Inizio e fine vita in Giappone, tra sanità e ritualità
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MARIANNA ZANETTA
Inizio e fine della vita in Giappone
Tra sanità e ritualità
20 Marzo 2013
Relazione finale a seguito della ricerca sul campo in Giappone, compiuta a partire dal 7 novembre 2012, sui temi connessi all’inizio e fine della vita (aborto, morte cerebrale, donazione di organi, trapianti) e le loro conseguenze culturali in ambito giapponese.
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Contents Introduzione ...................................................................................................................................................... 3
Geografia e demografia .................................................................................................................................. 3
Contesto economico....................................................................................................................................... 5
Contesto politico ............................................................................................................................................ 6
PRIMA PARTE STORIA ED ANALISI DELLA SANITÁ GIAPPONESE ......................................................................... 8
Condizioni della Sanità ....................................................................................................................................... 8
Speranza di vita e tasso di mortalità ............................................................................................................... 8
Malattie infettive ............................................................................................................................................ 9
Maternità e cura dell’infanzia ....................................................................................................................... 10
Stili di vita che influenza la salute ................................................................................................................. 10
Sistema sanitario .............................................................................................................................................. 11
Sviluppi storici .............................................................................................................................................. 11
Evoluzione della sanità pubblica ................................................................................................................... 13
Evoluzione del sistema sanitario ................................................................................................................... 12
Evoluzione delle professioni sanitarie ........................................................................................................... 14
Non separazione tra prescrizione e distribuzione ......................................................................................... 15
Nascita del Ministero della Saluta e del Welfare ........................................................................................... 16
Base dell’assicurazione sanitaria ................................................................................................................... 16
Legge sull’assistenza sanitaria....................................................................................................................... 18
Sanità Pubblica ............................................................................................................................................. 19
Patient empowerment ..................................................................................................................................... 20
Informazione dei pazienti ............................................................................................................................. 21
Diritti del Paziente ........................................................................................................................................ 21
La scelta del paziente ......................................................................................... Error! Bookmark not defined.
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PARTE SECONDA LA RELIGIOSITÁ GIAPPONESE ............................................................................................... 23
Caratteristiche del panorama religioso giapponese ......................................................................................... 23
Lo Shintō ...................................................................................................................................................... 23
Il Buddhismo in Giappone ............................................................................................................................. 27
Immaginari della morte ................................................................................................................................ 29
PARTE TERZA INIZIO E FINE DELLA VITA ........................................................................................................... 38
Maternità e cura dell’Infanzia ....................................................................................................................... 38
Aborto .......................................................................................................................................................... 39
Mizuko Kuyo .................................................................................................................................................... 42
Mizuko kuyo: sviluppi storici ......................................................................................................................... 45
Mizuko Kuyo; polemiche .............................................................................................................................. 49
Mizuko Kuyo: elementi di riflessione ............................................................................................................ 53
Morte cerebrale e donazione degli Organi in Giappone .................................................................................. 58
Bibliografia di base ........................................................................................................................................... 71
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Introduzione
Geografia e demografia
Il Giappone è un Stato collocato al margine orientale del continente asiatico. Copre una superficie di
377 835 km2 con una costa di 29 751 km. Il territorio è prevalentemente aspro e montuoso. I suoi confini
sono dati a ovest dal Mare del Giappone che lo separa dalla Corea, a sud-oves il Mare della Cina orineale che
lo separa appunto dalla Cina, e a nord dal Mare di Okhotsk, che lo separa dalla Russia.
Il clima varia notevolmente, con estati tropicali nella parte centro-meridionale dell’arcipelago, e
inverni nevosi e rigidi nelle zone più settentrionali.
La popolazione del Giappone è approssimativemente di 127.8 milioni di abitanti (2005), circa il 2.1%
della popolazione mondiale. La capitale è Tokyo, con 8.4 milioni di abitanti. Dopo la capitale, le città più
importanti sono Osaka, Yokohama, Nagoya, Sapporo è Kobe, tutte con più di 1.5 milioni di abitanti. Nel 2003,
il Giappone è risultato nono nella classifica mondiale in termini di popolazione, ma nel 2010 è sceso al
decimo posto, come conseguenza della stagnante crescita della popolazione.
La popolazione sta invecchiando in maniera significativa: la percentuale della popolazione superiore
ai 65 anni era del 21.0% 0eln 2005, in confronto al 7.1% del 1970. Nel 2002 l’Istituto Nazionale di Ricerca
sulla Popolazione e sulla Sicurezza Sociale ha stimato che questa percentuale salià 29.6% nel 2030.
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Contemporaneamente, il rapporto della popolazione tra i 0-14 continua a diminuire, raggiungendo il 13.8%
nel 2005; nello stesso anno, per la prima volta nella storia, la popolazione ha iniziato a declinare in numeri
assoluti.
Secondo le statistiche pubblicate nel 2006 dal Ministero della Saluto, del Lavoro e del Welfare, il
numero di decessi nel 2005 ha superato quello delle nascite (1.08 milione contro 1.06 milione),
corrispondente a un declino della popolazione di 21 408 in un anno. Questo declino avrà inevitabilmente
profonde conseguenze sulla società e l’industria giapponese, in particolare nel settore della sicurezza sociale.
Secondo le previsioni circa la situazione futura, nel 2050 il Giappone si sarà ridotto a una
popolazione di 100.6 milioni, e la percentuale della popolazione tra 0–14 anni diminuirà al 10.8%, contro un
aumento della percentuale della popolazione sopra i 65 anni, che crescerà fino al 35.7%.
L’invecchiamento della popolazione è attribuibile, oltre all’allungamento della vita media, anche al
declino del tasso di nascita. Il Giappone è passato da essere tra i paesi con il più alto tasso di fertilità (1947–
1949, tasso totale di fertilità di 4) a essere tra i paesi con il tasso più basso (1.25 nel 2005)
Negli anni si è assistito a un netto miglioramento dei tassi di mortalità, in particolare di quella
infantile: tali miglioramento ha comportato un prolungamento della vita media a 78.53 anni per l’uomo e 85-
49 per la donna, i più alti del mondo.
Per un’analisi più approfondita della questione, si rimanda alla Prima Parte – Condizioni della Sanità.
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La composizione della famiglia giapponese ha subito cambiamenti a partire dagli anni Ottanta, con
un declino della presenza di famiglie “a tre generazioni”, e un aumento delle famiglie di individui singoli.
Secondo un’indagine del 2006 sulla Famiglia Nazionale eseguita dal Ministero della Salute, del Lavoro e del
Welfare, si è stimato che ci fossero 475.3 milioni di famiglie con 2.65 membri per famiglia. La percentuale di
famiglie mononucleari è stat registrata a 22.4%, un netto aumento rispetto il 13.1% del 1986, laddove la
percentuale di famiglie a tre generazioni è diminuita dal 44.8% nel 1986 a 20.5% nel 2006.
La diversità familiare, combinata con l’aumento della partecipazione femminile nel mercato del
lavoro, ha condotto a un aumento nella richiesta di cure extra-familiari, che vengono in parte fornite
attraverso il Sistema di Assicurazione per Cura a Lungo Termine.
L’immigrazione è in aumento: nel 1990, gli stranieri residenti in Giappone corrispondevano solo al
0.7 % della popolazione totale, mentre alla fine del 2006 la percentuale era del 1.63% (2.08 milioni di
stranieri). Secondo stime raccolte dal Ministero della Giustizia e dall’Ufficio Immigrazioni, le nazionalità più
diffuse tra gli immigrati sono Coreana (28.7%), Cinese (26.9%, compresi Taiwan e Hong Kong) e Brasiliana
(15.0%).
Contesto economico
Il Giappone è un membro del G8, con un Prodotto Interno Lordo stimato a 4088.92 miliardi di dollari
nel 2006 (valore aumentato di 4 volte dagli anni Ottanta).
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A partire dagli anni Sessanta, il Giappone ha iniziato a diventare uno dei paesi più industrializzati del
mondo; la crescita dell’economia reale è stata particolarmente significativa, con una crescita media del 10%
negli anni Sessanta, del 5% negli anni Settanta e del 4% negli anni Ottanta. La crescita ha cominciato a
rallentare a partire dagli anni Novanta, in gran parte come conseguenza del sovrainvestimento degli anni
Ottanta. La crescita è leggermente ricominciata nel 2004 2005.
Per misurare gli effetti delle tasse e della sicurezza sociale sulla distribuzione delle entrate, il governo
ha condotto a partire dal 1962 un Sondaggio sulla Redistribuzione delle Entrate, con un indagine campione
condotta ogni tre anni. Il Coefficiente di Gini, che quantifica la disuguaglianza nella distribuzione, è diminuito
costantemente tra il 1962 e il 1981, indicando quindi una maggiore equità nella redistribuzione. In questo
periodo il Giappone era considerato come la nazione più equa nel mondo, menzionato come “tutta la
nazione in una classe media”. Nel 2005, tuttavia, il coefficiente di Gini ha segnato il picco più alto con un
valore di 0.53 (in una scala da 0 a 1).
Vi è una preoccupazione crescente riguardo l’impatto negativo di questa crescita della
disuguaglianza sulla salute. Dopo un aggiustamente attraverso la tassazione e il contributo per la sicurezza
sociale, il coefficente di Gini è sceso al 0.39; questo sottolinea un ruolo sempre più rilevante della sicurezza
sociale nella ridistrubuzione delle entrate e nella salute della popolazione.
La forza lavoro totale nel 2006 (media annuale) era di 66.6 milioni, di cui 39.0 milioni di uomini e
27.6 milioni di donne. La percentuale di disoccupazione è aumentata dagli anni Novanta ma rimane
relativamente bassa al 4.1% (4.3% per gli uomini e 3.9% per le donne). L’amministrazione / gestione del
lavoro negli anni Ottanta era caratterizzata da un impiego a vita che promuoveva la fedeltà all’azienda;
questa situazione è drasticamente cambiata a partire dalla bolla economica degli anni Novanta. Secondo
l’indagine sulla forza lavoro condotta dall’Ufficio Statistiche, la percentuale di lavoratori part-time e saltuari è
aumentata dal 20.2% nel 1990 al 33.2% nel 2006.
Contesto politico
Il Giappone è una monarchia costituzionale con un governo parlamentare rappresentante, con 47
prefetture e 1844 municipalità (compresi i 23 distretti di Tokyo) come autorità locali. La costituzione,
promulgata il 3 Maggio 1947, riconosce l’imperatore (Akihito dal 7 Gennaio 1989) come simbolo dello stato,
mentre il capo del governo è il Primo Ministro, che nomina il governo. L’età minima per il voto è 20 anni.
Il Parlamento (Kokkai) è diviso in una Camera dei Rappresentanti e una Camera dei Consiglieri, e ha il
compito di nominare il Primo Ministro; a seguito delle elezioni, il leader del partito o della coalizione di
maggioranza nella Camera dei Consiglieri diviene di solito Primo Ministro.
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La Camera dei Rappresentanti conta 480 membri (dal 1996) eletti ogni quattro anni, 300 dei quali
sono eletti in circoscrizioni uninominali con il sistema maggioritario, e 180 in undici blocchi elettorali con il
sistema proporzionale (sono eleggibili tutti i cittadini giapponesi di età superiore ai 25 anni). La Camera dei
Consiglieri conta 242 membri con un mandato di sei anni di cui 144 eletti nelle circoscrizioni prefetturali per
mezzo del voto singolo non trasferibile. I restanti 98 membri sono eletti con sistema proporzionale su base
nazionale. Ogni tre anni si procede al rinnovo della metà dei membri.
Il sistema di governo locale ha due livelli: la prefettura, unità di governo locale su un ampio territorio,
e la municipalità, unità di base. Il Giappone è diviso in 47 prefetture, ognuna suddivisa in diverse municipalità.
Il ruolo dell’amministrazione locale è diventato sempre più importante nell’organizzazione e nella fornitura
di assistenza sanitaria e servizi sociali alla comunità. In ogni caso il Ministero della Salute, del Lavoro e del
Welfare mantiene un significativo controllo sotto la forma di programma di imposte sotto il sistema di
assicurazione sanitaria universale. Per aumentare l’autonomia delle autorità locali, il governo centrale ha
promosso la fusione di amministrazioni municipali a partire dall’Aprile 1999; come risultato, il numero di
amministrazioni locali è diminuito da 3229 nel 1999 a 1844 nel 2005.
Tradizionalmente, il Giappone persegue una politca sull’immigrazione che non ammette immigranti
per lavoro manuale non specializzato. Tuttavia, in risposta all’internazionalizzazione del mercato del lavoro e
della richiesta crescente di lavoratori per la cura personale, il Giappone ha iniziato ad aprire i propri confini a
infermieri e assistenti sociali stranieri. Le Filippine per prime, nel 2004, hanno proposto un Accordo di Libero
Scambio, per permettere ai propri lavoratori di essere ammessi in Giappone, e nel settembre 2006, il Primo
Ministro Koizumi e il Presidente Arroyo hanno firmato il l’Accordo Cooperazione Economica, con cui
venivano accettati in Giappone 400 infermieri e 600 assistenti sociali. Nel 2007, il Giappone ha ratificato un
trattato simile con l’Indonesia.
Una delle condizioni per ottenere il visto di lavoratore è il possesso, da parte del candidato di
sufficienti capacità comunicative in Giapponese.
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PRIMA PARTE: STORIA ED ANALISI DELLA SANITÁ GIAPPONESE
1. Condizioni della Sanità
In Giappone, la speranza di vita alla nascita nel 1935 – 1936 era di 46.92 anni per gli uomini e di
49.63 anni per le donne; tali valori sono aumentati a 50.06 anni per l’uomo e 53.96 anni per la donna nel
1947. Questi valori risultano decisamente bassi se confrontati con la speranza di vita negli altri paesi
industrializzati di quel periodo; tuttavia, negli ultimi 57 anni la speranza di vita è aumentata di circa 29 anni
per gli uomini e di 32 anni per le donne.
Speranza di vita e tasso di mortalità
La speranza di vita sana alla nascita (intesa come il numero di anni in piena salute che un neonato
può aspettare di vivere, in base agli attuali tassi di malattia e mortalità) era nel 2002 di 72.3 anni per gli
uomini e 77.7 per le donne. Sia la speranza di vita sana che attesa di vita corretta per disabilità (DALY,
Disability-adjusted life year) sono valori sviluppati per fornire delle misurazioni sommarie sulla salute della
popolazione. Il Giappone è risultato il più alto in classifica nel World Health Report 2000 (WHO, 2000) stilato
dalla World Health Organization (WHO). Bisogna comunque tenere presente che la validità e l’appropriatezza
di queste misure è stata ampiamente criticata.
Non vi è nessuna statistica nazionale sulla Mortalità Evitabile (la differenza tra l’effettica mortalità in
un paese e la mortalità prevista in tempo di pace e benessere. La mortalità evitabile e la mortalità infantile
sono gli indicatori chiave nelle politiche nazionali e globali). Uno studio internazionale ha indicato tra il 1997–
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1998 e il 2002–2003, il Giappone come secondo al mondo con il tasso di mortalità più basso all’interno di 19
paesi industrializzati.
Analizzando le cause principali di mortalità tra il 1900 e il 2000, si può notare come malattie quali
polmonite e tubercolosi siano drasticamente diminuite, mentre sono aumentati i decessi per tumori maligni
e neoplasie. La mortalità segna un leggero aumento negli ultimi anni, come conseguenza
dell’invecchiamento della popolazione; quando infatti si regola il tasso di mortalità in base all’età, esso
diviene uno dei più bassi tra i paesi sviluppati.
La principale causa di morte è indicata nei tumori maligni per gli uomini e in malattie circolatorie per
le donne. Il numero di decessi causati da neoplasmi è segnala in 193 096 per gli uomini e 127 262 per le
donne nel 2004. Riguardo ai tumori maligni, si evidenzia una differenza tra uomini e donne sia a livello di
numero totale che di mortalità per specifico neoplasma. Il numero di decessi per malattie circolatorie, nel
2004, è indicato in 149 913 per gli uomini e 160 981 per le donne. Il numero di decessi per malattie
cardiovascolari e cerebrovascolari è rispettivamente di 159 625 e 129 055. Il numero di decessi per malattie
respiratorie è indicato in 149 293. Queste tre principali cause di mortalità comprendono circa il 59% dei
decessi totali.
Si noti che i graduali cambiamenti nello stile di vita e nelle abitudini alimentari stanno lentamente
spostando le tipologie di malattie e di mortalità più vicinio a quelle individuate negli altri paesi industrializzati.
Se da un lato il Giappone registra la più alta speranza di vita nel mondo, il suicidio sta rivelandosi una
minaccia per la sicurezza pubblica; il Giappone ha infatti il più alto tasso di suicidi tra i paesi industrializzati. I
dati indicano infatti che nel 2005 un totale di 32 552 persone (24.2 per 100 000), ha commesso suicidio. La
lunga fase di difficoltà economiche può aver influito nell’aumento di del 48% a partire dal 1990, quando la
percentuale era di 16.4 su 100 000 abitanti.
Malattie infettive
Il Giappone è stato afflitto da epidemie di diverse malattie infettive, che hanno causato una alto
numero di decessi. La portata di queste malattie ha iniziato a declinare in maniera importante a partire dagli
anni Sessanta, ma si è assistito all’emergenza (o riemergenza) di morbi infettivi ha posto nuove
problematiche alla salute pubblica. Nel 1999, nella nuova Legge sulla Prevenzione delle Malattie Infettive, è
stato incorporata una clausula sul Virus dell’Immunodeficienza Umana (HIV) e sulla Sindrome da
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Immunodeficienza Acquisita (AIDS). In questo nuovo Atto, le malattie infettive sono state classificate in
quattro categorie (divenute poi cinque nella revisione del 2003) secondo la loro gravità e il rischio sociale.
Maternità e cura dell’infanzia
Nel 1975, il Giappone ha raggiunto quasi il livello più basso di mortalità infantile nel mondo, con 10
decessi ogni 1000 nati vivi. Nel 2010, il tasso di mortalità è sceso a 2.3, più basso di Svezia (2.5), Germania
(3.4), Francia (3.6) e Regno Unito (4.2) (OCSE, 2012). La riduzione del tasso di mortalità è stata raggiunta
attraverso effettivi servizi sanitari per la maternità e la cura dell’infanzia. La mortalità materna è diminuita
drasticamente, da 176.1 casi su 100000 nel 1950 a 6.6 nel 2000 e al 4.2 nel 2010 (OCSE, 2012).
Il tasso di mortalità di donne in gravidanza è relativamente alto se paragonato al basso tasso di
mortalità infantile. Inoltre, il Giappone sta iniziando ad affrontare il problema di un aumento nelle gravidanze
tra adolescenti. L’aborto provocato tra donne adolescenti è aumentato negli ultimi anni: nel 2001, era di
13.0 per 1000 donne tra i 15 e i 19 anni, mentre nel 1964 il numero era di 2.4. Il dato sembra in diminuzione,
segnalando un valore di 7.9 nel 2006.
Stili di vita che influenza la salute
Nel 2006, la proporzione di fumatori tra le persone sopra i 15 anni è stato stimato al 41.3% per gli
uomini e al 12.4% per le donne, in confronto ai dati di Stati Uniti (rispettivamente di 19% e di 14%), di Regno
Unito (23% e 21%9 e di Germania (27.9% e 18.8%) (OECD, 2008). La percentuale di popolazione dclassificata
come obesa (con indice di massa corporea superiore a 25) nel 2003 era del 27.0% per gli uomini e del 21.4%
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per le donne, e si assiste a un costante aumento nella percentuale maschile in ogni gruppo di età. Il numero
di alcolisti (coloro che bevono 150 ml di puro alcool al giorno) sta aumentando.
2. Sistema sanitario
Il sistema sanitario giapponese è organizzato secondo in modello di assicurazione sanitaria sociale.
Tale sistema di assicurazione sanitaria per i lavoratori dipendenti è stato reso operativo nel 1922 (benchè
l’attuazione sia poi stata postposta al 1927, come conseguenza del grande terremoto del 1923), mentre
quello per i lavoratori autonomi è stato promulgato nel 1938; la copertura universale è stat raggiunta nel
1961. In Giappone, la medicina curativa e i servizi di prevenzione sono stati separati: il primo è basato
sull’assicurazione, ed è fornito da professionisti privati e pubblici, mentre il secondo è basato sul sistema
generale di tassazione, e passa attraverso le autorità locali di sanità pubblica.
Il sistema di sanità pubblica giapponese è strettamente legato alle amministrazioni locali: la
maggioranza dei servizi di sanità pubblica, ad eccezione della quarantena, sono amministrati dal governo
locale (prefetture e municipi) e forniti dai centri di sanità pubblica locale a livello di prefettura e di municipio.
Esiste una copertura universale per la popolazione, attraverso una assicurazione sanitaria legale. Tuttavia,
come sopra indicato, il sistema di assicurazione sanitaria è organizzato sull’area dei trattamenti delle
malattie e enon compre generalmente le attività di prevenzione. La disposizione prevede che i dottori
possano indicare esami o test di laboratorio solo nei limiti di garantire i sintomi del paziente.
Quest’enfasi sul trattamento rende difficile affrontare le sfide alla salute associate a malattie dovute
a sbagliati stili di vita. Benchè infatti siano individuabili netti miglioramenti nella salute della popolazione,
ulteriori miglioramenti richiedono una maggiore integrazione tra il sistema di trattamento e di prevenzione.
La recente riforma del 2008 ha avuto lo scopo di integrare la prevenzione nel sistema di assicurazione,
imponendo a tutte le asocurazioni sanitarie di fornire check-ups per individuare malattie connesse a
particolari stili di vita (ipertensione, ,iperlipidemia e diabete) per la popolazione dai 40 anni in su, e per
fornire adeguada assistenza a coloro che sono a rischio di sviluppare tali malattie.
