Alter Ego. Identità e alterità nella società mediale contemporanea [vol.2]

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Appendice

Appendice asistematica di intenzione multimediale

Siamo in una fase di lancio e insieme di sperimentazione di questo progetto di editoria digitale che tanto sta impegnando, anche in ter-mini di speranze e di aspettative il la.mu.s.a. Ci sentiamo anche un po’ pionieri, cerchiamo sul web tutte le informazioni sui cambiamen-ti nel mondo dell’editoria digitale determinati dalla rapidissima evo-luzione tecnologica. Nuovi formati, nuovi standard, nuovi device per leggere i libri elettronici. Tutto cambia con grande rapidità e il mer-cato segue diverse strade in maniera incerta e confusa. Da una parte il formato più diffuso, l’asso-piglia-tutto-PDF (brevetto Adobe, ma reso disponibile gratuitamente in lettura da decenni, grazie all’Acro-bat Reader), sembrerebbe cercare la semplicità di utilizzo e la moltepli-ce compatibilità di tutti i possibili lettori (computer, touchpad, telefo-nini a grande schermo, lettori e-ink). Dall’altra l’e-book prova a espandere le possibilità espressive, integrando contenuti video o foto-grafie ad alta risoluzione, clip audio o mappe interattive. Il formato ePub3 è uno standard in corsa per l’accaparramento di una fetta si-gnificativa del mercato.

L’esperienza mi porta a ragionare e ricordare almeno altri due mo-menti di discontinuità nella linea evolutiva della tecnologia applicata alla comunicazione del sapere e all’informazione. Due salti di quali-tà che dalla tecnologia hanno investito anche le possibilità espressive e, a cascata, il linguaggio. Il primo è stato il conflitto tra i formati di registrazione home video. La Sony inventa l’ottimo Betamax, che dà poi vita al professionale Betacam SP, rimasto in auge nelle televisioni nazionali fino a pochi anni fa. La Philips brevetta il sistema Video 2000, anch’esso di buona qualità, anche se meno performante del sistema a marchio Sony, ma anche decisamente più economico del

formato giapponese. Infine la JVC spinge per il proprio formato, che prende il nome di Video Home System, che successivamente tutti abbia-mo conosciuto e utilizzato come Vhs. Il Vhs si dimostra, fin dal pri-mo momento, il sistema peggiore, il più scadente in termini di risolu-zione audio/video e anche il più fragile dal punto di vista della mec-canica. Non è particolarmente affidabile, ma in assoluto risulta esse-re il più economico. La JVC decide infatti di non difendere il suo bre-vetto, permettendo a tutte le ditte (Sony e Philips comprese) di co-struire i videoregistratori con questo standard. In breve il Vhs si affer-ma sul mercato, portando all’estinzione sia il Betamax che il Video 2000. Il mercato sceglie così il suo standard e, da quel momento in poi, costruttori e fruitori hanno dovuto adattarsi, imparare a conosce-re e accettarne limiti e capacità. Nell’arco di pochi anni degli altri formati si perde perfino la memoria, perché quando il mercato impo-ne uno standard, tutto il resto è chiacchiera.

Il secondo momento di discontinuità nel mondo della produzione audiovisiva è determinato dall’invenzione della Firewire. Prima il vi-deo era analogico, si registrava un segnale continuo su nastro magne-tico, con la Firewire nasce il digitale. E, anche in questo caso, il mon-do tecnologico determina un cambiamento del linguaggio audiovisi-vo. Una piccola presa di connessione genera l’estinzione di tutte le costosissime schede di acquisizione analogico/digitale che avevano permesso fino a quel momento di realizzare il video digital editing, no-nostante le riprese originarie venissero ancora prevalentemente gira-te con sistemi analogici. Di colpo, tutti i calcoli esoterici sulla com-pressione della qualità audio/video in fase della digitalizzazione vi-deo (cattura, acquisizione) vengono solennemente a cadere. Anche in questa occasione si impone un formato, il DV, che nella sua versio-ne amatoriale MiniDv satura nel giro di pochi mesi il mercato, per

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un decennio buono, per esser soltanto di recente soppiantato dalle schede di memoria solida come le Compact Flash o le SD.

