Il fenomeno etnico tra identità, Stato e conflittualità

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Prof.ssa Simona Epasto Il fenomeno etnico tra identità, Stato e conflittualità Sono trascorsi quasi cento anni da quando il sociologo ed economista Max Weber, in Economia e Società, pubblicato postumo, aveva profetizzato la graduale scomparsa dei vincoli basati sulla differenziazione etnica e culturale, processo stimolato dalla creazione di legami universali che si sarebbero imposti ed avrebbero determinato il superamento dei particolarismi che avevano caratterizzato i secoli precedenti (Weber, 1922). Appare evidente, tuttavia, all’alba del terzo millennio, come accanto ai fenomeni di mondializzazione e globalizzazione si assista ad una riscoperta delle identità etniche, religiose e di gruppo, nell’ottica di un individualismo di massa che pone sempre più all’attenzione il problema delle minoranze etniche e del crescente r uolo sociale e politico che esse rivestono; a tutt’oggi, infatti, non esiste compagine statale che non contenga in sé una o più minoranze etniche, religiose o linguistiche, ma ciò che sorprende maggiormente, è l’ascesa di un revival etnico che non conosce né confini né orizzonti. Il problema delle minoranze , pertanto, si innesta sul già instabile concetto di Stato, i cui confini, la cui sovranità e legittimazione, vengono attaccati simultaneamente da forze sovrannazionali, transnazionali e subnazionali. A livello esegetico è importante sottolineare come lo stesso concetto di minoranza non sia univoco; se etimologicamente corretto potrebbe sembrare il criterio quantitativo che prende in considerazione il rapporto numerico tra le componenti della popolazione di uno Stato, individuando come minoranza una parte di essa etnicamente, linguisticamente o culturalmente distinta rispetto al gruppo demograficamente più consistente, in realtà esso è palesemente discutibile, se si considerano le posizioni politicamente dominanti di gruppi numericamente inferiori come ad esempio i bianchi in Sudafrica o gli hutu in Ruanda; a ciò si aggiunga che, quantitativamente, il concetto di minoranza si estende da piccole comunità all'interno degli Stati, come nel caso degli albanesi in Italia, sino a gruppi numericamente sostenuti, quali ispanici o afroamericani negli USA. Altresì discutibile appare il criterio antropologico che fa riferimento esclusivamente al sostrato etno-culturale, in quanto qualsiasi comunità potrebbe essere minoranza, anche quelle che si innestano perfettamente nel panorama socio-nazionale. Gli studiosi di scienze sociali sottolineano ancora come la componente fondamentale della etnicità, lungi dall’essere oggettiva e reale, è squisitamente soggettiva e psicologica, quale senso di identità e di appartenenza percepita dai gruppi di individui, che diventa contrapposizione nel caso di conflitti (Connor, 1995). C’è chi poi ha avanzato la validità di un criterio geodemografico che conferisce importanza al rapporto tra la comunità ed il territorio, ma di fatto, ciò escluderebbe lo status di minoranza a popolazioni non stanziali quali ebrei, tuareg, zingari, che pur non avendo un legame specifico con uno spazio territoriale, mantengono una coesione culturale, religiosa, etnica ed uno stile di vita che li differenzia dalle altre geocomunità (Lizza, 2008). Sicuramente più equilibrata e, dunque, parzialmente condivisibile, è la definizione elaborata in uno studio effettuato su commissione delle Nazioni Unite dal giurista Francesco Capotorti, che mescolando fattori oggettivi e soggettivi, sociologici ed antropologici, definisce minoranza etnico- linguistica un gruppo numericamente inferiore rispetto al resto della popolazione di uno Stato, in posizione non dominante, i cui membri possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche

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Prof.ssa Simona Epasto

Il fenomeno etnico tra identità, Stato e conflittualità

Sono trascorsi quasi cento anni da quando il sociologo ed economista Max Weber, in Economia e

Società, pubblicato postumo, aveva profetizzato la graduale scomparsa dei vincoli basati sulla

differenziazione etnica e culturale, processo stimolato dalla creazione di legami universali che si

sarebbero imposti ed avrebbero determinato il superamento dei particolarismi che avevano

caratterizzato i secoli precedenti (Weber, 1922). Appare evidente, tuttavia, all’alba del terzo

millennio, come accanto ai fenomeni di mondializzazione e globalizzazione si assista ad una

riscoperta delle identità etniche, religiose e di gruppo, nell’ottica di un individualismo di massa che

pone sempre più all’attenzione il problema delle minoranze etniche e del crescente ruolo sociale e

politico che esse rivestono; a tutt’oggi, infatti, non esiste compagine statale che non contenga in sé

una o più minoranze etniche, religiose o linguistiche, ma ciò che sorprende maggiormente, è

l’ascesa di un revival etnico che non conosce né confini né orizzonti. Il problema delle minoranze ,

pertanto, si innesta sul già instabile concetto di Stato, i cui confini, la cui sovranità e legittimazione,

vengono attaccati simultaneamente da forze sovrannazionali, transnazionali e subnazionali.

