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Carmine Cassino Frammenti di emigrazione ottocentesca: vicissitudini dei calderai trecchinesi nel Portogallo di inizio secolo * La questione dell’emigrazione italiana, quale risultato di macroscopiche contingen- ze socio-economiche, è solitamente ricondotta ai grandi flussi che interessarono il nostro paese, e in particolare il suo meridione, nel periodo postunitario (seconda metà dell’Ottocento). Se è fuor di discussione che la portata di quel fenomeno non è com- parabile con i flussi migratori verso l’estero che hanno interessato il popolo italiano fino agli anni Sessanta del XX secolo, è anche vero che esodi dalla penisola ebbero luo- go anche nel periodo che precedette l’unificazione nazionale (1860); e riguardarono il Mezzogiorno, all’epoca politicamente organizzato nel Regno delle Due Sicilie, sotto dominazione del ramo napoletano della dinastia di Borbone. Se alla fine di quel secolo così tormentato per le vicende nazionali milioni di italiani (in prevalenza meridionali) presero la via delle Americhe, all’inizio dello stesso vi erano sudditi del regno duosi- * Abbreviazioni utilizzate nei riferimenti archivistici in nota (dicitura italiana e portoghese): sr. (série), cx. (caixa), bs. (busta), mç. (maço), fasc. (fascicolo), doc. (documento), n. (número), fl. (folha/foglio), liv. (livro).

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Carmine Cassino

Frammenti di emigrazione ottocentesca: vicissitudini dei calderai trecchinesi nel Portogallo di inizio secolo*

La questione dell’emigrazione italiana, quale risultato di macroscopiche contingen-ze socio-economiche, è solitamente ricondotta ai grandi flussi che interessarono il nostro paese, e in particolare il suo meridione, nel periodo postunitario (seconda metà dell’Ottocento). Se è fuor di discussione che la portata di quel fenomeno non è com-parabile con i flussi migratori verso l’estero che hanno interessato il popolo italiano fino agli anni Sessanta del XX secolo, è anche vero che esodi dalla penisola ebbero luo-go anche nel periodo che precedette l’unificazione nazionale (1860); e riguardarono il Mezzogiorno, all’epoca politicamente organizzato nel Regno delle Due Sicilie, sotto dominazione del ramo napoletano della dinastia di Borbone. Se alla fine di quel secolo così tormentato per le vicende nazionali milioni di italiani (in prevalenza meridionali) presero la via delle Americhe, all’inizio dello stesso vi erano sudditi del regno duosi-

* Abbreviazioni utilizzate nei riferimenti archivistici in nota (dicitura italiana e portoghese): sr. (série), cx. (caixa), bs. (busta), mç. (maço), fasc. (fascicolo), doc. (documento), n. (número), fl. (folha/foglio), liv. (livro).

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ciliano che cercavano fortuna in Europa. Non esisteva, dunque, una sola migrazione interna allo Stato e alla penisola che portava, per esempio, i braccianti abbruzzesi a spostarsi nella Terra di Lavoro o nello Stato Pontificio per lavorare le terre fertili che l’orografia regionale negava loro; imitati da quelli lucani, che erano costretti dalla depressione economica delle campagne a spostarsi nelle piane pugliesi nel tentativo di procurarvi impiego. Neppure aveva luogo una migrazione esclusivamente intellettuale o comunque “di nicchia”, che portava professionisti e artisti a ricercare opportunità nelle città maggiori, in primis Napoli. A fianco di tutto ciò esisteva anche un’emigra-zione oltreconfine, e oltrepenisola, che riguardava soprattutto chi praticava mestieri antichi, che oggi potremmo definire di una certa “specializzazione”. È la cosiddetta “emigrazione di mestiere”.

Tale fenomeno interessava particolarmente la provincia di Basilicata, e nello specifico l’area del lagonegrese, dove l’assenza di lavoro e di buone condizioni di vita spinsero a partire, nel corso del tempo, diverse figure di artigiani; a dimostrazione di quanto già nel passato quest’area apparisse fondamentalmente depressa e svantaggiata nella sua dimensione sociale ed economica (condizioni sfavorevoli del presente hanno sempre radicate motivazioni nel passato). Particolarmente consistente fu l’emigrazione dei ma-estri calderai, lavoratori del rame che producevano (e producono ancora oggi, seppure in scala molto ridotta) manifatture in quel metallo. Un mestiere antico e socialmente riconosciuto, tanto da aver ispirato il nome dei legittimisti borbonici organizzatisi nel regno agli inizi del XIX secolo sotto il nome, appunto, di setta dei Calderari1. Dunque, la vicenda che di seguito esporremo mette innanzitutto in discussione la credenza che fra i vari “primati” del Regno delle Due Sicilie (alcuni dei quali oggettivamente indiscu-tibili2) vi fosse la quasi totale assenza di emigrazione verso l’estero, che un determinato revisionismo storiografico contrappone all’imponente fenomeno (considerato indice dello sfacelo postunitario) che ha convenzionale inizio nel 1876.

La via del rame tra il Noce e l’Iberia

Sono due le comunità della Valle del Noce che hanno tramandato nel tempo l’im-portante tradizione dei lavoratori del rame: quelle di Rivello e Trecchina. L’associa-zione tra la prima e i calderai è immediata, alla luce del fatto che, ancora oggi, tra le

1 I Calderari costituivano una setta nata su impulso del Principe di Canosa (al secolo, Antonio Capece Minutolo) in risposta a quella carbonara, che minacciava l’ordine restaurato dopo il 1815. Su questo tema si vedano due pubbli-cazioni d’epoca: P. Tonelli, Breve idea della Carboneria: sua origine nel regno di Napoli, suo scopo, sua persecuzione, e causa che fe’ nascere la setta de’ Calderari, Napoli 1820; P. Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1794 al 1825, t. II, Parigi 1835; e una più recente: W. Maturi, Il Principe di Canosa, Firenze 1944. 2 Cfr. G. De Crescenzo, Da operai ad emigranti: tra luoghi comuni e verità negate, in P. Aprile et al., Malaunità. 1861-2011 centocinquant’anni portati male, Napoli 2001, pp. 83-99; A. Boccia, I primati del Regno delle Due Sicilie, in Ivi, pp. 157-160.

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vie del borgo antico si conservano botteghe in cui abili artigiani modellano il metallo con ammirabile maestria. Loro predecessori emigrarono nella prima metà dell’800 nella penisola iberica, stanziandosi nell’area sud-orientale della regione di Castiglia la Mancha, precisamente nella cittadina di Hellín (a metà strada tra Albacete e Murcia) dove nel 2013 alla comunità dei ramai rivellesi è stato intitolato uno spazio pubblico3. Nell’antica Illunum i pionieri rivellesi ebbero vita facile a imporre la loro professiona-lità in un’attività evidentemente carente in loco, e in breve tempo si imposero nella produzione di uso domestico (pentole, stufe, lanterne, contenitori di liquidi alimen-tari) e industriale (caldaie, tubi, piatti, strumenti per la distillazione)4. I loro cognomi – Vigorito, Cernicchiaro, Ciuffo, Dommarco – tradiscono indubbie origini non solo rivellesi, ma valnocine: a dimostrazione che l’emigrazione ottocentesca di artigiani dal lagonegrese alla penisola iberica ha riguardato buona parte dei comuni della valle.