Nel primo esempio, la guerra tra i formati ha determinato la preva-lenza del peggiore, ma anche del più compatibile. Nel secondo esem-pio, l’invenzione di un semplice strumento tecnologico (una porta di connessione) è riuscito a generare una trasformazione epocale nella testa degli autori dei comunicati audiovisivi. In entrambi i casi la tec-nologia ha trasformato profondamente i contenuti e la mentalità stes-sa degli autori dei contenuti. Cambia interamente un sistema di rap-presentazione, cambia il modo di narrare con le immagini e perfino il modo di immaginare la narrazione. Cambiano le formule e cam-bia la mentalità degli autori e dei fruitori. In una parola, si trasforma il linguaggio. Si trasforma un mondo di riferimento, un sistema menta-le di rappresentazione della realtà. Non è solo una mera questione di mercato. È l’informazione che fa la muta e lascia negli angoli del ret-tilario squamosi stracci di pelle morta.

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L’Altro che è in Noi

Su segnalazione della Questura di Ragusa, tutti i giornalisti dei tele-giornali locali e regionali accorrono abitualmente al porto di Pozzal-lo. Ogni volta, la motovedetta della Capitaneria di Porto viene an-nunciata da un breve dispaccio del suo ufficio stampa, che informa del salvataggio dell’ennesima “carretta del mare”, proveniente dal Maghreb – prevalentemente dalla Libia di Muhammar Gheddafi, prima della sua violenta rimozione dal potere –; ogni volta, i giornali-sti partecipano a questo rituale triste dei soccorsi ai giovani africani disidratati e spossati da un viaggio terrificante. Ecco l’invasione dei disperati, i sopravvissuti a un viaggio pieno di peripezie e pericoli, che li conduce – “clandestini” – sulle coste della Sicilia. La rappre-sentazione è fissata in una formula immutabile e immarcescibile. Sen-za se e senza ma, gli stranieri sono disperati ed extracomunitari, so-no clandestini e irregolari. Non arrivano in Italia Richiedenti Asilo. Non conseguono mai lo status di Rifugiati, per i servizi dei telegiorna-

li locali, regionali e perfino nazionali, la semplificazione del racconto vuol dire comprensibilità. Certo, il pubblico ha ciò che si aspetta, sen-za dubbi, né incertezze. La voce fuori campo dello speaker ripete la stessa litania consolidata da ore e ore di televisione semplice. Lo stes-so mantra, per le stesse certezze culturali. Oppure no, si può scartare dalle riprese da “plotone d’esecuzione” di tutti i cameraman messi in fila, pronti a registrare la stessa inquadratura. Fuori dal quadro con-sono e riconoscibile – e soprattutto tranquillizzante nella sua ridon-dante ripetitività – ci può essere una ripresa differente. Una camera poggiata per terra, all’altezza degli stranieri seduti sulla banchina del porto, sotto il sole cocente di Sicilia. Un’inquadratura lunga, carica di rispetto, senza voce fuori campo, una testimonianza attenta ai det-tagli, all’umanità dei soccorritori e a quella dei soccorsi. Una registra-zione che non vuole informare, mettere in forma di notizia un even-to, ma che vuole invece raccontarlo, narrarlo, restituirlo in forma di breve storia per immagini.