A livello esegetico è importante sottolineare come lo stesso concetto di minoranza non sia univoco;

se etimologicamente corretto potrebbe sembrare il criterio quantitativo che prende in considerazione

il rapporto numerico tra le componenti della popolazione di uno Stato, individuando come

minoranza una parte di essa etnicamente, linguisticamente o culturalmente distinta rispetto al

gruppo demograficamente più consistente, in realtà esso è palesemente discutibile, se si considerano

le posizioni politicamente dominanti di gruppi numericamente inferiori come ad esempio i bianchi

in Sudafrica o gli hutu in Ruanda; a ciò si aggiunga che, quantitativamente, il concetto di minoranza

si estende da piccole comunità all'interno degli Stati, come nel caso degli albanesi in Italia, sino a

gruppi numericamente sostenuti, quali ispanici o afroamericani negli USA.

Altresì discutibile appare il criterio antropologico che fa riferimento esclusivamente al sostrato

etno-culturale, in quanto qualsiasi comunità potrebbe essere minoranza, anche quelle che si

innestano perfettamente nel panorama socio-nazionale. Gli studiosi di scienze sociali sottolineano

ancora come la componente fondamentale della etnicità, lungi dall’essere oggettiva e reale, è

squisitamente soggettiva e psicologica, quale senso di identità e di appartenenza percepita dai

gruppi di individui, che diventa contrapposizione nel caso di conflitti (Connor, 1995).

C’è chi poi ha avanzato la validità di un criterio geodemografico che conferisce importanza al

rapporto tra la comunità ed il territorio, ma di fatto, ciò escluderebbe lo status di minoranza a

popolazioni non stanziali quali ebrei, tuareg, zingari, che pur non avendo un legame specifico con

uno spazio territoriale, mantengono una coesione culturale, religiosa, etnica ed uno stile di vita che

li differenzia dalle altre geocomunità (Lizza, 2008).

Sicuramente più equilibrata e, dunque, parzialmente condivisibile, è la definizione elaborata in uno

studio effettuato su commissione delle Nazioni Unite dal giurista Francesco Capotorti, che

mescolando fattori oggettivi e soggettivi, sociologici ed antropologici, definisce minoranza etnico-

linguistica un gruppo numericamente inferiore rispetto al resto della popolazione di uno Stato, in

posizione non dominante, i cui membri possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche

che li differenziano dal resto della popolazione e manifestano un sentimento di solidarietà che mira

a salvaguardare i tratti culturali propri del gruppo (Capotorti, 1992; Lizza, 2008). Capotorti fa anche

riferimento a presupposti sia spaziali sia temporali, nel senso che la popolazione minoritaria è parte

della popolazione stabilmente residente dello Stato; anzi, deve essere legata da tradizioni ben

radicate ad una precisa porzione del territorio statale.

In quest’ottica, il concetto di minoranza appare al contempo geografico, politico e statistico; il solo

dato quantitativo, però, appare necessario ma non sufficiente, essendo fondamentale fare

riferimento a differenze culturali riconoscibili, siano esse la posizione geografica, la storia o le

caratteristiche del gruppo che lo rendono differente dal resto della popolazione.

Anche la definizione di Capotorti non è esente da critiche e la difficoltà di arrivare ad una

definizione univoca dipende, come ben evidenzia Lizza, dalla variabilità in relazione al contesto

dell’elemento unificante di differenziazione; l’appartenenza etno-culturale, infatti, non è un aspetto

isolato, ma dipende dal contesto territoriale e culturale entro cui ci si differenzia dal resto della

popolazione (Lizza, 2008). Le stesse identità, dunque, sono interessate da fenomeni rilevabili su

diverse scale: individuale, locale, regionale, nazionale, continentale e planetaria (Fouberg, Murphy,

de Blij, 2010). E’ evidente, pertanto, come la complessità del fenomeno etnico sfugga a definizioni

classificatorie, investendo vari campi del sapere, con la necessità, dunque, di adottare diversi

schemi teorici per l’analisi di fenomeni tanto differenziati nel tempo, nello spazio e nella struttura.

Il problema delle minoranze, se posto in relazione al concetto di Stato unitario, può dar esito a

spaccature che via via possono determinare conseguenze territoriali a seconda del grado di coesione

dello stesso; minore il grado di coesione, maggiore sarà la possibilità che si arrivi a rotture

territoriali, come testimoniano i recenti avvenimenti nel continente europeo, dove, negli anni

Settanta, ad indici di coesione altissimi di Ungheria e Polonia (96), si contrapponevano indici medi

in Cecoslovacchia (51) e ancor più bassi in Jugoslavia (25), che consentono di comprendere i

diversi risvolti politico-territoriali seguiti alla rivoluzione di velluto ed alla guerra nei Balcani

(Lizza, 2008).

