Il viaggio di Hermes. A proposito di “Felici e sfruttati” di Carlo Formenti (recensione a C....

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14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti http://www.damianopalano.com/2012/02/il-viaggio-di-hermes-proposito-di.html 1/30 di Damiano Palano maelstrom venerdì 10 febbraio 2012 Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti di Damiano Palano Nella storia della fantascienza si affiancano a lungo due grandi filoni, che, pur intrecciandosi, accostano il futuro da prospettive sostanzialmente differenti. Nel primo – il cui esempio paradigmatico rimane probabilmente la Guerra dei Mondi di H.G. Wells – lo scenario è offerto dal mondo contemporaneo, in cui un evento dirompente come un’invasione aliena sconvolge radicalmente tutto ciò che, fino a quel momento, è stato considerato normale e inattaccabile. Nel secondo filone, le cui prime anticipazioni possono essere rinvenute in alcuni viaggi di Jules Verne, la fantasia degli scrittori si proietta invece nel futuro per meravigliare, per immaginare un mondo trasformato da invenzioni strabilianti, per raccontare la conquista della Luna o di Marte, o persino per costruire la nuova epica dei pionieri dello spazio profondo, in lotta contro civiltà extraterrestri. È per molti versi in questa seconda tradizione che si collocano, fra gli anni Venti e Trenta del Novecento, le grandi ‘distopie’ del XX secolo, anche se, in questo caso, l’attenzione non è rivolta tanto – o soltanto – alla tecnologia e alle potenzialità delle nuove invenzioni scientifiche, quanto ai loro utilizzi politici, invariabilmente rappresentati in termini negativi. Senza eccezioni, le grandi ‘distopie’ novecentesche – dalla Macchina del tempo dello stesso Wells, a Il tallone di ferro di Jack London, ai classici Noi di Evgenij Zamjatin, Il Mondo nuovo di Aldous Huxley, 1984 Le ceneri del Cyberpunk Seleziona lingua Pow ered by Traduttore Translate Home page Libri Scritti recenti Contatti La democrazia senza qualità. Appunti sulle «promesse non mantenute» della teoria democratica Fino alla fine del mondo. Saggi sul 'politico' nella 'rivoluzione spaziale' contemporanea Volti della paura. Figure del disordine all'alba dell'era biopolitica La soglia biopolitica. Materiali su una discussione contemporanea La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica Partito Pagine "La democrazia senza partiti". Un volume nella collana "Le nuove bussole" di Vita e Pensiero. Dal 17 settembre in libreria! Damiano Palano La democrazia senza partiti Vita e Pensiero Collana "Le nuove bussole" (pp. 140, euro 12.00) ... L’ordine difficile in un mondo senza saggezza. "Ordine mondiale" di Henry Kissinger di Damiano Palano Nel 1954 l’allora ventisettenne Henry Kissinger discusse all’Università di Harvard la propria tesi di laurea, dal t... L’ambivalenza dello straniero. A proposito di un libro di Umberto Curi Per illustrare l’ipotesi sulla cruciale contrapposizione fra amico e nemico, Carl Schmitt, nel suo celebre Begriff des Politischen , ricorre... 11 settembre 2001, fu vera cesura? Che differenza fa un giorno. Su "Undicisettembre" di Luigi Bonanate Post più popolari 0 Altro Blog successivo» Crea blog Entra

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di Damiano Palano

maelstrom

venerdì 10 febbraio 2012

Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati"di Carlo Formenti

di Damiano Palano

Nella storia della fantascienza si affiancano a lungo due grandi

filoni, che, pur intrecciandosi, accostano il futuro da prospettive

sostanzialmente differenti. Nel primo – il cui esempio

paradigmatico rimane probabilmente la Guerra dei Mondi di H.G.

Wells – lo scenario è offerto dal mondo contemporaneo, in cui un

evento dirompente come un’invasione aliena sconvolge

radicalmente tutto ciò che, fino a quel momento, è stato

considerato normale e inattaccabile. Nel secondo filone, le cui

prime anticipazioni possono essere rinvenute in alcuni viaggi di

Jules Verne, la fantasia degli scrittori si proietta invece nel futuro

per meravigliare, per immaginare un mondo trasformato da

invenzioni strabilianti, per raccontare la conquista della Luna o di

Marte, o persino per costruire la nuova epica dei pionieri dello

spazio profondo, in lotta contro civiltà extraterrestri. È per molti

versi in questa seconda tradizione che si collocano, fra gli anni

Venti e Trenta del Novecento, le grandi ‘distopie’ del XX secolo,

anche se, in questo caso, l’attenzione non è rivolta tanto – o

soltanto – alla tecnologia e alle potenzialità delle nuove

invenzioni scientifiche, quanto ai loro utilizzi politici,

invariabilmente rappresentati in termini negativi. Senza eccezioni,

le grandi ‘distopie’ novecentesche – dalla Macchina del tempo

dello stesso Wells, a Il tallone di ferro di Jack London, ai classici

Noi di Evgenij Zamjatin, Il Mondo nuovo di Aldous Huxley, 1984

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di George Orwell, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury – ritraggono i

contorni di un regime dispotico, totalitario, capace di garantire il

dominio di un’esigua minoranza su un’enorme massa di

diseredati. Ad accomunare testi tanto diversi, è soprattutto l’idea

di una connessione quasi strutturale, originaria, fra il potere

assoluto del regime e il suo profilo tecnologico. In altre parole, in

tutte le grandi distopie dei primi decenni del Novecento, la

tecnologia costituisce uno strumento saldamente in mano al

potere, che lo utilizza per organizzare la vita dell’intera società,

per assicurare una disciplina ferrea e per impedire ogni più

piccolo tentativo di sovversione da parte di sudditi ridotti ad

automi privi di qualsiasi spirito critico. In questo senso, la fusione

di ‘potere’ e ‘tecnologia’ non solo è totale e senza alternative, ma

disegna anche un futuro cupo, in cui i margini di libertà sono

destinati a restringersi.

Questa componente

viene invece

notevolmente

ridimensionata dalla

grande stagione della

science-fiction

americana. Quando, a

partire dagli anni

Quaranta, la

fantascienza inizia a

diventare un genere

della letteratura popolare, e quando cominciano a essere

pubblicate le prime riviste specializzate, la dimensione ‘distopica’

viene infatti in gran parte accantonata, anche se non scompare

del tutto (e il libro di Bradbury è sufficiente a testimoniarlo). Come

il cinema di genere, anche la science-fiction è destinata a

proiettare il mito della frontiera verso lo spazio, o a riflettere il

clima ideologico-politico del momento, come avviene per esempio

in molti romanzi di Robert Heinlein. Ben presto, nella sua

stagione più fortunata, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, il

genere viene però a riflettere – con una straordinaria pluralità di

toni, di sensibilità e prospettive – le grandi inquietudini della

società opulenta. Proprio in questa stagione, il filone ‘distopico’

conosce una nuova fioritura, spesso fortemente influenzata dalla

vena ‘sociologica’ del periodo, e il futuro viene nuovamente

raffigurato come dominato da potenti oligarchie, che questa volta

non hanno il volto dei vecchi regimi totalitari, ma quello di grandi

corporation, capaci di controllare le masse anestetizzandole e

addomesticandole con un’abile propaganda consumista. Molto

probabilmente, l’apice di questo filone viene raggiunto con la

New Wave degli anni Sessanta, o da alcuni cupi romanzi di Philip

Dick, in cui la tecnologia – una tecnologia in grado persino di

rimodellare la natura umana – diventa la base su cui si reggono

terrificanti regimi plutocratici (ed è sufficiente pensare a celebri

romanzi come La penultima verità o I simulacri). Proprio a partire

da alcune pagine di Dick – e forse dalla trasposizione

cinematografica di Blade Runner – si iniziano però a intravedere

i segnali di quella modificazione, nella visione del rapporto fra

tecnologia e potere, che sarebbe stata sviluppata dal movimento

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cyberpunk al principio degli anni Ottanta. In un romanzo come

Neuromante di William Gisbon, non si trovano infatti i contorni di

una nuova utopia tecnologica, e non mancano neppure gli echi

dell’immaginario catastrofico degli anni Settanta, ma trapela la

convinzione che la tecnologia possa essere impugnata anche

come strumento di difesa, di resistenza, contro il dominio

pervasivo delle corporation. Come scrive Bruce Sterling,

presentando Mirrorshades, una raccolta di racconti di autori

come Gibson, Tom Maddox, Pat Cadigan, Greg Bear, l’etichetta

cyberpunk coglie «un elemento centrale nel lavoro di tutti questi

scrittori, un nuovo tipo di integrazione, la sovrapposizione di due

mondi che fino ad allora erano rimasti separati: il campo dell’high

tech, e il moderno underground della cultura pop» (B. Sterling,

Prefazione, in Mirroshades, Mondadori, Milano, 2003, p. 17; I ed.

1983). Il cyberpunk non è dunque soltanto un movimento

letterario, ma, piuttosto, rappresenta il riflesso di una

trasformazione più generale, evidente in tutti i campi, che altera

in profondità la divaricazione classica fra cultura e tecnologia.

«Tra le scienze e le attività umanistiche» - scrive ancora Sterling

- «c’è sempre stato un abisso: tra la cultura letteraria, il mondo

delle arti e della politica, da un lato, e la cultura scientifica, il

mondo dell’ingegneria e dell’industria dall’altro. Ma oggi questo

abisso tende a scomparire. La cultura tecnica è diventata

incontrollabile. I progressi delle scienze sono così radicali, così

sconvolgenti, così inquietanti, così rivoluzionari, che è diventato

impossibile contenerli entro limiti prefissati. Stanno influenzando

la cultura nel suo insieme, ci pervadono, sono dappertutto. E la

struttura del potere, le istituzioni tradizionali, hanno perso il

controllo sul ritmo di questo cambiamento. All’improvviso si è resa

riconoscibile una nuova alleanza, un’integrazione fra la

tecnologia e la controcultura degli anni Ottanta. Una non santa

alleanza fra il mondo della tecnica e quello del dissenso

organizzato, il mondo undergruound della cultura pop, della

fluidità visionaria e dell’anarchia da strada» (ibi, pp. 17-18). Nel

cyberpunk confluiscono certo le reminiscenze della mitologia dei

vecchi pionieri, impegnati questa volta nella conquista di praterie

immateriali, ma un sostrato forte a questo immaginario è fornito

dall’eredità delle ‘contro-culture’ degli anni Sessanta e Settanta,

e soprattutto da quella tensione libertaria che conduce alcuni

reduci di quelle esperienze a rivolgere la tecnologia proprio

contro le regole del ‘sistema’. In qualche misura, l’humus da cui

emerge il cyberpunk è lo stesso in cui germoglia l’estetica che

avrebbe fatto la fortuna di Steve Jobes. Perché, alla base di

questo immaginario, sta la convinzione – e forse l’illusione – che

la tecnologia non sia soltanto lo strumento nelle mani di un

potere totalitario capace di far muovere all’unisono milioni di

persone, come nelle vecchie distopie ‘fordiste’, ma anche –

potenzialmente – uno strumento di libertà, di emancipazione

individuale, di affrancamento dalla costrizione della fabbrica.

Saldandosi con le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie,

l’impeto delle vecchie contro-culture trova nuovi margini di

sviluppo. Come scrive Sterling, «la febbre della tecnologia è

sfuggita al controllo e dilaga per le strade» (ibi, p. 18), e il

cyberpunk restituisce fedelmente i tratti di questa rivoluzione.