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Pozzallo, 2007

Il back-stage di un documentario che gioca a costruire la fiction. In un gioco di specchi, il dietro le quinte di un progetto che definisce una messa in scena diventa una riflessione sulla responsabilità che implica raccontare una storia. C’è il racconto, con le sue regole, ma c’è anche l’esperienza reale, la registrazione di porzioni, frammenti di vita vissuta. C’è la selezione (falsificazione) dello spazio e del tem-po (coordinate prime della verità), ma c’è anche l’illusione di chi or-ganizza la narrazione secondo modelli e formule, citazioni e rimandi ad archetipi immutabili e perfetti. Così gli immigrati compiono stra-zianti odissee, che dell’omerico capolavoro conservano soltanto l’odo-re dell’acqua salata e il nome Mediterraneo. La mediazione dei tele-giornali televisivi ripropone luoghi comuni e stereotipi, colorandoli di assurdo. Eppure si sta in mare aperto, tra rollio e beccheggio di una barca cullata da onde lunghe. Allora il freddo, come il mal di mare, sono reali. E non si scherza più, perché il gioco fa male a gio-carlo fino in fondo. A trasformarlo in esperienza diretta. Il gioco può diventare un rigurgito di vita.

10 punti per definire l’identità

Stratificazione e riconsiderazione di parole e idee e sentimenti, rac-colti in un arco temporale di 10 anni, come appunti per un progetto di documentario audiovisivo, tra Wim Wenders, Stefano Savona, Mansour Gueye, Umberto Eco e Sofocle…

«O sventurato, possa tu non sapere mai chi sei!».

Sofocle, Edipo re

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Back-stage di goor

Chiama il mio nome

«Mi rendo conto che non cerco di imporre una conclusione: metto in scena un gioco di contraddizioni» (Umberto Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano 1995, p. 168).

«Vivi la vita che puoi: sei quello che sei / L’identità di una persona, di una cosa, di un posto / ‘Identità’, la parola stessa mi dà i brividi / Sa di calma, comodità, soddisfazione / Cos’è l’identità? Sapere dove sei di casa? / Sapere il tuo valore? Sapere chi sei? / Come si ricono-sce l’identità? / Ci creiamo un’immagine di noi stessi / Cerchiamo

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Identità come opposizione all’altro

Identità come nazione, il limite, il limine, il rifiuto del confine come regola

Globalizzazione contro globalizzazione, la polarizzazione delle identità contrapposte

Scelta del gruppo di appartenenza e rappresentazione di sé

di somigliare all’immagine / è questo che chiamiamo identità? / L’armonia tra l’immagine che ci siamo creati e noi stessi? / E chi è poi “noi stessi”?».

Wim Wenders, Appunti di viaggio su moda e città, 1989

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(R)esistere come chi?

Extracomunitario è una parola che classifica, definisce, riduce

Perdona e dimentica. Crimine, pentimento, condanna, espiazione

Due strade. Quella dritta, ripida e faticosa. Oppure quella torta, la scorciatoia che ha in sé già la condanna morale di chi è stato sconfit-to ed è captivo. Il detenuto è privo di sé, ormai catturato nella rete di uno Stato che fa ordine con il silenzio e l’oblio.

La banalità del Male. Il racconto di sé in terza persona è formula che priva di responsabilità gli atti. Essi sono. In tutta la loro incom-prensibile ineluttabilità, sono. Così, la voce di chi ha delinquito è fredda e piana nel descrivere il crimine. E quasi lo svuota di senso, ne riduce la portata distruttiva. È tutto un grande fraintendimento, il reato. Questo trasgredire le regole che non sono chiare. I fatti non sono chiari. Le azioni non sono definite e comprensibili. È il regno dell’inintelligibile.

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EP su cattura

GP su cattura

Confrontarsi con la sentenza è un atto necessario e assoluto. Il reo spera ancora nel processo. La sentenza ne determina l’identità. La sentenza passata in giudicato resta inappellabile. Il condannato è dete-nuto, tenuto da altri, privato della sua stessa persona, non solo della libertà.

Isolamento diurno come pena sulla pena. Pena accessoria, recita il codice. La cella non basta a contenere. Ci vuole pure il vincolo del silenzio e della solitudine. Per mesi, per anni.