Il panorama geopolitico diviene ancora più complesso, poi, se si dà uno sguardo alla storia più

recente; dopo la fine della guerra fredda che vedeva contrapposto l’intero globo in due blocchi

allineati con URSS e USA, con a margine solo i paesi del Terzo Mondo parzialmente estranei al

conflitto, la rinascita delle rivendicazioni etniche ha subito un incremento esponenziale in ogni parte

del mondo; dai territori dell’ex Unione Sovietica, agli Stati nati dopo lo sfaldamento dei regimi

comunisti, dalle tensioni etnico tribali nel continente africano (Sudan, Liberia, Nigeria e Ruanda, ne

sono solo alcuni esempi), alle rivendicazioni all’interno dei paesi più sviluppati, fino alle spaccature

conseguenti alle missioni Nato in medio-oriente, ovunque i confini dello Stato vengono minacciati

da rivendicazioni più o meno accese che, oltre ad intaccare i cardini dell’organizzazione territoriale

interna, creano destabilizzazione nell’ambito della politica internazionale.

Paradossalmente, infatti, il conflitto bipolare, dividendo il mondo, lo unificava, subordinando a sé

ogni frattura ideologica, etnica e religiosa; la caduta delle ostilità tra capitalismo statunitense e

comunismo sovietico, lungi dal consegnare alla storia pace e stabilità, ha determinato, a contrario,

una proliferazione della conflittualità molto più frammentata e complessa che, proprio nelle

determinanti etno-locali, ha trovato spesso la sua fonte di alimentazione. Il fenomeno che Rosenau

negli anni Novanta spiegò con la teoria della turbolenza, all’alba del III Millennio, sembra

caratterizzare la ripoliticizzazione di gruppi etnico-culturali che si innestano come forze trasversali

all’interno della compagine statale, creando identità parziali che attaccano i già deboli organismi

nazionali (Lizza, 2008).

Quando il diritto alla autodeterminazione dei popoli, principio di diritto internazionale elevato a

principio fondamentale dalla Carta delle Nazioni Unite, sfocia nell’etnocentrismo e nello scontro

tribale, il contemperamento tra gli interessi delle diverse comunità etniche non è di semplice

attuazione; tale principio contiene, infatti, una forza dirompente, essendo dotato di una portata

potenzialmente illimitata che crea non pochi problemi di contemperamento tra nazionalismo ed

autodeterminazione, col rischio di cadere in una spirale di rivendicazioni violente non meno di

quelle conseguenti alle politiche nazionaliste dei secoli scorsi (Epasto, 2005).

La situazione del Kosovo è emblematica in tal senso: territorio serbo già parte della Jugoslavia

prima della guerra dei Balcani, ha avviato una guerriglia armata fin dalla crisi iugoslava ad opera

della comunità albanese che costituisce ad oggi, dopo la fuga della popolazione serba, ben il 92%

della popolazione. Dopo l’intervento della Nato e la fine dell’amministrazione delle Nazioni Unite,

nel 2008 il Kosovo ha proclamato la propria indipendenza ottenendo il riconoscimento da molti

Stati europei e dagli Stati Uniti, nonché, nel 2010, dalla Corte Internazionale di Giustizia che l’ha

valutata non contraria al diritto internazionale, nonostante la Serbia continui a non riconoscerne la

secessione. Le problematiche legate al riconoscimento della sovranità del Parlamento Kosovaro si

sono sentite anche all’interno del mondo sviluppato; nell’ambito dell’Unione Europea, fortemente

contrari sono, ad esempio, Stati come Grecia e Spagna, preoccupati per l’innescarsi di

rivendicazioni all’interno della loro compagine statale ad opera delle minoranze etniche; paure,

queste, condivise anche da Russia e Cina, che temono la possibilità che ciò crei effetti a catena nel

loro territorio.

Sta di fatto che il comportamento della stessa comunità internazionale dinnanzi alle rivendicazioni

etniche, appare tutt’altro che uniforme; pronti a riconoscere l’autoproclamazione del Kosovo,

negano, ad esempio tale possibilità ai territori georgiani dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. Ma il

problema etnico in Kosovo appare più complesso di quanto non si possa immaginare; il nuovo

Stato, infatti, non ha una identità etnica definita e distinta, in quanto l’etnia albanese si sente legata

a quella dell’Albania e per nulla autonoma rispetto ad essa; a ciò si aggiunga che, nello spazio

territoriale kosovaro, mancano almeno le tre municipalità del Kosovo orientale che si trovano nella

Serbia meridionale, per cui la autoproclamazione d’indipendenza, tra riconoscimenti e non, di fatto,

più che chiudere una pagina di storia, ne apre una ben più complessa e di difficile soluzione 1.

