Visualization of the High Level Structure of the Internet with HERMES
Il viaggio di Hermes. A proposito di “Felici e sfruttati” di Carlo Formenti (recensione a C....
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14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti
http://www.damianopalano.com/2012/02/il-viaggio-di-hermes-proposito-di.html 1/30
di Damiano Palano
maelstrom
venerdì 10 febbraio 2012
Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati"di Carlo Formenti
di Damiano Palano
Nella storia della fantascienza si affiancano a lungo due grandi
filoni, che, pur intrecciandosi, accostano il futuro da prospettive
sostanzialmente differenti. Nel primo – il cui esempio
paradigmatico rimane probabilmente la Guerra dei Mondi di H.G.
Wells – lo scenario è offerto dal mondo contemporaneo, in cui un
evento dirompente come un’invasione aliena sconvolge
radicalmente tutto ciò che, fino a quel momento, è stato
considerato normale e inattaccabile. Nel secondo filone, le cui
prime anticipazioni possono essere rinvenute in alcuni viaggi di
Jules Verne, la fantasia degli scrittori si proietta invece nel futuro
per meravigliare, per immaginare un mondo trasformato da
invenzioni strabilianti, per raccontare la conquista della Luna o di
Marte, o persino per costruire la nuova epica dei pionieri dello
spazio profondo, in lotta contro civiltà extraterrestri. È per molti
versi in questa seconda tradizione che si collocano, fra gli anni
Venti e Trenta del Novecento, le grandi ‘distopie’ del XX secolo,
anche se, in questo caso, l’attenzione non è rivolta tanto – o
soltanto – alla tecnologia e alle potenzialità delle nuove
invenzioni scientifiche, quanto ai loro utilizzi politici,
invariabilmente rappresentati in termini negativi. Senza eccezioni,
le grandi ‘distopie’ novecentesche – dalla Macchina del tempo
dello stesso Wells, a Il tallone di ferro di Jack London, ai classici
Noi di Evgenij Zamjatin, Il Mondo nuovo di Aldous Huxley, 1984
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14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti
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di George Orwell, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury – ritraggono i
contorni di un regime dispotico, totalitario, capace di garantire il
dominio di un’esigua minoranza su un’enorme massa di
diseredati. Ad accomunare testi tanto diversi, è soprattutto l’idea
di una connessione quasi strutturale, originaria, fra il potere
assoluto del regime e il suo profilo tecnologico. In altre parole, in
tutte le grandi distopie dei primi decenni del Novecento, la
tecnologia costituisce uno strumento saldamente in mano al
potere, che lo utilizza per organizzare la vita dell’intera società,
per assicurare una disciplina ferrea e per impedire ogni più
piccolo tentativo di sovversione da parte di sudditi ridotti ad
automi privi di qualsiasi spirito critico. In questo senso, la fusione
di ‘potere’ e ‘tecnologia’ non solo è totale e senza alternative, ma
disegna anche un futuro cupo, in cui i margini di libertà sono
destinati a restringersi.
Questa componente
viene invece
notevolmente
ridimensionata dalla
grande stagione della
science-fiction
americana. Quando, a
partire dagli anni
Quaranta, la
fantascienza inizia a
diventare un genere
della letteratura popolare, e quando cominciano a essere
pubblicate le prime riviste specializzate, la dimensione ‘distopica’
viene infatti in gran parte accantonata, anche se non scompare
del tutto (e il libro di Bradbury è sufficiente a testimoniarlo). Come
il cinema di genere, anche la science-fiction è destinata a
proiettare il mito della frontiera verso lo spazio, o a riflettere il
clima ideologico-politico del momento, come avviene per esempio
in molti romanzi di Robert Heinlein. Ben presto, nella sua
stagione più fortunata, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, il
genere viene però a riflettere – con una straordinaria pluralità di
toni, di sensibilità e prospettive – le grandi inquietudini della
società opulenta. Proprio in questa stagione, il filone ‘distopico’
conosce una nuova fioritura, spesso fortemente influenzata dalla
vena ‘sociologica’ del periodo, e il futuro viene nuovamente
raffigurato come dominato da potenti oligarchie, che questa volta
non hanno il volto dei vecchi regimi totalitari, ma quello di grandi
corporation, capaci di controllare le masse anestetizzandole e
addomesticandole con un’abile propaganda consumista. Molto
probabilmente, l’apice di questo filone viene raggiunto con la
New Wave degli anni Sessanta, o da alcuni cupi romanzi di Philip
Dick, in cui la tecnologia – una tecnologia in grado persino di
rimodellare la natura umana – diventa la base su cui si reggono
terrificanti regimi plutocratici (ed è sufficiente pensare a celebri
romanzi come La penultima verità o I simulacri). Proprio a partire
da alcune pagine di Dick – e forse dalla trasposizione
cinematografica di Blade Runner – si iniziano però a intravedere
i segnali di quella modificazione, nella visione del rapporto fra
tecnologia e potere, che sarebbe stata sviluppata dal movimento
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14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti
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cyberpunk al principio degli anni Ottanta. In un romanzo come
Neuromante di William Gisbon, non si trovano infatti i contorni di
una nuova utopia tecnologica, e non mancano neppure gli echi
dell’immaginario catastrofico degli anni Settanta, ma trapela la
convinzione che la tecnologia possa essere impugnata anche
come strumento di difesa, di resistenza, contro il dominio
pervasivo delle corporation. Come scrive Bruce Sterling,
presentando Mirrorshades, una raccolta di racconti di autori
come Gibson, Tom Maddox, Pat Cadigan, Greg Bear, l’etichetta
cyberpunk coglie «un elemento centrale nel lavoro di tutti questi
scrittori, un nuovo tipo di integrazione, la sovrapposizione di due
mondi che fino ad allora erano rimasti separati: il campo dell’high
tech, e il moderno underground della cultura pop» (B. Sterling,
Prefazione, in Mirroshades, Mondadori, Milano, 2003, p. 17; I ed.
1983). Il cyberpunk non è dunque soltanto un movimento
letterario, ma, piuttosto, rappresenta il riflesso di una
trasformazione più generale, evidente in tutti i campi, che altera
in profondità la divaricazione classica fra cultura e tecnologia.
«Tra le scienze e le attività umanistiche» - scrive ancora Sterling
- «c’è sempre stato un abisso: tra la cultura letteraria, il mondo
delle arti e della politica, da un lato, e la cultura scientifica, il
mondo dell’ingegneria e dell’industria dall’altro. Ma oggi questo
abisso tende a scomparire. La cultura tecnica è diventata
incontrollabile. I progressi delle scienze sono così radicali, così
sconvolgenti, così inquietanti, così rivoluzionari, che è diventato
impossibile contenerli entro limiti prefissati. Stanno influenzando
la cultura nel suo insieme, ci pervadono, sono dappertutto. E la
struttura del potere, le istituzioni tradizionali, hanno perso il
controllo sul ritmo di questo cambiamento. All’improvviso si è resa
riconoscibile una nuova alleanza, un’integrazione fra la
tecnologia e la controcultura degli anni Ottanta. Una non santa
alleanza fra il mondo della tecnica e quello del dissenso
organizzato, il mondo undergruound della cultura pop, della
fluidità visionaria e dell’anarchia da strada» (ibi, pp. 17-18). Nel
cyberpunk confluiscono certo le reminiscenze della mitologia dei
vecchi pionieri, impegnati questa volta nella conquista di praterie
immateriali, ma un sostrato forte a questo immaginario è fornito
dall’eredità delle ‘contro-culture’ degli anni Sessanta e Settanta,
e soprattutto da quella tensione libertaria che conduce alcuni
reduci di quelle esperienze a rivolgere la tecnologia proprio
contro le regole del ‘sistema’. In qualche misura, l’humus da cui
emerge il cyberpunk è lo stesso in cui germoglia l’estetica che
avrebbe fatto la fortuna di Steve Jobes. Perché, alla base di
questo immaginario, sta la convinzione – e forse l’illusione – che
la tecnologia non sia soltanto lo strumento nelle mani di un
potere totalitario capace di far muovere all’unisono milioni di
persone, come nelle vecchie distopie ‘fordiste’, ma anche –
potenzialmente – uno strumento di libertà, di emancipazione
individuale, di affrancamento dalla costrizione della fabbrica.
Saldandosi con le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie,
l’impeto delle vecchie contro-culture trova nuovi margini di
sviluppo. Come scrive Sterling, «la febbre della tecnologia è
sfuggita al controllo e dilaga per le strade» (ibi, p. 18), e il
cyberpunk restituisce fedelmente i tratti di questa rivoluzione.
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14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti
http://www.damianopalano.com/2012/02/il-viaggio-di-hermes-proposito-di.html 4/30
Anche in Italia l’immaginario
cyberpunk trova ben presto
cultori appassionati proprio
in alcuni eredi delle
esperienze contro-culturali,
che vedono nelle prime Bbs
un veicolo per una
comunicazione orizzontale e
per forme di informazione
capaci di squarciare la coltre
ideologica dell’«industria
culturale». Una rivista come
«Decoder» e la casa editrice
Shake divetnano
rapidamente le principali
portabandiera di un
movimento non soltanto
letterario ma anche politico, che, senza dubbio, interpreta alcune
delle inquietudini e delle utopie di una fase in cui l’informatica si
avvia a diventare un fenomeno di massa. In modo piuttosto
emblematico, il nuovo immaginario cyberpunk si trova fissato
nelle pagine di Nell’anno della Signora, un romanzo di Carlo
Formenti ambientato, per gran parte, nella Milano della fine del
XXVIII secolo dopo Cristo (Nell’anno della Signora, Shake,
Milano, 1998). Per molti versi, in quel romanzo Formenti, in
sostanziale coerenza con lo spirito del cyberpunk, rovescia il
nesso fra tecnologia e potere che alimentava le grandi distopie
degli anni Venti e Trenta, perché il regime dispotico che
immagina si basava sulla distruzione della tecnologia e sulla
repressione di qualsiasi tentativo di ripristinare le conoscenze e i
manufatti del passato. Formenti cala dunque la propria storia in
un nuovo Medioevo, innescato nel 2025 da una catastrofica
epidemia, cui segue l’edificazione di una società oscurantista.
Nella trama allestita da Formenti, infatti, una setta di fedeli adora
il corpo di una donna ibernata, che però, una volta risvegliata da
un gruppo di ribelli, consegna proprio a questi ultimi la chiave di
accesso ai segreti della tecnica del XXI secolo. In realtà, quasi
nessuno di quei misteri può essere compreso dai ribelli del 2800,
ma le «armi degli antichi» - in piena fedeltà all’impostazione
cyberpunk – servono comunque per sferrare un attacco letale
alle truppe del regime ‘tecnofobo’.
Uscito dopo una raccolta di racconti (Nove angeli neri, Il
Saggiatore, Milano, 1996), Nell’anno della signora è il primo
romanzo di Formenti, un appassionato studioso delle mutazioni
culturali e sociali connesse alla rivoluzione informatica. Se
l’incursione nel terreno della science fiction è destinata a
rimanere una parentesi, l’indagine sulle trasformazioni prosegue
invece senza battute d’arresto, e nel primo decennio del XXI
secolo Formenti pubblica infatti un’importante trilogia, inaugurata
da Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca
di Internet (Cortina, Milano, 2000), seguita da Mercanti di futuro.
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14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti
http://www.damianopalano.com/2012/02/il-viaggio-di-hermes-proposito-di.html 5/30
media (Cortina, Milano, 2008).
Benché testimonino la continuità
degli interessi di Formenti, le tre
tappe di quella trilogia
scandiscono anche il percorso di
una progressiva disillusione, in cui
delle utopie cyberpunk rimane solo
lo sguardo critico verso la società
contemporanea. Ora a quella
trilogia fa seguito un nuovo
volume, Felici e sfruttati.
