospettiva con cui è stata

considerata l'innovazione nella teoria economica nel corso del tempo; viene descritta con

maggiore enfasi la teoria evolutiva dell'innovazione che, tra tutte, è quella che ne delinea un

ruolo centrale nel sistema economico.

Successivamente viene tracciata una definizione della stessa innovazione, illustrando quale

teoria sembra più adatta ad interpretare il fenomeno innovativo e quali dati, concetti e

metodologie possono essere più idonei per analizzarlo. Ovviamente gli strumenti considerati

più adeguati in questo frangente, saranno quelli utilizzati nel proseguo della trattazione.

1 Progresso tecnico e innovazione nel pensiero economico

Nei paragrafi che seguono viene tracciato un quadro relativo a come, il progresso tecnico prima

e il cambiamento tecnologico dopo sono stati analizzati dalla teoria economica a partire da

Smith fino ai giorni nostri. Agli albori della teoria economica il progresso tecnico era inteso

prevalentemente come la meccanizzazione del processo produttivo, vale a dire l'introduzione

di macchinari che sostituivano il lavoro umano.

Successivamente all’evolversi della teoria, il progresso tecnico è stato inteso in maniera più

ampia come il processo di creazione ed acquisizione di nuove conoscenze e capacità, attraverso

le quali è possibile incrementare beni e servizi producibili nel sistema economico, modificando

le modalità di produzione e potenziando l’efficienza produttiva. All’interno del progresso

tecnico è compreso il concetto di innovazione che rappresenta il momento di introduzione nel

sistema produttivo della conoscenza prodotta o dell’invenzione realizzata1.

1 Treccani online, Dizionario di Economia e Finanza, 2012,

http://www.treccani.it/enciclopedia/innovazione_(Dizionario-di-Economia-e-Finanza)/.

8

L’uso del termine progresso tecnico viene gradualmente abbandonato poiché è inadatto a

descrivere la crescente complessità del sistema economico. Inoltre, le sempre maggiori critiche

da parte delle nuove teorie neo-schumpeteriane ed evolutive verso l’impianto di teorie

neoclassiche, le quali assumevano un ruolo marginale per il progresso tecnico, hanno favorito

la sostituzione di esso con il termine cambiamento tecnologico.

1.1 I classici e il progresso tecnico

Il pensiero economico classico è il primo che si può definire moderno poiché affonda le basi

della sua analisi in un’economia già capitalista ed in piena rivoluzione industriale.

Convenzionalmente si fa coincidere l'inizio del pensiero classico con Adam Smith che, assieme

a David Ricardo e Karl Marx, rappresentano i più illustri autori di tale filone. Il loro pensiero è

caratterizzato da una visione circolare del sistema economico, il quale ha la capacità di

autoriprodursi ed autoalimentarsi tramite i processi di produzione e consumo. La loro analisi si

concentra sulla formazione, distribuzione ed uso del "prodotto sociale" o reddito nazionale, che

viene distribuito tra proprietari terrieri, capitalisti e lavoratori (rispettivamente sotto forma di

rendite, profitti e salari)2. La formazione del sovrappiù, vale a dire il reddito nazionale decurtato

dalla parte di esso che serve per ripristinare le condizioni iniziali del processo produttivo, ed il

suo impiego sono considerati alla base della crescita economica. Il progresso tecnico in tale

struttura analitica è considerato unicamente il processo di meccanizzazione o incorporazione di

tecnologia nei beni capitali.

Smith definisce la "ricchezza delle nazioni" in termini affini a quello che noi oggi potremmo

chiamare PIL pro capite. Disaggregando tale misura, egli identifica due variabili da cui esso

dipende: la quota di popolazione impiegata nel lavoro e la produttività del lavoro. A sua volta

la produttività del lavoro dipende in maniera centrale dalla divisione del lavoro, la quale

produce nel sistema produttivo tre effetti molto importanti, come esemplificato nel celebre

riferimento alla fabbrica degli spilli. Per prima cosa, grazie alla divisione del lavoro, la capacità

del lavoratore aumenta poiché deve svolgere un compito più circoscritto; il secondo effetto

riguarda il risparmio di tempo che si ottiene nel non dover più passare da una mansione all'altra;

infine, il terzo effetto è quello di stimolare l'introduzione di progresso tecnico, dal momento

2 P. Fariselli, Economia dell’innovazione, Torino, Giappichelli Editore, 2014, pp. 9-12.

9

che è più facile realizzare macchine per svolgere una mansione semplice che per svolgere varie

mansioni complesse3. Comunque Smith considera la relazione tra progresso tecnico e divisione

del lavoro anche in maniera inversa. Difatti sia il progresso tecnico, che consente l'introduzione

di macchinari più efficienti, sia l'accumulazione di capitale, che è alla base degli investimenti

in capitale fisico, influenzano positivamente la divisione del lavoro. Conseguentemente essi

favoriscono l’incremento della produttività e consentono di realizzare rendimenti di scala

crescenti, favorendo così la crescita del sistema economico.

Si può quindi affermare che Smith considera il progresso tecnico come una variabile endogena

che favorisce la crescita economica, ciò nonostante il fatto che egli subordina il realizzarsi di

tutte le relazioni viste sopra alla crescita del mercato di sbocco, poiché senza tale espansione

verrebbe a mancare la domanda per i nuovi beni prodotti e, di conseguenza, sarebbe inutile

aumentare la capacità produttiva e promuovere la crescita. È proprio dal fatto che egli considera

lo sviluppo di nuovi mercati come prerequisito fondamentale per lo sviluppo della “Ricchezza

delle Nazioni”, che derivano le sue teorie liberiste sul commercio internazionale4.

Negli anni successivi, David Ricardo riprende l’analisi del progresso tecnico elaborandone due

visioni contrapposte. La prima, positiva, è legata al fatto che il progresso tecnico rappresenta

una spinta per la crescita economica, avendo la funzione di consentire il superamento di un forte

vincolo per lo sviluppo del sistema economico rappresentato dalla scarsità di terra e di risorse

naturali. Ciò avviene perché il progresso tecnico migliora l'efficienza dell’utilizzo di tali fattori,

contrastando in tal modo i rendimenti decrescenti intrinseci nelle risorse naturali e nella terra.

La seconda considerazione, di matrice negativa, compare nelle opere risalenti a pochi anni

prima della sua morte5. Ricardo abbandona la teoria della compensazione, che aveva sostenuto

fino ad allora in perfetta sintonia con Smith 6 . Egli afferma che il progresso tecnico,

comportando l'introduzione di nuovi macchinari sostitutivi del lavoro umano, ha l'effetto di far

diminuire i posti di lavoro, generando disoccupazione e danneggiando i lavoratori. Questo

3 A. Roncaglia, La ricchezza delle idee: storia del pensiero economico, Roma, GLF editori Laterza, 2003, pp. 139-

148. 4 Comunque è da considerare che Smith nelle sue opere non tratta in maniera centrale il progresso tecnico, ma lo

fa in via secondaria quando analizza la produttività e gli investimenti. Quindi, pur essendo importante, il

progresso tecnico non è alla base della sua analisi del sistema economico. 5 A. Roncaglia, La ricchezza delle idee, cit., pp. 218-221. 6 La teoria della compensazione afferma che gli effetti negativi sull'occupazione dovuti all'introduzione di nuove

macchine sono compensati da due fattori: dall'aumento di forza lavoro necessaria a produrre le nuove macchine

e dall'aumento della domanda conseguente dalla riduzione dei prezzi, dovuta anch'essa al cambiamento

tecnologico.

10

dibattito sulla disoccupazione causata dalla tecnologia è continuato nel tempo, ed ancora oggi

la discussione tra gli studiosi non è giunta ad una soluzione condivisa.

L’ultimo grande pensatore annoverato tra i classici è Karl Marx. Egli considera il progresso

tecnico come endogeno al sistema economico e dinamico, associandolo, come gli altri, alla

meccanizzazione del lavoro. Egli riconosce il ruolo positivo che svolge, assieme

all'accumulazione di capitale, nel processo di formazione della ricchezza ma, nonostante questo,

lo considera in maniera molto più negativa rispetto a Smith. Difatti il progresso tecnico nella

sua visione è un processo dialettico sociale che riflette i conflitti tra i vari gruppi sociali. Nel

caso specifico è visto come lo strumento con il quale i capitalisti contrastano i lavoratori e le

loro pretese salariali, poiché l'introduzione del progresso tecnico consentirebbe ai capitalisti,

tramite miglioramenti di efficienza e minore necessità del fattore lavoro, di realizzare maggiori

profitti e pagare meno lavoratori. Per questo, in sintonia con Ricardo, Marx ritiene il progresso

tecnico responsabile di una crescente disoccupazione tecnologica7.

Quindi i pensatori classici, nonostante non analizzino il progresso tecnico come elemento

centrale della loro teoria economica, ne riconoscono il suo carattere endogeno al sistema

economico e la sua correlazione positiva con la crescita. Con la rivoluzione marginalista e

l'affermarsi della teoria neoclassica queste considerazioni di endogeneità del progresso tecnico

e della sua correlazione positiva con la crescita saranno completamente stravolte. Solamente a

partire da Schumpeter esse torneranno al centro dell'analisi economica.

1.2 Il pensiero Neoclassico e il progresso tecnico esogeno

A partire dagli anni Settanta dell'Ottocento la scienza economica subisce una profonda

trasformazione susseguente la rivoluzione marginalista. La visione dei classici di un sistema

economico circolare che si autoalimenta viene abbandonata, sostituita da una visione che si

concentra sull'allocazione efficiente di risorse scarse e che utilizza come concetti fondanti

quello di equilibrio statico e quello analitico di utilità marginale8.

Progressivamente si assiste ad una profonda trasformazione della scienza economica, la quale

7 A. Roncaglia, La ricchezza delle idee, cit., pp. 271-276. 8 Ivi, pp. 296-300; I promotori di tale rivoluzione sono identificati in Menger, Jevons e Walras, questo nonostante

il fatto che le loro opere e le loro analisi siano abbastanza differenti. Ma essi costruiscono molti dei concetti

analitici che saranno alla base del filone neoclassico.

11

abbandona le sue origini derivanti dalla filosofia morale ed assume il carattere di scienza

formalizzata, sul modello della fisica e della matematica. Si iniziano a misurare empiricamente

i fenomeni dell'economia, costruendo modelli matematici con il compito di spiegare quali sono

le variabili rilevanti del sistema economico; comunque da tale analisi viene completamente

trascurata ogni possibile influenza del contesto sociale.9

Dalla rivoluzione marginalista si è sviluppato il filone neoclassico che, in breve tempo, è

diventato maggioritario tra gli accademici e, soprattutto dal secondo dopoguerra, ha

monopolizzato la disciplina economica. Esso si basa su assunzioni restrittive della realtà che

consentono di modellizzare analiticamente l'economia, considerando solamente poche variabili

come importanti e necessarie per spiegare il funzionamento del sistema.

Il prodotto, l'output del sistema economico, viene ora definito dalla funzione di produzione, che

utilizza due soli fattori, il lavoro (L) e il capitale (K), con una produttività marginale positiva e

decrescente. La trasformazione di tali fattori in output avviene dunque per mezzo della funzione

di produzione all’interno della quale opera la tecnologia, la quale è prodotta al di fuori del

sistema economico ma è perfettamente conoscibile e accessibile da parte delle imprese10. Viene

assunto che gli agenti economici, in questo caso le imprese, abbiano perfetta informazione sulle

tecnologie esistenti e sul loro rendimento futuro. Per questa ragione esse riescono sempre a

compiere la scelta ottimale, adottando quella tecnologia che consente loro di avere più output a

parità di input11.

Quindi il produttore, ma le stesse considerazioni valgono anche per il consumatore, agisce in

maniera perfettamente razionale, poiché ha in ogni momento a disposizione una perfetta

informazione che gli consente di realizzare sempre la scelta ottimale. Il fenomeno collettivo

della produzione e del consumo è rappresentato semplicemente dalla sommatoria di tutti i

comportamenti degli agenti, che però sono considerati identici. Quindi dal comportamento di

un singolo agente razionale, che ha il solo scopo di massimizzare il profitto, o nel caso del

consumatore l'utilità, si può desumere il comportamento di tutto il sistema economico12.

9 P. Fariselli, Economia dell’innovazione, cit., pp.12-14. 10 Questa visione è facilmente criticabile poiché la funzione di produzione rappresenterebbe quindi una sorta di

scatola nera dove non si sa come la tecnologia si combina con gli altri fattori. Inoltre la tecnologia entra nel

sistema economico come fosse una “manna dal cielo” che da un giorno all'altro è disponibile per tutti. Si capisce

come davanti alla grande ripresa dell'attività innovativa avutasi con le tecnologie della comunicazione tale

visione non era più facilmente sostenibile. 11 P. Fariselli, Economia dell’innovazione, cit., pp. 13-14. 12 Questo rappresenta il cosiddetto individualismo metodologico, che costituisce una delle assunzioni più criticate

della visione neoclassica dell’economia, poiché non riesce a descrivere la situazione che si osserva tutti i giorni

12

Perciò nell’analisi neoclassica il progresso tecnico non è il risultato di un azione ponderata

dell'agente economico ma proviene dall'esterno, tramite flussi informativi perfettamente

conoscibili da tutti gli agenti. Essendo esogeno al sistema economico e non potendo scaturire

da comportamenti volontari degli agenti, il progresso tecnico non rientra più nel dominio della

scienza economica, che infatti ne abbandona l’analisi riservandola ad altri campi della scienza.

1.3 La Contabilità della Crescita

La contabilità della crescita (Growth Accounting) si è sviluppata a partire dal lavoro di Robert

Solow che ha elaborato un modello per indagare il rapporto causale tra progresso tecnico e

crescita economica13 . Allo stesso modo dei neoclassici egli considera il progresso tecnico

esogeno al sistema economico, ma variabile in funzione del tempo (comunque indipendente dai

fattori lavoro e capitale). Questa assunzione serve per consentirne una misurazione, difatti

Solow considera il progresso tecnico alla stregua di un fattore che ha sulla funzione di

produzione lo stesso effetto di un aumento di capitale o di lavoro, senza che però questo

modifichi il loro saggio marginale di sostituzione. Solow ammette che il progresso tecnico

modifichi gli isoquanti verso l'origine degli assi, vale a dire che, grazie al progresso tecnico, a

parità di input si può produrre più output, ma asserisce la sua completa neutralità e rendimenti

di scala costanti14.

Partendo da questo modello, si è arrivati ad una metodologia che consente di misurare il

progresso tecnico in maniera residuale. Visto che non si riusciva a trovare una corrispondenza

tra l'incremento dei fattori capitale e lavoro e la crescita economica effettivamente registrata, si

è considerato lo scarto tra queste misure, che poi risulta la parte più grande, attribuibile al

progresso tecnico. Difatti, già con Solow, i risultati empirici sulla crescita americana indicavano

che l'aumento dei fattori lavoro e capitale era responsabile di solo un ottavo della crescita,

mentre i restanti sette ottavi rimanevano non spiegati15.

Tale scarto tra incremento dei fattori e incremento dell'output viene ribattezzato Total Factor

nel mondo reale, dove l’eterogeneità degli attori è facilmente percepibile.

13 R. Solow, Technical Change and the Aggregate Production Function, in The Review of Economics and Statistics,

Vol. 39 no. 3, 1957, pp. 312-320. 14 Si assume che il progresso tecnico modifichi nella stessa misura la produttività marginale del fattore lavoro e

del fattore capitale. 15 R. Solow, Technical Change and the Aggregate Production Function, cit., p. 320.

13

Productivity (TFP). La TFP oppure la misura della nostra ignoranza, come la definiva

Abramovitz16, viene considerata dagli studiosi di contabilità della crescita per la maggior parte

identificabile come l’effetto che il progresso tecnico esercita sul sistema economico.

Avendo osservato che nelle successive misurazioni l'ampiezza della nostra ignoranza, ovvero

la TFP, continuava ad essere la parte preponderante, gli studi di contabilità della crescita hanno

cercato di raffinarsi allo scopo di diminuire l’ampiezza del residuo. Hanno fatto ciò

introducendo nella loro analisi differenziazioni qualitative dei fattori come, ad esempio,

differenti livelli di qualità dei lavoratori dovuti a diverse dotazioni di capitale umano, o

introducendo nell'analisi altre variabili che possono migliorare la produttività a parità di capitale

e lavoro. Recentemente le due variabili che con più assiduità sono state inserite in tale analisi

sono gli investimenti in R&S e ICT. Nonostante questi raffinamenti, la parte residuale non

spiegata della crescita rimane elevata, facendo pensare che il ruolo del progresso tecnico sia

effettivamente cruciale.

1.4 Deviazioni dal pensiero Neoclassico

Considerata l'ampiezza dell'effetto del progresso tecnico sullo sviluppo economico rilevata

dalla contabilità della crescita, all'interno degli stessi neoclassici sono stati compiuti numerosi

tentativi di ricondurre il progresso tecnico all'interno dell’analisi economica. Rendendolo

endogeno o quantomeno dipendente da fattori interni al sistema economico, si è cercato di

accordare maggiormente la teoria con il mondo reale.

Tra questi tentativi, Arrow sviluppa una teoria secondo la quale la conoscenza e i processi di

apprendimento rappresentano fattori endogeni di sviluppo 17 . Egli assume che l'invenzione

tecnica sia identificabile come produzione di conoscenza, che però non rappresenta un normale

bene economico, date le sue caratteristiche di appropriabilità, indivisibilità e incertezza.

Date queste caratteristiche intrinseche alla conoscenza, è impossibile creare un mercato dove

possa essere scambiata secondo le leggi dell’offerta e della domanda. Conseguentemente, per

16 M. Abramovitz, Resource and Output Trends in the United States Since 1870, in American Economic Review

Vol. 46, no.1, 1956, pp. 11-12. 17 K. Arrow, Economic welfare and the allocation of resources for invention in R.R. Nelson (a cura di), The Rate

and Direction of the Inventive Activity: Economic and Social Factors, Princeton, Princeton University Press,

1962, pp. 609-629.

14

raggiungere un livello di Ricerca e Sviluppo (R&S) che produca conoscenza in quantità

ottimale per il sistema economico, è necessario che tale attività sia finanziata pubblicamente.

Un altro apporto di Arrrow, che deriva dalle caratteristiche della conoscenza, è la costruzione,

basata sul modello neoclassico, di una teoria dello sviluppo endogeno basato sul learning by

doing. Egli afferma che si hanno aumenti di produttività anche in assenza di investimenti in

nuove tecnologie ed a parità di lavoro, poiché con il tempo si acquisisce maggiore destrezza e

conoscenza delle tecnologie/macchinari precedentemente acquistati, con il risultato di un

miglioramento dell'efficienza produttiva. Secondo Arrow l'esperienza cresce in funzione del

capitale fisso accumulato, che quindi risulta il fattore causale capace di spiegare il livello di

sviluppo economico. L’analisi di Arrow risulta importante poiché rappresenta la prima

trattazione sistematica sul ruolo e sulle caratteristiche della conoscenza.

Sempre all'interno dei neoclassici, da metà anni Ottanta, si è cercato di spiegare la crescita

economica come il risultato di processi interni e deliberati al sistema produttivo. A partire da

Lucas e Romer sono stati costruiti i primi modelli di crescita endogena che spiegano lo sviluppo

economico come il risultato del livello di accumulazione del capitale umano raggiunto18. In

accordo con questa teoria, tutti gli Stati avrebbero le stesse possibilità di sviluppo che

dipendono in via esclusiva dal livello di investimenti in capitale umano.

Esterno al filone neoclassico è il lavoro di Kaldor, il quale ritiene la struttura delle irrealistiche

assunzioni di base postulate dai neoclassici stessi come il maggiore ostacolo che si frappone

all'obiettivo di far diventare l'economia una scienza19. Kaldor deve la sua fama alla sua critica

verso il concetto di equilibrio aggregato e verso le assunzioni troppo restrittive dei neoclassici.

Ma, oltre a questo, egli ha avuto un ruolo importante nell'ipotizzare che il progresso tecnico sia

in parte endogeno. Infatti, considerando il fatto che esso è incorporato nei beni capitali, risulta

che il suo livello è deliberatamente aumentabile tramite investimenti; in questa visione

l’aumento della domanda agisce da importante fattore di stimolo.

18 R. E. Lucas Jr., On the mechanics of economic development, in Journal of Monetary Economics, Vol. 22, no. 1,

1988, pp. 3-42; P. M. Romer, Endogenous technological change, in Journal of Political Economy, Vol. 98, no.

5, 1990, pp. S71-S102. 19 N. Kaldor, The irrelevance of equilibrium economics, in The Economic Journal, Vol. 82, no. 328, 1972, p. 1237.

15

1.5 La flessibilità del filone Mainstream

Samuelson definisce come filone mainstream il complesso di teorie economiche che viene

riconosciuto preponderante nell'insegnamento universitario e nell’ambito accademico in un

dato momento. Egli riconosce la sintesi neoclassica-keynesiana come quella preponderante20.

Allo stato attuale sembrerebbe invece che il filone mainstream abbia deviato dall'approccio

neoclassico, incorporando nella sua analisi alcune variabili istituzionali e dell'innovazione, così

da rendere la loro modellizzazione più aderente alla realtà. Nonostante questa apertura, gli

appartenenti a tale filone rimangono sempre troppo legati a formalizzazioni matematiche di una

certa rigidità.

Ad oggi non è facile tracciare un netto confine per definire chi è mainstream e quali siano

effettivamente le basi teoriche su cui concordano gli appartenenti a tale filone. Difatti il dibattito

sull'effettiva differenziazione dei mainstream con i neoclassici è ancora aperto. La risposta da

dare è positiva considerato l'ecletticismo d'analisi dei mainstream e l’uso di un corpo di

metodologie modellistiche flessibile, anche se il rigore formale continua a prevalere sulla

significatività delle investigazioni21.

Se l’eclettismo e la flessibilità prevarranno sulla formalizzazione, facendo aprire il filone

mainstream verso nuovi campi di ricerca, allora sarà possibile per esso unire gli sforzi con

alcune teorie eterodosse sviluppatesi negli ultimi anni a partire dalle critiche al modello

neoclassico o da spunti dati da altre scienze sociali o matematiche22. Da questa unione potrebbe

nascere il nuovo paradigma dominante della scienza economica23.

Comunque allo stato attuale, nonostante alcuni miglioramenti e i possibili sviluppi futuri, il

20 P.A. Samuelson, Economia, Bologna, Zanichelli, 1983, pp. 753-757. 21 J.B. Davis, The turn in economics: neoclassical dominance to mainstream pluralism?, in Journal of Institutional

Economics, Vol. 2, no.1, 2006, pp. 1-20. 22 J.B. Davis, The turn in economics, cit., pp. 17-18; B. Maurseth, Recent Advances in Growth Theory. A

Comparison of Neoclassical and Evolutionary Perspectives, Working Paper no. 615, Norwegian Institute of

International Affairs, 2001, pp. 19-25. Per Davis questo è quello che accadrà; ma è da notare come per altri, come Maurseth, tale possibilità è da escludere fermamente poiché approccio neoclassico ed evoluzionista non

solo non rappresentano paradigmi differenti nel senso di Kuhn, ma neanche programmi di ricerca in

competizione tra loro nel senso di Lakhatos. Quindi sarebbero solo due rami dello stesso filone di ricerca. 23 D. Colander, The death of neoclassical economics, in Journal of the History of Economic Thought, Vol. 22, no.

2, 2000, pp. 140-142; J.B. Davis, The turn in economics, cit., pp. 17-18; Molti prevedono un soppiantamento

della teoria neoclassica dominante a favore di un approccio pluralista mainstream, che sarà contraddistinto da

una pluralità di approcci interconnessi, i quali potrebbero trovare una sintesi comune che porterà verso un

nuovo paradigma nella scienza economica oppure uno di tali approcci potrebbe risultare dominante sugli altri

e rappresentare esso stesso la base verso un nuovo paradigma della scienza economica.

16

filone mainstream continua a non essere idoneo a svolgere un’analisi accurata del processo

innovativo, essendo ancora troppo legato a modelli formali di origine neoclassica e ad

assunzioni troppo restrittive che non consentono di analizzare la complessità della realtà.

2 Economia evolutiva dell'Innovazione

Tra gli approcci economici che hanno tratto ispirazione da altre scienze sociali e da altri autori

esterni ai neoclassici, quello che prende in maggiore considerazione il processo innovativo è

sicuramente l'approccio evolutivo all'economia dell'innovazione. Difatti esso pone

l'innovazione e le sue determinanti al centro della sua analisi sullo sviluppo del sistema

economico. Tale approccio ha cominciato a formarsi agli albori dello sviluppo delle tecnologie

della comunicazione e dell’informazione, per merito della loro pervasività nell'economia si è

tornati a considerare il fenomeno innovativo sotto una diversa luce. Infatti adesso non solo si

ritiene l’innovazione come fattore endogeno al sistema economico, ma addirittura la si usa quale

elemento centrale per spiegare l'andamento della crescita economica.

Il lavoro di Richard R. Nelson e Sidney G. Winter del 1982 “An Evolutionary Theory of

Economic change” può essere considerato l'atto fondante di tale approccio, anche se molte

considerazioni o studi verso questa struttura interpretativa erano già stati fatti. L’approccio

evoluzionista all'economia dell'innovazione considera Schumpeter come padre fondatore,

riconoscendo come fondamentali anche altri contributi provenienti dalle scienze sociali, quali

il pensiero evolutivo della biologia e le teorie comportamentiste di Simon.

Nei successivi paragrafi vengono analizzati gli spunti che l’opera schumpeteriana, la biologia

e le teorie comportamentiste hanno fornito all'analisi dell'innovazione, in seguito vengono

delineate le basi dell'approccio evolutivo all'economia dell'innovazione.

17

2.1 Il pensiero di Schumpeter

Schumpeter può essere considerato l'autore della più sistematica analisi dell'innovazione

precedente alla fondazione dell'economia dell'innovazione, la quale lo ritiene a buon diritto il

proprio antenato più illustre. Schumpeter abbandona la visione neoclassica del progresso

tecnico esogeno al sistema economico. Infatti, le invenzioni e il cambiamento tecnologico

vengono prodotte all'esterno del sistema economico, ma sono portate al suo interno grazie

all'innovazione introdotta dall'imprenditore spinto dalla volontà di sopravvivere nella

competizione di mercato ed ottenere extra profitti.

L'equilibrio stazionario walrasiano è solo il punto di partenza dell'analisi schumpeteriana,

poiché una volta introdotta l'innovazione tecnologica il sistema capitalistico si trova in

condizioni di disequilibrio, dato che l'innovatore riesce ad ottenere extra profitti. Tali extra

profitti scompaiono con il passare del tempo grazie alla diffusione graduale dell'innovazione,

però la società continua a godere del benessere aggiuntivo derivante dall'innovazione, visto che

la maggiore efficienza del sistema economico, ottenuta grazie all'introduzione di essa, permane.

Grazie alla diffusione dell’innovazione ed ai meccanismi competitivi, il sistema tenderà

nuovamente a stabilizzarsi, fino a quando non sarà introdotta una nuova innovazione. Il sistema

economico si sviluppa quindi “saltando” da un disequilibrio all'altro, modificandosi

qualitativamente. Questo meccanismo, che è il motore di sviluppo della crescita e del

capitalismo, è identificato come distruzione creatrice: distruzione di ricchezza esistente, anche

nel senso di prodotti e processi, per creare nuova ricchezza o nuovi prodotti e processi più

efficienti.

Questa analisi del sistema economico rappresenta la prima fase del pensiero schumpeteriano,

dove la concorrenza perfetta è la condizione base per il dispiegarsi della distruzione creatrice,

visto che è proprio il meccanismo concorrenziale che consente al potere monopolistico

temporaneo dell'impresa innovatrice di essere riassorbito grazie alla diffusione

dell'innovazione24. L'altra condizione ottimale per il dispiegarsi del fenomeno innovativo è la

presenza sul mercato di molte imprese, con un ampio processo di ingresso da parte di imprese

24 La prima fase del suo pensiero coincide con il pensiero contenuto nel libro Teoria dello Sviluppo Economico

del 1912; la seconda fase può dirsi perfettamente descritta nella sua opera Capitalismo, Socialismo e

Democrazia del 1942.

18

innovative e di uscita da parte di impresi inefficienti25.

Nella seconda fase del suo pensiero Schumpeter rovescia questa visione, ritenendo che sia il

monopolio la forma di mercato più indicata per il processo innovativo. Tale affermazione è

basata sul fatto che solo le grandi imprese possiedono le risorse necessarie per effettuare gli

ingenti investimenti in R&S e in nuovi impianti allo scopo di sviluppare la tecnologia e le

invenzioni, le quali porteranno all'introduzione di innovazioni ed al loro sviluppo26.

Schumpeter matura questo cambiamento nel suo pensiero anche per il fatto che ha la possibilità

di osservare dall’interno, nel corso della sua vita, due sistemi economici differenti. Per la prima

fase egli aveva tratto le sue conclusioni dalle osservazioni sull'economia inglese, mentre la

seconda fase è figlia del suo trasferimento in USA, dove le grandi imprese governavano il

mercato. Comunque c’è complementarietà tra le due fasi descritte: esse potrebbero essere

considerate come diverse fasi dello sviluppo di un’industria27.

Schumpeter, rifacendosi alle teorie dei cicli economici, suppone che essi esistano effettivamente

all’interno del sistema economico e siano originati dalla discontinuità prodotta dalle

innovazioni tecnologiche. Egli suppone che esista un modello ad onda in grado di spiegare sia

l’introduzione delle innovazioni che la crescita.

Un’altra considerazione di Schumpeter, ritenuta valida dall’Economia dell’Innovazione,

riguarda la metodologia di ricerca, difatti egli è fautore di un liberalismo metodologico che

consenta di adattare le ipotesi del metodo a seconda degli scopi, in modo da ottenere una certa

flessibilità, poiché egli nega assolutamente che possano esistere leggi esatte in economia28 .

Inoltre Schumpeter è fra i primi a proporre una classificazione delle innovazioni secondo la loro

tipologia distinguendole tra innovazioni di prodotto, di processo, organizzative, di fonti di

approvvigionamento o di mercati. Tale classificazione è ritenuta sempre valida ed è usata come

base per numerose altre definizioni.

Dal suo lavoro emerge chiaramente che la dinamica innovativa rappresenta un elemento

centrale ed irrinunciabile per condurre un’analisi del sistema economico.

25 J.A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Milano, Firenze, Sansoni, 1971, (edizione originale 1912),

pp. 255-298. 26 J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, ETAS, 2001, (edizione originale 1942), pp.

87-105. 27 R.R Nelson, S.G.Winter, Evolutionary theorizing in economics, in The Journal of Economic Perspectives, Vol.

16, no. 2, 2002, pp. 33-37. 28 A. Roncaglia, La ricchezza delle idee, cit., pp. 462-464.

19

2.2 Approccio evolutivo

È alla fine degli anni Settanta che si va a delineare un approccio evolutivo del cambiamento

tecnologico soprattutto grazie al lavoro di vari studiosi come Nelson, Winter, Dosi, Metcalfe,

Malerba, Saviotti.

L'approccio evolutivo all'economia trae spunto dal suo omonimo in biologia, sviluppato a

partire dal lavoro di Darwin. L'affinità risulta con maggiore chiarezza quando si va a

considerare la visione base del funzionamento del sistema economico utilizzata nell'analisi

degli evoluzionisti economici: la diversità con cui l'innovazione incide sui diversi componenti

eterogenei di una popolazione e ne decreta la sopravvivenza o l'estinzione.

Secondo Dosi sia in biologia che nelle scienze sociali si possono delineare tre principi generali

comuni concernenti il concetto di evoluzione. Il primo è l'eterogeneità e la selezione

nell'ambiente/sistema che si vuole analizzare. Infatti, in entrambe le discipline, si suppone che

siano presenti numerose entità eterogenee, con caratteristiche differenti, che interagiscono tra

loro tramite svariati meccanismi. Questi meccanismi e le caratteristiche peculiari di ogni entità

determinano coloro che all’interno del sistema hanno più possibilità di sopravvivere e riprodursi.

A livello economico il primo meccanismo di interazione identificabile, ma che al contempo è

anche un meccanismo di selezione, è il mercato. Esso influenza le opportunità ed i vincoli alla

crescita, alla profittabilità e alla probabilità di sopravvivere delle imprese. Tale meccanismo di

selezione, contrariamente alle concezioni darwiniane, non ha il risultato di far sopravvivere il

migliore, ma colui che sa adattarsi meglio o sa sfruttare meglio determinate caratteristiche o

situazioni. Lo stesso principio vale anche nella moderna biologia, dove la nozione di migliore

e di peggiore sono contingenti agli specifici meccanismi di selezione, alla loro storia e alla

distribuzione delle caratteristiche degli agenti29.

Il secondo concetto comune riguarda il fatto che i sistemi in continua evoluzione incorporano

meccanismi che inducono l'emergere continuo di novità. Nel sistema economico questo è

rappresentato dalla persistente ed incessante introduzione di innovazioni, mentre in biologia

questo riguarda l'emergere continuo di mutazioni a livello genetico, con conseguenti

cambiamenti a livello delle caratteristiche osservabili e a livello di popolazioni che

29 G. Dosi, L'interpretazione evolutiva delle dinamiche socio economiche, LEM Working Paper Series, Laboratory

of Economics and Management Sant’Anna School of Advanced Studies, 2004, pp. 2-13.

20

interagiscono tra loro. In socio economia invece le mutazioni avvengono a livello tecnologico,

organizzativo ed istituzionale.

L'ultimo concetto comune riguarda la metodologia e il fatto che entrambi rifiutano

interpretazioni di tipo panglossiano30, vale a dire accettare il fatto che se qualcosa esiste allora

esso è ottimo, oppure di tipo finalistico, che fanno derivare il motivo dell'esistenza di un

soggetto dalla funzione che esso svolge. Al contrario gli evoluzionisti, sia in biologia che in

economia, prediligono spiegazioni incentrate sulla dinamica del tempo che ha condotto

all'emergere di un fenomeno particolare o di una particolare entità. Da queste considerazioni

risulta che l'evoluzionismo in campo socio economico è altamente complementare ad

interpretazioni che enfatizzano il ruolo della storia e la dipendenza dal sentiero31.

2.3 La teoria comportamentista

La teoria comportamentista nasce a partire dagli studi di Herbert Simon sul comportamento

delle organizzazioni, che gli sono valsi il premio Nobel per l'economia nel 1978.

In contrapposizione alle affermazioni neoclassiche l'impresa viene considerata come un

complesso di individui e centri di potere interagenti, vale a dire come un'organizzazione che

risulta necessaria poiché l'impresa opera in condizioni di incertezza e complessità informativa.

L'impresa non può essere considerata come entità individuale che opera in condizioni di

informazione perfetta, ma deve essere esaminata come un sistema organizzativo con diversi

centri di potere che è necessario coordinare e controllare. Come nella visione evoluzionistica il

fine di un’impresa è rappresentato dalla sua sopravvivenza, che viene garantita dal

conseguimento di un profitto sufficiente allo scopo; questa concezione è notevolmente diversa

da quella neoclassica, dove l'impresa massimizza il profitto in ogni dato momento.

Per poter conseguire quella razionalità perfetta postulata dai neoclassici l'impresa, nel suo

processo decisionale, dovrebbe essere in grado di svolgere tre azioni. Per prima cosa dovrebbe

essere in grado di poter identificare tutte le possibili alternative riguardanti ogni singola

decisione da prendere. Successivamente dovrebbe poter determinare tutte le conseguenze, ed i

relativi rendimenti, di ogni eventuale alternativa. Alla fine dovrebbe riuscire a comparare tutte

30 Da Pangloss, il personaggio leibniziano del Candide di Voltaire che sosteneva di vivere nei «migliore dei mondi

possibili. 31 G. Dosi, L'interpretazione evolutiva delle dinamiche socio economiche, cit., pp. 2-13.

21

le possibili alternative riuscendo a scegliere quella che le consenta di massimizzare il profitto.

Secondo i comportamentisti, in accordo con l'evidenza empirica, l'impresa non è in grado di

svolgere tutti questi compiti alla perfezione, visto che incontra dei limiti di natura conoscitiva

dovuti al fatto che essa agisce in un ambiente caratterizzato da informazione imperfetta e

incertezza. Inoltre l'impresa ha evidenti limiti computazionali poiché, anche se avesse tutte le

informazioni, non sarebbe in grado di elaborarle e determinare tutte le conseguenze ed i

rendimenti di ogni possibile azione alternativa.

Quindi l'impresa, operando in un ambiente dove regna l'incertezza e che muta incessantemente,

e date le sue limitate capacità computazionali, agisce sulla base di una razionalità limitata o

procedurale: essa prende decisioni tramite regole di comportamento coerenti con l'esperienza

passata. Tramite tentativi e sulla base delle reazioni dell'ambiente e del sistema interno

all'impresa si cerca di elaborare una decisione che faccia ottenere dei risultati soddisfacenti. Si

vengono così a costituire le routine dell'impresa che servono a prendere decisioni accettabili in

un ambiente dominato dall’incertezza. Quindi la razionalità dell'impresa permette di avere

risultati soddisfacenti per la sopravvivenza, non ottimizzanti.

3 Fondamenti di economia dell'innovazione

La scuola evolutiva, nonostante conservi alcune somiglianze con il filone mainstream, se ne

distanzia fortemente, soprattutto per l'avversione verso i modelli formali seppur allargati a

variabili non di mercato. Per gli evoluzionisti è difficile rinunciare alla ricchezza qualitativa ed

alla specificità dei fenomeni relativi al cambiamento tecnologico. Infatti essi abbandonano i

modelli formalizzati con rigide assunzioni e si affidano all'analisi storica, ai casi studio e a

modelli che si basano su di un’analisi non statica. Le dinamiche economiche, sociali, storiche,

organizzative, culturali e cognitive dell'innovazione, intesa come un processo per mezzo del

quale si vuole realizzare profitto in condizioni di incertezza e di razionalità limitata, diventano

quindi centrali nell'analisi dell'innovazione. La massimizzazione del profitto è qui vista come

una meta a cui tendere in un processo dinamico, non una condizione statica che vale in ogni

momento. Molto importanti sono i processi di selezione, diffusione e l'instabilità32.

Traendo linfa dai tre pensieri descritti nei paragrafi precedenti si è sviluppato l'approccio

32 P. Fariselli, Economia dell’innovazione, cit., pp. 38-40.

22

evolutivo all'economia dell'innovazione. L'obiettivo di questo filone teorico è quello di

analizzare la relazione tra il cambiamento tecnologico e il cambiamento economico, sia a livello

microeconomico che a livello macroeconomico. L'innovazione risulta l'elemento chiave per

comprendere come il cambiamento tecnologico agisce sul sistema economico, poiché è con

essa che il cambiamento tecnologico viene introdotto nel sistema economico. Fatte queste

considerazioni è facile desumere come per tali studiosi l'innovazione risulta non solo come

endogena nell’analisi economica, ma è anche il fattore determinante per spiegare l’andamento

della crescita del sistema economico.

Nel seguito della trattazione verranno analizzati i concetti consolidati alla base dell'economia

dell'innovazione, in modo da renderne più chiara la struttura e le finalità.

3.1 L’ambiente e gli agenti

L'approccio evolutivo vuole avere una visione degli agenti e dell'ambiente in cui essi operano

il più possibile aderente alla realtà. Per conseguire tale fine considera gli agenti, in questo caso

le imprese, come eterogenee e dotate ognuna di proprie peculiarità, come possono essere diversi

i livelli di efficienza, di competenza e di conoscenza.

Viene abbandonata la perfetta razionalità postulata dai neoclassici che dona agli agenti/imprese

il potere di prevedere gli esiti futuri di tutte le azioni intraprendibili, rendendo

conseguentemente possibile realizzare sempre la scelta ottimale, ovvero quella che fa ottenere

il profitto maggiore33. Sempre in contrapposizione con i neoclassici, si nega che le imprese

dispongano di informazioni complete ed accessibili rispetto alle tecnologie esistenti e ai loro

rendimenti. Al contrario, il processo di acquisizione di tali informazioni è fortemente

dispendioso in termini di tempo, denaro e risorse. Come conseguenza le imprese si trovano ad

affrontare un’elevata incertezza sia sulle tecnologie presenti sia sugli sviluppi futuri.

Sulla scia dei comportamentisti la razionalità viene considerata limitata/procedurale. Il

comportamento degli agenti/imprese non deriva più da un calcolo razionale perfetto, ma bensì

deriva da schemi comportamentali a media-alta invarianza che prendono la forma di routine.