Il problema delle minoranze etniche, che si manifesta in modo violento in Asia ed Africa, dunque,

accomuna tutti i popoli del globo, ivi compresi i territori più sviluppati in cui, però, si articola in

maniera parzialmente diversa e mette costantemente sotto tensione territorio e sovranità, cardini

dello stato moderno.

1 Limes, Rivista italiana di geopolitica, Kosovo, non solo Balcani, n.2/2008.

Guy Heraud classifica la tendenza all’autonomia delle minoranze secondo una scala composta da

cinque gradini: auto-affermazione, come volontà di dichiarare la propria esistenza ed

eventualmente la propria autodeterminazione (Corsi); auto-definizione, come diritto ulteriore al

riconoscimento di un proprio territorio (Palestinesi); secessione, come nel caso dell’Irlanda del

Nord o del Kosovo; auto-organizzazione, come facoltà di dotarsi di apparati giudiziari e

amministrativi propri (Galles); autogestione, come facoltà di amministrarsi autonomamente come

per gli altoatesini (Heraud, 1966; Lizza, 2008).

La tendenza all’autonomia è correlata alla percezione della identità etnica, che Salvi distingue in

quattro livelli: debole percezione di una specificità culturale, come nel caso dei bretoni; percezione

di una diversità rispetto al resto della popolazione, come nel caso dei sardi e, me lo si consenta, dei

siciliani; percezione di diversità ed opposizione, come per i Baschi; percezione di diversità ed

opposizione unita a misure di ostilità, come nel caso dell’Irlanda del Nord (Salvi, 1975).

Ciò che si può trarre da tali distinzioni è che l’etnicità, al di là di classificazioni definitorie,

rappresenta una percezione di appartenenza in cui l’elemento psicologico-soggettivo, pur suffragato

da un comune sostrato storico-culturale, rimane la componente essenziale. In questa prospettiva, il

concetto di etnia e di razza spesso si confondono, essendo per entrambe fondamentale il richiamo ad

una origine comune.

Il complesso rapporto tra etnie, razze e lingue è stato oggetto di studio del genetista italiano Cavalli

Sforza, riconosciuto come uno dei più autorevoli studiosi di genetica della popolazione, il cui lavoro

è caratterizzato da un approccio multidisciplinare che combina genetica, archeologia, linguistica e

demografia storica, ricostruendo la storia e la geografia dei popoli, attraverso le tracce rinvenute nei

geni dell’uomo moderno (Cavalli Sforza, 1996; Cavalli Sfroza, 2007); attraverso lo studio della

distribuzione geografica delle mutazioni genetiche, egli racconta la storia della diversità umana

superando il tentativo di classificare la specie umana in razze, anche in considerazione della

instabilità del concetto e della gradualità delle variazioni delle stesse (Cavalli Sforza, 1997).

Negando l’esistenza di razze, le differenziazioni rinvenibili nei tratti genetici e somatici, dunque,

vengono ricondotte esclusivamente all’adattamento geografico ambientale.

In questa prospettiva, il concetto di razza non è che frutto di costruzione ideologica e rappresenta un

esempio perfetto di come si costruiscano le identità che, a differenza dell’etnia o della cultura

locale, secondo Fouberg et al., sono assegnate ed imposte da vincoli esterni, storici e sociali

(Fouberg, Murphy, de Blij,2010). Accade spesso, infatti, che gruppi contrapposti, ricorrano alla

giustificazione etnica proprio quando presunte differenziazioni razziali non giustificano differenze

tra gruppi omogenei: è il caso, per esempio, dell’Ulster, della Spagna, della ex-Jugoslavia e dello

stesso Ruanda, in cui popolazioni somaticamente omogenee si scontrano portando la

differenziazione etnica come giustificazione.

Nonostante gli ovvi distinguo da fare tra razza ed etnia, è innegabile comunque, come nella

stragrande maggioranza dei casi i caratteri immateriali delle etnie si accompagnano a particolari

tratti somatici o peculiarità fisiche che, tuttavia, rappresentano delle mere coincidenze non

essendovi nessun altro legame rinvenibile, né un nesso causale tra discendenza genetico-razziale ed

appartenenza etnica (Cerreti, Fusco, 2007).

Volendo rinvenire le cause dei conflitti etnici, esse possono essere ricondotte a fattori politici,

religiosi, economici, culturali e demografici. In particolare, il nesso tra rivendicazioni etniche ed

economia, spesso sottovalutato nel pensiero scientifico, appare oggi evidente non solo nei paesi

meno sviluppati, ma all’interno dello stesso “Primo Mondo”. Buona parte delle minoranze etniche

si trova, infatti, in condizione di inferiorità economica più o meno accentuata, rispetto al resto della

popolazione dello Stato, il che costituisce un ulteriore incentivo per far fronte comune ed ottenere,

oltre al riconoscimento, migliori condizioni di vita.