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CG su cattura Pena sulla pena

La bestia feroce si agita nella gabbia. La reificazione del detenuto, il suo annullamento di persona si determina nella scelta di una segrega-zione che lo isoli, che lo estragga dalla società civile e che lo astrag-ga, riducendolo a monade senza possibilità di riconciliazione con l’umanità. Neanche il rapporto con gli altri detenuti è concesso al de-tenuto in isolamento, neanche la messa o l’ora d’aria in comune. Ci sono solo il cemento armato della cella, le sbarre e la porta di ferro. Uno spazio da misurare con qualche passo, avanti e indietro, come una bestia feroce, ormai in cattività.

L’isolamento diurno nelle parole di Carmelo che spiega, teorizza, raccoglie idee e impressioni, cerca di raccontare, narrare, descrivere.

L’isolamento diurno nei gesti, nei movimenti reiterati e insensati e disperati e assurdi di Angelo. Attese e rinunce. In silenzio.

Due fratelli, condannati all’ergastolo.

La sentenza definitiva stabilisce: fine pena mai.

Non si esce, non se ne esce. È un labirinto di passioni sorde, che im-plode senza emozioni apparenti. Un sorriso di circostanza forse, una pausa d’attenzione: Carmelo cerca le parole giuste. Angelo scende al passeggio, va in palestra, legge un libro di Terzani, ascolta le canzoni alla radio, guarda i cartoni animati in televisione, prepara il caffè. È

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In gabbia Trailer isola

tutto protetto e rarefatto dentro la scatola di ferro e cemento. C’è tut-to, ma è come lontano, sfumato, disperso, un miraggio sfocato, l’illu-sione di un sogno confuso. La regola del silenzio. La consegna del silenzio. Rumori in lontananza. Sempre gli stessi. Voci lontane, chia-mano, salutano, indicano, assegnano. Voci lontane, ovattate. Rumori sordi. Battitura ferri. Serrature scattano molle a chiudere, aprire, chiudere. C’è la famiglia Griffin in televisione; Neffa o Cocciante o Ligabue alla radio. E un uomo, controluce, in piedi, davanti alla finestra.

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iPhone, YouTube. Immaginari, modelli linguistici e costruzione d’identità fra i giovanissimi al tempo del web 2.0

Dare un nome e un volto al nemico. Contrapporsi alla presunta ba-nalità dell’Altro come se fosse una scelta religiosa. E nel rigore del rifiuto di una massificazione, si obbedisce ad altre formule e modelli. Quelli giusti, però, vincenti. I bimbiminkia sono invece dei poveri loo-sers, hanno gusti di merda e non avranno mai voce come opinion leader, perché sono pecorelle obbedienti. Non creano le mode, le subiscono.

La sorellanza dichiarata e urlata perfino, in una dichiarazione d’amo-re che passa per la lingua distorta e semplificata degli sms. Qui ci so-no didascalie in abbondanza a suffragare, con parole che narrano una storia di amicizia, un rapporto fatto di esperienze condivise. Cre-scere insieme significa fare gruppo, condividere aspirazioni e paure, sogni e desideri.

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Chi sono i bimbiminkia_

io e te soru pa vitaa

«Noi siamo carcerati, noi siamo abbandonati e pensierosi… Dentro questo Malaspina» questa è la traduzione letterale dal dialetto della canzone che apre questa clip. I giovani che appaiono nelle fotografie in slideshow non sono certo tutti dei criminali. Ma è un gioco che ob-bedisce alle regole della rappresentazione, quello di indossare una maschera, come il passamontagna o la sigaretta all’angolo della boc-ca con lo sguardo malandrino di un pasoliniano ragazzo di borgata. Ma altri sono i modelli di riferimento di questi giovani, soprattutto televisivi e tra tutti Il capo dei capi è sicuramente il più forte. L’ascesa criminale e mafiosa di Totò Riina ha illuminato di bieca e malsana speranza le vite di periferia di questi “carusi di quattiere”. A chi si vuole assomigliare? E soprattutto perché?