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Anche in Italia l’immaginario

cyberpunk trova ben presto

cultori appassionati proprio

in alcuni eredi delle

esperienze contro-culturali,

che vedono nelle prime Bbs

un veicolo per una

comunicazione orizzontale e

per forme di informazione

capaci di squarciare la coltre

ideologica dell’«industria

culturale». Una rivista come

«Decoder» e la casa editrice

Shake divetnano

rapidamente le principali

portabandiera di un

movimento non soltanto

letterario ma anche politico, che, senza dubbio, interpreta alcune

delle inquietudini e delle utopie di una fase in cui l’informatica si

avvia a diventare un fenomeno di massa. In modo piuttosto

emblematico, il nuovo immaginario cyberpunk si trova fissato

nelle pagine di Nell’anno della Signora, un romanzo di Carlo

Formenti ambientato, per gran parte, nella Milano della fine del

XXVIII secolo dopo Cristo (Nell’anno della Signora, Shake,

Milano, 1998). Per molti versi, in quel romanzo Formenti, in

sostanziale coerenza con lo spirito del cyberpunk, rovescia il

nesso fra tecnologia e potere che alimentava le grandi distopie

degli anni Venti e Trenta, perché il regime dispotico che

immagina si basava sulla distruzione della tecnologia e sulla

repressione di qualsiasi tentativo di ripristinare le conoscenze e i

manufatti del passato. Formenti cala dunque la propria storia in

un nuovo Medioevo, innescato nel 2025 da una catastrofica

epidemia, cui segue l’edificazione di una società oscurantista.

Nella trama allestita da Formenti, infatti, una setta di fedeli adora

il corpo di una donna ibernata, che però, una volta risvegliata da

un gruppo di ribelli, consegna proprio a questi ultimi la chiave di

accesso ai segreti della tecnica del XXI secolo. In realtà, quasi

nessuno di quei misteri può essere compreso dai ribelli del 2800,

ma le «armi degli antichi» - in piena fedeltà all’impostazione

cyberpunk – servono comunque per sferrare un attacco letale

alle truppe del regime ‘tecnofobo’.

Uscito dopo una raccolta di racconti (Nove angeli neri, Il

Saggiatore, Milano, 1996), Nell’anno della signora è il primo

romanzo di Formenti, un appassionato studioso delle mutazioni

culturali e sociali connesse alla rivoluzione informatica. Se

l’incursione nel terreno della science fiction è destinata a

rimanere una parentesi, l’indagine sulle trasformazioni prosegue

invece senza battute d’arresto, e nel primo decennio del XXI

secolo Formenti pubblica infatti un’importante trilogia, inaugurata

da Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca

di Internet (Cortina, Milano, 2000), seguita da Mercanti di futuro.

Utopia e crisi della Net Economy (Einaudi, Torino, 2002) e

conclusa da Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi

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14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti

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media (Cortina, Milano, 2008).

Benché testimonino la continuità

degli interessi di Formenti, le tre

tappe di quella trilogia

scandiscono anche il percorso di

una progressiva disillusione, in cui

delle utopie cyberpunk rimane solo

lo sguardo critico verso la società

contemporanea. Ora a quella

trilogia fa seguito un nuovo

volume, Felici e sfruttati.

Capitalismo digitale ed eclissi del

lavoro (Egea, Milano, 2011), che

per molti versi può essere

considerato anche come un bilancio – per quanto provvisorio – di

un’attività di ricerca cominciata più di trent’anni fa. Si tratta,

evidentemente, di un bilancio in larga parte anche autocritico, e

soprattutto di un bilancio da cui traspare un dichiarato

pessimismo sulla realtà della rivoluzione digitale e sulle sue

ricadute sulla vita individuale e sulle condizioni sociali. Il libro di

Formenti è, d’altronde, anche un libro fortemente polemico,

contrassegnato – come scrive l’autore stesso – da «uno stile

sarcastico, diretto, assertivo più che argomentativo, al limite del

pamphlet, tipico della polemica ideologica» (ibi, p. IX). D’altra

parte, Formenti rivendica la stessa dimensione ‘ideologica’ del

suo lavoro, anche se non intende certo l’ideologia nei termini di

una rappresentazione mistificata del reale. «Questo è un libro

esplicitamente e orgogliosamente ideologico, nel senso che è un

libro che osserva la realtà dal punto di vista della guerra fra idee,

del conflitto – altro termine tabù – fra parole, concetti e categorie

che, da un lato, rispecchiano gli interessi materiali di certi attori

sociali – una volta si chiamava ‘lotta di classe’ -, dall’altro, sono

gli strumenti della battaglia per l’egemonia culturale che si svolge

fra tali attori» (ibi, p. IX). Ma è lo stesso Formenti che chiarisce

come il nuovo capitolo della sua indagine sulla rete non si limiti

ad aggiornare la riflessione su un mondo d’altronde in costante

mutamento. Il libro – scrive infatti - «segna un’ulteriore evoluzione

in senso pessimistico del giudizio sul potenziale ‘rivoluzionario’

della rete» (ibi, p. XI), e proprio una simile evoluzione conduce

l’autore ad abbandonare molte delle speranze riposte in passato

nel possibile utilizzo in senso democratico (o ‘postdemocratico’)

delle nuove tecnologie. Non si tratta, però, di un vero e proprio

pentimento, seguito alla guarigione da una sorta di sfrenata

passione per le utopie cyberpunk. Piuttosto, Formenti ritiene che

le potenzialità per una storia differente ci fossero effettivamente,

ma che la direzione imboccata a partire dagli anni Novanta sia

stata completamente diversa da quella auspicata da almeno una

parte degli attori che hanno dato vita all’avventura della

rivoluzione digitale. Da questo punto di vista, anzi, Formenti

ritiene del tutto «sbagliato dare per scontato che quanto è

successo nell’ultimo decennio sia l’esito necessario, inevitabile

della prima fase della storia dell’economia e della cultura di

Internet», perché «la necessità storica è spesso il frutto di

costruzioni a posteriori» e perché non è davvero detto che «le

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cose non sarebbero potute andare diversamente» (ibi, p. XI).

Dinanzi al nuovo scenario delineatosi nel primo decennio del

nuovo millennio, di fronte alle conseguenze della crisi economica

globale, attardarsi ancora a rinfocolare o rimpiangere i vecchi miti

sarebbe però del tutto colpevole, prima che ancora ingenuo. E

pertanto, come scrive, volgendosi polemicamente contro una

lunga lista di bersagli: «non rinnego le speranze rivoluzionarie

nutrite in passato, mentre a chi ancora le accarezza rimprovero di

chiudere gli occhi di fronte all’ineludibile realtà dei fatti» (ibidem).

Cronologia di un’autocritica

Sebbene Formenti

tenda a sottolineare

energicamente gli

elementi della propria

auto-critica, chiunque

conosca le sue indagini

sulle trasformazioni

tecnologiche deve in

fondo riconoscere come

i contenuti della

‘revisione’ non siano poi

tanto marcati da

autorizzare l’idea di una

vera e propria

inversione teorica. A dispetto dei tre decenni trascorsi dai primi

lavori di Formenti, è infatti possibile rinvenire nel suo percorso

non solo un interesse costante per il nesso fra trasformazioni

tecnologiche, conflitti sociali e immaginari collettivi, ma anche la

continuità di una serie di problematiche di fondo che orientano la

ricerca, cui vengono fornite risposte almeno parzialmente diverse

nelle varie stagioni.

La tappa di avvio della riflessione di Formenti è costituita da un

confronto critico – seppure non ostile – con la tradizione teorica

dell’operaismo, e in particolare con quel filone ‘post-operaista’

che, a partire dalla metà degli anni Settanta, inizia a considerare

la crisi economica e la ristrutturazione delle grandi fabbriche

come il segnale di un radicale cambio di stagione, destinato a

sancire il passaggio del testimone da un vecchio a un nuovo

soggetto conflittuale: secondo la variante più schematica (ma più

popolare) di questa ipotesi, il vecchio ‘operaio massa’, prodotto

del ciclo fordista, avrebbe lasciato il posto a un nuovo ‘soggetto

centrale’, un ‘operaio sociale’, scaturito invece dalla crescente

‘socializzazione’ della produzione, ossia dall’estensione dei

reticoli produttivi al di fuori dei tradizionali luoghi di lavoro.

Naturalmente, quell’ipotesi conobbe, pur nel corso di un periodo

di tempo limitato, una serie di declinazioni piuttosto ampie, e l’eco

di quello schema teorico può essere forse rinvenuto oggi nelle

pagine di opere come Empire, Multitude e Commonwealth, oltre

che nel successo planetario delle ipotesi di Michael Hardt e

Antonio Negri. Negli anni Settanta, quell’ipotesi presuppone però

un corollario importante, che talvolta si presta anche a essere

14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti

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dilatato in termini spiccatamente ‘deterministici’. In sostanza,

secondo un’idea elaborata da Sergio Bologna a proposito del

passaggio dall’‘operaio professionale’ all’‘operaio massa’, nella

Germania dei primi decenni del Novecento, si tendeva a

distinguere fra una ‘composizione tecnica’ della forza lavoro e

una ‘composizione politica’ della classe operaia, ma questa

distinzione non si riteneva fosse valida solo dal punto di vista

analitico: in una sorta di rinnovata teoria ‘stadiologica’, la

‘composizione politica’ si prestava a essere letta come una

conseguenza – più o meno determinata, seppur non ‘automatica’

– di uno specifico assetto della ‘composizione tecnica’.

Naturalmente, neppure Bologna – che pure aveva contribuito sia

a formulare la distinzione, sia a coniare l’efficace formula ‘operaio

massa’ – sposò mai una simile visione ‘stadiologica’, e d’altronde

si può dire che il lavoro condotto negli anni Settanta dalla rivista

«Primo maggio» fosse diretto proprio a un ripensamento critico di

quel determinismo, oltre che a una ‘relativizzazione’ della stessa

centralità dell’‘operaio massa’. Nelle riflessioni più schematiche,

venate spesso da una visibile ‘ansia politica’ di giungere alla

sintesi di una realtà magmatica e frammentata, il passaggio dalla

composizione tecnica a quella politica veniva inteso invece come

una sorta di percorso obbligato: così, come la grande fabbrica

fordista, negli Stati Uniti, in Germania, in Italia, aveva prodotto

l’‘operaio massa’, così la terziarizzazione, la ristrutturazione e la

fabbrica diffusa avrebbero innescato la genesi del nuovo

‘soggetto centrale’, capace di generalizzare i conflitti, più ancora

di quanto non avessero fatto gli ‘operai produttivi’ di Mirafiori.

Per Formenti, alla fine degli anni

Settanta, questa ipotesi non

costituisce solo un bersaglio

politico-teorico da colpire, ma è

piuttosto un’ipotesi da discutere e

criticare con estrema attenzione,

considerando la realtà della

trasformazione economico-sociale

in atto. In un fascicolo della rivista

«aut aut» dedicato nel 1979 al

celebre Lavoro e capitale

monopolistico di Harry

Braverman, Formenti esamina per

esempio la classica dicotomia

marxiana di ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’ per

mostrare come le trasformazioni del tardo-capitalismo la rendano

sempre più inutilizzabile, sia sotto il profilo analitico, sia sotto il

profilo politico. Mentre Marx considerava le funzioni produttive e

quelle improduttive come momenti di cicli distinti, le trasformazioni

successive – argomenta Formenti – hanno in realtà determinato

un «intreccio inestricabile delle funzioni, sia al livello dei vari

settori che della singola impresa» (C. Formenti, Modo di

produzione e struttura di classe, in «aut aut», n. 172, 1979, p.

