Memoria e identità in frantumi

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Annamaria Fantauzzi Docente di Antropologia Medica e Culturale all’università di Torino e ricercatrice in Etnopsichiatria all’EHESS di Parigi, è responsabile dell’Osservatorio nazionale per la cul- tura del dono del sangue di Avis nazionale. Recentemente ha lavorato e pubblicato arti- coli e saggi su riviste nazionali e internazionali sul rapporto “donazione del sangue e comunità immigrate”, occupandosi in particolar modo di quella marocchina. È inoltre docente di Antropologia medica e membro del comitato scientifico della Libera universi- tà europea A.E.ME.TRA (Torino) e docente di Antropologia culturale e delle migrazioni presso alcune scuole superiori. Collabora con il CERSS - Centre d’Etudes et de Recherches en Sciences Sociales di Rabat ed è responsabile della cooperazione interna- zionale Marocco-Italia nel progetto PNUD per lo sviluppo sociale e le dinamiche migra- torie. Tra le sue recenti pubblicazioni: L’altro in me. Dono del sangue e immigrazione fra culture, pratiche e identità (Milano 2008). 120-131 Fantauzzi12 ok.qxp 5-10-2009 14:56 Pagina 120

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Annamaria FantauzziDocente di Antropologia Medica e Culturale all’università di Torino e ricercatrice inEtnopsichiatria all’EHESS di Parigi, è responsabile dell’Osservatorio nazionale per la cul-tura del dono del sangue di Avis nazionale. Recentemente ha lavorato e pubblicato arti-coli e saggi su riviste nazionali e internazionali sul rapporto “donazione del sangue ecomunità immigrate”, occupandosi in particolar modo di quella marocchina. È inoltredocente di Antropologia medica e membro del comitato scientifico della Libera universi-tà europea A.E.ME.TRA (Torino) e docente di Antropologia culturale e delle migrazionipresso alcune scuole superiori. Collabora con il CERSS - Centre d’Etudes et deRecherches en Sciences Sociales di Rabat ed è responsabile della cooperazione interna-zionale Marocco-Italia nel progetto PNUD per lo sviluppo sociale e le dinamiche migra-torie. Tra le sue recenti pubblicazioni: L’altro in me. Dono del sangue e immigrazione fraculture, pratiche e identità (Milano 2008).

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COMMUNITAS 36 - L’AQUILA 09 • 121

MEMORIA E IDENTITÀIN FRANTUMI

Un’antropologa per dieci giorni in una delle più grandi tendopolidell’Aquila. Incontrando gli sfollati che scorrono gli album difoto familiari in cerca di frammenti di biografia privata e civile.Sfogliando i loro diari dove annotano giornate uguali le une allealtre. Incontrando i pazienti del Centro di igiene mentale a cuila terribile scossa è come se avesse abbattuto anche il murodella solitudine. E leggendo le pagine istruttive di IgnazioSilone che raccontò il terremoto del 1915 a Pescina, in Abruzzo

Annamaria Fantauzzi

antropologa

La tendopoli di Campo Globo è stata allestita il 7 aprile, il

giorno seguente al forte sisma che ha colpito il cuore de

L’Aquila e dei paesi limitrofi. All’inizio ospitava 2mila resi-

denti; le mense della Marina e dell’Esercito preparavano pasti per

4mila persone. Oggi è ancora il secondo campo più grande di quel-

li presenti nel territorio aquilano: le 120 tende, disseminate l’una

accanto all’altra, accolgono mille persone, in attesa di un’abitazio-

ne, e di ricominciare una quotidianità di paura e ricordi.

ALLA RICERCA DELL’INTIMITÀ: VITA DI TENDA

Sono le sei di una mattina di agosto; il sole spunta timidamente dai

monti circostanti che vedono le prime persone uscire dalle tende. In

ognuna di esse, un uomo e una donna hanno perso la loro intimità,

dovendo condividere gli spazi con altri nuclei familiari, spesso del

tutto estranei. Loro, i terremotati, come si suole dire, o, con consue-

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ti eufemismi, i “residenti” del campo aspettano… aspettano di poter

dormire in un letto che non sia una brandina con accanto una sedia

per comodino; di poter rivestire il materasso delle lenzuola che

hanno il profumo del bucato di casa, lasciando coperte che hanno

scaldato più di mille corpi; aspettano di poter consumare un po’ di

pasta senza dover mostrare un cartellino di identificazione (senza il

quale non si avrebbe diritto al rancio) e schierarsi in fila a colazione,

pranzo e cena.