Sviluppi storici
Le origini del sistema sanitario attuale possono essere fatte risalire al 25 Agost 1543, quando per la
prima volta stranieri europei – occidentali visitarono il Giappone, guidati dai Portoghesi: nello stesso anno
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Andreas Vesalius (1514–1564) pubblicava De Humani Corporis Fabrica, collocando la scienza dell’anatomia
come base assoluta. Come conseguenza, iniziarono alcune limitate comunicazioni tra il Giappone e i paesi
Occidentali. Nel 1555, il chirurgo portoghese Luis de Almeida (1552–1583) giunse in Giappone e aprì il primo
orfanotrofio in Oita, mentre nel 1557 costruì il primo ospedale considerato il primo di stile occidentale in
Giappone.
Nel 1639, il governo centrale di Edo (Tokyo) decise di chiudere il paese a ogni comunicazione con
l’esterno, ad eccezione di Nagasaki, dove i mercanti olandesi poterono continuari le loro attività. All’incirca
nello stesso periodo, William Harvey (1578–1657) eseguì un esperimento che mostrò come l’attività del
cuore comportasse la circolazione del sangue nelle arterie. Questa scoperta ebbe un grande impatto sulla
scenza medica e rappresentò l’inizio di un nuovo approccio alla medicina nel mondo occidentale. Tuttavia, da
questo momento fino al 1853, quando le navi americane guidate dal Commodoro Perry (1794–1858)
giunsero nelle coste giapponesi, la popolazione dell’arcipelago ha continua a praticare la medicina
tradizionale.
Nei succesivi 220 anni, in Giappone furono introdotte la conoscenza dell’anaatomia, della cura
medica, dell’ostetricia, dell’oftalmologia, della farmacia e della chimica.
Evoluzione del sistema sanitario
I primi luoghi che fornirono personale e strutture per la cura e il ricovero dei malati e dei poveri sono
stati il Seyaku-in e l’Hiden-in, padiglioni costruiti nel Tempio Kofukuji Temple di Nara nel 723, con il supporto
dell’imperatrice Komyo- Kogo. Nel 1722, fu costruito il Koishikawa Yojosho, per offrire cure ospedaliere ai
poveri di Edo. Nel 1861, fu costruito a Nagasaki l’ospedale Yojosho di stile occidentale. Era costituito da otto
camere con 15 letti ciascuna, di quattro stanze per l’isolamento e le operazioni e di una sala preparatoria.
Nel 1874, si raggiunse il numero di 52 ospedali, che divenne 626 nel 1882. Nel 1879 fu fondato l’ospedale
per i pazienti con colera; al 1911, il numero di ospedali per malattie infettive era di 1532. Nel 1868, fu
fondato a Kyoto un ospedale psichiatrico, annesso all’Ospedale Prefetturale di Kyoto, e un secondo fu
fondato a Tokyo nel 1879.
Nel primo anno dell’era Meiji (1868–1912), il nuovo governo proclamò che sarebbe stata adottata la
medicina occidentale e che sarebbe stato istituito un sistema di licenze mediche. La più grande istituzione ad
adottare la medicina occidentale fu l’esercito. Dalla fine del periodo Edo, la medicina olandese ebbe
un’influenze particolarmente forte, tuttavia il nuovo governo considerò in primo luogo di introdurre la
medicina britannica con l’aiuto di W. Willis (1861–1881), che aveva già ottenuto un’ampia reputazione per il
suo lavoro durante le guerre della Restaurazione Meiji. Alla fine, nel 1869 il governo decise per l’adozione del
modello, e L. Mueller (1871–1875), insegnante di chirurgia, e T.E. Hoffmann (1871–1875), insegnante di
medicina, arrivarono a Tokyo nell’Agosto 1871 per insegnare all’università fino al 1875. Anche E. Baelz
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(1876– 1905) contribuì all’educazione medica durante i primi anni di formazione in Giappone. La Tokyo
Medical School fu riorganizzata e rinominata Facoltà di Medicina dell’Università di Tokyo nel 1877, e nel
1893 raggiunse i 23 dipartimenti. I professori dei vari dipartimenti erano tutti giapponesi; il primo professore
di Igiene fu M. Ogata (1853–1919), che aveva studiato sotto il Professor M. von Pettenkofer (1818–1901) nel
Dipartimento di Igiene dell’Università di Monaco.
Evoluzione della sanità pubblica
La prima legislazione sulla sanità, Isei (Atto sulla Medicina), fece la sua comparsa nel 1874. Questa
legislazione includeva un’ampia gamma di aree, dalle strutture amministrivative della sanità pubblica a
questioni farmaceutiche e a educazione medica. Al tempo, lo scopo più urgente della sanità pubblica era la
prevenzione delle malattie infettive. Nel 1875, fu istituito l’Ufficio di Igiene con responsabilità sulle autorità
locali. Nel 1893, per reinforzare le misure preventive, l’amministrazione della salute pubblica fu incorporata
nel sistema di polizia. Il primo Atto sul Centro di Salute Pubblica passò nel 1937, principalmente per
preparare il paese per la guerra appena iniziata contro la Cina, e contrastare la tubercolosi che aveva ucciso
circa 132 000 persone nel 1935 e che successivamente, portò alla morte di 153 000 persone nel 1940.
Fu formulato un piano per la costruzione di 550 centri di sanità pubblica nei successivi dieci anni, con
lo scopo di fornire edicazione e consulenza sanitaria, in prevalenza contro la minaccia della TBC. Lo staff di
ogni centro era costituito da due dottori, un famacista, un impiegato, tre istruttori di igiene, e tre infermieri.
Nelle regolazioni dell’Atto, la posiizione degli infermieri fu formalmente riconosciuta, con il requisito che si
trattasse di donne di almeno 18 anni di età. Nel 1935, due centri modello furono costruiti a Tokyo e Saitama
con il supporto della Fondazione Rockfeller. Nel 1937, 49 centri di sanità pubblica erano stati costruiti nel
paese e nel 1944 il numero era salito a 770. L’Atto per i Centri di Sanità Pubblica, emanato nel 1947 per
promuovere le attività dei centri, includeva anche funzioni di regolamentazione sulle questioni
farmaceutiche, sull’igiene alimentare e sulla salute ambientale. In base a quest’Atto, i centri di sanità
pubblica ampliarono le loro funzioni fino a includere la promozione dei servizi di salute per i residenti delle
singole aree, la raccolta di informazioni sulla situazione sanitaria locale, lo sviluppo di progetti per la
prevenzione dei distrubi della quiete pubblica, per la valutazione della situazione ambientale, e per la
conduzione di esami di laboratorio sull’igiene.
Nei successivi sessant’anni, c’è stato uno spostamento nell’attenzione dalle iniziative di
salute pubblica che si concentravano su sforzi collettivi, a servizi maggiormente basati sull’individuo per
promuovere stili di vita salutari, fino a culminare nell’Atto di Salute Comunitaria, passato nel 1994. Per
provvedere ai crescenti bisogni di cure a lungo termine, le politiche di servizi sanitari e servizi di welfare per
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gli anziani, fino a quel momento separati, iniziarono ad avvertire l’esigenza di essere integrati a livello
municipale. Nel 1990, furono modificate entrambe le leggi concerneti la sanità e il welfare per gli anziani, in
modo da richiedere ai governi municipali di sviluppare azioni onnicomprensive basati sulla valutazione
dell’effettivo bisogno e il livello di servizio da raggiungere. Sotto questa iniziativa, tutte le amministrazioni
municipali condussero dei sondaggi che individuassero il bisogno di cure a lungo termine all’interno della
comunità.
Evoluzione delle professioni sanitarie
Nel 1875,fu introdotto un sistema per conferire licenze per la pratica della medicina, a Tokyo, Kyoto
e Osaka. Tuttavia, sotto questo sistema, ai professonisti che stavano già praticando, fu concesso di
continuare senza esaminazione. Nel 1878, il sistema di esaminazione gu esteso fino a coprire quasi l’intero
paese. L’istituzione di un sistema di esaminazione che adottasse la medicina occidentale ed escludesse la
medicina tradizionale di origine cinese fu la base su cui i medici di educazione occidentali stabilirono una
gerarchia nell’educazione e nella pratica medica in Giappone.
Nel 1874, il numero totale di dottori era di 28 262, di cui 23 015 erano professionisti della medicina
tradizionale, e 5247 erano professionisti della pratica occidentale. La pratica di lunga data della medicina
tradizionale cinese pose serie difficoltà per l’adozione della medicina occidentale; all’inizio i dottori chr
praticavano la medicina occidentale provarono a separare la distribuzione (erogazione) dalla pratica medica,
come abitudine nei paesi europei e come indicato nel Isei (Atto sulla Medicina). Tuttavia questa separazione
risultò inaccettabile per i pazienti, che si aspettavano dai dottori la distribuzione delle medicine come nella
tradizionale pratica medica. Fu suggerito allora che i dottori di medicina tradizionale avrebbero dovuto
astenersi dal fornire medicine, ma questo avrebbe significato riconoscere la medicina tradizionale come
scienza formale. Quindi, ci fu un immediato cambio nelle politiche e la pratica medica occidentale divenne
competitiva con la tradizionale medicina conderendo ai professionisti il permesso di fornire medicinali
(esclusi quelli utilizzati dalla medicina tradizionale cinese).
I dottori gradualmente si convertirono alla medicina occidentale, il numero di professionisti medici
che aveva studiato la medicina occidentale salì da un 9.5% nel 1884 al 55.3% nel 1904 fino al 99.5% nel 1939.
Durante questo periodo, molti dottori giapponesi ricevettero riconoscimenti internazionali nell’ambito della
ricerca medica. Vennero inoltre fondate numerose società mediche: la Società Medica Giapponese (1890),
La Società Giapponese di Anatomia (1893), la Società Giapponese di Chirurgia (1898), la Società Giapponese
di Medicina Interna (1903) e la Società Giapponese per l’Igiene (1904).
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Sotto l’indicazione del Quartier Generale dell’Esercito di Occupazione, fu fondato nel 1946 il Concilio
per l’Educazione Medica all’interno del Ministero dell’Educazione e della Scienza.
Dagli anni Settanta si è assistito ad un significativo aumento del numero di medici professionisti; se
infatti nel 1970 esistevano 50 scuole di medicina, il numero salì a 80 nel 1981.
Non separazione tra prescrizione e distribuzione
Uno dei principi fondamentali dei moderni sistemi sanitari nei paesi occidentali è la distinzione tra la
prescrizione del dottore e la distribuzione di farmaci da parte dei farmcisti secondo le indicazioni del medico.
I sostenitori dell’introduzione della medicina occidentale in giappone erano convinti che fosse essentiale
l’adesione allo stesso principio. Il primo Atto sulla Medicina fu emanato in accordo con questa idea, nel
1874; la prima Farmacopea Giapponese fu pubblicata nel 1886, con l’eliminazione di quasi tutti i medicinali
tradizionali. I vantaggi della medicina occidentle furono recepiti rapidamente dai trattamenti popolari. Anche
così, i professionisti della medicina tradizione continuaro a visitare e curare i loro pazienti utilizzando il lro
proprio stile di medicinali, che aveva garantito la cura della popolazione giapponese per oltre 1000 anni; i
medici tradizionali visitavano i loro pazienti, prescrivevano e distribuivano i medicinali nello stesso luogo e
momento.
Fu così naturale che i professionisti nel nuovo periodo provassero a prescirvere e distribuire
medicinali secondo la pratica tradizionale:se infatti il dottore si fosse rifiutato di fornire la medicina al
paziente, quest’ultimo avrebbe semplicemente smesso di farsi visitre. Questo significò che i professionisti
della medicina occidentale che prescrivevano ma non distribuivano non potessero competere con i
professionisti della medicina tradizionale in una determinata cominità. Pertanto, i sostenitori della politica di
separazione dovettero modificare l’orignale impostazione, e si ritrovarono a spingere per una politica di non
separazione in modo da aiutare l’instaurazione della loro egemonia sopra la tradizionale medicina di origine
cinese.
Venne così approvato un secondo Atto nel 1887, dove venne riconosciuto ai professionisti il diritto di
distribuire ai propri pazienti i medicinali presenti nella nuova Farmacopea. Da questo momento in poi, i
farmacisti iniziarono ad opporsi a questa politica, dando il via ad una lunga controversia sulla questione
Alla fine il governo fu obbligato a rinunciare all’attuazione del sistema di separazione; riuscì tuttavia a
sradicare quasi la totalità dei medicinali tradizionali all’interno del sistema sanitario standard.
La politica di non separazione ha garantito una forte autonomia dei dottori specialmente in termini
finanziari, e ha inoltre assicurato loro una posizione di assoluto potere nel sistema sanitario primario
giapponese. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, sotto l’occupazione alleata, la separazione tra prescrizione e
distribuzione fu formalmente introdotta; tuttavia, fino alla metà degli anni Settanta, la maggior parte delle
cliniche dispensavano medicinali in prima persona. A partire dall’inizio degli anni Novanta, i medici iniziarono
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a scrivere le prescrizioni, i cui medicinali venivano poi distribuiti al di fuori di cliniche ed ospedali, con il
risultato che nel 2005 il 54% delle prescrizioni è stato distrubuito dalle farmacie locali.
Nascita del Ministero della Saluta e del Welfare
Nel 1916, fu predisposto un Consilio di Indagine sulla Salute e l’Igiene, con 34 membri sotto la guida
del Vice-ministro del Home Office. I soggetti dell’indagine erano in primo luogo i neonati, gli infanti, i bambini
in età scolare e gli adolescenti; a questi si assommano la Tubercolosi, le malattie sessualmente trasmissibili,
le lebbra, le malattie mentali; la condizione dell’alimentazione e della dimora; le condizioni sanitarie in aree
rurali. Il Consiglio fu istituito sulla base del dibattito sulla crescita della popolazione nei paesi Occidentali,
dove la mortalità infantile e tra i giovani stava già cominciando a diminuire, mentre in Giappone era in rapido
aumento.
Le indicazioni del Concilio ebbero un forte effetto sulle politiche governative; in particolare fu deciso
che i rapporti sulle condizioni di salute della popolaizione a livello locale avrebbero dovuto essere inviati
annualmente al Ministero degli Interni. Così fu rafforzato un sistema di ammnistrazione centrale per la sanità
pubblica. Nel 1921 il numero dei dipartimenti dell’Ufficio di Igiene erano saliti a cinque; salute, prevenzione,
quarantena, medicina e indagine. Nel 1938, anno in cui venne fondata l’Assicurazione Sanitaria Nazionale, fu
istituito il Ministero per la Salute e il Welfare, con cinque aree di attività: attività fisica, igiene, prevenzione,
società e lavoro. Nel 1929 fu emanato l’Atto di Soccorso per i Poveri, nel 1932 l’Atto di Assistenza per
Invalidità dei Lavoratori, e nel 1937 l’Atto per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia. Nel 1946,
all’interno del Ministero della Sanità e del Welfare furono istituiti tre Uffici – Salute Pubblica, Affari Medici e
Prevenzione. L’Atto di Governo Locale del 1947 rese obbligatorio per le amministrazioni locali l’istituzione di
uffici di igiene e di welfare nelle singole prefetture. Nel 1947 fu approvato il nuovo Atto per il Centri di Sanità
Pubblica, che divennero le basi attraverso cui le amministrazioni locali promossero politiche sanitarie basate
sui bisogni dei residenti dell’area
Nel 2001, infine, il Ministero della Sanità e del Welfare si fuse con il Ministero del Lavoro per dare
origine all’attuale Ministero della Sanità, del Lavoro e del Welfare.
Origini dell’assicurazione sanitaria
Nel periodo Edo, i Giapponesi avevano a disposizione vari sistemi di mutuo soccorso, ma dopo la
Guerra di Cina del 1984 e la Guerra Russo-giapponese del 1904 venne sviluppato un nuovo sistema di
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asssicurazione sociale per la protezione dei lavoratori in un periodo di significativa crescita industriale. Con
l’Atto dell’Industria del 1911, i datori di lavoro erano obbligati ad aiutari i proprio dipendenti in caso di
malattia o di lesioni, purchè tali lesioni si verificassero all’interno dell’attività lavorativa nella fabbrica stessa.
Il sistema di assicurazione sociale promulgato nella Germania di Bismark fu al centro di ampi dibattiti; il più
influente tra i sostenitori di tale sistema du S. Goto (1857 - 1929), Primo Ufficiale Medico nel Ministero degli
Interni tra il 1892 / 93, e di nuovo tra il 1895 e 1989. Dopo gli studi in Germania nel 1982, sostenne
l’esigenza di un sistema di assicurazione per la malattia dei lavoratori. Nel 1898 sottopose al primo minitro H.
Ito (1841 - 1909) un progetto di legge per l’Assicurazione sulla Malattia dei Lavoratori. Nel 1905, una
compagnia tessile privata, con 12 000 lavoratori organizzò un sistema di mutuo soccorso per fornire aiuto
finanziario in caso di malattia, lesioni e lutto; ogni lavoratore contribuiva con il 2% del proprio salario. Nello
stesso anno, un simile sistema fu adottato dai lavoratori di una industria metallurgica pubblica.
Benchè la forza economica giapponese fosse ampiamente consolidata all’inizio della Prima Guerra
Mondiale, l’inflazione erose la qualità delle vite dei lavoratori e fu alla base di movimenti che richiedevano la
creazione di un sistema di welfare per la forza lavoro. In particolare, ebbero una grande importanza i
rapporti e le raccomandazioni pubblicate dall’Organizzazione Internazionale dei Lavoratori, che spingeva per
l’attuazione di tali misure.
Assicurazione sanitaria per lavoratori dipendenti
L’atto per l’Assicurazione Sanitaria fu approvato nel 1922, divenendo effettivo nel 1927, per
assicurare le cure sanitarie agli impiegati dipendenti. Questo primo sistema di assicurazione sanitaria copriva
unicamente gli operai, che rappresentavano il 3.2% della popolazione giapponese, con lo scopo di migliorare
la produttività industriale e prevenire i disordini tra i lavoratori.
Le caratteristiche di tale sistema assicurativo erano:
• copertura in caso di malattia, lesioni o decesso (costi per i funerali, ecc.) sia per cause professionali
che non, e i costi per le nascite.
• copertura per i lavoratori impiegati in industrie sotto la Legge per l’Industria o la Legge per le
Attività Minerarie, pagati all’anno 1200 yen o meno
• L’assicuratore era il governo (nei casi di piccole imprese che non avevano la capacità manageriale
o un’adeguata equipe per i rischi) società auto-gestite di assicurazione sanitaria; le industrie con più di 300
dipendenti potevano organizzare il proprio sistema assicurativo
• I benefits erano riservati unicamente alla persona assicurata
• Si richiedeva la promozione di servizi di prevenzione all’interno di strutture sanitarie
• Il contributo assicurativo era diviso tra l’assicuratore e l’assicurato
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Assicurazione sanitaria per liberi professionisti
La crisi economica glibale del 1929 lasciò le società rurali giapponesi duramente danneggiate. La
legge di Assicurazione Sanitaria Nazionale passata nel 1938 aveva il compito principale di proteggere la
salute e il benessere de coltivatori. Quasta legge diede alle autorità municipali il potere di organizzare dei
propri sistemi di assicurazione sanitaria per i residenti. Questo sistema, per i lavoratori indipendenti differiva
dal precedente nel modo seguente
• L’assicurazione era gestita da commissioni di gestione assicurativa a livello municipale
• L’istituzione di un sistema assicurativo non era obbligatorio per tutte le municipalità
• Ogni famiglia nel distretto poteva iscriversi all’assicurazione, ma non vi era nessun obbligo
• I membri e i soggetti a loro carico erano coperti dal sistema
• I benefit erano le cure e i servizi sanitari, compresi cure ostetriche, costi dei funerali e agevolazioni
per la maternità
• I servizi sanitari erano gestiti attraverso contratti tra gli assicuratori e i medici professionisti
Assicurazione Sanitaria Universale
Nella nuova Costituzione del 1946, fu inserito un articolo che dichiara “tutte le persone hanno il
diritto a mantenere un certo standard di vita sana e istruita, e per raggiungere questo risultato lo stato deve
promuovere e migliorare le condizioni di welfare sociale, di sicurezza e di salute pubblica
Durante l’Occupazione (1945 - 1952) il Quartier Generale invitò una Missione Americana per un
Indagine sui Servizi Sociali in Giappone, che pubblicò i risultati in un rapporto del 1948. Tale rapporto
consigliava l’istituzione di una commissione per i servizi sociali che avesse il ruolo di consigliare politiche da
sostenere davanti al governo. Nel 1949 il Governo Giapponese istituì così una Commissione sui Servizi Sociali
come organo di consultivo del primo ministro; il Consiglio pubblicò le Raccomandazioni sul Sistema di Servizi
Sociali, in cui veniva sostenuta l’unificazione delle politiche per i servizi sociali, e l’obbligatorietà di istituire
un’Assicurazione Sanitaria Nazionale da parte delle autorita locali.
Queste indicazioni ebbero un grande impatto nel Secondo Dopoguera; nel 1956 la Commissioni
pubblicò nuove raccomandazioni, indicando inoltre l’esigenza di una copertura assicurativa per l’intera
popolazione. Nel 1958 fu così approvata la Nuova Legge sull’Assicurazione Sanitaria Nazionale che rendeva
obbligatorio per ogni municipalità l’istituzione di un proprio sistema assicurativo entro il 1960.
L’intera popolazione giapponese venne coperta da qualche tipo di assicurazione entro l’aprile del
1961
Legge sull’assistenza sanitaria
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I servizi sanitari sono attualmente regolamentati dalla Legge sull’Assistenza Sanitaria, promulgata per
la prima volta nel 1948, e le cui origini risalgono al sopra citato Isei del 1874.
La legge fu approvata sotto la guida dell’Esercito di Occupazione Americano, e non venne sottoposta
a revisione fino al 1985. Nella sostanza, la legge permetteva una linea d’azione distesa nel controllo delle
strutture sanitarie, causando un forte squilibrio geografico nella loro distribuzione.
Nella revisione del 1985, fu introdotto un pianificazione regionale per il controllo dei posti letto
ospedalieri, mentre nella seconda revisione del 1993 vennero identificati ospedali con specifici funzioni, e
posti letto a lungo termine per pazienti geriatrici. Una terza revisione nel 1997, introdusse l’identificazione di
ospedali per il supporto dell’assistenz sanitaria locale, e regolamentazioni per promuovere correte
spiegazioni per permettere ai pazienti di comprendere i trattamenti cui venivano sottoposti.