Questo ci spinge a far luce sulla prima questione che lo storico deve porsi nell’analisi di questa vicenda: perché gli artigiani rivellesi emigravano verso la Spagna? Destina-zione che appare insolita; inoltre a quel tempo la stessa emigrazione verso il Nuovo Mondo – divenuto nei decenni successivi meta comune per milioni di italiani – era pressoché destinata a prigionieri e detenuti, inviati in maniera coatta a scontare la pena per esempio nei campi del Brasile, dove sopperivano alla mancanza di forza lavo-ro determinata dall’indebolimento della tratta degli schiavi. A questo proposito è utile ricordare come un primo accordo tra il Regno delle Due Sicilie e quello del Portogallo fosse stato siglato nel 18195, prevedendo una prima partenza di 300 condannati “na-poletani” (nei documenti dell’epoca tutti i sudditi erano identificati in questo modo) verso l’allora colonia sudamericana, poi divenuta indipendente nel 1822. Scorrendo gli elenchi di quegli uomini, conservati presso l’archivio del Museo Militare di Lisbo-na6, si contano 25 lucani, di cui un lagonegrese (Biagio Accattati, condannato per furto) e un marateota (Biagio Di Puglia, condannato per lo stesso reato).

In base alle informazioni fornite dallo studio provvisorio dello spagnolo Juan José Villena Pérez7, i calderai rivellesi sarebbero emigrati in un periodo in cui la Spagna sof-

3 Intitolato in Spagna un giardino pubblico ai Calderai di Rivello, «Eco di Basilicata», XII, 2013, 17, p. 24. 4 Queste informazioni sono derivate dalla motivazione di intitolazione del giardino pubblico, presentata da Juan José Villena Pérez alla municipalità di Hellín (http://archivomunicipaldehellin.blogspot.it/2013/08/caldereros-de-rivello.html). Allo stato attuale Juan José Villena Pérez risulta essere l’unico studioso della comunità rivellese di Hellin, ma manca al momento una sua pubblicazione a carattere scientifico che possa fungere da riferimento biblio-grafico per gli altri studiosi.5 Questo trattato, mai ratificato dalla corona portoghese, trova riscontro documentale in due complessi archivisti-ci: Napoli, Archivio di Stato, Ministero degli Affari Esteri, bs. 4457: Convenzione col Portogallo pei condannati nel Brasile; Lisbona, Arquivo Nacional da Torre do Tombo, Ministério dos Negócios Estrangeiros, cx.788: correspondência da legação portuguesa em Nápoles, fl. 32 (1820). Per una rassegna bibliografica, si veda invece: P. Scarano, Rapporti politici, economici e sociali tra il Regno delle Due Sicile ed il Brasile (1815-1860), «Archivio Storico per le provincie napoletane», XXXVI, 1957, 75, pp. 289-314; G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, vol. V, Torino 2007, pp. 159-160.6 Lisbona, Arquivo Histórico Militar, Emigrados, fondo 3/17, sr. 1, cx. 1, n. 3, docs. 39, 40, 41; n. 6, doc. 114.7 Si veda nota n. 4.

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friva agitazioni e incertezza politica (1833), preambolo della sanguinosa guerra civile tra carlisti e isabellisti, che avrebbe condizionato il paese fino alla fine del decennio successivo8. Dunque non un periodo particolarmente favorevole per chi avesse voluto dirigersi e stabilizzarsi in quei territori, dando vita a quel fenomeno di richiamo che, nel caso di Hellín, è un fatto incontestabile. Non potendo perciò lo storico contare ancora sul sostegno di fonti certe e organizzate (a conferma di quanto sostenuto da Matteo Sanfilippo, ossia che «la prima metà dell’Ottocento resta sempre una terra in-cognita della storiografia italiana sull’emigrazione»9), e alla luce delle precedenti con-siderazioni, si può ipotizzare che il flusso di calderai – non solo rivellesi ma di tutta la Valle del Noce – in direzione della penisola iberica si debba ascrivere a un’epoca precedente a quella dell’insediamento della piccola comunità lucana a Hellín. D’al-tronde, l’emigrazione italiana nell’area mediterranea è fenomeno che affonda le sue radici molto prima dell’Ottocento, sebbene in dimensione ridotta e riguardante figure particolari quali artisti, artigiani, mercanti. All’interno di essa è rintracciabile lo spo-stamento di artigiani lucani dentro e fuori la penisola, inquadrabile in quelle dinami-che di migrazione a carattere economico che interessano le maestranze del belpaese già dal Trecento; e in cui «prevalgono movimenti di manodopera specializzata, anche se spesso tale specializzazione è legata a settori poco qualificati del mercato del lavoro»10. Si pensi dunque, oltre ai lavoratori del rame, ai suonatori viggianesi e agli argentieri marateoti11, ma anche ai calzolai lagonegresi. In tale dinamica è possibile riscontrare una ragione dell’inusualità apparente della meta: è sempre Sanfilippo a ricordare – fa-cendo riferimento ai fondamentali studi di Giovanni Pizzorusso – che l’emigrazione italiana è un fenomeno che si profila all’interno di un contesto storico-politico, che ha visto per esempio lavoratori napoletani (da intendersi, come detto, quali sudditi di ogni parte del regno) emigrare verso la Spagna e le colonie spagnole per il legame politico e culturale che intercorreva tra i due regni12.

8 Nel 1833, alla morte di Ferdinando VII (sovrano che era sopravvissuto prima al periodo napoleonico e poi a quello liberale) si aprì la lotta per la successione dinastica tra il fratello di lui, don Carlos, e sua figlia Isabella. Riuscì a spuntarla quest’ultima (sotto reggenza della madre Maria Cristina) grazie all’abolizione della legge salica, voluta dal padre, che impediva la salita al trono di eredi di sesso femminile. Questa risoluzione non fu però accettata da don Carlos e dai suoi sostenitori, che diedero vita a uno scontro sanguinoso conosciuto come prima guerra carlista (1834-39), in cui prevalsero i partigiani di Isabella II, con l’appoggio dei liberali, che ottennero anche la costituzione (1837). Dopo un decennio ricco di tribolazioni una seconda ma più breve guerra carlista ebbe luogo nel 1849, con la nuova sconfitta degli assolutisti, sostenitori di don Carlos. 9 M. Sanfilippo, La storiografia sui fenomeni migratori a lungo raggio nell’Italia dell’età contemporanea, «Bollettino di demografia storica», 12, 1990, p. 56. Per uno studio complessivo si veda Storia d’Italia. Annali XXIV. Migrazioni, cur. P. Corti-M. Sanfilippo, Torino 2009.10 Id., Cronologia e storia dell’emigrazione italiana, «Studi Emigrazione/Migration Studies», XLVIII, 2011, 183, p. 358. 11 Cfr. R. Giura Longo, Dall’Unità al Fascismo, in G. De Rosa-A. Cestaro, Storia della Basilicata, vol. IV, L’Età contemporanea, Roma-Bari 2002, pp. 97-100.12 Sanfilippo, Cronologia cit., p. 359.