Ancora una volta i conflitti in Irlanda del Nord forniscono uno spunto di riflessione: genericamente

ricondotti a contrasti religiosi, linguistici e culturali, hanno nella inferiorità economica e sociale

della comunità irlandese rispetto a quella inglese, la propria causa scatenante (Lizza, 2008). Lo

stesso dicasi per la comunità francese in Canada, che conta un attivo movimento separatista in

Quèbec e per quella degli Inuit, che hanno visto riconosciuto nel 1999 il proprio Territorio

autonomo di Nunavut, lasciato all’autogoverno del popolo di etnia eschimese (Lizza, 2008).

Motivazioni economiche unite alle diversità etnico-religiose, sono poi alla base della crescente

instabilità del territorio ceceno, a maggioranza islamica e ricco di petrolio, che nel 1991 ha

dichiarato la propria indipendenza non riconosciuta dal governo di Mosca e che, insieme alle altre

repubbliche caucasiche russe (Dagehstan, Inguscezia, Ossezia e Cabardino-Balcaria) è tutt’ora

teatro di azioni di guerriglia violentemente sedate dall’esercito russo, nonostante il formale ritiro

delle truppe nel 2009. C’è chi, di contro, non riconosce la valenza dei fattori economici quali cause

scatenanti i conflitti etnici: per Connor, ad esempio, le discriminazioni economiche possono agire

esclusivamente come fattori rinforzanti ma non determinanti una conflittualità che si basa sull’etnia

(Connor, 1995).

Lizza distingue ancora tra conflitti politici, aventi ad oggetto i poteri dello Stato, conflitti politico-

culturali, qualora riguardino la storia e la memoria manipolate dal potere politico, geosociali, come

le lotte di classe e quelle conseguenti alle deportazioni territoriali, religiosi e socio-economici, che

attengono principalmente alle risorse alimentari ed energetiche (Lizza, 2008).

Quali che siano le cause scatenanti, sta di fatto che le società contemporanee, ricche o povere,

appaiono sempre più frammentate nel loro interno dalla riscoperta di identità di gruppo, etniche,

religiose e culturali, di cui è necessario attenzionare il crescente ruolo sociale, per fornire adeguate

risposte politiche che garantiscano la sopravvivenza dei gruppi minoritari attraverso una

integrazione che, lungi dal portare alla omologazione assimilante, consenta la preservazione di

lingua, cultura, religione ed ambiente in cui vivono, consentendo, altresì, la possibilità di progredire

socialmente ed economicamente. Crescono esponenzialmente, infatti, nel mondo, i popoli dichiarati

in pericolo di estinzione dalle organizzazioni internazionali: tuareg, azeri, armeni, peruviani,

moquitos, indios, curdi, somali, sono solo alcune delle etnie che, a causa di violente repressioni,

persecuzioni, guerre etniche, rischiano di scomparire.

Le problematiche relative a curdi ed armeni sono un esempio della complessità dei problemi e della

difficoltà delle soluzioni. I primi, disseminati tra Turchia, Iraq, Iran, Siria ed Armenia, dopo aver

ottenuto formalmente il diritto all’autodeterminazione nel 1918 nonché, col trattato di Sevres del

1920, l’impegno per la creazione di un Kurdistan indipendente, furono dimenticati dalle potenze

occidentali e divennero oggetto di deportazioni, persecuzioni, massacri, nonché di tentativi più o

meno forzati di assimilazione ai popoli degli stati di appartenenza; il Kurdistan turco, continua ad

essere terreno di scontro tra i miliziani del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e l’esercito

turco, sconfinando sovente in territorio iracheno ove costituisce, stante il vuoto di potere, uno dei

più pericolosi focolai di tensione nel medio oriente. Il supporto che i curdi iracheni forniscono ai

ribelli attivi in territorio turco, continua, inoltre, a determinare scontri crescenti con lo Stato turco

che, soprattutto in vista del ritiro delle truppe U.S.A., teme il formarsi di una autonoma identità

curda.

La diaspora armena, similmente a quella curda, è stata alimentata soprattutto dalle persecuzioni e

dalle stragi operate dall’impero ottomano dalla fine del XIX secolo e dai movimenti kemalisti tra la

Prima e la Seconda Guerra Mondiale. La dispersione del popolo armeno si è diretta soprattutto negli

U.S.A., in Georgia e Azerbaijan, poi in Francia, Libano, Siria e Argentina; comunità armene

numerose sono comunque ancora presenti nelle grandi città dell’Europa mediterranea (Dagradi,

2006). Oggi, l’Armenia, ex repubblica dell’Urss, proclamatasi indipendente nel 1991, riavvicinatasi

politicamente alla Turchia in tempi molto recenti, continua ad essere teatro di scontri col vicino

Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabah, territorio azero a maggioranza armena.