57). Pertanto, dinanzi alla realtà di una «forza lavoro socialmente

combinata», ha poco senso continuare a chiedersi dove finisca il

lavoro strettamente ‘produttivo’ e dove incominci quello

‘improduttivo’. E, anzi, come osserva, è possibile riconoscere in

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molti dei nuovi lavori un riflesso dell’estensione del processo di

valorizzazione fin dentro l’area della circolazione: «È possibile

dimostrare che i processi lavorativi che sono nati dalla

oggettivazione di nuove funzioni del capitale, come il marketing,

la pubblicità, la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, la

produzione di modelli gestionali per l’impresa e più in generale

di tutto il software e la modellistica utilizzati dagli staff della

moderna impresa multi divisionale, sono in una stretta relazione

di isomorfismo con le attività cui si riferisce Marx parlando di

prolungamento del processo di valorizzazione nel processo di

circolazione del capitale» (ibi, p. 59). Benché il riferimento a

Marx possa infastidire qualche lettore contemporaneo, e possa

oggi essere considerato come un retaggio della furia ideologica

degli anni Settanta, è difficile negare come a Formenti – anche

poggiando sulle pagine dei Grundrisse – siano già chiare in

questa fase le tendenze in atto, prima ancora che inizi la stagione

aurea del Personal Computer, e tantomeno che prenda avvio la

rivoluzione di Internet. Ma – rilette trentatré anni dopo – non può

non apparire addirittura sorprendente la lucidità con cui Formenti

coglie le conseguenze innescate dall’introduzione dell’informatica

nel processo produttivo e, in particolare, nella pubblica

amministrazione, con la finalità di un avvicinamento fra i bisogni

dei cittadini e il livello di governo. «Per mettere in opera questa

contabilità dei bisogni sociali», scrive infatti Formenti, «si

propone anche qui il modello partecipativo dell’informatica

distribuita: uno scambio di informazioni fra sistemi informativi

decentrati ed una utenza ‘intelligente’ ed attiva, che contratta con

l’amministrazione i propri bisogni e gli indicatori di produttività dei

servizi che dovrebbero soddisfarli. Ma cos’è tutto questo se non

una nuova forma di scambio fra capitale e lavoro; offrendo

informazione, il potere offre in realtà codici di comportamento che

si affiancano alle merci salario e ai servizi sociali come mezzi di

definizione e di misura dei bisogni sociali; chiedendo

informazione, il potere si appropria del sapere sociale diffuso sul

territorio così come si appropria della forza produttiva del lavoro

sociale in fabbrica. Il fatto che oggetto dell’appropriazione sia qui

il sapere sociale contenuto nel lavoro riproduttivo, segna un salto

qualitativo di portata immensa del modo di produzione

capitalistico; l’estensione del controllo informatizzato dalla

fabbrica a tutto il corpo sociale, coincide col tentativo capitalistico

di organizzare direttamente l’intera giornata lavorativa sociale in

funzione del processo di valorizzazione» (ibi, pp. 66-67). A

dispetto di un lessico che, almeno in questi termini, appare

lontano da quello dei libri più recenti di Formenti, c’è già qui – ed

è quasi sbalorditivo – un’ipotesi di lettura che torna anche oggi, e

che d’altronde si presta con particolare efficacia a interpretare

persino fenomeni recentissimi come l’utilizzo per fini commerciali

dei social network, il ‘lavoro gratuito’ di blogger e navigatori della

rete, o la stessa ‘appropriazione’ del sapere prodotto dalla

sperimentazione dei software.

Benché l’analisi di Formenti non risulti divergente, almeno sotto

questo profilo, rispetto all’analisi del post-operaismo (e, per

esempio, rispetto alle ipotesi sviluppate da Christian Marazzi), dal

punto di vista delle conseguenze ‘politiche’ il discorso imbocca

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invece una direzione diversa. Nella Fine del valore d’uso, infatti,

Formenti mette in luce l’ambiguità dell’operazione compiuta dal

post-operaismo (e in particolare da un’opera come Marx oltre

Marx, dello stesso Negri), che, per un verso, critica la vecchia

distinzione fra ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’, mentre,

dall’altro, recupera proprio la centralità politica di un lavoro

produttivo i cui confini vengono dilatati fino all’intero spettro

sociale, senza prendere atto della dissoluzione del concetto

stesso di ‘lavoro produttivo’: «è qui che scatta l’ipostasi del

soggetto rivoluzionario, è qui, soprattutto, che Negri – con lui

tutta l’ideologia tardo-operaista – non riesce ad andare

veramente ‘oltre Marx’, e a Marx ritorna, assumendo ancora e

nuovamente il processo di costituzione del soggetto rivoluzionario

come prodotto della missione civilizzatrice del capitale, del più

elevato livello di sviluppo delle forze produttive» (C. Formenti, La

fine del valore. Riproduzione, informazione, controllo, Feltrinelli,

Milano, 1980, p. 56). E la conseguenza, in termini politici, non

può che essere una reintroduzione, in forma solo parzialmente

mutata, della subordinazione dei diversi momenti soggettivi a una

funzione di avanguardia determinata dal carattere ‘produttivo’ del

lavoro, perché, «se ‘oltre Marx’ si cerca e si trova solo Marx,

dev’essere liquidata ogni apertura ai discorsi che si occupano

della pluralità concreta dei soggetti antagonistici» (ibidem). In

altre parole, sebbene Formenti concordi con la lettura post-

operaista della ‘sussunzione’ della circolazione dentro un circuito

produttivo sempre più esteso a livello sociale, ritiene che una

risposta politica non possa che prendere commiato

definitivamente da ogni ipotesi di ‘nuova’ centralità, su cui

innestare un ruolo di direzione della trasformazione. All’opposto,

si tratta – ai suoi occhi – di riconoscere l’irriducibile parzialità

delle posizioni soggettive, e dunque della pluralità dei punti di

emergenza delle parzialità.

Forse, nel passaggio fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, le

implicazioni di questa operazione teorica non sono ancora

interamente chiare a Formenti, o, quantomeno, non assumono

ancora il rilievo che presentano due testi successivi, come

Immagini del vuoto e, soprattutto, Prometeo e Hermes, in cui si

rivela interamente l’opzione di un definitivo abbandono di ogni

prospettiva escatologica. Nel clima plumbeo degli anni Ottanta,

Formenti, metabolizzando il ripiegamento del dibattito

intellettuale, ma anche registrando i nuovi accenti del movimento

ecologista, non rinuncia a ragionare sulle trasformazioni del

capitalismo. In questo caso, però, la riflessione si sposta

decisamente sulla critica indirizzata a ogni fascinazione del

conflitto, e dunque sul tentativo di pensare l’affermazione del

conflitto in termini che rifiutino ogni opzione di contrapposizione:

«bisogna sfuggire alla fascinazione dell’antagonismo» - scrive

per esempio, anticipando peraltro un tema simile a quello che, di

lì a poco, Paolo Virno avrebbe sviluppato ricorrendo all’immagine

classica dell’‘esodo’ – «impedire che i recinti del partito e

dell’esercito racchiudano le dinamiche del movimento,

spingendole inesorabilmente verso lo stato finale dell’istituzione

sacrificale» (C. Formenti, Prometeo e Hermes, Liguori, Napoli, p.

133). Il riferimento esplicito è – ovviamente – al tragico epilogo

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italiano degli anni Settanta, perché, nonostante Formenti

riconosca il valore delle intuizioni di quel periodo (e, in

particolare, le intuizioni proprio del post-operaismo), non ne

nasconde tutti i limiti sul piano dell’immaginazione. «Serviva

un’enorme immaginazione sociale per continuare a leggere la

trama di queste traiettorie sotto la superficie della comunicazione

omologata, per riconoscere l’autonomia dei soggetti e la loro

capacità di parassitare i processi di mercificazione,

smaterializzazione e informatizzazione messi in atto dalla

ristrutturazione capitalistica. Servivano una grande

immaginazione e una grande umiltà politiche per rispondere alla

domanda che veniva dai nuovi soggetti: tradurre l’autonomia

sociale in forme conflittuali alternative all’opposizione amico-

nemico, conservare ed ampliare la nuova complessità del

conflitto sociale, evitandone la neutralizzazione da parte dei

meccanismi di guerra» (ibi, p. 140). La realtà era però andata in

una direzione diversa, la logica della dialettica, dell’antagonismo,

della contrapposizione bipolare, aveva avuto la meglio,

dissipando un patrimonio di intuizioni e lasciando senza risposta

la domanda sulla forma in cui pensare la politica dei nuovi

movimenti. La figura di Hermes, contrapposta a quella di

Prometeo, disarmata dinanzi a un progresso tecnico fondato sulla

macchina e (ancor più) sul codice, diviene così il simbolo di «un

sapere furtivo e astuto, pronto ad arraffare le occasioni di un

mondo in cui crescono disordine e casualità»: «Sapere di un

soggetto che non pretende più di conoscere né di dominare la

realtà, che non si definisce in opposizione a un’oggettualità

inanimata e inerte. Identità che si pone come scarto, piccola

differenza che abita le pieghe di una complessità indeterminata;

sapere del locale, dell’aleatorio, del discontinuo, sempre in bilico

sull’abisso del senza-senso, ma proprio per questo capace di

generare nuovi universi di senso, di convertire il disordine in

ordine, l’improbabile in probabile, sfruttando piccole crepe

nell’uniformità del vuoto» (ibi, p. 159).

Prometeo e Hermes e Immagini del

vuoto rappresentano per molti versi

una tappa intermedia nel percorso di

Formenti, perché, per un verso, si

richiamano (anche criticamente) alla

precedente riflessione sul ruolo delle

tecnologie e dell’informatica nella

trasformazione capitalistica, mentre,

per un altro, tendono a imboccare

una nuova direzione, proiettandosi

prevalentemente verso l’immaginario

e le forme culturali della transizione in

atto. Nel successivo Piccole apocalissi. Tracce della divinità

nell’ateismo contemporaneo (Cortina, Milano, 1991), la polemica

contro il post-operaismo si diluisce in un discorso più complesso,

il cui oggetto principale è invece l’immaginario delle tecno-

scienze. In dissenso con le componenti del movimento ecologista

più critiche nei confronti delle nuove tecnologie, Formenti

esamina piuttosto, in parallelo, il pensiero ecologista e

l’immaginario delle tecno-scienze, per portarne alla luce gli

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elementi comuni. Ancora una volta, Formenti ritorna a Hermes, e

– con una scelta che assegna alla metafora il potere

dell’evocazione, se non quello dell’esplicitazione – proprio nella

figura del messaggero mitologico scorge il terreno per una

congiunzione fra i nuovi movimenti e le potenzialità della tecnica:

«L’angelo eterno ed ubiquo è un essere invisibile, minuscolo,

privo di ogni potere di influire sul libero gioco della materia e del

caso. Eppure la sua potenza è smisurata, perché egli è colui che

custodisce il passato e che coltiva il futuro, è colui che anticipa le

miracolose epifanie del virtuale, che sa, un attimo prima che ciò

si realizzi, che una possibilità sta per trasformarsi in atto. Un

tempo l’angelo aveva un nome: i greci lo chiamavano Hermes.

Oggi noi non sappiamo più come chiamarlo. Ma forse è meglio

così: colui che è senza nome e senza volto può assumere tutti i

volti e tutti i nomi della divinità. È questo è l’aspetto più adeguato

per un angelo che debba convivere con la modernità. L’angelo

ha indossato la maschera del viaggiatore, di un’entità vaga e

inafferrabile, che quasi scompare per risolversi nel suo eterno

movimento. Così travestito, ambiguo e proteiforme, egli

attraversa il nostro tempo continuando a osservare e ad

aspettare. L’angelo aspetta che si realizzi il miracolo più grande:

aspetta che gli uomini – o le forme di vita che prenderanno il loro

posto – riescano nuovamente ad avvertire il soffio impalpabile

della sua presenza, e che tornino a trovare nomi e immagini per

la divinità che non cessa di chiamarli da un futuro imprecisato»

(ibi, pp. 192-193).

L’interesse per l’immaginario tecno-scientifico, per le forme di

religiosità e lo gnosticismo, accompagna Formenti anche nelle

sue esplorazioni nel territorio della science fiction, ma, per molti

versi, viene sensibilmente ridimensionato nella successiva

stagione di ricerca, che si apre proprio sulla soglia del XXI secolo

e che risulta concentrata – in modo più esplicito che in passato –

proprio sugli immaginari delle nuove tecnologie. Con Incantati

dalla rete, il primo tassello della sua importante trilogia, Formenti

si confronta infatti proprio con gli immaginari della rete: sia con gli

entusiasmi che celebrano Internet come il territorio in cui è

possibile trovare un nuovo continente di libertà e uguaglianza, sia

con le visioni che invece demonizzano la rivoluzione tecnologica

come un semplice strumento di estensione del dominio. In questa

nuova prospettiva, l’ipotesi di alleanza formulata in Piccole

apocalissi risulta un’approssimazione ancora insufficiente, ma

Formenti non la abbandona totalmente. Perché, in effetti, ritiene

che effettivamente Internet abbia addirittura dilatato «il potenziale

escatologico (e di riflesso il ruolo apocalittico) che le nuove

tecnologie svolgono nell’immaginario collettivo della tarda

modernità» (C. Formenti, Incantati dalla rete. Immaginari, utopie

e conflitti nell’epoca di Internet, Cortina, Milano, 2000, p. 14).