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I documenti – seppure frammentari – conservati negli archivi italiani e portoghesi, riguardanti le relazioni diplomatiche tra il Regno del Portogallo e quello delle Due Sicilie negli anni Venti del XIX secolo13, allargano questo quadro introduttivo; lo storico che in essi ricerchi lo sviluppo delle relazioni internazionali tra le due realtà si imbatterà nei casi di alcuni trecchinesi, di professione caldeireiros, che in portoghese significa ramai, assurti alle cronache diplomatiche per vicende e vicissitudini relative alla loro diaspora.

Uno sbarco a Tarragona

Partiamo da notizie relative al 1826, quando un gruppo di trecchinesi sbarcava a Tarragona (in Catalogna) su un brigantino spagnolo di nome Santo Antonio, partito presumibilmente da Napoli, e che sappiamo essere comandato dal capitano Raimon-do Curbera. La relazione che li riguarda fu redatta dal Consolato Generale del Regno delle Due Sicilie a Barcellona, su informazioni fornite dal viceconsole a Tarragona: «ed avendo dovuto detto brigantino consumare colà la contumacia; i suddetti individui si ritrovavano sprovveduti di viveri a segno tale che potevano incontrare delle malattie; perciò l’esatto vice-console sig. Theilig si è dato premura vettovagliarli». Giunsero dunque in condizioni di indigenza, provvisti solamente di qualche straccio, e della loro sapiente arte; attratti da una meta che – è ipotizzabile – qualche loro conoscente aveva già raggiunto, incontrandovi qualche fortuna. Fatto sta che all’arrivo sulla costa spagnola essi abbisognavano di tutto, creando non qualche imbarazzo al viceconsole per le spese occorse; tanto che Theilig così si rivolgeva al console Francesco Lioy: «le feci riflettere che io non sono autorizzato, se non che sussidiare i semplici marinai naufraghi; pur non di meno lodavo l’umanità sua, prescrivendole però di ripeterne il rimborso da’ menzionati ramaj». Chiosando: «D’altronde sembrami conveniente in-formare l’E. V., acciò in avvenire non si permetta a compagnie di ramaj intraprendere lunghi viaggi marittimi, particolarmente a bordo di legni esteri; senza esser provveduti del bisognevole»14. È proprio grazie alle notizie del viceconsole napoletano in Tarra-gona che ci è possibile prendere conoscenza dell’elenco dei suddetti ramai: essi co-municarono alle autorità in loco di avere provenienza dal comune di Trecchina. Con l’ausilio del materiale documentale conservato nella parrocchia di San Michele del comune valnocino, e gentilmente messo a disposizione dalle autorità ecclesiastiche, abbiamo provato – non senza difficoltà, data l’ampia diffusione di omonimi a quel

13 Sono due le unità archivistiche di riferimento: Napoli, Archivio di Stato, Ministero degli Esteri. Consoli del Regno di Napoli all’estero, bs. 2692: Lisbona – Diversi (1817-1829); Lisbona, Arquivo Nacional da Torre do Tombo, Ministério dos Negócios Estrangeiros, cx. 241: Correspondência dos Consolados de Nápoles, Duas Sicílias e Sardenhas.14 Napoli, Archivio di Stato, Ministero degli Esteri. Consoli del Regno di Napoli all’estero, bs. 2692: Lisbona – Diversi (1817-1829), fl. 118 (13/05/1826).

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tempo – a ricostruire laddove possibile un profilo biografico di ciascuno di loro. Si deve considerare che, all’epoca, l’analfabetismo dilagante tra sudditi e funzionari, e le difficoltà di comunicazione dettate dalla diversità di lingua, erano spesso causa di di-storsione di nomi e cognomi nei documenti e registri ufficiali. Questa non secondaria problematicità ci ha condotto a un vero e proprio lavoro paleografico nella definizione dell’elenco, che segue:

Fedele Vecchio » . Dovrebbe trattarsi dello stesso che il giorno 12 giugno 1806 prendeva in sposa Giovanna Maria Schettino15.Prospero Puppo » . Nato il 14 novembre 1800 da Giuseppe Puppo e Rosa Mi-chela Dattolo16.Domenico Siano » .Carlo Calabria » . Residente nel quartiere San Giovanni, ove è ubicata l’anti-ca parrocchia di Trecchina. Nel Libro VIII dei Battezzati (1801-1833, fl. 8) compare l’atto di battesimo (9 agosto 1802) di tale Giuseppe, figlio di Carolo (Carlo) e Saveria Pignataro. È dunque ipotizzabile che la sua migrazione verso la penisola iberica sia avvenuta in età già matura.Biagio Giffoni » . Questa figura ci pone difronte al primo caso di un fenomeno che altri documenti confermano, ossia quello del rientro in patria di alcuni dei ramai emigrati agli inizi del secolo (dato che avvalora l’ipotesi di emigrazione stagionale). Questo sembra suggerire l’obito registrato nel Libro VII dei Morti (1846-1878, fl. 20v.), laddove se ne indica il decesso il giorno 8 gennaio 1851 «cujus corpus hic sepultum est in Ecclesia S. Michaelis Archang.». Si tratta (con molta probabilità) di Biase Antonio Gifone, nato l’11 giugno 1794 da Vincenzo e da tale Schettino (nome illeggibile)17, sbarcato in Spagna a 28 anni, età media del gruppo dei ramai identificati.Giuseppe Vecchio » . I documenti relativi a questa figura ci permettono di capire un po’ di più sulle peregrinazioni dei ramai valnocini nella penisola iberica. In-fatti Giuseppe Vecchio, giunto a Tarragona nel 1826, si spostò da sud a nord, trovando morte nella regione atlantica della Galizia. Ne abbiamo notizia dal certificato di obito stilato il 21 gennaio 1830 nella cittadina di Redondela (dio-cesi di Tui), dall’abate Don Benito Pontela: «certifico que en le dia de ayer se dio sepultura eclesiastica en esta Iglesia de Santiago de Redondela al cadaver de José Viejo [Giuseppe Vecchio], marido que dijo ser de Rosa Bris, naturales de Trechina Provincia Basilicata en el Reyno de Napoles, confesose y recivio la S.ta Extrema Uncion; ayer el dia de [h]oy se tuvo una Funcion para dicho difunto,

15 Trecchina, Archivio Parrocchiale di San Michele Arcangelo, Libro III dei Matrimoni (1801-1846), fl. 11v.16 Libro VII dei Battezzati (1767-1801), fl. 194v.17 Ivi, fl. 143.