Ma nessun continente è esente da fermenti etnici più o meno violenti; il continente africano, patria

di tribalismi, anche come conseguenza del recente passato coloniale, è scosso al suo interno da

scontri che vanno dalla Nigeria al Sudafrica, dal Ruanda al Marocco, dal Burundi all’Uganda,

passando attraverso Sudan, Algeria, Tanzania, Congo ed Egitto. Anche i recenti avvenimenti in

Libia, sembrano per molti condurre ad un futuro in cui il sistema tribale sarà determinante per

l’equilibrio del potere, spezzato proprio dalla rottura del patto tribale siglato tra Gheddafi e gli

esponenti delle tribù nord-Africane (Moisseron, 2011); a ciò si aggiunga che tutta la regione, scossa

dalle rivoluzioni che dalla Tunisia si propagano sino all’Egitto, è teatro di grande instabilità politica

e geopolitica, dinnanzi alla quale lo stesso mondo arabo appare diviso e nella quale riemergono,

prepotentemente, le antiche rivalità, prima fra tutte quelle tra sciiti e sunniti.

L’Europa occidentale è scossa dai fermenti dei paesi baschi, dei catalani, dell’Ulster e, pur se con

minore risonanza, degli indipendentisti corsi ed altoatesini; l’Asia, d’altra parte, si dibatte tra le

tensioni mediorientali in Israele, Libano, Iran, Pakistan, Yemen, Afganistan e Siria e le

problematiche di Timor Orientale e Borneo in Indonesia, passando attraverso il Caucaso e le

repubbliche ex-sovietiche, teatro di pesanti scontri tra etnie diverse, magistralmente e

volontariamente mescolate dall’impero comunista nel tentativo di controllarne lo spirito

indipendentista; la stessa America settentrionale, dal Canada al Messico del Sud, trema sotto le

rivendicazioni etniche e conosce revival di comunità, come quelle nere negli Stati Uniti, da tempo

integrate nel tessuto sociale dei luoghi.

L’appartenenza a gruppi etno-culturali, dunque, lungi dall’essersi attenuata come previsto da

Weber, sembra essere tornata agli onori della cronaca, spesso come reazione inconscia ad un mondo

globalizzato ed omologante ed alle forme di stato accentratore che tende a schiacciare le diversità,

in nome di una unità spesso inesistente.

Nella connotazione identitaria dei gruppi etnici rientra sovente la lingua, che rappresenta uno dei

principali catalizzatori di coesione tra gli individui, nonché elemento fondamentale della cultura

locale e motore propulsore delle diversità delle minoranze comunemente indicate, infatti, come

minoranze etno-linguistiche. Il geografo Roland Breton, sottolineando l’interconnessione tra spazio

linguistico e spazio geografico, evidenzia come, a tutt’oggi, si assista ad una proliferazione dei

conflitti linguistici, nonché all’utilizzo di vere e proprie politiche linguistiche determinanti la

scomparsa di gruppi minoritari (Breton, 1991). Sotto un profilo geopolitico, è innegabile come la

lingua, elemento di identificazione di luoghi, territori e culture e strumento di potere utilizzato,

soprattutto in passato, per la assimilazione dei popoli conquistati, possa rappresentare un ulteriore

elemento di conflittualità tra etnie e gruppi appartenenti alla stessa compagine statale. Tale valenza

nell’ambito dei contesti post-coloniali e nelle società multietniche è semplice da cogliere; ma

l’utilizzo dell’arma linguistica nell’ambito di conflitti culturali e politici, è rinvenibile anche nel

mondo sviluppato, come testimoniano le problematiche connesse al bilinguismo in Canada o all’uso

dello spagnolo negli Stati Uniti; appare impossibile negare, d’altronde, la valenza della dimensione

linguistica tra le condizioni che alimentano, ad esempio, la spaccatura in Belgio tra nord

neerlandofono e sud francofono o le rivendicazioni di baschi e catalani in Spagna. Accade inoltre,

che la contrapposizione etnica venga amplificata da scelte politiche, come in Slovacchia, dove

l’approvazione nel 2010 della legge che limita fortemente l’utilizzo delle lingue diverse dallo

slovacco, ha aumentato il malcontento della minoranza ungherese, che costituisce il 10% della

popolazione totale.

Al pari della lingua, la religione, catalizzatrice di unità tra gli individui e potente fattore di

identificazione, nel secolo della globalizzazione e della crisi delle grandi ideologie, sembra

assumere una valenza politica sempre più spiccata, ponendosi sempre più frequentemente alla base

dell’intensificarsi dei conflitti e delle tensioni cui si assiste in tutto il mondo. In Europa, ad esempio,

alla tradizionale connotazione etnico-religiosa delle ostilità nell’area balcanica, si è aggiunta quella

delle ex repubbliche sovietiche, della Turchia, della Macedonia e dell’Ucraina, per non parlare dei

conflitti potenziali in Ungheria, Slovacchia, Romania, ma anche in Italia e Francia, che riguardano

il delicato problema dei rom.; ma ovunque, dagli scontri etno-tribali africani, a quelli politico-

religiosi mediorientali, il globo è attraversato da un revival etnico-religioso, ove i fondamentalismi

trovano nuovi proseliti, nel vuoto lasciato dalla politica, dall’economia, dalla deterritorializzazione

e dalla modernizzazione (Lizza, 2009).