Esse sono plasmate dalla specifica storia passata di ciascun impresa, dalle sue conoscenze

accumulate, dai suoi valori e dalle sue credenze. Essendo tali schemi comportamentali specifici

33 R.R Nelson, S.G.Winter, Evolutionary theorizing in economics, cit., pp. 29-32.

23

per ogni agente, le decisioni e la loro ottimizzazione parziale saranno diverse per ogni impresa

e, quindi, anche la performance prodotta sul mercato sarà molto differente34. Queste assunzioni

sono evidentemente molto coerenti con quello che si può osservare empiricamente nel sistema

economico: la presenza di imprese molto diverse tra loro che non hanno la possibilità di

accedere a tutte le informazioni e presentano grossi limiti nell'elaborazione delle decisioni.

Come conseguenza si avrà una netta differenziazione delle performance delle imprese, con il

fallimento di alcune e la loro susseguente uscita dal mercato.

3.2 Apprendimento e Routine

Le imprese accumulano conoscenza e informazioni che vengono utilizzate per supportare il loro

processo decisionale. Questo avviene tramite un processo di apprendimento (learning)

collettivo dell'impresa, sia per mezzo di ognuno dei propri membri sia in quanto organizzazione.

L'apprendimento e la conoscenza influenzano in modo fondamentale il comportamento

dell'impresa poiché costituiscono la base per la formazione delle routine, che sono risposte

predeterminate a determinati stimoli o situazioni utilizzate dall'impresa per superare l'incertezza

ambientale ed i propri limiti computazionali.

Tramite i meccanismi di apprendimento le imprese sono capaci di incorporare il cambiamento

tecnologico proveniente dall'esterno e trasformarlo in innovazioni oppure, grazie alla

conoscenza acquisita, sono capaci esse stesse di generare internamente cambiamento

tecnologico e trasformarlo susseguentemente in un’innovazione. Di conseguenza in questo

approccio teorico l'innovazione risulta senza ombra di dubbio endogena, prodotta dagli agenti

del sistema economico.

La base di conoscenza dell'impresa si forma tramite il raggruppamento e la cernita della

conoscenza dei singoli membri di un’organizzazione, processo che per mezzo dell’utilizzo di

codici di comunicazione e meccanismi di accumulazione e apprendimento. Tale base di

conoscenza, assieme all'accumulazione nel tempo di esperienza nella risoluzione di problemi e

ai valori che l'impresa sviluppa, vanno a costituire le routine organizzative: risposte inerziali

34 Ottimizzazione che si può anche definire soggettivamente ottimale ex-ante, ma che non è oggettivamente

ottimale ex-post. Vale a dire che la decisione presa è quella che nel determinato momento appare migliore

sulla base delle informazioni disponibili dell'impresa e nella situazione specifica di tale impresa. Ma questa

decisione molte volte non risulta essere quella ottimale, ed anzi molte volte produce risultati negativi.

24

per la soluzione di problemi decisionali di varia complessità e regole di comportamento

dinnanzi a certe situazioni e a stimoli esterni. Le routine consentono la riduzione dello sforzo

cognitivo nella risoluzione di problemi e l'abbassamento o l'azzeramento dei costi di

acquisizione di nuove informazioni/conoscenza, inoltre esse contribuiscono ad evitare i conflitti

all'interno delle organizzazioni35.

Vista la sostanziale differenza che caratterizza gli agenti presenti nel sistema economico, ovvero

le loro peculiarità nei valori, nella storia e nella loro base di conoscenza, le routine risulteranno

molto diverse in ogni impresa, saranno cioè firm-specific. Data la diversità delle routine e delle

decisioni prese per contrastare l'incertezza sulle tecnologie e sul futuro, risulta impossibile

trovare una routine ottima in generale, valida per tutte le imprese. Al contrario coesistono molte

routine diverse, ognuna ottimale sul piano locale di ogni specifico agente.

Quando lo stimolo proveniente dall'esterno dell'organizzazione è diverso dalla casistica prevista

dalle routine, potrebbe sorgere la necessità di sostituirle con delle nuove perché oramai

potrebbero essere divenute inefficaci. Però bisogna considerare che il processo di sostituzione

delle routine non è di facile realizzazione, poiché esse sono il risultato di un processo di

riduzione della varietà messo in pratica allo scopo di facilitare i processi decisionali e di

realizzare una più efficiente allocazione delle risorse in un ambiente caratterizzato da

complessità. Di conseguenza le routine sono radicate nell'impresa e tendono a resistere al

cambiamento, riproponendosi anche nella situazione in cui gli stimoli provenienti dall'esterno

rappresentino delle vere e proprie discontinuità rispetto all'apprendimento consolidato fino a

quel momento, risultando non più idonee ad affrontare tale situazione. Quando le routine

frenano o bloccano le decisioni e la sperimentazione di percorsi alternativi, si può parlare di

path dependence, l'impresa ha difficoltà a comportarsi in modo difforme dalle scelte del

passato36.

Nonostante queste difficoltà e la possibilità che le routine rappresentino un ostacolo al

cambiamento, nel momento in cui il comportamento adottato dall'impresa dovesse non risultare

più soddisfacente, vale a dire quando essa non riesce più a conseguire un profitto ritenuto

adeguato, l'impresa possiede la capacità di modificare le proprie routine per migliorare la

35 P. Fariselli, Economia dell’innovazione, cit., pp. 49-52. 36 Ivi, pp. 49-55; La path dependence, dipendenza dal sentiero in italiano, è la teorizzazione del fatto che le

decisioni che ci troviamo a prendere in un dato momento sono fortemente condizionate dalle decisioni che

abbiam preso in passato, così come le possibilità stesse di scelta sono la diretta conseguenza di ciò che abbiamo

scelto precedentemente.

25

propria performance competitiva. Inoltre l'impresa può provare a introdurre le routine di

successo appartenenti ad altre imprese poiché esse tendono a diffondersi nel mercato attraverso

processi di imitazione, anche se adattate contestualmente ad ogni situazione specifica.

Abbiamo visto come una caratteristica delle routine sia quella di essere persistenti davanti ai

cambiamenti, esse però esprimono anche un processo dinamico: consentono all'organizzazione

di apprendere, per poi modificarsi esse stesse successivamente sotto la spinta di cambiamenti

organizzativi, tecnologici e istituzionali. Difatti è possibile dividere le routine in due tipologie:

quelle statiche, che hanno lo scopo di consentire la replica di procedure, quelle dinamiche

orientate all'apprendimento.

L’efficienza dinamica, che è rappresentata dalla capacità di innovare, è lo strumento chiave per

la sopravvivenza dell'impresa nella competizione di mercato. L'apprendimento risulta centrale

perché può condurre all'innovazione in vari modi. È possibile, innanzitutto, che grazie alla

ricombinazione della conoscenza precedentemente accumulata e alla creazione di nuova

conoscenza, come accade solitamente nella Ricerca e Sviluppo interna, l'impresa stessa sia in

grado di generare cambiamento tecnologico e poi introdurlo nel sistema economico tramite

un'innovazione. Inoltre l'impresa può anche apprendere il cambiamento tecnologico generato

all'esterno di essa, acquisirlo adattandolo alle sue necessità e produrre da esso un'innovazione.

Infine i processi di apprendimento sono utili anche nel caso in cui è necessario apprendere

conoscenza su un’innovazione già generata da altri ed adattarla alle specifiche condizioni

dell'impresa, innovando tramite l'imitazione37.

3.3 La varietà nel sistema economico

Descritto l'ambiente, gli agenti, i loro comportamenti e i meccanismi di apprendimento,

vediamo quale sia l'effetto, nel sistema economico, dell'introduzione di una innovazione

derivante dal cambiamento tecnologico38. L’introduzione di essa genera discontinuità in tale

sistema, producendo una maggiore varietà, vale a dire aumentando sia il numero di tecnologie

tra cui le imprese possono scegliere sia il numero di prodotti, processi, materiali e forme

organizzative presenti nel mercato. La scelta delle imprese sarà condizionata, come abbiamo

37 Ivi, pp. 52-55. 38 Rappresentato sia da una tecnologia completamente nuova sia dal il miglioramento di una preesistente.

26

già visto, dalla loro razionalità limitata e dal fatto che non dispongano di informazioni perfette

e non conoscano i rendimenti futuri delle tecnologie, prodotti o processi.

Tramite il processo di scelta delle imprese su quali tecnologie adottare, che avviene nel mercato

in cui operano, si genera varietà netta, cioè la differenza tra la varietà creata dall'introduzione

di innovazioni e quella distrutta per colpa di queste, specificatamente la differenza tra quelle

tecnologie, quei processi, prodotti, materiali e forme organizzative nuovi e quelli abbandonati

poiché ritenuti obsoleti o meno efficienti. Tale varietà netta che si produce nel sistema

economico determina le condizioni di quel disequilibrio che secondo Schumpeter è il motore

primo dello sviluppo economico, l'incessante burrasca della distruzione creatrice39 . Questo

meccanismo è attivato dalla volontà delle imprese di ottenere, attraverso l'innovazione, un

vantaggio competitivo e, conseguentemente, extra-profitti.

Per i consumatori l'aumento di varietà può essere visto in maniera sempre positiva, visto che

incrementa le possibilità di scelta. Invece per le imprese una maggior varietà comporta anche

degli effetti negativi, tra i quali l'aumento dei costi d'informazione sulle varie tecnologie e dei

costi per realizzare nuovi prodotti ed adottare nuovi processi. Inoltre essa aumenta l'incertezza

presente nel sistema. Tali effetti negativi tendono a diminuire quando sul mercato emerge un

progetto dominante, sia in termini di tecnologia che di prodotto o processo, verso cui le imprese

convergono con il risultato di ridurre la varietà presente nel mercato. Solitamente questo accade,

come vedremo in seguito, in un dato momento della vita di un’industria, identificabile con la

sua maturità40.

3.4 La selezione

Il processo di innovazione, basato sull'apprendimento e sulle routine, prevede che alcune

tecnologie, ritenute valide e con ottime prospettive future, vengano adottate da più imprese

mentre altre, ritenute non idonee, vengano trascurate o adottate da pochi.

Quindi un primo processo di selezione, nel senso biologico del termine, avviene tra le varie

tecnologie disponibili sul mercato. Successivamente una seconda selezione avviene sulla base

delle performance ottenute dalle imprese che hanno introdotto le tecnologie disponibili:

39 J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, cit., pp. 81-87. 40 P. Fariselli, Economia dell’innovazione, cit., pp. 46-47.

27

“sopravvivono” solo quelle che hanno ottenuto i miglioramenti di efficienza maggiori

producendo le innovazioni migliori, non in termini assoluti, ma quelle più adatte al loro

specifico contesto. Mentre le altre che hanno ottenuto meno miglioramenti di efficienza devono

subire ridimensionamenti, perdite o l'uscita dal mercato41.

Questo meccanismo di selezione che opera sul mercato ha chiare affinità con la biologia, difatti

in entrambi gli ambienti, economico e biologico, chi sa adattarsi meglio, arrivare prima,

sfruttare una propria caratteristica o sfruttare una fonte di approvvigionamento risulta il

soggetto che detiene le maggiori possibilità di sopravvivenza.

Tramite questa selezione una determinata industria evolve la sua struttura nel corso del tempo.

Molti studi hanno verificato empiricamente l’esistenza di schemi stabili di sviluppo delle

industrie, una delle periodizzazioni più riutilizzate è quella dei “cicli di vita delle industrie” 42.

Questa schematizzazione delinea tre fasi nello sviluppo di un’industria ma, nonostante questo,

ha una forte somiglianza con i due periodi del pensiero schumpeteriano.

La prima fase è caratterizzata da un’elevata incertezza nell'industria, all’interno della quale

coesistono vari disegni tecnologici nessuno dei quali risulta dominante. In questo periodo si

manifesta un alto tasso di entrata e di uscita di imprese dal mercato. Nella seconda fase si assiste

all'emergere di un disegno dominante, basato su una data tecnologia. Le imprese che hanno

adottato innovazioni appartenenti a tale disegno ne approfondiscono la conoscenza e

l'esperienza, accumulando capacità e competenze. Conseguentemente a questo processo di

apprendimento (learning), le imprese, che sviluppano innovazioni lungo la traiettoria

tecnologica del nuovo disegno dominante, tendono ad ottenere buone performance, mentre le

imprese che avevano adottato disegni alternativi tendono a fallire e uscire dal mercato.

Nonostante il numero di imprese all’interno dell’industria diminuisca, grazie ai processi di

apprendimento e all'aumentata efficienza, l'output complessivo aumenta comunque. Il disegno

dominante emerso sarà alla base di un regime tecnologico verso cui convergeranno imprese,

istituzioni e programmi di ricerca e di formazione 43 . La terza fase, quella della maturità

dell'industria, è generalmente caratterizzata dall'aumentare delle dimensioni delle poche

imprese rimaste sul mercato, le quali assumono una posizione dominante e sviluppano

41 Per esempio quelle che hanno scelto la tecnologia che si adatta meglio alle specifiche caratteristiche dell'azienda

o del mercato in cui operano. Oppure le imprese che hanno scelto la tecnologia che diventerà dominante e

soppianterà le altre. 42 W. Abernathy, J. Utterback, A dynamic model of process and product innovation, in Omega, Vol. 3, 1975, pp.

645-655. 43 Su questi concetti vedere il paragrafo 3.8.

28

un’intensa attività di R&S al proprio interno, riuscendo a ricreare internamente la competizione

tra progetti di ricerca alternativi44.

Sia le assunzioni alla base di questo modello che l'evidenza empirica contraddicono un altro

assunto dei neoclassici, ovvero che il tasso di introduzione delle innovazioni sia costante. Al

contrario le innovazioni compaiono a grappoli e sono concentrate nel tempo, come accade nella

prima fase di vita di un'industria. In seguito si registrano innovazioni incrementali più

sporadiche, fino al momento in cui altre invenzioni o ricombinazioni di conoscenza favoriscono

l’emergere di nuove innovazioni radicali che consentano il soppiantamento del paradigma

dominante e diano il via ad un’altra ondata di innovazioni.

3.5 La diffusione

Il processo di diffusione delle tecnologie avviene attraverso le scelte di adozione delle imprese

e il processo di selezione operato dal mercato. La diffusione di una data tecnologia è

fondamentale per determinarne il peso economico, infatti solamente le tecnologie che vengono

trasformate in innovazioni e adottate dalle imprese producono rendimenti per chi le ha prodotte.

Inoltre solo queste sono in grado di attivare quel circolo virtuoso che consente alle imprese di

ottenere extra profitti ed al sistema economico di crescere.

La diffusione delle tecnologie che generano innovazioni non si limita ai prodotti e ai macchinari,

ma si applica anche alla conoscenza necessaria per il loro utilizzo. Ma, considerata la specificità

dei processi di apprendimento, le organizzazioni che adottano la nuova tecnologia, la adattano

alle loro condizioni specifiche e la modificano contestualmente, realizzando così una sequenza

di innovazioni di prodotto e di processo collegate, che hanno una ricaduta economica. Il fatto

che la conoscenza di ogni impresa, così come i suoi meccanismi di apprendimento siano

fortemente specifici, spiega in parte il diverso comportamento e la diversa performance delle

imprese rispetto all'innovazione tecnologica.

L'ambiente economico, istituzionale e sociale in cui l’innovazione viene a realizzarsi è

fondamentale per la sua diffusione, infatti essa dipende in maniera cruciale dalla qualità delle

relazioni e delle connessioni che si stabiliscono tra le imprese e tra queste e le istituzioni di

44 Il passaggio da una fase all’altra riflette le differenze tra il pensiero del primo periodo di Schumpeter a quello

del secondo periodo.

29

ricerca, di formazione e regolative. L’importanza dell’ambiente e delle relazioni è dovuto al

fatto che il processo di diffusione dell’innovazione è dinamico, si modifica qualitativamente

con il suo procedere, grazie alle azioni e reazioni (feedback) che si hanno tra le tecnologie, le

imprese e le istituzioni. Quindi l'innovazione risulta inscindibilmente legata con la sua

diffusione, poiché è questo processo che plasma lo sviluppo stesso della tecnologia45.

3.6 Path dependence

Sempre in contrapposizione con i neoclassici, bisogna considerare un altro concetto alla base

della teoria evoluzionista, la path dependence, traducibile in italiano come dipendenza dal

sentiero, che riguarda sia il processo decisionale degli agenti/imprese sia il processo di adozione

delle tecnologie. L'assunto di base è che la storia conta, ovvero le decisioni che ci troviamo a

prendere non sono indipendenti dalle decisioni prese nel passato. Un'impresa che ha adottato

una tecnologia che richiedeva molti investimenti in capitale fisso difficilmente troverà

conveniente passare ad un’altra tecnologia rivale, così come chi ha basato il proprio successo e

specializzato le sue risorse in un dato settore/tecnologia potrà trovare ostacoli mentali e

organizzativi nel caso in cui provasse a cambiare strada. Come già visto, le routine

organizzative davanti a stimoli completamente nuovi si opporrebbero quasi sicuramente al

cambiamento, così come potrebbero opporsi i membri dell'organizzazione poiché le loro

competenze non sono riutilizzabili nel nuovo percorso che l'impresa potrebbe intraprendere.

Lo stesso grado di dipendenza dalle decisioni passate si può avere per quanto concerne una

tecnologia adottata in un’industria. Per esempio, se emerge una tecnologia ritenuta più

efficiente, è possibile che non si proceda alla sua adozione a causa di scelte passate che non

rendono conveniente cambiare. Infatti, potrebbe essere troppo costoso in relazione ai benefici

attesi a causa degli alti costi fissi sostenuti per le tecnologie precedenti; potrebbe esserci la

mancanza delle conoscenze necessarie e la loro acquisizione sarebbe troppo onerosa e lenta nel

tempo; oppure ci potremmo trovare nel caso in cui un’industria a valle di questa ha sviluppato

processi produttivi compatibili solo con la tecnologia già in uso. Tutti questi sono esempi di

come le scelte passate si riflettono sulle scelte da compiere nel presente.

Il concetto di path dependence è fondamentale per un analisi dinamica del sistema economico

45 P. Fariselli, Economia dell’innovazione, cit., pp. 57-59.

30

come descritto perfettamente da Antonelli:

“The notion of path dependence provides one of the most articulated and comprehensive frameworks

to move towards an analysis of the conditions that make it possible to conceive the working of an

economic system where agents are able to generate new technological knowledge, introduce new

technological innovations and exploit endogenous growth. The notion of path dependence can be

considered the analytical form of complexity most apt to understand the dynamics of economic systems

where heterogeneous agents are characterized by some levels of past dependence, as well as by local

creativity, interdependence and limited mobility in a structured space that affects their behavior, but is

not the single determinant. Path dependence is an essential conceptual framework, which goes beyond

both the analysis of static efficiency and enters the analysis of the conditions for dynamic efficiency. It

applies both to each agent, in terms of quasi-irreversibility of his own endowment of tangible and

intangible assets, networks of relations in both product and factor markets, stock of knowledge and

competence, and to the system level in terms of general endowments of production factors, industrial

and economic structure, and architecture of the networks in place” 46.

3.7 Le istituzioni

Nell'approccio evolutivo le imprese non sono gli unici attori rilevanti, così come la storia, anche

le istituzioni contano, siano esse il mercato, come regolatore delle interazioni degli agenti,

oppure le istituzioni che presiedono alle definizioni delle politiche o quelle direttamente

coinvolte nella diffusione di conoscenza. Il processo innovativo è difatti un fenomeno collettivo,

raffigurabile come un sistema il cui risultato è dato dalle relazioni e interazioni di differenti

attori con diverse competenze47.

Le istituzioni hanno differenti influenze sul processo innovativo. Alcune, come le università e

i centri pubblici di ricerca, condizionano sia la finalità che i processi di apprendimento del

settore scientifico e tecnologico, indirizzando la ricerca verso alcune aree invece che altre. Le

istituzioni che presiedono al governo dei meccanismi di mercato e quindi determinano il suo

funzionamento, regolando l'interazione tra i vari soggetti presenti nel mercato, ne influenzano

in maniera cruciale le opportunità.

Inoltre sono gli assetti istituzionali che plasmano variabili macroeconomiche quali la

distribuzione del reddito, i pattern di consumo e più in generale i comportamenti degli agenti

46 C. Antonelli, The foundations of the Economics of Innovation, Dipartimento di Economia “S. Cognetti de

Martiis”, Working paper no. 2, 2007, pp. 40-41. 47 P. Fariselli, Economia dell’innovazione, cit., pp. 59-63.

31

economici. Per questo motivo esiste un'alta complementarità tra l'analisi evoluzionista, che

enfatizza il ruolo dell'innovazione e del cambiamento tecnologico, e le analisi istituzionaliste

direttamente focalizzate sui meccanismi di governo sociopolitico. Tale complementarità non è

ancora stata esplorata in tutte le sue potenzialità e rappresenta una delle sfide più affascinanti

per entrambe le prospettive interpretative48.

3.8 Traiettorie, paradigmi e regimi tecnologici

Nella biologia l'evidenza empirica supporta la tesi dell'imprevedibilità della direzione lungo la

quale le mutazioni avvengono, la stessa evidenza empirica però non si riscontra nell'ambito

socio economico. Conseguentemente gli evoluzionisti hanno elaborato concetti che identificano

possibili regolarità nei processi di apprendimento tecnologico e nelle loro determinanti. Sono

state rilevate importanti invarianze nei processi di accumulazione di conoscenze tecnologiche

e nei meccanismi attraverso i quali esse vengono incorporate in nuovi prodotti e nuovi processi

produttivi49 . Da queste osservazioni sono stati elaborati alcuni concetti utili per descrivere

l'evoluzione dell'innovazione nel tempo.

Esiste un’ampia analogia, in termini di definizioni e di procedure, tra “scienza” e “tecnologia”.

Infatti, così come nella scienza contemporanea vengono definiti i paradigmi scientifici, allo

stesso modo si possono definire anche “paradigmi tecnologici” 50 . Entrambi i paradigmi

scientifici e tecnologici avrebbero al loro interno una visione, una definizione dei problemi

rilevanti da affrontare e un modello di indagine che ha la funzione di affrontarli51.

Un paradigma tecnologico definisce allo stesso momento i bisogni che intende soddisfare, i

principi scientifici utilizzati per lo scopo e la tecnologia materiale utilizzata. In altre parole può

essere definito come il “modello” di soluzione di determinati problemi tecnologici, basato su

selezionati principi derivanti dalle scienze naturali.

A partire da un dato paradigma tecnologico derivano altre opportunità tecnologiche che

consentono di sviluppare ulteriori innovazioni. Tali opportunità orientano gli sforzi innovativi

48 G. Dosi, L'interpretazione evolutiva delle dinamiche socio economiche, cit., pp. 9-11. 49 Ivi, pp. 7-9. 50 T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1999, (edizione originale 1962), pp. 213-

216. 51 G. Dosi, R.R. Nelson, The Evolution of Technologies: an Assessment of the State-of-the-Art, in Eurasian

Business Review, Vol. 3, no. 1, 2013, pp. 5-12.

32

verso certe direzioni: le traiettorie tecnologiche, che possono essere definite come le attività di

progresso tecnologico sviluppate secondo le opportunità offerte dai paradigmi tecnologici. In

altri termini potremmo definire le traiettorie come il progressivo perfezionamento e sviluppo

nel tempo, lungo percorsi invarianti, delle caratteristiche tecnico-economiche di determinati

prodotti o processi produttivi52.

La nozione di regime tecnologico fornisce una descrizione dello specifico contesto nel quale

competono le imprese, contano quindi le caratteristiche settoriali del processo innovativo con

particolare attenzione per le variabili determinanti e le procedure di tali attività. Per regime

tecnologico si intende una particolare combinazione di alcune proprietà fondamentali delle

tecnologie quali: opportunità, appropriabilità, cumulatività dell’avanzamento tecnologico e

caratteristiche della base conoscitiva53. A seconda delle caratteristiche della tecnologia esistono

quindi diversi regimi tecnologici che influenzano il modo con cui il processo innovativo viene

portato avanti54.

3.9 Coevoluzione/Sistema di Innovazione

Abbiamo visto come le istituzioni e la storia siano variabili importanti per gli evoluzionisti, ma

anche l'ambiente conta poiché possiede un’influenza sulle stesse dinamiche innovative. Le

variabili culturali e i processi sociali, così come i valori di una società, sono determinanti per

favorire o ostacolare la crescita ed il processo innovativo.

Il processo innovativo ha una dimensione sistemica visto che coinvolge un’ampia gamma di

soggetti ed istituzioni, dalle quali è influenzato. Il concetto di sistema di innovazione si è

sviluppato come unità di analisi fondamentale per comprendere le ragioni del successo o della

disfatta, in termini economici, di unità territoriali più o meno estese, dai sistemi locali a quelli

regionali e nazionali, e di settori specifici caratterizzati da un dato regime tecnologico.

Un sistema è un insieme di attività e di attori legati tra loro: per determinare come ognuno

influisce sulle performance delle altre componenti e dell'intero sistema sono di fondamentale

importanza i legami, le interazioni e i meccanismi tramite i quali una parte influenza l’altra. Per

52 Ibidem. 53 B. Bigliardi, La gestione dell’innovazione nelle imprese industriali: il caso empirico dell’impiantistica

alimentare, tesi di dottorato in Ingegneria Industriale XIX ciclo, Università di Parma, 2007, pp. 15-19. 54 R.R Nelson, S.G.Winter, Evolutionary theorizing in economics, cit., pp. 35-37.

33

la performance innovativa risultano essere di fondamentale importanza il sistema educativo, il

sistema pubblico di ricerca, il sistema finanziario, le istituzioni regolative, le infrastrutture e le

istituzioni di governo. Le performance qualitative di ognuno di queste parti influenza

direttamente le possibilità delle imprese di innovare.

Anche altri aspetti meno intuitivi possono comunque influenzare la performance di un sistema

innovativo, per esempio la cultura dominante di una nazione o il sistema sociale e di welfare

presente. Infatti per introdurre innovazioni con successo, soprattutto quelle radicali, è spesso

necessario che in tutto il sistema avvengano dei cambiamenti istituzionali, sociali e culturali.

Come possiamo vedere anche dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della

comunicazione, solo se tali cambiamenti avvengono contestualmente l'innovazione potrà

dispiegare il suo potenziale, permettendo all'intero sistema di produrre una performance

adeguata.

Freeman, coerentemente con quanto detto finora, studiando la crescita economica in una

prospettiva storica, rifiuta di fermarsi ad analizzare le sole variabili economiche alla guisa dei

neoclassici. Conseguentemente egli riconosce che le variabili che influenzano il processo

innovativo e la crescita sono più varie e riguardano tutta la società. Egli individua cinque

dimensioni/variabili: scienza, tecnologia, economia, politica e cultura. Tali dimensioni

interagiscono e sono interconnesse tra di loro pur mantenendo una relativa autonomia.

Allo scopo di ottenere una performance di sistema accettabile queste cinque dimensioni devono

co-evolvere, sviluppandosi in maniera congruente. Difatti se una o più dimensioni si sviluppano

in maniera non sincronica, non congruente con le altre, si creano scompensi nell'intero sistema

con la conseguenza che le altre dimensioni vedranno diminuire la loro performance, data la

reciproca influenza che intercorre tra di esse. Solo attraverso una co-evoluzione congrua nel

corso del tempo di tutte le cinque dimensioni si favorisce la crescita complessiva del sistema,

facendo sì che ogni dimensione produca un effetto di rafforzamento reciproco con le altre,

invece che di indebolimento55.

55 C. Freeman, History, Co-evolution and Economic Growth, IIASA Working Paper no. 76, 1995, pp. 2-16; P.

Fariselli, Economia dell’innovazione, cit., pp. 59-63.

34

4 Innovazione: una possibile definizione

Dare una definizione di innovazione esaustiva e condivisa appare molto difficile, per questo

motivo spesso gli studiosi hanno preferito concentrarsi ogni volta su delle sue differenti

caratteristiche. Comunque esistono concettualizzazioni e definizioni legate all’innovazione che

sono più usate e accettate.

Per cominciare una distinzione importante è quella tra invenzione e innovazione. L'invenzione

consiste nel concepire per la prima volta un’idea, che sia un nuovo prodotto, servizio, processo,

mercato di sbocco o semplicemente una ricombinazione di conoscenza già esistente che però

deve essere identificata come novità. L'invenzione può essere realizzata in luoghi molto diversi,

anche all’esterno del mercato, al contrario le innovazioni avvengono tipicamente nelle imprese.

L'innovazione consiste nel mettere in pratica le invenzioni utili, nel senso economico del

termine, introducendole nel sistema economico. Tra invenzione e innovazione può intercorrere

anche un notevole lasso di tempo56.

Molto interessante è la definizione di innovazione proposta dall'OECD nel Manuale di Oslo che

viene usata come base per le statistiche sull'innovazione in tutto il mondo: essa è definita come

l'implementazione di un prodotto (bene o servizio), di un processo, nuovo o considerevolmente

migliorato, di un nuovo metodo di marketing, di un nuovo metodo organizzativo con

riferimento alle pratiche commerciali, al luogo di lavoro o alle relazioni esterne 57 . Tale

definizione è molto simile a quella proposta da Schumpeter nel 1912 che considerava

l'innovazione come l'introduzione di una vasta gamma di novità nel sistema economico, che

potevano essere nuovi prodotti, nuovi processi, nuovi mercati, nuove fonti di

approvvigionamento e nuove forme di organizzazione.

Dalla definizione dell’OECD si desume che l'innovazione deve possedere due caratteristiche

fondamentali: la prima è la necessità che essa rappresenti una novità o un miglioramento

qualitativo importante; in secondo luogo l'innovazione per essere tale deve essere stata

implementata. Per un prodotto, nuovo o migliorato, essere implementato significa essere

introdotto nel mercato. Per i nuovi processi, metodi di marketing o metodi organizzativi essere

56 Per esempio come il caso della realizzazione del Kevlar, materiale ultraresistente ed ora utilizzato in svariati

campi che ha però visto passare anni tra la sua invenzione ed il suo effettivo utilizzo. 57 OECD, Oslo Manual. Guidelines for Collecting and Interpreting Inovation Data, Paris, OECD, 2005, pp. 31-

33.

35

implementati significa essere effettivamente utilizzati nelle attività dell’impresa.

Oltre alle definizioni sono state proposte molte classificazioni/tipizzazioni dell'innovazione in

base a varie caratteristiche quali il suo oggetto, la sua intensità, la sua provenienza o il suo grado

di continuità rispetto alla tecnologia precedente58.

Per l’approccio evolutivo l’innovazione tecnologica può essere vista come l'anello di

congiunzione tra il cambiamento tecnologico, inteso come invenzione o produzione di

conoscenza, e la produttività e la crescita del sistema economico. Attraverso l'innovazione

tecnologica è possibile ottenere, a partire da un dato ammontare di risorse, un maggior volume

di prodotto o un prodotto qualitativamente superiore59. Come riassume Fariselli:

“L'innovazione è fondamentalmente il risultato di un processo di ricombinazione delle conoscenze,

acquisite, sia mediante la ricerca svolta nei laboratori dell'impresa e/o nei centri istituzionali della ricerca

scientifica e tecnologica al suo esterno, sia mediante meccanismi di apprendimento (learning) che

l'impresa innesta nelle sue routine e accorda agli skills, alle competenze e alle capabilities che

compongono il collante delle attività produttive e la base della sua competitività.60”

Nelson considera l’impresa nella sua peculiarità e la pone al centro di un ambiente dominato

dalla varietà e dall'incertezza: nella sua definizione di innovazione il necessario carattere di

novità è riferito alla specifica impresa che genera o adotta l’innovazione. Infatti, a seconda del

caso, come innovazione può essere considerata anche l'imitazione o il trasferimento in un

contesto diverso da quello in cui è stata originariamente introdotta o generata.

Inoltre anche la semplice imitazione molte volte richiede che i processi ed i prodotti vengano

adeguati alle specificità del contesto. Tali adattamenti, anche di natura organizzativa, si

sostanziano in innovazioni incrementali da parte dell'impresa che imita o a cui viene diretto il

trasferimento tecnologico61.

58 Per una panoramica di tali classificazioni si veda F. Malerba, Innovazione imprese, industrie, economie, Roma,

Carocci, 2007. 59 P. Fariselli, Economia dell’innovazione, cit., pp. 78-80. 60 Ibidem. 61 Ibidem.

36

5 La complessità dell’innovazione

Nel corso del capitolo è stato analizzato il modo in cui il progresso tecnico, il cambiamento

tecnologico e l’innovazione sono stati trattati dalle varie teorie economiche nel corso del tempo.

Dalla visione classica del progresso tecnico come variabile endogena, anche se non centrale,

nel sistema economico si è passati ad escluderlo dall'analisi economica nei neoclassici,

ritenendolo esogeno. Molti, anche all'interno degli stessi neoclassici, che non si trovavano a

loro agio nel considerare il progresso tecnico e l'innovazione irrilevanti, hanno compiuto degli

sforzi per provare a reinserirli nell'analisi del sistema economico.

Dagli anni Ottanta, con l'ondata di innovazioni legate alla comunicazione, all’informatica e alle

biotecnologie, che ha rivoluzionato il nostro modo di vivere, è diventato impossibile ignorare

l'innovazione in qualsiasi analisi sul sistema economico. Tra tutti gli approcci, quello che ha

compiuto più progressi sul sentiero dell’analisi dell'innovazione è stato, senza ombra di dubbio,

quello evoluzionista.

Per il proseguo della trattazione e per determinare il ruolo svolto dall'innovazione in Italia viene

ritenuta valida la visione del processo innovativo portata avanti dall’approccio evoluzionista.

Infatti essa considera la complessità del fenomeno innovativo e lascia un’ampia libertà

metodologica che consente di utilizzare numerosi concetti e dati statistici.

Infatti, vista la complessità del fenomeno, non c’è nessuna logica nel basare l’analisi

dell’innovazione su modelli che ne spiegano l'influenza sul sistema economico attraverso

l’utilizzo di una sola variabile rilevante. Per quanto importante una singola variabile possa

essere, il fenomeno innovativo non potrà mai essere spiegato da una sola determinante. Molti

dubbi infatti mi attanagliavano nel pensare a come analizzare le dinamiche innovative e la loro

relazione con lo sviluppo economico, considerata la complessità del mondo che ci circonda e

la ricchezza qualitativa del sistema economico. Come posso considerare la crescita economica

derivante solo dall’accumulazione di capitale fisso? O di capitale umano? O di livelli di R&S?

O di qualsiasi altra variabile presa singolarmente? Queste domande non trovavano risposta

all'interno dell'alveo neoclassico. Tali interrogativi, più che procedevo nella lettura di testi e

nell’analisi dei dati statistici relativi all'innovazione, si sommavano ad altri. Come posso

accettare che il sistema scolastico non influenzi le dinamiche innovative di in un paese? Come

posso non considerare il ruolo del sistema finanziario nel sostenere le innovazioni? Come posso

trascurare nella mia analisi il fatto che la classe dimensionale delle imprese influisce sulla loro

37

propensione ad innovare? Come è possibile non considerare che la proprietà familiare della

maggior parte delle imprese italiane influenza la scelta dei manager poiché ci si basa

maggiormente sulla lealtà alla proprietà che sulle effettive capacità? Che effetto ha questo sul

processo innovativo?

A queste domande potrei aggiungerne un'infinità di altre, ma il concetto sembra abbastanza

chiaro, non è adeguato effettuare un'analisi dell'innovazione basandosi su poche variabili e tutte

di stampo economico. È necessaria maggiore libertà di spaziare in vari ambiti per descrivere le

dinamiche innovative e determinare quali siano i fattori che le hanno favorite e quelli che le

hanno bloccate nel corso del tempo.

Conseguentemente nel proseguo della trattazione all’analisi di numerose variabili economiche

viene affiancato la descrizione di variabili istituzionali e sociali. Inoltre viene descritto l’intero

processo in una prospettiva storica in modo da capire come fenomeni di path dependence

abbiano potuto influenzare le scelte compiute dagli attori rilevanti e come la situazione attuale

sia anche il riflesso di una serie di decisioni prese nel passato.

38

CAPITOLO II -

L'ITALIA DEL DOPOGUERRA: UNA STORIA INNOVATIVA DI

SUCCESSO

Il titolo di questo capitolo anticipa quelle che sono le sue conclusioni. Infatti, alla fine del

percorso di analisi svolto all’interno dello stesso, viene affermato che l'Italia nel Dopoguerra ha

prodotto forti dinamiche innovative che hanno avuto un ruolo preponderante nell’alimentarne

la crescita economica.

Gli studi che considerano il ruolo del progresso tecnologico come centrale, nella spiegazione

della crescita economica italiana della seconda parte del XX secolo, sono stati marginali per

lungo tempo. Solitamente, vengono messi in risalto altri elementi, tra i quali sono annoverati

con maggior frequenza il processo di accumulazione di capitale, il ruolo di traino della domanda,

le forme organizzative ed il mercato del lavoro. Invece, negli ultimi anni, sono stati molti i

lavori che si sono focalizzati sul ruolo del progresso tecnologico.

Traendo spunto da queste ricerche e tramite l'evidenza empirica, viene mostrato come il nostro

sistema economico ha prodotto importanti dinamiche innovative che, però, si sono

contraddistinte per avere caratteristiche molto diverse rispetto a quelle dei paesi avanzati.

Proprio queste forti peculiarità sono state uno dei principali motivi per il quale l’innovazione è

stata molte volte esclusa dall’analisi sulla crescita italiana e, proprio queste specificità, rendono

necessaria l’elaborazione di considerazioni ad hoc per analizzare il sistema innovativo italiano.

A questo scopo il capitolo è organizzato come segue. Nel primo paragrafo viene brevemente

analizzato l’andamento economico dell’Italia, nel periodo che va dagli anni Cinquanta all’inizio

degli anni Novanta, al fine di tracciarne un quadro generale.

Nel secondo paragrafo vengono delineate le caratteristiche del sistema di innovazione italiano.

Tramite strumenti propri della contabilità della crescita, viene trovata una misura che può

quantificare l’effetto delle dinamiche innovative sul sistema economico. Successivamente viene

proposta una misurazione empirica delle varie attività che hanno contribuito al processo

innovativo italiano. Per fare ciò viene usato un corposo apparato di dati statistici. Al fine di dare

un giudizio migliore, i dati relativi a queste attività vengono continuamente confrontati con gli

39

stessi dati relativi agli altri paesi avanzati. In seguito viene tracciato un resoconto allo scopo di

comprendere quali siano i settori che hanno contribuito maggiormente a tali dinamiche

innovative.

Nel terzo paragrafo, quello finale, vengono tracciate le conclusioni di questa ricerca sul periodo

che va dal dopoguerra al 1990 e vengono descritte, in maniera generale, le caratteristiche delle

dinamiche innovative italiane ed il loro funzionamento. Contestualmente vengono poste delle

problematiche riguardo al sistema innovativo italiano che verranno riprese nel capitolo

successivo, in cui sarà affrontata l’analisi delle stesse dinamiche negli anni che vanno dal 1990

ad oggi.

1 Dal dopoguerra agli anni Novanta

Nel corso di questo paragrafo viene descritta in termini generali la performance dell’economia

italiana nel secondo dopoguerra. Partendo dall’analisi della situazione globale che si profilava

in Europa alla fine della seconda Guerra Mondiale, viene osservato come gli aiuti degli Stati

Uniti e i vari accordi di cooperazione tra gli Stati sono stati fondamentali per stabilizzare la

situazione e far ripartire l’economia europea. La trattazione prosegue accettando ed utilizzando

la classica periodizzazione della crescita italiana proposta da quasi tutti gli studiosi di storia

economica: l’Età dell’Oro, che va dal 1950 al 1973, e una fase di rallentamento successiva, che

va dal 1973 al 19901. Viene poi descritto come l’Italia porta avanti un processo di convergenza

verso le economie avanzate che le consente, nel corso degli anni, di ridurre notevolmente il

divario in termini di Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite, produttività e livelli di produzione

industriale.

1 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, in AA.VV., Innovazione tecnologica e

sviluppo industriale nel secondo dopoguerra, Bari, Editori Laterza, 2007, pp. 47-49; G. Toniolo, La crescita

economica italiana, 1861-2011, in G. Toniolo (a cura di), L’Italia e l’economia mondiale, dall’Unità ad oggi,

Venezia, Marsilio Editori, pp. 34-37; Antonelli e Barbiellini Amidei la chiamano “Productivity slowdown”,

mentre Toniolo la chiama “Età dell’argento”, entrambi sottolineano però che, nonostante un forte

rallentamento rispetto al periodo precedente, il periodo è da considerarsi, in termini di crescita della ricchezza,

ancora positivo per l’Italia.