La galleria dei personaggi famosi su YouTube è indubbiamente ric-ca. Domylyon, nick name di un giovane di quartiere, pronto a defi-nirsi “zavuddu”. Ma cosa significa questo gioco autoironico, che ri-manda a conflitti generazionali con i genitori e a ribellioni di altri tempi (il taglio dei capelli, come simbolo di appartenenza, rimonta almeno al 1968 e ai capelloni trasgressivi)? Qui è tutto sottotraccia, tutto in scala ridotta. Essere “zavuddu” non è più qualcosa di cui ver-gognarsi, ma invece lega a un gruppo di appartenenza preciso. Ci si riferisce a un gruppo specifico, si fa parte di una comunità precisa.

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catania il doppio taglio di domylyon

Ed ecco appunto la sfida glocal al dirimpettaio. Ti faccio vedere come si balla la musica elettronica. Ti sfido in video, attraverso il web (glo-bal), anche se sei un vicino di casa, che parla il mio stesso dialetto (lo-cal). In questo glocal confuso eppure ipnotico si gioca la partita della popolarità. In una rete di connessioni continue, come sottolineato dal continuo suono di avviso di incoming message su MSN. I Social Net-work sono, in questo caso, una piattaforma che poco ha del virtuale. Si propongono invece come il naturale prolungamento della piazzet-ta sotto casa, dove appunto ci si sfida in mosse di ballo sempre nuove ed esaltanti.

Il web è il luogo di nascita di filosofi e improvvisati maestri di vita. Basta essere più sfacciato degli altri per ricevere un numero esagera-to di contatti e divenire un personaggio dell’Internet. Prima della pa-rola intesa come discorso, prima dei blog e dei siti, ci sono i video-messaggi di commento. È un delirio di difficile comprensione per chi non partecipa a questo reality fai-da-te.

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sfida_a_domylyon_arispunni_test_e_mink_i_a zio baddottola insulta carota(discussione x delle ragazze)

E chi è personaggio della Rete si conquista anche una fama regiona-le. Tanto che a sfidare, ancora una volta in video il catanese zio Bad-dottola, sono addirittura dei ballerini palermitani, che colgono l’oc-casione anche per ribadire la solita rivalità tra le due principali città di Sicilia. «Palermo comanda», sostiene uno dei ragazzi, naturale cal-co dall’espressione inglese «someone rules». Eppure c’è tanta globa-lizzazione anche visiva, in questa clip, che gioca con l’immaginario di Meri per sempre e Ragazzi fuori, ma anche con la peggiore messa in scena di Bollywood, con le coreografie esposte a favore di camera. O, meglio, di telefonino. E qui sta il dato tecnico più interessante, perché c’è una vera e propria regìa dietro questa clip. Un piano se-quenza rigorosissimo, con decine di appuntamenti perfettamente ri-spettati da questi attori improvvisati. I fari delle auto illuminano la pista da ballo per l’esibizione e tutti fanno del loro meglio per un bal-letto corale da prima serata di Rai 1. C’è tanta ironia, ma c’è anche consapevolezza di appartenere a un mondo senza grandi possibilità di riscatto sociale.

Qui siamo alla parodia del boss, a partire dalla voce roca e da un ca-novaccio recitato che riproduce gli stereotipi dell’uomo d’onore che si contrappone alla violenza dello Stato. Il poliziotto è primo nemi-co, come si legge sui muri di Catania o di Palermo, con una radicaliz-zazione del conflitto leggibile in filigrana proprio attraverso queste scene di gioco di ruolo. La scelta dei personaggi protagonisti e delle situazioni in cui si muovono non lascia presagire un futuro roseo per questi ragazzi.