L’ultima significativa revisione risale al 2006, dove si sono introdotte politiche per permettere al
paziente di ottenere informazioni circa le strutture sanitarie a livello prefetturale, e per stabilite un centro di
supporto per la promozione della sicurezza e della fiducia nel sistema sanitario tra la popolazione
Regolamentazione della Sanità Pubblica
Le attività di sanità pubblica sono divise in due categorie: servizi personali e attività normative
(applicazione della legge). Quest’ultima include la regolamentazione di ospedali e cliniche, igiene alimentare,
(rilevamento e indagine di avvelenamenti alimentari) e isolamento coatti di pazienti con malattie infettive. I
centri di sanità pubblica, istituiti dalle amministrazioni prefetturali e dalle maggiori città, sono dotati di
potere normativi (grazie a leggi come la Legge sulle Cure Mediche, la Legge sull’Igiene Alimentare, e la Legge
sulle Malattie Infettive). Sono inoltre autorizzati a condurre attività di applicazione della legge laddove si
sospettino chiare violazioni, elemento che li differenzia dai centro di sanità municipali.
Entrambi forniscono servizi personali; i centri di sanità pubblica forniscono servizi più specializzati,
come malattie psichiatrice, TB, HIV/AIDS, e malattie incurabili (Parkinson’s, Lupus sistematico Eritematoso,
Sclerosi Laterale Amiotrofica, ecc), mentre i centri municpali forniscono servizi più general, come esami per i
tumori o per malattie connesse a errati stili di vita.
Centri di salute pubblica
Istituiti in accordo con la Legge per i Centri di Sanità Pubblica del 1937, nel 2005, si contavano 411
centri costruiti dalle amministrazioni prefetturali, 115 da città e 23 dai distretti di Tokyo, per un totale di 549
centri. Questi centri erano obbligati ad avere uno staff di un medico generale, un dentista, un farmacista, un
20
veterinario, uno specialista di raggi X, un dietologo registrato e un’infermiera (nel marzo 2005, il totale dei
lavoratori di tali centri era di 28 719).
La legge del 1937 fu successivametne amendata nel 1994 e cambio il nome in Legge sulla Salute
Comunitaria, per incorporare i centri municipali di sanità. In risposta all’attentato al sarin del 1995 alla
metropolitana di Tokyo e al gran terremoto di Kobe – Osaka, fu stabilita una nuova direttiva per rendere tali
centri il fulcro per un serio controllo ai rischi sulla salute.
Centri di salute municipali
Nel 1978, venne pubblicato il Movimento per la Promozione della Sanità Nazionale; il principale
obiettivo di questa pubblicazione era di promuovere politiche di salute dal basso usando le risorse sociali in
una data comunità istituendo commissioni di vicinato per la promozione della sanità che si occupasse del
piano sanitario municipale; i centri di sanità municipali furuno istituiti dalle autorità municipali come
strutture chiave per i servizi sanitari personali. Il numero di tali centri era di 2692 nel 2005.
Nel 1994, la Legge per la Salute Comune ampliò le funzioni e le responsabilità di questi centri per
venire in contro alle esigenze delle comunità.
Istituti Locali di Ricerca sull’Igiene
Gli istituti locali di ricerca sull’igiene furono istituiti per promuovere e migliorari le condizioni di
salute pubblica, conducendo indagini di ricerca e esami di laboratorio, e formando specialisti dell’igiene in
ogni prefettura e grande città
Nel 2007, il numero di questi istituti era di 77.
3. Patient empowerment
La relazione dottore-paziente è stata tradizionalmente di tipo paternalistico, con i pazienti che
lasciavano le decisioni in ampia maggioranza nelle mani del dottore, e questionando raramente il loro
giudizio professionale. Questo atteggiamento culturale può in parte trovare spiegazione in particolari
caratteri che informano l’intera società, e che hanno dato storicamente importanza alla sottomissione ai
genitori e ai superiori, secondo la filosofia confuciana che dalla Cina ha trovato diffusione in terra nipponica.
Recentemente, si è prestata più attenzione ai diritti del pazienti, in particolare nella direzione del
consenso informato e di una decisione condivisa.
21
Informazione dei pazienti
Fino alla promulgazione della Legge sulla Protezione dei Dati Personali (2003), l’accesso del paziente
alla documentazione non era stato riconosciuto. Trasferire i documenti di un paziente ad un altro dottore, in
base alla richiesta del paziente stesso, non era una pratica comune. Anche le assicurazioni mediche
ricevettero dal governo istruzioni specifiche di non comunicare le richieste di indennizzo ai pazienti.
Gruppi di cittadini e avvocati sostennero la richiesta di comunicazione, e dopo lunghi negoziati, il
Ministero modificò la politica di non comunicazione nel Luglio 1997, dichiarando che le assicurazioni
sanitarie avrebbero ora dovuto comunicare le richieste alle persone assicurate, posto che tale comuncazione
non causasse interferenze mediche.
La comunicazione di dati medici fu invece più difficile, poichè erano proprietà di dottori e di ospedali.
Fu tentata una revisione della Legge, e una commissione specifica per rendere esecutivo l’obbligo di
comunicazione dei dati medici. La revisione della legge fu ostacolata dalle associazioni di medici e dentisti;
nel 1999 l’Associazione Medica Giapponese propose una propria lineaguida per incoraggiare i propri membri
alle comunicazioni con i pazienti, ma fu presto attaccata poichè presentava diverse scappatoie. Quando fu
proposta la Legge per la Protezione dei Dati Personali, iniziarono a intravvedersi dei cambiamenti, in
particolare attraverso dibattiti a livello nazionale e di interesse pubblico come la libertà di stampa o della
ricerca accademico-scientifica.
La legge per la Protezione dei Dati personali fu approvata nel 2003, e divenne effettiva nel 2005. In
risposta, il Ministero fornì delle linee-guida sulle comunicazioni dei dati medici nel settembre 2004. In tali
linee-guida si indicava ad esempio la trasferibilità dei dati medici autorizzando un secono medico a
richiederne la comunicazione dal primo dottore.
Diritti del Paziente
Alcuni gruppi di cittadini e giuristi hanno spinto per l’attuazione della Legge sui Diritti del Paziente, ad
oggi non ancora passata. La difesa dei diritti del paziente sta tuttavia riscuotendo sempre più successo e un
terreno stabile all’interno del sistema sanitario.
Un primo momento importante è stato il 1996, quando il Ministero della Sanità e del Welfare, decise
di divulgare documenti segreti che indicavano la respensabilità del governo in alcuni tragedie di AIDS con
22
cause iatrogenice, nella metà degli anniOttanta (incidenti che avevano avuto come conseguenze una serie di
procedimenti giudiziari contro gli amministratori sanitari).
Per comprendere la problematica dei diritti del paziente, è necessario fare riferimento alla storia del
Morbo di Hansen; dopo l’abolizione della Legge sulla Prevenzione della Lebbra nel 1996, molti dei pazienti
erano troppo anziani per ritornare alle loro normali vite sociali. Inoltre, sia i pazienti che i loro parenti erano
soggetti a un forte pregiudizio sociale, principalmente dovuto all’ignoranza. Coloro che venivano dimessi
dalle case di cura, fecero causa al governo, dichiarando che i loro diritti umani erano stati violati a causa della
negligenza del governo. Nel maggio 2001 la Corte sostenne la loro istanza. Il Governo decise allora di
risolvere la situazione emanando una legge speciale per il risarcimento delle persone colpite da morbo di
Hansen. Il Ministero della Sanità e del Welfare istituì una commissione di inchiesta per valutare le dimensioni
della tragedia, che nel 2005 sottopose al Governo una serie di linee-guida sulle politiche per la sanità pibblica
che prevenissero la ricomparsa del Morbo di Hansen. Tra le principali raccomandazioni, si individuano la
necessità di una legislazione sui diritti del paziente, e uno sviluppo di un sistema per la sua difesa effettiva.
Nel marzo 2006, un gruppo di studio iniziò a lavorare per valutare la realizzazione di tali linee-guida; i
diritti del paziente sono ancora oggi un importante soggetto di dibattito.
23
PARTE SECONDA: LA RELIGIOSITÁ GIAPPONESE
1. Caratteristiche del panorama religioso giapponese
Prima di entrare nell’analisi dei sistemi di credenze giapponesi, bisogna tenere presente che ci
stiamo riferendo a una realtà culturale profondamente diversa da quella cui siamo abituati. Il termine
religione, shukyō 主教 viene introdotto in Giappone solo molto tardi, come risultato dell’incontro con
sistemi di pensiero occidentali; al suo posto vengo utilizzate le parole dō o michi 道, via, sentiero, sistema
(ad esempio, Butsudō, “via dei Buddha”, Judō, “via dei Maestri confuciani”, Shintō, “Via degli dei”). Manca
inoltre la divisione cui siamo abituati tra magia e scienza, e manca soprattutto la logica aristotelica che ha
visto emergere tra gli altri il principio di non contraddizione: anziché escludere linee di pensiero perché
inconciliabili secondo i parametri cui siamo abituati, in un sistema come quello nel quale ci muoviamo
prevale la tendenza al compromesso, all’individuazione dei punti di contatto e di similitudine.
La maggior parte della popolazione Giapponese tende a non identificarsi all’interno di un’unica fede
religiosa, e a incorporare nel proprio orizzonte religioso, elementi derivanti dalle diverse realtà religiose, in
quella che possiamo definire una serena libertà di culto verso ogni tipo di fede.
Le principali fedi che caratterizzano la cultura giapponese sono lo Shintō (lett. Via degli Dei) e il
Buddhismo; accanto ad esse, troviamo una forte influenza del pensiero confuciano che, benchè mai evoluto
in culto vero e proprio in terra giapponese, è penetrato in profondità nella realtà locale, in particolare nella
strutturazione della famiglia e nel culto degli antenati.
Vi sono inoltre quelle che vengono chiamate Nuove Religioni, termine che indica un’ampia gamma di
movimenti religiosi di origine mediamente recente, spesso nate intorno a figure carismatiche di guaritori o
sciamane, che uniscono insieme elementi shintoisti, buddhisti e cristiani.
Esistono infine una serie di minoranze religiose tra cui il Cristianesimo, che conta tra 1 e 3 milioni di
fedeli, l’Islam, l’Hinduismo, la religione Bahai, il Jainismo e le religioni proprie delle isole di Okinawa.
Lo Shintō
Buona parte degli autori occidentali, e la quasi totalità di quelli giapponesi, trattano lo
shintō come “religione originaria” dei Giapponese, un complesso cioè di idee,
24
atteggiamenti, valori, pratiche di culto, formatosi e sviluppatosi esclusivamente nelle isole
nipponiche, tesoro spirituale del tutto indigeno1.
Siamo abituati a considerare lo Shintō come una religione, politeista di stampo animista, i cui culti e
le cui pratiche rappresentano l’anima più profonda del popolo giapponese. Dobbiamo comunque ricordare
che, come ogni fenomeno culturale, lo Shintō ha interagito con realtà diverse, e ha attraversato fasi
evolutive che hanno portato fino alla costituzione delle pratiche attuali. Lo stesso utilizzo del termine Shintō
non è privo di problemi: esso è infatti relativamente recente, e rappresenta solo una parte di quel più ampio
complesso di culti e pratiche che caratterizzano il sostrato prebuddhista .
In linea generale, tuttavia, possiamo definire lo Shintō come una religione che santifica la vita in ogni
suo aspetto; i kami 神 (tradotto con il termine dèi) esprimono il senso del sacro che l’essere umano prova
dinnanzi ai fenomeni naturali, siano essi terribili o benefici. I kami inoltre rappresentano l’elemento divino
che risiede in ogni aspetto della vita nella suo quotidiano scorrere, andando a eliminare ogni distinzione
ontologica tra umano e superumano, e ponendo questi due elementi come punti diversi di una sola linea
continua.
È difficile capire, nella realtà della religione giapponese vissuta, se un oggetto è un
simbolo, sede o autentica manifestazione d’un kami […] Nella vita segreta, intima dello
spirito giapponese la precisazione si direbbe quasi di scarsa importanza, anzi parrebbe
inopportuna2 .
È importante notare, in questa sede, l’apparente disinteresse dello Shintō per l’etica
Si ha la netta impressione che i valori etici primordiali fossero altamente emotivi e
selezionati secondo una visione squisitamente magica del mondo3
Come sottolinea Maraini, sembra verificarsi una sovrapposizione tra ciò che è male e ciò che è brutto
o sporco. Si noti soprattutto come non ci siano riferimenti a colpe o peccati nel senso cristiano del termine. È
1 Maraini, Fosco, “Lo Shintō” in Filoramo, Giovanni (a cura di) Religioni dell’India e dell’Estremo Oriente, Laterza, Roma
1996, pag. 619 – 20
2 Ibid., pag. 622.
3 Ibid., pag. 618.
25
possibile che questo scarso sviluppo dell’etica sia da rintracciare nel part icolare contesto storico
giapponese; l’ingresso del Buddhismo e del Confucianesimo infatti, religioni già fortemente strutturate e
ricche in senso etico, possono aver fornito alla popolazione giapponese tutte le risposte di carattere etico e
morale di cui necessitava, rendendo quindi in qualche modo superflua un’elaborazione prettamente
scintoista delle stesse. Lo Shintō ha vissuto una notevole rinascita nei secoli XVIII – XIX, assurgendo a
religione di stato e sviluppando quindi una più precisa linea etica riconoscibile. Così con il tempo, si sono
affermati valori più propriamente Shintō, come il kōkoku-shugi (tennoismo, vale a dire la fedeltà al tennō,
l’imperatore, come simbolo assoluto dell’unità e della sacralità del Giappone), il genjitsu-shugi (realismo), e il
meijō-shugi, amore e reverenza per tutto ciò che è luminoso e puro. Rimane però evidente la distanza tra il
sistema etico e morale scintoista e quello delle altre grandi religioni presenti sul territorio.
L’organizzazione dello spazio e del tempo
Ogni cultura opera delle scelte per definire lo spazio sacro, le sue specificità e i suoi limiti,
e queste scelte non sono mai casuali. All’origine vi è un’organizzazione generale
dell’ecosistema; in questo ordinamento viene designata la porzione spaziale più adatta a
riassumere le connotazioni del sacro4
Ma cosa viene prima, la definizione culturale su cui si struttura la vita economica, o al contrario,
viene prima quest’ultima e l’elaborazione simbolica giunge come supporto? La relazione in realtà è
bidirezionale, assistiamo a un continuo rimando tra i due aspetti della questione; se da un lato l’elemento
pragmatico condiziona il panorama culturale, a sua volta questo plasma inevitabilmente la vita socio-
economica delle comunità umane.
Il Giappone non fa eccezione; è qui di notevole rilevanza, per la strutturazione di questo sistema, la
rivoluzione del 300 a.C., che introduce nel paese la risaia. Quest’elemento è il punto focale intorno al quale
ruota la concezione dello spazio giapponese; la sua introduzione comporta un notevole intervento dell’uomo
sulle terre, fino ad allora incolte, e richiede l’utilizzo di tecniche molto più complesse rispetto a quelle legate
al “taglia e brucia”, fino ad allora praticato. La risaia, ta 田, trasforma il territorio, lo organizza e lo suddivide.
Le attività ad essa legate, inoltre, scandiscono allo stesso modo il tempo; la vita dell’uomo e il suo lavoro
inizia così ad organizzarsi su ritmi precisi, basati sull’acqua e sull’alternanza delle stagioni.
4 Ibid., pag. 631
26
Nasce così il villaggio, sato 里, che con la risaia, ta 田, circoscrive lo spazio umano, e impone una
cesura netta tra la pianura, sede della vita umana, e la montagna, yama 山, impenetrabile, dalla vegetazione
fitta e selvaggia, il regno naturale in cui l’uomo non può e non deve interferire.
Questa dimensione ‘altra’, che appartiene agli spiriti, è shinken to shita 森閑とした,
spazialità di silenzio e solitudine, ed è anche shingenna 森厳な, solenne, grave, che ispira
timore reverenziale.5
È sulla montagna che riposano i morti, è nella montagna che risiedono i kami, i buddha e i
bodhisattva, e per questo molte montagne in Giappone sono sacre, e hanno dato origine a molte pratiche
cultuali e ascetiche; è il luogo per eccellenza dell’incontro con il sacro.
Su questo binomio spaziale si fonda la dicotomia tra omote 面 e ura 裏; omote indica il viso di una
persona, ma anche la maschera, la “faccia sociale. Al polo opposto abbiamo ura indica la parte nascosta delle
cose e dell’uomo; qui si innesta il concetto di oku 奥, il cuore intimo delle cose. Questa demarcazione non è
secondaria, perché dà motivo dell’esigenza costante di racchiudere ciò che è segreto, di nasconderlo alla
vista. Il potere sacro può manifestarsi solo in questa dimensione di oku, di nascosto, e l’organizzazione dello
spazio sacro indica sempre un movimento verso un cuore intimo, verso appunto l’oku.
Le cesure, in ogni caso, non sono mai nette, ed esistono delle zone di confine, delle aree grigie, più
pericolose, perché meno strutturate, in cui è possibile entrare in contatto con gli esseri sopranaturali; questa
zona intermedia, in alcuni casi individuata nel satoyama 里山, il territori a metà tra coltivato e selvaggio, ha
delle caratteristiche particolari. Il rapporto tra uomo e natura è qui in bilico tra una possibilità di controllo
dell’uomo sull’elemento naturale, e al contrario una condizione di dipendenza dell’uomo dalla natura;
troviamo qui tutte quelle figure indefinite che rappresentano le trasformazioni e la fuoriuscita dai confini
tracciati, come tutte quelle anime che, non più tra i vivi, non riescono tuttavia a raggiungere la pace
definitiva nel mondo dei morti.
Anche il tempo viene rielaborato con l’introduzione della coltivazione risicola; la nuova temporalità è
caratterizzata da ritmi regolari, cadenzati, fonte quindi di sicurezza e stabilità, e l’esistenza acquista così una
dimensione di prevedibilità. Come per lo spazio, con la risaia l’uomo può imporre i propri ritmi e i propri
tempi sull’imprevedibilità della natura; inoltre, dato il carattere stesso dell’attività agricola legata al riso, il
tempo umano assume la peculiarità di ciclicità.
Il tempo dell’agire umano viene scandito da alcuni momenti di passaggio, corrispondenti all’inizio o
alla fine di alcune fasi di coltura del riso, che entrano a far parte della dimensione religiosa; sono questi
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momenti sacri che marcano la temporalità quotidiana, e che danno contemporaneamente la dimensione di
un tempo altro.
L’anno giapponese è scandito da numerosi riti e festività legati ai vari momenti di attività agricola, a
partire dal ta asobi 田遊び, che consacra l’inizio della coltivazione; da qui in poi tutte le fasi più delicate o
significative vengono accompagnate da altrettanti rituali, fino alla conclusione del raccolto e al
festeggiamento, con la cerimonia del niinamesai 新嘗祭.
Oltre ai riti legati alla coltivazione del riso, ne possiamo trovare tutta un’ampia tipologia, in cui è
riconoscibile la struttura binaria di natura-cultura applicata alla dimensione temporale; se esiste il tempo
fatto proprio dall’uomo, esistono momenti di transizione, un tempo “altro” su cui l’uomo non agisce, e in cui
la sua attività si riduce. Momenti del genere sono lo Shōgatsu 正月, il capodanno, e il bon 盆, a metà estate;
entrambi questi momenti corrispondo a una pausa o una riduzione dell’attività umana, e a questa diversità
nel fluire del tempo corrispondono avvenimenti particolare. Non a caso sono questi i periodi in cui si attende
il ritorno dei morti.
Infine, ricordiamo che, come in ogni società, la temporalità scandisce i ritmi e i cambiamenti della
vita umana. Il crescere fisico è suddiviso in varie fasi, per ognuna delle quali viene indicato un ruolo ben
definito, e con essi obblighi e divieti.
Il Buddhismo in Giappone
Che cos'è il buddhismo
Il Buddhismo è una religione che si sviluppa nel VI secolo a.C. a partire dalla vita e dagli insegnamenti
di Siddhārta Gautami, divenuto poi noto con l'appellativo di Buddha, l'Illuminato. Si tratta di un elaborato
sistema religioso dalle numerossissime correnti filosofiche interne che tuttavia condividono uno stesso
fondatore, il Buddha appunto, e una comune base filosofica.
Siddhārta Gautama Sakyamuni (560 – 480 circa a.C.) fu un principe ereditario di un piccolo regno ai
piedi dell'Himalaya, e come tale crebbe in un ambiente carico di lusso e di ricchezze, lontano dall'estrema
povertà e durezza della vita delle masse popolari; nei testi della tradizione buddhista, si dice che il giovane
principe non fosse soddisfatto della propria esistenza, e che di nascosto dalla propria famiglia, sia riuscito a
uscire dalle mura del proprio palazzo e abbia vagato per le strade della città, dove in quattro diverse
occasioni, incontra un vecchio, un malato, un corteo funebre e un asceta; questi incontri lo impressionano a
tal punto da spingerlo ad abbandonare la propria vita di agi e ricchezze per dedicarsi alla via religiosa. Dopo
anni di dedizione e di meditazione, dopo aver dichiarato che “tutto è illusione”, raggiunge l'illuminazione
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sotto l'albero del Risveglio, e diventa l'Illuminato, il Buddha appunto. A questo punto, si dedicherà a
insegnare ai propri discepoli per portare anch'essi sul cammino dell'illuminazione. Muore infine intorno agli
ottant'anni, entrando nel Nirvana e liberandosi quindi dalle catene di questo mondo.