L’ambiguità che Formenti ritrova nell’immaginario della

rivoluzione digitale ha anche un risvolto politico, nel senso che

l’ambiguità costitutiva delle tecno-scienze, così come l’ambiguità

delle potenzialità offerte dalla new economy, sembra indicare il

terreno per una sorta di alleanza, o quantomeno di un utilizzo

delle nuove tecnologie da parte dei soggetti che ne sono investiti

direttamente. Per esempio, i lavoratori della conoscenza, come

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scrive Formenti, «possono associare nuovi modelli produttivi

fondati sulla comunicazione al rischio di subire processi di

‘proletarizzazione’ e, al tempo stesso, a un’effettiva chance di

allargamento dei propri margini di creatività e autonomia», mentre

«la transizione al postfordismo […] è interpretabile tanto in termini

di ristrutturazione selvaggia quanto in termini di ‘liberismo’ dal

basso, di lotta per emancipare il lavoro dalla disciplina di

fabbrica» (ibi, p. 15). L’ambiguità appare allora a Formenti non

come un ostacolo da superare, bensì come una condizione in cui

si determinano una serie di possibilità contraddittorie.

Sviluppando in modo coerente il percorso imboccato negli anni

Settanta, riconosce dunque le nuove tecnologie come il terreno

in cui maturano – o possono maturare – relazioni conflittuali, ma

rifiuta sia uno schema interpretativo pessimista, sia uno schema

determinista. In altre parole, come gli scrittori cyberpunk,

individua nella trasformazione della vita e dell’immaginario

prodotta da Internet potenzialità ambivalenti, oltre che persino

l’ipotesi di una sorta di riappropriazione della tecnologia ‘dal

basso’. E, su queste basi, formula la tesi con cui forse si avvicina

di più al versante degli ‘ottimisti’, che diventeranno poi un

bersaglio polemico dei successivi lavori di Formenti. A proposito

della ‘sussunzione’ di ogni differenza nel processo produttivo,

scrive per esempio: «ciò significa che anche le differenze entrano

in rete con tutto il loro potenziale idiosincrasico. Nessun

significato, nemmeno quello del comando capitalistico, appare

perciò garantito a priori. Non esiste la rete, ma esistono le reti, e

se il discorso sulla complessità può servire da paravento

ideologico della new economy, la complessità reale appare

irriducibile a ogni proiezione ideologica. Una volta messa in moto,

la macchina del desiderio diviene assai difficile da governare. E

non solo da parte del capitale: i ‘movimenti’ del futuro

ignoreranno le chiacchiere sul nuovo soggetto; se mai troveranno

un’‘ideologia’ comune, questa non sarà troppo diversa da una

qualche forma di sincretismo antagonista; e se mai si doteranno

di strutture organizzate, queste non saranno troppo diverse da

federazioni di differenze da costruire di volta in volta, su obiettivi

contingenti» (ibi, pp. 16-17).

Sebbene in questo libro Formenti

sembri accostarsi alle posizioni degli

‘entusiasti’ della rete, la sua posizione

in realtà non si spinge mai verso

un’ingenua celebrazione delle nuove

tecnologie. Ma, senza dubbio, la sua

lettura cyberpunk delle potenzialità

della rete tende ad alimentare sia la

critica delle visioni neo-marxiste della

trasformazione capitalistica, sia

l’abbandono di qualsiasi immagine del

conflitto vagamente imparentata con

la mitologia novecentesca. Sotto

questo profilo, in fondo, la posizione

non cambia rispetto a Prometeo e Hermes, ma in Incantati dalla

rete il discorso si volge esplicitamente contro le letture del

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‘postfordismo’ influenzate dal neo-marxismo (più che strettamente

neo-marxiste). Sebbene, per esempio, Formenti rintracci elementi

importanti nella lettura proposta da un vecchio patriarca dell’eco-

socialismo come André Gorz, o nella riflessione sulla ‘svolta

linguistica’ dell’economia condotta da Marazzi, o nelle ricerche

sul ‘lavoro autonomo di seconda generazione’ condotte da Sergio

Bologna e Andrea Fumagalli, non nasconde una serie di forti

riserve, teoriche ma ovviamente anche politiche. Queste riserve –

evidenti soprattutto a proposito di alcuni degli autori citati – sono

dettate principalmente dall’ombra di un ‘nuovo soggetto’, cui

viene imputata la capacità di svolgere una funzione di

‘avanguardia’ politica, in base alla propria collocazione nel

‘centro’ della nuova economia. Ma questo discorso a Formenti

non può che apparire debole, prima ancora politicamente che

sotto il profilo teorico. Sviluppando quelle medesime ipotesi già al

centro delle riflessioni della fine degli anni Settanta, Formenti non

può non tornare a sottolineare come, dinanzi alla crescente

fusione di ‘lavoro’ e ‘vita’, la distinzione fra lavoro produttivo e

lavoro improduttivo sia del tutto inservibile. Al tempo stesso, a

differenza dei neo-marxisti, Formenti evidenzia anche come la

trasformazione economica e l’invasione della vita da parte del

lavoro non siano interpretabili nei termini marxiani della

‘sussunzione reale’ (ossia, come la fase in cui il capitale,

secondo Marx, si impossessa interamente della tecnica e della

scienza per rivoluzionare completamente il processo lavorativo),

ma possano piuttosto essere intese come riflessi di una sorta di

‘sussunzione formale’ (in cui il capitale si appropria delle forme

tradizionali di lavoro, senza però operare una completa

riorganizzazione delle funzioni e dei compiti). Questo punto non è

ovviamente secondario, perché è proprio in questo scarto fra

sussunzione reale e formale che Formenti può collocare il

margine di ambiguità della new economy. Come scrive infatti in

un passaggio teoricamente importante: «Ma perché parlare di

sussunzione reale? Non ci troviamo piuttosto di fronte a un

processo di sussunzione formale, nel senso che la logica del

mercato capitalistico ‘si sovrappone’ alla prassi comunicativa

sociale lasciandole una certa autonomia? Evidente che, in un

certo senso, i due processi convivono. Il punto di vista

neomarxista tende tuttavia ad accentuare l’elemento di

sussunzione reale, in quanto ciò consente di evidenziare

l’aspetto conflittuale del processo» (ibi, p. 243). L’idea della

‘sussunzione reale’, in sostanza, appare rischiosa a Formenti per

almeno due motivi: innanzitutto, perché tende a rappresentare la

trasformazione capitalistica come un processo che è riuscito

effettivamente a ‘inghiottire’ l’intero mondo esterno, i territori, le

dimensioni private della vita individuale, persino il corpo, e il

risultato inevitabile è che, in questo modo, diventa molto difficile

pensare a un fuori che si contrapponga conflittualmente a questo

ordine ‘totalitario’. Così, i neo-marxisti, pur dipingendo uno

scenario negativo, finiscono di fatto col recepire – pur con segno

mutato – le rappresentazioni più celebrative della new economy.

Ma il secondo risultato è ancora più negativo: dal momento che il

fuori non esiste più, l’unico modo per pensare il conflitto torna ad

essere quello del ‘nuovo soggetto’: un soggetto che può

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diventare un’avanguardia – sociale, politica – grazie alla propria

collocazione nel ‘centro’ della produzione immateriale. A tornare

sulla scena, in sostanza, è di nuovo la figura novecentesca di

Prometeo, che scaccia quella di Hermes, dipinto ancora una

volta con i toni ambigui della ‘conservazione’, della ‘nostalgia’,

della ‘reazione’. E indicative di questa prospettiva sono le stesse

letture che vengono fornite della rivolta di Seattle del dicembre

1999. Se la contestazione del vertice del Wto è il risultato di una

sorta di postmoderna ‘armata Brancaleone' (composta da

ecologisti e sindacati operai, da agricoltori e adepti della New

Age, da nuovi anarchici e vecchi hippy), le interpretazioni neo-

marxiste – secondo la critica di Formenti – tendono a ricondurre

la rivolta (o quantomeno le sue potenzialità) esclusivamente alla

contrapposizione tra capitale e lavoro, e in particolare alla nuova

‘composizione di classe’, emersa dalla trasformazione

postfordista. «La qualifica di avanguardie, o nuovo soggetto» -

scriveva – «spetta insomma esclusivamente al cognitariato –

neologismo che nobilita con echi marxiani il concetto di lavoratori

della conoscenza –, vale a dire la ‘classe virtuale’: tecnici,

scienziati, intellettuali, informatici, ricercatori, ecc. Una volta

assunto tale punto di vista, non ha più molta importanza stabilire

se questa avanguardia costituisse una percentuale significativa

di coloro che hanno partecipato all’evento reale. Ciò che conta,

infatti, è la ricomposizione cognitiva prima ancora che la

ricomposizione sociale del lavoro (che, per definizione, è ormai

solo lavoro immateriale)» (ibi, p. 265). E, proprio nelle ultime

pagine, ripropone, dinanzi alle nuove formulazioni, la convinzione

già al cuore della Fine del valore d’uso, ma ne estende

ulteriormente la portata, perché in questo caso a essere

attaccata frontalmente da Formenti è la stessa nozione di

composizione di classe, considerata come ormai del tutto inutile

per leggere davvero dentro il ‘segreto laboratorio della

produzione’: «se negli anni ’70 si è cercato di trascinare Marx

oltre Marx, oggi sembra più arduo trascinare Marx oltre Ford. Non

perché le categorie marxiane non siano più in grado di descrivere

le dinamiche del tardo capitalismo – come si è visto, funzionano

egregiamente, coi dovuti aggiustamenti -, ma perché il livello di

unificazione del ‘soggetto di classe’ raggiunto nel corso del ciclo

di lotte contro il fordismo è un fenomeno irripetibile. Nel mondo

che viene, il concetto di ‘composizione di classe’ difficilmente

potrà assumere senso diverso da quello d’una metafora che

rinvia alla memoria storica dei movimenti» (ibi, p. 273).

In fondo, la polemica di Formenti contro le ipotesi sul ‘lavoro

immateriale’ costituisce il coerente sviluppo della critica della

nozione di ‘operaio sociale’ formulata vent’anni prima, mentre

l’attacco all’immagine del cognitariato come nuova ‘classe

virtuale’, perno della ricomposizione cognitiva, rappresenta la

logica prosecuzione della celebrazione di Hermes contro

Prometeo, ossia del tentativo di pensare il conflitto «oltre

l’antagonismo». A dispetto di questi elementi, che legano

saldamente le diverse tappe del percorso di Formenti, c’è però

un tratto nuovo in Incantati dalla rete: un tratto che,

probabilmente, deriva dalla convinzione di poter trasformare le

suggestioni cyberpunk nel brogliaccio di una sorta di ‘programma

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politico’ per il nuovo millennio. Ed è significativo, da questo punto

di vista, che Formenti, per formulare i primi frammenti di

un’ipotesi, ricorra alle pagine di un eclettico e indefinibile scrittore

anarchico, celato sotto lo pseudonimo di Hakim Bey e noto in

Italia per il suo provocatorio opuscolo Taz, pubblicato in Italia

proprio dall’editrice Shake. Perché, secondo Formenti, il modo di

rappresentare il conflitto deve passare non ‘dentro’ il mondo della

produzione e della circolazione di merci, bensì ‘oltre’ quel mondo,

e cioè da «ciò che resta fuori»; e, soprattutto, perché non si tratta

di ‘prendere qualcosa’, ma solo di «difendere ‘la vita e

l’immaginazione’ rimasti qui, nel mondo reale» (ibi, p. 267).

Benché non scivoli certo nell’enfasi apocalittica, di cui gli ‘anni

ruggenti’ della globalizzazione alimentano una copiosa rinascita,

Formenti riconosce così il profilo di un possibile «sincretismo

antagonista», all’interno del quale possano trovare un terreno

comune le pluralità di contrapposizioni all’unità globale. Un

sincretismo che viene fissato nella metafora della «moltitudine»,

ma non della moltitudine di cui avrebbero scritto Hardt e Negri, e

neppure della moltitudine di Virno, bensì in quell’aggregato

informe, magmatico, proteiforme che Aldo Bonomi riconosce nelle

nuove figure del lavoro degli anni Novanta (cfr. per esempio A.