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zio baddottola e compani sfida parte 3 ragazzi di palermo zu mingo ira funesta

Ancora una parodia, ma stavolta più raffinata. La scelta di seleziona-re ed estrarre alcune scene del film più famoso per una intera genera-zione di adolescenti, per ricontestualizzarle con un nuovo doppiag-gio in dialetto siciliano e con una storia diversa e divertente, fa inten-dere il grado di padronanza del linguaggio audiovisivo da parte di questi giovani videoamatori. Eppure c’è una disillusione nei confron-ti delle storie sentimentali, che a tratti disarma. La rilettura è certo più divertente di molte proposte commerciali statunitensi (come la serie Scary Movie), più radicale e culturalmente più ricca, proprio per-ché radicata in una cultura territoriale ben precisa, la Catania dei quartieri.

Definisco la mia identità attraverso elementi simbolici che riconduco-no a un insieme, a una famiglia di riferimento. Sono come sembro. Sono membro di un gruppo che mi accoglie e che mi de-termina, che traccia i miei confini e le mie qualità caratterizzanti. L’abito, la petti-natura, la voce e i modi di dire e di atteggiarsi sono la divisa che uniforma.

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Sono una Truzza - SusyDoppiaggio Siciliano Twilight parte I

Gemma del Sud è diventata un mito del web, perché tutto il mondo della Rete la prende in giro e lei non se ne accorge. È una pessima cantante e non è certo una bellezza, ma crede di essere una star e i numeri delle visualizzazioni delle sue clip la lanciano di diritto nella top ten dei “casi” italiani della Rete da studiare. Qui il gioco è specula-re. Perché a commentare il fenomeno mediatico è un ragazzo della stessa generazione. E perché usa il dialetto come lingua diretta e nel-lo stesso sarcastica, piena di sfumature e colori. Certo c’è il conflitto tra Palermo e Catania, c’è il desiderio di contrastare l’antipatia natu-rale di Gemma del Sud. Ma l’ironia strisciante di questa clip mette in discussione la veridicità stessa dell’attacco al personaggio scomo-do. È tutto uno scherzo? È il contesto che fa senso. E sul web, la nar-razione avviene tra scambi di accuse e insulti, tra sfide accettate e re-

spinte, offese lanciate e restituite. Il caso umano si confonde con il freak. E non c’è umana pietà in questo continuo dileggio mediatico, tutti contro tutti, ferocemente.

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Video_Contro_GemmaDelSud

Un caso estremo di razzismo istituzionale. Il permesso a punti e la dilatazione per via amministrativa della precarietà dello straniero

Il sonoro del Braveheart, diretto da Mel Gibson, si giustappone mecca-nicamente a una messa in scena visiva a metà tra la giostra medieva-le e la promozione superomistica dell’eroe padano per eccellenza, Alberto da Giussano. «Rispetto della nostra terra, delle nostre tradi-zioni, della nostra Storia» è lo slogan che sembrerebbe strutturare, come spina dorsale, questa narrazione conformista e sbruffona. «Onestà, Coraggio, Famiglia, Sicurezza, Libertà». È seria tale propo-sta di rappresentazione audiovisiva? O è da intendere come semplice azzardo linguistico? Corrisponde a una vera proposta di lettura della

realtà? Al di là della sciatteria della confezione, al di là del pressapo-chismo nella ricerca delle radici storiche, la parola «Sicurezza», che scivola via, gettata lì insieme alle altre parole testimoni di un conser-vatorismo becero di un’ultradestra nazionalistica, risulta vieppiù in-quietante perché fa riferimento all’unica coerente battaglia che la Le-ga ha condotto fin dalla sua fondazione. Ognuno è padrone a casa sua, ripeteranno i leghisti come un mantra, i meridionali ritornino al Sud, gli immigrati ognuno nel proprio Paese e la terra patria sarà di-fesa con la spada e il sangue. E tutto questo, nero su bianco, a lettere gotiche.

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Viva_Bossi_spot_elezioni_politiche_2008