Il messaggio del Buddha, pur nella sua intenzione di universalità, affonda le sue radici nelle tradizione
indiana precedente, in particolare nelle nozioni di karma e di rinascita: questi termini, ormai invalsi nel
vocabolario comune, indicano una precisa teoria religiosa secondo la quale le azioni di ogni essere senziente
determinano il tipo di rinascita nelle proprie vite future, così come la propria esistenza presente è il risultato
di karma (azioni) passato. Gli esseri viventi non sono limitati ad una sola esistenza con inizio e fine precisi, ma
sono destinati a un indefinito ciclo di morti e rinascite, più o meno fortunate (dèi, uomini, animali, ecc.),
determinate dalle proprie azioni; questo ciclo di rinascite viene chiamato samsara. Le buone e le cattive
rinascite all'interno del samsara non sono intense come ricompense o castighi, ma semplicemente come i
risultati naturali di determinati tipi di azioni.
Il Buddhismo riprende questa concezione hinduista e la rielabora, introducendo il concetto di
intenzione: è quest'ultima ora ad essere il punto di partenza del karma. Inoltre, il Buddhismo vede nel
samsara e nel continuo ciclo di morti e rinascite la causa prima della sofferenza, e mira all'assoluta
liberazione . Essere illuminato, per i Buddhisti, vuol dire comprendere che tutto il mondo non è altro che
impermanenza, e quindi costante malessere e continua sofferenza; il buddha è colui che si libera dalle
catene del mondo e riesce a raggiungere il Nirvana, il nulla.
La nostra più grande illusione – questa, l'intuizione centrale nel buddhismo – è la
convinzione che abbiamo di costruire un “io” permanente: qui sta l'ostacolo maggiore per
raggiungere l'Assoluto. 6
Per liberarsi dalle catene del samsara, il buddhista dovrà per prima cosa sradicare ogni desiderio dal
proprio cuore, in modo da evitare che nuovo karma si accumuli e venga quindi interrotto il ciclo di rinascite.
Per abbandonare ogni desiderio, è necessario praticare una severa disciplina morale e mentale, che indirizzi
il praticante nella giusta direzione e gli permetta di arrivare al Nirvana e abbandonare il ciclo doloroso delle
vite.
6 Cheng, A. Storia del Pensiero Cinese. Vol. II, Einaudi, Torino 2000
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Introduzione in Giappone e prime interazioni con i culti locali
Il Buddhismo fa il suo ingresso in Giappone nel VI secolo d.C., per opera di missionari coreani intorno
alla metà del 500; da questo momento il Buddhismo è una religione riconosciuta, e soprattutto adottata
dalle alte sfere del potere.
La diffusione del Buddhismo nel paese è dovuto ad alcuni elementi specifici. Fondamentale è in
primo luogo il carattere non esclusivistico, conciliante, della dottrina buddhista, che assorbe con estrema
facilità culti, pratiche e divinità locali; il Buddhismo infatti è una religione universale, che si rivolge a tutti gli
esseri umani, al di là delle barriere religiose. La sua è una logica assimilazionista, che porta a leggere le
divinità indigene come manifestazioni o aspetti della stessa verità, e anziché negare la veridicità delle altre
pratiche religiose, le inserisce nella sua logica e nel suo orizzonte. Va ricordato per di più, che come lo Shintō,
anche il Buddhismo conosce alcune pratiche sciamaniche, derivanti dal suo sostrato induista, che non fanno
che facilitare l’avvicinamento dei giapponesi a questa religione.
Inoltre è un veicolo di civiltà, in particolare, in particolare di molti elementi della cultura cinese,
primo fra tutti la scrittura. I monaci giunti dal continente erano infatti uomini di lettere, medici, scienziati,
filosofi; vengono così introdotti nuovi saperi, e con essi notevoli benefici per la vita quotidiana. Ricordiamo
inoltre che insieme al Buddhismo, si diffondono in Giappone sia la filosofia confuciana, sia il pensiero taoista
(soprattutto la dottrina dello Yin e dello Yang) e varie forme di astrologia, divinazione e geomanzia.
Il Buddhismo, inoltre, tende a fare un ampio ricorso alle immagini, attitudine che nello Shintō è
pressoché assente; l’immagine associata al culto, quindi, impressiona enormemente il giapponese che, non
abituato a questo tipo di pratica, sente in questo modo una maggiore vicinanza con la divinità rappresentata.
Superata una prima fase di scontro (le cause del quale vanno rintracciate nelle complesse dinamiche
politiche del periodo in questione), Buddhismo e Shintō iniziano un processo di adattamento, portando alla
creazione di particolare forme di sintesi che hanno retto fino ai nostri giorni
2. Immaginari della morte
Quando si parla di concezione della morte, bisogna tenere presente che, anche a questo livello,
l’interazione tra l’immaginario shintoista e quello buddhista è sempre presente; per quanto le due visioni
siano estremamente diverse e implichino concezioni differenti dell’aldilà, non possiamo prescindere da
tenere presente che le due realtà religiose hanno sempre convissuto, e si sono quindi evolute l’una insieme
all’altra, e inevitabilmente influenzate.
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La morte nello Shinto
Si dice spesso che per lo Shintō 神道 la morte è abominio7
La morte occupa un posto di primo piano nella tradizione mitologica giapponese; testi come il Kojiki
古事記 presentano lunghe e importanti narrazioni volte a dare ragione dell'ingresso della morte nel mondo,
e dei sentimenti e reazioni che essa provoca. L'episodio forse più noto è quello in cui viene narrata la morte
di Izanami, la dea primordiale, e la discesa agli inferi di Izanagi, suo sposo e dio primordiale, per cercare di
riportarla in vita. In questa narrazione, Izanagi arriva alle porte degli inferi e incontra la moglie, che gli
impone di non guardarla in volto. Quando il dio infrange questo divieto, si trova dinnanzi l'orrore del
cadavere e della decomposizioni, e conosce il terrore della morte. Dopo una lunga fuga dalla sposa,
ferocemente in collera per il gesto di Izanagi, il dio riesce a fare ritorno nel mondo dei vivi e a sigillare il varco
d'accesso al regno dei morti. È solo a questo punto che potrà fermarsi e lavare via nell'acqua l'orrore della
morte.
Evidente è, in queste narrazioni, l’idea del corpo morto, del cadavere, come fonte di orrore; Izanagi
scappa inorridito davanti alla figura della dea, divorata dai vermi. In stretta unione con questo elemento,
troviamo l’idea che la morte, e quindi il morto, siano fonte di pericolo; la dea infatti, insegue lo sposo, furiosa
per essere stata vista, ed è fermata solo a fatica dal dio.
È necessario separare nettamente la vita dalla morte per garantire la salvezza dell’uomo, e Izanagi
compie proprio questa cesura, chiudendo alla dea il passaggio tra i due mondi.
Parallelo a questo concetto si struttura l’idea di impurità: si tende infatti a definire spesso la morte
nell’immaginario shintoista come il massimo livello di contaminazione. in realtà non è la morte di per sé a
essere impura, quanto il cadavere, e il processo di decomposizione che lo trasforma da corpo vivo a
scheletro.
Il cadavere è negato, si tende a non pronunciarne la parola, a non raffigurarne
l’immagine; deve essere un’assenza, un’interruzione del discorso, un silenzio. 8
Questo rifiuto netto del cadavere può essere spiegato avendo presente il fatto che il corpo è da
sempre un elemento simbolico di grande importanza, forse l’elemento simbolico per eccellenza che
permette di veicolare le rappresentazioni dell’universo e della società. Il corpo è il veicolo attraverso cui
7 Raveri, M. Itinerari del sacro, op. cit., pag. 151
8 Ibid., pag. 124.
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passano le scelte culturali di una determinata società, che ne organizzano le percezioni, l’uso, il linguaggio; il
“corpo sociale”, determina il modo in cui viene avvertito e interpretato il corpo fisico. D’altra parte, gli eventi
biologici, in quanto inevitabili, condizionano la formazione della cultura di una società. Il corpo è quindi
sempre in bilico tra natura e cultura, e permette continue rielaborazione dell’una e dell’altra, e dei limiti che
le separano; in questa sua ambivalenza, il corpo fa da filtro alle percezioni del singolo individuo di se stesso e
della collettività in cui vive.
Lo Shintō intende il corpo come unità inscindibile, come una perfetta compattezza, “protetta”
dall’involucro più esterno, cioè la pelle. Tutto ciò che intacca questa armoniosa unità è fonte di enorme
impurità, è kegare 汚れ, impuro, perché scalfisce non solo il corpo biologico, ma molto più importante, tutte
le demarcazioni sociali e culturali che il esso rappresenta.
La putrefazione del corpo crea una situazione di confusione tra la parvenza del figura precedente,
viva, e l’inevitabilità del suo trasformarsi in scheletro; è una fase intermedia tra due sponde ben definite, la
vita e la morte .
Quanto succede al cadavere, inoltre, corrisponde a quanto accade all’anima del defunto: il processo
di decomposizione ha la sua controparte nel viaggio che il morto compie nell’aldilà prima di entrare nel
nuovo mondo. Quindi, la pericolosità del cadavere corrisponde a quella del morto recente; entrambi in
metamorfosi, entrambi elementi di confusione a cavallo di categorie ben definite, entrambi cause di
disordine. Il cadavere va quindi allontanato, nascosto, o addirittura distrutto .
I riti funebri rispecchiano fedelmente questa interpretazione del cadavere; si tende infatti non solo a
separare simbolicamente il morto dai vivi, ma si sottolinea anche la sua dimensione liminale, di elemento in
metamorfosi, e si scandiscono con attenzione le tappe che porteranno il defunto ad entrare definitivamente
nella nuova società dei morti.
Ma vediamo allora cosa succede all’uomo dopo la sua morte: esiste un’altra vita? Esiste un altro
mondo, o al contrario la morte è la fine totale dell’esistenza umana? Una delle caratteristiche che spesso gli
studiosi fanno notare rispetto ai culti prebuddhisti è il loro orientamento “in-questo-mondo”; questa
affermazione intende sostenere che per i giapponesi non esiste un mondo dei morti separato, e che quindi
sussiste una sorta di continuità tra questo mondo e il mondo dell’aldilà .
In quest’immaginario quindi non vi sono cesure nette tra i diversi mondi e i loro abitanti; kami, esseri
umani e defunti non sarebbero tre realtà ontologiche distinte, ma si troverebbero in punti diversi di una
stessa linea. Il mondo dell’aldilà, in questa concezione, non può essere individuato in un livello inferiore
rispetto al nostro, e troviamo quindi rappresentazioni diverse .
Uno dei luoghi più strettamente connesso agli esseri soprannaturali e alle anime dei morti, è la
montagna. L'immaginario delle montagne come luoghi sacri ha radici in tempi molto antichi, ed esistono
diverse tipologie di credenze ad esse connesse. Le montagne vengono viste come collegamento tra cielo e
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terra, come luogo in cui risiedono gli dei, o come divinità esse stesse. Più spesso però, la montagna è il luogo
delle anime dei morti, sia che vengano intese come luogo di incontro tra questo mondo e quello dei morti ,
sia che vengano invece interpretate come dimora stessa dei morti – e dei kami. Anche se visibili e
potenzialmente accessibili da chiunque, le montagne rappresentano una dimensione diversa, un altro luogo
da cui giungono come ospiti dei e defunti.
La relazione tra la montagna e gli spiriti dei morti è rintracciabile in una delle feste più popolari della
tradizione giapponese; il bon 盆, che ha luogo in Luglio e Agosto. Durante questa festa, la comunità dei vivi si
prepara per accogliere gli spiriti dei morti, che ritornano brevemente a visitare le proprie famiglie .
La morte Buddhista
La religione Buddhista è connessa fin dalle sue origini con la problematica della morte; ricordiamo
infatti che la vista del cadavere è, insieme a quella del povero e del malato, una delle rivelazioni che spinge il
Siddharta ad abbandonare il mondo per dedicarsi esclusivamente alla pratica ascetica, e ad elaborare le
famose quattro verità alla base delle credenze buddhiste. La morte quindi è in primo luogo una delle più
grandi fonti di dolore nella vita dell’uomo; insieme alla vecchiaia e alla malattia, essa rivela una prima verità
dell’esistenza umana, vale a dire la sua dimensione di sofferenza. Inoltre, la morte è un destino inevitabile,
che aspetta tutti gli esseri viventi, e che in qualche modo ne dimostra la fragilità.
La morte è anche centrale all’interno della legge karmica delle rinascite; va da sé che senza di essa,
questa non esisterebbe; è quindi quel passaggio che porta l’uomo, fintanto che è imprigionato dal proprio
karma, a rinascere vita dopo vita, in condizioni migliori o peggiori a seconda dei meriti o demeriti accumulati
nelle vite precedenti. Liberarsi da questo ciclo, dal samsara, equivale a comprendere che non esiste altro al
di la della vacuità, che il mondo fenomenico è un’illusione che ci imprigiona e dalla quale dobbiamo liberarci.
La morte è quindi l’emblema dell’intero processo karmico: è sofferenza, sia che la si intenda come la
nostra fine inevitabile che ci separa da tutto ciò cui siamo attaccati, sia che la si intenda invece come il punto
di passaggio che spinge il non illuminato verso una rinascita di nuovo carica di sofferenze, a prescindere che
si rinasca come dio o come demone. Solo l’illuminato, nel momento in cui vede la vacuità di ogni cosa,
spezza la catena di morti e rinascite e si libera dalla sofferenza raggiungendo il Nirvana.
Se è quindi innegabile che il buddhismo sia completamente protesto verso la liberazione dalle catene
di questo mondo, e asserisca con forza che tutto è impermanenza, assistiamo nel corso della sua lunga vita e
interazione con altre strutture di credenze, all’elaborazione di un ricchissimo e complicatissimo immaginario
cosmologico nel quale grande spazio ha la rappresentazione dell’uomo dopo la morte. In particolare
vengono individuati diversi mondi, ogni dei quali è connotato dagli esseri che lo abitano, ed è sostenuto dal
loro karma. Naturalmente i mondi differiscono a seconda del Karma accumulato, per cui ci saranno
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dimensioni dove si godrà del karma positivo, e altri in cui si sconterà quello negativo, racchiudendo così tutte
le possibilità di rinascita nel Samsara.
Tradizionalmente si individuano sei mondi (e correlate modalità) di rinascita; il Mondo dei Deva (gli
dèi), un luogo immateriale di beatitudine caratterizzato dalla felicità e dal completo appagamento; il Mondo
degli Asura, primo dei mondi materiali, popolato da semidei, la cui rinascita è stata condizionata da gelosie,
invidie, lotte; pur conducendo un’esistenza piacevole, sono ugualmente condannati all’invidia verso i deva; il
Mondo degli Umani caratterizzato da dolore, sofferenze, invidie, desideri e passioni ; il mondo degli Animali,
la rinascita nel quale è risultato di ottusità e pregiudizi nella vita precedente; il Mondo dei Preta, gli spiriti
affamati, che nella vita passata sono stati guidati dalla possessività e dal desiderio; infine gli Inferni, dove
sono condannati a rinascere coloro che hanno vissuto all’insegna dell’odio e dell’ostilità.
In terra giapponese, queste credenze si sono modificate per adattarsi alle concezioni pre-buddhiste, e sono
quindi stati ripresi alcuni elementi di estrema importanza sociale, quali il culto degli antenati, e rielaborati
per adattare ad essi l'insegnamento buddhista.
Chi sono i morti nella concezione religiosa giapponese?
Poiché ci muoviamo in un territorio così articolato, dobbiamo subito precisare che non ci troviamo di
fronte ad una categoria univoca e compatta; da un lato vediamo infatti agire le credenze scintoiste, sulle
quali si innestano usanze di derivazione cinese tra le quali il complesso culto degli antenati; dall’altro lato
invece operano le credenze buddhiste, con la legge delle retribuzioni del karma. Vediamo quindi una
coesistenza tra immaginari in cui il defunto ha uno status nell’aldilà equiparabile a quello raggiunto in vita, in
qualche modo a prescindere dalla condotta mantenuta, e invece un immaginario in cui le azioni compiute nel
corso dell’esistenza condizionano pesantemente l’esito della vita dopo la morte.
Per poter comprendere i criteri in base ai quali si designa il destino dell’anima dopo la morte,
dobbiamo innanzitutto volgere la nostra attenzione a un elemento centrale della società giapponese, vale a
dire la famiglia ie 家, e in particolare la struttura definita dōzoku. Il termine viene utilizzato per indicare un
raggruppamento di una famiglia principale, chiamata honke 本家, e da una serie di famiglie cadette, o rami
secondari - bunke 分家 - , collegate tra di loro da una discendenza per via patrilineare. Questa struttura
prevede che il primogenito provveda alla continuazione della famiglia honke, mentre i fratelli cadetti diano
vita ai rami secondari bunke.
Il dōzoku è l’unità base della vita economica, sociale e religiosa della comunità. La famiglia principale,
e per estensione il suo capofamiglia, possiede l’autorità politica, economica e spirituale, e ha la
responsabilità di controllare l’attività quotidiana di tutti i bunke. In cambio i membri dei vari lignaggi
secondari sono legati alla famiglia principale da obblighi materiali e spirituali. Non è difficile rintracciare in
questa configurazione i principi base del Confucianesimo, che organizza la struttura familiare in modo
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fortemente gerarchico, ponendo al centro dell’educazione le virtù confuciane, prima fra tutte la pietà filiale.
La famiglia viene quindi ad assumere una connotazione fortemente polarizzata tra chi detiene il potere,
quindi il capofamiglia, cui succederà il primogenito, e chi invece è tenuto a sottostare a tale potere, vale a
dire tutti gli altri membri. Per quanto il Confucianesimo non abbia mai in Giappone uno sviluppo completo,
quindi, questi elementi filtrano prepotentemente dal continente e strutturano fortemente il panorama
sociale giapponese.
Il culto degli antenati, giunto dalla Cina con quest’impostazione familiare, ha la funzione sociale di
garantire il mantenimento della struttura del dōzoku.
Per il nucleo familiare, che è l’unica struttura sociale tendente all’autosmembramento e
quindi all’autodistruzione, l’antenato assume una doppia funzione paradigmatica: è
simbolo di aggregazione in una dinamica sociale centrifuga ed è il fattore comune di
identificazione nella potenziale dispersione e confusione dei rapporti di parentela .9
Venerando l’antenato, fondatore della famiglia, e con esso a mano a mano tutti i capifamiglia che si
sono succeduti, i riti non fanno che rafforzare e perpetuare il sistema. Ogni dōzoku ha un antenato fondatore,
che viene onorato sia dalla famiglia honke che dalle famiglie bunke; i figli esclusi dalla successione devono
sposarsi e mettere al mondo un discendente in modo da dare origine a una nuova famiglia e diventarne così
l’antenato.
La posizione di antenato non ha alcun legame con le qualità della persona, o il suo corretto agire
morale; essa dipende invece da una certa struttura sociale, dallo status che in questa struttura si occupa, e
infine dalla partecipazione attiva al rinnovo della stessa . Concetti quali ricompensa o punizione sono
completamente al di fuori di questa logica, e vengono introdotti solo nel momento in cui il Buddhismo ha
una maggiore diffusione; tuttavia, il principio della legge karmica non soppianta mai il meccanismo del culto
degli antenati, dando vita più spesso a un’integrazione dei due elementi piuttosto che alla supremazia
dell’uno sull’altro.
L’importanza dell’antenato, e quindi del culto a lui dedicato, può essere ben compreso solo se si tiene a
mente la centralità della famiglia, ie 家, come elemento basilare della struttura sociale. L’appartenenza di un
individuo allo ie è talmente importante da non venire mai meno, anzi da perdurare nel tempo anche dopo la
morte; la coscienza di essere parte di una famiglia è rafforzata dal culto degli antenati, che quindi agisce in
9 Ibid., pag. 176.
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funzione del mantenimento delle strutture sociali attraverso questo fortissimo senso di appartenenza
familiare.
L’anima del defunto, tuttavia, non diventa antenato nel preciso istante della morte: esiste sempre un
momento in cui il morto, anche quello destinato a diventare senzo, è pericoloso. Si tratta del momento
immediatamente successivo alla morte, quello in cui il corpo ha ancora la sembianza della vita, e l’anima è ai
margini del viaggio nell’aldilà. È un momento di trasformazione enorme per ambedue questi elementi, un
periodo in cui il morto attraversa una condizione di marginalità, è sulla soglia tra due realtà, potenzialmente
in entrambe, e proprio questa ambiguità lo rende pericoloso. È proprio per scongiurare questo pericolo che i
riti funebri sono osservati con tanta accuratezza e sono caratterizzati da diverse tappe che sanciscano il
progressivo allontanamento tra vivi e morti. Il cammino che porta il capofamiglia defunto a diventare
antenato è infatti un percorso lungo ed elaborato.
È rintracciabile una simmetria, su cui ci soffermeremo più avanti, tra il percorso dello spirito
dell’antenato nell’aldilà e la crescita dell’individuo in questa società, e anche nei riti può essere individuata la
stessa struttura. Il funerale, come il battesimo prevede una serie di riti di purificazione rivolti da un lato al
corpo e dall’al tro ai parenti, e contemporaneamente inizia per la comunità dei vivi il periodo di lutto, al
defunto (come al bambino) viene attribuito un nuovo nome, il kaimyō 戒名, che simboleggia la sua nuova
identità e che viene scritto su una tavoletta, ihai 位牌, posta sul ripiano più basso dell’altare degli antenati –
butsudan 仏壇. Nei primi giorni dopo la morte, l’anima vaga, sulla tomba, nella tavoletta, oppure anche nella
sua precedente casa; dopo i primi sette giorni, tuttavia, lo ihai diventa l’oggetto simbolico tramite il quale si
può comunicare ritualmente con lo spirito del defunto.
Con il rito del centesimo giorno e il primo bon il morto perde la sua connotazione ambigua e incerta,
e assume maggiore stabilità. La sua nuova condizione può essere assimilata a una sorta di “nascita” nella
nuova famiglia degli antenati; egli è ora parte dei morti benevoli, sorei 祖霊.