Aspettano… fuori dalle tende, fissando il sole e il cielo che dal 7

aprile sembra essere sempre lo stesso, e con un sorriso, stentato, a

volte inesistente, salutano i vicini di tenda come conoscenti di una

vita (quand’erano dei perfetti estranei), di cui

conoscono adesso ogni movenza, l’ora del

risveglio, il colore dell’accappatoio con cui si

recano nei bagni collettivi, il rumore delle

ciabatte che solcano le strade piastrellate tra

una tenda e un’altra.

E la giornata inizia ripetutamente sempre

uguale: chi, per non far rumore, silenziosa-

mente esce dalla tenda e attende sulle sedie

dei tavoli antistanti dove l’aspetta la solita

rivista in cui, in prima pagina, si parla anco-

ra di loro… chi, fortunato, apparentemente, ha ancora un lavoro che

l’obbliga a “far finta di niente”, a prepararsi anche in modo elegante

e curato perché la città vada avanti, o perlomeno torni a camminare.

Lo specchio in cui le donne si truccano e gli uomini rasano la barba

è perentoriamente fuori dalla tenda… non deve infastidire, né disto-

gliere il sonno già inquieto.

MALATI D’IDENTITÀ

Latte, caffè, tè e biscotti: la colazione monotona per alcuni inizia, per

altri finisce dopo l’“alzabandiera” guidato dagli Alpini che, encomia-

bilmente, amministrano tutto il campo: dalla pulizia allo stoccaggio

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“La giornata in tenda inizia sempre uguale. In attesa di ritrovare

l’intimità perduta e la biancheria

col profumo di bucato

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delle offerte, ancora impolverate e sepolte negli innumerevoli con-

tainer presenti, dal servizio mensa alla manutenzione di tutto il

campo, dalla distribuzione dei beni di prima necessità alla segreteria.

L’Ana, la Protezione civile, l’Avis e altre associazioni di volonta-

riato presenti sin dai primi momenti della catastrofe sono una pana-

cea all’irrimediabile frattura che ha colpito i residenti. Questa mac-

china organizzativa, talora infernale per l’eccesso d’umanità che il

numero quasi superfluo dei volontari dimostra, tutela, accompagna,

difende, preserva e cura i “malati” del campo: non solo nell’inferme-

ria dell’Avis dove Rita, febbrile infermiera di Campobasso, dopo solo

due giorni dal suo arrivo, ha in mente già le cartelle cliniche di tutti

coloro che dipendono da una puntura di insulina, ne conosce i nomi,

gli orari della cura, la ruvidità della pelle della mano che sempre,

affabilmente, carezza come a rincuorare; non sono solo questi i

malati. E non basta il centro di ascolto né il supporto psicologico

presente in diverse figure nel campo, che tentano di lenire e rimuo-

vere una psicosi indelebile, radicata nella mente e nel corpo di que-

sti strani malati. Perché malati non sono, sebbene il pubblico di tutta

Italia li abbia visti così rappresentanti in un abuso di fotografie, di

interviste silenti (ma cosa ci si aspetta che dica una persona che ha

perso, inspiegabilmente, in un attimo, un padre e una sorella, restan-

do viva sotto le macerie?).

Eppure fa scoop… fa scoop il giornalista di Canale 5 che, proprio

in questa mattina di agosto, è entrato al campo catturando lo sguar-

do di volontari e residenti con telecamere puntate a ricercare l’indi-

screzione, a cogliere lo sguardo perso nel vuoto, magari con la lacri-

ma di nostalgia, dell’anziana signora seduta di fronte alla sua tenda,

del bambino che gioca senza sosta perché non ci sono muri né porte

che possano tenerlo “dentro”, della ragazzina che guarda attonita i

baldi soldati a servizio di tutto il campo. Questo fa scoop, come il

plauso dell’Italia a chi promette ricostruzione e “domani” a chi non

ha dormito su quel materasso di lenzuola anonime biancastre,

dovendo uscire carponi per non disturbare il sonno di altri senzatet-

ANNAMARIA FANTAUZZI

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to, anzi senza identità. Ecco in cosa sono malati!