40

1.1 La Guerra è finita

Nel 1945 si chiuse il secondo conflitto mondiale, lasciando il continente europeo in uno stato

di distruzione, conflitti sociali e in ginocchio economicamente. L'Italia non faceva certo da

eccezione a questa situazione, con il PIL sprofondato ai livelli del 19062.

Ma le caratteristiche della seconda sistemazione post-bellica, molto differenti da quelle createsi

dopo la prima Guerra Mondiale, furono decisive nel preparare il terreno alla successiva rapida

crescita dell’Europa Occidentale3. Sono molti i fattori che hanno contribuito alla creazione di

un ambiente economico internazionale relativamente stabile, favorevole allo sviluppo

economico e alla crescita del mercato globale.

Innanzitutto, il Piano Marshall risultò fondamentale per la ripartenza delle economie europee,

non tanto per la sua dimensione, quanto perché fornì i mezzi di pagamento per l'importazione

di materie prime e di tecnologia dagli Stati Uniti. Mezzi di pagamento che risultarono

fondamentali visti i grossi deficit di bilancio e della bilancia dei pagamenti di tutti i paesi

europei. Il Piano risultò efficace, favorendo la riorganizzazione industriale, l’introduzione della

tecnologia e del modello industriale americano.

La stabilizzazione economica, cui era strettamente connessa quella socio-politica, fu favorita

dagli accordi di Bretton Woods del 1944 e dalla costituzione dell’Unione Europea dei

Pagamenti (UEP). A Bretton Woods si stabilirono cambi fissi delle valute nei confronti del

dollaro e la sua convertibilità in oro. Fu costituito il Fondo Monetario Internazionale con il

compito di evitare gli squilibri derivanti dai pagamenti internazionali. In questo quadro di

notevole importanza risultò anche l’accordo General Agreement on Tariffs and Trade (GATT)

del 1947, e i successivi accordi in seno ad esso, che riducevano le tariffe doganali favorendo la

liberalizzazione del commercio tra Stati. L’effetto congiunto di tali avvenimenti fu

fondamentale per consentire all’economia europea di ripartire, creando un terreno stabile su cui

costruire le basi per ricostituire economie di mercato aperte internazionalmente.

L’Europa si ritrovò divisa a metà dalla “discesa della Cortina di Ferro da Stettino a Trieste”4.

Nella parte orientale si consolidò il dominio comunista con istituzioni solo formalmente

democratiche ed un’economia in mano allo stato. Invece, nella parte occidentale, una volta

2 G. Toniolo, La crescita economica italiana, cit., p. 29. 3 Ivi, pp. 29-31. 4 Dal discorso di Whinston Churchil del 5 marzo 1946.

41

sconfitta la minaccia comunista, si ottenne una stabilizzazione socio-politica, con il

consolidamento di istituzioni democratiche abbinate a economie di mercato.

È in questo periodo che si compiono le scelte dell’Italia di ancorarsi saldamente all’Occidente

e partecipare alle nascenti istituzioni comuni europee come paese fondatore. Infatti l’Italia

decise di aderire al Piano Schuman e formare, assieme a Francia, Germania e ai paesi del

Benelux, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), organizzazione

sovranazionale con l’obiettivo di gestire congiuntamente la produzione carbosiderurgica.

Successivamente la collaborazione fra questi paesi si fece sempre più stretta, con i Trattati di

Roma del 1957 venne istituita la Comunità Economica Europea (CEE), che aveva come

obiettivo la libera circolazione di merci, persone e servizi attraverso le frontiere, primo passo

per il raggiungimento di un mercato comune europeo. La partecipazione alla CEE permetterà

ai paesi aderenti di incrementare notevolmente le possibilità di importazione ed esportazione5.

La situazione economica mondiale, grazie ad una regolamentazione del commercio e dei

pagamenti tra Stati, si stabilizza, consentendo l’apertura dei mercati nazionali al commercio

internazionale. L’Italia sfrutta pienamente questa situazione e gli aiuti americani per cominciare

lo sforzo della ricostruzione e della riorganizzazione industriale, favorita dalla prospettiva di un

periodo di relativa stabilità economica. L’Italia realizza un progressivo inserimento nel mercato

mondiale, ancora più marcato in Europa, dove oltre al mercato comune cresce il ricorso a forme

istituzionali che lasciano presagire un progetto più ampio con un futuro comune per molti paesi

europei6.

1.2 Età dell'Oro

Il periodo di elevata crescita dell’economia Europea nel Dopoguerra, che va dall’inizio degli

anni Cinquanta al 1973, secondo molti, è stato favorito dalla situazione di distruzione e

arretratezza in cui le economie europee si trovarono alla fine del conflitto mondiale. Infatti la

necessità di ricostituire gran parte della propria dotazione industriale ha consentito ai paesi

europei di inserire nell’apparato produttivo le tecnologie, i macchinari e le strutture

organizzative più avanzate provenienti dagli Stati Uniti. Inoltre, i paesi europei, disponendo di

5 B. A’Hearn, A.J. Venables, Geografia, commercio estero e divari regionali, in G. Toniolo (a cura di), L’Italia e

l’economia mondiale, dall’Unità ad oggi, Venezia, Marsilio Editori, 2013, pp. 859-860. 6 G. Toniolo, La crescita economica italiana, cit., pp. 29-33.

42

una grossa riserva di manodopera inutilizzata, hanno potuto mantenere i salari bassi per il

periodo considerato. Riuscendo così, tramite aumenti della produttività del lavoro maggiori

della crescita salariale, a mantenere prezzi competitivi nel sempre più grande mercato mondiale,

incrementando nettamente le proprie esportazioni. Si può quindi affermare che la ricostruzione,

attraverso i cambiamenti tecnologici e strutturali che ha determinato, abbia facilitato la crescita

delle economie europee, alimentando il processo di convergenza verso il livello di ricchezza

americano.

L’introduzione di tecnologie è avvenuta tramite la crescita esponenziale degli investimenti,

difatti, in Europa, lo stock di impianti e macchinari ha fatto registrare un progresso dell’8% su

base annua nel periodo considerato, con un conseguente crollo dell’età media del capitale7.

L’Italia non rappresenta un’eccezione a queste dinamiche generalizzate, pur mantenendo le sue

peculiarità. In particolare, essa ha goduto per un lungo periodo di ampie sacche di manodopera

disoccupata, proveniente dall’agricoltura, che è stata fondamentale per mantenere alta l’offerta

di lavoro e conseguentemente moderare le dinamiche salariali. In quest’ottica molto importante

è risultato il fenomeno migratorio lungo la direttrice Sud-Nord, che ha fornito lavoratori a basso

costo ai distretti industriali8.

Gli studiosi del periodo sostengono che in Europa la moderazione salariale avesse una base

contrattuale di tipo corporativista, dove le rinunce salariali dei lavoratori erano finalizzate al

raggiungimento di un obiettivo condiviso, rappresentato dal benessere di tutto il paese. La stessa

cosa non può dirsi per l’Italia, dove la moderazione salariale rifletteva piuttosto la debolezza

sindacale e l’elevata offerta di lavoro. Grazie a questo le dinamiche salariali fino al 1968

crebbero meno della produttività del lavoro, favorendo i profitti delle imprese e la competitività

dei prodotti italiani. L’industria crebbe vistosamente impiegando molti lavoratori provenienti

dall’agricoltura e, nel giro di pochi anni, questo processo di trasformazione mutò

profondamente il volto del paese: il settore agricolo passò dal 44% sul totale dell’economia del

1951 al 18% del 19739, l’Italia era diventata una società industrializzata.

Guardando alla qualità della forza lavoro, nonostante la scarsa presenza di capitale umano,

7 N. Rossi, G. Toniolo, Italy, in N. Crafts, G. Toniolo (a cura di), Economic Growth in Europe since 1945,

Cambridge, Cambridge University Press, pp. 427-454. 8 Per quantificare la disoccupazione nel periodo mancano dati precisi, ma per capire l’entità del fenomeno basti

pensare che dal 1956 al 1963 la disoccupazione diminuisce passando da più di 2 milioni di persone per arrivare

a 800.000; cfr. OECD, http://stats.oecd.org/. 9 S.N. Broadberry, C. Giordano, F. Zollino, La produttività, in G. Toniolo (a cura di), L’Italia e l’economia

mondiale, dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio Editori, 2013, pp. 278-279.

43

l’Italia ha potuto sfruttare la presenza di un buon numero di ingegneri qualificati e operai esperti,

fondamentali per l’adozione di tecnologie incorporate, che hanno costituito il principale mezzo

di innovazione. Inoltre sono emersi alcuni forti spiriti imprenditoriali che hanno portato al

rafforzamento del sistema delle imprese, ma allo stesso tempo si è palesato un limite che

caratterizza le imprese italiane ancora oggi: la scarsa disponibilità di risorse manageriali dovuta

a ritardi del nostro sistema formativo10

Come abbiamo visto, la stabilità economica nel sistema occidentale ha favorito il rapido

sviluppo del commercio internazionale. Oltre a questo, l’Italia, ha potuto beneficiare del fatto

di essere all’interno del Mercato Comune Europeo, fondamentale per espandere ancora di più

le possibilità di importazione ed esportazione.

Tale maggiore apertura agli scambi internazionali, unita all’aumento della produzione di merci

italiane e della loro competitività, ha causato una crescita dell’export italiano che, a partire dal

3,7% sul totale dell’export mondiale dei prodotti manifatturieri del 1950, è quasi raddoppiato

fino a raggiungere il 6,8% nel 197311.

Nello stesso periodo, grazie all’aumento della domanda interna e all’ampliarsi del mercato del

Sud Italia, entrambi dovuti alla maggiore capacità di spesa degli italiani collegata al repentino

aumento del reddito pro capite, si sviluppò un dinamico mercato interno. Grazie a ciò e all’alta

domanda nel mercato internazionale, le imprese italiane vedono i loro mercati di sbocco

aumentare progressivamente di dimensioni, avendo così la possibilità di sfruttare economia di

scala sempre maggiori.

L’efficienza complessiva del sistema economico italiano aumenta notevolmente, come

dimostra anche la crescita della TFP al ritmo del 5,8% annuo lungo il periodo considerato12.

Questa robusta dinamica della TFP è stata spiegata in molteplici modi dagli studiosi: alcuni ne

attribuiscono il merito allo spostamento strutturale dei lavoratori agricoli verso i settori

industriali maggiormente produttivi, altri alla realizzazione di notevoli economie di scala o

ancora ad altri fattori. La tesi che tale crescita fosse dovuta alle dinamiche innovative è stata

spesso scartata poiché si affermava che l’Italia non disponeva di un efficiente sistema nazionale

di innovazione, inteso come il classico sistema di innovazione basato su attività di ricerca e

sviluppo e produzione brevettuale. Infatti, come vedremo nei paragrafi successivi, le statistiche

10 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 46-48. 11 N. Crafts, M. Magnani, L’Età dell’Oro e la seconda globalizzazione, in G. Toniolo (a cura di), L’Italia e

l’economia mondiale, dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio Editori, 2013, p. 110. 12 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., p. 200.

44

relative a queste attività sono molto negative se raffrontate con gli altri paesi avanzati;

nonostante questo, i nostri concorrenti europei hanno beneficiato di processi di convergenza

verso il livello di ricchezza degli Stati Uniti meno vigorosi del nostro.

Infatti la nostra economia è risultata, rispetto agli altri paesi avanzati, fatta eccezione per il

Giappone, quella che ha prodotto il più importante processo di convergenza verso il livello di

ricchezza della maggiore economia mondiale, gli Stati Uniti. Per questo motivo, il periodo che

va dal 1950 al 1973, è giustamente chiamato l’Età dell’Oro dell’economia italiana 13 .

L’eccezionalità dei risultati italiani può essere apprezzata nella figura 2.1, dove si vede come,

nel periodo in esame, il PIL pro capite italiano passa da rappresentare il 33% del PIL pro capite

degli Stati Uniti fino ad arrivare al 67%, e passa dal 46% all’87% rispetto a quello del Regno

Unito.

Figura 2.1: Rapporto tra Pil pro capite dell'Italia e quelli di Stati Uniti e Regno Unito, nel periodo 1950-1973

Fonte: mie elaborazioni su dati da Maddison Project, http://www.ggdc.net/maddison/maddison-project/.

La portata eccezionale della performance economica italiana è evidenziata anche dal confronto

tra i tassi di crescita del PIL, nel periodo 1950-1973, delle maggiori economie mondiali. Nella

figura 2.2 si può vedere come solamente la Germania esprima una performance che può essere

13 G. Toniolo, La crescita economica italiana, cit., pp. 31-33; in tale periodo il PIL pro capite aumento mediamente

del 5,3% annuo, la produzione industriale del 8,2% e la produttività del lavoro del 6,2%.

20%

30%

40%

50%

60%

70%

80%

90%

100%

Italia/ Stati Uniti Italia/Regno Unito

45

paragonata a quella dell’Italia, facendo segnare una crescita del PIL del 5,02% annuo contro

una performance italiana del 5,3%. Tuttavia, bisogna notare la differenza di crescita tra la

Germania e l’Italia nei sotto-periodi 1950-1962 e 1962-1973, che denota come l’Italia abbia

saputo realizzare una performance molto più continua nell’intero periodo. Inoltre bisogna

considerare che la Germania partiva da livelli di distruzione dell’apparato economico molto più

elevati, avendo quindi potenzialmente più possibilità di crescita.

Figura 2.2 Tassi di crescita medi del PIL pro capite nel periodo 1950-1973

Fonte: mie elaborazioni su dati da Maddison Project, http://www.ggdc.net/maddison/maddison-project/.

L’Età dell’Oro italiana è e sarà sempre considerata come esempio di una performance

economica straordinaria, sia per quanto concerne la storia del nostro paese sia a livello globale

nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Questo ventennio ha sancito il definitivo

passaggio dell’Italia da una società agricola ad una fortemente industrializzata, consentendo un

grado di sviluppo tale da far entrare l’Italia nel club dei paesi più ricchi del pianeta.

Nonostante la straordinaria positività del periodo in esame, appare doveroso fare una

considerazione di fondo: il cammino di convergenza è rimasto incompleto. Infatti l’economia

italiana rallenterà fortemente nel ventennio successivo, pur mantenendo un livello di crescita

accettabile, per poi entrare in profonda crisi all’inizio degli anni Novanta.

Per questo motivo appare doveroso analizzare quegli elementi che, già nell’Età dell’Oro,

0%

1%

2%

3%

4%

5%

6%

7%

Italia Germania Francia Regno Unito Stati Uniti

1950-1962 1962-1973 1950-1973

46

potrebbero aver ostacolato un’ulteriore crescita dell’economia italiana. Innanzitutto sembra

evidente come molte colpe siano da imputare all’incapacità della classe dirigente italiana

(imprenditori, politici, banchieri) di comprendere che ben diverse sono le azioni e le politiche

necessarie quando si è lontani dalla frontiera tecnologica rispetto a quelle che si devono mettere

in atto quando ci troviamo in prossimità di essa, se il nostro obiettivo è quello di continuare il

percorso di sviluppo e mantenere un’elevata performance economica. Infatti il fallimento di

adeguare istituzioni, regolamentazione e dimensione dell’intervento pubblico alle nuove

condizioni create dallo sviluppo del dopoguerra è uno degli elementi alla base delle difficoltà

successive dell’Italia, nonché un fulgido esempio di una caratteristica persistente della politica

economica italiana, la scarsa capacità riformatrice14.

Tra i fattori che porteranno nel periodo successivo al 1973 ad un rallentamento della crescita,

ma che affondano le radici in questo periodo, è da citare il funzionamento delle imprese

pubbliche: nell’Età dell’Oro hanno ben funzionato, allocando le risorse in maniera efficiente ed

agendo da traino allo sviluppo, invece dopo l’avvicinamento dell’Italia alla frontiera

tecnologica esse sono diventate sacche di inefficienza e di giochi di potere15.

Il mancato sviluppo di un solido sistema finanziario, soprattutto in termini di mercato azionario,

è stato sicuramente un altro fattore limitante. Infatti quando le imprese hanno diminuito il

reinvestimento degli alti profitti degli anni Sessanta, non trovando fonti alternative di

finanziamento, hanno diminuito gli investimenti che sono crollati dall’11% del periodo 1956-

1963 al 5% del periodo 1963-197216.

Anche dal lato dell’offerta di lavoro, arrivano, nel 1962, le prime avvisaglie di rialzo dei salari,

anticipatori del forte rialzo salariale che comincerà nel 1969. Questi rialzi sono dovuti alla fine

dell’offerta “illimitata di lavoro” e al maggior potere e consapevolezza che avevano acquisito i

sindacati. La competitività delle imprese viene fortemente danneggiata da queste dinamiche,

poiché i salari cominciano a crescere più della produttività.

Applicando all’Italia il concetto di convergenza delle dimensioni del sistema elaborato da

Freeman, illustrato nel primo capitolo, si può considerare l’eccezionale performance italiana

come dovuta ad una condizione di forte convergenza tra le varie dimensioni che sono co-evolute

14 N. Crafts, M. Magnani, L’Età dell’Oro e la seconda globalizzazione, cit., pp. 114-115. 15 F. Barca, K. Iwai, U. Pagano, S. Trento, Postwar Istitutional Reform: The Divergence of Italian and Japanese

Corporate Governance Models, Dipartimento di Economia Politica dell’Università degli Studi di Siena,

Working Papers no. 234, 1998, pp. 34-35. 16 N. Crafts, M. Magnani, L’Età dell’Oro e la seconda globalizzazione, cit., pp. 113-114.

47

assieme, determinando la crescita complessiva del sistema17 . Raggiunto però, un livello di

ricchezza elevato, l’Italia non ha saputo cambiare per adeguarsi alle nuove condizioni che

derivano dal fatto di essere un paese avanzato. Infatti, da allora le varie dimensioni hanno

cominciato a svilupparsi lungo traiettorie divergenti, ostacolando la crescita.

Terminata la ricostruzione e raggiunto un livello di benessere elevato ci siamo seduti sugli allori

culturalmente e politicamente, non comprendendo che la nostra situazione avrebbe richiesto

una nuova opera di cambiamento strutturale che, se realizzata, avrebbe posto le basi per

continuare un’elevata crescita economica e il processo di rafforzamento della posizione globale

dell’Italia.

1.3 Il rallentamento dell’economia italiana

L’anno 1973 è considerato dagli storici economici come un punto di svolta di tutta l’economia

mondiale. Allo stesso modo viene considerato come l’anno della fine dell’Età dell’Oro italiana

e l’inizio del periodo di rallentamento della crescita. Nonostante alcune dinamiche negative

fossero già presenti negli anni precedenti, è nel 1973, con lo shock petrolifero, che si inizia a

sperimentare un forte rallentamento del tasso di crescita e l’avvio di una pesante dinamica

inflattiva. Questo, unito alle tensioni sociali e alla fine della stabilità delle condizioni

internazionali, inizia a mettere a nudo le forti criticità del sistema italiano.

In tale periodo si esauriscono molti fattori che avevano contribuito alla stabilità del sistema:

finisce la disponibilità di materie prime a buon mercato, soprattutto del petrolio, che faceva

mantenere ai paesi occidentali buone ragioni di scambio; finisce, con lo sgretolarsi del sistema

di Bretton Woods, il periodo di stabilità sul mercato internazionale dei cambi che torna ad essere

altamente incerto; si esaurisce la riserva di manodopera che consentiva di mantenere dinamiche

salariali favorevoli alle imprese.

Nonostante il brusco rallentamento, l’Italia riesce a mantenere buoni tassi di crescita del PIL,

soprattutto in raffronto agli altri paesi avanzati. Riesce, inoltre, a continuare il processo di

convergenza verso il livello di Pil pro capite dei paesi europei, mentre la dinamica nei confronti

17 La tecnologia da incorporare si adattava perfettamente al contesto produttivo italiano, alla dotazione di fattori e

alla presenza di buoni ingegneri. La politica favoriva questo processo aumentando le possibilità di scambi

internazionali. Culturalmente l’Italia, dopo il Ventennio Fascista e la guerra, voleva dimostrare di poter

crescere e svilupparsi, con la conseguenza che tutti i cittadini producevano uno sforzo in tale direzione. Sono

molti altri gli esempi di come le varie dimensioni si sono reciprocamente rafforzate.

48

degli Stati Uniti subisce una stabilizzazione. Come possiamo vedere dal grafico 2.3, l’Italia

riesce, in questo periodo, addirittura a raggiungere il livello di reddito pro capite del Regno

Unito, mantenendosi poi attorno alla parità. Invece nei confronti degli USA riesce ad ottenere

solo un lieve miglioramento nell’intero periodo, passando dal 66,2% del 1974 al 70,3% del

1990.

Figura 2.3: Rapporto tra Pil pro capite dell'Italia e quelli di Stati Uniti e Regno Unito, nel periodo 1973-1990

Fonte: mie elaborazioni su dati da Maddison Project, http://www.ggdc.net/maddison/maddison-project/.

Anche in termini di tassi di crescita del PIL, come si vede dalla figura 2.4, l’Italia riesce ad

avere performance migliori dei suoi partner europei e degli Stati Uniti. Infatti, in Italia, il PIL

cresce mediamente del 2,5% annuo, contro prestazioni degli altri paesi considerati che oscillano

tra l’1,5% e il 2% annuo. Quindi, nonostante il vistoso rallentamento, l’Italia continua a

mantenere elevati tassi di crescita, che riescono a farle raggiungere la posizione di quinta

economia mondiale per grandezza del PIL.

Sebbene questi dati sembrino far trasparire una situazione rosea, almeno in una prospettiva

comparata, è nel rallentamento di questo periodo e nelle condizioni sistematiche che si vanno a

delineare che bisogna ricercare le cause della pesante crisi in cui l’Italia entrerà a partire dagli

anni Novanta.

50%

60%

70%

80%

90%

100%

110%

1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990

Italia/Stati Uniti Italia/Regno Unito

49

Figura 2.4: Tassi di crescita annui medi del PIL, periodo 1974-1990

Fonte: mie elaborazioni su dati da Maddison Project, http://www.ggdc.net/maddison/maddison-project/.

Infatti gli shock petroliferi ed energetici hanno forse conseguenze peggiori per l’Italia che per

altri paesi, poiché essi, assieme alle fortissime pressioni salariali, producono una spirale

inflattiva a due cifre che si affievolirà solamente dopo l’adesione dell’Italia al Sistema

Monetario Europeo.

Inoltre, dal 1968, comincia una stagione di proteste sindacali che avrà come conseguenza quella

di porre fine a quel circolo virtuoso per mezzo del quale i salari crescevano meno della

produttività, favorendo la competitività delle imprese. I sindacati accrescono molto il loro

potere rispetto agli anni precedenti, raggiungendo tassi di partecipazione e mobilitazione molto

elevati18. La conseguenza è che, crescendo i salari più della produttività, la competitività delle

imprese diminuisce sensibilmente. Basti pensare che il costo del lavoro per ora lavorata nel solo

periodo che va dal 1968 al 1978 è aumentato del 450%19.

Una classe politica debole, non riuscendo a contrastare le proteste di sindacati ed imprese, prova

ad affievolirle aumentando notevolmente le risorse destinate al welfare e agli incentivi per le

18 A. Boltho, Italia, Germania e Giappone. Dal miracolo economico alla semistagnazione, in G. Toniolo, L’Italia

e l’economia mondiale, dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio Editori, 2013, pp. 172-173; gli iscritti al sindacato

in percentuale dei lavoratori passano dal 24,7% del 1960 al 49,6% del 1980, gli scioperi divengono

frequentissimi, si stima che per mille lavoratori in quegli anni siano stati in media 1500 i giorni di lavoro persi

a causa degli scioperi, confronto impietoso rispetto alla Germania, dove nello stesso periodo il dato si aggira

in media attorno ai 50 giorni. 19 V. Castronovo, Storia economica d’Italia: dall’Ottocento ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 2013, pp. 368-379.

0,5%

1,0%

1,5%

2,0%

2,5%

3,0%

Italia Germania Francia Regno Unito Stati Uniti

1974-1981 1981-1990 1974-1990

50

imprese, al sistema pensionistico e ai salari dei dipendenti pubblici. Tutto questo avviene per

mezzo di una notevole espansione della spesa pubblica, senza che ci si preoccupi dei possibili

effetti negativi a lungo termine 20 . Questo aumento incontrollato della spesa pubblica fa

aumentare l’entità dei deficit nel bilancio dello Stato, con la conseguenza che il debito pubblico

inizia ad aumentare vorticosamente. Nemmeno il “divorzio” tra la Banca d’Italia ed il Tesoro

del 1981 riuscirà a contrastare questo aumento senza controllo del debito; infatti basta pensare

che, solamente nel corso degli anni Ottanta, il debito pubblico italiano in rapporto al Pil sale

dal 56% al 94%21.

Le imprese pubbliche, perso il ruolo trainante ricoperto nei primi anni dopo la guerra, divenute

ormai oggetto di spartizioni politiche e giochi di potere, cominciano ad avere performance

nettamente negative e ad accumulare livelli di indebitamento eccessivo 22 . Ormai l’impresa

pubblica non rappresenta più un fattore di sviluppo per il sistema ma, piuttosto, un fardello con

cui bisogna fare i conti.

Anche le imprese private, durante gli anni Settanta, vedono crescere il loro indebitamento in

maniera velocissima, necessitando di livelli sempre maggiori di finanziamento. Ma, visto che

il canale del ricorso al capitale azionario non si è sviluppato in modo efficiente, le imprese sono

costrette a ricorrere alle sole banche, con la conseguente necessità di destinare un’ingente mole

di risorse per pagare gli interessi sul debito bancario. Quindi la grande industria italiana si trova

nella situazione di destinare la maggior parte delle proprie risorse per ripagare il debito e per

far fronte ai continui aumenti salariali, sottraendo così risorse destinate agli investimenti, che

di fatto calano fortemente nel periodo23.

Sempre in questi anni si compie un’altra trasformazione nella struttura produttiva italiana,

dovuta ad una crescita notevole del settore dei servizi, che all’inizio degli anni Novanta vede

tra le sue file più del 60% degli occupati totali 24 . Ma l’incremento del peso dei servizi

20 A. Boltho, Italia, Germania e Giappone, cit., pp. 161-163; i politici hanno cercato di “comprare” la pace sociale

senza preoccuparsi delle ricadute macroeconomiche che questa gestione scellerata avrebbe prodotto nel lungo periodo. In un confronto con la Germania ed il Giappone appare come i sindacati di questi paesi, pur

affrontando problemi simili, si dimostrarono molto più consci dei vincoli macroeconomici. 21 Banca d’Italia, http://bip.bancaditalia.it/4972unix/homebipentry.htm?dadove=corr&lang=ita. 22 V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., pp. 366-370; basti pensare che nel 1978 le imprese controllate

dall’IRI avevano un indebitamento superiore al proprio fatturato. 23 N. Rossi, G. Toniolo, Italy, cit., pp. 427-430; si passa da una crescita media degli investimenti in attrezzature in

doppia cifra per l’intero periodo 1951-1973 ad una crescita del 2,6% nel periodo 1974-1990, con una crescita

nulla degli investimenti in costruzioni. 24 N. Crafts, M. Magnani, L’Età dell’Oro e la seconda globalizzazione, cit., p. 118; partendo da poco più del

40% dell’inizio anni Settanta, questo calcolo comprende la pubblica amministrazione.

51

nell’economia non è stato accompagnato da un’uguale dinamica nella produttività. Difatti la

crescita della produttività in tale settore collassa, passando dal 4,9% del periodo 1953-1973 ad

un misero 0,4% nel periodo 1973-199325. Inoltre tale settore è caratterizzato da un’assenza di

esposizione alla competizione internazionale, situazione per la quale si ha una bassa qualità dei

servizi accompagnata però da prezzi elevati26.

Quindi, visti gli scarsi risultati della grande impresa pubblica e privata e la scarsa produttività

del settore dei servizi, sorge spontanea la domanda su come sia stata possibile una performance

di crescita abbastanza positiva dell’Italia. La risposta è da ricondurre allo sviluppo di numerose

piccole e medie imprese, soprattutto nel settore manifatturiero, flessibili e competitive, che

hanno visto accrescere il loro peso nell’economia italiana.27

Le piccole e medie imprese sono state il motore principale della performance italiana durante

questo periodo, controbilanciando gli scarsi risultati della grande industria, in termini di

produttività, di investimenti, dinamiche innovative, produzione e profitti28 . La nascita delle

piccole e medie imprese è stata favorita anche dal processo di ristrutturazione delle grandi

imprese, avvenuto all’inizio degli anni Ottanta. Spronate dall’alto costo del lavoro, alcune

grandi imprese, attraverso il decentramento produttivo in unità più piccole, il superamento della

rigidità della catena di montaggio e gli investimenti in macchinari fortemente labour saving,

riescono a cambiare volto alla propria struttura. Questa ristrutturazione influisce positivamente

sulla successiva performance delle industrie che la portano avanti, ma comunque si continua a

non affrontare alcune problematiche: si insiste nel trascurare elementi importanti che

influiscono sulla produttività, come la R&S, la formazione lavorativa e l’efficienza dei servizi29.

In secondo luogo bisogna considerare che in questa ristrutturazione non sono rientrate le

industrie pubbliche. Inoltre viene persa l’occasione per rilanciare imprese in crisi nei settori a

media-alta tecnologia in cui l’Italia è presente, come la chimica e l’elettronica, come

25 S.N. Broadberry, C. Giordano, F. Zollino, La produttività, cit., p. 263, pp. 282-285; producendo performance

molto minori di Germania e Usa, ma comunque migliore rispetto al Regno Unito. 26 N. Rossi, G. Toniolo, Italy, cit., pp. 446-447. 27 A. Boltho, Italia, Germania e Giappone, cit., pp. 165-167; dal 1961 fino al 2001 il trend è sempre risultato di

crescita, passando dal 26,4% di imprese (tra gli 11 e 99 dipendenti) sul totale delle imprese del manifatturiero

al 41,8% del 2001. Ma il periodo con la crescita maggiore è stato quello tra il 1971 e il 1991 in cui tali imprese

sono aumentate di più del 10%. 28 L. Burroni, C. Trigilia, Italy: Rise, Decline and Restructuring of a Regionalized Capitalism, in Economy and

Society, no. 38, 2009, pp. 635-638; la crescita del periodo può essere attribuita allo svilupparsi della Terza

Italia (Centro, Nord-est), contrapposta al Nord-Ovest di classica industrializzazione, e al Sud. Nella Terza

Italia si sviluppano una miriade di PMI flessibili e competitive nei settori tradizionali ma anche in settori

moderni, come la meccanica ingegneristica e i macchinari. 29 N. Rossi, G. Toniolo, Italy, cit., pp. 446-448.

52

esemplificato dai casi della Montedison e dell’Olivetti30.

Un altro punto di debolezza del sistema Italia che emerge in questo periodo, ma che risulterà

nel tempo sempre maggiore, è quello delle diseconomie esterne, vale a dire le disfunzioni più

o meno gravi e l’arretratezza delle infrastrutture e delle reti. Tutto ciò, unito all’inefficienza dei

servizi essenziali per le industrie, non crea certo un ambiente ideale per lo sviluppo delle

imprese. Difatti, nel periodo descritto, l’Italia figura nelle posizioni di retroguardia delle

classifiche che valutano il sistema infrastrutturale e delle reti all’interno dell’allora CEE31.

In conclusione si può affermare che questa fase, per l’Italia, è da considerarsi in maniera

positiva se guardiamo solamente ai risultati raggiunti in termini di crescita del PIL, mentre è da

considerarsi in un’ottica completamente differente se consideriamo una prospettiva di lungo

termine. È chiaro come le caratteristiche sistemiche dell’economia italiana, che si delineano

lungo questo arco di tempo, la rendono inadatta ad affrontare con successo la rivoluzione delle

tecnologie della comunicazione e dell’informatica, rendendole impossibile continuare il

processo di crescita. È in questo periodo che l’Italia perde terreno nei nascenti settori strategici

a medio-alto contenuto tecnologico, relegando la specializzazione dell’economia ai settori

tradizionali e a quelli a media-bassa tecnologia, lontani dalla frontiera tecnologica32. Si può dire

che la crescita economica di questo periodo ha rappresentato una sorta di velo di Maya33 che ci

ha fatto trascurare, non affrontandoli, i problemi strutturali dell’Italia.

30 V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., pp. 370-371; la Montedison ed il settore chimico produssero una

buona performance in termini di crescita e di attività innovativa negli anni dell’Età dell’Oro, per poi vedere deteriorare la loro posizione nel periodo del rallentamento. L’industria elettronica, invece, aveva mostrato

sforzi importanti in termini di R&S e acquisizione tecnologica dall’estero negli anni Sessanta, ma tali sforzi

produssero scarsi risultati, condannando l’Italia ad essere tecnologicamente dominata in tale settore. 31 V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., pp. 385-386; tali vischiosità risultavano ancora più gravi poiché

riducevano l’efficienza generale del sistema economico, in un momento in cui la competitività internazionale

era sempre più legata con la crescita del settore terziario e la sua interconnessione con il mondo industriale. 32 C. Antonelli, Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 251-253. 33 Concetto derivato dalla filosofia indiana usato da Schopenhauer che sta a dire che tra la realtà delle cose e quello

che noi vediamo c’è un ostacolo, uno schermo che ci impedisce di cogliere l’effettiva realtà. La nostra visione

della realtà è una mera illusione.

53

2 Il sistema d’innovazione italiano

Nel paragrafo precedente è stata descritta la performance economica dell’Italia del periodo che

va dal dopoguerra al 1990, constatando come, in questo arco di tempo, essa abbia compiuto

passi da gigante nella posizione internazionale e compiuto una profonda trasformazione

strutturale che, da società agricola, l’ha trasformata in una potenza industriale. Contestualmente,

però, è stato anche notato come in questo periodo sono emerse numerose contraddizioni interne

e fattori di preoccupazione che ostacoleranno, negli anni successivi al 1990, il tentativo

dell’Italia di mantenere la posizione internazionale raggiunta.

In questo paragrafo viene mostrato come la crescita italiana sia stata trainata da una notevole

attività innovativa, nonostante le statistiche con le quali abitualmente si misura tale attività,

ovvero le spese in R&S e la produzione brevettuale relative all’Italia, siano molto negative se

raffrontate con gli altri paesi avanzati.

Usando i dati della contabilità della crescita, viene mostrata l’evoluzione della Produttività

Totale dei Fattori italiana, per determinare quanta parte della crescita economica italiana non

scaturisce da un aumento nella dotazione dei fattori lavoro e capitale, ma è attribuibile ad altri

fattori, tra i quali viene ritenuto predominante l’innovazione tecnologica.

Successivamente tramite un corpo eterogeneo di statistiche viene introdotta l’analisi del

processo innovativo in Italia e vengono descritte le sue peculiarità.

2.1 Arretratezza, cambiamento strutturale o innovazione?

Molti studiosi hanno affermato che la notevole performance economica italiana del dopoguerra

è stata possibile grazie all’ampiezza delle possibilità di convergenza presenti dopo il secondo

conflitto mondiale, vale a dire grazie all’arretratezza nei confronti del paese più avanzato,

ovvero gli Stati Uniti.

L’arretratezza può, talvolta, costituire un vantaggio per avviare un processo di convergenza

verso il paese leader o i paesi più avanzati. Infatti, in tale processo, i paesi inseguitori hanno la

possibilità di introdurre la tecnologia in uso nel paese dominante senza sostenere i costi relativi

al suo sviluppo, aumentando velocemente e notevolmente la propria efficienza. Ma deve essere

chiaro che una simile dinamica di convergenza non è in alcun modo automatica e, anche qualora

54

si verifichi, non produce gli stessi risultati in paesi differenti34 . Inoltre, in molti casi, si è

verificato che un paese che partiva dall’arretratezza ha visto svilupparsi nei confronti dei paesi

più avanzati processi di polarizzazione che hanno avuto il risultato di ampliare il divario

piuttosto che ridurlo. In questo modo la tesi sull’automaticità della convergenza è

empiricamente negata.

Sono molti i fattori che devono sussistere per poter sfruttare i processi di convergenza, fra essi

quelli che sembrano ricorrere più frequentemente in casi del genere sono: un elevato livello di

investimenti, una dotazione quantitativa e qualitativa di capitale umano adeguato, un mercato

esteso e differenziato e una rete abbastanza sviluppata di commercio con l’estero,

particolarmente con i paesi più sviluppati. Oltre a questi fattori, devono essere presenti nel paese

quelle social capabilities35 fondamentali per attivare i processi di convergenza e consentire di

assorbire le tecnologie più avanzate. Queste “capacità sociali”, come le definisce Abramovitz,

sono rappresentate dal livello di sviluppo delle competenze tecniche e dalla qualità delle

istituzioni politiche, commerciali, industriali e finanziarie36.

Esiste un altro elemento importantissimo per attivare un processo di convergenza, vale a dire la

congruenza tecnologica tra il paese avanzato e quello inseguitore. Ovvero la tecnologia del

paese leader deve trovare nel paese inseguitore le condizioni per poter funzionare

efficientemente. Quindi è necessario che alcune dimensioni come ampiezza e omogeneità dei

mercati, pattern della domanda, dotazioni fattoriali, disponibilità di risorse naturali, scala di

produzione siano adatte alla tecnologia che si importa, poiché in mancanza di tale congruenza

sarebbe difficile per il paese inseguitore introdurre e sfruttare i vantaggi derivanti dalle

tecnologie avanzate del paese leader37.

Tra le social capabilities necessarie un posto di rilievo è sicuramente occupato dalle capacità di

assorbimento e di apprendimento di una determinata tecnologia, che determinano la possibilità

di un paese di sfruttare la tecnologia prodotta all’estero, oltre che la capacità di sviluppare

internamente conoscenza. Questa capacità dipende in maniera cruciale dalla qualità e dalla

34 J. Fagerberg, Technology and International Differences in Growth Rates, in Journal of Economic Literature, Vol.

32, no. 3, 1994, pp. 1156-1159. 35 M. Abramovitz, Catching up, Forging Ahead, and Falling Behind, in Journal of Economic History, Vol. 46, no.

2, 1986, pp. 405-406. 36 F. Barbiellini Amidei, J. Cantwell, A. Spadavecchia, Innovazione e tecnologia straniera, in G. Toniolo (a cura

di), L’Italia e l’economia mondiale, dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio Editori, 2013, pp. 526-529. 37 M. Abramovitz, The Origins of the Postwar Catch-Up and Convergence Boom, in J. Fagerberg, B. Verspagen,

N. von Tunzelmann (a cura di), The Dynamics of Technology, Trade and Growth, Aldershot, Elgar, 1994, pp.

23-26.

55

quantità di capitale umano disponibile in un dato paese.

Quindi, invece di assumere che la crescita economica italiana sia stata un processo automatico,

bisogna concentrarsi sui fattori che l’hanno resa possibile. Utilizzando strumenti di Contabilità

della crescita, si può determinare quale sia stato il ruolo dei fattori lavoro e capitale e quale

quello della TFP. Nel caso italiano emerge che un ruolo notevole è attribuibile alla TFP, in

misura molto maggiore, come vedremo nel prossimo paragrafo, rispetto a tutti gli altri paesi

avanzati.

Sono due le tesi più gettonate per spiegare questo forte aumento della TFP. La prima è quella

che la collega al cambiamento strutturale dell’economia italiana, mentre la seconda è quella che

la fa risalire alle dinamiche innovative. Secondo i fautori della tesi del cambiamento strutturale,

l’aumento della TFP sarebbe da ricondurre allo spostamento di lavoratori dal settore agricolo,

caratterizzato da bassa produttività, verso il settore industriale a più alta produttività, che ha

fatto crollare gli addetti dall’agricoltura, passati dal 44,3% del totale nel 1951 al 17,7% del

197338. Producendo la maggior parte dell’aumento di efficienza complessiva del sistema.

Diversi autori hanno provato una misurazione di tale fenomeno, cercando specificatamente di

quantificare l’effetto che il cambiamento strutturale ha avuto sui tassi di crescita annui della

produttività del lavoro. Crafts, Magnani (2013), riprendendo i dati degli Studi di van Ark (1996)

e Broadberry (1998), affermano che il cambiamento strutturale abbia avuto un effetto positivo

sull’aumento della produttività compreso tra lo 0,80% e l’1,80% annuo, nel periodo 1950-1973,

a fronte comunque di una crescita annua della produttività maggiore del 5%39.