Capitalismo digitale ed eclissi del
lavoro (Egea, Milano, 2011), che
per molti versi può essere
considerato anche come un bilancio – per quanto provvisorio – di
un’attività di ricerca cominciata più di trent’anni fa. Si tratta,
evidentemente, di un bilancio in larga parte anche autocritico, e
soprattutto di un bilancio da cui traspare un dichiarato
pessimismo sulla realtà della rivoluzione digitale e sulle sue
ricadute sulla vita individuale e sulle condizioni sociali. Il libro di
Formenti è, d’altronde, anche un libro fortemente polemico,
contrassegnato – come scrive l’autore stesso – da «uno stile
sarcastico, diretto, assertivo più che argomentativo, al limite del
pamphlet, tipico della polemica ideologica» (ibi, p. IX). D’altra
parte, Formenti rivendica la stessa dimensione ‘ideologica’ del
suo lavoro, anche se non intende certo l’ideologia nei termini di
una rappresentazione mistificata del reale. «Questo è un libro
esplicitamente e orgogliosamente ideologico, nel senso che è un
libro che osserva la realtà dal punto di vista della guerra fra idee,
del conflitto – altro termine tabù – fra parole, concetti e categorie
che, da un lato, rispecchiano gli interessi materiali di certi attori
sociali – una volta si chiamava ‘lotta di classe’ -, dall’altro, sono
gli strumenti della battaglia per l’egemonia culturale che si svolge
fra tali attori» (ibi, p. IX). Ma è lo stesso Formenti che chiarisce
come il nuovo capitolo della sua indagine sulla rete non si limiti
ad aggiornare la riflessione su un mondo d’altronde in costante
mutamento. Il libro – scrive infatti - «segna un’ulteriore evoluzione
in senso pessimistico del giudizio sul potenziale ‘rivoluzionario’
della rete» (ibi, p. XI), e proprio una simile evoluzione conduce
l’autore ad abbandonare molte delle speranze riposte in passato
nel possibile utilizzo in senso democratico (o ‘postdemocratico’)
delle nuove tecnologie. Non si tratta, però, di un vero e proprio
pentimento, seguito alla guarigione da una sorta di sfrenata
passione per le utopie cyberpunk. Piuttosto, Formenti ritiene che
le potenzialità per una storia differente ci fossero effettivamente,
ma che la direzione imboccata a partire dagli anni Novanta sia
stata completamente diversa da quella auspicata da almeno una
parte degli attori che hanno dato vita all’avventura della
rivoluzione digitale. Da questo punto di vista, anzi, Formenti
ritiene del tutto «sbagliato dare per scontato che quanto è
successo nell’ultimo decennio sia l’esito necessario, inevitabile
della prima fase della storia dell’economia e della cultura di
Internet», perché «la necessità storica è spesso il frutto di
costruzioni a posteriori» e perché non è davvero detto che «le
14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti
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cose non sarebbero potute andare diversamente» (ibi, p. XI).
Dinanzi al nuovo scenario delineatosi nel primo decennio del
nuovo millennio, di fronte alle conseguenze della crisi economica
globale, attardarsi ancora a rinfocolare o rimpiangere i vecchi miti
sarebbe però del tutto colpevole, prima che ancora ingenuo. E
pertanto, come scrive, volgendosi polemicamente contro una
lunga lista di bersagli: «non rinnego le speranze rivoluzionarie
nutrite in passato, mentre a chi ancora le accarezza rimprovero di
chiudere gli occhi di fronte all’ineludibile realtà dei fatti» (ibidem).
Cronologia di un’autocritica
Sebbene Formenti
tenda a sottolineare
energicamente gli
elementi della propria
auto-critica, chiunque
conosca le sue indagini
sulle trasformazioni
tecnologiche deve in
fondo riconoscere come
i contenuti della
‘revisione’ non siano poi
tanto marcati da
autorizzare l’idea di una
vera e propria
inversione teorica. A dispetto dei tre decenni trascorsi dai primi
lavori di Formenti, è infatti possibile rinvenire nel suo percorso
non solo un interesse costante per il nesso fra trasformazioni
tecnologiche, conflitti sociali e immaginari collettivi, ma anche la
continuità di una serie di problematiche di fondo che orientano la
ricerca, cui vengono fornite risposte almeno parzialmente diverse
nelle varie stagioni.
La tappa di avvio della riflessione di Formenti è costituita da un
confronto critico – seppure non ostile – con la tradizione teorica
dell’operaismo, e in particolare con quel filone ‘post-operaista’
che, a partire dalla metà degli anni Settanta, inizia a considerare
la crisi economica e la ristrutturazione delle grandi fabbriche
come il segnale di un radicale cambio di stagione, destinato a
sancire il passaggio del testimone da un vecchio a un nuovo
soggetto conflittuale: secondo la variante più schematica (ma più
popolare) di questa ipotesi, il vecchio ‘operaio massa’, prodotto
del ciclo fordista, avrebbe lasciato il posto a un nuovo ‘soggetto
centrale’, un ‘operaio sociale’, scaturito invece dalla crescente
‘socializzazione’ della produzione, ossia dall’estensione dei
reticoli produttivi al di fuori dei tradizionali luoghi di lavoro.
Naturalmente, quell’ipotesi conobbe, pur nel corso di un periodo
di tempo limitato, una serie di declinazioni piuttosto ampie, e l’eco
di quello schema teorico può essere forse rinvenuto oggi nelle
pagine di opere come Empire, Multitude e Commonwealth, oltre
che nel successo planetario delle ipotesi di Michael Hardt e
Antonio Negri. Negli anni Settanta, quell’ipotesi presuppone però
un corollario importante, che talvolta si presta anche a essere
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dilatato in termini spiccatamente ‘deterministici’. In sostanza,
secondo un’idea elaborata da Sergio Bologna a proposito del
passaggio dall’‘operaio professionale’ all’‘operaio massa’, nella
Germania dei primi decenni del Novecento, si tendeva a
distinguere fra una ‘composizione tecnica’ della forza lavoro e
una ‘composizione politica’ della classe operaia, ma questa
distinzione non si riteneva fosse valida solo dal punto di vista
analitico: in una sorta di rinnovata teoria ‘stadiologica’, la
‘composizione politica’ si prestava a essere letta come una
conseguenza – più o meno determinata, seppur non ‘automatica’
– di uno specifico assetto della ‘composizione tecnica’.
Naturalmente, neppure Bologna – che pure aveva contribuito sia
a formulare la distinzione, sia a coniare l’efficace formula ‘operaio
massa’ – sposò mai una simile visione ‘stadiologica’, e d’altronde
si può dire che il lavoro condotto negli anni Settanta dalla rivista
«Primo maggio» fosse diretto proprio a un ripensamento critico di
quel determinismo, oltre che a una ‘relativizzazione’ della stessa
centralità dell’‘operaio massa’. Nelle riflessioni più schematiche,
venate spesso da una visibile ‘ansia politica’ di giungere alla
sintesi di una realtà magmatica e frammentata, il passaggio dalla
composizione tecnica a quella politica veniva inteso invece come
una sorta di percorso obbligato: così, come la grande fabbrica
fordista, negli Stati Uniti, in Germania, in Italia, aveva prodotto
l’‘operaio massa’, così la terziarizzazione, la ristrutturazione e la
fabbrica diffusa avrebbero innescato la genesi del nuovo
‘soggetto centrale’, capace di generalizzare i conflitti, più ancora
di quanto non avessero fatto gli ‘operai produttivi’ di Mirafiori.
Per Formenti, alla fine degli anni
Settanta, questa ipotesi non
costituisce solo un bersaglio
politico-teorico da colpire, ma è
piuttosto un’ipotesi da discutere e
criticare con estrema attenzione,
considerando la realtà della
trasformazione economico-sociale
in atto. In un fascicolo della rivista
«aut aut» dedicato nel 1979 al
celebre Lavoro e capitale
monopolistico di Harry
Braverman, Formenti esamina per
esempio la classica dicotomia
marxiana di ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’ per
mostrare come le trasformazioni del tardo-capitalismo la rendano
sempre più inutilizzabile, sia sotto il profilo analitico, sia sotto il
profilo politico. Mentre Marx considerava le funzioni produttive e
quelle improduttive come momenti di cicli distinti, le trasformazioni
successive – argomenta Formenti – hanno in realtà determinato
un «intreccio inestricabile delle funzioni, sia al livello dei vari
settori che della singola impresa» (C. Formenti, Modo di
produzione e struttura di classe, in «aut aut», n. 172, 1979, p.
57). Pertanto, dinanzi alla realtà di una «forza lavoro socialmente
combinata», ha poco senso continuare a chiedersi dove finisca il
lavoro strettamente ‘produttivo’ e dove incominci quello
‘improduttivo’. E, anzi, come osserva, è possibile riconoscere in
14/9/2015 maelstrom: Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti
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molti dei nuovi lavori un riflesso dell’estensione del processo di
valorizzazione fin dentro l’area della circolazione: «È possibile
dimostrare che i processi lavorativi che sono nati dalla
oggettivazione di nuove funzioni del capitale, come il marketing,
la pubblicità, la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, la
produzione di modelli gestionali per l’impresa e più in generale
di tutto il software e la modellistica utilizzati dagli staff della
moderna impresa multi divisionale, sono in una stretta relazione
di isomorfismo con le attività cui si riferisce Marx parlando di
prolungamento del processo di valorizzazione nel processo di
circolazione del capitale» (ibi, p. 59). Benché il riferimento a
Marx possa infastidire qualche lettore contemporaneo, e possa
oggi essere considerato come un retaggio della furia ideologica
degli anni Settanta, è difficile negare come a Formenti – anche
poggiando sulle pagine dei Grundrisse – siano già chiare in
questa fase le tendenze in atto, prima ancora che inizi la stagione
aurea del Personal Computer, e tantomeno che prenda avvio la
rivoluzione di Internet. Ma – rilette trentatré anni dopo – non può
non apparire addirittura sorprendente la lucidità con cui Formenti
coglie le conseguenze innescate dall’introduzione dell’informatica
nel processo produttivo e, in particolare, nella pubblica
amministrazione, con la finalità di un avvicinamento fra i bisogni
dei cittadini e il livello di governo. «Per mettere in opera questa
contabilità dei bisogni sociali», scrive infatti Formenti, «si
propone anche qui il modello partecipativo dell’informatica
distribuita: uno scambio di informazioni fra sistemi informativi
decentrati ed una utenza ‘intelligente’ ed attiva, che contratta con
l’amministrazione i propri bisogni e gli indicatori di produttività dei
servizi che dovrebbero soddisfarli. Ma cos’è tutto questo se non
una nuova forma di scambio fra capitale e lavoro; offrendo
informazione, il potere offre in realtà codici di comportamento che
si affiancano alle merci salario e ai servizi sociali come mezzi di
definizione e di misura dei bisogni sociali; chiedendo
informazione, il potere si appropria del sapere sociale diffuso sul
territorio così come si appropria della forza produttiva del lavoro
sociale in fabbrica. Il fatto che oggetto dell’appropriazione sia qui
il sapere sociale contenuto nel lavoro riproduttivo, segna un salto
qualitativo di portata immensa del modo di produzione
capitalistico; l’estensione del controllo informatizzato dalla
fabbrica a tutto il corpo sociale, coincide col tentativo capitalistico
di organizzare direttamente l’intera giornata lavorativa sociale in
funzione del processo di valorizzazione» (ibi, pp. 66-67). A
dispetto di un lessico che, almeno in questi termini, appare
lontano da quello dei libri più recenti di Formenti, c’è già qui – ed
è quasi sbalorditivo – un’ipotesi di lettura che torna anche oggi, e
che d’altronde si presta con particolare efficacia a interpretare
persino fenomeni recentissimi come l’utilizzo per fini commerciali
dei social network, il ‘lavoro gratuito’ di blogger e navigatori della
rete, o la stessa ‘appropriazione’ del sapere prodotto dalla
sperimentazione dei software.