Sono trascorsi cinque mesi da quella notte quando, alle 3.32, la

terra, furia imbizzarrita e indomabile, ha reso molti aquilani orfani

di padri, madri, figli, nonni, spogli della loro casa ma soprattutto di

quei luoghi che li hanno visti crescere, scambiarsi i primi baci, lavo-

rare, costruire. «Passato il tempo del cordoglio», scrive l’antropologo

aquilano Antonello Ciccozzi, «dopo aver pianto e onorato gli estin-

ti, ora, con il cuore spezzato dal dolore, siamo di fronte al fatto che

questo terremoto ha procurato circa 10mila vivi, tutti senza più il

centro storico, la fonte di riconoscimento identitario, il deposito di

memoria collettiva in cui ogni vissuto trovava elementi culturali di

riproduzione; tra questi ci sono molti che oltre a non avere più il

centro storico sono anche realmente senzatetto, privati della casa, del

supporto necessario per la quotidianità domestica, per la coltivazio-

ne delle abitudini intime che danno misura all’esistenza».

È quanto si vede passando per le vie del centro di L’Aquila, gre-

mite di ciottoli e di calcinacci: un signore, solo, man mano che si

avvicina alla piazza principale, piange; intorno, turisti curiosi, forze

dell’ordine che eseguono - pur rattristati - un comando; il signore

non vede nulla, non sente nulla se non il silenzio di pietre che copro-

no di fantasmi luoghi, oggetti, nomi morti o semivivi. L’uomo pian-

ge, salendo verso il centro, che non riconosce più. Negozi chiusi,

blindati, con la scritta: «Chiuso dal 6/4/2009… Si riapre il…?». E

come quell’uomo, anche i residenti di Campo Globo avrebbero volu-

to portare un pezzettino del passato integro dentro la loro tenda,

anzi “la casa-tenda” come la chiamano i loro bambini, figli assoluta-

mente coscienti e vigili in quella notte di aprile.

«Sono salita a casa per prendere qualcosa», con un filo di voce rac-

conta Mirella, «qualcosa sì, ma poi vedi tutto così… tutto sottosopra

e allora non sai neppure più perché ci sei andata o cosa stai cercan-

do. Ho preso le foto, le foto quelle sì». Foto che accuratamente, nel

tavolo fuori della tenda, molti sfogliano, guardano, sistemano anno

per anno, senza che nessun particolare venga perso. È l’identità che

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riemerge, che viene tutelata pur nella solo rappresentazione estem-

poranea di un souvenir immateriale, specchio nel cuore di un passa-

to che dà conforto.

«Guarda com’era casa mia!», illustra Elisa alla sua vicina di tenda

con cui ha l’abitudine di gustare il caffè pomeridiano dalla moka che

gorgheggia sul fornelletto elettrico (unico loro utensile, portato da

casa). «Queste sono le scale da dove è scesa mia figlia, quando s’è

sposata. Qui c’erano tutti i vasi di fiori, poi la porta con i fiocchi

bianchi e rosa… ora forse c’è solo il bianco di tante pietre!». La foto,

il mobile salvato dalle macerie, alcuni indumenti, i giochi dei bimbi,

per chi ne ha di piccoli... un frammento di identità domestica viene

ricostruita, sebbene si imprechi contro qual-

siasi parete o muro che possa ancora sorpren-

dere (e non proteggere) da notti minacciose:

«Sono andata anche a casa di miei parenti

lungo la costa… ma non ho dormito in

camera, sul divano, vestita» ribadisce Laura,

mentre ritira sapone e dentifricio dal “bazar”

gestito dagli Alpini. «Lo so, è passato tanto

tempo, ma non riesco … le pareti che vengo-

no giù mi fanno paura, devo essere pronta a

fuggire».

La psicosi del crollo, dell’ondulazione, del movimento accompa-

gna i residenti anche in situazioni di possibile tranquillità come

quando, a una scossa notturna, qualche residente si è riversato fuori

dalla tenda per timore che si accartocciasse su se stessa. «Infatti,

quando ho sentito che tutta la camera si muoveva su, giù, a destra e

a sinistra», afferma Eleonora, bimba di cinque anni che, con la mano

tremante, tenta di descrivere con precisione il movimento ondulato-

rio, sussultorio e rotatorio della scossa delle 3.32, «ho visto che la

casa si accartocciava come una merendina e, per fortuna, mamma

urlava, allora nel buio l’abbiamo seguita, ma nelle scale non si vede-

va niente, allora siamo uscite dal buco che s’era fatto nella parete del

ANNAMARIA FANTAUZZI

“Il terremoto ha tolto a circa 10mila vivi

il centro storico, fontedi riconoscimento

identitario, deposito di memoria collettiva

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secondo piano (noi stavamo al quarto) e poi qualcuno c’ha preso…

che fortuna!». Qualcuno la chiama fortuna, alcuni Dio, altri sorte e

destino.

