Identità di Becchina, in identità / diversità, a cura di Tiziana de Rogatis, Giuseppe Marrani,...

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95 IDENTITÀ DI BECCHINA Giuseppe Marrani 1. Alterità di Cecco, poeta ‘comico’ Uno dei capitoli più fortunati del libro che Mario Marti dedicò ormai sessant’anni fa alla cultura e allo stile dei poeti da lui definiti «giocosi» dei secoli XIII e XIV è senza dubbio quello intitolato a Cecco Angiolieri e lo stilnovo 1 . Marti proponeva in quella sede di superare le prudenze e la circospezione della critica del tempo che stentava a ricono- scere chiaramente nella poesia d’amore dell’Angiolieri una franca parodia dello stilnovo. «Ché tale è il conclamato stilnovo di Cecco: spassosa parodia di un letterato-mimo (…)» scriveva Marti, puntando a rettificare con la sua analisi gli ancora troppo misurati profili angioliereschi redatti in precedenza da studiosi come Mario Apollonio, Bruno Maier e finanche Natalino Sapegno, che pure di contrapposizione allo stilnovo già parlava, senza però, a parer suo, precisa consapevolezza del deliberato gioco retorico e contrappunto stilistico dal quale derivava tale opposizione. «Se le rime amorose del senese fossero esaminate solo come esemplari dello stilnovo – argomentava ancora Marti – sarebbero davvero da abbandonare nella più assoluta dimenticanza, tanto apparirebbero goffe, sfi- gurate e decisamente brutte. Ma ciò non sarebbe lecito se non in via del tutto ipotetica ed irrealizzabile; poiché tutti gli elementi di cultura, di gusto, di temperamento pongono Cecco di fronte agli stilnovisti in un atteggiamento di beffa ribelle» 2 . Scorgere nelle rime di Cecco l’impronta non solo di una psicologia antagonista ma anche di una desiderata e sapientemente costruita alterità letteraria, spesa tutta sul piano del ribaltamento parodico e della divertita irrisione, significava per Marti comporre un capitolo importante della sua generale e nuova interpretazione della tradizione comica medievale come diffuso gioco o ricercato divertimento oppositivo rispetto ai consolidati valori sociali e morali o alla voga già da tempo invalsa della lirica d’amore. In Cecco e nella sapienza retorico-stilistica dei suoi sonetti amorosi sarebbe insomma più in par- ticolare da leggere per Marti una frazione di rilievo della propensione, connaturata fin dalle origini della cultura romanza, a fornire una versione divertitamente e malignamente contrapposta al canone poetico ormai devoto alla tragica raffigurazione della sofferen- za amorosa e alla celebrazione della sovrumana e distante bellezza di madonna. Un rovesciamento di taglio appunto parodico e giocoso, ma nient’affatto privo di sapienza letteraria e ardimento retorico. 1 M. Marti, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante, Pisa, Nistri Lischi, 1953, pp. 100-119. Il volume ricevette presto da Gianfranco Contini un’importante recensione sul «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXXXI, 2 (1954), pp. 220-226, che ne inquadrò perfettamente i pregi, pur dannandone sviste e insufficienze, e che è poi rimasta nel canone bibliografico della poesia comica medievale (è adesso ripubblicata col titolo Cultura e stile nella poesia dei giocosi in Gianfranco Contini, Frammenti di filologia romanza, a cura di G. Breschi, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2007, vol. I, pp.459-466). 2 Marti, Cultura e stile, cit., pp.106-107; e anche vedi il paragrafo Giudizio su Cecco Angiolieri alle pp.119-129.

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IDENTITÀ DI BECCHINA Giuseppe Marrani

1. Alterità di Cecco, poeta ‘comico’

Uno dei capitoli più fortunati del libro che Mario Marti dedicò ormai sessant’anni fa alla cultura e allo stile dei poeti da lui definiti «giocosi» dei secoli XIII e XIV è senza dubbio quello intitolato a Cecco Angiolieri e lo stilnovo1. Marti proponeva in quella sede di superare le prudenze e la circospezione della critica del tempo che stentava a ricono-scere chiaramente nella poesia d’amore dell’Angiolieri una franca parodia dello stilnovo. «Ché tale è il conclamato stilnovo di Cecco: spassosa parodia di un letterato-mimo (…)» –!scriveva Marti, puntando a rettificare con la sua analisi gli ancora troppo misurati profili angioliereschi redatti in precedenza da studiosi come Mario Apollonio, Bruno Maier e finanche Natalino Sapegno, che pure di contrapposizione allo stilnovo già parlava, senza però, a parer suo, precisa consapevolezza del deliberato gioco retorico e contrappunto stilistico dal quale derivava tale opposizione. «Se le rime amorose del senese fossero esaminate solo come esemplari dello stilnovo –!argomentava ancora Marti!– sarebbero davvero da abbandonare nella più assoluta dimenticanza, tanto apparirebbero goffe, sfi-gurate e decisamente brutte. Ma ciò non sarebbe lecito se non in via del tutto ipotetica ed irrealizzabile; poiché tutti gli elementi di cultura, di gusto, di temperamento pongono Cecco di fronte agli stilnovisti in un atteggiamento di beffa ribelle»2.