Benché l’analisi di Formenti non risulti divergente, almeno sotto
questo profilo, rispetto all’analisi del post-operaismo (e, per
esempio, rispetto alle ipotesi sviluppate da Christian Marazzi), dal
punto di vista delle conseguenze ‘politiche’ il discorso imbocca
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invece una direzione diversa. Nella Fine del valore d’uso, infatti,
Formenti mette in luce l’ambiguità dell’operazione compiuta dal
post-operaismo (e in particolare da un’opera come Marx oltre
Marx, dello stesso Negri), che, per un verso, critica la vecchia
distinzione fra ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’, mentre,
dall’altro, recupera proprio la centralità politica di un lavoro
produttivo i cui confini vengono dilatati fino all’intero spettro
sociale, senza prendere atto della dissoluzione del concetto
stesso di ‘lavoro produttivo’: «è qui che scatta l’ipostasi del
soggetto rivoluzionario, è qui, soprattutto, che Negri – con lui
tutta l’ideologia tardo-operaista – non riesce ad andare
veramente ‘oltre Marx’, e a Marx ritorna, assumendo ancora e
nuovamente il processo di costituzione del soggetto rivoluzionario
come prodotto della missione civilizzatrice del capitale, del più
elevato livello di sviluppo delle forze produttive» (C. Formenti, La
fine del valore. Riproduzione, informazione, controllo, Feltrinelli,
Milano, 1980, p. 56). E la conseguenza, in termini politici, non
può che essere una reintroduzione, in forma solo parzialmente
mutata, della subordinazione dei diversi momenti soggettivi a una
funzione di avanguardia determinata dal carattere ‘produttivo’ del
lavoro, perché, «se ‘oltre Marx’ si cerca e si trova solo Marx,
dev’essere liquidata ogni apertura ai discorsi che si occupano
della pluralità concreta dei soggetti antagonistici» (ibidem). In
altre parole, sebbene Formenti concordi con la lettura post-
operaista della ‘sussunzione’ della circolazione dentro un circuito
produttivo sempre più esteso a livello sociale, ritiene che una
risposta politica non possa che prendere commiato
definitivamente da ogni ipotesi di ‘nuova’ centralità, su cui
innestare un ruolo di direzione della trasformazione. All’opposto,
si tratta – ai suoi occhi – di riconoscere l’irriducibile parzialità
delle posizioni soggettive, e dunque della pluralità dei punti di
emergenza delle parzialità.
Forse, nel passaggio fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, le
implicazioni di questa operazione teorica non sono ancora
interamente chiare a Formenti, o, quantomeno, non assumono
ancora il rilievo che presentano due testi successivi, come
Immagini del vuoto e, soprattutto, Prometeo e Hermes, in cui si
rivela interamente l’opzione di un definitivo abbandono di ogni
prospettiva escatologica. Nel clima plumbeo degli anni Ottanta,
Formenti, metabolizzando il ripiegamento del dibattito
intellettuale, ma anche registrando i nuovi accenti del movimento
ecologista, non rinuncia a ragionare sulle trasformazioni del
capitalismo. In questo caso, però, la riflessione si sposta
decisamente sulla critica indirizzata a ogni fascinazione del
conflitto, e dunque sul tentativo di pensare l’affermazione del
conflitto in termini che rifiutino ogni opzione di contrapposizione:
«bisogna sfuggire alla fascinazione dell’antagonismo» - scrive
per esempio, anticipando peraltro un tema simile a quello che, di
lì a poco, Paolo Virno avrebbe sviluppato ricorrendo all’immagine
classica dell’‘esodo’ – «impedire che i recinti del partito e
dell’esercito racchiudano le dinamiche del movimento,
spingendole inesorabilmente verso lo stato finale dell’istituzione
sacrificale» (C. Formenti, Prometeo e Hermes, Liguori, Napoli, p.
133). Il riferimento esplicito è – ovviamente – al tragico epilogo
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italiano degli anni Settanta, perché, nonostante Formenti
riconosca il valore delle intuizioni di quel periodo (e, in
particolare, le intuizioni proprio del post-operaismo), non ne
nasconde tutti i limiti sul piano dell’immaginazione. «Serviva
un’enorme immaginazione sociale per continuare a leggere la
trama di queste traiettorie sotto la superficie della comunicazione
omologata, per riconoscere l’autonomia dei soggetti e la loro
capacità di parassitare i processi di mercificazione,
smaterializzazione e informatizzazione messi in atto dalla
ristrutturazione capitalistica. Servivano una grande
immaginazione e una grande umiltà politiche per rispondere alla
domanda che veniva dai nuovi soggetti: tradurre l’autonomia
sociale in forme conflittuali alternative all’opposizione amico-
nemico, conservare ed ampliare la nuova complessità del
conflitto sociale, evitandone la neutralizzazione da parte dei
meccanismi di guerra» (ibi, p. 140). La realtà era però andata in
una direzione diversa, la logica della dialettica, dell’antagonismo,
della contrapposizione bipolare, aveva avuto la meglio,
dissipando un patrimonio di intuizioni e lasciando senza risposta
la domanda sulla forma in cui pensare la politica dei nuovi
movimenti. La figura di Hermes, contrapposta a quella di
Prometeo, disarmata dinanzi a un progresso tecnico fondato sulla
macchina e (ancor più) sul codice, diviene così il simbolo di «un
sapere furtivo e astuto, pronto ad arraffare le occasioni di un
mondo in cui crescono disordine e casualità»: «Sapere di un
soggetto che non pretende più di conoscere né di dominare la
realtà, che non si definisce in opposizione a un’oggettualità
inanimata e inerte. Identità che si pone come scarto, piccola
differenza che abita le pieghe di una complessità indeterminata;
sapere del locale, dell’aleatorio, del discontinuo, sempre in bilico
sull’abisso del senza-senso, ma proprio per questo capace di
generare nuovi universi di senso, di convertire il disordine in
ordine, l’improbabile in probabile, sfruttando piccole crepe
nell’uniformità del vuoto» (ibi, p. 159).
Prometeo e Hermes e Immagini del
vuoto rappresentano per molti versi
una tappa intermedia nel percorso di
Formenti, perché, per un verso, si
richiamano (anche criticamente) alla
precedente riflessione sul ruolo delle
tecnologie e dell’informatica nella
trasformazione capitalistica, mentre,
per un altro, tendono a imboccare
una nuova direzione, proiettandosi
prevalentemente verso l’immaginario
e le forme culturali della transizione in
atto. Nel successivo Piccole apocalissi. Tracce della divinità
nell’ateismo contemporaneo (Cortina, Milano, 1991), la polemica
contro il post-operaismo si diluisce in un discorso più complesso,
il cui oggetto principale è invece l’immaginario delle tecno-
scienze. In dissenso con le componenti del movimento ecologista
più critiche nei confronti delle nuove tecnologie, Formenti
esamina piuttosto, in parallelo, il pensiero ecologista e
l’immaginario delle tecno-scienze, per portarne alla luce gli
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elementi comuni. Ancora una volta, Formenti ritorna a Hermes, e
– con una scelta che assegna alla metafora il potere
dell’evocazione, se non quello dell’esplicitazione – proprio nella
figura del messaggero mitologico scorge il terreno per una
congiunzione fra i nuovi movimenti e le potenzialità della tecnica:
«L’angelo eterno ed ubiquo è un essere invisibile, minuscolo,
privo di ogni potere di influire sul libero gioco della materia e del
caso. Eppure la sua potenza è smisurata, perché egli è colui che
custodisce il passato e che coltiva il futuro, è colui che anticipa le
miracolose epifanie del virtuale, che sa, un attimo prima che ciò
si realizzi, che una possibilità sta per trasformarsi in atto. Un
tempo l’angelo aveva un nome: i greci lo chiamavano Hermes.
Oggi noi non sappiamo più come chiamarlo. Ma forse è meglio
così: colui che è senza nome e senza volto può assumere tutti i
volti e tutti i nomi della divinità. È questo è l’aspetto più adeguato
per un angelo che debba convivere con la modernità. L’angelo
ha indossato la maschera del viaggiatore, di un’entità vaga e
inafferrabile, che quasi scompare per risolversi nel suo eterno
movimento. Così travestito, ambiguo e proteiforme, egli
attraversa il nostro tempo continuando a osservare e ad
aspettare. L’angelo aspetta che si realizzi il miracolo più grande:
aspetta che gli uomini – o le forme di vita che prenderanno il loro
posto – riescano nuovamente ad avvertire il soffio impalpabile
della sua presenza, e che tornino a trovare nomi e immagini per
la divinità che non cessa di chiamarli da un futuro imprecisato»
(ibi, pp. 192-193).
L’interesse per l’immaginario tecno-scientifico, per le forme di
religiosità e lo gnosticismo, accompagna Formenti anche nelle
sue esplorazioni nel territorio della science fiction, ma, per molti
versi, viene sensibilmente ridimensionato nella successiva
stagione di ricerca, che si apre proprio sulla soglia del XXI secolo
e che risulta concentrata – in modo più esplicito che in passato –
proprio sugli immaginari delle nuove tecnologie. Con Incantati
dalla rete, il primo tassello della sua importante trilogia, Formenti
si confronta infatti proprio con gli immaginari della rete: sia con gli
entusiasmi che celebrano Internet come il territorio in cui è
possibile trovare un nuovo continente di libertà e uguaglianza, sia
con le visioni che invece demonizzano la rivoluzione tecnologica
come un semplice strumento di estensione del dominio. In questa
nuova prospettiva, l’ipotesi di alleanza formulata in Piccole
apocalissi risulta un’approssimazione ancora insufficiente, ma
Formenti non la abbandona totalmente. Perché, in effetti, ritiene
che effettivamente Internet abbia addirittura dilatato «il potenziale
escatologico (e di riflesso il ruolo apocalittico) che le nuove
tecnologie svolgono nell’immaginario collettivo della tarda
modernità» (C. Formenti, Incantati dalla rete. Immaginari, utopie
e conflitti nell’epoca di Internet, Cortina, Milano, 2000, p. 14).
L’ambiguità che Formenti ritrova nell’immaginario della
rivoluzione digitale ha anche un risvolto politico, nel senso che
l’ambiguità costitutiva delle tecno-scienze, così come l’ambiguità
delle potenzialità offerte dalla new economy, sembra indicare il
terreno per una sorta di alleanza, o quantomeno di un utilizzo
delle nuove tecnologie da parte dei soggetti che ne sono investiti
direttamente. Per esempio, i lavoratori della conoscenza, come
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scrive Formenti, «possono associare nuovi modelli produttivi
fondati sulla comunicazione al rischio di subire processi di
‘proletarizzazione’ e, al tempo stesso, a un’effettiva chance di
allargamento dei propri margini di creatività e autonomia», mentre
«la transizione al postfordismo […] è interpretabile tanto in termini
di ristrutturazione selvaggia quanto in termini di ‘liberismo’ dal
basso, di lotta per emancipare il lavoro dalla disciplina di
fabbrica» (ibi, p. 15). L’ambiguità appare allora a Formenti non
come un ostacolo da superare, bensì come una condizione in cui
si determinano una serie di possibilità contraddittorie.