ANGELI CUSTODI?

Alcuni dei residenti dicono che i volontari di Campo Globo siano

degli angeli che non li hanno mai lasciati soli, anche ora che sembra

si sia passati dall’assistenza all’assistenzialismo. Angeli custodi che

vorrebbero guarire malati con medicine che, invece, li rendono ine-

betiti e disattivi; che non permettono loro di cucinare, spazzare, ras-

settare come è nell’ordinaria quotidianità di una casa e di una fami-

glia (pur allargata che sia). Angeli che forse,

aldilà delle intenzioni, li preservano malati,

perché la ricostruzione (quella del cuore,

della mente, non solo delle pietre) sembra

lontana.

Ma il tenente Ducange fa costruire ai

suoi soldati l’“orto degli Angeli”, così chia-

mato perché al suo ingresso domina uno

splendido cuore formato da alcune pietre

raccolte a Onna. È l’orto di cui dovranno

prendersi cura i più anziani dei residenti,

che brancolano spesso senza meta tra una tenda e l’altra, che non

hanno appetito, quando con un sorriso, spesso di circostanza, il

volontario augura buon appetito tra altre cinquanta persone in

coda.

Sono soprattutto loro a non credere al “domani”, a vivere delle

fotografie e a rifiutare di lasciare il suolo aquilano in cambio di una

sistemazione sicura fuori regione; sono loro che riscoprono quei sim-

boli dell’identità culturale locale, come il tombolo che con maestrìa

iniziano a insegnare alle più giovani: «Passiamo il tempo, ci teniamo

compagnia», sostiene Carmela, attenta a terminare uno dei suoi

primi lavori. «Come vuoi che facciamo altrimenti? Voi da qui ve ne

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“La tendopoli è uno spazio totalizzante. C’èla casa-tenda, la scuola-tenda, la Chiesa-tenda.Il problema è uscire da

questa logica

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andate, ruotate chi una settimana, chi dieci giorni. Noi siamo qui da

cinque mesi, non ruotiamo certo, siamo qui…».

E come un tempo fisso e immobile, si attende… mentre volti

sempre nuovi di volontari e volontarie, giunti da tutta Italia e anche

dall’estero, cercano di imparare i nomi di ogni residente, il numero di

tenda, di scoprirne, senza alcuna discrezione, la tragica, talora luttuo-

sa storia. Volontari che fanno servizi e ne inventano: come il soste-

gno allo studio per i bambini di scuola elementare e media delle

ragazze dell’Avis - dopo cinque mesi, in pieno agosto, i bimbi torna-

no sui banchi della “scuola-tenda”!-, il reperimento dei farmaci

necessari all’infermeria e la garanzia che il medico di base sia sem-

pre presente per le dovute ricette e prescrizioni; la ludoteca e il Coni

con l’animazione sportiva, sebbene non tutto quello che viene fatto

sia visibile. «Tanti servizi offerti sono conosciuti solo da chi li ha

ricevuti», testimonia Fernando dell’Avis di Casola Lunigiana, che

dopo agosto tornerà a fine settembre a Campo Globo, «ritengo che

anche le piccole cose di ogni giorno siano importanti se finalizzate

alla crescita e al benessere delle persone. Ricordo la Messa domeni-

cale nella Chiesa-tenda, lì ho incontrato mamme pronte ad allattare

i loro bambini anche durante la celebrazione eucaristica. Lì, in quel-

l’angolo d’Abruzzo, oppresso dal terremoto, ho vissuto una settima-

na di Agosto vera: non quella delle nostre romantiche spiagge o città

d’arte».