Secondo Broadberry, Giordano, Zollino (2013), l’effetto del cambiamento strutturale è stato

nell’ordine del punto percentuale sia nel periodo 1951-1973 che nel periodo 1973-1993.

Ridimensionando il ruolo del cambiamento strutturale, questi autori affermano che sia stata la

crescita all’interno dei settori, trainata dalle dinamiche innovative, a influenzare maggiormente

la crescita della TFP.

Antonelli, Barbiellini Amidei (2007) giungono a considerazioni analoghe, riducendo nei loro

calcoli ancora di più il ruolo che avrebbe avuto il cambiamento strutturale. Allora, senza

sminuire l’importanza del cambiamento strutturale, ma attribuendogli il giusto peso, è

necessario evidenziare come la crescita della TFP sia maggiormente attribuibile alle dinamiche

38 S.N. Broadberry, C. Giordano, F. Zollino, La produttività, cit., pp. 278-279. 39 N. Crafts, M. Magnani, L’Età dell’Oro e la seconda globalizzazione, cit., pp. 106-107.

56

innovative presenti nell’economia italiana, soprattutto in alcuni settori chiave che hanno fatto

registrare performance elevate lungo tutto il periodo considerato. A questo punto bisogna

assumere, non solo che l’innovazione sia un elemento importante nella spiegazione della

performance economica italiana, ma che essa ne sia un elemento centrale.

Ora si rende necessario indagare su come si siano svolti questi processi innovativi e quali siano

state le loro peculiarità. Poiché, come già anticipato, se considerassimo solamente le attività

riconosciute abitualmente come portatrici di innovazione, cioè Ricerca e Sviluppo e attività

brevettuale, non si potrebbe affermare che queste dinamiche siano centrali nella spiegazione

della crescita economica italiana, vista la differenza che intercorre tra i livelli di tali attività

dell’Italia e quelli degli altri paesi avanzati.

2.2 Misurare l’innovazione

Nonostante i limiti ed i dubbi che gravano sull’impiego della misurazione della TFP, essa

rimane largamente usata, essendo una delle poche misure in grado di cogliere gli effetti

dell’attività innovativa nel sistema economico. Infatti quasi tutte le statistiche utilizzate per

descrivere l’attività innovativa sono relative ai suoi input e si riferiscono, ognuna di esse, solo

a specifiche parti dell’attività innovativa stessa. Molto più difficile, in un sistema economico

complesso, è isolare gli effetti di questi input. Invece la TFP ci consente di stimare, in via

approssimativa, il risultato di tutta l’attività innovativa nel sistema economico. Quindi mi

sembra giusto usarla, così come fanno la maggior parte degli economisti, al fine di stimare

quanto l’innovazione ha influito sullo sviluppo economico italiano.

Allora se si può considerare la crescita della TFP come una misura abbastanza affidabile del

risultato del processo innovativo nel sistema economico, procediamo con lo studio delle sue

dinamiche temporali in Italia e in alcuni paesi europei. Facendo questo abbiamo la possibilità

di respingere un’altra tesi che minimizzava il ruolo dell’innovazione nel processo di crescita,

ovvero quella che ipotizzava il processo di convergenza come derivante essenzialmente dalla

crescita della dotazione di capitale. Essendo la TFP calcolata in via residuale, tolti il contributo

del capitale e del lavoro alla crescita, è facile affermare che la TFP è stata più importante

dell’aumento della dotazione di capitale, anche se in questo caso tra i due fenomeni c’è stata

forte complementarietà, poiché, come vedremo successivamente, l’importazione di macchinari

57

con tecnologia incorporata avanzata ha avuto ruolo fondamentale per le dinamiche innovative

italiane40.

Tabella 2.1: Tasso di crescita del Prodotto Reale, TFP e contributo della TFP alla crescita del prodotto in

Italia, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna E Stati Uniti, nei sottoperiodi 1951-1990

Italia Francia Germania Giappone

Gran Bre-

tagna Stati Uniti

1951-1973

Prodotto (reale) 5,2 5,6 6,3 9,8 3,7 3,7

TFP 3,4 3,1 3,5 4,1 1,9 1,2

Contributo della TFP alla

crescita del prodotto

64,3 56,1 55,1 41,4 51,4 31,5

1960-1990

Prodotto (reale) 4,1 3,5 3,2 6,8 2,5 3,1

TFP 2 1,5 1,6 2 1,3 0,4

Contributo della TFP alla

crescita del prodotto

47,9 41,4 49,4 28,8 51,9 13,2

Fonte: C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., p. 200.

Per un confronto internazionale ho trovato dati che non coincidono perfettamente con la

partizione temporale che ho proposto, ma riescono perfettamente a dare un’idea delle

prestazioni dell’Italia nei confronti dei maggiori paesi avanzati. Quello che emerge, analizzando

l’andamento internazionale della TFP dal dopoguerra fino agli anni Novanta41, è che l’Italia

risulta il paese in cui la crescita della TFP influisce maggiormente sull’aumento del PIL,

soprattutto nel periodo dell’Età dell’Oro. Infatti, come si può vedere dalla tabella 2.1, anche se

40 Ma l’aumento dei livelli di capitale può avvenire senza che essi costituiscano mezzi per l’innovazione, poiché

potrebbero non incorporare tecnologia avanzata che rappresenta un’innovazione. Inoltre guardando alle

statistiche elaborate da Broadberry, Giordano, Zollino (2013) vediamo che il ruolo dell’aumento di capitale

per occupato ha un ruolo nettamente minore nel spiegare la crescita della produttività del lavoro nel periodo

rispetto a quello della TFP. 41 Per i dati sul tasso di crescita della TFP degli Stati della Tabella 2.1 mi sono affidato ai dati proposti da [1] C.

Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., p. 200; effettuando una verifica

incrociata con i dati proposti da [2] N. Crafts, G. Toniolo, Postwar growth: an overview, in N. Crafts, G.

Toniolo, Economic Growth in Europe since 1945, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, pp. 8-10. I

dati coincidono nell’identificazione dei trend e nella misura, tranne che per l’Italia dove c’è una sovrastima

proporzionale in entrambi i periodi da parte di [2], di circa il 40% rispetto alle misure inserite in tabella.

58

l’Italia nel periodo 1951-1973 non ha la TFP maggiore in valore assoluto, risulta comunque il

paese in cui essa contribuisce in misura maggiore all’aumento del PIL. Inoltre, nel lungo

periodo successivo, che va dal 1960 al 1990, la crescita della TFP italiana, nonostante un vistoso

rallentamento, è la più alta assieme a quella del Giappone, con un contributo percentuale

all’evoluzione del PIL ancora alto.

Il fatto che, in entrambi i periodi, la crescita della TFP è da considerare la maggiore responsabile

dell’aumento del PIL, potrebbe essere spiegato affermando che l’efficienza totale del sistema è

aumentata fortemente grazie all’innovazione, maggiormente rispetto agli altri paesi.

Gli Sati Uniti sono quelli con il contributo minore poiché, essendo il paese leader, si trovavano

già in condizioni di prossimità alla frontiera tecnologica42.

Tabella 2.2: Tasso di crescita della TFP, e Quota della crescita del valore aggiunto spiegata da diversi fattori:

lavoro, capitale, TFP, 1951-1988

Tasso crescita TFP

Quota della crescita del Valore Aggiunto spiegata da:

Lavoro Capitale TFP

1951-1963 3,6 16,4 25,2 58,4

1951-1973 3,3 9,8 29,3 60,9

1964-1973 2,9 7,8 40,2 52,1

1974-1988 1,0 22,5 43,1 34,4

Fonte: C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 202-203.

Per addentrarci nell’analisi dell’Italia possiamo proporre, nella Tabella 2.2, un’altra partizione

temporale, più consona alla periodizzazione che abbiamo adottato precedentemente. Guardando

a quali fattori tra lavoro, capitale e TFP abbiano influito maggiormente sulla crescita del valore

aggiunto italiano43, possiamo notare ancora di più la differenza nel passaggio tra i due periodi:

42 Infatti è più difficile innovare quando si è alla frontiera poiché bisogna modificarla per ottenere delle innovazioni

ulteriori, non essendo possibile acquisire tecnologia più avanzata in altri paesi perché non è presente, visto che

è la nostra quella più avanzata. Inoltre negli Stati Uniti la TFP è stata elevata in molti periodi del secolo scorso,

coerentemente con il fatto che la crescita è stata trainata da ondate di innovazioni successive e le frontiere

tecnologiche venivano spinte sempre più avanti. 43 Per i dati sul tasso di crescita della TFP italiana dei periodi considerati mi sono affidato ai dati proposti da [1]

C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 202-203; effettuando una

verifica incrociata con i dati di altri due serie di dati proposte da [2] N. Crafts, G. Toniolo, Postwar growth:

an overview, cit., pp. 8-10; e [3] S.N. Broadberry, C. Giordano, F. Zollino, La produttività, cit., pp. 295-302.

Mentre per le fonti [1] e [3] c’è praticamente perfetta coincidenza nei dati, in [2] c’è una sovrastima, del 35-

36% in entrambi i periodi, che però non altera l’evidenza del trend nei diversi periodi.

59

l’Età dell’Oro, dove la crescita della TFP è vigorosa, 3,3% annuo, e spiega la maggior parte

dell’aumento del valore aggiunto, e la fase del rallentamento dove la dinamica della TFP crolla,

1,1% annuo, assieme alla diminuzione della percentuale di crescita del valore aggiunto spiegata

dalla TFP.

Le dinamiche del periodo del rallentamento possono essere così spiegate: il contributo del

capitale aumenta grazie ai massicci investimenti derivanti dal processo di ristrutturazione

portato avanti dalle industrie italiane, avvenuto tramite l’introduzione di macchine fortemente

labour saving, che consentono di poter usare meno fattore lavoro, diventato terribilmente caro.

Invece, il contributo maggiore del lavoro alla crescita del valore aggiunto, potrebbe essere

spiegato come l’effetto del passaggio di molti lavoratori al settore dei servizi.

Comunque, il ruolo del lavoro risulta sempre marginale, in tutto il periodo che va dal

dopoguerra al 1990, se confrontato con gli altri paesi avanzati, poiché in tutto l’arco di tempo

non si registrano apprezzabili miglioramenti nella qualità del capitale umano44.

Visto che l’aumento della TFP è essenziale per spiegare il tasso di crescita economica italiana

e che la maggior parte di questo aumento dipende alle dinamiche innovative che il sistema

economico italiano ha saputo produrre, proseguo la trattazione con l’analisi delle attività che

possono essere state promotrici di tale innovazione.

2.3 L’attività di Ricerca e Sviluppo

Le statistiche relative alle spese in Ricerca e Sviluppo (R&S) sono state ritenute, per molto

tempo, l’indicatore più importante per valutare l’attività innovativa, sia a livello di impresa che

di paese. Tuttavia, negli ultimi anni, è stato giustamente riconosciuto che esse sono utili per

descrivere solamente una parte della più complessa gamma di attività intraprese allo scopo di

produrre conoscenza tecnologica e introdurre innovazioni tecnologiche nel sistema economico.

Infatti le statistiche relative a queste spese sono più idonee a descrivere lo sforzo innovativo

intrapreso dalle grandi imprese e dai laboratori di ricerca, piuttosto che l’attività delle PMI,

all’interno delle quali prevalgono attività innovative non formalizzate.

44 C. Dougherty, D.W. Jorgenson, International Comparisonons of the Sources of Economic Growth, in The

American Economic Review, Vol. 86, no.2, 1996, pp. 25-29; nel periodo 1960-1989 la crescita dovuta ad un

miglioramento della qualità del lavoro è pari al 3,4%, che risulta essere una percentuale nettamente inferiore

a tutti i paesi G7, che superano tutti il 10%, fatta eccezione per la Germania, che comunque si attesta all’8,9%.

60

Le serie statistiche riguardanti le spese in R&S dell’Italia, disponibili dal 1963 in poi, sono

utilissime per confermare la periodizzazione dell’andamento economico italiano proposta nel

primo paragrafo e per cogliere quella che è una caratteristica di lungo periodo dell’economia

italiana, ovvero la scarsità di risorse destinate alla R&S in confronto agli altri paesi avanzati.

Analizzando l’evoluzione temporale di tali spese in rapporto al PIL, figura 2.5, risulta chiaro

come sia possibile distinguere chiaramente alcune fasi. Tra il 1963-1973 si registrano evidenti

segni di vitalità con una crescita costante delle spese in R&S che arrivano a rappresentare lo

0,8% del PIL, sintomo di uno sforzo volto a dotare l’Italia di una propria base tecnologica. Però

questo tentativo viene presto interrotto visto che, nel proseguo degli anni Settanta, le spese di

R&S smettono di crescere, facendo registrare un’elevata volatilità. Negli anni Ottanta si verifica

un processo di crescita continua che riesce a portare la quota di spese fino all’1,25% nel 1990.

Questo trend positivo viene bruscamente interrotto da una forte decrescita all’inizio degli anni

Novanta che riporta il rapporto al di sotto del punto percentuale. Con il secondo lustro degli

anni Novanta la caduta si arresta e comincia una lieve risalita, si raggiunge un livello comunque

insufficiente per un paese che ambisce a rimanere una delle economie più avanzate a livello

globale.

Figura 2.5: Spese in R&S in % sul PIL, periodo 1963-2007

Fonte: mie elaborazioni su dati ISTAT, L’Italia in 150 anni. Sommario di statistiche storiche 1861-2010, Roma, ISTAT, 2011, pp. 837-840.

0,2%

0,4%

0,6%

0,8%

1,0%

1,2%

1,4%

Spese in R&S/PIL

61

La periodizzazione che emerge è coerente con quella già delineata per il fenomeno di

convergenza verso il livello di ricchezza degli Stati Uniti: la rincorsa dell’Età dell’Oro, la

crescita della turbolenza e, infine, il riaprirsi del divario negli anni Novanta.

La diminuzione drastica delle spese di R&S dell’ultimo decennio del secolo avviene in un

momento cruciale, ovvero quando il cambiamento tecnologico aumenta di intensità e le

opportunità tecnologiche si moltiplicano. Per questo è possibile parlare di occasione perduta e

di un chiaro segnale di debolezza del sistema economico italiano, poiché per sfruttare tali

opportunità sarebbe stato necessario aumentare notevolmente le spese destinate alla R&S, non

ridurle.

Figura 2.6: Spese in R&S sul totale del PIL, periodo 1962-1991

Fonte: mie elaborazioni su dati OECD, http://stats.oecd.org/; C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e

mutamento strutturale, cit., pp. 74-75; per i dati precedenti al 1981.

Nel confronto internazionale l’Italia non si caratterizza certamente per una buona performance,

soprattutto se paragonata agli altri paesi avanzati. La figura 2.6 indica l’ammontare delle risorse

destinate alla R&S rapportate al PIL di alcuni paesi avanzati. Come si può facilmente notare,

l’Italia, per tutto il periodo considerato, si caratterizza per livelli molto bassi di spesa. Gli altri

paesi spendono in R&S il doppio, o addirittura di più, come nel caso di Stati Uniti e Giappone,

rispetto all’Italia.

0

0,5

1

1,5

2

2,5

3

3,5

Francia Germania Italia Giappone Regno Unito Stati Uniti

62

Per analizzare la qualità della R&S svolta possiamo suddividerla in tre categorie: ricerca di base,

ricerca applicata e ricerca di sviluppo. Un sistema economico che predilige la ricerca di

sviluppo si prefigge lo scopo di ottenere risultati certi nel breve periodo, riuscendo ad adattare

le tecnologie messe a punto altrove alle specifiche condizioni dell’impresa o realizzando

innovazioni incrementali. Invece chi predilige la ricerca di base si prefissa di raggiungere

risultati di lungo periodo, poiché, nonostante tale attività sia altamente incerta, la conoscenza

prodotta potrebbe avere un potenziale di crescita dirompente, rappresentando la base per

innovazioni radicali. I paesi che investono in ricerca di base mirano a costruirsi una solida base

tecnologica e di conoscenza, che potrà sostenere una crescita futura stabile45.

A partire dal 1963 l’Italia sembra orientata, facendo un raffronto internazionale, a perseguire

un buon livello di ricerca di base, ovvero circa il 25% del totale delle spese di R&S. Dagli anni

Settanta, tuttavia, la situazione peggiora drasticamente fino ad arrivare alla quota minima

dell’inizio degli anni Ottanta, dove la ricerca di base rappresenta solamente il 15% del totale,

finanziata quasi interamente dal settore pubblico46. A partire dagli anni Novanta il livello della

ricerca di base si avvicina nuovamente, in termini percentuali, a quello degli altri paesi

industrializzati, ma il problema, come già visto, riguarda l’ammontare totale delle risorse, che

in Italia sono nettamente inferiori47. Questo sembra confermare il fatto che negli anni Sessanta

ci sia stato un tentativo di emancipazione tecnologica, caratterizzato da un grosso sforzo volto

allo sviluppo di una solida base tecnologica. Ma questo tentativo ha avuto un risultato

fallimentare, con la conseguenza che le attività innovative e la R&S si sono concentrate

maggiormente nella ricerca di sviluppo e nell’adozione e adattamento di tecnologie sviluppate

altrove.

L’andamento delle spese in R&S complessive italiane rispecchia fedelmente quelle delle

imprese, facendo emergere, invece, una certa stabilità delle spese di R&S finanziate

45 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 63-67; la ricerca di base è

perpetrata a scopi puramente conoscitivi, senza avere una finalità insita. Il risultato è altamente incerto ed è

alta la possibilità che si finisca per non raggiungere alcun risultato. Ma è da tale ricerca che arrivano i risultati migliori, visto che produce conoscenza in grado di portare all’introduzione di innovazioni radicali. La ricerca

applicata è volta ad acquisire conoscenza ma è guidata da un obiettivo specifico. La ricerca di sviluppo serve

per adattare una tecnologia a specifiche condizioni o per rielaborare delle conoscenze già acquisite per mettere

a punto innovazioni incrementali, varianti e perfezionamenti. 46 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 63-67; F. Barbiellini Amidei,

J. Cantwell, A. Spadavecchia, Innovazione e tecnologia straniera, cit., pp. 557-560; nella ricerca di base c’è

la quasi totale mancanza di finanziamento da parte delle imprese private, questo fatto si può spiegare anche

con la particolare classe dimensionale e specializzazione delle imprese italiane: tante piccole e medie imprese

nei settori tradizionali e moderni, invece che grandi aziende a forte base scientifica con laboratori. 47 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 63-67.

63

pubblicamente. Infatti sono proprio le imprese che sostengono la crescita della R&S nell’Età

dell’Oro e causano la volatilità e il rallentamento degli Anni Settanta. Successivamente sono le

imprese, soprattutto pubbliche, che trainano la crescita degli Anni Ottanta, e sono le

privatizzazioni di quest’ultime, unite a tagli alla ricerca pubblica, che determinano il crollo degli

Anni Novanta48.

Nonostante le imprese siano in grado di determinare l’andamento delle spese in R&S

complessive italiane, esse vi contribuiscano solamente nella misura del 50-55%, cioè in maniera

inferiore rispetto al comportamento delle imprese negli atri paesi avanzati che, in media, vi

contribuiscono nella misura del 60-65%. Questa considerazione, unita al fatto che le spese in

R&S complessive italiane risultano molto basse, ci fa capire come le imprese italiane destinano

veramente pochissime risorse alla R&S rispetto alle loro concorrenti estere49. Questa situazione

perdura lungo tutto l’arco temporale analizzato, consentendoci di affermare che la scarsa

propensione alla R&S delle imprese sia uno dei punti deboli del sistema produttivo italiano50.

Comunque anche il finanziamento pubblico della R&S non è esente da critiche, poiché molti

sostengono che le sovvenzioni pubbliche, non essendo perfettamente congeniate e amministrate,

abbiano avuto l’effetto di finanziare attività di R&S che le imprese italiane avrebbero svolto

anche in assenza di tali sovvenzioni, spiazzando la spesa privata con quella pubblica51.

Per quanto concerne la distribuzione settoriale delle spese di R&S, vediamo che la maggior

parte di esse risulta essere stata finanziata dal settore manifatturiero. All’interno di questo, i

comparti che hanno sostenuto maggiori spese sono la chimica, i mezzi di trasporto, l’elettronica

e la meccanica. Nonostante ciò, nel confronto con gli stessi comparti dei paesi avanzati, emerge

che le spese delle imprese italiane sono solamente il 20-40% di quelle delle imprese estere,

quantificando il ritardo dell’industria italiana nell’attività di produzione tecnologica52 . Le

industrie tradizionali sono caratterizzate da bassissimi livelli di R&S, anche perché si avvalgono

maggiormente di innovazioni incorporate in macchinari, fenomeno che le statistiche in R&S

non sono in grado di cogliere53.

48 F. Barbiellini Amidei, J. Cantwell, A. Spadavecchia, Innovazione e tecnologia straniera, cit., pp. 557-560. 49 Tra l’altro queste spese risultano fortemente concentrate in poche industrie, alla fine degli anni Sessanta il 77%

delle spese di R&S delle imprese era realizzata dal 10% delle imprese. Anche misurazioni più recenti

affermavano che a metà anni Ottanta le 5 più grandi imprese italiane realizzavano da sole il 46% delle spese

totali. 50 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 72-77. 51 Ivi, pp. 77-82. 52 Ivi, pp. 85-87. 53 Ivi, pp. 89-94.

64

In conclusione quello che emerge è un forte ritardo strutturale dell’Italia nell’attività di R&S:

il divario nei confronti degli altri paesi avanzati è elevato e perdura nell’arco del tempo,

nonostante l’Italia sia diventata uno dei paesi più ricchi a livello mondiale. Le imprese, anche

se il settore pubblico non è esente da colpe, sono le maggiori responsabili di questo ritardo.

Molti affermano che questo divario dipenda dalla specializzazione produttiva dell’Italia e dalla

dimensione delle imprese, poiché, essendo solitamente le grandi industrie che operano in settori

produttivi a forte base scientifica a sostenere la maggior parte di tali spese, il sistema italiano

caratterizzato da PMI in settori tradizionali e intermedi non è adatto a svolgere elevata attività

di R&S.

Nonostante la specializzazione e la dimensione delle imprese siano effettivamente delle

determinanti negative per l’attività di R&S, esse non bastano per fornire un alibi convincente

alle imprese italiane. Questo perché, se facciamo analisi che comparano le imprese italiane e

quelle degli altri paesi avanzati, facendo in modo da rendere neutrale la classe dimensionale

delle imprese e la loro specializzazione, otteniamo una riduzione del divario nell’attività di

R&S, ma comunque la distanza con le imprese estere rimane elevata54. Quindi emerge che

anche le grandi imprese italiane nei settori idonei a svolgere maggiori attività di R&S non hanno

fatto la loro parte. Sono solo pochissime le medie e grandi imprese che reggono il confronto a

livello internazionale, ma possiamo considerarle come poche oasi in un deserto sterminato.

Ma comunque dobbiamo sottolineare che le attività di R&S non sono sufficienti per descrivere

la totalità dello sforzo innovativo di un sistema economico, ed in particolar modo di quello

italiano, poiché rappresentano solo una delle molte attività da cui dipendono la produzione di

conoscenza tecnologica e l’introduzione di innovazioni.

2.4 L’attività brevettuale

Come le spese in R&S sono state generalmente usate per misurare l’input dell’attività

innovativa, l’attività brevettuale è stata usata come riferimento per misurarne l’output. Così

facendo, però, si corre l’analogo rischio di analizzare solamente una parte dello sforzo

innovativo prodotto nel sistema economico. Infatti, l’attività brevettuale, così come le spese di

54 M. Bugamelli, L. Cannari, F. Lotti, S. Magri, Il gap innovativo del sistema produttivo italiano: radici e possibili

rimedi, Banca d’Italia, Questioni di economia e Finanza no. 121, 2012, p. 14.

65

R&S, sono indicatori di attività portate avanti, nella maggioranza dei casi, dalle grandi imprese

con laboratori che operano in settori con forte base tecnologica. Tuttavia, per completare

l’analisi di questa parte di attività innovativa, che potrebbe essere definita come il sistema

“convenzionale” di innovazione, è importante analizzare la produzione brevettuale.

Principalmente le misurazioni dell’attività brevettuale avvengono tramite le statistiche sui

brevetti concessi negli Stati Uniti all’United States Patent and Trademark Office (USPTO).

Questa è una prassi che si è affermata nel tempo nella comunità scientifica per vari motivi; tra

questi possiamo annoverare il fatto che gli USA sono stati, e sono ancora, il paese

tecnologicamente leader, oltre ad essere il mercato in cui avvengono gli scambi di tecnologia

ed in cui la protezione nei confronti del depositario del brevetto è veramente efficace.

Se, per condurre tale analisi, si considerasse il numero di brevetti in termini assoluti, dovremmo

constatare che l’Italia aumenta notevolmente il numero di brevetti nell’arco del periodo,

lasciando pensare ad una buona performance. Invece questo dato è fuorviante, poiché tale

aumento fa parte di un trend generalizzato a livello mondiale, connesso all’avanzare della

globalizzazione ed al progresso scientifico. Per evitare tale errore, analizzerò l’evoluzione dei

brevetti italiani in termini relativi, comparandoli cioè con il numero di brevetti ottenuti

all’USPTO dagli altri paesi del mondo, senza considerare quelli ottenuti dai padroni di casa, gli

Stati Uniti.

Come si può vedere dalla figura 2.7, il distacco dell’Italia nei confronti dei paesi europei è

molto elevato in tutto il periodo. La nostra performance somiglia in maggior misura a quella di

paesi con pochi abitanti, come l’Olanda, invece che a quella di paesi con dimensioni analoghe

alle nostre, come Germania e Francia. Appare evidente come i nostri risultati non siano adeguati

alle dimensioni della nostra economia. Questo si può affermare nonostante la tendenza del

periodo in questione sia stata quella di una riduzione del gap rispetto ai principali paesi europei

che, comunque, non sembra tanto dovuta a nostri miglioramenti. Infatti è dovuta al fatto che, le

quote degli altri paesi, che partivano da livelli molto più elevati dei nostri, sono state erose

maggiormente dall’avanzata dei paesi asiatici. La nostra quota passa dal 4,06% del 1963 al 2,93%

del 1990, segnando una caduta del 28%, che risulta comunque la decrescita più bassa tra i paesi

considerati nella figura 2.7.

L’andamento più dettagliato dell’attività brevettuale italiana si può vedere nella figura 2.8, che

omette i dati precedenti al 1963, anno nel quale l’Italia raggiunge la quota relativa di brevetti

più alta di tutto il periodo. Si può vedere come, nell’Età dell’Oro, l’Italia riesce ad avere una

66

buona performance che le consente di attestarsi su una quota di brevetti attorno al 4%55. A metà

anni Sessanta comincia una lieve diminuzione che, comunque, continua a garantire il

proseguimento della convergenza verso Germania e Francia. All’inizio degli anni Ottanta si

registra un timido tentativo di risalita che, però, viene subito sostituito da un nuovo processo di

decrescita. La diminuzione diviene più marcata con l’inizio degli anni Novanta, producendo

una dinamica divergente con le quote degli altri paesi avanzati. Il rallentamento degli anni

Ottanta e Novanta coincide con il periodo nel quale, nell’intero sistema economico mondiale,

si produce il massimo sforzo per la produzione di conoscenza scientifica e tecnologica legata

alle nuove tecnologie della comunicazione, informatica ed elettronica. La mancata capacità di

incrementare la produzione brevettuale, o almeno mantenerla costante, in un momento di

transizione tecnologica ha rappresentato uno dei chiari indizi dell’imminente rallentamento

complessivo dell’economia italiana.

Figura 2.7: Quota di brevetti ottenuti all’USPTO, periodo 1963-1990

Fonte: mie elaborazioni su dati USPTO, http://www.uspto.gov/web/offices/ac/ido/oeip/taf/h_at.htm#PartA1_1a.

Nell’analisi settoriale dell’attività brevettuale emergono interessanti considerazioni, prima tra

le quali può essere quella sul settore dell’elettronica. Infatti nei paesi avanzati, nel corso del

periodo analizzato, tale settore rimane stabilmente al secondo posto per i livelli di attività

55 F. Barbiellini Amidei, J. Cantwell, A. Spadavecchia, Innovazione e tecnologia straniera, cit., pp. 535-544.

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

Germania Regno Unito Francia Italia Olanda

67

brevettuale fino agli inizi anni Novanta. Da quel momento raggiunge stabilmente la prima

posizione. Invece, in Italia, l’elettronica occupa stabilmente la terza posizione, con una tendenza

nettamente opposta rispetto ai paesi avanzati: dagli anni Settanta, invece di migliorare le proprie

performance, le peggiora, subendo un crollo all’inizio degli anni Ottanta, proprio agli albori

della formazione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione56 . Infatti,

come si può vedere nella figura 2.8, la quota dei brevetti italiani nel settore dell’elettronica

ottenuti all’USPTO è molto bassa, attestandosi, negli anni Ottanta, attorno all’1,5% del totale,

al di sotto della performance di tutti gli altri settori italiani e fanalino di coda tra le economie

avanzate.

La chimica, invece, nonostante mantenga una quota sopra la media nazionale, affronta una

progressiva de-specializzazione che, comunque, le consente di mantenere una quota accettabile,

attorno al 4%. Il settore dei mezzi di trasporto subisce lo stesso fenomeno di de-specializzazione

nel tempo della chimica, ma al contrario di essa, visti la sua quota di partenza ed il peso che

detiene nel nostro sistema produttivo, non si può dire che mantiene una quota accettabile, anzi

il giudizio è di segno diametralmente opposto. L’unico settore in cui le imprese italiane

sembrano mantenere stabilmente un’elevata capacità brevettuale nel tempo è la meccanica, che

infatti conserva sempre una quota attorno al 3,5%. Assieme alla chimica, esso risulta essere il

settore che ha prodotto il maggior sforzo per dotarsi di una forte base tecnologica e capacità

innovativa per mantenere la propria competitività nei mercati internazionali.

Se invece si guarda agli uffici brevettuali degli Stati europei, l’Italia riesce ad avere una migliore

performance, detenendo quote maggiori di brevetti rispetto all’USPTO. Nonostante ciò, anche

a livello continentale, i nostri livelli non sono assolutamente paragonabili a quelli di Francia e

Germania. La relativamente migliore performance negli uffici continentali dipende dal fatto che

le PMI vi fanno maggiore ricorso vista la vicinanza e le norme meno stringenti57.

Quello che si può desumere da questi dati è che l’Italia non riesce a produrre brevetti nella

misura in cui la dimensione della sua economia ed il suo ritmo di crescita lascerebbero pensare.

Sono solamente pochi i settori che riescono a distinguersi. Tra questi si possono sicuramente

annoverare la meccanica e la chimica, anche se quest’ultima è soggetta ad un progressivo calo.

Invece, appare evidente il fallimento dell’ingresso delle imprese italiane nelle tecnologie

avanzate a prevalente base elettronica.

56 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 109-113. 57 F. Barbiellini Amidei, J. Cantwell, A. Spadavecchia, Innovazione e tecnologia straniera, cit., pp. 535-544.

68

Ma il giudizio sull’attività innovativa non può fermarsi qua, poiché bisogna ricordarsi che

un’analisi basata solo sui dati dei brevetti descriverebbe solo una parte del fenomeno innovativo,

complementare a quello delle spese in R&S. Quindi l’analisi risulterebbe sicuramente inadatta

a cogliere l’attività innovativa del sistema italiano caratterizzato da tante PMI e dalla

predominanza di settori tradizionali senza una forte base tecnologica: per questo proseguirò

analizzando altre attività che possono avere come risultato l’introduzione di innovazioni58.

Figura 2.8: Quota dei brevetti italiani sul totale dei brevetti stranieri concessi dall’USPTO, periodo 1963-1990

Fonte: mie elaborazioni su dati USPTO,

http://www.uspto.gov/web/offices/ac/ido/oeip/taf/naics/naics_stc_fgall/naics_stc_fg.htm.

58 A conferma di questa tesi si può considerare che nell’attività di registrazione di modelli, marchi e disegni, le

performance italiane sono molto migliori rispetto all’attività brevettuale, e il gap con i nostri competitor

europei è molto minore. Infatti le attività di registrazione di modelli, marchi e disegni è il frutto di attività

innovative meno formalizzate, portate avanti soprattutto dalle PMI.

0,5

1,5

2,5

3,5

4,5

5,5

6,5

ITALY Elettronica Elettrico Chimico Meccanica Mezzi di trasporto

69

2.5 Acquistare tecnologia dall’estero

Dopo aver analizzato i due indicatori più usati per descrivere l’attività innovativa, comunque

rappresentativi dello sforzo prodotto internamente alle imprese, proseguo ora con l’analisi dei

mezzi attraverso i quali, le imprese stesse, possono acquisire tecnologia dall’esterno, nel caso

specifico da soggetti di paesi esteri. Per fare questo utilizzo dati relativi alla bilancia tecnologica

dei pagamenti (BTP) dal 1956 al 1990, che registra le operazioni di acquisto e cessione, a livello

internazionale, di R&S, marchi, licenze, brevetti, assistenza tecnica e know-how.

Il saldo di tale bilancia, ovvero la differenza tra gli introiti e gli esborsi, può essere visto come

un indicatore della forza e dell’autonomia tecnologica di un paese. Invece, un’analisi più

accurata delle sue due parti, scomposte nelle loro componenti, può aiutare a descrive lo sforzo

che un paese può compiere per dotarsi di tecnologia oppure le aree in cui un sistema economico

mostra più lacune o punti di forza.

Figura 2.9: Introiti ed Esborsi della Bilancia dei Pagamenti Tecnologici italiana in rapporto al PIL, periodo 1956-

1990

Fonte: C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 132-133.

Nel periodo considerato, come possiamo vedere dalla figura 2.9, si registra una continua

crescita dei volumi di interscambio tecnologico, con il saldo che rimane però costantemente

0,00%

0,05%

0,10%

0,15%

0,20%

0,25%

0,30%

0,35%

0,40%

Introiti Esborsi

70

negativo, essendo gli esborsi nettamente maggiori degli introiti. Fino ai primi anni Settanta c’è

un continuo aumento della quota del Pil destinata all’acquisto di tecnologia estera, che in un

quindicennio sestuplica passando dallo 0,05% del 1956 allo 0,3% del 1972. Nel prosieguo degli

anni Settanta gli esborsi divengono altamente volatili, stabilizzandosi nuovamente nel corso

degli anni Ottanta, dove oscillano tra lo 0,3% e lo 0,35%.

Per quanto riguarda l’altro lato della BTP, ovvero gli introiti, abbiamo un andamento di lenta

crescita, che però li mantiene su una quota molto bassa, infatti si passa dallo 0,02% del PIL del

1956 allo 0,07% del 1972. Successivamente si registra un’impennata che li porta allo 0,13%

del 1977; da allora, e per tutti gli anni Ottanta, comincia una crescita costante che fa raggiungere

la quota dello 0,25% nel 1990. Comunque, nonostante questa vistosa crescita, è da evidenziare

come gli introiti rimangono sempre abbondantemente al di sotto del livello degli esborsi.

Dal quadro tracciato appare come le imprese italiane abbiano profuso un notevole sforzo per

acquisire tecnologia dall’estero, arrivando a spendere fino lo 0,35% del PIL. Questo dato appare

ancora più notevole se consideriamo che la spesa in R&S, nello stesso periodo, non supera per

lungo tempo l’1%, rendendo lampante l’importanza che ha avuto il canale dell’acquisto di

tecnologia estera non incorporata per l’introduzione di innovazioni nel sistema economico

italiano59.

Questo sembra ulteriormente confermato dal fatto che, nel confronto internazionale, l’Italia

risulta molto indietro nelle statistiche relative a R&S, Brevetti ed introiti della BTP, mentre, per

quanto riguarda gli esborsi della BTP, riusciamo a mantenere livelli simili a Germania, Francia

e Gran Bretagna fino all’inizio degli anni Ottanta60.

L’altro dato che sembrerebbe emergere riguarda il progressivo incremento della capacità

dell’Italia di esportare tecnologia, indice di un paese che sta sviluppando una solida base

tecnologica. Per confermare questi dati è utile scomporre le due parti della BTP, introiti ed

esborsi, nelle voci che le compongono e vedere quali di esse prevalgono. I risultati che

emergono da questa scomposizione forniscono un chiaro disegno del ruolo italiano nel mercato

internazionale della tecnologia. Dal lato degli esborsi le voci stabilmente più importanti sono i

59 L’attività di acquisto dall’estero può essere intesa come sostitutiva dell’attività di R&S, difatti si compra ciò che

non si riesce a produrre internamente. Se si considerasse solamente la R&S fatta dalle imprese, gli esborsi

della BTP ne rappresenterebbero quasi il 75%, evidenziando il ruolo sostitutivo svolto da questi ultimi. 60 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 137-140; Gli introiti

rimangono stabilmente al di sotto del 50%, in alcuni anni anche del 75%, rispetto a quelli di Germania, Francia

e Gran Bretagna.

71

brevetti, le invenzioni e le licenze, che messe assieme rappresentano, lungo tutto il periodo

considerato, più del 70% del totale. Dal lato degli introiti queste stesse componenti

rappresentano una parte molto esigua, che appare ancora più scarna se si raffrontano le differenti

dimensioni degli introiti e degli esborsi. La crescita considerevole degli introiti, che parte dagli

anni Settanta, è trainata soprattutto dall’assistenza tecnica, che rappresenta più del 40% degli

introiti61.

Detto questo sembrerebbe corretto affermare che lo sforzo fatto per dotarsi di una base

tecnologica, da parte delle imprese italiane, ci sia stato e sia stato importante. Altrettanto non

può dirsi per la capacità delle stesse di esportare tecnologia visto che, scorporando dagli introiti

l’assistenza tecnica che non rientra tra le attività core della produzione scientifica, la loro

dimensione si riduce notevolmente, rendendo impossibile affermare che l’Italia sia stata

un’esportatrice di tecnologia non incorporata62.

Tutto questo lascia pensare per l’Italia ad una posizione tecnologica di basso livello, visto che

acquista brevetti, invenzioni e licenze che sono la parte science based e di maggior valore

aggiunto della bilancia, mentre esporta maggiormente assistenza tecnica non connessa, legata

più a conoscenza tacita, difficilmente codificabile, acquisibile con l’apprendimento attraverso

l’uso e sicuramente di minor valore.

La medesima conclusione di arretramento tecnologico la possiamo derivare dall’analisi

geografica della BTP: infatti risulta che importiamo soprattutto dai paesi più avanzati, ma

esportiamo maggiormente verso i paesi in via di sviluppo63.

Se scomponiamo la BTP per settori produttivi risulta che il maggiore responsabile del deficit

strutturale tra introiti ed esborsi è il settore dell’elettronica, essendo costantemente responsabile

di quasi la metà del deficit. Si può parlare, in questo caso, dell’elettronica italiana come di un

settore dominato tecnologicamente. Dal lato degli esborsi, assieme all’elettronica, i maggiori

pagatori sono la meccanica e la chimica, che però, al contrario di essa, hanno il pregio di essere

anche tra i maggiori contributori dal lato degli introiti assieme ai settori tradizionali64.

Risulta quindi che l’Italia, soprattutto nei settori più avanzati, è stata incapace a dotarsi di una

forte base tecnologica allo scopo di riutilizzarla per attivare processi interni di produzione della

61 Ivi, pp. 140-142. 62 Visto il basso livello di R&S e brevetti apparirebbe infatti strano che l’Italia riesca ad esportare quelli che sono

prevalentemente i risultati di attività di ricerca formalizzate come brevetti, invenzioni e licenze. 63 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 143-145. 64 Ivi, pp. 146-162.

72

stessa. Comunque, lo sforzo profuso fino alla fine degli anni Settanta, volto all’acquisizione di

tecnologia, ha avuto importanti risultati consentendo il rafforzamento dei settori tradizionali e

dei produttori di macchinari, rendendoli tecnologicamente autosufficienti e aumentandone le

capacità di esportazione.

2.6 L’importanza dei beni capitali

Come abbiamo visto nel primo capitolo, l’immissione di macchinari nel processo produttivo è

considerata, a partire dagli economisti classici, uno dei principali canali con cui le innovazioni

vengono introdotte nel sistema economico. Infatti, l’immissione dei macchinari, che

incorporano una determinata tecnologia, nel processo produttivo di un’impresa comporta, nel

caso in cui la tecnologia incorporata è superiore a quella precedentemente usata, un

miglioramento dell’efficienza produttiva.