Sviluppando in modo coerente il percorso imboccato negli anni
Settanta, riconosce dunque le nuove tecnologie come il terreno
in cui maturano – o possono maturare – relazioni conflittuali, ma
rifiuta sia uno schema interpretativo pessimista, sia uno schema
determinista. In altre parole, come gli scrittori cyberpunk,
individua nella trasformazione della vita e dell’immaginario
prodotta da Internet potenzialità ambivalenti, oltre che persino
l’ipotesi di una sorta di riappropriazione della tecnologia ‘dal
basso’. E, su queste basi, formula la tesi con cui forse si avvicina
di più al versante degli ‘ottimisti’, che diventeranno poi un
bersaglio polemico dei successivi lavori di Formenti. A proposito
della ‘sussunzione’ di ogni differenza nel processo produttivo,
scrive per esempio: «ciò significa che anche le differenze entrano
in rete con tutto il loro potenziale idiosincrasico. Nessun
significato, nemmeno quello del comando capitalistico, appare
perciò garantito a priori. Non esiste la rete, ma esistono le reti, e
se il discorso sulla complessità può servire da paravento
ideologico della new economy, la complessità reale appare
irriducibile a ogni proiezione ideologica. Una volta messa in moto,
la macchina del desiderio diviene assai difficile da governare. E
non solo da parte del capitale: i ‘movimenti’ del futuro
ignoreranno le chiacchiere sul nuovo soggetto; se mai troveranno
un’‘ideologia’ comune, questa non sarà troppo diversa da una
qualche forma di sincretismo antagonista; e se mai si doteranno
di strutture organizzate, queste non saranno troppo diverse da
federazioni di differenze da costruire di volta in volta, su obiettivi
contingenti» (ibi, pp. 16-17).
Sebbene in questo libro Formenti
sembri accostarsi alle posizioni degli
‘entusiasti’ della rete, la sua posizione
in realtà non si spinge mai verso
un’ingenua celebrazione delle nuove
tecnologie. Ma, senza dubbio, la sua
lettura cyberpunk delle potenzialità
della rete tende ad alimentare sia la
critica delle visioni neo-marxiste della
trasformazione capitalistica, sia
l’abbandono di qualsiasi immagine del
conflitto vagamente imparentata con
la mitologia novecentesca. Sotto
questo profilo, in fondo, la posizione
non cambia rispetto a Prometeo e Hermes, ma in Incantati dalla
rete il discorso si volge esplicitamente contro le letture del
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‘postfordismo’ influenzate dal neo-marxismo (più che strettamente
neo-marxiste). Sebbene, per esempio, Formenti rintracci elementi
importanti nella lettura proposta da un vecchio patriarca dell’eco-
socialismo come André Gorz, o nella riflessione sulla ‘svolta
linguistica’ dell’economia condotta da Marazzi, o nelle ricerche
sul ‘lavoro autonomo di seconda generazione’ condotte da Sergio
Bologna e Andrea Fumagalli, non nasconde una serie di forti
riserve, teoriche ma ovviamente anche politiche. Queste riserve –
evidenti soprattutto a proposito di alcuni degli autori citati – sono
dettate principalmente dall’ombra di un ‘nuovo soggetto’, cui
viene imputata la capacità di svolgere una funzione di
‘avanguardia’ politica, in base alla propria collocazione nel
‘centro’ della nuova economia. Ma questo discorso a Formenti
non può che apparire debole, prima ancora politicamente che
sotto il profilo teorico. Sviluppando quelle medesime ipotesi già al
centro delle riflessioni della fine degli anni Settanta, Formenti non
può non tornare a sottolineare come, dinanzi alla crescente
fusione di ‘lavoro’ e ‘vita’, la distinzione fra lavoro produttivo e
lavoro improduttivo sia del tutto inservibile. Al tempo stesso, a
differenza dei neo-marxisti, Formenti evidenzia anche come la
trasformazione economica e l’invasione della vita da parte del
lavoro non siano interpretabili nei termini marxiani della
‘sussunzione reale’ (ossia, come la fase in cui il capitale,
secondo Marx, si impossessa interamente della tecnica e della
scienza per rivoluzionare completamente il processo lavorativo),
ma possano piuttosto essere intese come riflessi di una sorta di
‘sussunzione formale’ (in cui il capitale si appropria delle forme
tradizionali di lavoro, senza però operare una completa
riorganizzazione delle funzioni e dei compiti). Questo punto non è
ovviamente secondario, perché è proprio in questo scarto fra
sussunzione reale e formale che Formenti può collocare il
margine di ambiguità della new economy. Come scrive infatti in
un passaggio teoricamente importante: «Ma perché parlare di
sussunzione reale? Non ci troviamo piuttosto di fronte a un
processo di sussunzione formale, nel senso che la logica del
mercato capitalistico ‘si sovrappone’ alla prassi comunicativa
sociale lasciandole una certa autonomia? Evidente che, in un
certo senso, i due processi convivono. Il punto di vista
neomarxista tende tuttavia ad accentuare l’elemento di
sussunzione reale, in quanto ciò consente di evidenziare
l’aspetto conflittuale del processo» (ibi, p. 243). L’idea della
‘sussunzione reale’, in sostanza, appare rischiosa a Formenti per
almeno due motivi: innanzitutto, perché tende a rappresentare la
trasformazione capitalistica come un processo che è riuscito
effettivamente a ‘inghiottire’ l’intero mondo esterno, i territori, le
dimensioni private della vita individuale, persino il corpo, e il
risultato inevitabile è che, in questo modo, diventa molto difficile
pensare a un fuori che si contrapponga conflittualmente a questo
ordine ‘totalitario’. Così, i neo-marxisti, pur dipingendo uno
scenario negativo, finiscono di fatto col recepire – pur con segno
mutato – le rappresentazioni più celebrative della new economy.
Ma il secondo risultato è ancora più negativo: dal momento che il
fuori non esiste più, l’unico modo per pensare il conflitto torna ad
essere quello del ‘nuovo soggetto’: un soggetto che può
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diventare un’avanguardia – sociale, politica – grazie alla propria
collocazione nel ‘centro’ della produzione immateriale. A tornare
sulla scena, in sostanza, è di nuovo la figura novecentesca di
Prometeo, che scaccia quella di Hermes, dipinto ancora una
volta con i toni ambigui della ‘conservazione’, della ‘nostalgia’,
della ‘reazione’. E indicative di questa prospettiva sono le stesse
letture che vengono fornite della rivolta di Seattle del dicembre
1999. Se la contestazione del vertice del Wto è il risultato di una
sorta di postmoderna ‘armata Brancaleone' (composta da
ecologisti e sindacati operai, da agricoltori e adepti della New
Age, da nuovi anarchici e vecchi hippy), le interpretazioni neo-
marxiste – secondo la critica di Formenti – tendono a ricondurre
la rivolta (o quantomeno le sue potenzialità) esclusivamente alla
contrapposizione tra capitale e lavoro, e in particolare alla nuova
‘composizione di classe’, emersa dalla trasformazione
postfordista. «La qualifica di avanguardie, o nuovo soggetto» -
scriveva – «spetta insomma esclusivamente al cognitariato –
neologismo che nobilita con echi marxiani il concetto di lavoratori
della conoscenza –, vale a dire la ‘classe virtuale’: tecnici,
scienziati, intellettuali, informatici, ricercatori, ecc. Una volta
assunto tale punto di vista, non ha più molta importanza stabilire
se questa avanguardia costituisse una percentuale significativa
di coloro che hanno partecipato all’evento reale. Ciò che conta,
infatti, è la ricomposizione cognitiva prima ancora che la
ricomposizione sociale del lavoro (che, per definizione, è ormai
solo lavoro immateriale)» (ibi, p. 265). E, proprio nelle ultime
pagine, ripropone, dinanzi alle nuove formulazioni, la convinzione
già al cuore della Fine del valore d’uso, ma ne estende
ulteriormente la portata, perché in questo caso a essere
attaccata frontalmente da Formenti è la stessa nozione di
composizione di classe, considerata come ormai del tutto inutile
per leggere davvero dentro il ‘segreto laboratorio della
produzione’: «se negli anni ’70 si è cercato di trascinare Marx
oltre Marx, oggi sembra più arduo trascinare Marx oltre Ford. Non
perché le categorie marxiane non siano più in grado di descrivere
le dinamiche del tardo capitalismo – come si è visto, funzionano
egregiamente, coi dovuti aggiustamenti -, ma perché il livello di
unificazione del ‘soggetto di classe’ raggiunto nel corso del ciclo
di lotte contro il fordismo è un fenomeno irripetibile. Nel mondo
che viene, il concetto di ‘composizione di classe’ difficilmente
potrà assumere senso diverso da quello d’una metafora che
rinvia alla memoria storica dei movimenti» (ibi, p. 273).
In fondo, la polemica di Formenti contro le ipotesi sul ‘lavoro
immateriale’ costituisce il coerente sviluppo della critica della
nozione di ‘operaio sociale’ formulata vent’anni prima, mentre
l’attacco all’immagine del cognitariato come nuova ‘classe
virtuale’, perno della ricomposizione cognitiva, rappresenta la
logica prosecuzione della celebrazione di Hermes contro
Prometeo, ossia del tentativo di pensare il conflitto «oltre
l’antagonismo». A dispetto di questi elementi, che legano
saldamente le diverse tappe del percorso di Formenti, c’è però
un tratto nuovo in Incantati dalla rete: un tratto che,
probabilmente, deriva dalla convinzione di poter trasformare le
suggestioni cyberpunk nel brogliaccio di una sorta di ‘programma
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politico’ per il nuovo millennio. Ed è significativo, da questo punto
di vista, che Formenti, per formulare i primi frammenti di
un’ipotesi, ricorra alle pagine di un eclettico e indefinibile scrittore
anarchico, celato sotto lo pseudonimo di Hakim Bey e noto in
Italia per il suo provocatorio opuscolo Taz, pubblicato in Italia
proprio dall’editrice Shake. Perché, secondo Formenti, il modo di
rappresentare il conflitto deve passare non ‘dentro’ il mondo della
produzione e della circolazione di merci, bensì ‘oltre’ quel mondo,
e cioè da «ciò che resta fuori»; e, soprattutto, perché non si tratta
di ‘prendere qualcosa’, ma solo di «difendere ‘la vita e
l’immaginazione’ rimasti qui, nel mondo reale» (ibi, p. 267).
Benché non scivoli certo nell’enfasi apocalittica, di cui gli ‘anni
ruggenti’ della globalizzazione alimentano una copiosa rinascita,
Formenti riconosce così il profilo di un possibile «sincretismo
antagonista», all’interno del quale possano trovare un terreno
comune le pluralità di contrapposizioni all’unità globale. Un
sincretismo che viene fissato nella metafora della «moltitudine»,
ma non della moltitudine di cui avrebbero scritto Hardt e Negri, e
neppure della moltitudine di Virno, bensì in quell’aggregato
informe, magmatico, proteiforme che Aldo Bonomi riconosce nelle
nuove figure del lavoro degli anni Novanta (cfr. per esempio A.
Bonomi, Il trionfo della moltitudine. Forme e conflitti della
società che viene, Bollati Boringhieri, Torino, 1996). E,
soprattutto, un sincretismo che risulta dalla combinazione delle
«strategie di resistenza del corpo, delle comunità locali e del
territorio alla sussunzione da parte delle reti globali» (ibi, p. 280).