GUARIGIONI DALLE TENDE

Proposte e sentimenti si confondono, il sapore del pane appena sfor-

nato e la melodia delle canzoni dei nonni abruzzesi tacciono di fron-

te alla psicosi dilagante con cui, ora, che lo si voglia o no, le persone,

non solo a L’Aquila, stanno imparando a convivere... Come hanno

fatto per cinque mesi gli utenti del Centro di igiene mentale che

sono rimasti al Globo fino a metà agosto, da quel 7 aprile in cui

hanno chiuso la casa di cura per sistemarli in dieci tende. Sembra,

paradossalmente, che a loro il terremoto abbia sconvolto una mono-

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tona e angosciante quotidianità che, sebbene riproposta nei piccoli

elementi del ciclo di cure da seguire, nel numero delle pastiglie da

prendere, nei periodici colloqui con lo psichiatra e l’assistente socia-

le (presenti anche al campo), si è trasformata in una spensierata

vacanza con tanti amici: «La tenda m’ha dato tanto», afferma

Renata, innamorata della scrittura e del bel soldato della Marina che

ha conosciuto al suo ingresso nella tendopoli, «prima stavo sempre

sola con queste signore anziane, qui ho tanti amici. Posso passeggia-

re da sola, visitare tutte le tende, fare anche tardi la sera se la cura me

lo permette. Lì no, e non voglio andare via».

Le pareti, quelle della malattia, della solitudine e dell’emargina-

zione sociale, sono talora più forti e difficili da scalfire delle mura di

una casa che, comunque, con la scossa è crollata, sovvertendo e quasi

rinnovando la vita di queste persone: Liliana passeggia con la sua

bambola rosa sempre tra le mani, “il dottor Rosone”, come la chia-

ma, incurante degli sguardi curiosi e, talora, pietosi dei nuovi volon-

tari; Livia che fuma anche più sigarette di quanto le sia consentito

perché «qua non c’è niente da fare, allora, all’aria aperta, fumo e mi

rilasso, che devo fare?»; Bertilla che attende l’ora dei pasti, unico

appuntamento che scandisce la sua giornata; e, tornata dal pranzo,

alle 12.30, inizia il conto alla rovescia in attesa della cena delle 19.30.

Intanto Renata scrive, scrive un diario a cui è tanto legata da

tenerlo al sicuro da mani e sguardi indiscreti. La sua identità, la sto-

ria traumatica familiare e affettiva che la porta talora a episodi di

delirio, si riversa su queste pagine, che sanno di tristezza, di paura,

ma anche di gioia e di sorpresa di una vita di campo pienamente vis-

suta: «30 giugno - Ho parlato con un militare: “Ci si può sentire soli

in mezzo a tanta gente”. E lui, come se mi avesse capito, con gli occhi

lucidi, mi ha detto che si era lasciato dalla ragazza. Il pomeriggio ho

fatto volare l’aquilone, e i ragazzi hanno giocato a calcetto. San

Marco sei unica! Poi ero riuscita a mandarlo [l’aquilone] bene e con

me un’altra ragazza ma la telefonata di Valentina mi ha ricordato che

si era fatta quasi ora di cena e così sono tornata, ho fatto un po’ fati-

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ca ad avvolgere l’aquilone ma poi ce l’ho fatta. Ho fatto vedere

l’aquilone a Valentina quando sono tornata in tenda e dopo sono

andata a cena a consumare. E poi ho portato il vassoio dove c’è anche

Leonardo, non riesco a non guardarlo, mi piace troppo. Il G8 è dura-

to tre giorni; infatti alla mensa ho incontrato due signore che face-

vano le cameriere alla Guardia di Finanza e i vari presidenti erano

ripartiti ognuno per il loro Stato. Mi sarebbe piaciuto anche a me

indossare la divisa da cameriera, piena di merletti. Ho sperato che

Leonardo mi regalasse un ballo o una canzone ma ultimamente non

fanno nessuna festa, so soltanto che mi è dispiaciuto un’altra ragaz-

za che puliva i vassoi al posto mio… lei si è subito chiarita dicendo

che era lì per aiutare».

Sorride Renata mentre legge, a bassa

voce, queste pagine e commenta: «Ho solo 35

anni e la mia vita è stata sballotta sia a destra

che a sinistra, un po’ per gli ospedali, un po’

per le case, ne ho cambiate tante, ma nessu-

na è stata stabile, oltre alla crisi lavorativa,

oltre al fatto che mi dicevano che poi mi

avrebbero pagato tutto insieme, c’è mancato

anche il terremoto e ora vorrei aprire l’artico-

lo con una preghiera: “Ringrazio il Signore

che ha risparmiato la vita mia e di tutti quelli del campo, ricordan-

do tutte le altre vittime che sono morte sotto le macerie”».