Ci sono molti modi in cui l’introduzione di macchinari, e della tecnologia che incorporano, può

portare ad un’innovazione. Principalmente, come abbiamo visto sopra, quest’ultimi apportano

un beneficio diretto in termini di efficienza produttiva se il macchinario introdotto è più

efficiente di quelli precedentemente usati, maggiore efficienza che può assumere varie forme:

minori costi, maggiore velocità o minore necessità di utilizzare lavoratori. In questo caso per la

competitività delle imprese è molto importante la capacità di introdurre velocemente i beni

capitali che incorporano le migliori tecnologie e risultano più efficienti. Non essendo però le

imprese tutte uguali, è difficile che esista una tecnologia universalmente ottimale. Quindi, ogni

impresa deve essere capace di scegliere quel bene capitali che incorpora quella determinata

tecnologia ottimale per le proprie condizioni specifiche, ovvero il mercato in cui compete, la

sua dotazione fattoriale, la sua fonte energetica e le sue altre caratteristiche.

Inoltre, nelle decisioni di scelta di un’impresa, potrebbe influire il fatto che le tecnologie

richiedano, per essere fatte funzionare efficientemente, processi di apprendimento, come visto

nel primo capitolo. Allora è possibile che una tecnologia ritenuta indubbiamente più efficiente

non risulti quella ottimale per una data impresa, poiché potrebbe necessitare di complessi e

dispendiosi processi di apprendimento che abbisognano di ingenti risorse e capitale umano

elevato, fattori di cui l’impresa potrebbe non disporre.

73

Oltre a ciò, successive innovazioni incrementali possono susseguirsi all’introduzione di nuovi

macchinari con tecnologia incorporata. In primo luogo le imprese possono, al loro interno,

modificare attivamente e continuamente le tecnologie in uso, migliorandone l’efficienza e la

compatibilità con le proprie caratteristiche, realizzando quel processo di adozione creativa in

cui imitazione e innovazione sono inscindibilmente legate. In secondo luogo molte volte è

necessario, al fine rendere effettivo ed efficiente l’utilizzo dei macchinari, introdurre

cambiamenti nei processi e nell’organizzazione, che spesso rappresentano un’ulteriore

innovazione.

Inoltre, un meccanismo che garantisce elevati benefici all’intero sistema economico, si verifica

quando vengono introdotte innovazioni a monte di una filiera produttiva, soprattutto se in settori

produttori di macchine per l’industria. Poiché, con la diffusione di questi beni capitali innovati

lungo tutta la filiera, è altamente probabile che le altre imprese intermedie e a valle della filiera

introducano a loro volta innovazioni di processo e di prodotto, moltiplicando gli effetti positivi

dell’introduzione della prima innovazione.

Questi meccanismi appaiono molto adatti a descrivere ciò che è accaduto nell’Età dell’Oro

italiana. Poiché è il periodo in cui, sfruttando l’ampliarsi della domanda proveniente dal

mercato interno e internazionale, che per essere soddisfatta richiedeva un aumento di capacità

produttiva, vengono fatti elevati investimenti che rinnovano la dotazione di beni capitali e la

tecnologia in essi incorporati, abbattendone l’età media 65 . Conseguentemente a questa

massiccia introduzione di macchinari si sono sviluppati i meccanismi sopra descritti

propagando nel sistema economico italiano innovazioni e creando ulteriori stimoli ed

opportunità per migliorare l’efficienza produttiva.

Si può affermare che, in questo periodo, l’introduzione di beni capitali con tecnologia

incorporata, sia importati che nazionali, è risultata il primo canale attraverso il quale le imprese

italiane hanno introdotto innovazioni66. Solamente considerando il canale estero, nel periodo

che arriva fino al 1973, vediamo che l’importazione di macchinari rappresenta una quota del

Pil compresa tra l’1% ed il 2%67 . Molto più della spesa in R&S e degli esborsi della BTP

sommati assieme.

Le importazioni di macchinari rappresentano, soprattutto negli anni Cinquanta e all’inizio degli

65 E.N. Wolff, Capital Formation and Productivity Convergence Over the Long Term, in The American Economic

Review, Vol. 81, no.3, 1991, pp. 565-579. 66 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 170-173. 67 cfr. Penn World Table, https://pwt.sas.upenn.edu/php_site/pwt_index.php.

74

anni Sessanta, una quota molto elevata sia delle attività di investimento totali che delle

importazioni68.

Figura 2.10: Quota di esportazioni su importazioni (in valore) per i settori produttori di macchinari italiani,

periodo 1962-1990

Fonte: mie elaborazioni su dati United Nations Commodity Trade Statistics Database,

http://comtrade.un.org/db/mr/rfCommoditiesList.aspx?px=S1&cc=7.

Progressivamente, dopo gli inizi degli anni Sessanta, anche le esportazioni di beni capitali

diventano un fattore importante. Come possiamo vedere dalla figura 2.11, nel 1962 si raggiunge

la parità, in valore, tra macchinari importati ed esportati. In seguito comincia una dinamica

fortemente favorevole alle esportazioni, soprattutto per quanto riguarda le macchine non

elettriche: negli anni Settanta le esportazioni arrivano a rappresentare il doppio delle

importazioni. Invece il trend per le macchine elettriche è molto meno positivo, anche se in

surplus. Questo dato cambia completamente se scorporiamo dal totale delle macchine elettriche

l’andamento del settore degli elettrodomestici. Infatti possiamo osservare come il settore delle

68 F. Barbiellini Amidei, J. Cantwell, A. Spadavecchia, Innovazione e tecnologia straniera, cit., pp. 547-549; infatti

in questi anni le importazioni di macchinari rappresentano il 20% dell’investimento complessivo negli stessi

macchinari, così come la quota di importazione di macchinari raggiunge anche il 30% del totale delle

importazioni di beni manufatti, quote molto superiori rispetto ad altri paesi avanzati (5 volte gli USA, 3 volte

la Germania e 2 volte il Regno Unito).

0,00

0,50

1,00

1,50

2,00

2,50

Macchine non elettriche Macchine elettriche Macchine elettriche (esclusi elettrodomestici)

75

macchine elettriche ottiene una performance deludente, con un rapporto

esportazioni/importazioni che oscilla attorno alla parità per poi crollare all’inizio degli anni

Ottanta, in linea con l’andamento degli indicatori fin qui analizzati.

Per il settore delle macchine non elettriche comincia a svilupparsi una dinamica fortemente

crescente delle esportazioni, nonostante con prezzi inferiori alle macchine estere.

Successivamente, però, le dinamiche dei prezzi tendono a riequilibrarsi raggiungendo valori

unitari molto simili a quegli degli altri paesi avanzati, sintomo di una riduzione del gap di

contenuto tecnologico tra le macchine italiane e quelle estere69.

Lo sforzo di acquisizione di tecnologia incorporata tramite le importazioni scema a partire dagli

anni Settanta, complice anche lo sviluppo di una industria italiana del macchinario di qualità,

per veleggiare su livelli modesti sul totale delle importazioni per tutti gli anni Ottanta70. Anche

gli investimenti in beni capitali seguono una dinamica simile, attestandosi su livelli modesti in

confronto all’Età dell’Oro.

Quindi possiamo concludere dicendo che, negli anni Cinquanta e Sessanta, c’è stato un notevole

esborso per acquisire macchinari dall’estero, soprattutto da paesi più avanzati tecnologicamente,

ma che questa dinamica si è notevolmente ridotta negli anni Settanta e Ottanta, complici una

generalizzata diminuzione degli investimenti e lo sviluppo di un industria di macchinari italiana

di notevole qualità. Quello che ci interessa è considerare che lo sforzo profuso nell’Età dell’Oro

per acquisire tecnologia incorporata è stato notevole e superiore agli altri paesi avanzati. Invece

nell’età del rallentamento dell’economia italiana questo sforzo si è affievolito, attestandosi su

livelli inferiori agli altri paesi avanzati.

2.7 Istruzione formale e apprendimento informale

C’è sicuramente largo accordo, tra gli studiosi, sul fatto che il livello di capitale umano di un

paese abbia in vari modi un’influenza positiva sulla crescita economica. Partendo da questa

premessa e guardando i dati disponibili sulla materia, appare evidente come la performance di

crescita dell’Italia è stata conseguita senza poter contare su livelli di capitale umano elevati e

69 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 175-177. 70 F. Barbiellini Amidei, J. Cantwell, A. Spadavecchia, Innovazione e tecnologia straniera, cit., pp. 548-549; la

quota delle importazioni di macchinari sul totale delle importazioni arriva al 10%, dato inferiore a quello dei

paesi avanzati considerati nella nota 60.

76

paragonabili con quelli degli altri paesi avanzati. Infatti, come si può vedere dalla figura 2.11,

l’Italia si distingue per un livello di scolarizzazione sempre più basso rispetto a quello degli

altri paesi.

L’Età dell’Oro italiana si è basata, più che su un progresso dell’educazione formale, su uno

stock di conoscenze tacite in settori in cui la conoscenza scientifica ed universitaria non aveva

un ruolo preponderante. Queste conoscenze erano trasmesse attraverso percorsi informali di

formazione e meccanismi di trasmissione delle informazioni all’interno del luogo lavorativo o

nei distretti industriali altamente specializzati71.

Figura 2.11: Livello scolarizzazione (asse x) associato ai livelli di Pil pro capite (asse y), periodo 1960-2010, per

l’Italia (IT), la Germania (GE), il Giappone (GP), gli Stati Unit (US) e la Francia (FR)

Fonte: mie elaborazioni su dati Maddison Project, http://www.ggdc.net/maddison/maddison-project/; International

Educational Attainment Database, http://www.parisschoolofeconomics.eu/en/cohen-daniel/international-

educational-attainment-database/.

71 G. Bertola, P. Sestito, Il capitale umano, in G. Toniolo (a cura di), L’Italia e l’economia mondiale, dall’Unità

ad oggi, Venezia, Marsilio Editori, 2013, pp. 370-374.

GE60

GE70

GE80

GE90

GE00

GE10

FR60

FR70

FR80

FR90

FR00FR10

IT60

IT70

IT80

IT90

IT00 ITA10

GP60

GP70

GP80

GP90

GP00

GP10

OL60

OL70

OL80

OL90

OL00

OL10

US60

US70

US80

US90

US00

3.000

5.000

7.000

9.000

11.000

13.000

15.000

17.000

19.000

21.000

23.000

25.000

27.000

29.000

5 6 7 8 9 10 11 12 13 14

77

La dotazione di lavoratori, che ha sostenuto l’innovazione in Italia, era formata da un buon

numero di ingegneri e diplomati nelle scuole tecniche, fondamentali per poter utilizzare la

tecnologia acquisita dall’esterno, sia incorporata che non incorporata, adattandola

efficacemente alle condizioni specifiche di utilizzo di ogni impresa. Nonostante l’importanza

di queste due categorie di lavoratori e delle loro competenze, non c‘è stato nessun incremento

degli investimenti volto ad aumentarne il numero e la qualità della formazione.

Conseguentemente il numero degli iscritti a ingegneria sul totale degli universitari è rimasto

stabile negli anni Sessanta, per poi calare negli anni successivi, con il risultato che oggi

possiamo vantare un numero di iscritti ad ingegneria, in percentuale, minore alla media

dell’intera Unione Europea72. Lo stesso può dirsi per gli istituti tecnici che, dopo anni di crescita,

dalla metà degli anni Sessanta, hanno visto calare il numero degli iscritti e della qualità,

perdendo importanza all’interno del sistema formativo italiano73.

Quello che sembra emergere è che la crescita italiana si è basata su una componente di capitale

umano con specifiche competenze tecniche ed un sistema di formazione e trasmissione della

conoscenza esterno al sistema formativo istituzionale.

Invece, oggi, il sistema formativo istituzionale è molto più importante e centrale nella

formazione del capitale umano. Poiché quest’ultimo è sempre più la risultante del processo di

apprendimento altamente specialistico effettuato all’interno del sistema formativo istituzionale,

essendo la conoscenza sempre più incorporata nelle persone. Il mancato miglioramento del

sistema universitario, che mantiene elevati gap con gli altri paesi sviluppati, è uno dei motivi

per cui l’Italia stenta ad ottenere delle buone performance economiche. Difatti, la difficoltà

nell’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nel sistema

produttivo, che è uno dei maggiori problemi dell’Italia, è causato dal livello inadeguato di

capitale umano, visto che introduzione e l’utilizzo delle ICT ne richiede un elevato livello, di

cui le imprese italiane spesso non dispongono74.

Sempre dal grafico 2.11 possiamo vedere che, nell’ultimo decennio, il livello di scolarizzazione

italiano sembra aumentato, ma purtroppo questa potrebbe essere una semplice distorsione

statistica dovuta ad una caratteristica peculiare italiana: infatti bisogna considerare il fenomeno

72 F. Barbiellini Amidei, J. Cantwell, A. Spadavecchia, Innovazione e tecnologia straniera, cit., pp. 552-554;

l’Italia nel 2009 aveva una quota di studenti di ingegneria del 9% contro una media UE del 10,1%. 73 Ivi, pp. 554-556. 74 F. Schivardi, R. Torrini, Cambiamenti strutturali e capitale umano nel sistema produttivo italiano, Banca d'Italia,

Questioni di Economia e Finanza no. 108, 2011, pp. 21-22.

78

del lungo tempo trascorso fuori corso dagli studenti universitari, tempistiche che non hanno

uguali nel resto dei paesi avanzati.

Anche per quanto riguarda il numero di laureati l’Italia è sempre stata molto indietro. Infatti, se

guardiamo la figura 2.12, vediamo come il numero di laureati italiani, nella popolazione che va

dai 25 ai 64, è molto inferiore a quello degli altri paesi considerati. Nel 2000 i laureati italiani

sulla popolazione erano meno del 10% contro porzioni superiori al 20% negli altri paesi. Questa

statistica, comprendendo i laureati da fine anni Sessanta ad oggi, è anche un buon indicatore

per considerare il numero dei laureati in prospettiva storica.

È difficile quindi non vedere il sistema di formazione istituzionale, ed i mancati investimenti in

esso, come una delle ragioni per cui l’Italia non è riuscita, e non riesce, a sfruttare le opportunità

connesse alle tecnologie più avanzate sviluppatesi a partire dagli anni Ottanta.

Figura 2.12: percentuale % di laureati sul totale della popolazione 25-64, periodo 2000-2010

Fonte: mie elaborazioni su dati OECD, http://stats.oecd.org/.

2.8 Uno sguardo d’insieme

Sulla base degli indicatori dell’attività innovativa fin qui raccolti, è possibile fare un primo

resoconto sulla loro evoluzione nel tempo, raffrontando la loro consistenza con gli stessi

indicatori degli altri paesi avanzati. La tabella che segue ha esattamente questa funzione.

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

35%

40%

45%

50%

Francia Germania Italia Giappone Olanda Regno Unito Stati Uniti

2000 2005 2010

79

Tabella 2.6: Riassunto indicatori sull’innovazione, periodo 1951-1990

1951-1963 1964-1973 1974-1990

Spese in R&S Rafforzamento adeguato Rallentamento del pro-

cesso di crescita e alta vo-

latilità

Crescita in termini asso-

luti, ma tassi crescita mi-

nori dei paesi sviluppati

Confronto altri paesi avan-

zati

Livello inferiore

Trend convergente

Livello inferiore

Trend convergente

Livello inferiore

Trend divergente

Attività Brevettuale Crescita maggiore con

raggiungimento apice in-

tero periodo

Calo e stabilizzazione Calo deciso, nonostante

tentativo di recupero

all’inizio anni Ottanta

Confronto altri paesi avan-

zati

Livello inferiore

Trend convergente

Livello inferiore

Trend stabile

Livello inferiore

Trend divergente

Esborsi della BTP Sforzo notevole per acqui-

sire tecnologia dai paesi

avanzati

Lieve crescita con alta vo-

latilità

Continua lievemente la

crescita

Confronto altri paesi avan-

zati

Livello simile

Trend convergente

Livello simile/inferiore

Trend lieve divergenza

Livello inferiore

Trend divergente

Acquisto di tecnologia in-

corporata

Livelli di importazione ele-

vati, superiori a quelli de-

gli altri paesi avanzati

Livelli in crescita, sempre

maggiori in prospettiva in-

ternazionale

Livelli assoluti in crescita,

ma meno degli altri paesi

avanzati

Confronto altri paesi avan-

zati

Livello superiore

Trend divergente

Livello superiore

Trend stabile

Livello inferiore

Trend divergente

Capitale umano Adeguato nelle compe-

tenze tecniche, inade-

guato settori avanzati

Livelli inadeguati nei set-

tori science based

Livelli inadeguati nei set-

tori science based

Confronto altri paesi avan-

zati

Livello inferiore

Trend convergente

Livello inferiore

Trend stabile

Livello inferiore

Trend divergente

Total Factor Productivity + 3,6%

+ 2,9%

+ 1%

Confronto altri paesi avan-

zati

Livello superiore

Livello lievemente supe-

riore

Livello inferiore

Crescita economica + 5,75% + 4,82% + 2,5%

Confronto altri paesi avan-

zati

Livello superiore

Livello superiore Livello lievemente supe-

riore

Fonte: elaborazione dei dati nel testo.

80

Quello che emerge da questa comparazione è che il modello “convenzionale” di sistema

innovativo, inteso come quello basato sulle spese in R&S, sull’utilizzazione di elevato capitale

umano e sulla produzione brevettuale, ha avuto in Italia una performance assolutamente scarsa

se confrontato con quello degli altri paesi avanzati. Solo nella prima parte dell’Età dell’Oro c’è

stato un evidente sforzo volto a sviluppare tale sistema innovativo, ma che evidentemente non

ha avuto successo.

Questa valutazione, avendo considerato la crescita della TFP italiana dipendente in maniera

preponderante dalle dinamiche innovative, ci porrebbe di fronte ad un’incoerenza logica: una

forte discrepanza tra le attività intraprese e i risultati ottenuti. Infatti sembrerebbe che siano stati

compiuti pochi sforzi per promuovere il sistema innovativo, ma siano stati ottenuti grandi

risultati di miglioramento dell’efficienza (TFP), da cui deriverebbe l’elevato tasso di crescita

della ricchezza italiana.

Per risolvere questa discrepanza è utile guardare oltre le indicazioni sull’innovazione che ci

pervengono considerando solamente il modello “convenzionale” del sistema innovativo. Solo

così si potrà trovare una correlazione tra le attività intraprese e i risultati raggiunti dall’Italia nel

Dopoguerra.

Quello che emerge è che l’Italia ha compiuto enormi sforzi, superiori alla media dei paesi

avanzati, per dotarsi di tecnologia prodotta all’estero, tramite gli acquisti di tecnologia

incorporata e non. Infatti, nel primo periodo considerato, che va dal 1951 al 1963, l’Italia spende

un’ingente mole di risorse nell’acquisto di tecnologia estera. È sempre negli stessi anni che si

ha il maggior attivismo nell’attività brevettuale e nella crescita del livello di R&S, soprattutto

ricerca di base, sintomo di una volontà di dotarsi di un proprio sistema innovativo

“convenzionale” indipendente, emancipandosi dal resto dei paesi avanzati. La crescita della

TFP e del PIL sono molto elevate, superiori al resto dei paesi avanzati.

Nel secondo periodo, che va dal 1964 al 1973, le varie statistiche legate al sistema innovativo

“convenzionale” subiscono un arresto della crescita, stabilizzandosi su livelli inferiori rispetto

agli altri paesi avanzati. Anche le statistiche legate all’adozione di tecnologia estera rallentano

la loro evoluzione, attestandosi però su livelli simili, se non maggiori rispetto agli altri paesi

avanzati. La crescita dell’efficienza e della ricchezza dell’economia continuano, seppur

rallentando leggermente rispetto al periodo precedente, rimanendo pur sempre superiori al resto

dei paesi avanzati.

È nel terzo periodo considerato, che va dal 1974 al 1990, che tutte le statistiche analizzate fanno

81

registrare un processo di divergenza nei confronti dei livelli dei paesi avanzati75, sia quelle

relative al sistema “convenzionale” che quelle relative al sistema che possiamo definire di

“adozione di tecnologie estere”. La performance dell’economia rallenta notevolmente, facendo

registrare comunque una crescita di livello simile rispetto agli altri paesi avanzati, mentre la

dinamica della TFP risulta minore. Il crollo vero e proprio avverrà con l’avvento degli anni

Novanta.

Quello che emerge è che le attività innovative in Italia sono state piuttosto scarse, se raffrontate

con gli altri paesi avanzati. In particolare il sistema innovativo “convenzionale” appare come

inadeguatamente sviluppato e in netto ritardo. Invece maggiore sforzi, a volte anche superiori

agli altri paesi avanzati, sono stati compiuti per alimentare quel sistema di innovazione che

abbiamo definito di “adozione di tecnologie estere”. Ma rimane ancora un problema di

discrepanza tra l’attività e i risultati, poiché se fosse stata mera adozione, non si spiegherebbe

perché il risultato sia stato maggiore, in termini di TFP e crescita della ricchezza, rispetto ai

paesi da cui adottavamo le tecnologie, essendo anche più durevole nel tempo di quanto ci

potessimo aspettare. Per rispondere alla domanda è necessario analizzare ancora un altro aspetto,

ovvero le prestazioni settoriali e le esportazioni, così da avere ulteriori elementi per formulare

una risposta.

2.9 Uno sguardo alle prestazioni settoriali

Proseguirò ora con un’analisi settoriale di alcune statistiche proposte e della performance

ottenuta nei mercati internazionali, supponendo che i settori che hanno saputo innovare

maggiormente abbiano, di conseguenza, ottenuto buoni risultati nelle esportazioni.

Per quanto riguarda l’attività di R&S risulta che il livello assoluto di spesa, in tutti i settori

produttivi italiani, è inferiore agli stessi settori dei paesi più avanzati. Infatti nei confronti degli

stessi settori produttivi di Germania, Francia e Regno Unito, le spese dei settori italiani risultano

essere costantemente inferiori del 50% o in misura maggiore. Se invece guardiamo a come è

ripartita percentualmente la spesa complessiva all’interno dei paesi, risulta che il settore della

75 La crescita nei loro livelli non deve ingannare, poiché fa parte di un trend generalizzato a livello mondiale, dove

le spese in R&S crescono fortemente, le importazioni aumentano vorticosamente grazie all’intensificarsi dei

commerci e le minori barriere ed il livello di scambio di tecnologia aumenta per il formarsi di un vero e proprio

mercato della conoscenza. Quello che deve importare è che la posizione relativa dell’Italia rispetto agli altri

paesi peggiora notevolmente.

82

meccanica e quello della chimica hanno un’importanza relativamente maggiore rispetto alle

loro controparti nei paesi considerati. Un settore che risulta parecchio arretrato è quello

dell’elettronica, sia perché detiene un livello assoluto di spese in R&S pari al 20-30% rispetto

allo stesso settore di Germania, Francia e Regno Unito, sia perché la quota relativa risulta molto

più bassa76.

Per l’attività brevettuale la situazione è già stata osservata, e come abbiamo visto (paragrafo

2.2.4), il settore chimico e quello della meccanica producono, lungo tutto il periodo considerato,

una quota di brevetti registrati all’USPTO maggiore rispetto alla media italiana, nonostante per

la chimica si assista ad una progressiva de-specializzazione. Per quanto riguarda il settore dei

mezzi di trasporto, pur partendo da una quota sopra la media, si assiste ad un calo lungo tutto il

periodo, una prestazione molto negativa visto il peso che tale settore detiene nel sistema

produttivo italiano. Anche nell’attività brevettuale il settore italiano dell’elettronica conferma i

suoi scarsi risultati, sia se paragonato agli altri settori italiani, ma ancor più in un confronto

internazionale, peggiorando ulteriormente nel tempo, visto che fa registrare un crollo nella

produzione brevettuale negli anni Ottanta, esattamente nel momento di massimo sviluppo del

settore a livello globale77.

Per quanto riguarda la BTP, abbiamo visto che sono i settori della meccanica e della chimica i

responsabili della maggior parte degli introiti, facendo pensare che abbiano raggiunto un buon

livello di produzione tecnologica. Dal lato degli esborsi, invece, sono la meccanica, la chimica

e l’elettronica i settori con maggiori esborsi. Tuttavia, mentre per i settori della chimica e della

meccanica questo è accompagnato da una corrispondente capacità di esportazione, per quanto

concerne il settore dell’elettronica, questa capacità manca, facendo supporre come questo sia

un settore nel quale l’Italia è dominata tecnologicamente.

Per analizzare le esportazioni a livello settoriale useremo la tassonomia proposta da Pavitt78, il

quale suddivide in gruppi omogenei, sotto il profilo della tecnologia, i settori dell’economia.

Egli identifica quattro settori che si differenziano sotto il profilo tecnologico. Per cominciare

76 M.R. Battaggion, A. Falzoni, Gli indicatori della scienza e della tecnologia: un’analisi aggregata, in F. Malerba,

F. Onida, La ricerca scientifica, Roma, SIPI, 1990, pp. 97-145; dati concernenti gli anni dal 1981 al 1985. 77 Ibidem; il settore del macchinario non elettronico rappresenta lungo tutto il periodo il 30% della produzione

brevettuale italiana, la chimica è in calo ed oscilla tra il 15%-20%, l’elettronica assieme al settore del

macchinario elettronico oscillano tra il 15%-18%, appare evidente la performance eccezionale del settore del

macchinario non elettronico. 78 K. Pavitt, Sectoral Patterns of Technical Change: Towards a Taxonomy and a Theory, in Research Policy, Vol.

6, no. 2, 1984, pp. 343-373.

83

abbiamo le industrie science based, caratterizzate da forti investimenti in R&S, operanti in

settori con un’elevata base tecnologica. La competitività è fortemente influenzata dalla capacità

di produrre innovazioni, che solitamente sono di vasta portata e producono effetti su tutto il

sistema economico (chimica, informatica, componentistica elettronica, telecomunicazioni,

aerospaziali).

Il secondo gruppo è quello delle industrie scale intensive, caratterizzato da forti economie di

scala ed elevata intensità di capitale (autoveicoli, elettronica di consumo, gomma, siderurgia).

Il terzo gruppo è quello specialized suppliers, caratterizzato da imprese medio piccole, con alta

diversificazione dell’offerta ed elevata capacità di produrre innovazioni incrementali

(meccanica strumentale, macchine utensili e macchine per l’industria).

Infine vi è il settore supplier dominated che comprende i settori più tradizionali, i quali

acquisiscono innovazione dagli altri settori, tramite macchinari e materiali, e sono influenzati

da competizione sul prezzo, sul design e sulla qualità (legno, tessile, calzature, ceramica)79.

La suddivisione di Pavitt, pur presentando alcuni limiti, ha il suo maggior pregio

nell’identificare i vantaggi competitivi di un paese in relazione a gruppi omogenei di imprese

per quanto concerne i processi innovativi. Infatti all’interno di questa suddivisione non si

rilevano solamente le attività innovative “convenzionali”, ma sono ricompresi gli altri tipi di

dinamiche innovative80.

Come possiamo osservare dalla figura 2.13, i settori che ottengono le migliori performance in

campo internazionale sono quelli tradizionali (dominated by suppliers) che contribuiscono

stabilmente ed in maniera elevata alla bilancia commerciale. L’altro settore che si

contraddistingue è quello e quello specialized suppliers. Invece il settore scale intensive subisce

un crollo lungo il periodo contribuendo, alla fine, largamente al disavanzo della bilancia

commerciale. Il settore science based ha una performance scarsa lungo tutto il periodo,

peggiorando ulteriormente negli anni Ottanta.

79 P. Guerrieri, C. Milana, L’Italia e il commercio mondiale, mutamenti e tendenze nella divisione internazionale

del lavoro, Bologna, Il mulino, 1990, pp. 33-37. 80 Ibidem.

84

Figura 2.13: Evoluzione della specializzazione italiana nel commercio internazionale, indicatore di contributo al

saldo commerciale, periodo 1970-1987

Fonte: mie elaborazioni su dati P. Guerrieri, C. Milana, L’Italia e il commercio mondiale, mutamenti e tendenze

nella divisione internazionale del lavoro, cit., p. 266.

Se si analizzano ancora più in profondità le performance settoriali, vediamo, coerentemente con

quanto fin qui delineato, che la specializzazione italiana è caratterizzata della costante presenza

dei settori tradizionali e dal progressivo rafforzamento del settore della meccanica. Questo è

quello che emerge chiaramente dalla figura 2.14, dove si può vedere l’evoluzione degli indici

di specializzazione delle esportazioni manifatturiere dell’Italia all’inizio e alla fine del periodo

del rallentamento.

Coerentemente con quanto visto precedentemente, anche tramite l’analisi della TFP settoriale,

si può giungere alla conclusione che i settori che hanno avuto il maggiore guadagno di

efficienza complessiva, contribuendo in maniera maggiore alla crescita della produttività del

lavoro e della ricchezza, sono quelli tradizionali assieme alla meccanica e alla chimica81 .

Coerentemente con le altre osservazioni fatte nel corso del capitolo, possiamo dire che sono

stati questi i settori che hanno avuto le maggiori dinamiche innovative, che però non risultano

rilevabili all’interno delle statistiche sull’attività innovativa “convenzionale”, poiché non è

questo il canale tramite il quale queste dinamiche si sono dispiegate.

81 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 229-235.

-10

-5

0

5

10

15

20

25

1970 1973 1976 1979 1982 1985 1987

Dominated by suppliers Scale intensive Specializes suppliers Science based

85

Infatti sono altre le attività che hanno contato maggiormente, come l’importazione della

tecnologia estera, incorporata e non, i processi di adozione della stessa con una notevole

capacità di adattarla alle specificità locali, elevate relazioni tra produttori e utilizzatori che

consentivano mutui benefici, una velocità di diffusione delle innovazioni molto elevata grazie

alle forti relazioni e alla presenza di unità territoriali altamente permeabili come i distretti. È da

sottolineare come la forte opera di adattamento delle tecnologie alle specifiche condizioni locali

e la loro rielaborazione volta a produrre miglioramenti, rendono impossibile parlare di mero

processo di adozione, ma sottolineano la forte capacità di innovare, seppur in maniera

incrementale, usando come base le tecnologie prodotte al di fuori del nostro sistema economico.

Tutto questo va a delineare le caratteristiche delle dinamiche innovative italiane che, non

rientrando nello schema “convenzionale”, sono state per molto tempo escluse dall’analisi

sull’innovazione.

Figura 2.14: Indice di specializzazione nelle esportazioni manifatturiere

Fonte: P. Guerrieri, C. Milana, L’Italia e il commercio mondiale, cit., pp. 108-109.

Ind. Alimentare

Bevande alcoliche e non

Legno e mobilio, carta ed editoria

Industria dei metalli di base

App. e mat. elettrico

Tessile, abb., cuoio e calzature

Prodotti chimici, farmaceutici e

gomma

Derivati del petrolio

Ceramica, vetro e mat. da costruzione

Prodotti in metallo

Macch. agricole ed industriali

Termomeccanica e comp. meccanica

Macch. da ufficio ed elaboratori

App. telecomunicazione e comp. elettrici

Autoveicoli

Navi, treni ed aerei

Ottica e meccanica di precisione

0

50

100

150

200

250

300

1970-1973 1984-1987

86

3 Sistema innovativo o Sistemi innovativi?

Alla luce dei dati fin qui raccolti appare evidente come il sistema innovativo “convenzionale”

italiano non abbia raggiunto risultati paragonabili agli altri paesi avanzati, anzi si è distinto tra

essi come uno dei pochi casi di performance negativa. Allora, visto che è largamente sostenuto

che vi sia una forte correlazione positiva tra l’andamento di questo sistema e la crescita

economica, l’Italia, con le sue eccezionali performance di crescita del PIL e della TFP, rimane

un caso atipico da spiegare.

Figura 2.15: Rapporto tra Brevetti per milione di abitanti (asse y), Spese in R&S/PIL (asse x) e PIL pro capite

(scala a dx), anno 1990

Fonte: mie elaborazioni su dati Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database.

Difatti, come vediamo dalla figura 2.15, che fotografa la situazione alla fine del periodo

considerato in questo capitolo, a fronte di un modesto livello di attività innovativa

“convenzionale” l’Italia ha ottenuto performance simili, o in certi casi maggiori, in termini di

PIL pro capite, rispetto a paesi con livelli di attività nettamente maggiori. Sembra esserci una

effettiva correlazione tra il numero di brevetti e le spese in R&S da una parte e la grandezza dei

cerchi, che rappresentano il PIL pro capite dei paesi. Constatando che la grandezza dei cerchi

87

dovrebbe aumentare con il procedere verso destra e verso l'alto, deduciamo che l’Italia

rappresenta effettivamente un’anomalia tra questi paesi.

Per spiegare le prestazioni dell’Italia bisogna uscire dallo schema “convenzionale” di attività

innovativa, analizzando altre attività che possano essere state portatrici di innovazione o il

risultato di essa, esattamente il tipo di analisi che è stata svolta in questo capitolo. Quindi ora

posso affermare che l’Italia ha prodotto, tramite un sistema “atipico”, un’ottima performance

innovativa, la quale ha influito in maniera cruciale sul processo di crescita economica; questo

è risultato più vigoroso rispetto a quello di altri paesi che, stando a caratteristiche strutturali e

considerazioni comuni, avrebbero dovuto far meglio.

Dai dati e dalle considerazioni presentate nei precedenti paragrafi emerge come l’Italia abbia

sopperito alle scarse performance del sistema innovativo “convenzionale” tramite altre

dinamiche innovative appartenenti ad un sistema parallelo di innovazione basato maggiormente

sull’adozione creativa delle tecnologie, sulle relazioni tra fornitori ed utilizzatori, su elevate

competenze tecniche e sulla dinamicità delle PMI. Queste dinamiche sono ricomprese nel

sistema innovativo che abbiamo precedentemente rinominato di “adozione di tecnologia estera”

o “atipico”.

Uno dei processi innovativi più importanti, che ha caratterizzato la crescita economica italiana

del Dopoguerra, ed è riconosciuto oramai da molti autori, è rappresentato dal circolo virtuoso

che a partire dalla crescita del settore dei beni di consumo tradizionali, ha consentito lo sviluppo

di un dinamico settore dei beni capitali. Riformulato secondo i termini della tassonomia di

Pavitt, questo è il processo per cui lo sviluppo del settore dominated by suppliers ha trainato,

assieme alla concomitanza di altre condizioni, lo sviluppo del settore specialized suppliers.

Il risultato è stato quello di caratterizzare la specializzazione produttiva italiana in un modo che

si è rivelato altamente durevole nel tempo, la cui persistenza la possiamo osservare fino ai giorni

nostri.

Dopo la fine della guerra, l’espansione del mercato interno italiano e del mercato internazionale

ha aumentato notevolmente la necessità di beni di consumo. Conseguentemente le imprese

italiane produttrici di tali beni hanno dovuto sostenere una forte domanda per i loro prodotti,

necessitando di nuovi macchinari per aumentare la capacità produttiva e l’efficienza. Negli anni

Cinquanta, questa alta domanda di beni capitali più efficienti, è stata soddisfatta, in larga misura,

tramite l’importazione di macchinari che incorporavano tecnologia avanzata estera.

88

Ma, allo stesso tempo, i produttori italiani di beni capitali, scorgendo una nitida opportunità

nell’elevata domanda, si sono impegnati notevolmente per riuscire ad acquisire competenze e

tecnologie tali da permettere loro di produrre macchinari qualitativamente simili a quelli che le

industrie produttrici di beni di consumo italiane importavano dall’estero. Come abbiamo visto

(paragrafo 2.6), questo sforzo è evidenziato dall’ingente importazione di tecnologia incorporata

e non, soprattutto sotto forma di brevetti e licenze.

I risultati di questo notevole impegno sono visibili già a partire dai primi anni Sessanta, quando

i macchinari esportati hanno superato in valore quelli importati, nonostante le dinamiche di

prezzo evidenziassero una divergenza verso il basso dei nostri beni capitali rispetto a quelli dei

paesi avanzati. Tali differenziali di prezzo stavano a significare un più basso livello tecnologico

dei nostri macchinari. Ma, con il passare del tempo, queste differenze nei prezzi si sono

riequilibrate, sintomo di un livello qualitativo crescente delle macchine italiane e sempre più

simile a quello dei beni capitali dei paesi avanzati.

Oltre ad una dinamica fortemente positiva della domanda, sono anche altre le ragioni di un così

rapido sviluppo di questo settore; tra queste, è risultata sicuramente molto importante la capacità

delle imprese italiane di adattare le tecnologie estere allo specifico contesto ed alla propria

dotazione fattoriale, cioè con adattamento creativo. L’adozione creativa di una tecnologia si

sostanzia in un processo in cui è necessaria la partecipazione attiva degli adottatori, volenterosi

di aumentare la compatibilità della nuova tecnologia con le specifiche caratteristiche locali

dell’impresa, in termini di mercati, fattori, strutture organizzative e manageriali82. Aumentando

la compatibilità, da questo processo scaturiscono innovazioni incrementali che si sostanziano

in aumenti dell’efficienza complessiva.

L’elevata capacità di adozione creativa si è imposta come un tratto tipico delle imprese italiane,

sia nei settori dei beni di consumo che in quelli dei beni capitali. Questa attitudine è stata

favorita dalla congruenza tra la dotazione di lavoratori e le caratteristiche della tecnologia da

adottare. Infatti le imprese italiane utilizzavano lavoratori con buone capacità tecniche,

acquisite soprattutto tramite l’esperienza, ed un buon numero di ingegneri. Le tecnologie

prevalenti in questi settori erano particolarmente adatte a tale dotazione poiché erano soprattutto

incorporate nei macchinari, facilmente codificabili e acquisibili tramite processi di learning by

doing o by using. Le competenze necessarie all’utilizzo di tali tecnologie erano simili, seppur

82 Ivi, pp. 33-35.

89

molto più complesse, di quelle artigiane in cui l’Italia aveva una grande tradizione.

Conseguentemente le dinamiche innovative maggiori si sono prodotte in quei settori dove la

tecnologia era più congruente con la dotazione fattoriale italiana, ovvero dove le competenze

tecniche e la conoscenza apprendibile tramite l’utilizzo erano maggiormente necessarie. Invece

tali dinamiche sono state minori in quei settori dove era maggiore la necessità di capitale umano

elevato con conoscenza fortemente incorporata, fattore di cui l’Italia scarseggiava.

Un’altra condizione che ha influito in maniera importante sulle dinamiche innovative italiane

può essere identificata nella forte intensità di relazioni tra utilizzatori e fornitori, o più in

generale nelle forti interazioni presenti lungo tutte le filiere produttive, verticali e diagonali.

Queste relazioni e interazioni erano sicuramente facilitate dalla presenza di numerosi distretti

industriali, che molte volte racchiudevano al loro interno tutta la filiera produttiva, oltre che

dalla piccola e media dimensione delle imprese.

Tramite questo elevato grado di interazione veniva trasmesso un notevole flusso di conoscenza

lungo le filiere produttive. Altri ancora erano i benefici di questa struttura fortemente connessa:

tra questi è importante sottolineare come essa consentisse alle innovazioni di diffondersi

velocemente in tutto il sistema. Inoltre, le interazioni tra utilizzatori e produttori consentivano

di produrre continui feedback reciproci che permettevano, ai produttori, di costruire macchinari

più efficienti e, agli utilizzatori, di poter usufruire di macchinari specifici per le loro esigenze.

Tramite l’acquisto di beni capitali le imprese a valle delle filiere introducevano innovazioni di

processo, ma anche loro non si limitavano ad adottare passivamente tali tecnologie incorporate.

Anzi, tramite il processo di adozione creativa, come le imprese a monte, producevano ulteriori

innovazioni incrementali, sia riorganizzando la produzione che migliorando la compatibilità

delle tecnologie con le proprie condizioni specifiche locali.

Grazie a queste condizioni, i settori tradizionali e quelli del macchinario hanno saputo innovare

con continuità nel tempo, migliorando la loro efficienza e mantenendo elevata la loro

competitività internazionale e i loro profitti, rappresentando, ancora oggi, i settori italiani con

maggiore capacità di esportazione.

Quindi il sistema di innovazione parallelo a quello “convenzionale”, che potremmo anche

definire, come fa Malerba, “Network di PMI”83, si è basato su alcuni fattori peculiari, quali il

83 F. Malerba, Il sistema innovativo italiano, in F. Malerba (a cura di), Economia dell’innovazione, Roma, Carocci

editore, 2011, pp. 469-474.

90

processo di adozione creativa, la dotazione di lavoratori con elevate competenze tecniche

congruenti con la tecnologia in uso, le forti relazioni utilizzatori/produttori e la presenza di

molte aziende di piccole e medie dimensioni. Processi in parte simili a quelli descritti si sono

avuti anche nel settore della chimica e dei mezzi di trasporto, ma senza quella continuità e

intensità che hanno contraddistinto le imprese dei settori specialized suppliers e dominated by

suppliers. Inoltre questi due settori, date le loro caratteristiche, avrebbero necessitato di un

grosso sforzo nelle attività del sistema innovativo “convenzionale”, sforzo che evidentemente

è mancato.