Bonomi, Il trionfo della moltitudine. Forme e conflitti della

società che viene, Bollati Boringhieri, Torino, 1996). E,

soprattutto, un sincretismo che risulta dalla combinazione delle

«strategie di resistenza del corpo, delle comunità locali e del

territorio alla sussunzione da parte delle reti globali» (ibi, p. 280).

Solo due anni dopo la pubblicazione di Incantati dalla rete,

Formenti è costretto a una prima significativa diversione, non

tanto rispetto alla direzione della propria lettura delle

trasformazioni produttive, quanto rispetto alla prospettiva di

conquista di densità ‘politica’ da parte dell’ipotesi del nuovo

«sincretismo». La crisi della new economy, scoppiata proprio

all’alba del nuovo secolo, induce infatti Formenti a prendere atto

che, almeno in parte, le condizioni degli anni Novanta, in cui

erano maturati l’immaginario cyberpunk e la stessa ipotesi

‘sincretista’, sono mutate. La crisi e l’irrompere sulla scena della

violenza, dopo l’11 settembre 2001, segnano secondo Formenti

una svolta ‘politica’, «che vede lo stato americano e una parte

delle corporation high tech alleati contro il ‘blocco sociale’

protagonista delle trasformazioni rivoluzionarie del decennio

precedente» (C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della

Net Economy, Einaudi, Torino, 2002, p. VII). In altre parole, se la

rivoluzione digitale è stata il prodotto di una combinazione di

attori sociali e culturali estremamente eterogenei, che hanno

convissuto per due decenni gli uni accanto agli altri, la crisi

segna la fine di quell’alleanza e l’avvio di una controffensiva volta

a ‘normalizzare’ il mondo della rete. Quando esamina il panorama

variegato del blocco sociale che, negli Stati Uniti, ha dato vita

alla new economy, Formenti non lo fa con l’intento di pronunciare

un requiem per un mondo ormai destinato alla scomparsa, ma

ritiene piuttosto che proprio dai semi di quell’immaginario

magmatico possano nascere nuovi frutti, questa volta dalla parte

opposta dell’Atlantico. Con questo obiettivo, Formenti deve però

iniziare ad articolare un discorso in parte diverso rispetto a quello

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di Incantati dalla rete, perché si trova a dover pensare

effettivamente il conflitto, ossia a pensare come si possa formare

un nuovo ‘blocco sociale’, capace di fronteggiare l’offensiva. E,

per farlo, torna ancora una volta a guardare a quegli schemi

post-operaisti, con cui intrattiene da più di tre decenni un

costante rapporto di dialogo critico. In questo senso, Formenti

non può infatti evitare di confrontarsi con le tesi di Empire, che,

per un verso, riprendono le vecchie ipotesi degli anni Settanta,

mentre, per un altro, le ricollocano in una sorta di neue

Darstellung, ossia al livello di quella struttura imperiale le cui basi

materiali sono date da un mercato che ha ormai steso le proprie

reti su tutto il pianeta. Se Hardt e Negri abbandonano la

distinzione fra ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’, non per

questo emendano effettivamente gli errori della vecchia

riflessione post-operaista, perché – grazie all’utilizzo della

nozione di ‘lavoro astratto’ – finiscono col ridurre mutamenti

culturali complessi alla semplice dimensione economica, e col

concepire tutte le nuove relazioni sociali che trovano spazio nella

rete a momenti di un ciclo produttivo. Ancora una volta –

argomenta Formenti nella propria critica – lo schema della

sussunzione reale produce il risultato di occultare tutto ciò che, in

realtà, rimane fuori: «le attività in questione – riproduzione e cura,

chiacchiere, relazioni quotidiane, gioco, divertimento, esperienze

emotive, creazione artistica, ecc. – non vengono unificate dal

modo di produzione, come avveniva con le vecchie attività

professionali omologate dalla catena di montaggio fordista, al

contrario: esse sono tanto più funzionali al nuovo modo di

produrre quanto più conservano le loro differenze. Per tacere del

fatto che, in molti casi, i processi di decentramento produttivo

favoriscono addirittura il ritorno di modelli produttivi e relazionali

sociali di tipo capitalistico» (ibi, pp. 233-234). Naturalmente,

Empire non si limita a riprendere lo schema della ‘sussunzione

reale’, perché, in effetti, provvede anche a ricalibrarlo grazie

all’adozione di una nozione foucaltiana, o, meglio, all’idea del

«biopotere», che trova le sue origini nel pensiero del filosofo

francese, ma che Hardt e Negri ridefiniscono sostanzialmente.

L’esito di questa operazione non ne muta comunque il significato

di fondo, e per questo Formenti può tornare a ribadire i motivi

della propria critica: «alla fine di tutti questi giochi di prestigio,

condotti a colpi di astrazioni teoriche, ci ritroviamo orfani di

qualsiasi soggetto concreto in grado di opporre resistenza alla

colonizzazione capitalistica delle relazioni sociali. Il variegato,

idiosincratico, riottoso, combattivo universo di individui, comunità,

culture, strati professionali, movimenti, ecc. […] sembra svanire

di colpo, sostituito da una massa indifferenziata di lavoratori

intellettuali subordinati al capitale, peggio, sostituito da una

massa di individui astratti la cui stessa soggettività appare come

un prodotto del biopotere capitalista» (ibi, p. 236). Ma la distanza

critica da Empire non può investire anche l’immagine della

moltitudine, anche perché – come si è visto – Formenti in

Incantati dalla rete aveva adottato proprio questa nozione per

rappresentare in termini metaforici il magma del ‘sincretismo

possibile’. Coerentemente, Formenti non può che rigettare la

visione di Hardt e Negri anche sotto questo profilo, perché la

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moltitudine di cui delineano i contorni i due autori di Empire

risulta «di volta in volta astratto contenitore concettuale e/o come

coacervo di singolarità individuali, per cui appare condannata a

restare priva di contenuti, e ad assumere senso politico solo se

giustapposta all’idea, non meno vuota e astratta, di Impero» (ibi,

p. 255). Invece che a una figura così evanescente come quella di

«moltitudine», Formenti si volge a un’«analisi concreta di

soggetti e pratiche: da un lato, blocco sociale della Net Economy

come convergenza fra movimenti di emancipazione individuale

(recupero del liberalismo) e nuove forme di solidarietà e

cooperazione (recupero del comunitarismo), dall’altro possibili

alleanze di tale blocco con le resistenze locali ai processi di

globalizzazione» (ibi, pp. 255-256).

Quando disegna la sagoma di questa

alleanza, Formenti pensa

probabilmente a quell’articolato fronte

di soggetti che ha preso consistenza

dopo il vertice di Seattle, che è stato

protagonista della contestazione del G8

di Genova, e che sembra – mentre

Mercanti di futuro viene licenziato –

possa definire ulteriormente il proprio

profilo nel corso delle mobilitazioni

pacifiste. Per molti versi, le

drammatiche giornate genovesi del

luglio 2001 non sanciscono invece il

battesimo del fuoco per un nuovo

movimento, ma di fatto costituiscono il culmine di una parabola

destinata a declinare nei mesi seguenti, senza trovare un

effettivo radicamento e un reale potere di incidere, non solo a

livello politico. Se quell’incerto ‘movimento dei movimenti’ riesce a

fornire solo una pallida rappresentazione di quello che poteva

essere – per usare le parole di Formenti – un nuovo ‘sincretismo’,

il suo principale fallimento consiste nel non riuscire a trovare un

collegamento con il mondo del lavoro e con la realtà di una

condizione giovanile destinata a rivelarsi sempre più come

dominata dalla dimensione della precarietà. Il rapido mutamento

dello scenario politico e la maturazione di quella crisi economica

globale che esploderà fra il 2007 e il 2008 inducono anche

Formenti a un graduale ripensamento, che, a poco a poco,

dissolve ogni residua traccia di quel (misurato) ottimismo sulle

potenzialità di un controllo ‘dal basso’ della rivoluzione digitale. Il

primo passo è costituito da una serie di interventi apparsi fra il

2003 e il 2006, e poi raccolti nel volume Se questa è democrazia.

Paradossi politico-culturali dell’era digitale (Manni, Lecce,

2009), in cui Formenti inizia a prendere le distanze dall’ipotesi

che le nuove tecnologie possano dar vita a forme di

rappresentanza politica ‘post-democratica’. Ma il secondo passo

– ancora più radicale – è compiuto con Cybersoviet. Utopie

postdemocratiche e nuovi media (Cortina, Milano, 2008), un libro

che può essere forse interpretato come una sorta di

riavvicinamento di Formenti alle sue originarie matrici teoriche,

che troverà peraltro un’ulteriore conferma in Felici e sfruttati.

Nelle pagine introduttive di Cybersoviet, Formenti torna infatti

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sulle ipotesi conclusive di Mercanti di futuro per prendere atto

del fallimento del blocco sociale cui aveva affidato la causa di un

rinnovamento delle istanze critiche della rivoluzione digitale: «la

Net Economy è sì rinata dalle ceneri della crisi, ma ciò non ha

favorito la ricomposizione del blocco sociale su cui si era fondata

la sua prima fase; al contrario, da un lato, l’alleanza fra

knowledge workers e imprenditoria di Internet (che nel frattempo

ha visto colossi emergenti come Google sostituire la galassia

delle startups nel ruolo di protagonisti) si è definitivamente rotta,

dall’altro lato, il processo di commercializzazione/normalizzazione

di Internet (pilotato dalla nuova alleanza fra governi e

corporation) è proseguito a ritmo accelerato, riducendo

drasticamente gli spazi di democrazia partecipativa» (ibi, p. X).

La presa d’atto di una simile sconfitta segna evidentemente un

punto di svolta, che non coinvolge solo la visione delle

trasformazioni o le possibilità di far rivivere il vecchio

consiliarismo nei nuovi cybersoviet, ma anche il modo stesso di

raffigurare il ‘blocco sociale’, il nuovo ‘sincretismo’. E, sotto

questo profilo, sono molto significative le frasi – interlocutorie,

problematiche – con cui si chiude il volume: «È arrivato il

momento di decretare la fine di quella breve, convulsa e

appassionante stagione che, dall’inizio degli anni Ottanta a oggi,

sembrava aver aperto una ‘finestra’ per trasformare la rivoluzione

tecnologica in rivoluzione sociale, culturale e politica? Forse non

ancora, ma la possibilità che nuovi orizzonti di speranza si

dischiudano a breve-medio termine dipende dal realizzarsi di due

condizioni che, allo stato dei fatti, appaiono alquanto improbabili.

La prima condizione è che i lavoratori della conoscenza

sviluppino una qualche consapevolezza dei propri ‘interessi di

classe’, nonché della necessità di allearsi con le masse dei

lavoratori del terziario ‘arretrato’ e con quanto resta della classe

operaia ‘tradizionale’. La seconda condizione è che l’egemonia

della cultura neoliberale e neoliberista non resti schiacciante e

incontrastata. In assenza di tali condizioni, sarà assai difficile

ottenere risultati sul fronte della lotta per la ‘costituzionalizazione’

dei diritti e dei doveri dei cittadini della rete; e sarà ancora più

difficile contrastare le ragioni della sicurezza e del controllo, e il

rischio che tanto la sfera pubblica quanto la sfera privata

vengano riassorbite nella sfera della produzione e dello scambio.

Allo stato dei fatti, purtroppo, le culture della Rete non sembrano

avere la minima consapevolezza di tale rischio; al contrario, si

rafforza continuamente la diffidenza nei confronti di qualsiasi tipo

di ‘ingerenza politica’ (anche se non governativa) negli affari di

Internet. Ma restare fedeli al mito anarcoliberista – in un momento

in cui il potere si concentra sempre più nelle mani dei giganti

della Net Economy che cavalcano le tecnologie del Web 2.0 –

significa consegnare ciò che resta della rivoluzione nelle mani del

mercato» (ibi, pp. 272-273).