Renata ha acquistato la sua quotidianità, come tutti i residenti che

attendono che venga qualcuno a consegnare loro una casa (le picco-

le abitazioni in legno, consegnate in questi giorni a Onna, sono stru-

mento politico o speranza reale?), a restituire loro quell’intimità

familiare per mesi negata, pur perseguitati dal ricordo di una notte

terrificante, dalle disumane conseguenze.

E Renata racconta, nella sua scrittura rapida e ragionata, questo:

«1 agosto - il dolore che si nasconde dietro nessuno può saperlo, in

fondo qui c’è una parte della mia vita… la sua gente con la propria

ANNAMARIA FANTAUZZI

“Per i pazienti delCentro di salute mentalele pareti della malattia,così difficili da scalfire,

è come se con la scossa fossero crollate

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disperazione cercando ognuno la propria famiglia… i propri amici…

i propri figli. Quelli che ormai avevano detto addio per sempre alla

vita, perché rimasti sotto le macerie… altri portati con urgenza fret-

tolosamente negli ospedali ed era un miracolo se si trovava posto

perché oltre ai pazienti ricoverati c’erano anche i terremotati. E i

bambini… ancora le loro madri piangono per quei piccoli angeli

caduti. Vorrei asciugare le loro lacrime e poterle baciare dandogli un

po’ di amore e di colmare quel vuoto che portano dentro di loro».

DOPO IL TRAMONTO, L’ALBA

In Uscita di sicurezza, Ignazio Silone offre una descrizione del terre-

moto del 1915 in Abruzzo che sembra fotografare quanto accaduto

a L’Aquila: «Poco dopo il terremoto, squadre di soccorso provenien-

ti dal Nord apparsero a Pescina. La gente di quel piccolo paese era

scioccata: un millennio di insularità aveva decretato che ognuno

avrebbe seppellito i propri morti per cercare di riprendere il filo della

vita dopo una calamità naturale; non c’era mai stata una tradizione

di mutua assistenza. Ora, quei contadini della Marsica erano circon-

dati da ben intenzionati volontari e lavoratori pagati dallo Stato per

aiutarli, ed erano semplicemente stupefatti. Un aneddoto rivela la

grande distanza che c’era tra le vittime di quel terremoto e i loro

benefattori: una settimana dopo il terremoto, rifornimenti comincia-

rono ad arrivare da Milano. Oltre i vestiti e il cibo, c’erano anche

delle case prefabbricate, ma gli architetti del nord avevano costruito

queste case facendo un “errore”: la cucina dei tempi moderni sareb-

be stata usata soltanto per la preparazione del cibo, mentre l’attuale

consumo del cibo sarebbe avvenuto nella “stanza da pranzo”. Le vet-

tovaglie sarebbero state messe in cantina. La famiglia avrebbe tra-

scorso più tempo nel “soggiorno”. Quando i contadini di Pescina

entrarono in possesso di queste case, la prima cosa che fecero fu

quella di distruggere con l’ascia e il martello le pareti interne. Non

toccarono l’esterno, non volevano offendere la sensibilità dei donato-

ri milanesi, ma all’interno riconfigurarono totalmente quelle case. La

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tipica famiglia contadina di Pescina, dell’Abruzzo e in genere del

Mezzogiorno trascorreva la maggior parte del suo tempo nella cuci-

na - di solito l’unica stanza riscaldata -. Quelle case prefabbricate,

costruite per essere utilizzate solo per sei mesi, erano abitate anche

mezzo secolo dopo da quel terremoto...».

Da abruzzese, ho fatto mie queste impressioni, queste storie di

vita, condividendo con i residenti, seppur per poco tempo, il disagio

della tenda, la nostalgia dell’intimità, la voglia degli oggetti di casa,

del profumo della propria cucina, degli spazi conosciuti e degli ango-

li nascosti, la ferita dell’identità violata, ridotta in un cumulo di

macerie e di ricordi.

… e la giornata, dopo la colazione e l’alzabandiera, il tombolo e il

saluto dei vicini, prosegue; sempre uguale, sempre lì, fino a quando il

sole del mattino giunge al tramonto e inaugura una nuova alba.

ANNAMARIA FANTAUZZI

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