Il panorama geopolitico multietnico globale, viene poi arricchito ulteriormente da quelle minoranze

per così dire spontanee, formate dai gruppi di immigrati.

La mobilità territoriale rappresenta uno dei fenomeni più tipici ed antichi delle società umane; la

stessa diffusione della specie homo sulla superficie terrestre è stata determinata proprio dalle grandi

migrazioni avvenute in epoca preistorica dal continente africano agli altri territori, in

corrispondenza di esplosioni demografiche o alla ricerca di nuove risorse. Il mosaico di popoli del

mondo rappresenta, dunque, il risultato di spostamenti volontari o coatti, di colonizzazioni, esodi e

diaspore che si sono succeduti nei millenni a ritmo variabile in tutti gli spazi geografici del globo

(Dagradi, 2006), ma che oggi, sospinti dalla globalizzazione culturale, economica e delle

comunicazioni, diviene un fenomeno mondiale. L’arrivo di gruppi di individui spesso consistenti

provenienti da realtà geoculturali, geopolitiche e geoeconomiche differenti, comporta

irrimediabilmente una modifica nelle realtà sociali, economiche e culturali delle regioni di arrivo,

con un impatto non semplice e spesso segnato da fenomeni di intolleranza; quanto maggiori sono,

infatti, le distanze culturali, religiose, sociali e di stile di vita tra i gruppi ospitati e quelli ospitanti,

tanto superiori sono le possibili reazioni di rigetto da parte delle popolazioni autoctone, che possono

dar vita a discriminazioni consentite dalla legge, con veri e propri oneri imposti agli immigrati, con

discriminazioni indirette o con semplici atteggiamenti di ostilità (Barbina, 2005).

Ovunque, pertanto, le problematiche connesse con la integrazione degli immigrati facendo salva

l’omogeneità dello Stato ed il rispetto dell’identità degli immigrati, sono oggetto di specifiche

politiche in materia, cui si aggiunge il rilievo crescente che esse assumono nella agenda

internazionale. L’evoluzione dell’approccio politico-legislativo alle problematiche connesse alle

grandi migrazioni internazionali, d’altronde, dipende non solo dall’incrementarsi del fenomeno in

tempi recenti, ma anche dalla percezione e dall’impatto emotivo che esse hanno suscitato nei paesi

di arrivo e in quelli di partenza (Boggio, De Matteis, Memoli, 2008).

Dall’analisi politico-territoriale effettuata è possibile, a livello esemplificativo, classificare i gruppi

etnici in base al contesto politico e geopolitico in cui si trovano, che contribuisce a determinare

tanto la connotazione ideologica, quanto la tendenza all’autonomia e la percezione di diversità che

essi assumono. Nell’ambito dei Paesi multietnici e multinazionali per definizione, i gruppi etnici

fondano la propria identità sulla lingua, come in Svizzera o in Belgio, sulla religione, si pensi a

sikh, musulmani e indù in India, sulla nazionalità, come nei territori dell’ex blocco sovietico, e sulla

razza, come nel caso del Sudafrica. Negli Stati che non si autodefiniscono multietnici, di contro, tra

cui rientrano, ad esempio, i paesi africani, la Turchia, il Giappone, ma anche molti Stati occidentali,

le minoranze spesso si concentrano in una dimensione territoriale regionale, quali Bretoni e Corsi in

Francia ad esempio, o basano la propria specificità su connotazioni razziali, come nelle comunità

afroamericane negli States, o su discriminanti religiose, si pensi ai copti in Egitto recenti

protagonisti di atti di persecuzione violenta, o, infine, linguistiche e tribali, come i berberi in

Algeria o le tribù in Libia. Molto spesso accade che un’etnia minoritaria in uno Stato corrisponda a

quella maggioritaria in un altro: gli ungheresi in Romania, i Turchi in Bulgaria, gli ispanici negli

Stati Uniti sono solo esempi più eclatanti di tale situazione peculiare.

Per comprendere appieno come tutti i fenomeni finora accennati contribuiscano a determinare

quella che unanimemente è riconosciuta come crisi del concetto di Stato, è necessario analizzarne le

ripercussioni sugli elementi essenziali delle organizzazioni politiche e sociali nazionali: territorio,

popolo e sovranità. La globalizzazione ha determinato il crollo delle barriere e dei confini nazionali,

innescando processi di deterritorializzazione che riguardano non solo l’economia, ma la stessa

politica; persino la politica militare, dopo i recenti avvenimenti, cambia in relazione ai mutamenti di

conflitti derivanti da una minaccia, quella del terrorismo transnazionale, che travalica i confini

territoriali. Al contempo, però, la consapevolezza che la sussidiarietà risponda alle esigenze di

comunità infrastatali caratterizzate da interessi omogenei, implica la devoluzione di buona parte dei

poteri dello Stato a Regioni, Province ed organizzazioni territoriali geograficamente più limitate. Da

un lato, dunque, i territori nazionali risultano costituiti da molti spazi; dall’altro ed allo stesso

tempo, uno stesso spazio può attraversare trasversalmente più territori.