Il ritorno degli spettri

Se le pagine di Cybersoviet risultano già impregnate di un certo

fastidio nei confronti delle celebrazioni del potenziale democratico

del web, ormai del tutto superate da una sostanziale

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‘normalizzazione’, i toni polemici

diventano ancora più forti – e

pressoché onnipresenti – in Felici e

sfruttati. Ma sarebbe sbagliato

considerare il ‘ripensamento’ di

Formenti solo come il riflesso

intellettuale del moto pendolare della

storia, per cui siamo destinati ogni

volta a riscoprire ciò che in fondo era

già noto alle generazioni che ci hanno

preceduto, che abbiamo preferito – o

dovuto – dimenticare. In Felici e

sfruttati non è infatti difficile ritrovare il

filo che Formenti ha continuato ad

assolvere dentro il labirinto degli anni Ottanta e Novanta, dentro

le illusioni e le speranze talvolta contraddittorie di quei decenni, e

forse non è neppure così faticoso riconoscere oggi, in

quell’intero, tortuoso percorso, l’ostinata ricerca di un modo

nuovo di pensare, rappresentare, incarnare i conflitti della società

‘postmoderna’. Da questo punto di vista, non può passare

inosservato come nelle prime pagine di Felici e sfruttati tornino

ancora ad affiorare il volto severo di Menenio Agrippa e lo spettro

della plebe ritirata sull’Aventino, che già si erano affacciati in

Prometeo e Hermes. Se la grande narrazione della fine delle

‘grandi narrazioni’ aveva infatti sostenuto che l’ingresso nella

‘società postmoderna’ aveva definitivamente espulso dalla scena

della storia (o della ‘fine della Storia’) l’eterna contrapposizione

fra i ricchi e i poveri, la realtà del nuovo millennio ha mostrato

come la coltre di quella suggestiva rappresentazione fosse

estremamente fragile, tanto da apparire oggi persino

inconsistente. «Nel primo decennio del XXI secolo» - scrive infatti

Formenti, abbandonando le cautele del paludato bon ton

accademico - «due catastrofiche crisi finanziarie – prima

l’esplosione della bolla dei titoli tecnologici del 2000, poi la frana

dei subprime iniziata nel 2008 e tuttora in atto – sembrano poter

fare piazza pulita di questa paccottiglia ideologica. In barba alle

prediche dei nuovi Agrippa, la cruda realtà del conflitto sociale

torna a mostrare il proprio volto. La forbice fra ricchi e poveri si

apre oltre ogni limite di decenza (al confronto, la distribuzione

totale delle risorse in base al principio paretiano dell’80/20

sembra un paradiso egualitario); la classe media viene

schiacciata e colpita duramente, a partire da quei knowledge

workers che erano stati indicati come le élite del futuro; la New

Economy si riorganizza attorno a un pugno di imprese giganti,

tagliando fuori dal mercato le start-up, la ‘leggerezza’ dei bit si

dimostra fin troppo volatile, dissolvendosi assieme ai miliardi di

dollari bruciati dalle borse impazzite e alle stock options che

avrebbero dovuto rimpiazzare i salari, trasformando tutti in

imprenditori e rentier; lo smantellamento del welfare e le riforme

del mercato del lavoro, realizzati con la benedizione delle

socialdemocrazie occidentali, trascinano nella povertà milioni di

persone, rimaste senza occupazione o costrette ad accettare

lavori dequalificati e mal retribuiti e a sprofondare nel precariato;

e via elencando, in una progressione infernale che avrebbe

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dovuto tappare la bocca ai teorici del win win (tutti vincono),

versione postmoderna dell’apologo di Agrippa, in base alla quale

il mostruoso arricchimento dei manager della New Economy

consentirebbe anche a tutti gli altri di migliorare le proprie

condizioni di vita» (ibi, p. 8).

A dispetto di un simile scenario, gli elementi di auto-critica

rispetto alle illusioni degli anni Ottanta e Novanta sembrano del

tutto evanescenti, tanto che – come è d’altronde evidente anche

per il più distratto osservatore del dibattito politico italiano ed

europeo – le ricette per rispondere alla crisi non cessano di

reiterare in modo ossessivo le convinzioni di due decenni fa,

dall’elogio più sperticato dell’‘uomo flessibile’, fino alla coriacea

fiducia riposta nelle virtù della ‘mano invisibile’. Così, nella prima

parte di Felici e sfruttati, vengono passate criticamene in

rassegna le nuove utopie ‘digitalsocialiste’, risorte dopo la crisi

del 2000, le riflessioni di autori come Kervin Kelly, Jeremy Rifkin,

Yochai Benkler, Manuel Castells, ma anche di autori come Enzo

Rullani e Aldo Bonomi. Ad accomunare tutte queste posizioni,

peraltro fra loro molto diverse, non è solo una valutazione in

fondo positiva delle trasformazioni innescate dalla rivoluzione

digitale, che renderebbe possibile un miglioramento delle

condizioni sociali e lavorative, ma soprattutto l’immagine ormai

del tutto irrealistica delle effettive condizioni dei knowledge

workers, o quantomeno della gran parte di loro. Come i blog sono

spesso molto lontani dalla mitologia che ne ha fatto un pilastro di

una nuova democrazia, così la concreta attività lavorativa dei

knowledge workers, ben più che nel territorio sconfinato delle

utopie hacker, rientra negli angusti spazi di uno spietato

«taylorismo digitale», estremo ma coerente sviluppo di quel

taylorismo burocratico in cui Braverman aveva riconosciuto i

contorni della «degradazione» del lavoro impiegatizio.

Forse ancora più interessante della demolizione compiuta nella

prima parte di Felici e sfruttati, è la seconda, in cui viene

esaminato il modo del lavoro. Chi conosce le precedenti

riflessioni di Formenti non può certo essere stupito che anche in

questo caso una buona parte dell’attenzione venga riservata alle

ipotesi avanzate dagli eredi dell’operaismo italiano. Nel nuovo

libro ritornano infatti i motivi consolidati del disaccordo, ricalibrati

però attorno al nuovo scenario. Il problema principale scaturisce

dalle implicazioni dello ‘scioglimento’ della fabbrica nella società,

che fa sì che il processo di valorizzazione inglobi ogni ambito di

attività, trasformandola in lavoro. «Il paradosso del nuovo

operaismo», scrive Formenti, «consiste dunque nell’affermare

che nulla è più lavoro, ma che, al tempo stesso, tutto diventa

lavoro» (ibi, p. 98). Da questo paradosso derivano anche una

serie di aporie, relative all’individuazione del soggetto in grado di

farsi portatore di un conflitto reale. In primo luogo, «il carattere

eccessivamente astratto di un’idea di lavoro che finisce per

coincidere con qualsiasi manifestazione di energia vitale evoca

inevitabilmente un’immagine altrettanto astratta del potere con

cui è chiamata a confrontarsi: un potere che non può più essere

identificato con una classe e/o con istituzioni ben definite, ma

rinvia a un complicato e stratificato intreccio di poteri che

operano attraverso dispositivi di controllo indiretto piuttosto che

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di dominio diretto» (ibi, p. 101). In secondo luogo, l’aporia

emerge sul terreno dell’identificazione del soggetto conflittuale,

perché la totalizzazione della ‘sussunzione reale’, nel momento in

cui presuppone che tutto sia già ‘dentro’ il processo di

valorizzazione, non è in grado di pensare cosa resta ‘fuori’,

effettivamente o solo potenzialmente. Così, sviluppando la critica

già svolta nella Fine del valore d’uso, Formenti afferma: «Il

dilemma da cui Negri e soci non riescono a districarsi è se sia

oggi possibile tracciare un confine fra ciò che sta fuori e ciò che

sta dentro il rapporto di sfruttamento capitalistico. La loro risposta

è – più che ambigua – paradossale, nel senso che è, al tempo

stesso, negativa e positiva. Da un lato si dice che nulla ormai può

esistere al di fuori del capitale, coerentemente con l’assunto in

base al quale la totalità delle relazioni umane viene sussunta nel

processo di valorizzazione capitalistica; al tempo stesso si

afferma che tutta la produzione sociale – in quanto produzione

biopolitica di soggettività – è estranea al capitale e si auto-

organizza attraverso forme di cooperazione spontanee e

autonome. In altre parole: il biopotere, inteso come potere sulla

vita, e la biopolitica, intesa come potere della vita coesistono su

un unico punto di immanenza […] Ma anche qui – come nel caso

dell’idea di moltitudine – l’irruzione di categorie metafisiche nella

teoria sociale e politica gioca brutti scherzi. È infatti evidente – e i

nostri lo ammettono – che la rivoluzione non può che irrompere

dall’esterno del rapporto di capitale, pena l’impossibilità di

rompere la continuità dell’ordine costituito. Al tempo stesso, con

una contorsione dialettica, essi affermano che si tratta di

un’‘innovazione’ che emerge dall’interno del sistema» (ibip. 102).

Per riuscire a tenere insieme queste due visioni fra loro

contraddittorie, i post-operaisti – o «nuovi operaisti», come

Formenti preferisce chiamarli – devono necessariamente

convergere con le rappresentazioni utopiche del ‘digital-

socialismo’, che ritengono che la rete configuri già

potenzialmente un modo di produzione ‘post-capitalistico’, e che

vedono nelle forme di organizzazione ‘orizzontali’. Ma è

argomentando la propria distanza rispetto a queste due

convinzioni, che Formenti procede a un recupero – non

sorprendente, ma neppure scontato – della critica dell’economia

politica di Marx.

In primo luogo, questo recupero attiene alla critica di tutte

quelle posizioni che intravedono nelle trasformazioni del lavoro

avviate dalla rivoluzione digitale il segnale – o addirittura le prime

tracce – di un modo di produzione ‘postcapitalista’. Se si adotta

una definizione del ‘capitalismo’ non impressionista, e se si

recupera la nozione marxiana di ‘modo di produzione

capitalistico’, di queste convinzioni non può che rimanere in piedi

ben poco. Anche la produzione di conoscenze e informazioni

risulta infatti pienamente collocata all’interno della logica della

produzione di merci, in cui continuano a vigere i principi

dell’appropriazione privata della ricchezza e relazioni sociali di

sfruttamento, per quanto le forme di questo sfruttamento siano

parzialmente mutate rispetto a stagioni precedenti dello sviluppo

capitalistico. In altri termini, secondo quanto scrive Formenti, «il

‘nuovo’ modo di produzione resta a tutti gli effetti capitalistico,

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anche se il capitalismo, adattandosi fulmineamente alle

trasformazioni tecnologiche e culturali, ci costringe

continuamente ad aggiornare il nostro bagaglio teorico» (ibi, p.

108). D’altronde, molte delle principali categorie marxiane –

secondo Formenti – non appaiono neppure intaccate dalle

trasformazioni della rivoluzione digitale, mentre risultano piuttosto

inservibili alcune letture ‘industrialiste’ e ‘produttiviste’ che di

quelle categorie sono state formulate. In questo caso, Formenti si

riferisce naturalmente alla vecchia distinzione fra ‘lavoro

produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’, già al centro delle sue prime

riflessioni sulle innovazioni introdotte dall’informatica nel

processo lavorativo, ma – non senza fondate ragioni – può

richiamare le pagine del cosiddetto Capitolo VI inedito del

Capitale per mostrare come lo stesso Marx avesse già ben

chiaro che le trasformazioni capitalistiche tendevano a esaltare

sempre più la natura cooperativa del lavoro, e che perciò

diventava necessario allargare sempre più lo spettro del lavoro

effettivamente ‘produttivo’, fino a ricomprendervi una sfera

sempre più elevata di funzioni. Da questo punto di vista, allora,

Formenti suggerisce che Marx, dinanzi alla novità della rete,

«avrebbe ulteriormente esteso l’ambito di applicazione del

concetto, fino ad abbracciare tendenzialmente la totalità dei

soggetti interconnessi» (ibi, p. 109). Inoltre – dato che,

rinunciando a ricondurre il ‘lavoro produttivo’ alla produzione di

merci, sottolineava come si trattasse sempre di un lavoro

produttivo di plusvalore – l’autore del Capitale avrebbe tratto una

serie di conseguenze relative alla dilatazione del processo di

valorizzazione: «Se infatti è vero che il concetto di lavoratore

produttivo non comprende solo un rapporto fra attività ed effetto

utile, fra lavoratore e prodotto del lavoro, ma include anche un

rapporto di produzione specificamente sociale, che imprime

all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del

capitale, è fuor di dubbio che la New Economy abbia impresso

tale marchio su una massa di persone ben più estesa rispetto al

passato» (ibi, p. 110). In sostanza, il fatto che la produzione

contemporanea non abbia più – o meglio, abbia solo in parte –

come obiettivo la produzione di ‘merci materiali’, non significa né

che il lavoro produttivo venga meno, né che le relazioni sociali

capitalistiche vengano superate da un logica di produzione ‘post-

mercantile’: «sostenere che oggi l’economia capitalistica si fonda

soprattutto sui settori che producono informazioni e conoscenze

non dimostra che siamo di fronte a un nuovo modo di produrre,

ma dimostra piuttosto che il capitalismo realizza una quota

crescente di plusvalore attraverso la produzione/distribuzione di

servizi, emozioni, sentimenti, esperienze piuttosto che di

automobili, carbone e acciaio» (ibi, pp. 110-111).