Coerentemente a quanto affermato, nei settori science based, dove era maggiormente

importante lo sviluppo del sistema “convenzionale” di ricerca, le dinamiche innovative sono

state scarse.

Per dare coerenza a quanto esposto credo sa giusto riportare alcuni dati relativi alle prime

indagini sull’innovazione, risalenti agli inizi degli anni Novanta. Da esse emergono dei dati che

confermano quanto scritto sopra. L’attività di R&S è effettivamente svolta in maggior misura

dalle imprese dei settori science based e scale intensive, che la ritengono fonte molto più

importante per la generazione di innovazioni rispetto alle imprese dei settori specialized

suppliers e dominated by suppliers84.

Infatti le imprese dei settori specialized suppliers danno un peso maggiore, come fonte

dell’innovazione, ad altre dinamiche, ovvero ai rapporti con i clienti, al reverse engineering85

ed al contributo delle imprese affiliate. L’importanza di questi fattori è molto superiore sia

rispetto alle imprese degli altri settori italiani sia rispetto alla media europea delle imprese

appartenenti alla stessa categoria86.

I settori dominated by suppliers indicano la più importante fonte di introduzione di innovazioni

negli investimenti, infatti essi rappresentano il 59% dei costi innovativi sostenuti da queste

imprese87 . Invece le imprese dei settori specialized suppliers si contraddistinguono per una

84 D. Archibugi, R. Evangelista, L. Nascia, Il ruolo delle piccole e medie imprese nel sistema innovativo italiano,

in C. Antonelli (a cura di), Conoscenza tecnologica: Nuovi paradigmi dell’innovazione e specificità italiana,

Torino, Edizioni FGA, 1999, pp. 147-155; infatti la spesa per addetto in R&S è 16,4 (milioni di lire 1991) nei

settori SB contro 3,6 nei settori SS e 2,2 nei settori SD; così come sul versante dei costi innovativi le spese

per R&S sono il 61% nei settori SB, contro il 35% dei settori SS e il 26% dei settori SD. 85 È il processo tramite il quale si comprende il funzionamento di una macchina scomponendola nelle sue parti e

si riesce ad acquisire le competenze per ricostruirla magari migliorandone le caratteristiche e l’efficienza. 86 F. Malerba, Il sistema innovativo italiano, cit., pp. 464-469. 87 D. Archibugi, R. Evangelista, L. Nascia, Il ruolo delle piccole e medie imprese nel sistema innovativo italiano,

cit., pp. 144-150; contro il 16% dei settori SB e il 34% dei settori SS.

91

quota elevata di spese di progettazione e produzione di prova.

Per quanto riguarda le dimensioni delle imprese appare coerente chiamarlo sistema innovativo

del “Network delle PMI” poiché i settori specialized suppliers e dominated by suppliers sono

effettivamente quelli che hanno una quota largamente maggiore di PMI88.

Quindi le dinamiche innovative in Italia sono state vigorose proprio nel sistema di innovazione

del Network delle PMI, che ha compreso produttori di beni capitali, le imprese dei settori

tradizionali e le imprese dei distretti industriali89. Con la chimica e i mezzi di trasporto che

hanno apportato il loro contributo, ma meno intensamente e in modo più incostante. Tali

dinamiche innovative hanno contribuito in maniera fondamentale alla crescita italiana nel

dopoguerra.

La stessa cosa non si può dire per quanto riguarda il sistema “convenzionale” di innovazione,

che non è riuscito a svilupparsi adeguatamente, anche se, come abbiamo visto, molti sforzi sono

stati compiuti al fine di dotare l’Italia di una propria dimensione tecnologica prossima alla

frontiera. Questo è avvenuto soprattutto negli anni Sessanta, con l’aumento deciso delle spese

di R&S e l’incremento della produzione brevettuale. Ma con il passare del tempo questi sforzi

hanno perso slancio, affievolendosi, mettendo a nudo le difficoltà che le caratteristiche del

sistema economico italiano aveva ad avvicinarsi alla frontiera tecnologica. Già dagli anni

Settanta le dinamiche brevettuali e delle spese in R&S rallentano, e nonostante un tentativo di

recupero all’inizio degli anni Ottanta, prevale la tendenza verso la netta divergenza con i paesi

più avanzati. Anche dal lato del capitale umano non c’è stata una svolta decisa che ci

permettesse di raggiungere, o quantomeno avvicinare, i livelli dei paesi più avanzati (figura

2.11).

Il compito del sistema istituzionale ed economico negli anni successivi al boom economico

sarebbe stato quello di continuare la trasformazione strutturale dell’Italia, consentendole di

proseguire il processo di avvicinamento alla frontiera tecnologica, in modo da emanciparsi dai

paesi avanzati e diventare a tutti gli effetti una potenza economica mondiale.

Per quanto riguarda ciò che rileva l’attività innovativa, questo processo doveva verificarsi

principalmente tramite la promozione di una forte crescita del capitale umano e della R&S. Ma

88 D. Archibugi, R. Evangelista, L. Nascia, Il ruolo delle piccole e medie imprese nel sistema innovativo italiano,

cit., p. 135; le grandi imprese nel settore SB rappresentano il 69%, mentre nei settori SS e SD rispettivamente

il 37% ed il 30%. 89 F. Malerba, Il sistema innovativo italiano, cit., pp. 469-474.

92

l’incapacità di riformare questi aspetti del sistema italiano ha prima rallentato e poi affossato le

pretese di dotarsi di un valido sistema innovativo “convenzionale”. Purtroppo tale fallimento è

conciso con il periodo di transizione tecnologica a livello mondiale, in cui si è passati dalla

predominanza delle tecnologie cosiddette invisibili, tipiche della produzione di massa e con

elevata intensità di capitale fisico, alle nuove produzioni incentrate sulle tecnologie

dell’informazione e della comunicazione, intensive di capitale intangibile.

Le conoscenze tecnologiche, adesso, sono altamente incorporate nelle persone e, nonostante

siano parzialmente codificate e non tacite, esse sono altamente specifiche e al tempo stesso

fortemente condizionate da complementarietà tra diversi campi di conoscenza, non così

facilmente trasmissibili, sviluppate come risultato di investimenti conoscitivi di lungo periodo,

quindi di alti livelli di capitale umano90. Quindi il fallimento nell’elevare la qualità del nostro

capitale umano è risultata ancora più nociva, poiché non ha consentito all’economia italiana di

partecipare a questa trasformazione tecnologica, visto che in molti settori chiave non vi è entrata

o vi è uscita precocemente. Inoltre, data la pervasività delle nuove tecnologie la cui applicazione

è importante per aumentare l’efficienza e mantenere la competitività in tutti i settori produttivi,

il fatto di non poter contare su un livello adeguato di capitale umano, ha rallentato l’adozione e

l’adattamento delle nuove tecnologie, comportando una perdita di efficienza in tutto il sistema

economico. Accumulando forti svantaggi verso i paesi che invece hanno saputo cogliere questa

opportunità.

Conseguentemente si è aperta una nuova fase di divergenza tra la dinamica dell’economia

italiana e quella degli altri paesi avanzati, soprattutto gli Stati Uniti, i quali hanno continuato a

rappresentare il paese leader tecnologicamente. Grazie alla ripresa dell’introduzione di

innovazioni radicali, centrate sulle conoscenze scientifiche e tecnologiche, raggruppate attorno

all’area dell’informatica, dell’elettronica e delle comunicazioni, gli Stati Uniti hanno

accumulato in pochi anni un deciso vantaggio verso i paesi inseguitori. Al loro interno il

processo di cambiamento tecnologico è stato favorito dal fatto che esso avesse una forte

direzionalità verso la dotazione fattoriale più disponibile nel paese, ovvero il capitale umano di

elevata qualità, dotazione che in Italia invece scarseggiava91.

Negli anni Sessanta abbiamo visto che tutte le dimensioni del sistema Italia convergono la loro

crescita lungo una traiettoria comune, rafforzando il processo di crescita complessivo, invece,

90 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 46-47. 91 Ivi, pp. 48-49.

93

negli anni successivi, le varie dimensioni iniziano a svilupparsi lungo percorsi divergenti

portando il sistema ad un elevato livello di incoerenza che diverrà palese all’inizio degli anni

Novanta.

L’occasione di adottare le tecnologie più efficienti provenienti dall’estero, presentatasi dopo la

guerra, è stata prontamente sfruttata. Questo processo, unito al sussistere di altre condizioni, ha

consentito lo sviluppo di un sistema innovativo “atipico” che ancora oggi risulta essere

efficiente. Al contrario non si sono sfruttati i nostri progressi economici per costituire un sistema

innovativo “convenzionale” che ci avrebbe garantito di continuare il sentiero di crescita e di

divenire meno dipendenti sul piano tecnologico. Non essendo stato completato il processo di

emancipazione tecnologica, la struttura produttiva italiana ha assunto una composizione molto

più simile ad un paese in via di sviluppo che ad un paese avanzato.

In Italia, dopo aver raggiunto un livello di ricchezza soddisfacente, è prevalsa, in molte parti

della società, la generale tendenza ad una difesa oltranzista delle posizioni raggiunte, come se

il livello di ricchezza e lo status acquisito non potessero cambiare più. Non si è compreso che

nel mondo in cui viviamo, caratterizzato da continuo cambiamento ed evoluzione, per

mantenere la posizione acquisita bisogna continuare ad andare avanti, perché altrimenti altri

paesi, tutt’altro che immobili, ci sorpasseranno.

La responsabilità dell’inadeguata trasformazione del sistema economico italiano è sicuramente

da attribuire all’incapacità di mettere in pratica azioni volte a modificare alcune caratteristiche

strutturali italiane. Si è preferito un atteggiamento passivo ed attendista verso il mondo, illusi

dai tassi di crescita soddisfacenti, pensando che tutto andava per il meglio.

La crisi degli anni Novanta, politica ed economica, avrebbe dovuto mettere in allerta e

provocare la reazione della società italiana, che attraverso una ristrutturazione del sistema

economico e istituzionale avrebbe dovuto assecondare e sfruttare il cambiamento globale,

invece di subirlo passivamente. Nel prossimo capitolo vedremo se c’è stato questo

cambiamento e come i due sistemi innovativi si sono evoluti.

94

CAPITOLO III -

DA TANGENTOPOLI ALLA CRISI: IL VENTENNIO PERDUTO

ITALIANO

All’interno di questo capitolo viene proseguita l’analisi temporale dei due sistemi innovativi

italiani delineati nel precedente capitolo. Viene tracciata prima una breve descrizione generale

dell’andamento economico italiano a partire dagli anni Novanta fino ai giorni nostri, poi

vengono delineate le caratteristiche dei cambiamenti che hanno modificato il contesto globale:

l’accelerazione della globalizzazione e la terza rivoluzione industriale.

In seguito vengono completate le serie storiche delle statistiche relative all’innovazione che

erano state prese in considerazione nel capitolo precedente. Sulla base di questi dati vengono

descritte le dinamiche innovative italiane e come esse hanno influenzato la crescita.

Successivamente viene rilevato come le debolezze strutturali italiane sono diventate dei veri e

propri ostacoli all’innovazione e quindi allo sviluppo economico. Alla fine vengono delineate

le prospettive future delle dinamiche innovative italiane cercando di evidenziare quali azioni

sono necessarie affinché esse tornino a sostenere lo sviluppo economico.

1 L’Italia e il mondo che cambia

Nel corso di questo paragrafo viene osservato come i grossi cambiamenti, avvenuti a livello

globale dagli Anni Novanta in poi, abbiano avuto influenza sull’Italia. Prima viene descritto

l’andamento generale dell’economia italiana, successivamente lo sviluppo delle tecnologie

della Terza Rivoluzione industriale e il processo di crescita del settore dei servizi all’interno

delle economie avanzate.

95

1.1 Crollo politico ed economico

Con la fine degli anni Ottanta si entra in una fase nuova dell’economia italiana: un periodo

caratterizzato dal declino della sua posizione internazionale e dalla fine del processo di

convergenza verso il livello di ricchezza e di produttività dei paesi più avanzati. Infatti un deciso

rallentamento economico, peggiorato dalla crisi del 2007, provoca la perdita di molti dei

progressi ottenuti nei quarant’anni precedenti. Come vediamo dalla figura 3.1, con l’inizio degli

anni Novanta, comincia un trend divergente del nostro PIL pro capite nei confronti di quello

dei paesi più avanzati: da quel momento ad oggi abbiamo perso più del 10% della ricchezza nei

confronti degli Stati Uniti e della Germania e addirittura il 20% rispetto al Regno Unito.

Figura 3.1: Rapporto percentuale tra PIL pro capite italiano e quello di Germania, Regno Unito e USA, periodo 1990-2010

Fonte: mie elaborazioni su dati Maddison Project, http://www.ggdc.net/maddison/maddison-project/data.htm.

In questi anni sono venute a mancare quelle condizioni propulsive della crescita che avevano

contribuito a mascherare le debolezze strutturali dell’economia, delle istituzioni e della società

italiana1. Questo esaurimento delle condizioni favorevoli, assieme alla mancanza di flessibilità

e capacità di adattamento al mondo esterno, che pesano in questo momento storico più che nei

1 G. Toniolo, La crescita economica italiana, cit., pp. 40-41.

40%

50%

60%

70%

80%

90%

100%

110%

Italia/Germania Italia/USA Italia/UK

96

precedenti, hanno provocato un inevitabile peggioramento delle condizioni economiche.

Infatti, già dagli anni Settanta, risultava chiaro come uno dei limiti più evidenti dell’Italia fosse

l’incapacità di cambiare e di riformare il sistema, nonostante ci fosse la consapevolezza della

necessità di agire. È proprio questa, forse, la responsabilità più pesante di chi ha avuto il compito

di governare l’Italia. Dal momento in cui è stato raggiunto un certo livello di benessere, ognuno,

individuo o categoria, si è arroccato a difesa dei propri interessi, perdendo la concezione di

società. Non ci si è curati dei danni che gli interessi particolaristici ed i privilegi arrecavano agli

altri membri della società e alla società stessa e, soprattutto, si è persa la prospettiva di lungo

periodo, la progettualità orientata al futuro: si è agito senza preoccuparsi di ciò che ci sarebbe

stato dopo, con l’unico obiettivo di non alterare lo status quo. La mancanza di pianificazione

del futuro e di una leadership adeguata hanno lentamente, ma inesorabilmente, eroso il futuro

dell’Italia.

La crisi finanziaria del 2007, che è poi sfociata in una pesante crisi dell’economia reale, ha

palesato i limiti dell’economia italiana e ha fatto gridare a molti che “il Re è nudo”, ma forse

questa consapevolezza generalizzata è arrivata troppo tardi ed è ormai troppo stereotipizzata.

Figura 3.2: Tassi di crescita annuali del PIL pro capite, periodo 1991-2012

Fonte: mie elaborazioni su dati OECD, http://stats.oecd.org/.

-2,0%

-1,0%

0,0%

1,0%

2,0%

3,0%

Francia Germania Italia Giappone Spagna UK USA Totale paesiOECD

1991-2000 2001-2007 2008-2012 1991-2012

97

I tassi di crescita del PIL pro capite descrivono perfettamente il rallentamento progressivo

dell’economia italiana. Infatti, come possiamo vedere dalla figura 3.2, l’Italia fa registrare

l’aumento minore tra tutti i paesi avanzati: il suo Pil pro capite cresce, nell’intero periodo, di

solamente lo 0,49% annuo. Questo risultato è peggiore anche di quello del Giappone, per il

quale, riferendosi a questo arco di tempo, è stato coniato il termine “ventennio perduto”. Ma

allora non si potrebbe parlare anche per l’Italia di “ventennio perduto”, oppure potremmo

parlare di cronache di una disfatta annunciata? 2

Se incolpiamo le debolezze strutturali per il rallentamento dell’economia italiana, allora

bisogna anche chiedersi perché queste non abbiano influenzato la performance italiana negli

anni precedenti. La risposta è duplice: per prima cosa, come abbiamo visto nel secondo capitolo,

molte di queste debolezze hanno impattato in minor misura poiché la loro importanza era

inferiore nelle condizioni di lontananza dalla frontiera tecnologica e con la prevalenza delle

tecnologie della produzione di massa. Abbiamo visto, per esempio, come la debolezza di un

sistema di ricerca “convenzionale” e l’esiguità del capitale umano siano state superate da un

sistema d’innovazione alternativo le cui caratteristiche atipiche hanno consentito comunque di

produrre performance straordinarie. Al contrario con l’avvicinarsi alla frontiera tecnologica e il

progressivo cambiamento del mondo, accelerato dalla fine della guerra fredda, dalla spinta della

seconda globalizzazione, dalla creazione dell’Euro e della rivoluzione tecnologica, queste

debolezze strutturali sono diventate cruciali per determinare il destino del sistema economico

italiano. In secondo luogo, vediamo che un’altra dimensione ha acquistato sempre più

importanza nel determinare le performance dei paesi, ovvero l’efficienza istituzionale. Difatti,

per il funzionamento ottimale del sistema economico sono sempre di maggiore importanza

l’efficienza della Pubblica amministrazione, la regolamentazione dei mercati, l’efficacia della

giustizia e la qualità delle infrastrutture. Questo avviene perché oramai, in società complesse e

fortemente interconnesse come le nostre, la prestazione complessiva dipende da quella di

ognuna delle sue parti.

Il tentativo di migliorare l’efficienza istituzionale di cui parlavamo è stato compiuto negli Anni

Novanta, che infatti sono stati il teatro del più grosso tentativo di riforme che il sistema politico

costituzionale abbia mai varato dopo la sua nascita. Dopo lo scandalo di Tangentopoli, che

mette a nudo anni di malgoverno e corruzione, la Prima Repubblica arriva al termine. Assieme

2 Infatti il PIL pro capite del Giappone è cresciuto dello 0,78% annuo (cfr. OECD, http://stats.oecd.org/).

98

al passaggio verso la seconda Repubblica, vengono varate importanti riforme come quelle sulla

legge antitrust, il diritto societario, la riorganizzazione del sistema bancario e vengono decise

le privatizzazioni di molte società a partecipazione statale. Ma la portata e l’attuazione di tali

riforme sono risultate ampiamente inadeguate rispetto alle intenzioni e alle effettive azioni che

sarebbe stato necessario mettere in pratica per superare le inefficienze strutturali che minavano

la competitività italiana3.

Le altre economie mondiali, già a partire dagli anni Settanta, hanno mostrato una buona capacità

di adattarsi al cambiamento dell’economia mondiale, rivelando una maggiore duttilità rispetto

all’Italia, nella quale questa capacità è mancata completamente e l’unico elemento di flessibilità

emerso è rappresentato dal sistema dinamico delle PMI.

Al fine di valutare le performance del sistema istituzionale, la Banca Mondiale ha costruito

alcuni indici che misurano la qualità e l’efficacia di governo e l’impatto che il sistema

istituzionale ha sulla capacità di fare impresa. Coerentemente con quanto scritto sopra, la

posizione italiana in queste classifiche non è certo soddisfacente. Infatti, sui 215 paesi

considerati, i risultati italiani somigliano più a quelli di un paese in via di sviluppo con

istituzioni democratiche non molto progredite che a quelli di un paese avanzato. Come vediamo

dalle tabelle 3.1 e 3.2, in cui vengono riassunte le posizioni dell’Italia nelle differenti classifiche,

il miglior piazzamento risulta il 41° posto nella misurazione delle difficoltà che si incontrano a

registrare una proprietà. Ovviamente il paese che occupa il primo posto è considerato quello

dove si incontrano minori ostacoli. Nelle altre classifiche la situazione peggiora notevolmente,

fino ad arrivare al 147° posto in quella che misura la capacità di far rispettare i contratti. Questi

dati palesano come il funzionamento delle istituzioni e l’inefficienza dell’attività governativa

rappresentano effettivamente un forte limite per la crescita dell’economia italiana.

Tabella 3.1: Indicatori Doing Business, posizione dell’Italia nelle varie classifiche

Facilità di fare

impresa

Avviare un

impresa

Affrontare i

permessi per

costruire

Registrare

proprietà

Ottenere cre-

dito

Far rispettare

contratti

56 46 116 41 89 147

Fonte: mie elaborazioni su dati Doing Business, http://www.doingbusiness.org/.

3 N. Crafts, M. Magnani, L’Età dell’Oro e la seconda globalizzazione, cit., pp. 133-135; G. Toniolo, La crescita

economica italiana, cit., pp. 44-46; V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., pp. 429-434.

99

Tabella 3.2: Indicatori di governance, posizioni dell’Italia nelle varie classifiche

Controllo della corru-

zione Efficacia governativa

Qualità della regola-

mentazione Efficacia della legge

91 73 55 82

Fonte: mie elaborazioni su dati Banca Mondiale, http://info.worldbank.org/governance/wgi/index.aspx#home.

Oltre a questi, anche altri fattori hanno contribuito al rallentamento dell’economia italiana:

l’incapacità di sfruttare il potenziale offerto dalle tecnologie dell’informazione e della

comunicazione (ICT), la continua crescita dello stock di debito pubblico, la riduzione delle

dimensioni e della produttività delle grandi imprese italiane e il passaggio, con l’Euro, da una

durevole sottovalutazione ad una costante sopravvalutazione del tasso di cambio reale.

Il debito pubblico ha continuato la sua crescita anche all’inizio degli anni Novanta fino a

raggiungere il 121% del PIL nel 1994. Nonostante ciò negli anni successivi, grazie allo sforzo

compiuto per riuscire a far parte dell’area dell’Euro fin dalla sua creazione, si riesce a contenere

tale dinamica riportando il rapporto debito/PIL al 100%. Invece, dai primi anni del Duemila, la

dinamica negativa è nuovamente ripresa e, aggravata dalla crisi mondiale, ha portato il rapporto

debito/PIL ad un valore superiore al 130%. È evidente come questi livelli di debito siano un

ostacolo alla crescita e rendano praticamente impossibili azioni governative incisive che

comportino l’utilizzo di spesa pubblica4.

Per comprendere meglio perché un così alto debito rappresenti un evidente limite alla crescita,

bisogna considerare che la sua sostenibilità richiede un elevato regime di tassazione, la quale

ha l’effetto aumentare il costo del lavoro e sottrarre risorse che altrimenti potrebbero essere

destinate alla R&S, all’istruzione e agli investimenti in infrastrutture. Questa situazione è

effettivamente quella italiana, dove la pressione fiscale è da molti anni tra le più alte dei paesi

europei5.

Le grandi imprese italiane hanno sperimentato negli ultimi anni un’ulteriore riduzione delle

loro dimensioni medie e della loro numerosità, nonostante partissero da livelli già bassi se

4 F. Balassone, M. Francese, A. Pace, Debito pubblico e crescita economica, in G. Toniolo (a cura di), L’Italia e

l’economia mondiale, dall’Unità ad oggi, Venezia, Marsilio Editori, 2013, pp. 712-714; cfr. Eurostat,

http://ec.europa.eu/eurostat/data/database. 5 La pressione fiscale nominalmente è più elevata in altri paesi europei, ma se si considera l’effetto totale delle

tasse e delle imposte risulta che l’Italia ha la pressione fiscale più alta, soprattutto sulle imprese; cfr. World

Bank, http://data.worldbank.org/.

100

confrontati con quelli degli altri paesi avanzati. Oltre a questo, si è registrata anche una

diminuzione delle loro performance, soprattutto per quanto riguarda la produttività6.

Le PMI italiane, sebbene godano sicuramente di migliore salute, beneficiano in vari modi della

presenza delle grandi imprese: sia perché ne sono sub-fornitrici, sia perché la ricerca condotta

dalle grandi imprese ha effetti di spillover a cascata su tutto il sistema produttivo. Quindi

l’indebolimento delle imprese di maggiori dimensioni ha comportato effetti negativi anche sulle

PMI, tali conseguenze sfavorevoli sono risultate amplificate dal fatto che questo indebolimento

è avvenuto proprio nel momento in cui la capacità di R&S era molto importante per affrontare

la rivoluzione tecnologica7.

Anche la sopravvalutazione del tasso di cambio reale, conseguente all’ingresso nell’Euro,

potrebbe essere vista come un fattore che ha rallentato la crescita influenzando la dinamica delle

esportazioni8. Comunque è da considerare che l’introduzione della moneta unica ha avuto anche

numerosi effetti benefici quali la stabilità dei prezzi e la rapida discesa dei tassi d’interesse,

unita ad un maggior potere d’acquisto sulle importazioni, fattore importante per un paese che

dipende sostanzialmente dai paesi esteri per le sue forniture energetiche. Inoltre bisogna

valutare come l’apprezzamento del tasso di cambio potrebbe non essere la causa della nostra

perdita di competitività, ma potrebbe essere la conseguenza diretta dell’incapacità di effettuare

riforme incisive nel mercato del lavoro e dei prodotti9.

Un altro fattore che limita le possibilità di crescita in Italia è la scarsa introduzione nel processo

produttivo delle tecnologie general purpose dell’informazione e comunicazione (ICT), poiché

esse permettono di ottenere notevoli incrementi di efficienza e produttività. Infatti, nel

confronto con gli altri paesi avanzati, risulta che le imprese italiane utilizzano molto meno le

ICT, diminuendo conseguentemente la loro competitività10.

Questo limite è dovuto principalmente al fatto che il trasferimento e la diffusione di queste

tecnologie richiede un capitale umano maggiore, sia in termini quantitativi che qualitativi, di

quello che l’Italia ha saputo produrre negli ultimi anni. Inoltre, anche la piccola dimensione

6 G. Toniolo, La crescita economica italiana, cit., p. 42; gli addetti della grande impresa (+ di 500 addetti) sono la

metà rispetto a quelli degli altri paesi avanzati, con una riduzione maggiore della media negli ultimi anni;

inoltre il prodotto per ora lavorata di questa tipologia di imprese si è ridotto di un quinto all’inizio degli anni

Duemila. 7 Ibidem. 8 N. Crafts, M. Magnani, L’Età dell’Oro e la seconda globalizzazione, cit., pp. 138-139; l’Italia ha subito

dall’ingresso nell’Euro un apprezzamento del tasso di cambio reale del 7,5%. 9 G. Toniolo, La crescita economica italiana, cit., pp. 43-44. 10 N. Crafts, M. Magnani, L’Età dell’Oro e la seconda globalizzazione, cit., pp. 129-133.

101

delle imprese e l’eccessiva regolamentazione dei mercati, dei prodotti e del lavoro, hanno

frenato l’introduzione delle ICT nel sistema produttivo 11.

Un altro grande cambiamento che ha trasformato l’economia italiana è la sua terziarizzazione.

Infatti il settore dei servizi rappresenta oramai la parte preponderante dell’economia,

impiegando quasi il 70% degli occupati 12 . Questo processo è avvenuto con un aumento

esponenziale degli esercizi commerciali e della burocrazia, la parte per così dire meno “nobile”.

Al contrario non si è sufficientemente sviluppata quella parte dei servizi complementari e

sussidiari alla produzione, che sono quelli che registrano una maggiore crescita del fatturato a

livello mondiale e garantiscono maggiore valore aggiunto.

Questa composizione sbilanciata unita all’incapacità di sfruttare le ICT, che nel settore in

questione sono molto importanti, hanno causato una dinamica della produttività dei servizi del

tutto insoddisfacente: negli anni che vanno dal 1993 al 2007 essa cresce solamente dello 0,2%

annuo, contro tassi di crescita nei paesi avanzati abbondantemente sopra l’1,5%13. Lo scarso

sviluppo di un settore moderno dei servizi avanzati e ad alto contenuto di conoscenza, che sono

il comparto dei servizi dove le dinamiche innovative contano di più, è imputabile ai bassi livelli

di capitale umano14.

Abbiamo visto come le molte debolezze strutturali e altri fattori contingenti hanno rallentato la

crescita economica italiana dagli anni Novanta ad oggi, destando molti dubbi sulle effettive

capacità di sviluppo del nostro paese. Per evidenziare quello che è il punto cruciale possiamo

usare i risultati di un lavoro svolto da alcuni economisti dell’OECD, i quali hanno costruito un

indice che misura la capacità dei paesi di affrontare la globalizzazione, tenendo conto di

variabili istituzionali ed economiche. L’Italia in questa classifica è terzultima sui 26 paesi

considerati, solo la Polonia e la Grecia fanno peggio. Questo rende ancora più evidente quale

sia la natura della scarsa performance economica: l’Italia non è stata in grado di realizzare

cambiamenti strutturali e intraprendere politiche di lungo periodo, risultando così incapace ad

affrontare il cambiamento derivante dal processo di globalizzazione e dal continuo progresso

tecnologico15.

11 G. Toniolo, La crescita economica italiana, cit., p. 49; N. Crafts, M. Magnani, L’Età dell’Oro e la seconda

globalizzazione, cit., pp. 129-133. 12 S.N. Broadberry, C. Giordano, F. Zollino, La produttività, cit., pp. 278-279. 13 Ivi, p. 263; anche nel periodo 1973-1993 la produttività dei servizi era cresciuta solo dello 0,4% annuo. 14 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 304-305. 15 D. Rae, M. Sollie, Globalisation and the European Union: which countries are best placed to cope?, OECD,

Economics Department Working Papers no. 586, 2007, pp. 32-34.

102

1.2 La terza rivoluzione industriale e la terziarizzazione dell’economia

A livello globale, a partire dagli anni Settanta, hanno preso il via una serie di dinamiche di

cambiamento tecnologico che hanno progressivamente trasformato il sistema economico e

continuano a farlo tuttora. Tale processo è guidato dallo sviluppo e dall’inserimento nel sistema

produttivo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che rappresentano le

general purpose technology della terza rivoluzione industriale, ovvero quelle tecnologie

generali o multifunzione che esercitano la loro influenza su tutti i settori produttivi. Le ICT

portano ad un restringimento dello spazio, visto che riducono le barriere al movimento fisico di

merci e persone ma, soprattutto, consentono alla conoscenza e alle informazioni di viaggiare in

tempo reale. Per analogia si può parlare dello sviluppo delle ICT, nonché delle biotecnologie e

delle nanotecnologie, come della terza rivoluzione tecnologica16.

Le tecnologie dominanti nell’immediato Dopoguerra erano quelle appartenenti alla seconda

rivoluzione tecnologica, ovvero quelle caratterizzate dalle tecniche legate alla produzione di

massa, altamente incorporate in macchinari, facilmente codificabili e trasmissibili. Per il loro

utilizzo necessitavano di una dotazione di lavoratori caratterizzati da elevate competenze

tecniche, simili a quelle artigiane, seppur più complesse. Infatti, come abbiamo visto nel

precedente capitolo, la congruenza della dotazione italiana di lavoratori con tali tecnologie ne

ha consentito l’introduzione e lo sviluppo17. Detto in altri termini, è grazie alla presenza di

lavoratori dotati di tali competenze, acquisite sul lavoro o nelle scuole secondarie, assieme ad

un nutrito corpo di ingegneri, che l’Italia ha saputo sfruttare le opportunità connesse alle

tecnologie della produzione di massa e attivare quel processo di adozione creativa che si è

rivelato essenziale per promuovere la crescita economica italiana.

Con la terza rivoluzione industriale le caratteristiche necessarie per utilizzare efficientemente

le tecnologie dominanti sono cambiate. Infatti ora sono necessarie elevate conoscenze

tecnologiche incorporate nelle persone, altamente specifiche e difficilmente trasmissibili,

essendo il frutto di investimenti conoscitivi di lungo periodo e caratterizzate dalla

16 F. Amatori, A. Colli, Storia d’impresa. Complessità e comparazioni, Milano, Bruno Mondadori, 2012, pp. 195-

212. 17 F. Amatori, M. Bugamelli, A. Colli, Tecnologia, dimensione d’impresa e imprenditorialità, in G. Toniolo (a cura

di), L’Italia e l’economia mondiale, dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio Editori, 2013 pp. 631-671; C.

Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 46-48.

103

complementarietà tra diversi campi di conoscenza18. Vale a dire che è richiesto il possesso di

elevati livelli di capitale umano, la cui base si acquisisce all’interno del sistema formativo

istituzionale.

Per questo motivo la dotazione fattoriale dell’Italia non appare molto congruente alle nuove

tecnologie, considerato che la mancanza di capitale umano è da sempre riconosciuta come una

debolezza strutturale del suo sistema economico. Nonostante ciò abbiamo visto come nel

processo di convergenza realizzato fino all’inizio degli Anni Novanta, questa mancanza non

abbia precluso le possibilità di realizzare una notevole crescita, non indotta attraverso

un’efficiente sistema d’innovazione “convenzionale”, ma attraverso altre dinamiche innovative

che non richiedevano livelli di capitale umano elevato. Oggi, invece, la sua insufficienza è

diventata uno dei maggiori ostacoli alla crescita poiché esso è indispensabile affinché le ICT

possano essere introdotte, diffuse ed efficientemente usate nel sistema economico19.

Ma la terza rivoluzione tecnologica non è ancora terminata, visto che deve ancora arrivare a

conclusione uno dei processi che essa ha portato con sé, ovvero la deindustrializzazione del

sistema produttivo. Infatti le tecnologie oggi in uso consentono già di avere livelli più elevati

di produzione a parità, o con meno occupati, rispetto a due decenni fa. Ma la tendenza che

sembra emergere è quella di una quasi totale robotizzazione del sistema manifatturiero che

comporterà molta più flessibilità ed efficienza nella produzione, ma richiederà molti meno

lavoratori, facendo così calare ancora di più la quota di occupati in questo settore. Per questo

motivo saranno i servizi legati alla produzione ad assumere un ruolo maggiore rispetto

all’attività di produzione stessa20.

A conferma di ciò si può vedere come la struttura dell’economia dei paesi avanzati sia cambiata,

andando verso un’estrema terziarizzazione: dal Secondo Dopoguerra ad oggi si è compiuto un

processo che ha portato il settore dei servizi a rappresentare la parte quantitativamente più

grande del sistema produttivo. In effetti, sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito, la percentuale

di occupati nel settore dei servizi è superiore all’80% degli occupati, nella Germania si arriva

al 72% mentre l’Italia si ferma al 68%21.

La crescita del settore dei servizi in Italia è stata trainata dall’aumento delle attività commerciali

18 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 46-48. 19 C. Antonelli, Introduzione, in C. Antonelli (a cura di), Conoscenza tecnologia, Nuovi paradigmi

dell’innovazione e specificità italiane, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1999, pp. 8-12. 20 A third industrial revolution, in The Economist del 21/04/2012, http://www.economist.com/node/21553017. 21 S.N. Broadberry, C. Giordano, F. Zollino, La produttività, cit., pp. 277-279.

104

e della burocrazia, che sicuramente non rappresentano i comparti dei servizi più legati alle

dinamiche innovative22 . Nonostante questo, anche la loro efficienza può essere aumentata

notevolmente per mezzo dell’utilizzo delle ICT, quindi emerge che il ritardo nella loro

introduzione ha frenato la produttività anche in questi comparti.

La componente dei servizi che fa registrare, a livello mondiale, la maggiore crescita della

produttività e risulta maggiormente legata alle attività innovative è quella dei servizi ad alta

intensità di conoscenza (Knowledge Intensive Services, KIS), soprattutto quelli rivolti alle

imprese (Knowledege Intensive Business Services, KIBS). Essi riescono in molti modi ad

alimentare le dinamiche innovative, sia producendole al loro interno sia agendo da attore

principale nel miglioramento dell’efficienza di altre imprese23.

Questi rami dei servizi non hanno avuto uno sviluppo paragonabile a quella degli altri paesi

avanzati, difatti l’Italia presenta percentuali occupazionali al di sotto della media dell’Unione

Europea sia per i settori dei servizi ad alta intensità di conoscenza sia per il loro comparto ad

alta tecnologia (High-Tech KIS)24 . Questo andamento di sottodimensionamento può essere

imputato alla carenza di capitale umano che ha rallentato sia lo sviluppo dal lato dell’offerta di

servizi avanzati, sia la formazione di un’elevata domanda degli stessi25.

L’Italia non è riuscita a realizzare quell’interazione virtuosa, avvenuta negli Stati Uniti e nel

Nord Europa, tra l’introduzione delle ICT e lo sviluppo delle nuove industrie dei servizi ad alto

contenuto di conoscenza. Questo processo avrebbe portato ad un arricchimento della

specializzazione produttiva che avrebbe potuto valorizzare il contenuto innovativo delle

industrie manifatturiere, a condizione che si fossero ricreate quelle dinamiche tra settori a valle

e a monte che abbiamo analizzato nel secondo capitolo26. Quindi per l’Italia è avvenuta una

“triplice esclusione” legata alle nuove tecnologie: è rimasta esclusa dai settori manifatturieri

legati ad esse, è fortemente arretrata nella loro applicazione nel sistema produttivo e, adesso,

non partecipa allo sviluppo del settore dei servizi avanzati realizzati attraverso l’utilizzo

intensivo di tali tecnologie.

22 V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., pp. 383-385. 23 OECD, Innovation and Knowledge-Intensive Service Activities, Paris, OECD, 2006, pp. 7-10. 24 Per i primi 33,9% contro la media UE29 di 39,2%, per i secondi 2,4% contro la media UE28 di 2,8%; cfr.

Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database. 25 C. Antonelli, F. Barbiellini Amidei, Innovazione e mutamento strutturale, cit., pp. 302-306. 26 Ibidem.

105

2 L’andamento dei sistemi innovativi italiani

Sono ampie le responsabilità della crisi italiana che sembrano poter essere imputate alle scarse

performance del sistema “convenzionale” di innovazione; perché questo, nel momento del

cambiamento di paradigma tecnologico, ha fatto mancare il suo cruciale contributo per favorire

l’introduzione delle nuove tecnologie nel sistema produttivo e lo sviluppo dei settori

tecnologicamente avanzati. A decretare queste dinamiche negative ha contributo molto anche il

basso livello di capitale umano.

Mancando tale spinta, l’innovazione e la crescita potrebbero essere state trainate, come nei

periodi precedenti, dal sistema “atipico” di innovazione basato sulle PMI ed i settori distanti

dalla frontiera tecnologica. Ma sembra probabile che anche questo sistema abbia risentito della

mancata introduzione al suo interno delle tecnologie ICT, poiché esse avrebbero consentito

notevoli guadagni di efficienza che invece sono mancati.

Per verificare queste affermazioni e analizzare le performance che i due sistemi d’innovazione

italiani hanno fatto registrare dagli anni Novanta fino ai giorni nostri, la trattazione prosegue

completando, temporalmente fino ai giorni nostri, l’apparato statistico tracciato nel secondo

paragrafo del precedente capitolo. Questo consentirà di valutare il ruolo e la consistenza delle

dinamiche innovative italiane nell’ultimo ventennio.

2.1 L’innovazione diminuisce

Come già è avvenuto nel secondo capitolo viene supposto che l’andamento della TFP descriva

in modo appropriato il risultato delle dinamiche innovative all’interno del sistema economico.

Analizzando l’andamento della TFP italiana percepiamo come nel periodo considerato la sua

dinamica è molto deludente nel confronto con i paesi più avanzati. Infatti, come si può vedere

dalla figura 3.3, nel periodo 1995-2012 si registra una decrescita dello 0,06% annuo. Dal

confronto emerge come l’Italia sia l’unico paese, tra quelli presi in esame, a far registrare una

diminuzione. Anche il Giappone e la Spagna, nonostante i loro problemi, riescono a fare meglio,

facendo registrare un tasso di crescita annuo rispettivamente dello 0,70% e dello 0,12%.

Al fine di analizzare meglio questo arco di tempo si possono individuare tre periodi che fanno

registrare trend differenti: negli anni Novanta la dinamica rimane ancora leggermente positiva,

106

con una crescita dello 0,68% annuo negli anni dal 1995 al 2000; a cominciare dall’anno 2001

si registra una lieve decrescita annua dello 0,23% fino al 2006; successivamente all’inizio della

crisi si registra un ulteriore peggioramento, con una diminuzione dello 0,63% annuo dal 2007

al 2012.

Figura 3.3: Tassi di crescita annuali della TFP, periodo 1995-2012

Fonte: mie elaborazioni su dati OECD, http://stats.oecd.org/.

Come si può facilmente vedere l’Italia è l’unico paese che fa registrare un andamento

decrescente anche nel periodo 2001-2006, sintomo del fatto che già prima della crisi la nostra

economia si trovava in una situazione di forte difficoltà, incapace ad adattarsi e gestire i

cambiamenti della situazione globale.