Se i primi cento giorni sono caratterizzati da un’attività rituale più accentuata (con offerte, preghiere,
visite alla tomba) in particolare al settimo, quarantanovesimo e centesimo giorno, da qui in poi, l’azione
rituale si attenua, diventa meno assidua, e lentamente si dirada, poiché vi è ora la sicurezza che il morto non
possa più far ritorno tra i vivi. Le successive cerimonie si tengono a intervalli prefissati al primo anniversario,
al terzo, al settimo, al tredicesimo, al diciassettesimo, al ventitreesimo, e infine al trentatreesimo anno dopo
la morte; queste tappe segnano una vera e propria crescita del defunto nella famiglia degli antenati, con una
forte simmetria rispetto ai momenti più significativi della vita dell’uomo (giovinezza, adolescenza, maggiore
età, matrimonio, nascita dei figli, e così via). L’ultimo rito della memoria, tomuraiage 弔い上げ, celebra la
fine del percorso e quindi il definitivo e completo inserimento del morto nello status di antenato; ora è
finalmente niisenzo 新先祖, nuovo antenato, e con il passare degli anni, perderà la sua connotazione
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individuale per essere lentamente integrato con gli altri defunti della famiglia, i furusenzo 古先祖 ed essere
venerato come una divinità.
Il culto degli antenati è un’immagine perfettamente speculare dell’organizzazione dei vivi; attraverso
di esso viene ad essere rafforzata la posizione del capofamiglia, che diventa quindi il vero fulcro del potere
sociale e religioso. Espletare i riti in favore degli antenati quindi non è un atto personale di devozione verso i
propri predecessori, ma è un dovere della famiglia come unità prettamente sociale.
Il Buddhismo, come abbiamo detto, assimila il culto degli antenati, che vengono chiamati hotoke 仏.
Questo termine viene tradotto come Buddha, tuttavia diventare hotoke non significa assolutamente
“diventare Buddha” in senso stretto; si tratta invece di un’idea molto diversa che vuole dare alla morte e al
morto una connotazione positiva. È molto vicina all’idea di diventare una sorta di ujigami 氏神, nume
tutelare della famiglia, estremamente positivo che ha il potere di proteggere i propri discendenti .
Al di fuori di questa categoria, dalla connotazione fortemente sociale, esiste una variegata fisionomia
di spiriti e defunti, che per scelta o per caso non hanno potuto compiere il percorso sociale o naturale a loro
destinato. Questi vengono generalmente raggruppati sotto la denominazione di morti inquieti, e sono
proprio loro gli interlocutori privilegiati delle sciamane. Essi sono le presenze più pericolose e angoscianti,
perché vagano ai confini tra vita e morte, esclusi dalla famiglia degli antenati e impossibilitati a tornare nella
famiglia dei vivi. La loro sofferenza non è legata alla rinascita in qualche inferno terribile, ma è dovuta
all’ambiguità esistenziale tra vita e morte in cui si trovano; sono anime marginali, escluse, cariche della
potenzialità che sempre si concentra nei confini, pronta a eccedere e a sfuggire dal controllo.
Alcune tra le più popolari categorie di spiriti sono le seguenti: i muenbotoke 無縁仏, gli spiriti senza
discendenza, che non hanno potuto o voluto completare in modo adeguato il ciclo di vita, i goryō 御霊, le
pericolosissime anime dei morti vendicativi e i mizuko 水子, le anime dei bambini.
Il muenbotoke è lo spirito di chi già in vita si trova in una situazione di margine, vale a dire di tutti
coloro che, essendo fratelli cadetti, sono automaticamente esclusi dalla successione. A costoro è richiesto di
distaccarsi dal ramo principale della famiglia e dar vita ad una propria discendenza, sposandosi e dando alla
luce figli, per garantire nuova continuità; i muenbotoke tuttavia non hanno voluto o potuto farlo. Sono stati
in vita una figura subordinata, marginale, senza una chiara identità sociale, e dopo la morte continuano
un’esistenza di solitudine e anonimato. Muen indica l’assenza di legami sociali, e i muenbotoke, non avendo
creato i legami che ci si aspettava, sono costretti all’anonimato e alla solitudine eterna, non avendo nessun
erede che possa officiare i culti della memoria. Per evitare che questi spiriti si aggirino nei pressi
dell’abitazione familiare, vengono officiati scarni riti che costringano lo spirito ad allontanarsi .
Il secondo gruppo di morti inquieti si discosta significativamente da questa tipologia, comportando
una pericolosità ancora maggiore. Si tratta dei goryō, gli spiriti di coloro che non hanno potuto realizzare
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un’aspirazione o un desiderio perché morti inaspettatamente e violentemente. Sono le anime di amanti
travolti dalla passione, di guerrieri desiderosi di gloria, di cortigiani che cercano disperatamente il potere;
qualcuno o qualcosa li ha privati della vita prima che i loro desideri potessero venire appagati. Anche i vivi
sentono che queste anime hanno subito una sorta di ingiustizia, percepiscono che è rimasto qualcosa di
tragicamente incompiuto a causa di un torto loro inflitto; questi spiriti vengono sentiti in parte come vittime.
Tutte le morti connesse agli spiriti goryō sono accomunate dalla percezione di avvenimenti prematuri, che
lasciano una sorta di “resto di vita”, un tempo sospeso tra la potenzialità di vita e l’inesorabilità della morte.
C’est ce temps, ce “reste” de vie inemployé, en suspens, comme actif, qui fabrique la
malemort. Dit autrement , c’est le karma qui n’est pas épuisé. C’est dans cet
inachèvement qu’elle prende source. 10
Questo li rende estremamente pericolosi, perché sono spiriti inappagati, inevitabilmente legati al
loro desiderio, e desiderosi di vendetta verso tutti coloro che li hanno ostacolati; i goryō sono estremamente
pericolosi, soprattutto perché sono incapaci di dimenticare. Per amore o per odio, questi spiriti possono
rimanere inchiodati all’istante della propria morte, troppo carichi di sentimenti passionali e di risentimenti
per potersi staccare da questo mondo. Essi diventano la causa prima di altre morti violente e anzitempo,
soprattutto attraverso epidemie e catastrofi di varia natura, e in questo modo della creazione di nuovi spiriti
vendicativi, creando una catena a dir poco spaventosa agli occhi dei vivi.
Il pensiero buddhista riprende l’immagine dei morti inquieti nella figura dei gaki 餓鬼, anime
inquiete condannate a rinascere in uno dei livelli più bassi del ciclo del samsara; di solito, vengono
immaginati con il ventre gonfio e il collo stretto, sempre affamati perché profondamente soggiogati da un
profondo desiderio di esistenza che non può venir saziato. La loro terribile immagine è la manifestazione di
uno stato di profonda frustrazione, di dolore e della totale impossibilità di avvicinarsi all’illuminazione.
Data la loro stretta correlazione con la tematica dell’aborto, rimando l’analisi dei Mizuko ai capitoli
successivi.
10 Baptandier, Brigitte (sous la direction de), De la malemort en quelques pays d'Asie, Editions Karthala, Paris 2001, pag.
10.
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PARTE TERZA INIZIO E FINE DELLA VITA
Questa parte conclusiva è dedicata all’analisi di due momenti cruciali, a livello culturale e fisico;
l’inizio e la fine della vita, in particolare nelle loro correlazioni con le tematiche dell’aborto e della morte
cerebrale. Ad una fase di analisi della legislazione vigente, farò seguito una breve lettura culturale del
fenomeno con le diverse possibili interpretazioni.
1. Apetti legislativi connessi alla maternità e all’aborto
Maternità e cura dell’Infanzia
L’attuale legislazione sulla Maternità e la Cura dell’Infanzia risale al 1947, quando fu varata le Legge
sul Benessere dell’Infanzia, che tracciava le seguenti regolamentazioni:
• Il governatore di ogni prefettura aveva il compito di promuovere servizi per l’educazione alla sanità
durante la gravidanza e la cura del neonato.
• Il governatore doveva assicurare che a neonati e bambini venissero riservati adeguati controlli
medici.
• Le donne incinte dovevano segnalare la loro gravidanza, e ricevere un Manuale sulla Salute della
Madre e del Bambino, che aveva due principali obiettivi: fornire istruzioni alle madri e facilitare la contabilità
del fenomeno
• La cura istituzionalizata doveva essere fornita a tutte quelle donne incinte che ne avessero
esigenza e non potessero permetterselo. Fu quindi istituito un centro specializzato per l’assistenza della
madre e del bambino che rispondesse a tali esigenze. Nel 1958, erano stati costruiti diversi centri del genere
dalle diverse amministrazioni municipali, in particolare nelle aree lontane da ospedali o da centri di cura.
Nel 1956 venne emanata la Legge per la Cura della Madre e del Bambino, dove si imponeva il
controllo dei bambini di 3 anni da parte di assistenti sanitari, presso i centri di cura. Nel 1977, venne aggiunto
l’obbligo di controllo di bambini di 18 mesi, da parte di assistenti sanitari nei centri municipali.
Queste leggi hanno costituito la base per l’attuale servizio sanitario connesso alla gravidanza e alla
pediatria, e sono state accompagnate dal sopra indicato declino della mortalità infantile.
Secondo la Legge Per la Cura della Madre e del bambino, del 1965, le donne incinte dovevano
segnalare il loro stato alle amministrazioni municipali, e ricevere i lmanuale sulla Salute della Madre e del
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Bambino. Questo manuale è un compendio dove tutti i professionisti del settore sono invitati a scrivere note
di salute (come per esempio la vaccinazione). La legge inoltre autorizza i neonati ad avere un’assistenza
gratuita finanziata da fondi pubblici, e ad usufruire di servizi di prevenzione. Assistenza sanitaria e
consultazioni con infermieri pubblici possono continuare dopo la nascita, specialmente laddove il neonato
abbia un peso inferiore ai 2500g, nel qual caso i genitori sono tenuti a riferire il dato al centro di assistenza
locale, in caso di immediata necessità.
Tutti i neonati hanno diritto a screening ed esami di varia natura per determinare la presenza di
malattie congenite; bambini nati da madri positive all’epatice B hanno diritto a vaccinazioni e
immunoglobina (dal 1985, e dal 1995 come parte dei benefit dell’assicurazione sanitaria).
Tuttavia, la diagnosi intrauterian per la Sindrome di Down, e altre anomalie fetali non sono ad oggi
eseguite.
I bambini che nascono in evidente sottopeso sono sottoposti a terapia intensiva, la cui copertura
assicurativa inizia il giorno della nascita all’interno del piano dei genitori. A tutti bambini è riservato un
controllo completo, intorno ai 2 anni di età e successivamente tra i 3 e 4 anni, fornito a livello municipale. Il
primo controllo comprende controllo della crescita fisica, stato nutrizionale, stato della colonna vertebrale,
malattie della pelle, salute orale, controllo del movimento, sviluppo mentale e analisi delle vaccinazioni. Per i
bambini di 3 / 4 anni, si procede inoltre con un esame di oftalmologia e otorinolaringoiatria.
Questi controlli sono eseguiti solitamente nei centri di assistenza municipali, con dottori impiegati
ad-hoc.
Aborto
È possibile trovare traccia della pratica dell’aborto in Giappone a partire dal XII secolo. Fino al
periodo Edo, l’aborto non era sanzionato legalmente, ma la pratica era più diffusa tra le elite e gli abitanti
delle aree urbane (la popolazione rurale tendeva a praticare l’infanticidio). Tale atteggiamento si modificà
nel XVII secolo, quando il governo condannò l’aborto come “immorale omicidio”, rendendo illegale nel 1667
la pubblicità del servizio
Nel 1842, lo Shogunato vietò l’aborto provocato, ma tale legge non ebbe effetti di rilievo all’infuori
della città di Tokyo, fino a quando nel 1869 l’aborto divenne illegale in tutto il Paese.
Le politiche sull’aborto continuarono similment nel periodo Meiji, sotto la spinta del nazionalismo e
del militarismo emergente: una serie di campagne per la procreazione furono infatti portate avanti (come
vedremo più oltre), allo scopo di assicurare al Paese un prospero e forte esercito. Nel 1880, il primo Codice
Penale Giappone dichiarò l’aborto un crimine, e poi aumentando le sanzioni per tale crimine nel 1907: le
donne infatti rischiavano un incarcerazione fino a due anni, mentre i dottori che eseguivano l’aborto
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rischiavano una condanna di sette anni di carcere. Solo nel 1932 i dottori ottennero il permesso di eseguire
l’aborto in caso di grave rischio di vita per la madre.
Nel 1931, nacque l’Alleanza per Riformare al Legge Anti-Aborto (Datai Hō Kaisei Kiseikai), fondata da
Abe Isoo, che sosteneva “è un diritto della donna decidere di non dare alla luce un bambino, e l’aborto
rappresenta un esercizio di questo diritto” ; in particolare, l’Associazione riteneva che l’aborto dovesse
essere reso legale laddove ci fossero condizioni altamente sfavorevoli, come disturbi genetici, stato di
indigenza della donna, divorzio, pericolo di vita per la donna, e laddove la gravidanza fosse il risultato di uno
stupro.
Nel 1934, il Quinto Congresso per il Suffragio Universale Femminile Giapponese propose una
risoluzione richiedento la legalizzazione di aborto e contraccezione; solo dopo la guerra, queste risoluzioni
vennero prese in esame.
Il Secondo dopoguerra fu per il Giappone un periodo di crisi sociale enorme: nel 1946 infatti circa 10
milioni di persone erano considerate a rischio di fame, mentre la popolazione continuava a crescere, anche a
causa dei 6 milioni di rimpatriati e di soldati di ritorno dal fronte. Venne così legalizzato l’aborto sotto
specifiche circostanza, con la Legge di Protezione Eugenetica del 1948
Questa leggere forniva ai cittadini servizi di pianificazione familiare, permettendo l’aborto indotto e
la sterilizzazione, in caso di necessità per motivi di salute; nel 1949 la legge fu sottoposta a prima modifica,
introducento il permesso di aborto per ragioni economiche, portando a un rapido crollo degli aborti illigali.
Un’ulteriore modifica della legge venne introdotta nel 1952, quando vennero snellite le procedure
burocratiche per la richiesta di aborto.
Ai dottori fu fatto obbligo di riferire all’Associazione dei Medici Designati il numero di aborti eseguiti;
nel 1955 si registrò la più alta percentuale di aborti (circa 1 milione), che tese poi a calare negli anni
successivi.
Nel 1996, la Legge venne modificata drasticamente, divenendo la Legge per la Pritezione della Salute
della Madre; la stessa legge venne poi modificata l’anno successivo; l’aborto veniva reso possibile in casi di
particolare gravità come la presenza di malattie mentali ereditarie, malformazioni ereditarie, e il rischio per
la salute della madre.
Nel 2006, la legge subì ulteriori revisioni, autorizzando i dottori certificati a eseguire l’aborto medico
su donne che sono entro la 21 settimana di gravidanza, secondo le seguenti condizioni:
• La gravidanza o il parto rischiano di mettere a rischio la salute della donna, sia a livello fisico che
economico.
• La gravidanza è il risultato di un atto criminale
È compito del dottore valutare se la richiesta di aborto da parte della donna rientra in una delle
sopracitate condizioni. I dottori sono tenuti a riferire il numero di aborti eseguiti, sulla base della Legge di
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Protezione della Maternità . Se il feto è di 13 settimane o più, verrà trattato come “nato morto”, e i dottori
sono tenuti a rilasciare certificati di “parto di feto morto”.
Il codice penale giapponese sanziona l’aborto illegale (Codice Penale, sezione 212-216). Gli aborti
eseguiti a norma di legge sono naturalmente esclusi da tale sanzione.
Il numero di aborti riportati nel 2006 era di 276 352, di cui solo 126 erano gravidanze causate da atti
criminali. Tutti gli altri sono stati eseguiti per la protezione della salute della madre, fisica o economica. La
maggior parte degli aborti sono eseguiti nella fase iniziale della gravidanza, entro le 11 settimane (quando il
certificato per “feto nato morto” non è richiesto). Se il trend attuale vede una leggera diminuzione nel
numero di aborti, si assiste ad un aumento della richiesta di interruzione di gravidanza da parte di
adolescenti tra i 15 e i 19 anni, probabilmente come conseguenza di una diminuzione dell’età del primo atto
sessuale, e della non assunzione della pillola contraccettiva (che non è stata legalizzata fino ad anni recenti).
Una media di 8.8 ragazze adolescenti su 1000 si è sottoposta all’aborto nel 2006, più del doppio rispetto al
1995.
Ad oggi, l’opinione pubblica accetta ampiamente l’aborto. Secondo un inchiesta del 1998, il 79%
delle donne nubili e circa l’85% di quelle sposate accettava l’aborto.
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2. Mizuko Kuyo
La popolarità delle pratiche che rientrano sotto questo nome ha visto un picco verso la metà degli
anni Settanta del secolo scorso, quando sono stati filmati e ripresi alcuni di questi riti e trasmessi sulla
televisione come esempio di particolari pratiche in aree localizzate.
Il termine mizuko 水子 viene tradotto letteralmente con bambino d'acqua, e in tempi recenti ha
iniziato a rappresentare l'anima dei bambini abortiti . L’immaginario vede gli spiriti dei bambini radunarsi
lungo il del fiume dei morti, sai no kawara, incapaci di attraversarlo perché i demoni impediscono loro di
salire sulla barca che conduce al di là; su questa riva grigia, quindi le piccole anime giocano, e cercano di
costruire degli stūpa con i sassi del fiume, in modo che quest’azione permetta loro di accumulare meriti e di
raggiungere l’altra sponda del fiume o una rinascita immediata; immancabilmente i demoni arrivano e
distruggono senza pietà le costruzioni, e immancabilmente i piccoli spiriti ricominciano da capo. È
un'immagine estremamente tristi, dove la piccola anima è rappresentata sola, spesso dimenticata dai
genitori, e incapace di liberarsi da questo luogo di pena, per certi versi simile al Limbo cristiano, a metà tra la
vita e la morte.
Nelle diverse preghiere e composizioni in cui questa credenza può essere rintracciata, ad un certo
punto entra in scena il bodhisattva Jizō, divinità estremamente popolare in Giappone, le cui valenze
analizzeremo più avanti, che distrugge i demoni e salva i piccoli dal loro stato di tristezza e miseria. L'insieme
dei riti per i mizuko opera a partire da questa visione, da questa immagine molto vivida di quanto accade alle
anime dei bambini abortiti nell'aldilà, elaborando diverse varianti o mettendo l'accento su diversi elementi.
Possiamo qui sottolineare che l’azione di Jizō contro i demoni, in difesa delle piccole anime solitarie,
è estremamente rapida e totalizzante, e non lascia spazio alla descrizione dell’effettivo scontro tra queste
due figure: in altre parole, non esiste un vero scontro tra bene e male, tra demoni e dio salvatore, ma anzi
l’azione di Jizō è assoluta e totalizzante, garantendo alle anime dei piccoli bambini l’immediata salvezza.
Inoltre, possiamo ancora notare la componente di sorprendente indifferenza che i genitori sembrano
provare nei confronti di queste anime sole, elemento che in alcuni inni può giustificare il risentimento da
parte dei mizuko verso la famiglia che lo ha respinto, ma che più spesso ha la funzione narrativa di
sottolineare la triste condizione delle anime erranti.
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Nella pratica, possiamo individuare diverse attività cultuali dei mizuko kuyo, a seconda delle
dimensioni, dei tipi e dei costi del rito prescelto.
Un primo genere di riti, certamente i più semplici e forse anche i più antichi, sono quelli che vengono
gestiti dalle donne della comunità locale, che si sono organizzate in sorte di associazioni informali per
prendersi cura del santuario locale di Jizō. Si tratta di una sorta di cura perpetua rivolta ad una statua
collocata agli incroci o sul ciglio della strada. Tale cura consiste nel posizionare dei fiori di fronte alla statua,
nel lavarla di tanto in tanto, e nell'accensione di qualche bastoncino di incenso. I santuari di Jizō, la cui
protezione si rivolge tanto ai bambini morti in tenera età quanto ai bambini abortiti, sono quindi spesso il più
vicino possibile alle diverse comunità locali.
Ad un secondo livello, possiamo individuare i riti che hanno il loro fulcro nell'altare domestico, dove i
mizuko vengono incorporati alla stregua di ogni altro antenato della famiglia. In questo caso non vengono
individuate nette distinzioni tra le due categorie di spiriti, e il mizuko viene ricordato e omaggiato insieme
agli altri antenati sul butsudan.
Passando ad un livello di maggior complessità, e uscendo in qualche modo dalla dimensione privata
e domestica, si collocano altri tipi di attenzioni, in primo luogo la commissione di una statua ad immagine di
Jizō, e la sua collocazione rituale all'interno di uno degli ormai numerosi cimiteri adibiti al culto dei mizuko.
Tali cimiteri sono nati, di solito, in connessione ai templi del Buddhismo istituzionale, ma si è assistito negli
ultimi anni alla nascita di luoghi e di templi indipendenti che si occupano esclusivamente della
commemorazione dei mizuko: si tratta in questi casi di istituzioni che non hanno una storia antica, né
legittimazione da parte delle fonti classiche, e che assomigliano di più ad iniziative imprenditoriali, i cui
intenti commerciali sono evidenti.
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All'interno dei grandi templi
buddhisti, i rituali per i mizuko hanno in
ogni caso trovato la loro propria
dimensione. In particolare, in molti luoghi
di culto, si può trovare una grande statua
di Jizō, o anche un gruppo di sei statue
più piccole, con un bavaglino rosso. È qui
che i genitori che hanno compiuto un
aborto possono eseguire dei semplici riti
di commemorazione; si inchinano
profondamente, osservando un rispettoso silenzio, accendono qualche candela e recitano brevi preghiere.
Alcuni templi riservano nicchie al cui interno possono essere collocate bambole e altri piccoli oggetti e
giocattoli che rappresentano un legame con il bambino o il feto abortito. All'interno di alcuni templi è
possibile trovare un cimitero dedicato a Jizō, rivolto specificamente ai bambini abortiti.
Al di fuori del Buddhismo, i mizuko kuyo sono stati oggetto di attenzioni da parte di quelle che
vengono definite Nuove Religioni, culti nati a partire dalla fine della seconda guerra mondiale dall'attività di
una figura carismatica che ha raccolto intorno a sé un buon numero di fedeli. Le nuove religioni spesso
incorporano elementi misti di Cristianesimo, Shintoismo e Buddhismo, e anno forti elementi sciamanici,
proprio nella figura del fondatore (o della fondatrice) e dei suoi eredi.