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a [la] qual asistieron de caridad para ser pobre los Sacerdotes de esta Villa»18. Dunque, da quello che ci svelano questi antichi documenti, Giuseppe Vecchio non ebbe fortuna con la sua attività, tanto da andare a morire in una amena località galiziana, povero e solo tanto da non avere nessuno al suo funerale, se non l’affetto della moglie e la carità dei sacerdoti locali. La sua condizione di indigenza è inoltre confermata dal sello de pobres apposto sul suo documento di morte, ossia il timbro che ne certificava la condizione materiale. Giovanni Schettino » . Nato nell’ottobre 1797 da Michele e Luisa Jannino19.Domenico Schettino » . La notevole diffusione di questo nominativo nella Trec-china di quell’epoca rende, in assenza di altri riscontri, praticamente impossi-bile identificare la corretta anagrafe del Domenico Schettino giunto in Spagna nel 1826.Giovanni Maimone » . Su di lui ritorneremo più avanti.Michele Maimone » . Questo nominativo compare già nell’elenco dei residenti in Portogallo nel biennio 1821-22, il che complica la ricostruzione del suo percorso migratorio. Dall’elenco portoghese veniamo a conoscenza che Mi-chele Maimone, «napolitano, caldeiro»20, residente nel 1822 nel regno (non sappiamo dove), era giunto l’anno precedente proveniente da Genova21. Que-sto dato ci fa capire come la migrazione dei ramai verso gli altri regni d’Eu-ropa non avvenisse necessariamente tramite imbarco dal porto di Napoli, ma poteva essere anche successiva allo spostamento di quelli negli altri Stati che all’epoca componevano la penisola italiana. La presenza di Maimone nel grup-po censito a Tarragona nel 1826 può essere inoltre ricondotta a due varianti che caratterizzavano la presenza dei ramai trecchinesi in Portogallo: stanzialità e temporaneità. È infatti possibile che egli avesse raggiunto la località catalana perché a conoscenza dell’arrivo dei suoi conterranei, oppure che fosse rien-trato in patria col duplice obiettivo di ricongiungersi ai suoi cari e richiamare suoi concittadini prospettando la possibilità di affari in quelle zone.Giovanni Schettino » . Nel libro dei battezzati si trova corrispondenza col re-gistro del giorno 23 ottobre 1806, figlio di Rosalia Lammoglia e Gennaro Schettino22.

18 Libro VI dei Morti (1801-1846), foglio sciolto.19 Libro VII dei Battezzati (1767-1801), fl. 158v.20 Caldeiro, caldereiro (portoghese); calderero (spagnolo) = ramaio.21 Lisbona, Arquivo Nacional da Torre do Tombo, Ministério dos Negócios Estrangeiros, liv. 161: Estrangeiros residentes em Portugal. Nello stesso registro è presente il nome di Giuseppe Pifano, “napoletano”, caldeireiro, proveniente da Badajoz (città spagnola di frontiera). Pifano è un cognome raro presente nel basso Cilento, prevalentemente a Vibo-nati. Altri sei calderai provenienti dalla Spagna sono registrati sotto il nome di Vincenzo Vitarelli. La provenienza di questi artigiani ci conferma che vi fosse un flusso tra la Spagna (luogo di sbarco, provenienti da Genova o Napoli) e il Portogallo, che percorrevano da nord a sud, optando a volte per la stanzialità.22 Libro VIII dei Battezzati (1801-1833), fl. 35v.

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Gennaro Pignataro » .Giuseppe Caricchio » . Uno dei tanti che avevano lasciato una famiglia a Trec-china prima di partire, come attesta l’atto di battesimo di suo figlio Gaetano, avuto da Agnese Piscitiello il 22 settembre 180123.Michele Vecchio » .Michele Sciortino » .Biagio Calabria » . Si tratta in realtà di Biase Antonio Calabria, nato il 12 feb-braio 180724.Prospero Maimone » . Padre di Vincenzo, registrato in fl. 40v., nato il 20 agosto 1820 proprio da tale Prospero e Maria Iannini, che a loro volta avevano con-tratto matrimonio il 6 luglio 180625.Carmine Bartone » . Questo è un caso di distorsione del nominativo in fase di scrittura. Si tratta, infatti, di Carmine Martone, nato il 3 marzo 1806 da Ni-colao e Maria Marotta26.

L’espulsione dal Portogallo dei ramai trecchinesi

Queste, dunque, le notizie recuperate attorno al gruppo di ramai di cui vi è traccia negli archivi italiani e portoghesi (e, si presume, in quelli spagnoli). Scavando però più a fondo tra le polverose carte degli archivi di riferimento, ci accorgiamo di come que-sta vicenda sia legata a un’altra, che attesta la presenza di ramai valnocini nella penisola iberica in un periodo precedente l’arrivo del gruppo suddetto a Tarragona, quando già si era consumato il primo atto di un’intricata e sfortunata vicenda riguardante altri calderai. Infatti il 5 maggio del 1826 il viceconsole napoletano a Lisbona, Giuseppe Calleja, comunicava alle autorità portoghesi (in un documento scritto in un francese approssimativo, e qui riportato in traduzione) lo spiacevole episodio occorso a cinque calderai “napoletani”, di cui aveva già ricevuto notizia dal viceconsole di Badajoz nel dicembre del 1825:

Gli individui in numero di cinque [...] calderai d’occupazione, e soggetti a Sua Maestà Siciliana [...] hanno inviato da Badajoz alla fine dell’anno scorso una rappresentazione al consolato in data 25 dicembre, stesso anno, con la quale facevano conoscere che dopo una dimora di molti anni in quel regno, guadagnandosi da vivere girando di paese in paese lavorando del loro mestiere, per un ordine imprevisto del Signor Intendente Generale di Polizia, sono stati

23 Ivi, fl. 1v. 24 Ivi, fl. 37v.25 Libro III dei Matrimoni (1801-1846), fl. 11v.26 Libro VIII dei Battezzati (1801-1833), fl. 31.

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espulsi fuori dal Regno senza sentirsi colpevoli di sbaglio, tale da provocare una tale misura nei loro confronti; che in seguito a tale misura essi non aveva-no saputo raccogliere dai loro numerosi debitori le somme di denaro che a essi spettavano, che in tal modo essi si trovarono spogliati di ogni loro sostegno per il recupero del prodotto del loro lavoro, e per questa ragione erano stati costretti a ricorrere al console di Sua Maestà loro padrone per ottenere almeno il permesso di andare a recuperare i loro crediti, e pagare ciò che essi erano stati costretti a prendere in prestito a causa del suddetto ordine27.

Dietro tale sollecitazione vi era la mano dell’ambasciatore napoletano a Madrid, il principe di Cassaro, che già dall’inizio della primavera aveva avanzato le sue ri-mostranze nei confronti dei rappresentanti portoghesi per il trattamento riservato a quella sciagurata comitiva di uomini. Una vicenda che non trovava soluzione, anzi si scontrava con la totale indifferenza delle autorità lusitane. Il 12 giugno (neppure un mese dopo lo sbarco dei trecchinesi a Tarragona), il diplomatico napoletano così scriveva al ministro degli esteri napoletano Luigi De’ Medici, ribadendo l’episodio occorso sul finire dell’anno precedente:

quattro calderai napoletani Gennaro Menzitiero28, Gennaro Martone, Gio-vanni e Nicolò Maimone, che andavano lavorando nel Portogallo, ricorsero a me sin da Badajoz nella Spagna, esponendomi che erano stati espulsi da quel Regno senza sapere attribuire la causa ad alcuna loro colpa e domandandomi che avessi fatto loro ottenere il permesso di rientrare in Portogallo, dove avan-zavano delle somme, ed avevano lasciati loro utensili29.