In secondo luogo, Formenti torna a considerare il rapporto fra

‘sussunzione formale’ e ‘sussunzione reale’, che – come si è visto

– era già presente nei suoi precedenti lavori. Anche in questo

caso, riprende la convinzione che non si tratti di due ‘stadi’ di

sviluppo, bensì di modalità di organizzazione che si intrecciano

storicamente, e che, soprattutto, si intersecano costantemente

all’interno delle dinamiche della new economy. In particolare, i

processi che hanno scandito il primo decennio del nuovo secolo

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hanno ridotto i margini di autonomia dei coloni del ‘cyberspazio’,

e il miraggio di una fuga lontano dal mondo dominato dalla logica

mercantile e dallo sfruttamento è progressivamente svanito, un

po’ come avvenne per i pionieri americani, nel momento in cui la

‘Frontiera’ venne effettivamente raggiunta anche dalle strade

ferrate e dalle grandi corporation. Senza dubbio, non tutte le

attività della ‘nuova economia’ possono essere ‘recintate’, se non

al prezzo di perdere gran parte delle loro caratteristiche, dovute

al fatto che si basano spesso su forme di cooperazione che

hanno finalità extra-economiche, ma ciò significa proprio che

‘subordinazione formale’ e ‘sostanziale’ rappresentano fasi

cicliche complementari, e non tappe di un’evoluzione storica

unidirezionale. In sostanza, secondo il ragionamento di Formenti,

«il capitalismo sfrutta contemporaneamente tutte le modalità di

subordinazione del lavoro al capitale, scegliendo di volta in volta

– e spesso ibridandole – le soluzioni più adatte alle

caratteristiche di un determinato paese, settore produttivo,

contesto socioculturale ecc.» (ibi, p. 116).

Il ‘ritorno a Marx’ compiuto in Felici e sfruttati non può essere

rappresentato però come una piena e incondizionata

riabilitazione del pensiero dell’autore del Capitale, perché, in

verità, il recupero di Formenti si limita alla pars destruens,

all’utilizzo delle categorie della critica dell’economia politica per

mostrare come esse conservino la loro validità persino un secolo

e mezzo dopo la loro formulazione. Il discorso si fa invece

piuttosto diverso, nel momento in cui Formenti passa a

considerare le differenti modalità con cui il pensatore di Treviri

concepì la ‘transizione’ oltre il capitalismo. A questo proposito,

Formenti non si concentra tanto sull’ipotesi della caduta

tendenziale del saggio di profitto, al cuore del Primo libro del

Capitale, quanto su un’altra visione della transizione, delineata

da Marx nei Grundrisse e, in particolare, in quella breve sezione

nota in Italia – già nei primi anni Sessanta – come «frammento

sulle macchine». In quelle pagine – schematiche, ma al tempo

stesso visionarie – ipotizzava che lo sviluppo delle macchine,

l’utilizzo delle conoscenze scientifiche e della tecnologia

tendessero a rendere sempre meno rilevante, dal punto di vista

quantitativo e da quello qualitativo, il lavoro umano, tanto che, ad

un certo punto, il tempo di lavoro sarebbe diventato una «base

miserabile» rispetto alla ricchezza effettivamente prodotta. La

conseguenza logica cui perveniva Marx – in realtà, in termini

piuttosto generici – era che il crescente contrasto fra la realtà del

processo produttivo e il principio della misura del tempo di lavoro

avrebbe innescato un crollo della produzione basata sul valore di

scambio. Questa previsione si trova solo fugacemente accennata

nei suoi quaderni preparatori della fine degli anni Cinquanta

dell’Ottocento, perché in seguito Marx preferì abbandonarla in

favore della tesi della caduta tendenziale del saggi di profitto

(una tesi che traduceva solo parzialmente la ‘visione’ dei

Grundrisse). Ma è proprio da quelle pagine e da quell’ipotesi

stilizzata che, da circa quattro decenni, si esercita il paradigma

‘post-operaista’. Più o meno a partire dalla crisi degli anni

Settanta del secolo scorso, alcuni teorici provenienti

dall’operaismo dei «Quaderni rossi» iniziano infatti a guardare a

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quegli appunti per cercare di sbrogliare l’intricata matassa dei

conflitti della società ‘post-industriale’. Non è certo difficile

rinvenire proprio nella centralità del «Frammento» il tratto che

accomuna delle ipotesi sviluppate lungo questi quattro decenni

non solo da Hardt e Negri, ma anche da Virno e altri autori che si

richiamano – con differenti soluzioni – al paradigma post-

operaista. E non è certo sorprendente che Formenti si trovi

proprio su questo punto in disaccordo non solo con i continuatori

del filone operaista, ma con lo stesso Marx. Da questo punto di

vista, infatti, ipotizzando un Marx redivivo, cui sia concesso di

conoscere il mondo della rete e della new economy, Formenti

scrive che l’autore del Capitale «avrebbe non pochi motivi di

orgoglio nel constatare che certe sue categorie – come quelle di

lavoro produttivo e lavoro improduttivo, plusvalore relativo e

plusvalore assoluto ecc. – svelano i meccanismi della nuova

economia meglio di tutte le chiacchiere dei guru della Silicon

Valley» (ibi, p. 119). Ma, al tempo stesso, non può fare a meno di

riconoscere: «Sarebbe invece meno orgoglioso del fatto che, a

un secolo e mezzo di distanza, le sue anticipazioni visionarie

sulla fine della legge del valore/lavoro restano tali. Detto

altrimenti: se c’è un aspetto del pensiero di Marx che il

capitalismo digitale è riuscito a rendere obsoleto è l’illusione che

la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione

possa di per sé determinare il crollo del capitalismo» (ibidem).

Una simile posizione

non è però

semplicemente una

rivisitazione delle

critiche al

determinismo delle

‘teorie del crollo’,

perché, in realtà, è

funzionale a una

ricerca che sostituisca alle previsioni deterministe sulle

‘contraddizioni’ l’analisi concreta delle posizioni materiali, e alla

convinzione risposta nella funzione palingentica di un nuovo

‘soggetto’ l’indagine sulla realtà delle figure conflittuali. Se in

Cybersoviet Formenti scriveva che «delineare una nuova

composizione di classe appare impresa ardua, se non

impossibile, ma rinunciare all’impresa significa rinunciare alla

possibilità di attribuire senso ai conflitti sociali contemporanei»

(ibi, p. XIII), in Felici e sfruttati questa esigenza viene

ulteriormente ribadita, e così torna a chiedersi, con ancora

maggior forza, se i lavoratori della conoscenza siano davvero una

forza potenzialmente compatta: «i knowledge workers

costituiscono davvero una classe unitaria, o si articolano in uno

strato superiore e uno strato inferiore di portatori di interessi

divergenti, se non opposti? Il loro ruolo, nel complesso scenario

dei conflitti di classe globali, è davvero quello di un’avanguardia?

Infine, se la risposta all’ultima domanda è negativa: quali altri

soggetti possono aspirare a tale ruolo? In breve: qual è, oggi, la

composizione politica del proletariato internazionale?» (ibi, pp.

122-123). La risposta di Formenti a questi interrogativi è

naturalmente interlocutoria, ma ciò che comunque rileva è il

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definitivo esaurimento del potenziale di quel «Quinto Stato» cui

aveva in precedenza affidato un ruolo importante. In effetti, la

«classe creativa» celebrata da Richard Florida è stata investita in

modo rilevante nel corso dell’ultimo decennio, e ne è uscita

divaricata in due strati sempre più lontani fra loro in quanto a

reddito e potere. Da una parte, «lo strato superiore di questa

classe sui generis è effettivamente uscito vincitore dai

sommovimenti tecnologici, finanziari e sociali degli ultimi

decenni» (ibi, p. 125), e la vittoria elettorale di Barack Obama

può essere rappresentata anche come l’accesso del vertice del

Quinto Stato nella ‘stanza dei bottoni’. «A progettare la

campagna elettorale di Obama sono stati infatti i pezzi da

novanta della Silicon Valley», scrive Formenti, dissolvendo i fiumi

di retorica versati sulla vittoria del primo presidente afro-

americano, «mentre ad assicurarne la vittoria sono state le reti

sociali e le competenze tecnologiche di milioni di giovani nerd ai

quali, grazie alle modalità partecipative e collaborative con cui

hanno condiviso una campagna vissuta ‘dal basso’, si è fatta

nutrire l’illusione di essere i veri vincitori, laddove avevano

semplicemente fornito la massa di manovra ai nuovi padroni,

aiutandoli a incistarsi nel cuore dell’inedito apparato lobbistico in

via di costruzione a Washington» (ibi, p. 127). La rivoluzione del

blocco sociale della new economy si è così realizzata in modo

molto diverso da come l’avevano pensata negli anni Novanta gli

alfieri delle utopie cyber, mentre l’ascensore che conduce verso i

«piani alti» del Quinto Stato sembra essersi definitivamente

bloccato. Ed è per questo, dunque, che Formenti ritiene sia

opportuno «abbandonare i sogni sulle moltitudini che si auto-

organizzano e si autogovernano attraverso la rete e riprendere a

ragionare sulla composizione politica del proletariato, allargando

lo sguardo a livello globale» (ibi, pp. 127-128). Formenti guarda

perciò oltre la semplice schiera della «classe creativa» e persino

oltre l’Occidente, per scoprire come gli scioperi cinesi degli ultimi

anni nel settore metalmeccanico siano stati condotti da operai

giovanissimi, senza il supporto di strutture politiche e sindacali,

ma grazie alla comunicazione ‘orizzontale’ di blog e social

network. Ciò non induce certo Formenti a riabilitare le vecchie

utopie sul potenziale democratico e liberatorio delle nuove

tecnologie, ma lo spinge piuttosto a suggerire la possibilità di un

utilizzo strumentale di queste tecnologie da parte persino della

‘vecchia’ classe operaia cinese, e a formulare l’ipotesi di una

‘ricomposizione’ politica di un fronte senz’altro eterogeneo: un

fronte «fondato sulla convergenza di interessi fra neoproletariato

industriale, classe creativa e migranti, un’alleanza saldata

dall’uso delle nuove tecnologie di rete come strumenti di

mobilitazione e di organizzazione politica delle lotte» (ibi, p. 137).