Solo due anni dopo la pubblicazione di Incantati dalla rete,
Formenti è costretto a una prima significativa diversione, non
tanto rispetto alla direzione della propria lettura delle
trasformazioni produttive, quanto rispetto alla prospettiva di
conquista di densità ‘politica’ da parte dell’ipotesi del nuovo
«sincretismo». La crisi della new economy, scoppiata proprio
all’alba del nuovo secolo, induce infatti Formenti a prendere atto
che, almeno in parte, le condizioni degli anni Novanta, in cui
erano maturati l’immaginario cyberpunk e la stessa ipotesi
‘sincretista’, sono mutate. La crisi e l’irrompere sulla scena della
violenza, dopo l’11 settembre 2001, segnano secondo Formenti
una svolta ‘politica’, «che vede lo stato americano e una parte
delle corporation high tech alleati contro il ‘blocco sociale’
protagonista delle trasformazioni rivoluzionarie del decennio
precedente» (C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della
Net Economy, Einaudi, Torino, 2002, p. VII). In altre parole, se la
rivoluzione digitale è stata il prodotto di una combinazione di
attori sociali e culturali estremamente eterogenei, che hanno
convissuto per due decenni gli uni accanto agli altri, la crisi
segna la fine di quell’alleanza e l’avvio di una controffensiva volta
a ‘normalizzare’ il mondo della rete. Quando esamina il panorama
variegato del blocco sociale che, negli Stati Uniti, ha dato vita
alla new economy, Formenti non lo fa con l’intento di pronunciare
un requiem per un mondo ormai destinato alla scomparsa, ma
ritiene piuttosto che proprio dai semi di quell’immaginario
magmatico possano nascere nuovi frutti, questa volta dalla parte
opposta dell’Atlantico. Con questo obiettivo, Formenti deve però
iniziare ad articolare un discorso in parte diverso rispetto a quello
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di Incantati dalla rete, perché si trova a dover pensare
effettivamente il conflitto, ossia a pensare come si possa formare
un nuovo ‘blocco sociale’, capace di fronteggiare l’offensiva. E,
per farlo, torna ancora una volta a guardare a quegli schemi
post-operaisti, con cui intrattiene da più di tre decenni un
costante rapporto di dialogo critico. In questo senso, Formenti
non può infatti evitare di confrontarsi con le tesi di Empire, che,
per un verso, riprendono le vecchie ipotesi degli anni Settanta,
mentre, per un altro, le ricollocano in una sorta di neue
Darstellung, ossia al livello di quella struttura imperiale le cui basi
materiali sono date da un mercato che ha ormai steso le proprie
reti su tutto il pianeta. Se Hardt e Negri abbandonano la
distinzione fra ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’, non per
questo emendano effettivamente gli errori della vecchia
riflessione post-operaista, perché – grazie all’utilizzo della
nozione di ‘lavoro astratto’ – finiscono col ridurre mutamenti
culturali complessi alla semplice dimensione economica, e col
concepire tutte le nuove relazioni sociali che trovano spazio nella
rete a momenti di un ciclo produttivo. Ancora una volta –
argomenta Formenti nella propria critica – lo schema della
sussunzione reale produce il risultato di occultare tutto ciò che, in
realtà, rimane fuori: «le attività in questione – riproduzione e cura,
chiacchiere, relazioni quotidiane, gioco, divertimento, esperienze
emotive, creazione artistica, ecc. – non vengono unificate dal
modo di produzione, come avveniva con le vecchie attività
professionali omologate dalla catena di montaggio fordista, al
contrario: esse sono tanto più funzionali al nuovo modo di
produrre quanto più conservano le loro differenze. Per tacere del
fatto che, in molti casi, i processi di decentramento produttivo
favoriscono addirittura il ritorno di modelli produttivi e relazionali
sociali di tipo capitalistico» (ibi, pp. 233-234). Naturalmente,
Empire non si limita a riprendere lo schema della ‘sussunzione
reale’, perché, in effetti, provvede anche a ricalibrarlo grazie
all’adozione di una nozione foucaltiana, o, meglio, all’idea del
«biopotere», che trova le sue origini nel pensiero del filosofo
francese, ma che Hardt e Negri ridefiniscono sostanzialmente.
L’esito di questa operazione non ne muta comunque il significato
di fondo, e per questo Formenti può tornare a ribadire i motivi
della propria critica: «alla fine di tutti questi giochi di prestigio,
condotti a colpi di astrazioni teoriche, ci ritroviamo orfani di
qualsiasi soggetto concreto in grado di opporre resistenza alla
colonizzazione capitalistica delle relazioni sociali. Il variegato,
idiosincratico, riottoso, combattivo universo di individui, comunità,
culture, strati professionali, movimenti, ecc. […] sembra svanire
di colpo, sostituito da una massa indifferenziata di lavoratori
intellettuali subordinati al capitale, peggio, sostituito da una
massa di individui astratti la cui stessa soggettività appare come
un prodotto del biopotere capitalista» (ibi, p. 236). Ma la distanza
critica da Empire non può investire anche l’immagine della
moltitudine, anche perché – come si è visto – Formenti in
Incantati dalla rete aveva adottato proprio questa nozione per
rappresentare in termini metaforici il magma del ‘sincretismo
possibile’. Coerentemente, Formenti non può che rigettare la
visione di Hardt e Negri anche sotto questo profilo, perché la
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moltitudine di cui delineano i contorni i due autori di Empire
risulta «di volta in volta astratto contenitore concettuale e/o come
coacervo di singolarità individuali, per cui appare condannata a
restare priva di contenuti, e ad assumere senso politico solo se
giustapposta all’idea, non meno vuota e astratta, di Impero» (ibi,
p. 255). Invece che a una figura così evanescente come quella di
«moltitudine», Formenti si volge a un’«analisi concreta di
soggetti e pratiche: da un lato, blocco sociale della Net Economy
come convergenza fra movimenti di emancipazione individuale
(recupero del liberalismo) e nuove forme di solidarietà e
cooperazione (recupero del comunitarismo), dall’altro possibili
alleanze di tale blocco con le resistenze locali ai processi di
globalizzazione» (ibi, pp. 255-256).
Quando disegna la sagoma di questa
alleanza, Formenti pensa
probabilmente a quell’articolato fronte
di soggetti che ha preso consistenza
dopo il vertice di Seattle, che è stato
protagonista della contestazione del G8
di Genova, e che sembra – mentre
Mercanti di futuro viene licenziato –
possa definire ulteriormente il proprio
profilo nel corso delle mobilitazioni
pacifiste. Per molti versi, le
drammatiche giornate genovesi del
luglio 2001 non sanciscono invece il
battesimo del fuoco per un nuovo
movimento, ma di fatto costituiscono il culmine di una parabola
destinata a declinare nei mesi seguenti, senza trovare un
effettivo radicamento e un reale potere di incidere, non solo a
livello politico. Se quell’incerto ‘movimento dei movimenti’ riesce a
fornire solo una pallida rappresentazione di quello che poteva
essere – per usare le parole di Formenti – un nuovo ‘sincretismo’,
il suo principale fallimento consiste nel non riuscire a trovare un
collegamento con il mondo del lavoro e con la realtà di una
condizione giovanile destinata a rivelarsi sempre più come
dominata dalla dimensione della precarietà. Il rapido mutamento
dello scenario politico e la maturazione di quella crisi economica
globale che esploderà fra il 2007 e il 2008 inducono anche
Formenti a un graduale ripensamento, che, a poco a poco,
dissolve ogni residua traccia di quel (misurato) ottimismo sulle
potenzialità di un controllo ‘dal basso’ della rivoluzione digitale. Il
primo passo è costituito da una serie di interventi apparsi fra il
2003 e il 2006, e poi raccolti nel volume Se questa è democrazia.
Paradossi politico-culturali dell’era digitale (Manni, Lecce,
2009), in cui Formenti inizia a prendere le distanze dall’ipotesi
che le nuove tecnologie possano dar vita a forme di
rappresentanza politica ‘post-democratica’. Ma il secondo passo
– ancora più radicale – è compiuto con Cybersoviet. Utopie
postdemocratiche e nuovi media (Cortina, Milano, 2008), un libro
che può essere forse interpretato come una sorta di
riavvicinamento di Formenti alle sue originarie matrici teoriche,
che troverà peraltro un’ulteriore conferma in Felici e sfruttati.
Nelle pagine introduttive di Cybersoviet, Formenti torna infatti
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sulle ipotesi conclusive di Mercanti di futuro per prendere atto
del fallimento del blocco sociale cui aveva affidato la causa di un
rinnovamento delle istanze critiche della rivoluzione digitale: «la
Net Economy è sì rinata dalle ceneri della crisi, ma ciò non ha
favorito la ricomposizione del blocco sociale su cui si era fondata
la sua prima fase; al contrario, da un lato, l’alleanza fra
knowledge workers e imprenditoria di Internet (che nel frattempo
ha visto colossi emergenti come Google sostituire la galassia
delle startups nel ruolo di protagonisti) si è definitivamente rotta,
dall’altro lato, il processo di commercializzazione/normalizzazione
di Internet (pilotato dalla nuova alleanza fra governi e
corporation) è proseguito a ritmo accelerato, riducendo
drasticamente gli spazi di democrazia partecipativa» (ibi, p. X).
La presa d’atto di una simile sconfitta segna evidentemente un
punto di svolta, che non coinvolge solo la visione delle
trasformazioni o le possibilità di far rivivere il vecchio
consiliarismo nei nuovi cybersoviet, ma anche il modo stesso di
raffigurare il ‘blocco sociale’, il nuovo ‘sincretismo’. E, sotto
questo profilo, sono molto significative le frasi – interlocutorie,
problematiche – con cui si chiude il volume: «È arrivato il
momento di decretare la fine di quella breve, convulsa e
appassionante stagione che, dall’inizio degli anni Ottanta a oggi,
sembrava aver aperto una ‘finestra’ per trasformare la rivoluzione
tecnologica in rivoluzione sociale, culturale e politica? Forse non
ancora, ma la possibilità che nuovi orizzonti di speranza si
dischiudano a breve-medio termine dipende dal realizzarsi di due
condizioni che, allo stato dei fatti, appaiono alquanto improbabili.
La prima condizione è che i lavoratori della conoscenza
sviluppino una qualche consapevolezza dei propri ‘interessi di
classe’, nonché della necessità di allearsi con le masse dei
lavoratori del terziario ‘arretrato’ e con quanto resta della classe
operaia ‘tradizionale’. La seconda condizione è che l’egemonia
della cultura neoliberale e neoliberista non resti schiacciante e
incontrastata. In assenza di tali condizioni, sarà assai difficile
ottenere risultati sul fronte della lotta per la ‘costituzionalizazione’
dei diritti e dei doveri dei cittadini della rete; e sarà ancora più
difficile contrastare le ragioni della sicurezza e del controllo, e il
rischio che tanto la sfera pubblica quanto la sfera privata
vengano riassorbite nella sfera della produzione e dello scambio.
Allo stato dei fatti, purtroppo, le culture della Rete non sembrano
avere la minima consapevolezza di tale rischio; al contrario, si
rafforza continuamente la diffidenza nei confronti di qualsiasi tipo
di ‘ingerenza politica’ (anche se non governativa) negli affari di
Internet. Ma restare fedeli al mito anarcoliberista – in un momento
in cui il potere si concentra sempre più nelle mani dei giganti
della Net Economy che cavalcano le tecnologie del Web 2.0 –
significa consegnare ciò che resta della rivoluzione nelle mani del
mercato» (ibi, pp. 272-273).