In generale, i rituali per i mizuko vengono eseguiti in vari momenti dell'anno, a partire dalle feste per
gli spiriti degli antenati, come il bon, la festa per i morti di
Agosto, quando gli defunti fanno ritorno alle loro dimore e alle
loro famiglie tra i vivi. Si tratta di riti di preghiera, in cui gli
officianti e i fedeli si riuniscono per rendere omaggio ai
defunti; a volte, accanto alle preghiere, i fedeli scrivono dei
brevi messaggi ai bambini, oppure ergono statue del dio Jizō
come omaggio al mizuko. Oltre a questi momenti di preghiera
legati al ritorno degli antenati, i riti per i mizuko possono
essere tenuti regolarmente su base annuale, mensile o a richiesta dei fedeli interessati; alcuni templi inoltre
hanno istituito servizi di preghiera e ricordo dedicati espressamente ai mizuko. Portiamo ad esempio il
tempio Ninnanji, che offre dei servizi speciali per i bambini abortiti con cadenza mensile, o il tempio
Adashino Nenbutsu-ji di Kyoto che conduce mizuko kuyo speciali il 24 di ogni mese.
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Questa breve descrizione non può che essere preliminare ad un'analisi più approfondita dei
significati e delle valenze religiose che soggiacciono ai rituali, e delle motivazioni che agiscono da spinta per
la perdurante forza di queste attività.
Mizuko kuyo: sviluppi storici
È importante sottolineare che i mizuko kuyo, così come noi oggi li conosciamo, sono il frutto di
un'evoluzione storica importante, che affonda le sue radici nel periodo medievale e che coinvolge elementi
sociali di varia natura.
L'epoca Edo Tokugawa (1603 - 1867), in cui molti elementi della religiosità contemporanea hanno
visto un’evoluzione, è stato un periodo di pace in cui lo stato viene per la prima volta dopo molto tempo a
trovarsi sotto controllo di uno solo centro di potere sotto lo Shogun Tokugawa. Il processo di unificazione
passa naturalmente anche attraverso i simboli e i meccanismi di selezione culturale, e la religione non fa
certamente eccezione; il buddhismo si adatta alle delicate circostanze e, per rispondere agli attacchi
provenienti da altre scuole filosofiche (principalmente confuciane) che lo additavano come religione “inutile”
e lontana dalla quotidianità, si come religione della famiglia e dei valori tradizionale. È questo un processo
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reso possibile dalla sua adattabilità e permeabilità agli stimoli locali, che permettono al buddhismo di legarsi
alla popolazione in modo più forte assorbendo e rielaborando elementi folklorici, rendendolo il riferimento
per il culto degli antenati e per i riti funebri, ad essi strettamente legati.
Questo processo di adattamento permette al buddhismo, già in quest’epoca, di essere più sensibile alle
necessità della popolazione locale, anche rispetto a tematiche come infanticidi, aborti e i conseguenti culti
mizuko. Bisogna tenere presente che in questo periodo i culti dei mizuko sono decisamente ridotti, e non
conoscono l’articolazione che raggiungeranno nel XX secolo; pur tuttavia, è il buddhismo cui ci si rivolge per
officiare i seppur semplici riti per i bambini abortiti o morti dopo la nascita.
L'emblema di questo processo è sicuramente il dio che per eccellenza viene associato ai bambini
abortiti, vale a dire Jizō. Occorre considerare che Jizō è una figura particolare del pantheon giapponese, a
metà tra kami shintoista e figura buddhista. La sua precisa denominazione è quella di bodhisattva: i
bodhisattva sono, nella tradizione buddhista, degli illuminati che, anziché entrare nel Nirvana come i Buddha
veri e propri, rimangono in questa dimensione per aiutare tutte le creature viventi ad abbandonare il ciclo
delle rinascite. Essi si collocano e operano in particolare tra i diversi piani di esistenza, tra una rinascita e
l’altra, tra la vita e la morte, per aiutare gli esseri sofferenti negli inferi, o nelle difficili rinascite tra un piano e
l’altro. Sono figure dalla grande fama popolare, proprio perchè connotate da questa imperfezione e pietà
che li rende molto vicini alle problematiche umane. Sono loro i destinatari delle preghiere per i defunti,
proprio perchè si ritiene che possano salvarli dagli inferni e, viaggiando da un piano all'altro dell'esistenza,
possano garantire loro rinascite migliori e più vicine all'illuminazione.
Jizō è una figura di questo tipo: insieme ad altre divinità come Amida e Kannon, viene considerato il dio in
grado di viaggiare tra il nostro mondo e i vari inferni e mondi dell'aldilà per portare conforto alle anime dei
defunti, e per assisterli con la sua compassione.
Nei secoli il culto di Jizō ha subito una crescente adesione da parte dei fedeli. Statue a lui dedicate si
trovano agli incroci delle strade, o ai confini dei villaggi (come a ricordare i punti di passaggio tra un mondo e
l'altro, dove di solito opera il dio). In passato, in particolare nel periodo Edo, a lui si rivolgevano le donne che
avevano abortito (spesso di nascosto dalle autorità sociali), affinchè garantisse all'anima del bambino
salvezza dalla triste permanenza sulle sponde del fiume Sai, e gli permettesse una veloce rinascita in
un'esistenza migliore. Inizialmente queste offerte e preghiere non erano codificate, vale a dire non erano
identificabili in un vero e proprio insieme di culti.
Con l’avvento della Restaurazione Meiji, e di tutti i discorsi nazionali che essa implica, nasce il mito
del kazokukokka 家族国家, dove l’ideale di famiglia patrilineare viene ad essere connesso sul piano
ideologico con quello di stato potente; viene quindi esaltato il modello della famiglia prolifica, che assicura
nuove generazioni al regime e maggiore produttività allo stato. La famiglia diventa così una realtà pubblica ,
e vive un processo di sacralizzazione parallelo a quello della figura dell’imperatore. Inizia così a essere diffuso
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l’ideale del ryōsaikenbo 良妻賢母, la “buona moglie e saggia madre”; alle giovani donne viene insegnato a
essere sudditi leali e patriottiche attraverso un’educazione basata sulle “tre sottomissioni” - sanjū 三従; al
padre, poi al marito, infine da vedova al figlio maschio. Viene inoltre relegata al ruolo esclusivo di cura della
casa e procreazione dei figli, ruolo cui devono dedicarsi con abnegazione e senza riserve; inizia quindi ad
essere esaltata la maternità, come esperienza di grande valore morale che caratterizza la vera natura della
donna ed esalta la sua lealtà verso lo stato e l’imperatore. L’aborto diventa così un peccato morale enorme,
un tradimento della nazione; il discorso religioso agisce quindi per legittimare questa impostazione,
spingendo nella direzione di un rafforzamento dell’ideale di maternità.
È importante notare che l'aborto e l'infanticidio vengono stigmatizzati non per sentimenti di pietà
nei confronti degli infanti, ma in quanto danneggiano il sistema statale nazionalista e imperialistico.
La società, tuttavia, risponde in maniera fredda a questo richiamo, e preferisce un tipo di controllo
delle nascite e di pianificazione familiare che in una certa misura tende a dare la precedenza alla qualità della
vita, rispetto alla quantità. Se infatti da un lato il ricorso all’aborto e all’infanticidio può essere spiegato con le
basiche necessità di sopravvivenza dettate dalla povertà, vediamo che questo, quando si diffonde in altre
dimensioni sociali, è il sinonimo di una necessità di pianificazione familiare che mira a favorire i membri già
nati, in qualche modo già presenti, rispetto a quelli in potenza. Ecco che quindi le pratiche di aborto, e
spesso di infanticidio, vengono a essere le uniche in grado di garantire una certa pianificazione, mancando
ogni forma di prevenzione efficace della gravidanza. Di fronte a queste scelte, le donne e le famiglie che
scelgono il controllo delle nascite (in pressoché assoluta clandestinità) si rivolgono al buddhismo per avere
consolazione e per officiare i riti per quei bambini che non sono stati fatti nascere.
Il buddhismo, per sua natura dottrinale, ha una visione particolare della famiglia e della discendenza:
molto spesso infatti i monaci sono stati fatti oggetto di malelingue (nel periodo Edo in particolare), in quanto
non disdegnavano i piaceri della carne e della sessualità. Quella che può sembrare una contraddizione, si
risolve invece piuttosto semplicemente considerando che, se è vero che in linea generale il Buddhismo
predica la castità, nella pratica diverse correnti hanno individuato nel sesso uno strumento di espressione
religiosa (una per tutte la corrente del tantrismo). Se quindi da un lato si può pensare a una sorta di
leggerezza dei monaci sulla questione, dall'altra vediamo una difesa di questo genere di sessualità da parte
del buddhismo, laddove invece, per esempio, nel cristianesimo assistiamo ad una ferrea condanna di azioni
sessuali di questo genere e in ultima analisi di ogni genere di atto sessuale volto al semplice piacere.
Paradossalmente, quello che invece il Buddhismo non accetta da parte dei propri monaci è la
creazione di una famiglia e la nascita di figli: questi infatti vengono intesi come impedimenti, nel senso di
perpetuazione del ciclo del samsara (si veda addirittura che il buddha storico, Siddharta Gautama, ha
chiamato il proprio figlio con il nome Rāhula, che significa appunto impedimento): la figliolanza è infatti
qualcosa che radica l'essere umano in questo mondo e gli impedisce l'accesso all'illuminazione. Il paradigma
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quindi si ribalta rispetto a quello cristiano: il sesso e la sessualità viene accettata (a livello dottrinale) solo
laddove non è volta alla procreazione, ma rimane un atto fine a se stesso, in certi casi mezzo di progresso
religioso e spirituale.
Sembra quindi paradossale che proprio il buddhismo riesca ad affermarsi come difensore dei valori
familiari, ma dobbiamo ricordare che una delle sue più grandi caratteristiche è stata l'adattabilità ai bisogni
della popolazione: ha saputo incorporare i valori tradizionali della famiglia giapponese senza aggiungere ad
essi l'obbligo fecondista del neo-shintoismo e neo-confucianesimo, favorendo quindi una pratica più
aderente alle concrete esigenze della popolazione.
È interessante assistere all’evoluzione che viene a subite la figura di Jizō, il bodhisattva al quale,
come abbiamo visto prima, le donne si rivolgevano in seguito all’aborto. La propaganda governativa sfrutta la
popolarità di questa figura, e la trasforma nel bodhisattva che benedice la vita e dona fertilità, e che soffre a
causa della morte dei feti; non è più quindi colui che protegge le anime dei bambini morti (mizuko Jizō),
affidatigli dalle madri, ma diventa il bodhisattva che protegge tutti quei bambini che devono nascere (koyasu
Jizō). Questa evoluzione nella sua interpretazione va non solo nella direzione di scoraggiare la pratica
dell’aborto, ma anche di colpevolizzare la donna; abortire è un’azione nefasta che offende gli dei, e la
rielaborazione della figura di Jizō, non fa che sottolineare la profonda ansia, l’angoscia sulla procreazione che
va diffondendosi nella dimensione femminile giapponese.
Questo processo verrà però a comportare una paradossale adesione delle donne al culto di questo
bodhisattva; le donne che praticano aborti clandestini, all’oscuro del rigido sistema di controllo Meiji, si
rivolgeranno a Jizō con probabilmente tre forti motivazioni: la prima, quella di affidargli l'anima del bambino
abortito, la seconda quella di pregare per procreazioni e fecondità future, la terza quella di praticare i culti
per i mizuko senza destare i sospetti della comunità: se Jizō è il dio della fecondità, per ogni donna è lecito,
se non consigliato, rivolgersi a lui per aiuto e misericordia.
Solo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, quando l'imperialismo giapponese è stato sconfitto e
le istanze nazionaliste abbandonate, si è anche abbandonata la logica ultra-fecondista del periodo
precedente, e il discorso sull'aborto ha preso una linea diversa: ora, l'aborto non viene più a essere pratica
anti-nazionalista e anti-impero, ma viene legalizzato e riconosciuto come un diritto per le donne e per le
famiglie Giapponesi. Sarà in concomitanza con questo cambiamento che il culto dei mizuko si renderà più
manifesto, e si legherà in modo definitivo alla figura di Jizō.
Da questo momento, la figura di Jizō, subirà un ulteriore modificazione, e assumerà le connotazioni
miste di salvatore e salvato, andando a identificarsi contemporaneamente con l'immagine del monaco
buddhista e quella del bambino (Jizō infatti è caratterizzato da un bavagliolo rosso legato al collo, la testa
rasata e il viso sorridente). Non è secondaria questa commistione di significati, perchè se da un lato,
abbassando il dio fino a farlo diventare un bambino, lo avvicina al sentire popolare, dall'altra interpretando il
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bambino come una figura vicina alla buddhità, e gli si assicura una veloce rinascita se non addirittura
l'illuminazione.
Possiamo dire quindi che a partire dalla fine degli anni Cinquanta, si abbandona la discussione sulla
liceità dell'aborto. Questo infatti non viene più messo in dubbio come principio (a parte piccole frange neo-
shintoiste), e viene ad essere riconosciuto come uno strumento effettivo di controllo delle nascite. Quando
affermiamo questo, dobbiamo tenere presente un elemento fondamentale: la questione dell'aborto in
Giappone non ruota mai intorno alla concezione del feto e dell'embrione come essere umano oppure no. In
pratica, non ci si scontra sull'argomento scientifico della possibile individuazione del momento in cui si
smette di essere cellule e si diventa essere umano: questo perchè, per il buddhismo, il concepito è un essere
umano dal primo istante della fecondazione. Non c'è discussione in merito, non c'è argomento anti-
probabilistico come nel caso della chiesa cattolica .
Nonostante questo, il buddhismo ha saputo adattare questa sua articolazione di idee alle innegabili
esigenze di una popolazione già nel XVIII secolo più numerosa di quella europea. Inoltre, come abbiamo più
volte ripetuto, ha saputo fondersi con le credenze e i culti locali, e ha fatto sua quella particolare concezione
per cui, come vedremo a breve, vita e morte non sono distaccati ma sono sullo stesso asse orizzontale. Il
mondo dei vivi esiste fianco a fianco con quello degli dei e degli spiriti, e il passaggio da un mondo all'altro
non è mai un evento netto e puntuale, ma è sempre un processo che richiede tempo: l'ingresso nel mondo
degli esseri umani infatti, non avviene al momento della nascita, ma è un lungo percorso che culmina nel
momento in cui si entra effettivamente nella comunità umana. Allo stesso modo, l'uscita dal mondo dei vivi
non avviene con il momento della morte fisica, ma è un lungo processo di allontanamento che inizia con il
sessantesimo anno di età, e che si conclude, ben dopo la morte, con l'ingresso del defunto nella società altra
degli antenati.
L'innocenza del pensiero del bambino e il deterioramento mentale dell'anziano vengono a
rappresentare una commistione con un mondo che è altro, e con una condizione di liminalità che non esiste
nella fase completamente adulta.
Mizuko Kuyo: polemiche
Passando dal piano storico a quelli delle letture più recenti, il fenomeno dei mizuko kuyo ha suscitato
diverse risposte da parte della comunità di fedeli e studiosi. Una significativa categoria di analisi tende a
leggere questi culti sotto una prospettiva non propriamente lusinghiera, mettendo prevalentemente in luce
gli aspetti di coercizione e commercializzazione del fenomeno.
Esemplificativo per questo genere di analisi è il lavoro di Helene Hardacre, che partendo dall'analisi
del fenomeno negli anni settanta, da particolare risalto a una lettura particolare dei mizuko.
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Negli anni Settanta del Novecento, infatti, il culto dei mizuko assume dimensioni impressionanti e si
diffonde a tutti i livelli sociali; non solo il Buddhismo, ma anche altre sette si adeguano a queste pratiche, e
alcuni templi si specializzano esclusivamente nei riti per i bambini non nati. È qui che si assiste ad una vera e
propria opera di propaganda da parte di questi templi, possiamo dire una campagna di marketing e di
pubblicità che ha come principale fine il guadagno.
La prima conseguenza è inevitabilmente un cambiamento di lettura circa la credenza, operato in
primo luogo proprio dagli operatori dei templi: il mizuko cambia la sua fisionomia e diventa uno spirito, non
più triste e solitario, ma vendicativo e spaventoso che, pieno di risentimento per la vita che gli è stata negata
dalla madre e dai genitori, inizia a scatenare la sua ira e la sua maledizione (tatari) sui componenti della
famiglia e sulle persone vicine per appagare la sua vendetta. I riti dei mizuko quindi, non sono più volti a
garantire una felice rinascita per l'anima del bambino, ma servono a placare quello che ora è uno spirito
vendicativo che danneggia tutta la famiglia, e assumono più spesso la fisionomia di un esorcismo.
Questa visione modificata quindi, ingenera nelle famiglie, e più spesso nelle donne, un senso di colpa
non solo verso il bambino abortito, ma verso gli eventuali bambini della famiglia e verso il benessere
generale dei propri cari. In alcuni casi, i il culto impone alla donna di svolgere i riti di persona: essa è
obbligata a confrontarsi costantemente con il suo bambino mai nato, e ad affrontare un essere che
nell’immaginario contemporaneo non è più solo triste o solo, ma è diventato uno spirito cattivo: è un’anima
angosciata, vendicativa contro i vivi ; il mizuko è infatti molto tenace nel cercare vendetta, e la sua azione
non si rivolge solo contro la madre, ma contro tutti i membri della famiglia, soprattutto contro gli altri figli.
È evidente qui il rischio che il mizuko kuyō diventi un fortissimo strumento di controllo sociale rivolto
in primo luogo contro la donna e la sua libertà di azione; imponendo un contatto costante con il figlio
abortito, il culto dei mizuko trasforma il dolore per questa scelta in un profondo senso di colpa e in
un’angoscia che si mantengono vive costantemente, attraverso il meccanismo che le impone responsabilità
non solo per il bambino morto ma anche per la sua famiglia di vivi.
il culto ingenera angoscia e sensi di colpa nella madre ma lei è costretta a celebrarlo se vuole difendere sé e
il resto della sua famiglia, e il celebrarlo mantiene viva la sua angoscia .
In queste pratiche si evidenzia lo scontro tra sistemi etici tradizionali, incentrati su una struttura
innegabilmente maschile e maschilista, e le nuove spinte di autonomia che corrono sotto la superficie,
soprattutto nelle generazioni più giovani e nelle giovani donne in particolare; l’affermazione di una nuova
indipendenza scatena una reazione violenta da parte del sistema sociale tradizionale, e il mizukokuyō è
proprio la reazione negativa delle vecchie istituzioni e paradigmi etico-sociali davanti alle nuove forme di
potere lentamente e faticosamente acquisite dalla donna .
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Posto che questa interpretazione non deve essere sottovalutata per la sua violenza sociale e per la
particolare pressione posta sulla coscienza della donna (paura che sembra condivisa da tutti coloro che, qui
in Italia, si sono opposti alla creazione dei cimiteri), bisogna fornire alcune indispensabili osservazioni: in
primo luogo, i primi e più forti propugnatori di questa nuova interpretazione del mizuko non sono i
tradizionali templi buddhisti, ma sono quei templi di nuova nascita o di minore importanza tradizionale che,
facendo dei mizuko kuyo la loro principale fonte di guadagno, fanno leva sulle paure popolari e
sull'immaginario collettivo più facile da sollecitare.
In secondo luogo, bisogna tenere presente che il concetto di vendetta da parte di uno spirito, il
cosiddetto tatari, non è un'idea di origine buddhista, ma affonda le sue radici nell'antico folklore popolare
che interpreta le divinità come fonte di un potere incontrollabile e irrazionale. L’idea di dei che covano
vendetta si rifà infatti a una concezione che vede i kami antichi più simili ai nostri dèi greci, portando in sé sia
buone che cattive passioni, e non è infrequente imbattersi in divinità che, in un passato lontano, non erano
altro che esseri umani, resi divini da fattori di volta in volta diversi.
È interessante notare a questi proposito che, se analizziamo il materiale antico, in particolare
quanto emerge dai miti, siamo in grado di rintracciare un’ampia gamma di mostri, demoni terribili e creature
sinistre, che vanno a delineare una sorta di religione del terrore dove le diverse festività e i differenti riti
religiosi avevano il principale compito di pacificare il terribile e spesso rabbioso potere degli dèi. L’idea di
tatari, (spesso tradotto come vendetta, o maledizione) si innesta su questa base, ed è un termine usato per
indicare azioni contro gli esseri umani ad opera di dèi, spiriti e morti. È tipico della tradizione popolare
l’elaborazione di leggende e racconti di spiriti vendicativi che vengono pacificati attraverso vari generi di riti,
e che da quel momento in poi si trasformano in forze culturali positive . La vita rituale si sviluppa quindi
anche a partire da questa paura per il potere oscuro degli dei, e degli spiriti che cercano vendetta che,
portando rancore contro chi ha fatto loro torto, compiono azioni violente.
L’idea di tatari, come azione proveniente da parte di uno spirito dei morti, è completamente assente
nel pensiero religioso buddhista; in primo luogo, esistono diverse correnti filosofiche buddhiste che tendono
a negare l’esistenza stessa di un’anima che, in quanto quale continui a esistere uguale a se stessa vita dopo
vita, e quindi ogni nuova rinascita comporta sempre un nuovo aggregato. Tutto è illusione, compresa
l’esistenza di un’anima che possa esistere nel corso delle vite. In secondo luogo, l’idea di tatari, ovvero di un
azione di uno spirito diretta contro un vivo, entra in conflitto con il principio del karma per cui le azioni della
propria vita non possono portare risultati sulle vite di altri individui, ma solo esclusivamente sulle rinascite
future.