In questo comunicato i calderai diventano quattro, con l’omissione del quinto nominativo (Antonio Lamberti). Ma il dato importante che ci fornisce Cassaro in questa missiva sono i nomi, che ci confermano l’origine valnocina (“Menzitiero” è evidentemente distorsione del cognome Mensitiere); comparendo tra l’altro il nome di Giovanni Maimone tra i diciotto di Tarragona. Secondo l’informativa del Calleja, erano stati espulsi senza ragione dai confini del regno, privati di ogni loro guadagno e soprattutto degli strumenti di lavoro, che volevano recuperare. Si erano rifugiati presso Badajoz (cittadina spagnola posta subito dopo il confine) e da lì avevano con-tattato il consolato a Madrid (inviando una lettera). Dopodiché avevano ricominciato

27 Lisbona, Arquivo Nacional da Torre do Tombo, Ministério dos Negócios Estrangeiros, cx. 241: Correspondência dos Consolados de Nápoles, Duas Sicílias e Sardenhas (1826), fl. 7; Intendência Geral da Polícia, Avisos e Portarias, mç. 53, fl.155.28 Si tratterebbe dello stesso Gennaro nato il 10 marzo 1802 e battezzato tre giorni dopo, figlio di Giovanni e Maria Pignataro, come si evince dal Libro VIII dei Battezzati (1801-1833), fl. 6. 29 Napoli, Archivio di Stato, Ministero degli Esteri. Consoli del Regno di Napoli all’estero. bs. 2692: Lisbona – Diversi (1817-1829), fl. 691 (12/06/1826).

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a errare in territorio spagnolo, fino a congiurgersi (almeno il Maimone) al gruppo che proveniva da Napoli e sbarcava nel maggio a Tarragona (del cui arrivo, evidentemente, egli aveva notizia).

Ma chi erano questi cinque artigiani? L’archivio parrocchiale trecchinese ci restitu-isce informazioni solamente su tre di loro. Giovanni e Nicola Maimone erano padre e figlio, e avevano lasciato nella cittadina valnocina la rispettiva moglie e madre, Angela Maria Orrico, che Giovanni aveva sposato nel 180530. Di Gennaro Marto-ne sappiamo invece che era figlio di Michele Martone e Maria Marotta, i quali lo avevano battezzato il 12 aprile 180431. All’epoca della sua espulsione dal Portogallo, aveva circa ventidue anni, e assieme al coetaneo Nicola Maimone si accompagnava a uomini più adulti. Da Trecchina dunque emigravano segmenti familiari, in cui i figli aiutavano i padri, o comunque giovani artigiani seguivano i più anziani ed esperti per apprendere ed esercitare il mestiere oltreconfine. La presenza in Portogallo sin dal 1822 di un altro Maimone, Michele (supra elenco di Tarragona) sembra confermare questa ipotesi, pur non essendo per noi possibile verificare documentalmente il lega-me di parentela tra i tre Maimone (Michele da un lato, Giovanni e Nicola dall’altro) nei quali ci siamo imbattuti. Resta inoltre inevaso il perché dell’assenza del nome di Nicola Maimone nell’elenco dei trecchinesi di Terragona, dove invece compare quello del padre Giovanni.

Siccome l’istanza presentata dal viceconsole a Lisbona tardava a ottenere una rispo-sta, Cassaro chiese lumi all’incaricato d’affari del Portogallo a Madrid, il quale a sua volta gli rimise la nota che l’intendente generale di polizia a Lisbona aveva inviato al ministro degli Esteri portoghese:

[...] esistendo de’ ben fondati sospetti, che gli individui di tale professione erano, in generale, agenti, o spie de’ ladri che disgraziatamente infestano le provincie, si prese in questa intendenza la misura, anche in generale, di andar espellendo dall’interno del Regno questi vaganti; e malgrado che non occor-ra niente in particolare contro coloro, di cui fa menzione il Viceconsole, mi sembra di essere un pretesto inverisimile quello che allegano, onde di nuovo si permetta loro l’ingresso32.

La posizione portoghese suscitò le decise proteste del principe di Cassaro nei con-fronti dell’incaricato portoghese a Madrid, al quale venne richiesto di accordare nuo-

30 Trecchina, Archivio Parrocchiale di San Michele Arcangelo, Libro III dei Matrimoni (1801-1846), fl. 9. In Libro VIII dei Battezzati (1801-1833), fl. 36v., troviamo invece il registro di battesimo di Nicola Maimone, che ebbe luogo il 27 novembre 1806 alla presenza dei padrini Michele e Teodosia Vecchio.31 Libro VIII dei Battezzati (1801-1833), fl. 18.32 Napoli, Archivio di Stato, Ministero degli Esteri. Consoli del Regno di Napoli all’estero. bs. 2692: Lisbona – Diversi (1817-1829), fasc. 20/08/1826.

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vamente ai quattro sfortunati ramai i passaporti per il rientro nel regno. Della que-stione venne informato anche Francesco I a Napoli, che chiese di essere mantenuto aggiornato sull’evoluzione della vicenda; allo stesso tempo da Napoli si rispose alle rimostranze del console di Barcellona, che lamentava l’eccessiva facilità che tali poveri artigiani avevano nell’espatriare, facendogli osservare come fosse impossibile proibire la partenza a coloro che vivevano del lavoro delle loro mani. Protraendosi oltremodo tale questione, ancora nell’ottobre di quell’anno il 2º dipartimento degli Affari Esteri in una nota rivolta al re faceva presente come

ciascun governo è certamente padrone di dare nel proprio Stato quelle dispo-sizioni che crede più convenienti. Queste però non possono generalizzarsi a pegno che si offenda la buona corrispondenza tra due stati amici. È da gran tempo che i Ramai, ossieno i Calderai esercitano il loro mestiere ne’ paesi esteri. Essi utilizzano le loro braccia e ritornano in seguito in seno delle loro famiglie co’ risparmi che han fatto33.

Questo passo risulta essere di fondamentale importanza per la nostra ricerca. Infat-ti riafferma quanto detto in precedenza, ossia che l’esercizio del mestiere di ramaio (calderaio) all’estero era un fenomeno di molto precedente agli anni Venti e Trenta dell’Ottocento; e avvalora l’ipotesi che si trattasse di un fenomeno a prevalente ca-rattere temporaneo, con la maggiorparte di questi lavoratori che faceva rientro alle proprie case dopo l’accumulo di qualche guadagno.

Francesco I ordinò di riproporre l’affare allorquando fosse stato nominato a Lisbo-na un regio incaricato; ciò avvenne con l’indicazione del principe Antonio Pignatelli alla fine del 1827, quando la vicenda permaneva in sospeso: i cinque sventurati cal-derai speravano ancora di rientrare per riscuotere somme che sostenevano vantare in credito.

Una possibile lettura politica della vicenda deve però essere inquadrata nel contesto storico-politico generale portoghese (e mediterraneo) alla metà degli anni Venti. Pro-prio alla fine del 1825 era venuto a mancare il re Giovanni VI, e suo figlio primoge-nito Pietro, già fautore dell’indipendenza del Brasile (1822, col titolo di imperatore), era stato designato alla successione in Portogallo col titolo di Pietro IV (Pietro I in Brasile). Non essendo di suo interesse rientrare nella linea dinastica della corona portoghese, e soprattutto di riunire i due regni (Portogallo e Brasile), abdicò pronta-mente a favore della figlia Maria da Glória, all’epoca ancora minorenne; stabilendone il matrimonio col di lui fratello Michele, costretto al soggiorno forzato a Vienna a seguito delle sue trame assolutistiche, volte a destabilizzare lo status quo definito nel periodo seguente alla rivoluzione del 1820-23, considerato insoddisfacente dai set-

33 Napoli, Archivio di Stato, Ministero degli Esteri. Consoli del Regno di Napoli all’estero. bs. 2692: Lisbona – Diversi (1817-1829), fasc. 26/10/1826.