Il ritorno degli spettri
Se le pagine di Cybersoviet risultano già impregnate di un certo
fastidio nei confronti delle celebrazioni del potenziale democratico
del web, ormai del tutto superate da una sostanziale
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‘normalizzazione’, i toni polemici
diventano ancora più forti – e
pressoché onnipresenti – in Felici e
sfruttati. Ma sarebbe sbagliato
considerare il ‘ripensamento’ di
Formenti solo come il riflesso
intellettuale del moto pendolare della
storia, per cui siamo destinati ogni
volta a riscoprire ciò che in fondo era
già noto alle generazioni che ci hanno
preceduto, che abbiamo preferito – o
dovuto – dimenticare. In Felici e
sfruttati non è infatti difficile ritrovare il
filo che Formenti ha continuato ad
assolvere dentro il labirinto degli anni Ottanta e Novanta, dentro
le illusioni e le speranze talvolta contraddittorie di quei decenni, e
forse non è neppure così faticoso riconoscere oggi, in
quell’intero, tortuoso percorso, l’ostinata ricerca di un modo
nuovo di pensare, rappresentare, incarnare i conflitti della società
‘postmoderna’. Da questo punto di vista, non può passare
inosservato come nelle prime pagine di Felici e sfruttati tornino
ancora ad affiorare il volto severo di Menenio Agrippa e lo spettro
della plebe ritirata sull’Aventino, che già si erano affacciati in
Prometeo e Hermes. Se la grande narrazione della fine delle
‘grandi narrazioni’ aveva infatti sostenuto che l’ingresso nella
‘società postmoderna’ aveva definitivamente espulso dalla scena
della storia (o della ‘fine della Storia’) l’eterna contrapposizione
fra i ricchi e i poveri, la realtà del nuovo millennio ha mostrato
come la coltre di quella suggestiva rappresentazione fosse
estremamente fragile, tanto da apparire oggi persino
inconsistente. «Nel primo decennio del XXI secolo» - scrive infatti
Formenti, abbandonando le cautele del paludato bon ton
accademico - «due catastrofiche crisi finanziarie – prima
l’esplosione della bolla dei titoli tecnologici del 2000, poi la frana
dei subprime iniziata nel 2008 e tuttora in atto – sembrano poter
fare piazza pulita di questa paccottiglia ideologica. In barba alle
prediche dei nuovi Agrippa, la cruda realtà del conflitto sociale
torna a mostrare il proprio volto. La forbice fra ricchi e poveri si
apre oltre ogni limite di decenza (al confronto, la distribuzione
totale delle risorse in base al principio paretiano dell’80/20
sembra un paradiso egualitario); la classe media viene
schiacciata e colpita duramente, a partire da quei knowledge
workers che erano stati indicati come le élite del futuro; la New
Economy si riorganizza attorno a un pugno di imprese giganti,
tagliando fuori dal mercato le start-up, la ‘leggerezza’ dei bit si
dimostra fin troppo volatile, dissolvendosi assieme ai miliardi di
dollari bruciati dalle borse impazzite e alle stock options che
avrebbero dovuto rimpiazzare i salari, trasformando tutti in
imprenditori e rentier; lo smantellamento del welfare e le riforme
del mercato del lavoro, realizzati con la benedizione delle
socialdemocrazie occidentali, trascinano nella povertà milioni di
persone, rimaste senza occupazione o costrette ad accettare
lavori dequalificati e mal retribuiti e a sprofondare nel precariato;
e via elencando, in una progressione infernale che avrebbe
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dovuto tappare la bocca ai teorici del win win (tutti vincono),
versione postmoderna dell’apologo di Agrippa, in base alla quale
il mostruoso arricchimento dei manager della New Economy
consentirebbe anche a tutti gli altri di migliorare le proprie
condizioni di vita» (ibi, p. 8).
A dispetto di un simile scenario, gli elementi di auto-critica
rispetto alle illusioni degli anni Ottanta e Novanta sembrano del
tutto evanescenti, tanto che – come è d’altronde evidente anche
per il più distratto osservatore del dibattito politico italiano ed
europeo – le ricette per rispondere alla crisi non cessano di
reiterare in modo ossessivo le convinzioni di due decenni fa,
dall’elogio più sperticato dell’‘uomo flessibile’, fino alla coriacea
fiducia riposta nelle virtù della ‘mano invisibile’. Così, nella prima
parte di Felici e sfruttati, vengono passate criticamene in
rassegna le nuove utopie ‘digitalsocialiste’, risorte dopo la crisi
del 2000, le riflessioni di autori come Kervin Kelly, Jeremy Rifkin,
Yochai Benkler, Manuel Castells, ma anche di autori come Enzo
Rullani e Aldo Bonomi. Ad accomunare tutte queste posizioni,
peraltro fra loro molto diverse, non è solo una valutazione in
fondo positiva delle trasformazioni innescate dalla rivoluzione
digitale, che renderebbe possibile un miglioramento delle
condizioni sociali e lavorative, ma soprattutto l’immagine ormai
del tutto irrealistica delle effettive condizioni dei knowledge
workers, o quantomeno della gran parte di loro. Come i blog sono
spesso molto lontani dalla mitologia che ne ha fatto un pilastro di
una nuova democrazia, così la concreta attività lavorativa dei
knowledge workers, ben più che nel territorio sconfinato delle
utopie hacker, rientra negli angusti spazi di uno spietato
«taylorismo digitale», estremo ma coerente sviluppo di quel
taylorismo burocratico in cui Braverman aveva riconosciuto i
contorni della «degradazione» del lavoro impiegatizio.
Forse ancora più interessante della demolizione compiuta nella
prima parte di Felici e sfruttati, è la seconda, in cui viene
esaminato il modo del lavoro. Chi conosce le precedenti
riflessioni di Formenti non può certo essere stupito che anche in
questo caso una buona parte dell’attenzione venga riservata alle
ipotesi avanzate dagli eredi dell’operaismo italiano. Nel nuovo
libro ritornano infatti i motivi consolidati del disaccordo, ricalibrati
però attorno al nuovo scenario. Il problema principale scaturisce
dalle implicazioni dello ‘scioglimento’ della fabbrica nella società,
che fa sì che il processo di valorizzazione inglobi ogni ambito di
attività, trasformandola in lavoro. «Il paradosso del nuovo
operaismo», scrive Formenti, «consiste dunque nell’affermare
che nulla è più lavoro, ma che, al tempo stesso, tutto diventa
lavoro» (ibi, p. 98). Da questo paradosso derivano anche una
serie di aporie, relative all’individuazione del soggetto in grado di
farsi portatore di un conflitto reale. In primo luogo, «il carattere
eccessivamente astratto di un’idea di lavoro che finisce per
coincidere con qualsiasi manifestazione di energia vitale evoca
inevitabilmente un’immagine altrettanto astratta del potere con
cui è chiamata a confrontarsi: un potere che non può più essere
identificato con una classe e/o con istituzioni ben definite, ma
rinvia a un complicato e stratificato intreccio di poteri che
operano attraverso dispositivi di controllo indiretto piuttosto che
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di dominio diretto» (ibi, p. 101). In secondo luogo, l’aporia
emerge sul terreno dell’identificazione del soggetto conflittuale,
perché la totalizzazione della ‘sussunzione reale’, nel momento in
cui presuppone che tutto sia già ‘dentro’ il processo di
valorizzazione, non è in grado di pensare cosa resta ‘fuori’,
effettivamente o solo potenzialmente. Così, sviluppando la critica
già svolta nella Fine del valore d’uso, Formenti afferma: «Il
dilemma da cui Negri e soci non riescono a districarsi è se sia
oggi possibile tracciare un confine fra ciò che sta fuori e ciò che
sta dentro il rapporto di sfruttamento capitalistico. La loro risposta
è – più che ambigua – paradossale, nel senso che è, al tempo
stesso, negativa e positiva. Da un lato si dice che nulla ormai può
esistere al di fuori del capitale, coerentemente con l’assunto in
base al quale la totalità delle relazioni umane viene sussunta nel
processo di valorizzazione capitalistica; al tempo stesso si
afferma che tutta la produzione sociale – in quanto produzione
biopolitica di soggettività – è estranea al capitale e si auto-
organizza attraverso forme di cooperazione spontanee e
autonome. In altre parole: il biopotere, inteso come potere sulla
vita, e la biopolitica, intesa come potere della vita coesistono su
un unico punto di immanenza […] Ma anche qui – come nel caso
dell’idea di moltitudine – l’irruzione di categorie metafisiche nella
teoria sociale e politica gioca brutti scherzi. È infatti evidente – e i
nostri lo ammettono – che la rivoluzione non può che irrompere
dall’esterno del rapporto di capitale, pena l’impossibilità di
rompere la continuità dell’ordine costituito. Al tempo stesso, con
una contorsione dialettica, essi affermano che si tratta di
un’‘innovazione’ che emerge dall’interno del sistema» (ibip. 102).
Per riuscire a tenere insieme queste due visioni fra loro
contraddittorie, i post-operaisti – o «nuovi operaisti», come
Formenti preferisce chiamarli – devono necessariamente
convergere con le rappresentazioni utopiche del ‘digital-
socialismo’, che ritengono che la rete configuri già
potenzialmente un modo di produzione ‘post-capitalistico’, e che
vedono nelle forme di organizzazione ‘orizzontali’. Ma è
argomentando la propria distanza rispetto a queste due
convinzioni, che Formenti procede a un recupero – non
sorprendente, ma neppure scontato – della critica dell’economia
politica di Marx.
In primo luogo, questo recupero attiene alla critica di tutte
quelle posizioni che intravedono nelle trasformazioni del lavoro
avviate dalla rivoluzione digitale il segnale – o addirittura le prime
tracce – di un modo di produzione ‘postcapitalista’. Se si adotta
una definizione del ‘capitalismo’ non impressionista, e se si
recupera la nozione marxiana di ‘modo di produzione
capitalistico’, di queste convinzioni non può che rimanere in piedi
ben poco. Anche la produzione di conoscenze e informazioni
risulta infatti pienamente collocata all’interno della logica della
produzione di merci, in cui continuano a vigere i principi
dell’appropriazione privata della ricchezza e relazioni sociali di
sfruttamento, per quanto le forme di questo sfruttamento siano
parzialmente mutate rispetto a stagioni precedenti dello sviluppo
capitalistico. In altri termini, secondo quanto scrive Formenti, «il
‘nuovo’ modo di produzione resta a tutti gli effetti capitalistico,
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anche se il capitalismo, adattandosi fulmineamente alle
trasformazioni tecnologiche e culturali, ci costringe
continuamente ad aggiornare il nostro bagaglio teorico» (ibi, p.
108). D’altronde, molte delle principali categorie marxiane –
secondo Formenti – non appaiono neppure intaccate dalle
trasformazioni della rivoluzione digitale, mentre risultano piuttosto
inservibili alcune letture ‘industrialiste’ e ‘produttiviste’ che di
quelle categorie sono state formulate. In questo caso, Formenti si
riferisce naturalmente alla vecchia distinzione fra ‘lavoro
produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’, già al centro delle sue prime
riflessioni sulle innovazioni introdotte dall’informatica nel
processo lavorativo, ma – non senza fondate ragioni – può
richiamare le pagine del cosiddetto Capitolo VI inedito del
Capitale per mostrare come lo stesso Marx avesse già ben
chiaro che le trasformazioni capitalistiche tendevano a esaltare
sempre più la natura cooperativa del lavoro, e che perciò
diventava necessario allargare sempre più lo spettro del lavoro
effettivamente ‘produttivo’, fino a ricomprendervi una sfera
sempre più elevata di funzioni. Da questo punto di vista, allora,
Formenti suggerisce che Marx, dinanzi alla novità della rete,
«avrebbe ulteriormente esteso l’ambito di applicazione del
concetto, fino ad abbracciare tendenzialmente la totalità dei
soggetti interconnessi» (ibi, p. 109). Inoltre – dato che,
rinunciando a ricondurre il ‘lavoro produttivo’ alla produzione di
merci, sottolineava come si trattasse sempre di un lavoro
produttivo di plusvalore – l’autore del Capitale avrebbe tratto una
serie di conseguenze relative alla dilatazione del processo di
valorizzazione: «Se infatti è vero che il concetto di lavoratore
produttivo non comprende solo un rapporto fra attività ed effetto
utile, fra lavoratore e prodotto del lavoro, ma include anche un
rapporto di produzione specificamente sociale, che imprime
all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del
capitale, è fuor di dubbio che la New Economy abbia impresso
tale marchio su una massa di persone ben più estesa rispetto al
passato» (ibi, p. 110). In sostanza, il fatto che la produzione
contemporanea non abbia più – o meglio, abbia solo in parte –
come obiettivo la produzione di ‘merci materiali’, non significa né
che il lavoro produttivo venga meno, né che le relazioni sociali
capitalistiche vengano superate da un logica di produzione ‘post-
mercantile’: «sostenere che oggi l’economia capitalistica si fonda
soprattutto sui settori che producono informazioni e conoscenze
non dimostra che siamo di fronte a un nuovo modo di produrre,
ma dimostra piuttosto che il capitalismo realizza una quota
crescente di plusvalore attraverso la produzione/distribuzione di
servizi, emozioni, sentimenti, esperienze piuttosto che di
automobili, carbone e acciaio» (ibi, pp. 110-111).