Le reazioni dei monaci buddhisti di fronte a questa particolare lettura dei mizuko è infatti quella di
considerarla alla stregua di superstizioni:
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In traditional Buddhist teaching, although one might be able to transfer some on one’s
good merit to another, the reverse was not true. That is, one person’s grudges or hatred
would not devolve on the destiny of another. On the principle that one’s karma was one’s
own, the necessary thing was a self-scrutiny, not a concern about “retaliation” from
someone else. 11
Non è secondario soffermarsi su questo punto, perché può aprire un importante spiraglio sul fenomeno e sul
tipo di aspettative che i fedeli ripongono nelle istituzioni religiose; bisogna infatti sottolineare ancora una
volta che, nonostante la diffusione che questa lettura ha avuto soprattutto attraverso i media e le pubblicità
delle nuove associazioni religiose, i templi buddhisti sono ancora le strutture cui più frequentemente si fa
riferimento in caso di celebrazione dei mizuko kuyo. Diventa quindi molto importante identificare il tipo di
approccio che essi riservano a questo insieme di credenze.
Se in generale è vero che non esiste una dottrina generale al riguardo, e che per la maggior parte le
diverse scuole buddhiste preferiscono non esprimersi sul piano dottrinale, la quasi totalità di esse accetta,
nel quotidiano, di celebrare questo genere di riti per i fedeli del tempio, dimostrando di nuovo un notevole
grado di adattabilità rispetto alle esigenze cultuali della popolazione locale. Nella stragrande maggioranza dei
casi, è interessante notare una certa conformità rispetto al netto rifiuto di accettare l’idea di vendetta, di
tatari, da parte dello spirito del bambino abortito, e di officiare il rito al fine di evitarne la violenza.
Within our legal code there are laws that forbid extortion and good people will not
practice it. It is members of the Japanese mafia, the yakuza, who make their living
extorting money from others. We ought to realize that religious practitioners who –
merely for profit – push on others the need to worry about spirits have really sunk to
making religion nothing more than a business. There is no difference between them and
the yakuza… 12
La violenza delle parole in questo attacco contro alcune istituzioni religiose può forse dare un’idea
del tipo di scontro cui si è assistito in Giappone; come si vede, il cuore dell’accusa non è la pratica dei mizuko
kuyo, nè tantomeno il ricorso all’aborto, ma la strumentalizzazione che di essi si fa, ricorrendo
11 Hanayama Shōyō, professore al Mashino Women’s College, in LaFleur W., Liquid life. Abortion and Buddhism in Japan,
1992, Princeton University Press, pag. 164
12 Iizawa Tadasu, scrittore e membro del Japanese Art Committee, ibid., pag 166
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all’intimidazione e della minaccia, che avvicina alcune di queste associazioni a vere e proprie attività
economiche moralmente riprovevoli.
Mizuko Kuyo: elementi di riflessione
Tenendo presente l’importanza di questo dibattito, e la necessità di elaborare la riflessione in merito,
in seguito ad una più approfondita analisi sul territorio, ritengo che la realtà dei mizuko kuyo possa fornire
alcuni interessanti stimoli e punti di riflessione anche per una situazione storicamente e culturalmente
diversa come la nostra.
Vorrei quindi soffermarmi brevemente su alcuni punti che meritano particolare attenzione e che
forniscono un interessante contrappunto al tipo di impostazione del confronto cui siamo abituati.
Come indicato in apertura del lavoro, il dibattito sull’aborto si sviluppa in Italia, e più in generale in
Occidente, a partire da un punto ben preciso, ovvero la definizione del feto come essere umano oppure
come mero aggregato di cellule.
Ad oggi, una risposta netta, in una direzione o nell’altra, è difficile da trovare, perché impone di
individuare un punto discriminante in cui può nettamente essere identificato il momento in cui l’aggregato di
cellule diventa un essere umano. Come fa notare Mori, il percorso si presenta estremamente arduo, perché
impone alcuni passaggi concettuali di una certa complessità, in primo luogo perché la biologia può darci un
supporto solo parziale, poichè “si occupa solo del corpo e non può dire nulla dell’anima, la quale non rientra
nell’ambito della scienza bensì in quello della filosofia” .
La volontà di delineare una distinzione netta impone quindi di rivolgersi ad altri procedimenti
mentali, per risalire il percorso fino al momento in cui si può essere ragionevolmente sicuri di trovarsi di
fronte a un essere umano. Tuttavia, è inevitabile riconoscere che, qualunque sia la risposta a questa ricerca,
“la soluzione cui si giunge non è data ma scelta: non esiste alcun momento naturale che determina l’inizio
della vita, ma in ogni caso tale momento è scelto.”
La definizione è una scelta arbitraria, più o meno legittimata, che impone una cesura all’interno di un
processo, e che mira a identificare un prima e un dopo ontologicamente differenti. Questo tipo di soluzione
non è tuttavia la sola che la società umana abbia elaborato. Esiste infatti un’alternativa alla definizione netta
e distinta di particolari momenti, ed essa risiede in una interpretazione della vita umana come processo.
Sul lato delle credenze, in alcune società, questa alternativa alla definizione si è tradotta nel rituale:
esso espone importanti concetti presentandoli in connessione tra loro anziché separati l’uno dell’altro. Le
società occidentali hanno sviluppato una sorta di intolleranza alla ritualità, considerando questi momenti
come puri formalismi, in qualche modo menzogneri, che poco hanno a che fare con i sentimenti e
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l’interiorità dell’anima umana. Si è creata una sorta di reazione per cui il rituale, strumento di coesione
sociale estremamente forte, è diventato il simbolo di tutto ciò che è forzato, innaturale, in qualche misura
finto, che non da concreto accesso ai privati sentimenti umani.
Il rifiuto di ritualizzare socialmente il momento dell’aborto, attraverso cimiteri o momenti di
commemorazione pubblica, può essere spiegato, oltre che con la paura di una colpevolizzazione del gesto
dell’aborto, anche con questa interpretazione del rituale come atto non adeguato ad esprimere il dolore
intimo, nella convinzione che solo una risposta privata possa fornire un significato sufficientemente forte al
gesto compiuto.
Questa attitudine, tuttavia, dimentica che il rituale convoglia importanti significati sociali, e
rappresenta una sorta di collante su cui la società può condividere le proprie interpretazioni culturali. Esso
fornisce delle attività che fondono insieme un’ampia gamma di elementi, altrimenti non correlati, che
servono a veicolare concezioni culturali. È questo il modo in cui il buddhismo giapponese affronta il
problema dell’aborto. Il rituale convoglia alcuni importanti significati di ciò che si ritiene vita, morte, nascita
in una dimensione simbolica, nel caso giapponese un insieme di concetto elaborati in maniera divergente
rispetto al pensiero occidentale.
Questa forza del rituale emerge con particolare evidenza nel momento in cui si affronta un evento
traumatico come la morte: i funerali non sono altro che atti sociali con cui si tende di dare un significato
umano alla morte, e di tradurla in un sistema di credenze e di valori che permettano la continuità e la
coesione del gruppo sociale.
In Giappone al contrario il rituale ha ancora oggi grande importanza. Pur trovandoci di fronte ad una
nazione che è la seconda o terza potenza economica mondiale, con il relativo apparato produttivo,
scientifico e tecnologico, abbiamo a che fare con una realtà in cui l’esistenza di un intero complesso di rituali
religiosi e sociali, specialmente quelli connessi alla morte, non è stata messa in discussione: l’intera struttura
sociale è basata sui rituali connessi al concetto di famiglia (di cui abbiamo fatto menzione sopra).
Vorrei soffermarmi allora sul concetto di mizuko per meglio elaborare la riflessione: mizuko, come
abbiamo detto in precedenza, è un termine che si applica ai bambini abortiti, morti per parto o morti in
tenera età, e si traduce con “bambino d’acqua”. Evidente è l’importanza che l’elemento dell’acqua gioca in
questo punto, in primo luogo per la connessione tra l’acqua e la vita; l’acqua è infatti la fonte primaria di vita
nelle comunità agricole (e tanto più in quelle marittime), e permette lo svolgimento dell’attività di semina e
raccolta. Non dimentichiamo inoltre che il Giappone ha conosciuto il sua prima grande rivoluzione agricola in
seguito all’introduzione della risaia, che molto più di altre colture, dipende dalla presenza di acqua, il cui
controllo diventa essenziale per lo sviluppo delle attività risicole.
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Su un altro piano, inoltre, l’acqua rimanda al liquido amniotico, il fluido dentro cui si sviluppa il feto,
per cui il termine “bambino d’acqua” può facilmente richiamare alla mente le prime fasi della gestazione.
Inoltre, la stessa mitologia (in particolare nei testi antichi del Kojiki) ci viene in aiuto introducendo l’immagine
del primo “bambino d’acqua”, Hiru no ko, il primo bambino della coppia divina, Izanami e Izanagi, nato
informe, senza ossa, e abbandonato dai divini genitori alle onde del mare, a metà tra vita e morte.
Si appartarono e fecero sì che ella figliasse un bambino, ma deforme, che abbandonarono
alla corrente in un battello di giunchi 13
Hiru no ko, spesso tradotto con bambino sanguisuga, rappresenta la vita mai completamente compiuta,
senza una vera struttura interna, ancora in fase di divenire eppure destinata a vagare per sempre nelle acque,
impossibilitata a evolvere in una forma più stabile .
Possiamo forse affermare che il mizuko rappresenta la vita che non si è mai completamente formata,
che è rimasta liquida, semplicemente non si è solidificata. Esso identifica qualcosa che sta per prendere
forma, ma che proprio perché in questo delicato passaggio, può essere in qualche modo, rimandato indietro,
allo stato liquido, allo stadio precedente. In questo senso, il feto è un bambino “in divenire”, in possibilità,
piuttosto che un essere umano già esistente.
Strettamente connesso a questo punto, è il frequente utilizzo della terminologia del ritorno. Pur
senza dimenticare la violenza dell’atto dell’aborto, il linguaggio umano utilizzato in questo caso mira a dare
un particolare significato a questo gesto; in particolare, in Giappone, il linguaggio del ritorno, con l’idea di far
ritornare il bambino a un luogo precedente, o a restituire il bambino al suo luogo precedente, si accompagna
molto di frequente all’atto abortivo, e implica un’importante considerazione. Tutto quanto appare in questo
mondo, non appare semplicemente ex novo; ma giunge da un’altra realtà, da una dimensione altra, divina o
comunque super-umana. Viene a crearsi così un’immagine, seppur molto offuscata, di una realtà altra,
precedente, parallela forse, che però nessuno ritiene di dover specificare in maniera più dettagliata
Adumbration is the essence 14
13 Paolo Villani (a cura di), Kojiki, Marsilio Editori, Venezia 2006, pag.37
14 LaFleur W., op. cit., pag. 26.
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Il linguaggio del ritorno, e l’immaginario ad esso connesso, permetto di accedere ad una concreta
consolazione nel momento in cui si opta per un aborto, sia che si speri in una futura gravidanza, sia che
invece non si desideri avere altri bambini. Da un lato infatti, il bambino viene stato rimandato indietro in un
altro luogo, per un periodo di tempo in cui rimane in attesa in questa sorta di limbo, in attesa che le
condizioni siano propizie perché esso si reincarni, o ritorni nel nostro mondo in un momento più avanti. Il
mizuko è infatti immaginato in una sorta di limbo, un posto di palese privazione, dal quale non può
direttamente accedere al mondo dei defunti, fino a quando arriva il momento per una nuova vita. Può essere
interessante notare come, in passato, in seguito ad un aborto si seppellisse il feto con riti molto semplici,
spesso con un pesce in bocca, elemento che impediva al mizuko di raggiungere il Nirvana, nella speranza che
potesse così ritornare più avanti in seno alla stessa famiglia .
Laddove invece l’aborto venga compiuto anche senza il desiderio di una successiva futura gravidanza,
l’idea del ritorno slitta su un altro piano, e implica il ritorno del bambino alle dimore divine, in una sorta di
sua restituzione alla dimensione da cui è giunto, permettendo una consolazione reale.
Non è superfluo ricordare che stiamo parlando di un Buddhismo che, nella sua complessa storia tra i
diversi paesi in cui si è radicato, ha sempre dovuto mediare le antiche dottrine attraverso una ricca e
adattabile galleria di immagini e pratiche connesse alle credenze locali. Questo è ovviamente accaduto anche
in Giappone, dove ha dovuto rispondere non all’esigenza di un’analisi oggettiva dell’essere (analisi forse non
realizzabile), ma all’esigenza di trovare conforto e consolazione di fronte alle grandi contraddizioni
dell’esistenza umana.
Il mizuko, con il suo stato ancora in divenire, fluido, che suggerisce in qualche modo un senso di
continuità, risponde perfettamente a questa esigenza. Quando si parla di consolazione, si deve fare
riferimento si a concetti plasmati dalla nostra immaginazione, ma anche a una scelta di guardare la
questione a partire da alcuni punti piuttosto che da altri, e di usare certi termini piuttosto che altri.
Il lessico del ritorno è reso possibile in Giappone soprattutto grazie alla particolare concezione di vita
e morte che viene a imporsi nel corso dei secoli, e che differisce significativamente da quella Cristiana-
occidentale.
E qui si innesca un’altra importante riflessione, che coinvolge una diversa concezione del morire (e
del nascere), non più inteso come istante scandito dall’evidenza fisica, ma come un processo prolungato e
protratto nel tempo dai fondamentali risvolti sociali e culturali. Esso comporta una sorta di progressiva
rarefazione del defunto, come abbiamo visto in precedenza, un suo graduale allontanamento dalla società
dei vivi, e una lenta integrazione nella società degli antenati. Il morto perde via via la sua pericolosità, e i
diversi rituali connessi alla sua commemorazione hanno il preciso ruolo di accompagnarlo nel suo cammino
verso la nuova comunità; più il defunto si avvicina ad essere un antenato, più la sua identità si annebbia, fino
a perdersi completamente quando verrà integrato a tutti gli effetti tra gli antenati della famiglia.
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All’opposto del morire, anche nascere, venire in questo mondo, non è solo una questione di “uscire
dall’utero”; in maniera speculare rispetto al morire, qui assistiamo a un ispessimento dell’essere, una sua
condensazione.
Il neonato non è altro che una lenta trasmissione dal mondo degli dei al nostro. Solo diventando
adulti si diventa umani a tutti gli effetto. Allo stesso modo, la persona anziana rappresenta il progressivo
ritorno al mondo dei Buddha e dei kami. La morte sociale inizia prima della morte fisica in senso stretto, e
continua dopo di essa. Si assiste a un progressivo distacco, nel quale la vecchiaia e la malatta mentale
diventano il riflesso da un allontanamento dal nostro mondo e un movimento verso l’altro.
L’essere nato è un essere che lentamente si allontana dal mondo degli dei ed entra in quello degli
umani: da qui l’importanza di alcuni compleanni particolari, celebrati nella festività shici-go-san 七五三
(sette, cinque e tre anni), fino alla celebrazione del quindicesimo anno, quando si è completamente umani,
adulti.
Nel Giappone medievale possiamo già trovare traccia di questa impostazione, in particolare nella
credenza che il mondo invisibile dei kami e dei morti non fosse separato dal nostro (come invece è nelle
elaborazioni cristiane) ma si connettesse ad esso in modo tale da costituire una sorta di continuum; nascere
e morire erano processi, movimenti su questo continuum in una direzione piuttosto che nell’altra, verso il
mondo umano (nascita) o verso il mondo divino (morte).
Bisogna notare come tutta questa rappresentazione si limiti solamente a fornirci un limitatissimo
accenno a quanto avviene nel mondo invisibile, non esiste alcuna specificità: si dice che il neonato arrivi da li,
ma non si da esatte definizioni; lo stesso concetto di rinascita, umarekawari, viene lasciato molto sfumato in
Giappone.
Quando questa riflessione si applica ai mizuko, l’aborto diventa un movimento all’indietro, un
riportare indietro il bambino nel mondo del sacro, degli dei e degli spiriti: questo è possibile proprio perché
*il loro ingresso in questo mondo è incerto e non fissato socialmente per lungo tempo anche dopo la nascita.
Il pensiero occidentale è abituato a dare estrema importanza a quelli che sono precisi punti di passaggio, di
accesso (quando si nasce, quando si muore, in quale momento si è persona e quando no), punti che vengono
a sovrapporsi ai momenti fisiologici. Con il cristianesimo in particolare, la concezione di barriere fluide è
scomparsa, e si è imposta una visione per cui la vita umana c’è oppure non c’è. Questo perché per i cristiani
esiste una severa linea di demarcazione che separa gli esseri umani da dio, e non è ammessa confusione al
riguardo; nei secoli questa impostazione iniziale ha inevitabilmente favorito una decisa preferenza per le
distinzioni nette.
Il cristianesimo respinge ogni idea di movimento progressivo tra uomo e dio, tra i quali esiste una
diversità ontologica. L’uomo è fatto a immagine di dio, ma non può mai diventare dio.
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A questo va aggiunto il principio per cui ogni essere umano è uguale agli altri davanti a Dio: i bambini
hanno il completo possesso dell’immagine di dio: poiché per i feti non è possibile individuare il momento in
cui l’anima entra nel corpo, come abbiamo visto viene applicato il ragionamento antiprobabilistico, per cui
bisogna comportarsi come se ci fosse, e contraccettivi e aborto vengono duramente condannati.
In Giappone, essere completamente umani non dipende esclusivamente da un passaggio La
religiosità giapponese e l’immaginario della morte
La maggior parte della popolazione Giapponese tende a non identificarsi all’interno di un’unica fede
religiosa, e a incorporare nel proprio orizzonte religioso, elementi derivanti dalle diverse realtà religiose, in
quella che possiamo definire una serena libertà di culto verso ogni tipo di fede.
3. Morte cerebrale e donazione degli Organi in Giappone
Nonostante l'elevato livello tecnologico-scientifico che caratterizza la realtà giapponese, la
percentuale di trapianti e donazioni di organi è estremamente bassa, in particolare se raffrontata ai dati che
riguardano i paesi occidentali. Da una parte, nel mondo occidentale, la pratica della donazione e dei trapianti
di organi (e la tecnologia ad essa collegata) ha introdotto nuove questioni questioni del tutto nuove, come il
concetto di morte cerebrale, di stato vegetativo, di diritti del malato e doveri del medico; ha inoltre sollevato
una questione di ordine morale per quanto riguarda il diritto o dovere di diventare donatore, e quanto la
donazione degli organi debba essere regolamentata per non trasformarsi in commercio di beni dall'elevato
valore monetario.
Le reazioni in Giappone sono state decisamente diverse, orientate a un atteggiamento molto più
scettico riguardo all'intera questione. In linea generale ha prevalso una sorta di paura, di timore che il corpo
del donatore potesse divenire oggetto di depredazione, e che i malati terminali potessero essere portati
verso una morte più rapida proprio per facilitare la circolazione di organi.
Dati statistici
Per avere un'idea più precisa della realtà attuale, si è preso in esame la situazione del sistema
sanitario italiano, statunitense, inglese e australiano come metro di confronto con quello giapponese, per
creare un esaustivo raffronto con le significative situazioni dei restanti paesi “occidentali”.
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Fonte: Japan Organ Transplant Network
Diversi sono i metodi con cui i sistemi sanitari nazionali raccolgono le adesioni dei donatori di organi,
e diversa è la precisione con cui vengono riportati i dati relativi, ma il quadro che ne risulta è coerente. Il
numero dei trapianti indicati è relativo all'anno solare 2009 e comprende i trapianti da donatori viventi e
deceduti. Il Tasso di donatori deceduti per milione di abitanti (DDRPM) è il tasso statistico di maggior
diffusione, e ritenuto di maggiore importanza, nelle relazioni annuali rilasciate dai vari SSN.
Come si può vedere dalla prima tabella, la percentuale di popolazione che dichiara la volontà di donare gli
organi non sembra subire grosse variazioni tra i diversi paesi “occidentali”, nonostante le diversità culturali,
legislative e di organizzazione sanitaria (tra il 25% e il 30%). Il DDRPM subisce una maggiore variazione (per
diverse cause), ma mantiene un suo ordine di grandezza, così come il tasso di trapianti per milione di abitanti.
Il Giappone esula da tutte queste medie, presentando dati del tutto fuori scala (la percentuale dei volontari
donatori si aggira infatti intorno allo 0,07%)
tasso di donatori e di trapianti
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Evoluzione storica e soluzioni legali
Evoluzione storica del dibattito
In Giappone, il primo trapianto da paziente in stato di “morte cerebrale” è stato eseguito nel 1968
dal dottor Juro Wada, a qualche mese di distanza dal primo trapianto di cuore nel mondo, effettuato in Sud
Africa. Tuttavia, l’intervento del dottor Wada suscitò enorme scalpore, poichè il chirurgo stesso fu accusato
di sperimentazione illegale su esseri umani, e di scarsa capicità di valutazione nella determinazione del
decesso. Da questo momento in poi, in Giappone si scatenò un acceso dibattito sul concetto di morte
cerebrale, e per i successivi quindici anni si rifiutò l’idea di trapianto.
Nel 1983, il Ministero della Sanità e del Welfare istituirono una commissione ad hoc sulla tematica
della morte cerebrale e dei trapoanti, che iniziò a stabilire i criteri per determinare la morte cerebrale;
contemporaneamente, la Società Giapponese dei Trapianti iniziò a sottolineare in maniera più marcata
l’esigenza e l’importanza del trapianto di organi
I criteri per la morte cerebrale vennero resi pubblici nel 1985; in particolare, la commissione mise in
luce la netta distinzione tra “criteri medici per la morte cerebrale” e “il concetto di morte umana”,
sottolineando che la seconda dipendeva dalla valutazione della popolazione giapponese. Iniziarono così a
essere pubblicati testi di enorme diffusione che si opponevano al concetto di morte cerebrale; i due più
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famosi sono forse i lavori di Michi Nakajima, La morte invisibile, e Takashi Tachibana, Morte cerebrale.
L’elemento più interessante, e spesso riportato da altre pubblicazioni, è l’impossibilità da parte della gente
comune di accettare l’idea della morte cerebrale in quanto il corpo del paziente è ancora caldo e rilassato, e
non rispecchia quindi l’immagine della morte e del cadavere.
La commissione ad hoc presentò il suo rapporto conclusivo nel 1992; il rapporto stabilì che la morte
cerebrale rappresentava la fine effettiva della vita umana, e che la donazione degli organi fosse possibile solo
laddove il donatore avesse espresso preventivamente una chiara volontà in merito.