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tori oltranzisti del legittimismo lusitano, i quali si erano compattati attorno alla sua figura. L’imperatore Pietro fece seguire alla sua decisione la concessione di un testo costituzionale (sebbene più moderato rispetto al testo prodotto dalla rivoluzione del 1820), pattuendone con il fratello il riconoscimento da parte di questi al suo rientro nel regno, dove avrebbe assunto la funzione di reggente in attesa delle nozze con la nipote. La notizia del ritorno di Michele in Portogallo e il ripristino di una costitu-zione determinarono un rinnovato antagonismo tra le fazioni liberale e assolutista, che si erano affrontate nel cosiddetto Trienio Liberal; nonché agitazioni ai confini del regno, in particolare al sud. Molti discepoli di Michele, infatti, riparati nella Spagna di Ferdinando VII, approfittarono dell’instabile situazione politica per ripassare la frontiera e raggiungere Lisbona. Il medesimo tragitto era percorso da liberali spagnoli e italiani in fuga dall’assolutismo che vigeva in Spagna, e che prefiguravano nuove possibilità di azione politica nella capitale portoghese. Questo intenso movimento allarmò non poco le cancellerie europee, già spaventate dalle rivoluzioni che avevano infiammato tutta l’area mediterranea nel 1820. Era una preoccupazione che accom-pagnava, per esempio, il governo napoletano34, il quale temeva il rinvigorirsi di un vecchio progetto di sbarco sulle coste del regno da parte degli esuli liberali che si era-no rifugiati proprio nella penisola iberica dopo il fallimento della rivoluzione napole-tana del 1820-21. Cosicché tra le prime misure adottate dal nuovo e zelante console napoletano a Lisbona, Francesco Stella, venuto a riempire un vuoto che perdurava da anni35, vi fu quella della stesura di un elenco dei sudditi napoletani residenti, che

34 «La notizia del pacchetto a vapore partito da Gibilterra nell’oggetto di raccogliere sulle coste del Portogallo e della Spagna gli Emigrati. Le rendo grazie di una comunicazione così importante, che per ora troverei opportuno di non partecipare alle autorità competenti per evitare un allarme, riserbandomi tale misura, allorchè V.E., semmai potrà avere ulteriori notizie, fosse nel caso di dinotarmi che il legno, dopo percorse le coste degl’indicati due Regni, siesi introdotto nel Mediterraneo» (dispaccio del gabinetto del Ministero della Polizia Generale, indirizzato all’incaricato agli Esteri, in Napoli, Archivio di Stato, Ministero di Polizia Generale. Parte II, bs. 52: Carte del Parlamento Nazionale delle Due Sicilie [1820-21], fl. 6110). Anche il nuovo console a Lisbona, Francesco Stella, conferma una notizia simile (dispaccio del 9 settembre 1826) in una delle prime comunicazioni inviate al ministero degli Esteri: «ieri è da qui partito per Gibilterra un grosso pacchetto a vapore inglese, il Giorgio IV, di 750 tonnellate. Lo scopo dello stesso è, girando il Portogallo e la Spagna, di prendere degli Emigrati che probabilmente in queste emergenze non saranno pochi» (Napoli, Archivio di Stato, Ministero degli Affari Esteri. Consoli del Regno di Napoli all’estero, bs. 2693: Lisbona-Diversi. Notizie e regolari [1815-1828], fl. 22).35 La rappresentanza diplomatica delle Due Sicilie in Portogallo alla fine degli anni Dieci dell’Ottocento è costituita non da un’ambiasciata, ma da una regia legazione, di cui fanno parte un incaricato d’affari (Vincenzo Ugo) presso la reggenza, un regio console (Vincenzo Mazziotti), un viceconsole (Giuseppe Calleja) a Lisbona più una diffusa rete viceconsolare sull’intero territorio portoghese, inclusa l’isola di Madeira. Dopo la morte dei primi due, entrambi scomparsi nel 1817, l’intera attività consolare ricade sulle spalle del solo Calleja, il quale a più riprese sollecita il mini-stero degli Esteri napoletano a riconoscergli la carica di console. Dopo la rinuncia di due designati (Giorgio Balsamo e il Conte di Grattagliano) al ruolo di console, è nominato Francesco Stella, che giunge nella capitale portoghese nell’estate del 1826. La nomina di Stella è accolta non senza rancore da Giuseppe Calleja, il quale, nei primi mesi, cerca di ostacolare il normale svolgimento dei compiti del nuovo console: «in questo mentre, e abbenchè avessi fatto ostensibili a questo sig. Calleja il mio passaporto, decreto, patente etc., pure si rifiuta riconoscermi, e psssarmi la con-segna di ciò [che] appartiene al consolato, adducendo mancargli gli ordini, e prevenzioni relative della segreteria (...) questo sarebbe poco; ma l’avermi poi fatto passare per un impostore mi ha causato maggior dispiacere (...) Il Calleja è uomo grossolano, che ha un botteghino di lotteria; ma in tutto, e per tutto si fa dirigere da un esiliato italiano, che dicesi ebreo; soggetto molto pericoloso, e di pessima reputazione, e che sarà certamente il consigliere» (Napoli,

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doveva servire «a organizzare questi registri, e invigilare la condotta dei denotati»36. Tra questi non risultavano, al momento, sudditi che provenissero da Trecchina o avessero cognomi riconducibili all’area sud della provincia di Basilicata.

Il timore di rivolte, sommosse e invasioni promosse dagli stranieri, in gran parte esuli italiani di fede liberale in fuga dalle repressioni risorgimentali, favoriva un gene-rale clima di diffidenza contro tutto ciò che provenisse da fuori. Una diffidenza che nel Portogallo di quegli anni era trasversale, e accomunava tanto i settori più moderati della società (quelli che facevano riferimento a Pietro IV), quanto quelli più reazionari (che invece si richiamavano al principe Michele). Con la presa del potere di Michele nel 1828 e il ripristino del regime assolutista (con abolizione della costituzione mo-derata concessa da Pietro IV) si aprì un periodo di profonda crisi in Portogallo, con l’acutizzarsi di una frattura politica che sfociò nella guerra civile, conclusasi solamente nel 1834 e che vide prevalere le truppe liberali guidate da Pietro (nelle quali avrebbero operato molti esuli italiani). Nel Portogallo di quegli anni si sarebbe approfondito il sentimento di sospetto verso i forestieri, considerati come potenziali spie e agenti del disordine. La comunità italiana a Lisbona e in tutto il paese – la terza, per dimensio-ni37 – fu tra quelle più colpite.