Il libro di Formenti ha trovato un lettore entusiasta in Mario Tronti,

che sull’inserto di «alfabeta2» ha scritto, commentando le pagine

di Felici e sfruttati: «È un grido liberatorio, di cui si sentiva il

bisogno, oppressi come siamo, ciascuno di noi, ogni momento,

da questa nuova religione del virtuale. Perfino il tumulto di piazza,

il gesto collettivo più materiale che storicamente esista, viene

ormai ascritto alla virtù del mezzo di comunicazione. Collegati in

rete, e con le armi degli sms, si abbattono i tiranni e si eleggono i

14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti

http://www.damianopalano.com/2012/02/il-viaggio-di-hermes-proposito-di.html 26/30

presidenti. Scompaiono le motivazioni di fondo delle rivolte e i

poteri occulti che muovono le scelte. Non ci si ferma a riflettere

sul fatto che, magari proprio perché quegli eventi assumono

quella modalità, risultano effimeri, momentanei, esposti a una

eterodirezione, di cui non si sa nulla, ma che è molto più solida e

radicata e duratura. Insomma, mi piace questo libro, per questa

ragione: quello che pensavo da sempre, per intuito – ma l’intuito,

quando è ben educato dall’esperienza, raramente sbaglia – mi

viene qui documentato da una mole di letture, che io non ho fatto

e che, prometto, non farò mai» (M. Tronti, Per una critica

dell’immaterialismo storico, in «alfalibri», n. 1, supplemento ad

«alfabeta2», n. 9, maggio 2011, p. 11). A ben vedere,

l’entusiasmo di Tronti per il libro di Formenti non è sorprendente.

Innanzitutto, perché nelle ultime pagine di Felici e sfruttati,

quando vengono evocati gli scioperi degli operai metalmeccanici

cinesi e l’eventualità che, a partire da questo nuovo

protagonismo, si possa avviare un nuovo ciclo di mobilitazione, si

può riconoscere la ripresa – quasi mezzo secolo dopo – di un

celebre grafico, pubblicato sull’ultimo numero della rivista

«Classe operaia», poco dopo la metà degli anni Sessanta: un

grafico che, ricostruendo la crescita del numero e della

proporzione di lavoratori salariati nel mondo, pareva suggerire

l’ipotesi che la conflittualità di fabbrica dovesse generalizzarsi,

uscendo anche fuori dai confini dell’Occidente. Inoltre, perché il

lavoro di Formenti converge con la posizione di Tronti anche da

un secondo punto di vista, e cioè perché, superando l’idea che

esista una contrapposizione fra la ‘vecchia’ classe operaia e i

‘nuovi’ lavoratori della conoscenza, ricostruisce i margini per

pensare il fronte del lavoro come – almeno potenzialmente –

unitario. Infine, perché, al termine del proprio discorso, Formenti

arriva a ‘ri-scoprire’ la vecchia, bistrattata e demonizzata

«autonomia del politico». Naturalmente, Formenti non rispolvera

certo quell’autonomia del politico che si risolve nell’esaltazione

della ‘presa del potere’, o nella convinzione che lo Stato e il

livello delle istituzioni siano effettivamente autonomi dalla base

produttiva e che possano dunque costituire un avamposto da cui

operare una (più o meno radicale) trasformazione sociale. La sua

ripresa si rivolge invece a quella dimensione dell’autonomia del

politico che attiene, più che alla funzione di rappresentanza, a

quella strettamente organizzativa: una funzione che partiti e

sindacati – secondo il giudizio certo non isolato di Formenti – non

possono più svolgere, ma che neppure può essere assolta

efficacemente da quelle reti spontanee e orizzontali su sui tanta

retorica si è esercitata, e continua a esercitarsi. «Fra poco»,

scrive infatti, «a credere alle rivoluzioni fatte via Facebook e

Twitter resteranno, forse, solo i manager di Facebook e Twitter»,

perché – soprattutto da eventi come la ‘Primavera araba’ – sono

emersi, insieme alle potenzialità, anche tutti i limiti delle effettive

capacità di mobilitazione dei social network: «abbastanza potenti

da abbattere i tiranno di turno, ma del tutto disarmati di fronte alle

forze organizzate che finiranno per incanalare l’energia e dirigerla

verso i propri obiettivi» (ibi, p. 148).

Quando giunge a evocare l’autonomia del politico, Formenti

tocca probabilmente il punto estremo della propria riflessione

14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti

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autocritica. Da un certo punto di vista, l’intera riflessione

compiuta attraverso un trentennio tendeva ad allontanarsi non

tanto dalla ‘politica’ in senso lato – perché ovviamente i temi che

considerava erano, per le loro stesse caratteristiche, ‘politici’ –

quanto proprio dall’autonomia del politico, ovvero dall’idea che

fosse indispensabile ricercare un livello ‘organizzativo’,

‘istituzionale’, ‘politico’, capace di poter condurre a sintesi la

parzialità di interessi disseminati. Le motivazioni storiche del

sospetto nei confronti dell’autonomia del politico sono più che

scontate, e rimandano alle torsioni politiciste della fine degli anni

Settanta, alle derive che indussero a rappresentare il conflitto in

termini, non solo metaforicamente, militari. La ricerca di Formenti

si distaccava da quelle derive per almeno due profili. In primo

luogo, perché, negando che la posizione ‘avanzata’ o ‘arretrata’,

‘centrale’ o ‘marginale’ di un soggetto fosse determinata dalla sua

collocazione nel circuito produttivo, dissolveva le basi stesse del

concetto novecentesco di ‘avanguardia’, così saldamente

radicato nella tradizione marxista. In secondo luogo, perché,

rifiutando la logica dell’antagonismo, proponeva piuttosto la

logica dell’esodo, della diserzione, della sottrazione, come unica

strada capace di consolidare effettivamente i margini di

autonomia dalla logica di un’economia ferocemente distruttiva. La

preferenza per il volto sfuggente di Hermes, contrapposto a

quello di Prometeo, era propria l’esito di una simile opzione,

faticosamente guadagnata nella catastrofe novecentesca. Ora

quel sentiero sembra però aver condotto Formenti a un bivio, se

non addirittura a un vicolo cieco. Per molti versi, la fiducia riposta

nella strada alternativa di Hermes sembra nuovamente aver

condotto Formenti sulle tracce di Prometeo. Non certo – come si

è visto – perché divenga oggi possibile impossessarsi una

tecnica estranea e farne uno strumento nelle mani dei knowledge

workers, ma perché diventa possibile – forse necessario –

pensare in termini ‘politici’ a un soggetto capace di opporsi a una

marcia all’apparenza inarrestabile. Ovviamente, il ripensamento

non conduce Formenti a cancellare con un tratto gli sforzi di un

cammino trentennale, e così, quando richiama in vita

dall’impolverato scaffale operaista le nozioni di ‘composizione

tecnica’ e ‘politica’ non tende certo a riprodurne il determinismo

che talvolta le ha accompagnate. In questo senso, la dimensione

‘politica’ non scaturisce – come Atena dalla testa di Zeus – dalle

reti della produzione immateriale, ma solo dalla storia materiale e

dalle sue incognite. Al tempo stesso, Formenti si tiene ben

lontano dalla tentazione di cadere in quella sorta di fascinazione

tecnologica, che spesso ha trasformato l’attesa dell’avvento di un

nuovo soggetto in una versione aggiornata, e solo in parte più

raffinata, della teoria degli stadi di sviluppo. Ma, proprio perché la

politica si presenta con gli abiti della contingenza, non può che

riproporre ancora una volta l’interrogativo sul modo in cui

pensare il nuovo ‘sincretismo’. Un interrogativo cui, naturalmente,

non si può rispondere solo evocando la natura strumentale

dell’organizzazione, ed evitando così l’enorme nodo della

rappresentazione. Tanto che, inevitabilmente, la domanda di

fondo che aveva indirizzato la ricerca di Formenti negli anni

Ottanta, non può che riaffiorare.

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Al principio degli anni

Novanta, nella

prefazione a Piccole

apocalissi, Formenti

si soffermava su una

lettura della

Centesimus annus,

che, dopo un secolo

dalla Rerum novarum

e all’indomani del

crollo del blocco

sovietico, aveva

ribadito le linee della

dottrina sociale della

Chiesa. Discostandosi dalle letture di molti intellettuali, Formenti

sottolineava allora come l’enciclica ponesse una sfida radicale al

pensiero ‘progressista’ e a ciò che rimaneva della sinistra

novecentesca. «Il comunismo», scriveva Formenti, «era una

‘religione’ che prometteva la salvezza in questo mondo, che si

proponeva di dare un senso alla vita qui e ora, nella concreta

attualità storica e non nell’aldilà», e, così, «il crollo di questa

religione apre un vuoto immenso: il mondo si trova orfano di

ideologie ma non dei grandi interrogativi etici e antropologici a cui

l’ideologia offriva risposta» (C. Formenti, Piccole apocalissi, cit.,

p. XIII). In questo quadro, se la Centesimus annus poteva essere

letta davvero come la riaffermazione di principi etici legati alla

trascendenza, ma da difendere concretamente nella storia, la

deriva che rischiava di imboccare il pensiero progressista – una

deriva effettivamente percorsa nel ventennio seguente – era

quella di un «laicismo antipapista», destinato a essere riassorbito

«nel delirio della mitologia ‘laica’, di un sistema di valori

materialistici del tutto ignari dei propri fondamenti religiosi» (ibi,

p. XIV). In quel testo, Formenti – percorrendo un binario simile a

quello indicato, per esempio, da un intellettuale senza dubbio

originale come Romano Madera – riteneva che la sfida si

riaprisse non sul terreno del conflitto, ma su «quello –

eminentemente moderno – della contaminazione sincretistica fra

differenti tradizioni religiose» (ibi, p. XIV). Oggi, tutti i limiti di quel

percorso diventano evidenti, ma la domanda di fondo che

Formenti si poneva diventa oggi forse ancora più importante di

quanto non lo fosse due decenni fa. E, da questo punto di vista,

non è certo casuale che lo stesso Tronti abbia indicato – come

strada obbligata per fuoriuscire dal cortocircuito di un eterno

presente – quella che passa dal ‘teologico-politico’. Porsi oggi il

problema del ‘politico’ e della sua autonomia, rispetto alla

materialità dei rapporti sociali, non significa infatti tornare

semplicemente a sperimentare la fatica dell’organizzazione o a

tessere la trama della rappresentanza di interessi disseminati e

magmatici. Significa anche porsi il problema della

‘rappresentazione’ del destino comune in una società post-

storica, che non sa concepire il futuro se non nella forma

apocalittica della catastrofe, o come pura dilatazione del

presente. Ed è proprio in questo punto che il filo pazientemente

seguito da Formenti nel corso di tre decenni rischia di

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Pubblicato da Damiano Palano a 2/10/2012

Etichette: Carlo Formenti, Cyber-soviet, Cyberpunk, Damiano Palano, Felici e sfruttati, Lavoro immateriale,

Mario Tronti, Neo-operaismo, Società, Teoria

Reazioni: divertente (0) interessante (0) eccezionale (0)

aggrovigliarsi. Perché, una volta abbandonato Prometeo, il volto

di Hermes non può che rimanere del tutto sfuggente, e non può

che apparirci oggi più enigmatico che mai. Per Benjamin, l’angelo

della storia aveva il viso rivolto al passato, alle sue macerie e ai

suoi morti. Ma le sue ali erano spinte irresistibilmente nel futuro

dalla tempesta del progresso. Oggi, per noi, quella tempesta non

può avere alcun reale significato, perché il progresso non ci

appare come una tempesta che ci spinge verso il futuro, ma,

semmai, solo come una catastrofe che pende sulle nostre

esistenze. Anche per questo, l’angelo senza nome «ha indossato

la maschera del viaggiatore, di un’entità vaga e inafferrabile, che

quasi scompare per risolversi nel suo eterno movimento». E

«travestito, ambiguo e proteiforme», ha attraversato il nostro

tempo continuando a osservare e ad aspettare. Oggi, forse, quel

viaggio – o almeno il suo primo tratto – è concluso, ma non per

questo l’angelo sembra debba svelare il suo volto. Senza che per

noi sia dunque possibile intendere se sia in grado di escogitare

un nuovo percorso, o debba imboccare, ancora una volta, la

strada indicata da Prometeo, e consumare così il proprio destino

nell’impeto di un’effimera ribellione. O se, invece, non sia giunto il

momento che gli uomini «riescano nuovamente ad avvertire il

soffio impalpabile della sua presenza, e che tornino a trovare

nomi e immagini per la divinità che non cessa di chiamarli da un

futuro imprecisato».

Damiano Palano

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