Le obiezioni alla morte cerebrale, tuttavia, rimasero forti: nel 1994 fu presentato un progetto di
legge sul trapianto diorgani che permettesse la rimozione degli organi dal donatore nel caso in cui le famiglie
avessere espresso il proprio consenso, ma venne bloccato. Nel 1997 vennero di nuovo presentati due disegni
di legge che poggiavano su opinione completamente diverse sulla morte cerebrale: il primo dichiarava la
morte cerebrale come effettiva morte dell’essere umano. Il secondo invece considerava il paziente in stato di
morte cerebrale come ancora in vita, pur concedendo l’asportazione di organi nel caso in cui il donatore
avesse espresso tale volonta, e la famiglia non si opponesse. Il dibattito che seguì porto all’approvazione di
un’unica legge.
Nel 1999 fu effettuato il secondo trapiando di cuore da donatore in morte cerebrale; da questa data
sono stati eseguiti altri 14 trapianti.
Legislazione giapponese sul Trapianto di organi
La legge in materia non stabilisce un criterio assoluto per determinare il decesso di una persona, ma
permette la scelta tra morte tradizionale e morte cerebrale. In particolare si diche che, qualora una persona
voglia essere donatore dopo la morte cerebrale, è necessario che tale volontà venga indicata sulla tessera
donatori, o sulla tessera sanitaria. Solo in tal caso la persona verrà considerata morta in caso sopraggiunga la
morte cerebrale. Tutti coloro i quali rifiutano invece la donazione e la morte cerebrale, non hanno bisogno di
una tessera donatori, e verranno considerati vivi fino a quando il cuore cessa di battere. Si noti che è
assolutamente necessario il consenso della famiglia per la dichiarazione legale di morte cerebrale e per la
rimozione degli organi. Risulta così possibile per la popolazione giapponese indicare quale idea di morte deve
essere presa legalmente in considerazione per la propria persona.
Al paziente che viene dichiarato “clinicamente” in stato di morte cerebrale, non viene effettuato il
test di apnea (per valutare se la respirazione è compromessa) poichè potrebbe danneggiare il corpo; nel caso
non si tratti di un donatore, viene ancora cosiderato invita, e i medici non hanno la possibilità di dichiarare a
livello legale il decesso. Se invece il paziente è un donatore, e ha quindi concordato circa la morte cerebrale,
interviene un coordinatore per i trapianti che chiede l’ulteriore consenso della famiglia; in caso affermativo,
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il dottore può dichiarare legalmente la morte crebrale (con il test in apnea), e attivare le procedure per il
trapianto.
Il dibattito su questa legge è stato intenso, a partire dal 1997; essa infatti rappresenta un unicuum
all’interno delle legislazioni attuali sulla morte cerebrale, e ha sollevato problematiche di notevole portata.
La prima critica risiede nella convinzione di molti che il concetto di morte umana dovrebbe essere
unico e universale, e che la variabilità permessa da questa legge sia assolutamente irrazionale.
Una seconda critica prende di mira l’esigenza di una dichiarazione pregressa del donatore come
condizione assoluta e necessaria per la rimozione degli organi. Questo naturalmente implica che laddove i
pazienti non abbiano una tessera donatori, i medici non possano procedere all’espianto anche se la famiglia
è a favore della donazione. In questo modo quindi non si favorirebbe l’aumento di organi a disposizione per
pazienti in attesa (in diversi paesi, laddove i desideri del paziente non sono conosciuti, risulta sufficiente il
consenso della famiglia)15.
La terza critica, strettamente connessa alla precedente, è la qualifica stessa di donatore. Nel codice
civile giapponese, la volontà di una persona al di sotto dei 15 anni è legalmente nulla. Questo implica che la
tessera donatori compilata da una persona sotto i 15 anni sia a sua volta invalida, e quindi l’espianto di
organi diventa impossibile. La conseguenza più tragica è che, essendo un cuore adulto troppo grande per
essere trapiantato all’interno di un bambino, le famiglie giapponesi hanno dovuto rivolgersi all’estero nel
caso di trapianto per bambini.
Nonostante questi problemi, l’opinione generale sembra sostenere la legislazione vigente. Fin dalgi
anni Ottanta, sono state eseguite diverse indagini sulla questione, e per più di 15 anni il 50% circa della
popolazione giapponese ha dichiarato di ritenere la morte cerebrale come morte definitiva dell’essere
umano, mentre un abbondante 40 % si dichiarava contrario.
Nel maggio del 2000, l’Ufficio del Primo Ministro ha condotto una nuova indagine sulla dichiarzione
pregressa e sul consenso familiare; è emerso che il 21% riteneva la dichiarazione del donatore sufficiente per
stabilire la morte cerebrale e l’espianto degli organi, mentre il consenso della famiglia non era considerato
necessario. Il 70% riteneva entrambi necessari, e solo il 2,1% affermava che fosse sufficiente unicamente il
consenso della famiglia.
15 Il più forte argomento a sostegno di questa norma risiede tuttavia nella profonda convinzione che la personale
concezione della morte sia una questione intimamente personale, a tal punto che può non essere comunicata ai
membri della propria famiglia
63
Tessera per donatori – Japan Organ Transplant Network
Proposte di revisione
Prima della legge del 1997, altre leggi sono state approvate, per regolamentare le attività di
trapianto, a partire dall’inserimento del trapianto nell’assicurazione sanitaria a partire dal 1978. Nel 1980
venne attuata la Legge per il Trapianto di Cornea a Reni, per autorizzare l’espianto di tali organi dai cadaveri,
sotto certe condizioni. A questa data, tuttavia, la morte cerebrale non era condizione sufficiente per
l’espianto, e i dottori dovevano attendere fino all’arresto cardiaco per procedere, elemento che
naturalmente comprometteva il successo del trapianto stesso. L’espianto di organi come cuore, polmoni e
fegato non erano ancora permessi; come conseguenza molti pazienzi si recarono all’estero, provocando
pubblici malcontenti in diversi paesi, se non addirittura l’acquisto di organi in altri.
Solo nel 1997 la legge sul Trapianto di Organi venne approvata, riuscendo così a limitare tali
problematiche; tale legge prevedeva un riesame dopo tre anni dalla sua attuazione, nel 2000; un gruppo di
ricerca istituito dal Ministero della Sanità e del Welfare ha quindi sottoposto un rapporto con una proposta
di revisione, secondo la quale la morte cerebrale veniva equiparata alla morte assoluta dell’essere umano
senza eccezioni, e dove si indicava il consenso della famiglia come condizione sufficiente per l’espianto di
organi, a meno che il paziente non avesse precedentemente manifestato la propria opposizione. Nel caso di
minori, il consenso della persona con patria potestà veniva indicato come sufficiente, anche qui posto che il
paziente non avesse espressamente rifiutato la donazione. Inoltre, si sosteneva che ogni individuo avesse già
intrinsecamente autodeterminato il proprio carattere di donatore.
A distanza di qualche mese, una seconda proposta fu presentata dal Consiglio Giapponese per I
Riceventi di Organi, dove veniva nuovamente negato ogni pluralismo sulla concezione di morte umana. Si
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sosteneva tuttavia che, nel caso degli adulti, fosse necessaria la dichiarazione del donatore e il consenso
della famiglia per procedere all’espianto; nel caso di minori di 15 anni invece, si riteneva sufficiente il
consenso della famiglia.
Nel febbraio 2001 fu presentata una nuova proposta (Proposta Morioka-Sugimoto), dove si indicava
la necessità sia della dichiarazione di volontà del donatore che del consenso della famiglia, in caso di adulti e
di minori di 15 anni. Vi furono due successive varianti di tale proposta; nella prima si vietava l’espianto di
organi da bambini inferiori di 6 anni (poichè incapaci di determinare la propria volontà in maniera cosciente),
mentre nella seconda si alzava tale limite a 12 anni.
Immagini esplicative della differenza tra morte cerebrale e stato vegetativo persistente
Il vero fulcro della discussione rimaneva comunque la definizione di morte cerebrale. Già nel 1991 un
gruppo di cittadini aveva pubblicato una bozza per la legge sui trapianti, dove si sosteneva non fosse
necessario, ai fini dell’espianto, definire la morte cerebrale come morte definitiva dell’essere umano. Il
disegno di legge Kaneda, del 1997, riprendeva la stessa convinzione, sostenendo che, nel caso di
dichiarazione di volontà del donatore e di consenso della famiglia, si potesse procedere all’espianto di organi
anche senza far equivalere la morte cerebrale alla morte in senso assoluto. Benchè il disegno di legge sia
stato respinto, il punto di vista in esso espresso è rimasto ampiamente diffuso all’interno della popolazione.
Simili proposte furono presentate negli anni successivi.
Bisogna qui sottolineare che ci sono state anche proposte che richiedevo il divieto assoluto di
espianto di organi da paziende in stato di morte cerebrale; in particolare fino agli anni Novanta, gruppi di
opinione si opposero all’idea della morte cerebrale, accusando di omicidio i medici che eseguivano gli
espianti.Si è arrivati addirittura alla richiesta da parte di alcuni membri del parlamento (in parte appartenenti
alla nuova religione Oomoto-kyo) di abolire completamente la legge
Situazione attuale
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L’attuale legge sui trapianti continua a individuare tre elementi principali; la pluralità nella
concezione della morte, la necessità della dichiarazione di volontà da parte del donatore e il consenso della
famiglia.
Il primo elemento è certamente di notevole interesse. Le persone che rifiutano l’idea di morte
cerebrale, solitamente si basano sulla già citata opinione che il corpo del paziente in stato di morte cerebrale
sia ancora un corpo vivo, caldo, e che non possa quindi essere considerato cadavere poichè anche attraverso
il corpo (e non solo la mente) si manifesta la natura umana. Rifiutano pertanto l’idea che l’essenza
dell’essere umano sia da ricercare nella coscienza e nella razionalità; un corpo caldo, quindi vivo, è parte
integrante dell’essere umano. Fanno riferimento in particolare ad episodi in cui il paziente in stato di morte
cerebrale muove le mani verso il petto, o distentono gli arti.
Se la dichiarazione di volontà del donatore è comprensibile, più delicata è la questione del consenso
della famiglia: esso implica innanzitutto l’idea che la morte non sia un fenomeno individuale, che coinvolge
unicamente in paziente morente, ma qualcosa che coinvolge anche i membri del proprio nucleo famigliare.
In particolare in una società dove la famiglia è ancora oggi il centro di riferimento dell’individuo, il momento
della morte non è considerato come personale, ma come un momento sociale, che coinvolge le persone
circostanti, un una sorta di “condivisione della morte”
Uno dei problemi più spinosi nella controversia dei trapianti è quello che riguarda i pazienti in morte
cerebrale sotto i 15 anni. Gran parte dell’opinione pubblica ritiene che sia diritto della famiglia decidere in
merito; in particolare, quasi il 40% degli adulti ritiene che consentire all’espianto sarebbe una violazione dei
diritti di quelli che vengono chiamati “bambini muti” (di cui non si conosce la volontà). Allo stesso tempo, è
ampiamento diffuso il sentimento di comprensione verso tutti quei bambini con problemi cardiaci che
dipendono da un trapianto per poter guarire.
Concezione della vita nella cultura Giapponese
Per poter provare a comprendere le riserve e i dubbi che ancora gravitano intorno al concetto di
morte cerebrale, credo sia fondamentale soffermarsi sull’idea di vita e di esistenza che è alla base della
riflessione giapponese sull’argomento nell’epoca contemporanea. Nel Giapponese moderno esistono due
termini che possono essere tradotti con vita, inochi 命 e seimei 生命; il primo viene utilizzato nella
quotidianità per indicare eventi concernenti la vita, la morte e la natura, mentre il secondo viene utilizzato
prevalentemente in specifici settori quali medicina, biologia, legge.
Come altri termini giapponesi, seimei venne a ricoprire nuova valenza allorquando il governo
giapponese, all’alba dell’era Meiji, dovette tradurre termini di matrice europea o anglosassone quali life o
66
leben. Al contrario inochi è un termine che compare in lavori decisamente più antichi, risalenti addirittura al
Kojiki, e ha registrato una notevole diffusione, venendo utilizzata con frequenza nettamente maggiore
rispetto a seimei.
Come suggerisce Morioka16, inochi ha una tripla radice storico-linguistica; cinese, buddhista e antico-
giapponese. L’origine cinese può essere rintracciata nell’antico termine ming, che oltre a indicare un ordine
rivolto verso qualcuno, indicava concetti come destino, durata della vita, natura individuale. Un altro ming
compare nella letteratura buddhista, questa volta indiando l’energia o la forza vitale. Infine, nel giapponese
antico, inochi era utilizzato per designare concetti come forza vitale o durata della vita, poichè aveva già
assorbito le influenze di derivazione sino-buddhista.
Alcuni studiosi ritengono che il termine inochi derivi da due concetti specifici, i e chi; il primo
indicherebbe il respiro, e il secondo una sorta di energia interna. Sembra quindi avvicinarsi, nel giapponese
contemporaneo, al termine latino anima, o al concetto graco di psyche ψυχή, entrambi connessi alla
figurazione del respiro vitale.
Nel Giappone contemporaneo, possiamo identificare quattro significati principali del termine. Il
primo indica una sorta di potere o energia misteriosa che mantiene in vita l’essere umano. Diffuse sono
espressioni come inochi no sentaku (命の洗濯 – letteralmente lavare il proprio inochi), che indica il recupero
del proprio potere vitale, inochi no sakari (命の盛り- al massimo dell’inochi), che indica il momento di
maggiore energia nella vita, o inochi ga moe tsukiru (命が燃えつきる- bruciare il proprio inochi), morire.
Tutti questi significati hanno una stretta correlazione con il principio per cui l’inochi sarebbe l’energia del
respiro; quest’ultimo infatti mantiene vive le creature dall’interno del corpo, e può passare dal corpo di un
individuo a un altro.
Il secondo significato di inochi identifica il periodo tra la nascita e la morte, ovvero l’essere vivi17. La
naturale considerazione alla base di questo significato è che l’inochi è limitato nello spazio e nel tempo, ha
un inizio e una fine, per cui tutti gli esseri viventi sono destinati alla morte; a questo si somma l’idea per cui
ogni inochi è assolutamente unico nella sua esistenza e nella morte.
Il terzo significato del termine è “la parte fondamentale” di qualcosa; esemplificativo è il modo di
dire inochi tori (命取り - portar via l’inochi di qualcuno/qualche cosa) che indica l’azione di sottrarre una
particolare qualià da un oggetto o da un individuo.
Infine, inochi può indicare la vita eterna, in particolare in testi religiosi giapponesi di derivazione
cristiana o buddhista (Terra Pura).
16 Morioka Masahiro, “The Concept of Life in Contemporary Japan”, The Review of Life Studies Vol.2 (April 2012):23-62
17 Anche qui possiamo individuare alcuni modi di dire interessanti, come inochi ga owaru (命が終わる l’inochi finisce),
o inochi ga mijikai (命が短い l’inochi è breve), che indicano la fine della vita.
67
Inochi nella percezione contemporanea
Nell’articolo precedente indicato, Morioka riporta una serie di interviste, la cui domanda centrale era
“Esprimete liberamente le immagini che visualizzate quando sentite la parola inochi, e le idee che ne avete”,
e di cui vorrei fare uso per provare a individuare quello che nella concezione corrente viene identificato con
il termine inochi.
Inochi is an irreplaceable thing equally presented to humans, animals and plants. Inochi is
the only thing that all people have equally. We can lead an everyday life because we have
inochi. I think we should keep in mind that one’s inochi is supported by a lot of other
people. (age: 10-19 / sex: female / occupation: student nurse / religion: —)18
Vediamo subito in questa significativa immagine alcune componenti interessanti: innanzitutto,
l’inochi è una prerogativa non solo umana, ma di tutti gli esseri viventi, e che in qualche misura li rende
uguali; inoltre, è un elemento insostituibile e unico, per cui un inochi non può essere sostituito con quello di
qualcun altro. Vediamo inoltre che la nostra stessa esistenza è possibile solo grazie al’inochi. Infine,
elemento particolarmente interessante, l’inochi personale sorretto da diverse altre persone, attraverso il
supporto reciproco di chi ci circonda (elemento di cui sembra facile dimenticarsi).
Dalle varie definizioni che vengono fornite nei diversi questionari (“infanzia”, “umanità”, “gravidanza”,
“amore”, “vivere”, “morire”, “dignità”, “qualcosa di importante”, “gli amici”, “i parenti”, “l’universo”, “me
stesso”, “qualcosa che voglio custodire”, “finitezza”) emerge un’immagine composita, per cui l’inochi è
qualcosa di sacro e al tempo stesso di fugace, finito, con un inizio alla fine (anche laddove sia inserito in una
concezione ciclica di morte e rinascita.)
I feel that it means something which embraces one’s whole life, one’s mind, one’s way of
life, love, and whole human existence. And I think one’s inochi is something that is entirely
given. I think inochi is irreplaceable because we cannot get it at all by our own will, nor
with effort, nor with money.… If my inochi is irreplaceable, then others’ inochi must be the
same. Others’ inochis are connected to mine, and all these are in the stream of a large
inochi. Inochi is, on the one hand, each individual being, unique and irreplaceable. On the
other hand, however, it is one large inochi of the whole human race.… 19
Di nuovo, emerge l’idea di un’essenza insostituibile e allo stesso tempo in connessione con il resto
del mondo, in una sorta di movimento dinamico e amorfo. 18 Morioka M., op. Cit., pag. 30 – 31.
19 Ibid., pag. 33 – 34.
68
Ancora, possiamo leggere
Inochi and death are two sides of the same coin…. All inochi beings must die. Why? I live
now, I have inochi at present because there is death…. I think inochi suggests waiting for
one’s death naturally, and living naturally.20
Il concetto di inochi ha inoltre riscosso ampio successo in ambito bibliografico, in particolare in
pubblicazioni che si occupano di morte, eutanasia, aborto, sesso, ecc., oltre a diversi esempi in ambiti
letterario e musicale.
In queste pubblicazioni, l’inochi viene rappresentato come un elemento indipendente e unico, ma
connesso con gli altri attraverso profonde relazioni.
The Jodo-shinshu sect of Buddhism preaches living and walking with all inochis. The words
“all inochi” mean not only humans’ inochis, but also all the inochis living on this earth.
And they also mean not only the present inochis, but also those of the future, in thirty,
fifty, a hundred, and a thousand years. These inochis are our friends whom we have met,
are meeting, and are sure to meet in the future, at the bottom of the identical inochi. We
love and treasure our own inochi before anything else. Therefore we must love and
treasure all the inochis, and must live, praying to be able to walk together. 21
L’inochi risulta un elemento da amare, qualcosa che prevade tutte le creature nel passato e nel
futuro, in un sentimento di compassione reciproca.
Una delle pubblicazioni più interessanti sulla tematica è il Manuale per lo Sviluppo di un Spirito di
Rispetto per l’Inochi, del Ministero dell’Educazione (per scuole elementari e medie inferiori). Si tratta di guide
per gli insegnati di educazione etica, scritti da insegnanti stessi, professori e addetti del Ministero, e
rappresentano in una certa misura, un discorso organico sull’argomento. In particolare si occupano delle
proprietà specifiche dell’inochi e delle sue norme intrinseche.
The first property is irreplaceability. Only one inochi is given to each living thing, and it
cannot be replaced by any other inochi. Once we lose our inochi, we never get it again. It
is stressed that every inochi, including those of humans and other creatures, is equally
irreplaceable, a belief that is expressed by the stock phrase in contemporary Japanese,
‘irreplaceable inochi.’
The second property is the process of being born, growing, aging, and dying, which
applies equally to humans, animals, and plants. This understanding is the most basic way
of grasping inochi.
20 Ibid., pag. 35.
21 Ibid., pag. 42 – 43.
69
The third property defines inochi as being beyond the power of humans. Inochi beings
neither come into existence of their own will nor do they keep on living of their own will.
[...]Living together in mutual support constitutes the fourth property. Inochi beings
cannot live without the mutual support networks of inochi which spread all over the earth.
[...]The fifth property is personality. Every inochi being has its own personality because
there is no creature with completely the same figure and appearance as another 22
Ma esiste una caratteristica che connota in modo fisico l’inochi, e che risulta particolarmente
importanti ai fini della nostra discussione
The sixth property is warmth and breath. 23
Ecco che viene a esser sottolineata la particolare attenzione al calore del corpo e al respiro, elementi
che mancano al cadavere ma che sono invece presenti nel corpo di un paziente in stato di morte cerebrale.
Si consideri inoltre, che le stesse guide sopracitate stabiliscono una serie di comportamente da
tenere per custodire l’inochi; viene infatti sostenuto che l’inochi debba venire protetto (sia esso il nostro o
quello della terra) poichè è insostituibile. Si richiede inoltre il sostegno reciproco tra appartenenti alla stessa
comunità e con l’ambiente circostante, poichè la nostra esistenza è possibile solo all’interno della più ampia
rete umana e naturale; in particolare, un inochi non appartiene solo alla singola persona, ma in qualche
misura anche alla sua famiglia, e al gruppo sociale di apparteneza, ed è quindi importante non solo per se
stessi ma anche per gli altri. Troviamo qui probabilmente una forte motivazione a sostegno della necessità
del consenso familiare per la dichiarazione di morte cerebrale e per la donazione.
È infine indicato il bisogno di impegnarsi a fondo nella propria esistenza finita, concentrandosi sul
presente per partecipare alla perpetuazione del ciclo degli inochi.
Questa visione è estremamente radicata nella società giapponese, principalmente poichè passa
attraverso l’educazione scolastica a partire dalle prime fasi di socializzazione, e viene assorbita fino a
diventare parte portante della propria concezione personale.
I rapporti tra concezione della vita e valutazione del concetto di morte cerebrale sono sicuramente in
evoluzione, e risulta sempre più diffusa la sensazione che la necessità di organi possa essere una motivazione
22 Ibid., pag. 45.
23 Ibid., pag. 45.
70
sufficiente per procedere ad una definizione più stringente e vincolante. È comunque un terrento che
richiede ulteriori studi e analisi, in modo da poter valutare le evoluzioni future che si prospettano rapide e
cariche di innovazioni.
71
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