Ma la globalizzazione, oltre che fenomeno economico e politico, è un fenomeno sociale e culturale

che determina profondi mutamenti anche nel concetto di popolo. Il principale fattore di

cambiamento può ricollegarsi alla mobilità transnazionale delle professioni, causa di nuovi processi

migratori. Le diverse identità dei popoli, così faticosamente e spesso violentemente costruite,

riscoperte, esaltate nei secoli precedenti, si mescolano fra loro, si giustappongono, si fondono o

tentano affannosamente di coesistere all’interno degli stessi territori. Si vengono a creare, così,

nazioni plurietniche, in cui religioni, costumi, lingue, culture, identità profondamente diversi

coesistono e pongono continui problemi che la politica degli Stati nazionali si trova a dover

affrontare.

I fenomeni di deterritorializzazione e lo smembramento delle rigide identità dei popoli,

conseguenza inevitabile dei processi di interdipendenza globale, incrinano, dunque, il tradizionale

concetto “geocentrico” dello Stato. Ma è la proliferazione di centri politici, economici, etnici e

sociali differenti, a ridimensionare la sovranità, potere fondamentale dello Stato-Nazione. Il

coinvolgimento progressivo negli ultimi quarant’anni della società civile nei processi politici, è

sicuramente uno dei fenomeni più dirompenti di trasformazione dei poteri; le componenti,

distinguibili in organizzazioni religiose e sociali, organizzazioni per i diritti civili e organizzazioni

per la tutela e la preservazione delle culture locali e dei gruppi etnici, hanno ridisegnato il panorama

politico e territoriale, trascendendo i confini geografici degli Stati nazione (Rifkin, 2005).

Sta di fatto che la gestione delle minoranze è un problema sostanzialmente politico, che riguarda,

però, elementi ideologici di difficile valutazione ed implica una valutazione di ordine culturale che

può oscillare tra due atteggiamenti estremi di protezionismo e relativismo culturale ed

abolizionismo o integrazione/omologazione delle diversità culturali (Cerreti, Fusco, 2007); in

questa prospettiva, le caratteristiche di ogni singola etnia, assumono una rilevanza notevole

nell’ambito della geografia politica ed economica e della geopolitica, in quanto in grado di

influenzare gli equilibri territoriali delle singole regioni del pianeta.

Nel quadro degli assetti geopolitici mondiali, il desiderio di identità porta all’esaltazione, spesso

esasperazione, delle peculiarità etnico-culturali in un nuovo mondo in cui, secondo Huttington, i

conflitti più profondi non sono generati dagli scontri socio-economici, ma tra gruppi appartenenti ad

etnie e culture diverse ed all’interno delle stesse civiltà, tra gruppi tribali ed etnici (Huttington,

2000). Le posizioni di Huttington, profondamente criticate soprattutto in considerazione delle

semplificazioni con cui definisce le frontiere delle civiltà contrapposte (Ramonet, 2008), a mio

parere, nascondono una verità provocatoria di fondo che non può che essere sotto gli occhi di tutti;

al di là di valutazioni di merito circa i valori espressi da civiltà ed etnie, un revival delle componenti

etno-culturali, delle peculiarità degli aspetti delle singole civiltà, è oggi in proliferazione continua in

tutto il globo, ivi compreso il mondo sviluppato ed occidentale che sembrava, all’indomani della

fine del conflitto bipolare, lanciato verso un universalismo dai più definito omologante.

Il nuovo mondo globale e globalizzato, nonostante sia caratterizzato dalla sparizione di confini e da

una elevata mobilità, si rivela, pertanto, lontano dall’idea di cosmopolis sostenuta da filosofi e

pensatori universalisti, ma è sempre più caratterizzato da individualismi di massa che ne scuotono le

fondamenta e ne ridisegnano i contorni geografico-territoriali, con una escalation di violenza e di

contrapposizione che fa tremare Stati, Nazioni, confini e territori, e consegna al nuovo millennio,

l’arduo compito di identificare spiegazioni e trovare soluzioni adeguate che preservino lo Stato,

tutt’ora considerato come la cellula fondamentale dell’organizzazione politica, ma lo rendano una

realtà multiculturale in cui la coesistenza tra etnie, religioni, lingue e culture diverse, venga sancita

ufficialmente e garantita inequivocabilmente sotto il profilo politico, economico e sociale, in modo

da eliminare ogni residua conflittualità tra i popoli.

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