La conferma che anche su dei poveri calderai – come i cinque di cui abbiamo rife-rito – cadesse il sospetto di progetti sovversivi ce la forniscono molti documenti. Per esempio, nei dispacci scambiati tra il ministero degli Esteri e la polizia portoghese, si evince come proprio agli inizi del 1826 si aveva sentore del pericolo di infiltrazione da parte di rivoluzionari spagnoli, legati al comitato degli spagnoli rifugiati in Inghilterra – dove, come è risaputo, esisteva anche un comitato italiano. Si discuteva di missioni che dovevano sbarcare sulle coste spagnole, della presenza di agenti rivoluzionari a Lisbona, del rischio di un’insurrezione che puntasse a instaurare una giunta rivoluzionaria che unisse Portogallo, Galizia e Asturie38. Dunque la repressione nei loro confronti rien-trava, sostanzialmente, nel generale contrasto alla presenza di stranieri, e in particolar modo di quelli che venivano a esercitare professioni di commercio, contro i quali era più semplice aizzare l’ostilità dalla popolazione locale (anche all’epoca faceva presa il discorso populista del lavoro rubato dai forestieri e sottratto ai nazionali).

Archivio di Stato, Consoli del Regno di Napoli all’estero, bs. 2690: Lisbona. Diversi [1815-1829], fasc. 19/7/1826).36 Napoli, Archivio di Stato, Ministero degli Affari Esteri. Portogallo, bs. 935: Affari politici del 1826 (fasc. 14/10/1826). Il console Stella redige una lista di sudditi napoletani registrati nell’intendenza di polizia di Lisbona tra il 1823 e il 1826, che però appare sommaria, alla luce dell’integrazione di nomi che è possibile effettuare con ulteriori elenchi riguardanti lo stesso periodo e conservati presso l’archivio della Torre do Tombo di Lisbona (Ministério dos Negócios Estrangeiros, cx. 342: Correspondência com a Intendência Geral da Polícia [1823-24], fl. 34, 1823).37 J.P. Ferro, A população portuguesa no final do antigo regime (1750-1815), Lisboa 1995, pp. 80-92. Per quanto riguarda il dato locale, la studiosa Teresa Rodrigues (sulla base di dati della commissione statistica parlamentare) quantifica in 882 il numero di italiani residenti a Lisbona agli inizi dell’Ottocento (Nascer e morrer na Lisboa oitocen-tista. Migrações, mortalidade e desenvolvimento, Lisboa 1995, p. 142). 38 Lisbona, Arquivo Nacional da Torre do Tombo, Ministério dos Negócios Estrangeiros, liv. 189: Ofícios Confidenciais, pp. 4, 20.

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Ma altri ramai incapparono nell’astio delle autorità portoghesi, come possiamo evincere da documenti consolari napoletani del 1829. Di essi non si specificano né i nomi né la provenienza, ma in considerazione del mestiere che esercitavano è plau-sibile che si trattasse, anche in questo caso, di artigiani provenienti dalla Valle del Noce. Nel giugno di quell’anno il console Stella così scriveva a Napoli: «non ho creduto prima d’ora annoiare con rapporti e dettagli di quanto sono stato costretto a fare fin dallo scorso anno in coadiuvazione di Regi Sudditi, che nell’istessa guisa degli altri esteri qui residenti, e nelle province sono stati soggetti, e lo sono tuttavia, alle continue vessazioni di questo governo»39. L’episodio è dunque relativo all’anno pre-cedente, quando vengono arrestati sette calderai nell’area della Beira alta (una regione tra collina e montagna, vicino alla città di Coimbra), più precisamente nelle località di Arganil (quattro di loro) e Viseu (tre). Una volta condotti in prigione si erano visti sottrarre dalla polizia duecento ducati in oro, col sospetto che fossero il frutto di furti o raggiri, mentre più plausibilmente erano il risultato del loro lavoro, che essi quantificavano a Stella in quattro anni di incessante sacrificio e vita miserabile. Una volta rilasciati, non gli venne restituito il denaro. Ai quattro fermati ad Arganil venne ordinato di dirigersi a Lisbona, mentre i tre presi a Viseu furono espulsi dal regno. Le intenzioni del nuovo governo assolutista di Don Michele erano d’altronde ben chiare nelle parole dell’intendente di polizia, il quale faceva presente al console Stella «esser volontà di S. M. che i forestieri non vadino erranti nelle provincie del suo Regno per scroccare vivere a spese de’ suoi sudditi! [...] non voler S. M. che i forestieri co’ loro ciarlatanismi e loro commercio pericoloso venghino a prendere il denaro de’ porto-ghesi». «Confondendosi però», chiosava il console, «senza voler sentir ragioni in tale misura, anche quelli ch’esercitano mestieri o per affari commerciali»40. Tale atteggia-mento, sicuramente pregiudiziale, non esulava del tutto dagli avvenimenti in corso nel Regno delle Due Sicilie; tanto che, avvertiva sempre Stella, «già dopo li ultimi avvenimenti del Vallo e di Roma promosso da’ settari napolitani, mi sono accorto avere questa polizia rivolta particolarmente la sua vigilanza su quelli che portano il nome di sudditi della Prelodata M. S.». Gli accadimenti del Vallo cui si fa riferimento sono ovviamente quelli cilentani del 182841, che nonostante la ridotta dimensione territoriale ebbero un peso politico notevole nelle vicende del regno borbonico; un peso tale da colpire l’opinione pubblica europea a tal punto che la sua eco giunse fin

39 Napoli, Archivio di Stato, Ministero degli Esteri, Consoli del Regno di Napoli all’estero, bs. 2692: Lisbona – Diversi (1817-1829), fasc. 3/8/1829.40 Ibid. 41 Nel 1828 esplose in questa regione una rivolta a carattere costituzionale: l’obiettivo dei rivoltosi, tra cui primeg-giava la setta carbonara dei Filadelfi, era quello di marciare su Napoli e imporre nuovamente al re la Costituzione, come era avvenuto con la rivoluzione del 1820. A essa prese parte anche una banda di briganti, quella dei fratelli Capozzoli, unitasi con motivazioni varie alle ragioni dei liberali. L’insurrezione fallì ben presto, e fu duramente repressa dall’allora capo della gendarmeria Del Carretto, che distrusse interamente il villaggio di Bosco su ordine del re Francesco I, a mo’ di pena esemplare per i rivoltosi.

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sulle sponde dell’Atlantico, come scopriamo in questa sede. D’altronde, lo stesso go-verno napoletano era convinto che dietro l’insurrezione vi fosse il comitato degli esuli a Parigi, «pronto a organizzarne altre in Piemonte, Portogallo e Spagna, servendosi di sedicenti commessi viaggiatori»42.

Così rispondeva invece il ministro degli Esteri, dopo essersi consultato col re: «le circostanze del Portogallo sono difficili, ed in conseguenza possono esigere del rigore pe’ forestieri; ma questo non può regolarmente portarsi tanto oltre quando si tratta di persone ch’esercitano il mestiere. E che colla loro condotta non han dato motivo né di sospetto, né di rimprovero. Deve perciò inculcarsi al console Stella di proteggere i reali sudditi, quali onestamente si van procacciando da vivere, e di far loro restituire il denaro che a taluni di essi si han preso»43.