In secondo luogo, Formenti torna a considerare il rapporto fra
‘sussunzione formale’ e ‘sussunzione reale’, che – come si è visto
– era già presente nei suoi precedenti lavori. Anche in questo
caso, riprende la convinzione che non si tratti di due ‘stadi’ di
sviluppo, bensì di modalità di organizzazione che si intrecciano
storicamente, e che, soprattutto, si intersecano costantemente
all’interno delle dinamiche della new economy. In particolare, i
processi che hanno scandito il primo decennio del nuovo secolo
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hanno ridotto i margini di autonomia dei coloni del ‘cyberspazio’,
e il miraggio di una fuga lontano dal mondo dominato dalla logica
mercantile e dallo sfruttamento è progressivamente svanito, un
po’ come avvenne per i pionieri americani, nel momento in cui la
‘Frontiera’ venne effettivamente raggiunta anche dalle strade
ferrate e dalle grandi corporation. Senza dubbio, non tutte le
attività della ‘nuova economia’ possono essere ‘recintate’, se non
al prezzo di perdere gran parte delle loro caratteristiche, dovute
al fatto che si basano spesso su forme di cooperazione che
hanno finalità extra-economiche, ma ciò significa proprio che
‘subordinazione formale’ e ‘sostanziale’ rappresentano fasi
cicliche complementari, e non tappe di un’evoluzione storica
unidirezionale. In sostanza, secondo il ragionamento di Formenti,
«il capitalismo sfrutta contemporaneamente tutte le modalità di
subordinazione del lavoro al capitale, scegliendo di volta in volta
– e spesso ibridandole – le soluzioni più adatte alle
caratteristiche di un determinato paese, settore produttivo,
contesto socioculturale ecc.» (ibi, p. 116).
Il ‘ritorno a Marx’ compiuto in Felici e sfruttati non può essere
rappresentato però come una piena e incondizionata
riabilitazione del pensiero dell’autore del Capitale, perché, in
verità, il recupero di Formenti si limita alla pars destruens,
all’utilizzo delle categorie della critica dell’economia politica per
mostrare come esse conservino la loro validità persino un secolo
e mezzo dopo la loro formulazione. Il discorso si fa invece
piuttosto diverso, nel momento in cui Formenti passa a
considerare le differenti modalità con cui il pensatore di Treviri
concepì la ‘transizione’ oltre il capitalismo. A questo proposito,
Formenti non si concentra tanto sull’ipotesi della caduta
tendenziale del saggio di profitto, al cuore del Primo libro del
Capitale, quanto su un’altra visione della transizione, delineata
da Marx nei Grundrisse e, in particolare, in quella breve sezione
nota in Italia – già nei primi anni Sessanta – come «frammento
sulle macchine». In quelle pagine – schematiche, ma al tempo
stesso visionarie – ipotizzava che lo sviluppo delle macchine,
l’utilizzo delle conoscenze scientifiche e della tecnologia
tendessero a rendere sempre meno rilevante, dal punto di vista
quantitativo e da quello qualitativo, il lavoro umano, tanto che, ad
un certo punto, il tempo di lavoro sarebbe diventato una «base
miserabile» rispetto alla ricchezza effettivamente prodotta. La
conseguenza logica cui perveniva Marx – in realtà, in termini
piuttosto generici – era che il crescente contrasto fra la realtà del
processo produttivo e il principio della misura del tempo di lavoro
avrebbe innescato un crollo della produzione basata sul valore di
scambio. Questa previsione si trova solo fugacemente accennata
nei suoi quaderni preparatori della fine degli anni Cinquanta
dell’Ottocento, perché in seguito Marx preferì abbandonarla in
favore della tesi della caduta tendenziale del saggi di profitto
(una tesi che traduceva solo parzialmente la ‘visione’ dei
Grundrisse). Ma è proprio da quelle pagine e da quell’ipotesi
stilizzata che, da circa quattro decenni, si esercita il paradigma
‘post-operaista’. Più o meno a partire dalla crisi degli anni
Settanta del secolo scorso, alcuni teorici provenienti
dall’operaismo dei «Quaderni rossi» iniziano infatti a guardare a
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quegli appunti per cercare di sbrogliare l’intricata matassa dei
conflitti della società ‘post-industriale’. Non è certo difficile
rinvenire proprio nella centralità del «Frammento» il tratto che
accomuna delle ipotesi sviluppate lungo questi quattro decenni
non solo da Hardt e Negri, ma anche da Virno e altri autori che si
richiamano – con differenti soluzioni – al paradigma post-
operaista. E non è certo sorprendente che Formenti si trovi
proprio su questo punto in disaccordo non solo con i continuatori
del filone operaista, ma con lo stesso Marx. Da questo punto di
vista, infatti, ipotizzando un Marx redivivo, cui sia concesso di
conoscere il mondo della rete e della new economy, Formenti
scrive che l’autore del Capitale «avrebbe non pochi motivi di
orgoglio nel constatare che certe sue categorie – come quelle di
lavoro produttivo e lavoro improduttivo, plusvalore relativo e
plusvalore assoluto ecc. – svelano i meccanismi della nuova
economia meglio di tutte le chiacchiere dei guru della Silicon
Valley» (ibi, p. 119). Ma, al tempo stesso, non può fare a meno di
riconoscere: «Sarebbe invece meno orgoglioso del fatto che, a
un secolo e mezzo di distanza, le sue anticipazioni visionarie
sulla fine della legge del valore/lavoro restano tali. Detto
altrimenti: se c’è un aspetto del pensiero di Marx che il
capitalismo digitale è riuscito a rendere obsoleto è l’illusione che
la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione
possa di per sé determinare il crollo del capitalismo» (ibidem).
Una simile posizione
non è però
semplicemente una
rivisitazione delle
critiche al
determinismo delle
‘teorie del crollo’,
perché, in realtà, è
funzionale a una
ricerca che sostituisca alle previsioni deterministe sulle
‘contraddizioni’ l’analisi concreta delle posizioni materiali, e alla
convinzione risposta nella funzione palingentica di un nuovo
‘soggetto’ l’indagine sulla realtà delle figure conflittuali. Se in
Cybersoviet Formenti scriveva che «delineare una nuova
composizione di classe appare impresa ardua, se non
impossibile, ma rinunciare all’impresa significa rinunciare alla
possibilità di attribuire senso ai conflitti sociali contemporanei»
(ibi, p. XIII), in Felici e sfruttati questa esigenza viene
ulteriormente ribadita, e così torna a chiedersi, con ancora
maggior forza, se i lavoratori della conoscenza siano davvero una
forza potenzialmente compatta: «i knowledge workers
costituiscono davvero una classe unitaria, o si articolano in uno
strato superiore e uno strato inferiore di portatori di interessi
divergenti, se non opposti? Il loro ruolo, nel complesso scenario
dei conflitti di classe globali, è davvero quello di un’avanguardia?
Infine, se la risposta all’ultima domanda è negativa: quali altri
soggetti possono aspirare a tale ruolo? In breve: qual è, oggi, la
composizione politica del proletariato internazionale?» (ibi, pp.
122-123). La risposta di Formenti a questi interrogativi è
naturalmente interlocutoria, ma ciò che comunque rileva è il
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definitivo esaurimento del potenziale di quel «Quinto Stato» cui
aveva in precedenza affidato un ruolo importante. In effetti, la
«classe creativa» celebrata da Richard Florida è stata investita in
modo rilevante nel corso dell’ultimo decennio, e ne è uscita
divaricata in due strati sempre più lontani fra loro in quanto a
reddito e potere. Da una parte, «lo strato superiore di questa
classe sui generis è effettivamente uscito vincitore dai
sommovimenti tecnologici, finanziari e sociali degli ultimi
decenni» (ibi, p. 125), e la vittoria elettorale di Barack Obama
può essere rappresentata anche come l’accesso del vertice del
Quinto Stato nella ‘stanza dei bottoni’. «A progettare la
campagna elettorale di Obama sono stati infatti i pezzi da
novanta della Silicon Valley», scrive Formenti, dissolvendo i fiumi
di retorica versati sulla vittoria del primo presidente afro-
americano, «mentre ad assicurarne la vittoria sono state le reti
sociali e le competenze tecnologiche di milioni di giovani nerd ai
quali, grazie alle modalità partecipative e collaborative con cui
hanno condiviso una campagna vissuta ‘dal basso’, si è fatta
nutrire l’illusione di essere i veri vincitori, laddove avevano
semplicemente fornito la massa di manovra ai nuovi padroni,
aiutandoli a incistarsi nel cuore dell’inedito apparato lobbistico in
via di costruzione a Washington» (ibi, p. 127). La rivoluzione del
blocco sociale della new economy si è così realizzata in modo
molto diverso da come l’avevano pensata negli anni Novanta gli
alfieri delle utopie cyber, mentre l’ascensore che conduce verso i
«piani alti» del Quinto Stato sembra essersi definitivamente
bloccato. Ed è per questo, dunque, che Formenti ritiene sia
opportuno «abbandonare i sogni sulle moltitudini che si auto-
organizzano e si autogovernano attraverso la rete e riprendere a
ragionare sulla composizione politica del proletariato, allargando
lo sguardo a livello globale» (ibi, pp. 127-128). Formenti guarda
perciò oltre la semplice schiera della «classe creativa» e persino
oltre l’Occidente, per scoprire come gli scioperi cinesi degli ultimi
anni nel settore metalmeccanico siano stati condotti da operai
giovanissimi, senza il supporto di strutture politiche e sindacali,
ma grazie alla comunicazione ‘orizzontale’ di blog e social
network. Ciò non induce certo Formenti a riabilitare le vecchie
utopie sul potenziale democratico e liberatorio delle nuove
tecnologie, ma lo spinge piuttosto a suggerire la possibilità di un
utilizzo strumentale di queste tecnologie da parte persino della
‘vecchia’ classe operaia cinese, e a formulare l’ipotesi di una
‘ricomposizione’ politica di un fronte senz’altro eterogeneo: un
fronte «fondato sulla convergenza di interessi fra neoproletariato
industriale, classe creativa e migranti, un’alleanza saldata
dall’uso delle nuove tecnologie di rete come strumenti di
mobilitazione e di organizzazione politica delle lotte» (ibi, p. 137).