Altri dati forniti recentemente dall’ISTAT forniscono un quadro leggermente meno cupo per

quel che concerne la TFP sia per il periodo 2001-2006 che per il periodo post-crisi. Comunque

il lieve miglioramento proposto non cambia la valutazione complessiva dell’economia italiana

né la sua posizione in confronto agli altri paesi avanzati. Quello che ci interessa è la valutazione

che viene a delinearsi sui comparti manifatturieri: da questi dati sembra emergere che essi

riescano a mantenere una dinamica della produttività leggermente positiva fino all’avvio della

crisi e che questo andamento dipenda quasi totalmente dalla TFP, la quale di conseguenza

-1,0%

-0,5%

0,0%

0,5%

1,0%

1,5%

2,0%

Francia Germania Italia Giappone Olanda Spagna Regno Unito Stati Uniti

1995-2000 2001-2006 2007-2012 1995-2012

107

risulterebbe essere stata positiva all’interno del settore almeno fino al 200727.

Tale dinamica della TFP può essere vista come la risultante di due forze opposte scaturite

dall’andamento bivalente del settore manifatturiero: alcuni comparti, più esposti alla

concorrenza, hanno saputo mettere in atto processi di ristrutturazione organizzativa che hanno

portato a notevoli guadagni di efficienza e al mantenimento della competitività internazionale.

Altri comparti, meno esposti alla competizione globale, hanno invece continuato a diminuire la

loro efficienza e di riflesso la loro competitività28.

Coerentemente con quanto supposto, possiamo affermare che nel sistema economico italiano si

è verificato un forte rallentamento nell’introduzione di innovazioni, che ha causato la riduzione

dell’efficienza produttiva e, di conseguenza, le bassissime performance di crescita.

Le cause di questo rallentamento delle dinamiche innovative possono essere ricondotte alle

difficoltà italiane ad introdurre e adottare le tecnologie ICT all’interno del sistema produttivo,

a sviluppare la parte dei servizi a maggior valore aggiunto e ad aumentare la propria presenza

nei settori manifatturieri ad alta tecnologia. Ovvero l’Italia ha assunto una posizione marginale

in tutti quei settori a maggiore crescita della produttività a livello globale e dove le dinamiche

innovative sono risultate maggiori negli ultimi anni.

2.2 Ricerca e Sviluppo: un mancato decollo

Nel periodo considerato in questo capitolo l’andamento delle spese in R&S italiane non è

migliorato rispetto al quarantennio precedente poiché esse hanno continuato a rimanere basse

nel confronto con quelle degli altri paesi avanzati. Nonostante ciò, all’interno di questo periodo

si possono distinguere due specifiche fasi caratterizzate da trend opposti: una di diminuzione

per tutti gli anni Novanta, e una di lieve aumento che parte dall’anno Duemila.

Il divario con gli altri paesi avanzati, come si vede dalla figura 3.4, si mantiene elevato, difatti

le spese italiane sono inferiori alla metà di quelle degli altri paesi considerati. L’unica eccezione

è rappresentata dal Regno Unito con il quale è in atto un processo di convergenza, dovuto però

27 S.N. Broadberry, C. Giordano, F. Zollino, La produttività, cit., pp. 302-304; ISTAT, Misure di produttività, anni

1991-2011, Roma, ISTAT, pp. 6-11. 28 A. Accetturo, A. Bassanetti, M. Bugamelli, I. Faiella, P. Finaldi Russo, D. Franco, S. Giacomelli, M. Omiccioli,

Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza no.

193, 2013, pp. 15-16.

108

maggiormente al processo di forte decrescita inglese che ai nostri progressi.

Figura 3.4: Spese in R&S sul PIL, periodo 1991-2012

Fonte: mie elaborazioni su dati OECD, http://stats.oecd.org/.

L’inversione di tendenza, cominciata nel 2000, potrebbe essere dovuta all’impegno profuso

dall’Italia per tentare di seguire le raccomandazioni della Strategia di Lisbona varata da parte

delle istituzioni europee. In effetti con essa si esaltava il ruolo dell’innovazione e della

conoscenza considerandoli come i fattori chiave per trasformare l’Europa nella regione più

competitiva del mondo. Inoltre veniva posto l’obiettivo di raggiungere, entro il 2010, la quota

del 3% di spese in R&S in rapporto al PIL, i due terzi dei quali finanziati delle imprese29. La

crisi ha sicuramente compromesso la possibilità di raggiungere tale traguardo, che sarebbe stato

comunque irraggiungibile per molti paesi europei, Italia in testa, anche in condizioni di crescita

costante. Le linee guida di Lisbona sono state riprese nella strategia Europa 2020, che ripropone

molti obiettivi e ne fissa di nuovi.

L’intenzione di raggiungere il 3% del PIL di spese in R&S è stato confermato ma, allo stato

29 M. Decaro, Cronaca di un decennio nell’Unione Europea, fra governance e government, in M. Decaro (a cura

di), Dalla Strategia di Lisbona a Europa 2020, Fondazione Adriano Olivetti, 2011, risorsa on-line

http://www.fondazioneadrianolivetti.it/_images/pubblicazioni/collana/120111100032Strategia%20di%20Lis

bona.pdf, pp. 35-40.

0,5%

1,0%

1,5%

2,0%

2,5%

3,0%

3,5%

4,0%

Francia Germania Italia Giappone Regno Unito USA

109

attuale, per l’Italia sembra impossibile farcela. Difatti, nonostante il percorso di aumento che

prosegue dal 2000, le spese in R&S dell’Italia continuano a rappresentare una quota

insoddisfacente del PIL italiano: l’1,27%30.

Molti paesi europei, che partivano da livelli considerevolmente più alti del nostro, sono stati in

grado far registrare tassi di crescita più elevati, raggiungendo anticipatamente l’obiettivo31 .

Conseguentemente a queste dinamiche il divario italiano nei confronti dei paesi europei si è

ampliato notevolmente.

Anche le imprese italiane non hanno fatto registrare nessun miglioramento, visto che

continuano a mantenere livelli di spese in R&S significativamente più bassi rispetto alle loro

concorrenti dei paesi avanzati. Concentrandoci sui paesi europei di maggiori dimensioni,

vediamo come il distacco rimanga notevole: le spese in R&S delle imprese italiane

rappresentano la metà di quelle inglesi, un terzo di quelle francesi e un quinto di quelle

tedesche32.

Pure la ripartizione delle spese tra la ricerca pubblica e le imprese continua ad essere sbilanciata,

con le imprese italiane che finanziano solamente il 54% della R&S svolta in Italia, mentre le

loro concorrenti europee finanziano in media il 64% della spesa sostenuta nei loro paesi; in

Germania e negli Stati Uniti la percentuale è ancora maggiore33. In effetti l’indebolimento della

R&S italiana si può attribuire alla diminuzione delle spese da parte delle imprese private,

soprattutto quelle che sono state privatizzate a partire dagli anni Novanta34.

Usando come termine di paragone gli stessi paesi considerati prima, ovvero Germania, Francia

e Regno Unito, procediamo nel valutare le differenze settoriali di spesa in R&S tra le imprese

italiane e le loro concorrenti in questi paesi. La prima considerazione da fare è che il divario

nel settore manifatturiero è minore rispetto a quello nel settore dei servizi: nel primo le spese

italiane sono il 17,8% di quelle tedesche, il 54,7% di quelle francesi e il 97,9% di quelle inglesi,

mentre nel secondo le spese italiane sono il 37% di quelle tedesche, il 18,5% di quelle francesi

e il 21,7% di quelle inglesi35.

30 Commissione Europea, Bilancio della Strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e

inclusiva, allegato della COM(2014) 130 final, pp. 6-9. 31 Ibidem; Tra i paesi che hanno già raggiunto l’obiettivo o sono in procinto di farlo ci sono Svezia, Finlandia,

Danimarca, Germania e Austria. 32 Tale rapporto tra l’Italia e gli altri paesi rimane praticamente costante, usando una certa approssimazione per il

periodo che va dal 1991 al 2012; cfr. Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database. 33 Ibidem. 34 F. Barbiellini Amidei, J. Cantwell, A. Spadavecchia, Innovazione e tecnologia straniera, cit., pp. 557-560. 35 Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database.

110

Figura 3.5: Rapporto tra le spese in R&S sul PIL di alcuni settori italiani e gli stessi settori di Germania, Francia e Regno Unito

Fonte: mie elaborazioni su dati Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database.

All’interno della manifattura, come vediamo dalla figura 3.5, i settori che si distinguono per

una migliore prestazione sono quelli tradizionali, soprattutto il tessile e il comparto del mobile,

uniti ai settori che utilizzano tecnologie intermedie, come la meccanica, i mezzi di trasporto e

gli elettrodomestici.

Si conferma invece l’arretramento, cominciato negli anni Ottanta, nei settori tecnologicamente

avanzati, soprattutto nell’elettronica. Anche la chimica diminuisce il suo impegno nella R&S

rispetto al periodo precedente.

In conclusione, nonostante la crescente enfasi posta sul ruolo che la R&S ha nell’alimentare la

crescita economica, l’Italia non è riuscita ad incrementare in modo sostanzioso le proprie spese,

facendo così aumentare ancora il distacco nei confronti degli altri paesi avanzati.

2.3 L’attività brevettuale

Nel passaggio al terzo millennio, così come l’attività di R&S italiana, anche l’attività

brevettuale continua a non dare segni di dinamismo, non riuscendo a compiere quel salto di

qualità che le avrebbe permesso di innescare una dinamica convergente verso gli altri paesi

0%

20%

40%

60%

80%

100%

120%

140%

160%

180%

200%

Italia/Germania Italia/Francia Italia/Regno Unito

111

avanzati.

Le statistiche sui brevetti ottenuti dalle imprese italiane all’USPTO ci mostrano come

l’andamento decrescente sia ripreso dopo la lieve crescita registrata negli anni Ottanta,

proseguendo ininterrottamente fino ai giorni nostri, senza dare l’impressione di imminenti

inversioni di rotta.

Figura 3.6: Quota di brevetti rilasciati dall’USPTO (esclusi gli Stati Uniti), periodo 1991-2012, Germania e Giappone vengono esclusi dal grafico al fine di consentire un migliore visualizzazione grafica

Fonte: mie elaborazioni su dati USPTO,

http://www.uspto.gov/web/offices/ac/ido/oeip/taf/naics/naics_stc_fgall/naics_stc_fg.htm.

Come si può osservare dalla figura 3.6, la prestazione complessiva italiana continua a non essere

adeguata alle dimensioni della nostra economia. Esattamente, negli ultimi vent’anni l’Italia ha

perso il 40% della sua quota sul totale dei brevetti concessi a paesi stranieri, passando dal 2,67%

del 1991 al 1,60% del 2012. Questa diminuzione le consente di conseguire il poco nobile

risultato di essere il paese, tra quelli considerati, che ha visto la propria quota deteriorarsi

maggiormente. La figura 3.6, che omette le quote di Germania e Giappone (nel 2012

rispettivamente del 10,47% e del 38,45%), ci mostra come la forte crescita dei paesi asiatici,

Corea e Taiwan, eroda le quote dei paesi europei. Comunque, nel confronto con l’Italia, le altre

economie continentali perdono una quota percentuale minore, facendo emergere come sia in

atto un processo di divergenza che continua ad ampliare il già consistente ritardo italiano

0%

2%

4%

6%

8%

10%

12%

Regno Unito Francia Corea del sud Taiwan Italia Svezia Olanda

112

nell’attività brevettuale.

Come già visto nel secondo capitolo, la registrazione dei brevetti negli Stati Uniti è un’attività

intrapresa dalle grandi imprese, soprattutto nei settori avanzati. Quindi i risultati emersi stanno

a significare che c’è stato un ulteriore indebolimento della grande impresa italiana nella

produzione di conoscenza scientifica.

Figura 3.7: Quota di brevetti rilasciati dall’EPO (eccetto Stati Uniti), periodo 1991-2013, Germania e

Giappone vengono esclusi dal grafico al fine di consentire una migliore visualizzazione grafica

Fonte: mie elaborazioni su dati Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database.

La prestazione delle imprese italiane all’EPO è sempre risultata migliore, grazie al maggiore

contributo delle PMI. Nonostante questo anche all’ufficio europeo, dagli anni Novanta, la quota

italiana inizia a scendere, senza però innescare una dinamica divergente come all’USPTO.

Nella figura 3.7 vengono analizzate le quote di brevetti presentati all’EPO. Al fine di rendere

questi dati maggiormente paragonabili con quelli relativi all’USPTO (figura 3.6), le quote sono

state calcolate ignorando nel computo totale dei brevetti quelli ottenuti dagli Stati Uniti, come

avviene per le statistiche relative all’ufficio americano.

La quota italiana di brevetti passa dal 5,12% del 1991 al 4,02% del 2012. Questa diminuzione

insinua alcuni dubbi sulla competitività delle nostre piccole e medie imprese nel contesto

europeo. Osservando però le diminuzioni, ancora più marcate, delle quote di brevetti fatte

registrare da paesi come Germania, Francia e Regno Unito, le preoccupazioni si attenuano e

0%

2%

4%

6%

8%

10%

12%

Francia Italia Olanda Austria

Finlandia Svezia Regno Unito Corea del Sud

113

anzi emerge come, con questi paesi, sia in atto un lento processo di convergenza. Analogamente

con quanto emerso sul periodo analizzato nel precedente capitolo, osserviamo come continui a

permanere la situazione che vede i risultati sulla sponda europea dell’Atlantico migliori e con

distacchi molto meno consistenti nei confronti dei paesi più avanzati.

Figura 3.8: Quota di brevetti concessi all’USPTO per settore, periodo 1991-2012

Fonte: mie elaborazioni su dati USPTO,

http://www.uspto.gov/web/offices/ac/ido/oeip/taf/naics/naics_stc_fgall/naics_stc_fg.htm.

Per analizzare le prestazioni settoriali torniamo a basarci sui dati relativi all’USPTO. Dalla

figura 3.8 si vede come continui la decrescita del settore dell’elettronica, incapace di sviluppare

conoscenza propria e quindi totalmente dipendente, come vedremo anche nel paragrafo

dedicato alla bilancia tecnologica dei pagamenti, dalla tecnologia estera. Il settore delle

apparecchiature elettriche offre una prestazione migliore, dovuta soprattutto ai buoni risultati

del comparto degli elettrodomestici che sono riusciti a rimanere competitivi nell’arena

internazionale.

Invece si conferma la progressiva de-specializzazione della chimica che, però, a partire dal 2007

sembra aver arrestato la caduta, riuscendo a crescere negli anni successivi e superare

nuovamente la quota del 3%. Anche i mezzi di trasporto hanno saputo progressivamente

riprendersi fino a tornare a livelli superiori della quota italiana complessiva. La gomma e

plastica è il settore che nel periodo ottiene la migliore performance raggiungendo livelli elevati.

0,5%

1,0%

1,5%

2,0%

2,5%

3,0%

3,5%

4,0%

4,5%

Mezzi di trasporto Apparecchi elettrici Elettronica Macchinari

Gomma e plastica Chimica Tutti i settori

114

La meccanica ha cominciato invece una progressiva decrescita che, se continuasse, potrebbe

rivelarsi preoccupante, nonostante al momento i suoi livelli di attività brevettuale siano adeguati.

Altri due settori che negli ultimi anni hanno acquisito una buona capacità brevettuale sono il

tessile e l’alimentare: entrambi detengono quote superiori al 3,5%, anche se è da considerare

che il numero di brevetti in questi settori è veramente limitato.

Barbiellini Amidei, Cantwell, Spadavecchia (2013) hanno proposto un indice che misura il

vantaggio competitivo dei diversi settori nell’attività brevettuale: i loro risultati sono coerenti

con l’analisi fin qui svolta, infatti i comparti con l’indice più elevato risultano essere il tessile,

l’alimentare, la chimica, la gomma e plastica e i macchinari36.

Quello che emerge da questa analisi è che l’indebolimento della capacità brevettuale è

proseguito senza dare segnali di una possibile inversione del trend. La situazione che desta più

preoccupazione è quella all’USPTO dove la quota italiana, pur partendo da livelli bassi, si è

erosa maggiormente rispetto agli altri paesi avanzati. Invece la situazione all’EPO, nonostante

la diminuzione registrata, appare migliore. Quindi la decrescita dell’attività brevettuale è da

imputarsi maggiormente alla grande impresa, mentre risulta che le PMI abbiano saputo

difendersi meglio. A conferma di ciò si registra, sia all’EPO che all’USPTO, un aumento della

registrazione da parte delle imprese italiane di disegni, marchi e modelli. Infatti in queste attività

di registrazione, portate avanti soprattutto dalle PMI, l’Italia occupa la quarta posizione in

Europa e la quinta oltreoceano, risultati nettamente migliori rispetto alla produzione

brevettuale37.

Quindi dagli anni Novanta ad oggi è continuato il processo di peggioramento della performance

dei settori ad alta tecnologia italiani, mentre si è confermata la specializzazione nei settori

tradizionali e in quelli a tecnologia intermedia. Il sistema innovativo “convenzionale”, invece

di produrre risultati che lo facessero avvicinare ai livelli degli altri paesi, è sprofondato in una

dinamica negativa che lo ha reso ancora più inadatto a contribuire ad un possibile rilancio

tecnologico italiano.

36 Il vantaggio tecnologico risulta con un indice superiore ad 1, nel periodo dal 2001 al 2008 il tessile registra un

indice di 2.17, la chimica 1.56, la gomma e plastica 1.64, i macchinari 1.53 e l’alimentare 1.80. All’estremo

opposto, con la situazione peggiore, si trova il settore dell’elettronica con un indice di 0,59; F. Barbiellini

Amidei, J. Cantwell, A. Spadavecchia, Innovazione e tecnologia straniera, cit., p. 542. 37 F. Barbiellini Amidei, J. Cantwell, A. Spadavecchia, Innovazione e tecnologia straniera, cit., pp. 538-544.

115

2.4 Acquistare tecnologia all’estero

La bilancia tecnologica italiana dei pagamenti (BTP) ha risentito di due grossi cambiamenti nel

commercio di tecnologia a livello mondiale: l’aumento notevole degli scambi e la crescita

esponenziale di due voci che prima risultavano residuali, ovvero i servizi a contenuto

tecnologico e la R&S realizzata all’estero. Sulla scia di questi processi la BTP italiana ha visto

crescere ampiamente le sue dimensioni, a testimonianza di ciò la somma di introiti ed esborsi è

triplicata nell’arco di un ventennio, passando dallo 0,6% del Pil nel 1992, all’1,8% del 201238.

Come si può vedere dalla figura 3.9, gli introiti continuano ad essere costantemente minori degli

esborsi, solamente negli anni 2006 e 2007 si riesce ad avere un leggero avanzo nella BPT.

Il deficit italiano appare un’eccezione tra i paesi avanzati, visto che negli ultimi anni anche la

Spagna ha cominciato a far registrare dei surplus nella BPT. Il miglioramento che osserviamo

nel 2012 non deve trarre in inganno poiché esso è influenzato da una enorme transazione

compiuta verso il Regno Unito; se la si esclude dal computo totale, la prestazione del 2012

risulta del tutto simile a quella del 201139.

Figura 3.9: Rapporto Introiti/Esborsi della bilancia dei pagamenti tecnologica, periodo 1991-2012

Fonte: mie elaborazioni su dati OECD, http://stats.oecd.org/.

38 F. Tosti, La bilancia dei pagamenti della tecnologia dell’Italia, Banca d’Italia, Questioni di Economia e

Finanza no. 207, 2013, p. 18. 39 Ivi, p.8; l’operazione in questione riguarda la vendita dei diritti di emissione (certificati di CO²2).

0%

100%

200%

300%

400%

500%

600%

700%

Francia Germania Italia Giappone

Spagna Regno Unito Stati Uniti

116

La continuità con il periodo precedente agli anni Novanta è confermata dal persistere di alcune

dinamiche: tra queste, una delle più importanti sembra essere il perdurante deficit nello scambio

di brevetti, licenze e invenzioni, che costituiscono ancora il maggior motivo di esborso40. Infatti,

come si può vedere dalla figura 3.10, le ultime due voci in basso, che sono quelle che

comprendono i brevetti, le licenze e le invenzioni, sono pesantemente in disavanzo. Dalla stessa

figura si può vedere come l’altra attività in cui l’Italia deve acquisire elevati livelli di tecnologia

dall’estero è quella dei servizi informatici. Tutto ciò è coerente con le considerazioni svolte fin

qui sulle difficoltà italiane nel campo delle tecnologie ICT e sull’importanza del livello di

capitale umano.

Figura 3.10: Contributo alla BTP italiana cumulata per il periodo 2008-2012 per tipologia di transazione e per macro-settore

Fonte: mie elaborazioni su dati Banca d’Italia https://www.bancaditalia.it/statistiche/; E. Tosti. La bilancia dei

pagamenti della tecnologia dell’Italia, cit., pp. 22-24.

Le sole attività in cui l’Italia fa registrare un surplus della BTP sono i servizi di R&S e quelli di

architettura, ingegneria e altri servizi tecnici. Questi ultimi costituiscono uno dei pochi, se non

l’unico, punto di forza del macro-settore dei servizi dell’economia italiana; difatti, come

40 Ivi, pp. 5-6; Queste non sono più direttamente rintracciabili nelle voci della BTP perché è stato cambiato il

raggruppamento e il nome delle voci; con la nuova denominazione i brevetti, licenze e invenzioni sono

ricompresi nelle voci “Compravendita attività intangibili” e “Sfruttamento altre attività intangibili”.

-60% -50% -40% -30% -20% -10% 0% 10% 20% 30%

Compravendita attività intangibili

Sfruttamento altre attività intangibili

Sfruttamento conc. e diritti simili

Serv. architettura e ingegneria

Servizi informatici

Servizi di R&S

Servizi Manifattura Totale

117

vedremo in seguito, le imprese attive in tale comparto riescono ad assicurare un saldo positivo

nell’interscambio di tecnologia non incorporata di loro competenza.

Un altro aspetto merita di essere sottolineato poiché è coerente con quanto affermato fino ad

ora: l’intero deficit della BPT è da imputare all’andamento del settore dei servizi, mentre la

manifattura mantiene un sostanziale equilibrio tra esborsi e introiti.

Viene confermata anche un’altra tendenza dell’Italia, anche se meno accentuata rispetto al

periodo precedente agli anni Novanta, cioè quella di importare in larga scala dai paesi più

avanzati tecnologicamente e esportare in misura maggiore verso i paesi in via di sviluppo.

Questo a testimonianza del fatto che la base tecnologica italiana non è ancora al livello degli

altri paesi avanzati, verso cui manteniamo un certo grado di dipendenza tecnologica41.

Come accennavo prima, il settore italiano dei servizi è ancora molto arretrato a livello

tecnologico, solamente il comparto dei servizi di architettura e ingegneria sembra essere in

controtendenza. A conferma di ciò, come vediamo dal grafico 3.11, questo risulta l’unico

comparto che riesce a far registrare un surplus; gli altri invece riportano pesantissimi deficit,

soprattutto nelle telecomunicazioni e informazioni e nei servizi informatici.

Figura 3.11: Contributo alla BTP cumulata 2008-2012 per settore economico

Fonte: mie elaborazioni su dati Banca d’Italia https://www.bancaditalia.it/statistiche/; E. Tosti. La bilancia dei

pagamenti della tecnologia dell’Italia, cit., pp. 22-24.

41 Ivi, pp. 12-13.

-60% -50% -40% -30% -20% -10% 0% 10% 20% 30% 40%

Tessile e abbigliamento

Prodotti petroliferi raffinati

Prodotti chimici

Prodotti farmaceutici

Gomma e materie plastiche

Autoveicoli e mezzi di trasporto

Servizi del commercio

Servizi informatici

Telecom. e informazioni

Servizi di arch. e ingegneria

118

Per quanto riguarda la manifattura vediamo come i settori che fanno registrare i maggiori

surplus sono i mezzi di trasporto assieme alla gomma e materie plastiche. Le peggiori

performance sono quelle dei settori chimico, petrolifero e del tessile e abbigliamento. La

presenza di quest’ultimo settore fra quelli in disavanzo desta sorpresa ma può forse essere

spiegata dal largo ricorso all’acquisto di design, marchi e progetti esteri.

È quindi confermato il persistente deficit italiano negli scambi internazionali di tecnologia non

incorporata; questo risultato appare coerente con le peculiarità e i limiti del sistema economico

italiano nella produzione di tecnologia, infatti il deficit si concentra nelle voci considerate il

nucleo della BPT: compravendite e concessioni dei diritti di sfruttamento di brevetti, royalties,

invenzioni e altre licenze.

Il deficit della BPT è legato all’atipicità del sistema produttivo italiano, difatti il disavanzo è

provocato proprio da quei settori che, al contrario del resto delle economie avanzate, hanno

avuto uno scarso sviluppo: i settori dei servizi e quelli manifatturieri ad alta tecnologia.

2.5 Macchinari e investimenti

Nel paragrafo 2.6 del precedente capitolo abbiamo visto tutte le dinamiche con le quali

l’introduzione di macchinari conduce alla realizzazione di innovazioni e al miglioramento

dell’efficienza produttiva. Inoltre abbiamo osservato come l’Italia negli anni Cinquanta e

Sessanta ha fatto ampio ricorso all’importazione di beni capitali per introdurre tecnologia

avanzata estera. Grazie a questo sforzo e, conseguentemente alle dinamiche sviluppatesi

all’interno delle filiere tra produttori di beni capitali e utilizzatori, le imprese italiane sono

riuscite a produrre macchinari di alta qualità che hanno conquistato quote sempre crescenti delle

esportazioni mondiali. Come risultato di questo circolo virtuoso le imprese italiane hanno

dovuto far ricorso in misura sempre minore all’importazione di tecnologia incorporata,

avendola già disponibile nel mercato interno. Ad ogni modo il settore dell’elettronica è rimasto

completamente escluso da questo processo, facendo registrare importazioni sempre nettamente

maggiori rispetto alle esportazioni.

Comunque dagli anni Settanta sia le importazioni di macchinari che gli investimenti

complessivi hanno fatto registrare un calo generalizzato che ha frenato l’introduzione di

tecnologia incorporata nel sistema economico.

119

Figura 3.12: Rapporto Esportazioni/Importazioni di alcuni settori economici, periodo 1991-2013

Fonte: mie elaborazioni su dati UN Comtrade, http://comtrade.un.org/.

Come possiamo vedere dalla figura 3.12, le dinamiche del periodo precedente sono continuate

anche a partire dagli anni Novanta, subendo una polarizzazione: i comparti dei macchinari

generali e specializzati hanno continuato ad incrementare la loro competitività internazionale,

mentre i comparti dei computer e delle apparecchiature per la telecomunicazione non sono

riusciti a svilupparsi, anzi la dipendenza dalle macchine estere è ancora aumentata, visto che

oggi le importazioni rappresentano il doppio delle esportazioni.

La dinamica degli investimenti italiani non è molto diversa da quella degli altri paesi avanzati,

ma le differenze emergono se scomponiamo gli investimenti in macchinari e asset intangibili,

più legati alle nuove tecnologie ICT.

Come possiamo vedere dalla figura 3.13, l’Italia ricorre maggiormente ai macchinari,

spendendo per essi una quota del PIL vicina al 7%; al contrario sborsa pochissime risorse per

l’acquisto di beni intangibili, solamente l’1% del PIL. La quota del PIL destinata all’acquisto

di beni capitali degli altri paesi oscilla tra il 4% e il 6%, facendo risultare l’Italia come il

maggiore investitore in questi beni. Invece per i beni immateriali la quota dell’Italia, assieme a

quella tedesca, risulta la più bassa considerando che quella degli altri paesi è in media del 2%.

Coerentemente con la specializzazione italiana, i risultati confermano che ancora oggi

l’acquisto di tecnologia incorporata rappresenta uno dei maggiori canali di introduzione di

0%

50%

100%

150%

200%

250%

300%

350%

400%

450%

500%

Macchinari specializzati Macchinari generali

Computer Apparecchi per le telecomunicazioni

Apparecchi elettrci

120

innovazioni in Italia. Al contrario si riscontra ancora molta difficoltà nell’investire in asset

intangibili poiché essi sono più legati alle tecnologie dell’ICT e al livello di capitale umano.

I comparti dei macchinari generali e specializzati hanno mantenuto una buona performance,

continuando a produrre macchinari di qualità, con la conseguenza che si confermano uno dei

maggiori punti di forza dell’economia. Al contrario l’elettronica prosegue nel suo arretramento,

continuando a rappresentare un punto di debolezza del sistema economico italiano.

Figura 3.13: Spesa media in rapporto al Pil per gli Investimenti in macchinari (MACC) e in asset fissi intangibili (AI), periodo 1991-2012

Fonte: mie elaborazioni su dati Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database.

2.6 Istruzione formale e apprendimento informale

In questo capitolo sono state fatte molteplici considerazioni sul ruolo di freno alla crescita

economica rappresentato dal basso livello di capitale umano, analizzando le varie dinamiche

tramite le quali esso blocca l’innovazione e il miglioramento dell’efficienza produttiva.

Ora consideriamo l’evoluzione delle statistiche sull’istruzione in Italia dagli Anni Novanta ad

oggi, al fine di comprendere se si sono registrati dei miglioramenti e determinare quale sia la

situazione attuale.

0%

1%

2%

3%

4%

5%

6%

7%

UE a 15 Danimarca Germania Spagna Francia Italia Olanda Svezia RegnoUnito

AI 1991-2000 AI 2001-2012 MACC 1991-2002 MACC 2001-2012

121

La percentuale di laureati sul totale della popolazione italiana continua a rimanere molto più

bassa rispetto agli altri paesi avanzati, attestandosi al 15%. Anche se dagli anni Novanta ad oggi

sono stati compiuti notevoli progressi, con la quota di laureati che è aumentata di 5 punti

percentuali, la distanza con gli altri paesi considerati rimane ampissima. In effetti tutti gli altri

paesi superano la quota del 25% ed alcuni, come Belgio e Irlanda, riescono a raggiungere

percentuali attorno al 40%. Per colmare questo ritardo sarà necessario molto tempo.

Figura 3.14: Percentuale di laureati (livello ISCED 5-6) sul totale della popolazione, periodo 1992-2012

Fonte: mie elaborazioni su dati Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database.

Per quanto riguarda l’utilizzo dei laureati nel sistema economico, l’Italia risulta ancor più

indietro rispetto ai paesi avanzati. Infatti, come possiamo vedere dalla figura 3.15, solo il 15%

degli occupati italiani ha una laurea contro una media degli altri paesi del 30%.

Anche in questo campo i progressi dell’Italia dagli anni Novanta sono stati notevoli, ma la

distanza rimane evidente e molto ardua da riassorbire.

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

35%

40%

45%

1992-1999 2000-2006 2007-2012

122

Figura 3.15: Percentuale di laureati (livello ISCED 5-6) sul totale della forza lavoro, periodo 1992-2012

Fonte: mie elaborazioni su dati Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database.

Emerge che, nonostante i progressi compiuti, la quantità di capitale umano ed il suo utilizzo

all’interno del sistema economico sono molto scarsi. Anche a livello qualitativo non sembra

essersi prodotto nessun miglioramento evidente, anzi sembrerebbe esserci stato un

peggioramento del capitale umano rispetto agli altri paesi sviluppati. Questa situazione è quanto

consegue dai risultati di vari test standardizzati sulle capacità degli studenti condotti a livello

globale42.

La mancanza di capitale umano, oltre ad agire da ostacolo all’utilizzo delle tecnologie più

avanzate, compromette la formazione del capitale sociale intangibile che è molto importante

per il livello di coesione di una società, per la formazione del suo capitale civico e per la qualità

delle proprie istituzioni e della politica43.

I risultati evidenziano come l’Italia è ancora molto molto indietro rispetto ai paesi avanzati nella

formazione e nell’utilizzo di capitale umano. Proprio per questo sembra importante cercare di

introdurre nel mondo del lavoro l’ampia riserva di giovani inoccupati. Infatti, visto che molti

di questi possiedono una laurea, la loro utilizzazione significherebbe un notevole incremento di

42 G. Bertola, P. Sestito, Il capitale umano, cit., pp. 362-367. 43 L. Guiso, P. Pinotti, Democratizzazione e capitale civico, in G. Toniolo (a cura di), L’Italia e l’economia

mondiale, dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio Editori, 2013, pp. 423-427.

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

35%

40%

1992-1999 2000-2006 2007-2012

123

laureati nel sistema produttivo e la presenza di forze fresche e più inclini al cambiamento,

sicuramente più confidenti con le ICT rispetto a molti lavoratori più anziani. Questo enorme

potenziale potrebbe rappresentare quella forza necessaria per dare un nuovo volto al nostro

sistema economico. A sostegno di ciò sembra che ci sia una forte correlazione tra il numero di

lavoratori laureati all’interno delle imprese italiane e il raggiungimento di elevati livelli di

produttività e con la sperimentazione di nuove forme di organizzazione44.

2.7 Pochi cambiamenti nelle prestazioni settoriali

Analogamente a quanto fatto nel precedente capitolo viene supposto che i settori con le migliori

performance nelle esportazioni siano gli stessi che hanno saputo introdurre maggiori

innovazioni.

Nel corso degli ultimi due decenni le esportazioni italiane hanno visto calare la loro quota sul

totale mondiale, tale diminuzione è stata determinata dalla maggiore concorrenza dei paesi

emergenti, dalla sopravvalutazione del tasso di cambio reale e dall’alto costo del lavoro italiano.

Nonostante ciò, alcune imprese hanno saputo reagire tramite processi di riorganizzazione che

hanno consentito di accrescere il valore unitario medio delle esportazioni, sintomo di un

miglioramento qualitativo dei prodotti che li ha posizionati in segmenti di mercato al riparo dai

concorrenti dei paesi emergenti45. Questo processo di ristrutturazione ha interessato le imprese

più esposte alla concorrenza, soprattutto nei settori in cui l’Italia vanta tradizionalmente una

buona capacità di esportazione, ovvero quelli tradizionali e la meccanica, caratterizzati dalla

presenza di un vasto sistema di PMI, le quali, ancora una volta, hanno dimostrato di possedere

un elevato grado di flessibilità e una notevole capacità di adattamento46.

44 F. Schivardi, F. Torrini, Structural change and human capital in the Italian productive system, Fondazione

Giovanni Agnelli, Working Paper no. 38, 2011, pp.14-15. 45 A. Lanza, B. Quintieri, Eppur si muove. Quote di mercato e qualità delle esportazioni italiane: il quadro

generale, in A. Lanza, B. Quintieri (a cura di), Eppur si muove. Come cambia l’export italiano, Soveria

Mannelli, Rubettino Editore, 2007, pp. 22-29; A. Tiffin, European Productivity, Innovation and

Competitiveness: The Case of Italy, IM, Working Paper no.79, 2014, pp. 10-11. 46 A. Tiffin, European Productivity, Innovation and Competitiveness: The Case of Italy, cit., pp. 14-15.

124

Al fine di determinare l’andamento temporale dei vantaggi comparati italiani a livello settoriale,

viene usato, nella figura 3.16, l’indice di Lafay. Questo indice, a differenza di quello di Balassa,

consente di considerare anche le importazioni e la quantità relativa delle esportazioni per ogni

settore47.

Figura 3.16: Indice di Lafay medio per classi di prodotti importati ed esportati in Italia, periodo 1991-2012

Fonte: mie elaborazioni su dati UN Comtrade, http://comtrade.un.org/.

La performance delle esportazioni è rimasta pressoché uguale a quella della fine degli anni

Ottanta, con la meccanica e i settori tradizionali che fanno registrare le prestazioni migliori

mentre il resto dei settori rimane in affanno.

L’elettronica continua a conseguire risultati molto negativi, infatti fa registrare pesanti deficit

con i comparti dei computer e degli apparecchi elettronici, invece il comparto degli apparecchi

elettrici, sospinto dagli elettrodomestici, riesce a ottenere dei risultati migliori.

I settori tradizionali, nonostante abbiano subito un deciso rallentamento con l’inizio del nuovo

47 G. Federico, N. Wolf, I vantaggi comparati, cit., pp. 469-473; L’indice di Lafay per un generico bene è 𝐿𝐹𝐼𝑖 =

100 × [(𝑥−𝑚

𝑥+𝑚) − (

𝑋−𝑀

𝑋+𝑀)] × (

𝑥+𝑚

𝑋+𝑀) dove x rappresentano le esportazioni del bene, X le esportazioni totali, m

le importazioni dl bene e M le importazioni totali. I valori possono andare da 200 a -200 (nei casi estremi di

importazione ed esportazione di un solo prodotto) Un valore positivo indica una specializzazione del paese

nel bene considerato. Questo indice ha vantaggi rispetto all’indice RCA di Balassa: considera anche le

importazioni, pesa il prodotto per la sua quota evitando di focalizzare l’attenzione su prodotti marginali.

Macchinari specializzati

Macchinari

Computer

App. telecomunicazione

Apparecchi elettrici

Mobili

Tessile e scarpe

Materiali e prodotti plastici

Farmaceutica

Chimica

-1,5

-1

-0,5

0

0,5

1

1,5

2

2,5

3

3,5

1991-2000 2001-2006 2007-2012

125

Millennio, continuano a rimanere altamente competitivi e determinano gran parte del surplus

della bilancia commerciale. A conferma di quanto detto e della persistenza della

specializzazione italiana, si possono usare i risultati del WTO/UNCTAD Trade Performance

Index che mostrano come, effettivamente, l’Italia risulti il paese più competitivo a livello

mondiale per quanto riguarda il tessile, l’abbigliamento e la pelle, e invece occupi la seconda

posizione, dietro solamente alla Germania, per i macchinari non elettrici48.

Per vedere come si sono evolute le esportazioni in rapporto al livello tecnologico, possiamo

guardare all’indice di Lafay suddiviso per il grado di tecnologia dei prodotti49. Tale suddivisione

rende molto più immediato il risultato in confronto alla tassonomia di Pavitt, che comunque

produce gli stessi risultati.50

Figura 3.17: Indice di Lafay dei settori italiani raggruppati per livello di tecnologia, periodo 1991-2009

Fonte: mie elaborazioni su dati G. Federico, N. Wolff, Comparative Advantages in Italy: A Long-run Perspective,

Banca d’Italia, Quaderni di Storia Economica no.9, 2011, pp. 48-49.

48 A. Tiffin, European Productivity, Innovation and Competitiveness: The Case of Italy, cit., p.4. 49 I prodotti a bassa tecnologia sono caratterizzati da tecnologie stabili e diffuse incorporate nei macchinari che

servono a produrli (tessile, mobili). I prodotti a tecnologia media comprendono i beni basati su una tecnologia

complessa (macchinari, veicoli, grossa parte delle industrie chimiche). I prodotti ad alta tecnologia richiedono

un elevato investimento in R&S e capacità tecniche specializzate (computer, attrezzature elettroniche). Questa

classificazione è stata proposta da Lall (2000) e ha il pregio di concentrarsi maggiormente sui prodotti invece

che sulla tipologia delle imprese come fa la tassonomia di Pavitt; G. Federico, N. Wolf, I vantaggi comparati,

cit., pp. 464-467. 50 ICE, L’Italia nell’economia internazionale. Rapporto 2013-2014, 2014,

http://www.ice.it/statistiche/rapporto20132014.htm, pp. 212-240.

-4

-2

0

2

4

6

8

10

12

1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

Bassa Media Alta

126

Quello che emerge, come si vede dalla figura 3.17, è esattamente quello che ci si poteva

aspettare. L’Italia ha peggiorato la sua posizione nei beni a bassa tecnologia che comunque

rimangono quelli che contribuiscono maggiormente alla bilancia commerciale. Continua invece

il processo di rafforzamento nei settori a tecnologia intermedia, i quali hanno raggiunto quelli

tradizionali in quanto a contributo. I settori ad alta tecnologia continuano a rappresentare il

punto di debolezza delle esportazioni italiane.

Non era così scontato che venisse confermata la capacità di esportazione da parte dei settori

tradizionali e della meccanica, poiché molti fattori potevano far pensare il contrario. Infatti la

concorrenza dei paesi emergenti e la sopravvalutazione del tasso di cambio reale facevano

immaginare che si sarebbe registrato un netto declino. Al contrario, grazie alla loro flessibilità

e capacità di adattamento, il sistema delle PMI in questi settori ha saputo attivare un processo

di ristrutturazione che ha prodotto forti dinamiche innovative, consentendo di mantenere

un’elevata capacità di esportazione51.