Trecchina e il Portogallo: tracce di un legame prolungato

Con questa presa di posizione, il governo napoletano riconosceva due cose: il fatto che in Portogallo vi fosse un’ormai evidente attività persecutoria nei confronti degli stranieri; e che questa fosse esercitata con particolare accanimento nei confronti dei sudditi napoletani, accomunati a spie e ladri. A ogni modo, negli archivi tanto por-toghesi quanto italiani si perdono le tracce di questa vicenda, ribadendo una fram-mentarietà documentale che ha permesso una ricostruzione solamente parziale della presenza di ramai trecchinesi in Portogallo agli inizi dell’Ottocento. Presenza che si protrae anche negli anni successivi, e che conferma l’esistenza di una comunità in territorio lusitano, a prevalente carattere temporaneo. Presentiamo in conclusione un altro caso, quello di un tale Pietro Grisi, «figlio del fu Raffaele Grisi di Trecchina ri-trovandosi col mestiere di Ramajo nel Regno di Portogallo si ammalò, e passò all’altra vita nel di Cinque del mese di Decembre dell’anno 1832 nel villaggio di Aldega Gal-lega della Marceana nel sud[detto] Regno del Portogallo»44, trovando sepoltura nella chiesa di Nossa Senhora dos Prazeres. Ed è possibile che altri trecchinesi avessero tro-vato impiego nella piccola comunità sita pochi chilometri a nord di Lisbona (facente parte oggigiorno della municipalità di Alenquer), visto che a consegnare il testamento al curato trecchinese e al figlio Raffaele furono altri due concittadini, Nicola Schettino e Francesco Conte, che erano riusciti a fare ritorno a casa.

42 Galasso, Storia del Regno di Napoli, cit., vol. V, p. 365.43 Napoli, Archivio di Stato, Ministero degli Esteri, Consoli del Regno di Napoli all’estero, bs. 2692: Lisbona – Diversi (1817-1829), fasc. 2/7/1829.44 Trecchina, Archivio Parrocchiale di San Michele Arcangelo, Libro VI dei Morti (1801-1846), fl. 106.

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Ancora più esplicito è un registro di due anni successivo, comunicante che

Nicola Francesco Vecchio45 figlio di Pietrantonio Vecchio e di Agnese Orrico essendo partito per calderaro, si portò nel Regno di Portogallo a praticare il mestiere di ramiero, ed ivi nell’anno 1834 fu sorpreso dal morbo colera così detto, e passò da questa all’altra vita nel mese di aprile del detto anno 1834; e ciò è vero per testimonianza e redazione di Sabato Piscitelli46 di Giovanni, e di Pietro Paolo Menzitiero di Pasquale suoi cittadini, i quali si ritrovavano anche in Portogallo coll’arte medesima di ramieri; la morte del sud. Nicola Francesco Vecchio avvenne nel paese chiamato Forno[s] provincia di Veravascia47 in Por-togallo sotto il Vescovato di Ave[i]ro, Giustizia di Coimbra. E per esser vero ne hanno fatto la presente dichiarazione firmata da me infrascritto Cantore Curato Francesco Mansueto Schettino ed in mia presenza firmata da Pietro Paolo Menzitiero, giacchè Sabato Piscitelli ha dichiarato non saper scrivere. Trecchina 10 Febbraio 184148.

Questo documento non fa che confermare e rafforzare – seppur con scarsa docu-mentazione – quanto sostenevamo in principio di testo, e che abbiamo voluto dimo-strare attraverso il ricorso a frammenti di vita vissuta dai calderai all’estero: ossia che la presenza di ramai valnocini nella penisola iberica non è da ricondurre alla sola comu-nità rivellese, ma anche a quella trecchinese; e che tale presenza, rintracciabile in un periodo precedente a quello della comunità di Hellín, non è trascurabile nel numero. Si tratta di una presenza che poteva assumere sia caratteri di continuità, sia di tempo-raneità: molti dei calderai che si dirigevano in Portogallo provavano ad accumulare qualche ricchezza nel corso di alcuni anni, per poi far ritorno nel luogo di origine, dove normalmente lasciavano mogli e figli in tenerà età. I figli già in età lavorativa so-vente accompagnavano i padri. La stanzialità era data invece dai matrimoni contratti sul suolo lusitano, con conseguente formazione di una famiglia in loco.

Neppure si può trascurare un altro dato importante: quello che ci attesta l’impor-tanza e il valore dell’artigianato valnocino, in grado di diffondersi in varie parti d’Eu-ropa e del mondo. Il Lagonegrese era sì zona dalla debole economia, ma produceva al suo interno abilità artigianali capaci di imporsi laddove tali specializzazioni erano richieste. Questa zona della Basilicata albergava una apprezzabile cultura del lavoro, che si traduceva in prezioso talento manifatturiero.

45 Nicola Francesco era nato il 2 dicembre 1798 da Pietro Antonio Pellegrino e Agnese Giusepppa Orrico (Trecchi-na, Archivio Parrocchiale di San Michele Arcangelo, Libro VII dei Battezzati [1767-1801], fl. 165v).46 Sabato Piscitelli o Piscitello, nato il 31 ottobre 1796 da Giovanni Sabato e Anna Giovanna Grisi (Libro VII dei Battezzati [1767-1801], fl. 155v.)47 Beira bassa, regione collinare-montagnosa situata tra la città di Coimbra (a ovest) e il confine spagnolo (a est). 48 Trecchina, Archivio Parrocchiale di San Michele Arcangelo, Libro VI dei Morti (1801-1846), foglio sciolto.

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Possiamo infine affermare che il legame di Trecchina con i paesi di lingua portoghe-se sia precedente alla grande epopea migratoria della fine dell’Ottocento, che nel 1880 porterà addirittura alla fondazione di una città in Brasile (Stato di Bahia), Jequié49, da parte di trecchinesi partiti proprio da Lisbona. Sempre nella capitale portoghese, a sigillo di un percorso continuato nel tempo, al cadere del secolo si sarebbe affermata la capacità imprenditoriale di un trecchinese illustre, Francesco D’Onofrio, proprietario di una oficina de caldeireiro, al numero 54 della centrale rua da Boavista. Ma questa è una storia che merita ulteriore approfondimento in altra sede50.

A conclusione di questo nostro excursus in una parte della storia forse poco cono-sciuta di una comunità operosa e accogliente come quella trecchinese, è utile ribadire come questa nostra sia – al momento – una ricostruzione assolutamente parziale di vicende che da un lato ci svelano la presenza (sconosciuta nelle sue esatte dimensioni) di nostri conterranei in terre insolite; e che dall’altro restituiscono alla non sempre puntuale memoria storica valnocina pezzi importanti di storia sociale, che meritereb-bero un approfondimento adeguato, magari corroborato dall’insostituibile supporto delle istituzioni, nella loro funzione di promozione e tutela della nostra identità.

49 Alla cittadina di Jequié e alla sua comunità di emigranti lucani è dedicato anche un romanzo, Casa Confiança. Storia della fondazione di Jequié, di Carlos e Carmine Marotta (Carmignano 2003).50 Sulla vita di Francesco D’Onofrio esiste un studio (inedito) del trecchinese Francesco Caricchio, che meriterebbe appropriata pubblicazione.

Calderaio ambulante umbro, inizio del secolo XX.