Il libro di Formenti ha trovato un lettore entusiasta in Mario Tronti,
che sull’inserto di «alfabeta2» ha scritto, commentando le pagine
di Felici e sfruttati: «È un grido liberatorio, di cui si sentiva il
bisogno, oppressi come siamo, ciascuno di noi, ogni momento,
da questa nuova religione del virtuale. Perfino il tumulto di piazza,
il gesto collettivo più materiale che storicamente esista, viene
ormai ascritto alla virtù del mezzo di comunicazione. Collegati in
rete, e con le armi degli sms, si abbattono i tiranni e si eleggono i
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presidenti. Scompaiono le motivazioni di fondo delle rivolte e i
poteri occulti che muovono le scelte. Non ci si ferma a riflettere
sul fatto che, magari proprio perché quegli eventi assumono
quella modalità, risultano effimeri, momentanei, esposti a una
eterodirezione, di cui non si sa nulla, ma che è molto più solida e
radicata e duratura. Insomma, mi piace questo libro, per questa
ragione: quello che pensavo da sempre, per intuito – ma l’intuito,
quando è ben educato dall’esperienza, raramente sbaglia – mi
viene qui documentato da una mole di letture, che io non ho fatto
e che, prometto, non farò mai» (M. Tronti, Per una critica
dell’immaterialismo storico, in «alfalibri», n. 1, supplemento ad
«alfabeta2», n. 9, maggio 2011, p. 11). A ben vedere,
l’entusiasmo di Tronti per il libro di Formenti non è sorprendente.
Innanzitutto, perché nelle ultime pagine di Felici e sfruttati,
quando vengono evocati gli scioperi degli operai metalmeccanici
cinesi e l’eventualità che, a partire da questo nuovo
protagonismo, si possa avviare un nuovo ciclo di mobilitazione, si
può riconoscere la ripresa – quasi mezzo secolo dopo – di un
celebre grafico, pubblicato sull’ultimo numero della rivista
«Classe operaia», poco dopo la metà degli anni Sessanta: un
grafico che, ricostruendo la crescita del numero e della
proporzione di lavoratori salariati nel mondo, pareva suggerire
l’ipotesi che la conflittualità di fabbrica dovesse generalizzarsi,
uscendo anche fuori dai confini dell’Occidente. Inoltre, perché il
lavoro di Formenti converge con la posizione di Tronti anche da
un secondo punto di vista, e cioè perché, superando l’idea che
esista una contrapposizione fra la ‘vecchia’ classe operaia e i
‘nuovi’ lavoratori della conoscenza, ricostruisce i margini per
pensare il fronte del lavoro come – almeno potenzialmente –
unitario. Infine, perché, al termine del proprio discorso, Formenti
arriva a ‘ri-scoprire’ la vecchia, bistrattata e demonizzata
«autonomia del politico». Naturalmente, Formenti non rispolvera
certo quell’autonomia del politico che si risolve nell’esaltazione
della ‘presa del potere’, o nella convinzione che lo Stato e il
livello delle istituzioni siano effettivamente autonomi dalla base
produttiva e che possano dunque costituire un avamposto da cui
operare una (più o meno radicale) trasformazione sociale. La sua
ripresa si rivolge invece a quella dimensione dell’autonomia del
politico che attiene, più che alla funzione di rappresentanza, a
quella strettamente organizzativa: una funzione che partiti e
sindacati – secondo il giudizio certo non isolato di Formenti – non
possono più svolgere, ma che neppure può essere assolta
efficacemente da quelle reti spontanee e orizzontali su sui tanta
retorica si è esercitata, e continua a esercitarsi. «Fra poco»,
scrive infatti, «a credere alle rivoluzioni fatte via Facebook e
Twitter resteranno, forse, solo i manager di Facebook e Twitter»,
perché – soprattutto da eventi come la ‘Primavera araba’ – sono
emersi, insieme alle potenzialità, anche tutti i limiti delle effettive
capacità di mobilitazione dei social network: «abbastanza potenti
da abbattere i tiranno di turno, ma del tutto disarmati di fronte alle
forze organizzate che finiranno per incanalare l’energia e dirigerla
verso i propri obiettivi» (ibi, p. 148).
Quando giunge a evocare l’autonomia del politico, Formenti
tocca probabilmente il punto estremo della propria riflessione
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autocritica. Da un certo punto di vista, l’intera riflessione
compiuta attraverso un trentennio tendeva ad allontanarsi non
tanto dalla ‘politica’ in senso lato – perché ovviamente i temi che
considerava erano, per le loro stesse caratteristiche, ‘politici’ –
quanto proprio dall’autonomia del politico, ovvero dall’idea che
fosse indispensabile ricercare un livello ‘organizzativo’,
‘istituzionale’, ‘politico’, capace di poter condurre a sintesi la
parzialità di interessi disseminati. Le motivazioni storiche del
sospetto nei confronti dell’autonomia del politico sono più che
scontate, e rimandano alle torsioni politiciste della fine degli anni
Settanta, alle derive che indussero a rappresentare il conflitto in
termini, non solo metaforicamente, militari. La ricerca di Formenti
si distaccava da quelle derive per almeno due profili. In primo
luogo, perché, negando che la posizione ‘avanzata’ o ‘arretrata’,
‘centrale’ o ‘marginale’ di un soggetto fosse determinata dalla sua
collocazione nel circuito produttivo, dissolveva le basi stesse del
concetto novecentesco di ‘avanguardia’, così saldamente
radicato nella tradizione marxista. In secondo luogo, perché,
rifiutando la logica dell’antagonismo, proponeva piuttosto la
logica dell’esodo, della diserzione, della sottrazione, come unica
strada capace di consolidare effettivamente i margini di
autonomia dalla logica di un’economia ferocemente distruttiva. La
preferenza per il volto sfuggente di Hermes, contrapposto a
quello di Prometeo, era propria l’esito di una simile opzione,
faticosamente guadagnata nella catastrofe novecentesca. Ora
quel sentiero sembra però aver condotto Formenti a un bivio, se
non addirittura a un vicolo cieco. Per molti versi, la fiducia riposta
nella strada alternativa di Hermes sembra nuovamente aver
condotto Formenti sulle tracce di Prometeo. Non certo – come si
è visto – perché divenga oggi possibile impossessarsi una
tecnica estranea e farne uno strumento nelle mani dei knowledge
workers, ma perché diventa possibile – forse necessario –
pensare in termini ‘politici’ a un soggetto capace di opporsi a una
marcia all’apparenza inarrestabile. Ovviamente, il ripensamento
non conduce Formenti a cancellare con un tratto gli sforzi di un
cammino trentennale, e così, quando richiama in vita
dall’impolverato scaffale operaista le nozioni di ‘composizione
tecnica’ e ‘politica’ non tende certo a riprodurne il determinismo
che talvolta le ha accompagnate. In questo senso, la dimensione
‘politica’ non scaturisce – come Atena dalla testa di Zeus – dalle
reti della produzione immateriale, ma solo dalla storia materiale e
dalle sue incognite. Al tempo stesso, Formenti si tiene ben
lontano dalla tentazione di cadere in quella sorta di fascinazione
tecnologica, che spesso ha trasformato l’attesa dell’avvento di un
nuovo soggetto in una versione aggiornata, e solo in parte più
raffinata, della teoria degli stadi di sviluppo. Ma, proprio perché la
politica si presenta con gli abiti della contingenza, non può che
riproporre ancora una volta l’interrogativo sul modo in cui
pensare il nuovo ‘sincretismo’. Un interrogativo cui, naturalmente,
non si può rispondere solo evocando la natura strumentale
dell’organizzazione, ed evitando così l’enorme nodo della
rappresentazione. Tanto che, inevitabilmente, la domanda di
fondo che aveva indirizzato la ricerca di Formenti negli anni
Ottanta, non può che riaffiorare.
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Al principio degli anni
Novanta, nella
prefazione a Piccole
apocalissi, Formenti
si soffermava su una
lettura della
Centesimus annus,
che, dopo un secolo
dalla Rerum novarum
e all’indomani del
crollo del blocco
sovietico, aveva
ribadito le linee della
dottrina sociale della
Chiesa. Discostandosi dalle letture di molti intellettuali, Formenti
sottolineava allora come l’enciclica ponesse una sfida radicale al
pensiero ‘progressista’ e a ciò che rimaneva della sinistra
novecentesca. «Il comunismo», scriveva Formenti, «era una
‘religione’ che prometteva la salvezza in questo mondo, che si
proponeva di dare un senso alla vita qui e ora, nella concreta
attualità storica e non nell’aldilà», e, così, «il crollo di questa
religione apre un vuoto immenso: il mondo si trova orfano di
ideologie ma non dei grandi interrogativi etici e antropologici a cui
l’ideologia offriva risposta» (C. Formenti, Piccole apocalissi, cit.,
p. XIII). In questo quadro, se la Centesimus annus poteva essere
letta davvero come la riaffermazione di principi etici legati alla
trascendenza, ma da difendere concretamente nella storia, la
deriva che rischiava di imboccare il pensiero progressista – una
deriva effettivamente percorsa nel ventennio seguente – era
quella di un «laicismo antipapista», destinato a essere riassorbito
«nel delirio della mitologia ‘laica’, di un sistema di valori
materialistici del tutto ignari dei propri fondamenti religiosi» (ibi,
p. XIV). In quel testo, Formenti – percorrendo un binario simile a
quello indicato, per esempio, da un intellettuale senza dubbio
originale come Romano Madera – riteneva che la sfida si
riaprisse non sul terreno del conflitto, ma su «quello –
eminentemente moderno – della contaminazione sincretistica fra
differenti tradizioni religiose» (ibi, p. XIV). Oggi, tutti i limiti di quel
percorso diventano evidenti, ma la domanda di fondo che
Formenti si poneva diventa oggi forse ancora più importante di
quanto non lo fosse due decenni fa. E, da questo punto di vista,
non è certo casuale che lo stesso Tronti abbia indicato – come
strada obbligata per fuoriuscire dal cortocircuito di un eterno
presente – quella che passa dal ‘teologico-politico’. Porsi oggi il
problema del ‘politico’ e della sua autonomia, rispetto alla
materialità dei rapporti sociali, non significa infatti tornare
semplicemente a sperimentare la fatica dell’organizzazione o a
tessere la trama della rappresentanza di interessi disseminati e
magmatici. Significa anche porsi il problema della
‘rappresentazione’ del destino comune in una società post-
storica, che non sa concepire il futuro se non nella forma
apocalittica della catastrofe, o come pura dilatazione del
presente. Ed è proprio in questo punto che il filo pazientemente
seguito da Formenti nel corso di tre decenni rischia di
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Pubblicato da Damiano Palano a 2/10/2012
Etichette: Carlo Formenti, Cyber-soviet, Cyberpunk, Damiano Palano, Felici e sfruttati, Lavoro immateriale,
Mario Tronti, Neo-operaismo, Società, Teoria
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aggrovigliarsi. Perché, una volta abbandonato Prometeo, il volto
di Hermes non può che rimanere del tutto sfuggente, e non può
che apparirci oggi più enigmatico che mai. Per Benjamin, l’angelo
della storia aveva il viso rivolto al passato, alle sue macerie e ai
suoi morti. Ma le sue ali erano spinte irresistibilmente nel futuro
dalla tempesta del progresso. Oggi, per noi, quella tempesta non
può avere alcun reale significato, perché il progresso non ci
appare come una tempesta che ci spinge verso il futuro, ma,
semmai, solo come una catastrofe che pende sulle nostre
esistenze. Anche per questo, l’angelo senza nome «ha indossato
la maschera del viaggiatore, di un’entità vaga e inafferrabile, che
quasi scompare per risolversi nel suo eterno movimento». E
«travestito, ambiguo e proteiforme», ha attraversato il nostro
tempo continuando a osservare e ad aspettare. Oggi, forse, quel
viaggio – o almeno il suo primo tratto – è concluso, ma non per
questo l’angelo sembra debba svelare il suo volto. Senza che per
noi sia dunque possibile intendere se sia in grado di escogitare
un nuovo percorso, o debba imboccare, ancora una volta, la
strada indicata da Prometeo, e consumare così il proprio destino
nell’impeto di un’effimera ribellione. O se, invece, non sia giunto il
momento che gli uomini «riescano nuovamente ad avvertire il
soffio impalpabile della sua presenza, e che tornino a trovare
nomi e immagini per la divinità che non cessa di chiamarli da un
futuro imprecisato».
Damiano Palano
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