2.8 Diffusione delle ICT e altri ostacoli all’innovazione

È già stato detto come la regolamentazione eccessiva dei mercati dei prodotti e del lavoro frena,

assieme ai bassi il livelli di capitale umano, l’introduzione delle ICT nel sistema produttivo. Per

avere un’idea del ritardo italiano in questa attività viene mostrato un grafico elaborato su dati

estrapolati dal Web Index, un indice costruito appositamente per misurare l’impatto della

tecnologie di internet su molti aspetti economici e sociali dei paesi.

Come si può vedere dalla figura 3.18, l’Italia si contraddistingue per avere una delle peggiori

valutazioni nell’indice dell’influenza complessiva della rete, ma ancora più rilevante è che

l’impatto di essa sull’economia italiana è nettamente più basso sia rispetto ai paesi avanzati, sia

rispetto ad un paese in via di sviluppo come la Cina. Sempre all’interno di questo indice,

guardando ai dati relativi all’adozione e all’uso di internet da parte dei cittadini, del settore

governativo e delle imprese, emerge che l’Italia è largamente in ritardo in confronto agli altri

paesi europei52. Stesso ritardo che si registra nell’adozione di tutte le ICT53.

51 A. Tiffin, European Productivity, Innovation and Competitiveness: The Case of Italy, cit., p. 5; M. Bugamelli,

F. Schivardi, R. Zizza, The Euro and Firm Restructuring, National Bureau of Economic Research, Working

Paper no. 14454, 2008, pp. 27-28. 52 World Wide Web Foundation, Web Index 2012, http://webfoundation.org/projects/the-web-index. 53 N. Crafts, M. Magnani, L’Età dell’Oro e la seconda globalizzazione, cit., pp. 128-133.

127

Figura 3.18: Indice dell’impatto complessivo di Internet su alcuni paesi (l’indice va da 0 a 100), anno 2012

Fonte: World Wide Web Foundation, http://webfoundation.org/projects/the-web-index/.

Un aspetto particolarmente interessante è la stima dell’effetto, sulla crescita della produttività,

derivante dall’introduzione nel sistema produttivo delle ICT e del capitale immateriale: infatti

risulta che, tra le economie dei paesi avanzati, l’Italia ottiene le performance peggiori, avendo

modestissimi contributi alla crescita della produttività da entrambe le voci54.

Emergono spesso nelle ricerche relative all’Italia anche altri fattori limitanti l’innovazione. Lo

scarso sviluppo del capitale azionario è sicuramente uno di questi poiché secondo molti studi il

suo utilizzo rappresenterebbe un canale maggiormente idoneo per finanziare le attività

innovative rispetto all’indebitamento bancario 55 . Ma in Italia tale strumento non è molto

utilizzato: la capitalizzazione di borsa è molto inferiore ai paesi europei di dimensioni

economiche simili, compresa la Spagna56.

Un altro fattore limitante, sempre legato al finanziamento dell’innovazione, è lo scarso sviluppo

del capital venture: in Italia è difficilissimo trovare un finanziatore per sviluppare un’idea

innovativa a forte base scientifica e avviare una start-up. Infatti i dati italiani relativi agli

54 Ibidem. In Italia il contributo alla crescita della produttività delle ICT e dei beni materiali si aggira attorno al

0,1% mentre per gli altri paesi avanzati tali indici variano da un minimo dello 0,2% ad un massimo dello 0,8%. 55 M. Bugamelli, L. Cannari, F. Lotti, S. Magri, Il gap innovativo del sistema produttivo italiano: radici e possibili

rimedi, Banca d’Italia, Questioni di economia e Finanza no. 121, 2012, pp. 18-21. 56 A. Accetturo, A. Bassanetti, M. Bugamelli, I. Faiella, P. Finaldi Russo, D. Franco, S. Giacomelli e M. Omiccioli,

Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi, cit., pp. 15-16.

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

Indice complessivo Impatto sociale Impatto economico

128

investimenti dei venture capital se confrontati con il resto dell’Europa risultano fortemente

inferiori, invece nel confronto con gli Stati Uniti si possono definire irrisori57.

Anche l’alto numero di imprese a gestione familiare presenti in Italia rappresenta un freno

all’innovazione, per il fatto che tali imprese risultano più avverse al rischio e meno propense

all’attività innovativa. Questo accade perché le imprese familiari in Italia, al contrario di quelle

europee, difficilmente tendono ad affidarsi a manager esterni e, quando lo fanno, effettuano la

loro scelta in base alla fedeltà del candidato più che sulle sue competenze. Questo spiega il

perché in Italia prevalgono per i manager schemi remunerativi che premiano la fedeltà al

proprietario mentre, nel resto d’Europa, prevalgono remunerazioni basate sulla performance. È

ovvio come questo possa in vari modi ostacolare l’innovazione, sia perché la capacità dei

manager scelti non sono elevate, sia perché i proprietari preferiscono prendere decisioni

improntate alla conservazione dell’impresa piuttosto che alla loro ristrutturazione. Infatti, molte

ricerche e studi econometrici affermano che c’è una forte correlazione negativa tra la presenza

di una governance familiare e di pratiche manageriali basate sulla fedeltà e il risultato

innovativo58.

2.9 Che innovazione fa?

Dall’analisi svolta emerge un quadro delle dinamiche innovative italiane abbastanza cupo:

entrambi i sistemi innovativi italiani descritti nello scorso capitolo, quello “convenzionale” e

quello “atipico”, peggiorano le loro prestazioni a cominciare dagli anni Novanta. Ciò avviene

proprio nel periodo in cui si esauriscono alcuni fattori che erano risultati favorevoli alla crescita,

l’impatto delle tecnologie ICT sul sistema economico diventa maggiore e il basso livello di

capitale umano rappresenta sempre più un limite per l’innovazione italiana.

Il sistema innovativo “convenzionale” non aveva mai prodotto, dal Dopoguerra in poi, dei

risultati eccezionali, ma l’arretramento registrato in questi ultimi anni dà l’impressione di una

resa. Infatti il cambiamento in atto a livello globale avrebbe richiesto uno sforzo maggiore per

sfruttare le opportunità connesse alle ICT e sviluppare, almeno in alcuni settori avanzati, una

57 M. Benvenuti, L. Casolaro, E. Gennari, Metrics of Innovation: measuring the Italian gap, Banca d’Italia,

Questioni di Economia e Finanza no.168, 2013, pp. 16-17; M. Bugamelli, L. Cannari, F. Lotti, S. Magri, Il

gap innovativo del sistema produttivo italiano, cit., pp. 18-21. 58 M. Bugamelli, L. Cannari, F. Lotti, S. Magri, Il gap innovativo del sistema produttivo italiano, cit., pp. 14-15.

129

solida base tecnologica. Ma in Italia, al contrario degli altri paesi avanzati, questo sforzo non

viene fatto, come si può vedere dalle scarse spese in R&S e dal calo della produzione brevettuale,

nonché dall’andamento deludente dei settori legati a tale sistema, elettronica in testa. La crisi

della grande impresa, che in questo periodo ha subito una diminuzione quantitativa e della

produttività, non ha certo aiutato in questo senso, essendo la promotrice della maggior parte di

queste attività.

Questo arretramento, con la complicità del basso livello di capitale umano, è uno dei fattori che

ha comportato per l’Italia quella “triplice esclusione” legata alle nuove tecnologie: produce

pochi beni legati ad esse, le utilizza scarsamente nel sistema economico e ha sviluppato in modo

limitato la componente di servizi avanzati che ne fanno un uso intensivo.

Il sistema innovativo “atipico” che, come abbiamo visto, è caratterizzato da processi di

adozione creativa, dalla dotazione di lavoratori con elevate competenze tecniche congruenti con

la tecnologia utilizzata, dalle forti relazioni utilizzatori/produttori e dalla presenza di molte

aziende di piccole e medie dimensioni, ottiene invece una performance migliore. Effettivamente

sono i settori più legati ad esso, che in accordo con Malerba (2011) possiamo definire come

“Network di PMI”, ad ottenere i migliori risultati nelle attività innovative, perfino nella R&S e

nei brevetti che, come abbiamo evidenziato, non sono così importanti per le dinamiche

innovative di questo sistema. Sono le imprese di questi settori che, riorganizzando la loro

produzione, hanno continuato a far registrare i migliori risultati per le esportazioni, venendo

considerate tra i settori più competitivi a livello mondiale.

Ma le dinamiche innovative del “Network di PMI” non sono state così diffuse nel sistema

produttivo come in passato, essendosi prodotte solamente nelle imprese maggiormente esposte

alla competizione mondiale. Infatti esse, sperimentando una forte concorrenza dai paesi

emergenti e osservando un deterioramento del tasso di cambio reale, hanno avviato un processo

di ristrutturazione che, attraverso guadagni di efficienza e miglioramenti qualitativi dei prodotti,

ha consentito loro di mantenere un’elevata capacità di esportazione. Ancora una volta le

imprese dei settori tradizionali e quelli specialized suppliers sono riuscite ad attivare dinamiche

innovative che hanno prodotto notevoli incrementi nell’efficienza, mostrando quella flessibilità

e quella capacità di adattamento che è mancata all’Italia nel suo complesso. Quindi l’intensità

dell’attività innovativa è stata molto diversa tra i comparti esposti alla competizione

internazionale e quelli non esposti.

Le dinamiche del sistema “atipico” non sono state in grado, come in passato, di evitare il

130

collasso della crescita economica italiana per due ordini di motivi collegati tra loro. Primo,

risulta sempre minore l’importanza dei settori legati ad esso all’interno delle economie dei paesi

avanzati. Infatti la terziarizzazione e il cambiamento tecnologico hanno causato una notevole

riduzione del peso della manifattura e, all’interno di essa, i settori a bassa e media tecnologia

sono quelli che hanno sperimentato la maggiore diminuzione a favore di quelli a tecnologia

avanzata.

Secondo, anche il Network di PMI risente, e risentirà maggiormente in futuro, dell’incapacità

di sfruttare le opportunità connesse all’introduzione delle ICT e della mancanza di capitale

umano. Con molta probabilità l’applicazione delle nuove tecnologie rivoluzionerà, nei prossimi

anni, il modo di produrre della manifattura, erodendo la competitività di chi non saprà adattarsi.

Quindi anche per il sistema innovativo “atipico” diventa cruciale usufruire di capitale umano

adeguato e utilizzare le ICT, fattori che nel passato non avevano inficiato le sue possibilità di

innovazione.

Le considerazioni delineate fin qua consentono di affermare che, nella transizione verso le

tecnologie della terza rivoluzione industriale, le dinamiche innovative dell’Italia siano state

scarse, non paragonabili a quelle degli altri paesi avanzati. Inoltre sono emersi seri dubbi

riguardo alle capacità di ripresa dell’Italia poiché, se da un lato è certo che il sistema innovativo

“convenzionale” non comincerà dall’oggi al domani a produrre risultati significativi, dall’altro

lato iniziano a sorgere numerose preoccupazioni anche riguardo all’efficacia futura del sistema

“atipico”.

Alla luce di questa analisi il destino del sistema innovativo italiano non sembra troppo roseo

con conseguenti effetti molto negativi sulla crescita, vista la forte relazione tra sviluppo

economico e innovazione. Comunque non bisogna abbandonarsi al pessimismo poiché sono

molte le azioni che si possono mettere in pratica per migliorare il nostro futuro, a condizione

che si abbandoni l’immobilismo decisionale e la focalizzazione sul presente che da tanto tempo

caratterizza la classe dirigente italiana.

131

3 Un declino inarrestabile?

Da quello che è emerso in questo capitolo l’Italia, sembra condannata ad un riposizionamento

verso il basso del suo status internazionale poiché l’incapacità di adeguarsi ai cambiamenti

avvenuti a livello globale l’ha resa meno idonea a eguagliare i livelli di crescita degli altri paesi

avanzati.

La terza rivoluzione industriale ha aumentato l’importanza del sistema innovativo

“convenzionale” caratterizzato da ampie spese in R&S, alti livelli di produzione brevettuale,

capitale umano elevato, efficienza istituzionale e imprese attive in settori a tecnologia avanzata.

Infatti oggi la sua centralità nel sistema economico è molto aumentata rispetto al periodo della

seconda rivoluzione industriale così come il suo ruolo nel determinarne lo sviluppo economico.

A dimostrazione di ciò, nei paesi avanzati si è registrata una forte correlazione positiva tra la

performance del sistema innovativo “convenzionale” e la crescita economica. L’Italia, nel

periodo che va dal Dopoguerra agli anni Novanta, ha rappresentato l’eccezione a questa

connessione poiché, nonostante le dinamiche innovative “convenzionali” siano state scarse, il

PIL è aumentato con tassi annui maggiori degli altri paesi.

Negli ultimi anni questa anomalia è stata riassorbita: come si può vedere dalla figura 3.19, il

cerchio dell’Italia è ora di una dimensione minore dei paesi che nel grafico stanno più a destra

e più in alto di lei. Ovvero il PIL pro capite italiano, è tornato ad essere minore o uguale rispetto

ai paesi che producono uno sforzo innovativo “convenzionale” maggiore.

Quindi sembra che le sole dinamiche del sistema “atipico” non siano più sufficienti a garantire

una crescita economica adeguata al fine di mantenere la posizione italiana a livello globale. Per

fare questo è arrivato il momento che tutto il sistema Italia torni a “produrre innovazione”.

132

Figura 3.19: Rapporto tra Brevetti pro capite (asse y), Spese in R&S/PIL (asse x) e PIL pro capite (scala a dx), anno 2012

Fonte: mie elaborazioni su dati Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database; OECD, http://stats.oecd.org/.

Tuttavia sembra molto difficile che si torni a “produrre innovazione” considerati tutti i dubbi

che gravano sulle prestazioni future di entrambi i sistemi innovativi. Per la precisione quello

“convenzionale”, più che destare preoccupazioni, offre una certezza, nel senso che sicuramente

otterrà risultati negativi nei prossimi anni, poiché è impensabile che senza un progetto ed il

tempo necessario per metterlo in pratica si possano raggiungere risultati positivi.

Per sviluppare un sistema complesso come quello in esame sono molti gli investimenti da

compiere e i loro frutti saranno visibili solo molto tempo dopo. In questo caso le difficoltà sono

ancora maggiori perché è necessario coordinare molti attori e aspetti differenti per ottenere un

risultato unitario efficiente. È indispensabile, per molti anni di seguito, investire ingenti risorse,

allestire centri di ricerca, creare network territoriali ristretti e altri più ampi che contengano i

soggetti, pubblici e privati, interessati ed in grado di portare un contributo. Allo stesso tempo è

necessario promuovere politiche volte al miglioramento qualitativo e quantitativo del capitale

umano. Ad oggi non sembra esserci nessun progetto a livello nazionale che prospetti delle

azioni simili e le politiche regionali sull’innovazione, nonostante possano ottenere molti

successi localizzati, sono incapaci di perseguire obiettivi di così grande respiro che esulano

dalla loro competenza.

Un piano di questa portata potrà essere elaborato nei prossimi anni e potrà gettare le basi per

133

costituire, in futuro, un efficiente sistema innovativo “convenzionale”, ma al momento questa

prospettiva sconfina nella pura immaginazione.

Quello che non si deve fare è costruire un sistema diffuso, cioè orientato verso tutti i campi

della conoscenza, poiché bisognerebbe evitare di consumare risorse in quei settori dove l’Italia

è troppo arretrata per poter immaginare di diventare competitiva. Gli interventi dovrebbero

essere concentrati in alcuni settori dove la buona performance italiana è consolidata e in altri,

possibilmente sulla frontiera tecnologica, in cui sembrerebbe esserci un’effettiva possibilità di

sviluppo.

Al contrario, i dubbi sul sistema “atipico” sono più ipotetici perché nei prossimi anni potrebbe

ancora garantire buone prestazioni, continuando a sospingere i comparti ad esso legati. Ma

come avviene per tutta l’economia, anche in questi settori il problema dell’introduzione delle

nuove tecnologie è sempre più pressante, poiché sembra molto probabile che, nel giro di alcuni

anni, il loro modo di produrre sarà completamente rivoluzionato.

Conseguentemente, anche per queste imprese, acquisisce maggiore importanza aumentare le

proprie dotazioni di capitale umano, necessario al fine di sfruttare le opportunità offerte dalle

ICT; altrimenti si verranno a creare degli svantaggi competitivi rispetto ai concorrenti esteri

maggiormente in grado di elaborare le nuove tecnologie. Quindi anche le future dinamiche

innovative “atipiche” sono avvolte da un alone di aleatorietà.

Allora viene da domandarsi se questo declino italiano sia inarrestabile. La risposta è negativa

se nei prossimi anni verranno implementate azioni volte a rimuovere i limiti all’attività

innovativa, creando contestualmente condizioni favorevoli ad essa. Facendo cioè in modo che

il sistema “atipico” continui la sua performance e quello “convenzionale” riesca finalmente a

svilupparsi.

Molte di queste possibili azioni penso che emergano chiaramente dall’analisi fin qui compiuta,

non per l’acutezza di chi scrive, ma per il semplice fatto che è da molto tempo che i soliti fattori

vengono additati come punti di debolezza dell’Italia senza che nulla sia stato posto in essere

per modificare la situazione. Infatti appare evidente che, per alimentare l’innovazione in Italia,

sarebbe necessario promuovere la formazione di capitale umano con elevate competenze

nell’utilizzo delle ICT e delle nuove tecnologie che rappresentano il futuro del sistema

economico. Il solo paragone con gli altri paesi avanzati ci dovrebbe far capire come sia

necessario destinare maggiori risorse alla R&S e sforzarsi di connettere meglio i vari attori,

soprattutto centri di ricerca pubblici e imprese. In questo tentativo sarebbe bene evitare di

134

destinare risorse in maniera irrazionale, ma selezionare una serie di settori nel quale l’Italia è

già competitiva ed altri, possibilmente alla frontiera tecnologica, in cui l’Italia ha seriamente la

possibilità di raggiungere dei risultati apprezzabili. Inoltre, favorire la crescita degli

investimenti immateriali e le competenze informatiche dei lavoratori sarebbe un altro passo

verso la risoluzione del problema. Così come procedere con una deregolamentazione dei

mercati porterebbe ad avere più concorrenza, favorendo di conseguenza i processi di

ristrutturazione di imprese inefficienti e l’introduzione delle ICT nel sistema produttivo italiano.

La necessità e l’urgenza di queste azioni sono rese evidenti da quello che è emerso con più forza

nel corso di questa ricerca, ovvero che le attuali dinamiche innovative italiane sono insufficienti

a produrre quel miglioramento di efficienza che permetterebbe all’Italia di tornare a livelli di

crescita economica adeguati a mantenere la sua posizione internazionale.

L’altra domanda da porsi è se il sistema innovativo “atipico” potrà continuare in futuro a

svolgere il ruolo di traino della crescita italiana come è successo fino agli anni Novanta.

La risposta alla domanda sarebbe negativa se continuassero a mancare due elementi. In primo

luogo, come abbiamo visto, anche in questi settori è necessaria una intensa introduzione delle

ICT nel sistema produttivo volta a sfruttarne il potenziale. In secondo luogo non si può

prescindere da un arricchimento della specializzazione italiana orientata verso i servizi avanzati

alle imprese. Infatti basandosi sulle dinamiche del sistema innovativo “atipico” potrebbe

rinnovarsi quel circolo virtuoso che ha consentito lo sviluppo di un robusto settore del

macchinario italiano. Ma questa volta, l’alta domanda consentirebbe il completamento a monte

della filiera produttiva con lo sviluppo di un robusto settore dei servizi avanzati alle imprese,

settore che a livello mondiale sta acquisendo sempre più importanza e porta con sé importanti

dinamiche innovative.

Potrebbe replicarsi l’intensità relazionale tra produttori e utilizzatori che ha fornito bacini di

conoscenza per effettuare continui innovazioni incrementali. La piccola e media dimensione

delle imprese e la concentrazione territoriale garantirebbero lo svilupparsi di tali relazioni e la

flessibilità necessaria per riuscire a cogliere tale opportunità. L’adozione creativa delle

tecnologie potrebbe avvenire anche in questo settore tramite la rielaborazione di quelle

conoscenze tacite tramite le quali per anni sono state prodotte importanti dinamiche innovative

dai settori tradizionali e dagli specialized suppliers, che vedrebbero così valorizzato il loro

patrimonio innovativo accumulato nel tempo

Ma ambedue questi processi non possono prescindere da un miglioramento nella dotazione di

135

capitale umano sia a livello qualitativo che quantitativo. Questo miglioramento deve avvenire

tramite uno sforzo culturale collettivo, inteso a riportare la conoscenza come elemento centrale

della nostra società. Sarà onere del governo elaborare un piano di lungo respiro che programmi

l’attuazione di azioni volte a migliorare l’architettura del sistema formativo italiano in modo da

renderla più adeguata alle sfide della globalizzazione e del cambiamento tecnologico. Inoltre

sarà fondamentale aumentarne la congruenza con le competenze che le nuove tecnologie

necessitano, focalizzando maggiormente i vari livelli dell’istruzione sulle materie scientifiche

e incentivando l’iscrizione a facoltà che hanno un ruolo chiave nel paradigma tecnologico

odierno.

Se parliamo del futuro italiano e del miglioramento del capitale umano una considerazione

appare d’obbligo. Per un paese avanzato non è possibile avere livelli di disoccupazione

giovanile maggiori del 40%, significa che non sta sfruttando le risorse che ha formato.

L’inserimento di questi giovani nel mondo del lavoro porterebbe ad un miglioramento della

dotazione di capitale umano nel sistema produttivo, il quale sarebbe rivitalizzato dalla presenza

di forze fresche più inclini al cambiamento e più confidenti con l’utilizzo delle nuove tecnologie:

se vogliamo guardare al futuro dobbiamo ripartire da chi rappresenta il futuro.

Queste azioni sono indispensabili per ottenere nei prossimi anni un rilancio dell’Italia, poiché

solo tramite un rafforzamento del sistema “atipico” e lo sviluppo del sistema “convenzionale”

si otterranno nuovamente forti dinamiche innovative che sosterranno un elevato sviluppo

economico.

136

CONCLUSIONI

L’innovazione ha avuto un ruolo fondamentale nel sostenere lo sviluppo economico italiano

del dopoguerra: questo è ciò che permettono di affermare i risultati acquisiti nel corso del

presente lavoro.

Infatti, tramite un sostanzioso apparato statistico e un’analisi incentrata sull’evoluzione storico-

economica dell’Italia, che ha compreso anche variabili culturali e istituzionali, è stato

dimostrato come le dinamiche innovative sono state cruciali per favorire l’eccezionale sviluppo

economico italiano dall’Età dell’Oro alla fine degli anni Ottanta, così come è stato dimostrato

che l’attenuazione di tali dinamiche ha condannato l’Italia all’attuale periodo di stagnazione.

Le tesi alternative, che volevano spiegare la crescita economica italiana attraverso il processo

di accumulazione di capitale, lo spostamento di lavoratori verso la manifattura o grazie ad un

processo automatico di convergenza prodotto dall’arretratezza iniziale dell’Italia, sono state

progressivamente abbandonate sulla base dei dati raccolti e delle considerazioni scaturite con

il progredire di questa ricerca. Sono state più di tutto le misurazioni della contabilità della

crescita che hanno fornito la base per sostenere che l’accumulazione di capitale e lo

spostamento strutturale dei lavoratori, nonostante siano fattori importanti, risultano marginali

nel confronto con le dinamiche innovative all’interno dei diversi settori, le quali hanno

rappresentato il vero motore dello sviluppo economico italiano.

La scelta di campo effettuata nel primo capitolo, ovvero quella di utilizzare come base

concettuale l’approccio evolutivo all’innovazione, è risultata adeguata allo scopo prefissato.

Infatti, se l’analisi fosse stata condotta secondo i precetti della teoria neoclassica sarebbe stato

impossibile giungere a sostenere una simile tesi. Al contrario, la conclusione naturale

dell’analisi sarebbe stata quella di negare che le dinamiche innovative abbiano avuto un ruolo

nello sviluppo economico italiano poiché, anche usando una certa flessibilità, le variabili che

vengono considerate dai neoclassici come promotrici della crescita sono la R&S e il capitale

umano che, come abbiamo constatato, in Italia hanno avuto un andamento deludente.

Invece, grazie agli evoluzionisti, è stato appurato come l’innovazione sia un processo

complesso influenzato da molteplici variabili, sia di tipo economico che istituzionale-culturale;

inoltre si è valutato come l’analisi storica aiuti a comprendere le ragioni di certe situazioni e

137

l’influenza sul presente delle decisioni prese in passato.

Conseguentemente, per analizzare le dinamiche innovative e le loro caratteristiche, è stato

utilizzato un ampio apparato statistico comprendente le spese in R&S, l’attività brevettuale,

l’acquisto di tecnologia incorporata, l’analisi della Bilancia Tecnologica dei Pagamenti,

l’analisi sul capitale umano disponibile, oltre ai dati sulle esportazioni italiane. Sono state

fornite, dove possibile, delle valutazioni settoriali di queste statistiche al fine di determinare

quali settori hanno contribuito di più alle dinamiche innovative e conseguentemente allo

sviluppo economico.

Dalle analisi compiute è risultato che l’innovazione italiana non è stata alimentata da quelle

attività usualmente considerate dagli studiosi, ovvero la R&S, la produzione brevettuale,

l’elevato capitale umano e la presenza di imprese nei settori ad alta tecnologia. Infatti dai dati

statistici risulta chiaro come in questi campi l’Italia è sempre rimasta fortemente indietro

rispetto agli altri paesi avanzati, solo negli anni Sessanta c’è stato l’inizio di un processo di

convergenza che però si è prontamente volatilizzato. Appurando come l’insieme di tali attività,

definite sistema innovativo “convenzionale”, non abbia mai ottenuto risultati apprezzabili e non

abbia sicuramente agito da traino per la crescita, si è riproposto lo stesso dubbio di partenza:

come ha fatto l’Italia ad innovare in questo periodo se il risultato del suo sistema innovativo è

stato così scarso.

Seguendo la strada tracciata nel primo capitolo, dove è stato osservato come esistano altre

attività perseguibili per intraprendere il processo innovativo e come esso sia caratterizzato da

elevata complessità, sono state ricostruite le “vie” verso l’innovazione percorse dall’Italia.

Le dinamiche innovative alternative italiane sono state individuate tramite l’analisi di processi

specifici e di caratteristiche peculiari del sistema economico, descritti unitariamente all’interno

di quello che abbiamo definito il sistema innovativo “atipico” italiano.

Per fare ciò è stato seguito un percorso che comincia con l’analisi delle importazioni di

tecnologia. È stato osservato come, negli anni Cinquanta e Sessanta, siano stati fatti molti sforzi

diretti ad acquisire tecnologia incorporata in macchinari e tecnologia non incorporata

specialmente nella forma di brevetti e licenze. Questo impegno è stato considerevole e del tutto

paragonabile, se non superiore, a quello degli altri paesi avanzati.

Le imprese italiane produttrici di macchinari hanno avuto un ruolo importante in questo

processo di acquisizione di tecnologia estera, soprattutto nell’acquisto e nello sfruttamento di

138

licenze e brevetti. Questo sforzo per dotarsi di una base tecnologica, assieme all’alta domanda

del mercato interno, ha consentito al settore italiano dei macchinari di svilupparsi in maniera

molto rapida. Infatti già da metà degli anni Sessanta le esportazioni di macchinari hanno

superato le importazioni.

Le imprese dei settori tradizionali hanno giocato un ruolo fondamentale in questo processo:

tramite i loro cospicui investimenti si è formata l’elevata domanda che ha costituito la base per

lo sviluppo del settore dei macchinari; inoltre, attraverso le forti relazioni sviluppatesi tra queste

imprese e i produttori di beni capitali, è stato possibile migliorare continuamente le macchine e

diffondere rapidamente le innovazioni. Si è creato un circolo virtuoso in cui entrambi i settori

hanno beneficiato reciprocamente della presenza dell’altro. Questa evoluzione e le sue

dinamiche sono alla base dello sviluppo del sistema innovativo “atipico”, il quale si

contraddistingue per essere fortemente legato alle piccole e medie imprese dei settori

tradizionali e della meccanica, per le intense interazioni che avvengono lungo tutta la filiera

produttiva, per avere una dotazione del fattore lavoro congruente con le tecnologie in uso e per

i processi di adozione creativa.

Mentre è stato appurato come la mancanza di elevato capitale umano ha rappresentato un

problema per lo sviluppo del sistema “convenzionale”, questo non è stato un limite per il

sistema “atipico” poiché esso sfruttava la presenza di un discreto numero di ingegneri e

lavoratori con buone competenze tecniche che si sono rivelate particolarmente idonee

nell’utilizzo delle tecnologie della produzione di massa. Questa specifica dotazione del fattore

lavoro ha consentito di eccellere nel processo di adozione creativa, ovvero nell’adattamento

alle specificità locali delle tecnologie acquisite, che ha garantito continui aumenti di efficienza

tramite una serie di innovazioni incrementali.

Un altro punto di forza è stato quello delle relazioni, la cui intensità ha permesso lo scambio di

numerosi feedback tra produttori e utilizzatori, consentendo un continuo miglioramento delle

tecnologie in uso e un elevato soddisfacimento delle specifiche esigenze dei clienti. Questa

intensità relazionale è stata favorita dalla piccola e media dimensione delle imprese e dalla

presenza dei distretti industriali.

I risultati del lavoro, quindi, confermano che le dinamiche innovative sono state cruciali nel

determinare lo sviluppo economico italiano dal dopoguerra fino all’inizio degli anni Ottanta.

Queste dinamiche, però, non si sono prodotte tramite il sistema “convenzionale” come nella

maggior parte degli altri paesi avanzati, ma sono state generate dal peculiare sistema innovativo

139

“atipico”, sostenuto soprattutto dalle numerose PMI appartenenti ai settori tradizionali e alla

meccanica. Tali imprese hanno rappresentato uno dei pochi elementi di flessibilità

dell’economia italiana, infatti, tramite varie ristrutturazioni e riorganizzazioni, sono state in

grado di adeguarsi ai cambiamenti delle condizioni globali e rimanere competitive nel corso del

tempo.

Lo sviluppo economico sostenuto da queste dinamiche “atipiche” ha consentito all’Italia di

rappresentare, nel periodo analizzato nel secondo capitolo, un’anomalia alla correlazione

secondo la quale buone prestazioni del sistema innovativo “convenzionale” portano a livelli di

ricchezza elevati, mentre basse prestazioni condannano ad un grado di ricchezza minore. Questa

correlazione sembra essere valida a livello globale ma non per l’Italia, dove era presente un

elevato PIL pro capite a fronte di un sistema innovativo “convenzionale” nettamente meno

performante rispetto agli altri paesi avanzati. Questa anomalia ricorda la metafora del calabrone

che, secondo gli scienziati, non può volare ma esso vola ugualmente; allo stesso modo per

l’Italia si pensava che, date le sue caratteristiche, non potesse crescere con continuità a certi

tassi e invece l’ha fatto, grazie soprattutto alle dinamiche innovative “atipiche”.

Nel secondo capitolo è stato dunque delineato il ruolo dell’innovazione fino agli anni Novanta

ed è emersa la dualità del sistema innovativo italiano. Però, accanto a questo sono emerse, a più

riprese, crescenti inquietudini sulle debolezze strutturali dell’Italia, sulla sua congenita

incapacità di cambiare e sulla sua inettitudine a progettare il futuro.

Queste preoccupazioni si sono rivelate fondate poiché, come viene esposto nel terzo capitolo,

il declino che comincia negli anni Novanta e continua fino ai giorni nostri, è il frutto di questi

fattori limitanti. L’Italia sperimenta in questo periodo tassi di crescita bassissimi e un

incremento dell’efficienza produttiva vicino allo zero; conseguentemente comincia un processo

di divergenza dei livelli di ricchezza nei confronti dei paesi più avanzati che non si è ancora

riusciti a fermare.

Negli ultimi vent’anni l’accelerazione del processo di globalizzazione e la terza rivoluzione

industriale hanno notevolmente cambiato il volto del sistema economico: è aumentata, in tutti

i settori produttivi, l’importanza dell’utilizzo delle ICT; oggi risulta molto più rilevante che nel

passato l’efficienza delle istituzioni perché, nelle nostre società sempre più complesse, la

performance globale dipende da quella di ognuna delle sue parti e l’aspetto istituzionale è

diventato una parte fondamentale; inoltre la struttura produttiva ha subito un deciso

spostamento verso il settore dei servizi.

140

A causa di queste trasformazioni, le debolezze strutturali italiane e l’incapacità di adeguarsi ai

cambiamenti globali si sono ora trasformate in veri e propri ostacoli all’innovazione e alla

crescita. Infatti la crescente rilevanza delle ICT e delle altre tecnologie legate alla terza

rivoluzione industriale, che hanno caratteristiche molto differenti rispetto alle tecnologie della

produzione di massa, richiede sempre maggiori livelli di capitale umano e accresce

l’importanza del sistema innovativo “convenzionale” e dei settori ad alta tecnologia. Quindi il

basso livello di capitale umano italiano, che prima non aveva precluso le possibilità di produrre

sostanziose dinamiche innovative, ora rappresenta uno dei maggiori ostacoli all’utilizzo delle

ICT. Ciò rappresenta un ostacolo anche per il sistema “atipico”, poiché i settori ad esso legati

necessitano del loro utilizzo per conseguire notevoli guadagni di produttività.

L’efficienza delle istituzioni e la qualità della governance italiana si attestano su livelli

veramente bassi in confronto al resto del mondo, facendo facilmente intuire come questo

rappresenti un effettivo ostacolo alla crescita.

Inoltre, lo spostamento della struttura produttiva verso i servizi in Italia è avvenuto con

un’espansione dei comparti meno efficienti, mentre i settori ad utilizzo intensivo di conoscenza,

che rappresentano la parte più legata alle dinamiche innovative e che arreca maggiori benefici

al resto dell’economia, si sono sviluppati in maniera insufficiente.

Queste considerazioni, unite alle misurazioni della contabilità della crescita, confermano che il

sostegno allo sviluppo economico italiano da parte dell’innovazione è venuto a mancare; ciò è

confermato dal fatto che, negli ultimi vent’anni, le stesse statistiche sulle attività innovative

analizzate nel secondo capitolo fanno registrare un processo di divergenza nei confronti dei

paesi avanzati.

Viene attestata l’esiguità del sistema “convenzionale” di innovazione che appare essersi arreso

di fronte alla terza rivoluzione industriale. Mentre il sistema “atipico”, anche se ha peggiorato

notevolmente le sue performance, non si è arreso: i settori legati ad esso e orientati alle

esportazioni hanno saputo continuare a produrre importanti dinamiche innovative che hanno

consentito loro di rimanere competitivi nel mercato globale.

È avvenuta quindi una polarizzazione della specializzazione italiana: c’è stato un ulteriore

rafforzamento nei settori a bassa e media tecnologia orientati alle esportazioni, con meccanica

e “made in Italy” in testa alle classifiche della competitività mondiale, mentre si è confermata

la “triplice esclusione” legata all’alta tecnologia: i settori manifatturieri collegati ad essa non

hanno saputo svilupparsi, essa viene utilizzata in maniera insufficiente nel sistema produttivo

141

e la componente di servizi avanzati che ne fa un uso intensivo si è evoluta in modo limitato.

La diminuzione delle dinamiche innovative è stata cruciale per determinare l’andamento

negativo dell’economia: in questo ventennio si è riassorbita l’anomalia che l’Italia

rappresentava nel panorama internazionale, ovvero i livelli di ricchezza, diminuendo, sono ora

più in linea con le scarse performance del suo sistema innovativo “convenzionale”.

Sull’andamento negativo dei processi innovativi ha influito il fatto che l’Italia non è stata in

grado di affrontare le sfide e cogliere le opportunità derivanti dalla terza rivoluzione industriale

e dall’aumento della velocità del processo di globalizzazione. In modo particolare l’incapacità

di migliorare il livello del capitale umano ha causato una notevole difficoltà a sfruttare le

tecnologie dell’informazione e della comunicazione che, data la loro pervasività, influenzano

la produttività di tutti i settori dell’economia. Ciò ha comportato la perdita di competitività nei

confronti di molti paesi che hanno saputo sfruttare tali opportunità. Inoltre, senza capitale

umano adeguato, viene a mancare uno dei principali input del sistema “convenzionale” che

vede così preclusa la possibilità di svilupparsi.

Il quadro delineato è cupo e pare non lasciare molte speranze per il futuro poiché, alle condizioni

attuali, sembra che il declino italiano debba continuare. Nonostante ciò, nel lavoro è emerso

come ci siano i presupposti per una ripresa economica, ma solamente a patto che si mettano in

pratica una serie di azioni volte a rimuovere gli ostacoli all’innovazione e creare condizioni ad

essa favorevoli, facendola tornare ad essere il fattore propulsivo dello sviluppo economico.

Quindi la condizione necessaria risulta essere quella di abbandonare l’immobilismo decisionale,

cominciando a mettere in atto processi di adeguamento ai cambiamenti globali e recuperando

quella fondamentale progettualità rivolta al futuro che è essenziale per continuare ad

immaginare un avvenire in cui l’Italia sia ancora tra i paesi più sviluppati al mondo. Molte delle

possibili azioni da mettere in pratica per rilanciare l’economia italiana scaturiscono

direttamente da questo lavoro perché sono l’ovvio corollario del processo di individuazione dei

problemi.

Tra tutte le azioni intraprendibili il miglioramento del capitale umano risulta essenziale: è

urgente migliorare la formazione e l’istruzione italiana poiché esse sono elementi

imprescindibili per affrontare qualsiasi futuro sia dinnanzi a noi. Per prima cosa alti livelli di

capitale umano renderanno più veloce l’introduzione nel sistema economico delle ICT che,

come abbiamo visto, sono fondamentali per migliorare l’efficienza in tutti i settori produttivi.

In secondo luogo, alti livelli di istruzione potranno migliorare il capitale sociale/civico dei

142

cittadini e quindi, indirettamente, anche la qualità delle istituzioni e della classe dirigente che

si andrà a formare negli anni successivi. Inoltre, elevati livelli di capitale umano saranno

necessari per promuovere lo sviluppo di una solida base tecnologica e del sistema innovativo

“convenzionale”, elementi necessari per affrontare qualsiasi cambiamento tecnologico che ci

potrà essere in futuro.

Un altro obiettivo da raggiungere, allo scopo di favorire la ripresa italiana, è lo sviluppo dei

servizi ad uso intensivo di conoscenza, settore che a livello mondiale sta acquisendo sempre

più importanza, facendo registrare importanti tassi di crescita e influenzando positivamente la

produttività e le dinamiche innovative. Questa evoluzione potrebbe avvenire attraverso il re-

plicarsi di quel circolo virtuoso che ha consentito, negli anni Cinquanta e Sessanta, la nascita

di un robusto settore del macchinario. Questa volta il completamento della filiera produttiva

potrebbe prodursi con l’espansione di un settore dei servizi avanzati alle imprese che sfrutte-

rebbe i canali del sistema innovativo “atipico” per aumentare la sua competitività.

Contestualmente non bisogna dimenticarsi della necessità di promuovere la crescita del sistema

innovativo “convenzionale”, aumentando il volume delle risorse ad esso rivolte e favorendo il

coordinamento tra la ricerca pubblica e le imprese. Visto che la scienza compie progressi inim-

maginabili nello spazio di pochi anni, ampliando le opportunità di innovazione del sistema eco-

nomico all’inverosimile, il miglioramento del sistema “convenzionale” è alla base di qualsiasi

futuro si voglia concepire per l’Italia.

Una volta delineati i problemi e le possibili azioni da intraprendere per superarli, bisogna

decidere cosa fare: l’Italia può continuare a tenere un atteggiamento passivo e subire le

conseguenze dei cambiamenti globali, proseguendo nel suo declino; oppure, ben conscia della

propria attuale inadeguatezza, deve mettere in atto quelle azioni volte a cambiarne la struttura

economica e sociale. Questa strada non è semplice da percorrere e necessita di uno sforzo

condiviso da parte di tutta la società, ma è l’unico modo per costruire un futuro dove l’Italia sia

ancora protagonista. Come descritto in questo lavoro, per ottenere un simile risultato è

essenziale rilanciare l’innovazione, in modo che essa possa sostenere un notevole sviluppo

economico necessario a mantenere l’Italia tra i paesi più ricchi del pianeta. Questo rilancio deve

avvenire rapidamente, poiché molti paesi nel mondo stanno sviluppandosi a velocità per noi

inimmaginabili: se l’Italia vuole fermare il suo declino e mantenere la sua posizione globale

non può più permettersi di stare ferma o semplicemente camminare, deve correre.

143

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