Scorgere nelle rime di Cecco l’impronta non solo di una psicologia antagonista ma anche di una desiderata e sapientemente costruita alterità letteraria, spesa tutta sul piano del ribaltamento parodico e della divertita irrisione, significava per Marti comporre un capitolo importante della sua generale e nuova interpretazione della tradizione comica medievale come diffuso gioco o ricercato divertimento oppositivo rispetto ai consolidati valori sociali e morali o alla voga già da tempo invalsa della lirica d’amore. In Cecco e nella sapienza retorico-stilistica dei suoi sonetti amorosi sarebbe insomma più in par-ticolare da leggere per Marti una frazione di rilievo della propensione, connaturata fin dalle origini della cultura romanza, a fornire una versione divertitamente e malignamente contrapposta al canone poetico ormai devoto alla tragica raffigurazione della sofferen-za amorosa e alla celebrazione della sovrumana e distante bellezza di madonna. Un rovesciamento di taglio appunto parodico e giocoso, ma nient’affatto privo di sapienza letteraria e ardimento retorico.

1 M. Marti, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante, Pisa, Nistri Lischi, 1953, pp.!100-119. Il volume ricevette presto da Gianfranco Contini un’importante recensione sul «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXXXI, 2 (1954), pp.!220-226, che ne inquadrò perfettamente i pregi, pur dannandone sviste e insufficienze, e che è poi rimasta nel canone bibliografico della poesia comica medievale (è adesso ripubblicata col titolo Cultura e stile nella poesia dei giocosi in Gianfranco Contini, Frammenti di filologia romanza, a cura di G. Breschi, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2007, vol. I, pp.!459-466).

2 Marti, Cultura e stile, cit., pp.!106-107; e anche vedi il paragrafo Giudizio su Cecco Angiolieri alle pp.!119-129.

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Marti puntava così anche a capovolgere l’ormai declinante, in tempi di idealismo, giudizio tardo-ottocentesco e positivista su Cecco, irrobustito a suo tempo dagli studi pioneristici del D’Ancona, che privilegiava nell’Angiolieri non l’artista ma il maudit, l’uo-mo e la dannazione delle proprie devianze e delle proprie sventure che con spontanea ma non ricercata né raffinata vena poetica trasferisce in versi sulla pergamena i penosi casi della propria vita riuscendo a rappresentarli con un cinico ghigno, quasi la sua po-esia fosse una schietta rappresentazione della vita e dello spirito del rimatore3.

L’attenzione forte nuovamente posta da Marti sulle colte peculiarità retorico-stili-stiche della produzione angiolieresca e più in genere degli affiliabili tutti a quel filone definito giocoso che oggi preferiamo indicare come comico-realistico o più recisamente comico (con accento dunque soprattutto su stile e linguaggio), finì in effetti per scio-gliere definitivamente i legami della critica con il biografismo d’antan e per far cessare ogni sua inerziale riproposizione perfino per un autore come Cecco di cui gli archivi re-stituiscono un notorio e apparente profilo da irregolare e squattrinato che pare allinearsi facilmente e volentieri al contenuto delle sue rime: multe –!ricordo brevemente!– com-minate per defezioni dall’esercito durante l’assedio senese a Turri in Maremma (1281) o per successive violazioni del coprifuoco, presenza nel 1291 a un processo per ferimento (la vittima sarebbe stata tale Dino da Monteluco), e il celebre rifiuto dei figli dell’eredità paterna per i debiti che vi gravavano (1312).

L’impostazione del Marti in termini generali è senz’altro e ovviamente corretta, e sen-za esito è rimasto il susseguente tentativo di Maurizio Vitale di circoscrivere socialmente il brioso emergere del filone comico, pur riconosciuto in tutta la sua carica di letteraria irriverenza, al ceto sociale della «borghesia minuta e degli strati popolari più attivi, paghi di una letteratura meno o poco impegnata sul piano dell’arte, senza preziosità»4. Prevalse infatti l’insistenza dello stesso Marti nel mantenere la discussione su un piano squisi-tamente culturale e letterario (come dimenticare l’ascendenza nobiliare o comunque illustre di non pochi fra i poeti etichettabili come comici?) e il suo giusto convincimento nel dichiarare uniti dalla medesima matrice culturale e dalla stessa tradizione retorica il genere lirico-amoroso (o tragico, come si diceva allora) e quello appunto comico-gioco-so: facce opposte di un medesimo milieu culturale che, indipendentemente dalle prero-gative delle diverse classi sociali medievali, poteva esprimersi secondo diverse regole e opposti modelli letterari, che imponevano partitamente diversi e rivaleggianti canoni di argomento, lessico e stile5. Aspetti, questi, peraltro già apprezzati dal Contini recensore del Marti di Cultura e stile, tanto che indicò «nell’introduttiva impostazione generale della questione, riferita alla nozione del conveniens o, come altri direbbe, della discretio» la novità maggiore del volume, «produttiva delle pagine più felici»6.

3 Si ricordi almeno il saggio fondativo della critica sull’Angiolieri appunto di A. D’Ancona, Cecco Angiolieri da Siena, poeta umorista del secolo XIII, in «La Nuova Antologia», 25 (1874), pp.!5-57, poi in Id., Studj di critica e storia letteraria, Bologna, Zanichelli, 1880 (19122), parte I, pp.!163-275.

4 Rimatori comico-realistici del Due e Trecento, a cura di M.!Vitale, Torino, Utet, 1956 (19892, da cui si cita), p.!57. Una ripresa, con taluni aggiustamenti, della tesi del Vitale si legge per la verità in E.!Savona, Cultura e ideologia nell’età comunale, Ravenna, Longo, 1975, p.!67, dove si accetta, sì, l’idea che la poesia comica sia nata da un impegno culturale pari a quello della cosiddetta poesia tragica ma le si conferisce valore militante di espressione dell’«insofferenza dell’ideologia borghese per gli schemi della tradizione in senso lato».

5 I concetti sono ribaditi nella recensione al volume di Vitale sopra citato in «Giornale storico della Letteratura Italiana», 137 (1960), pp.!117-140, poi inclusa col titolo Discussioni, conferme, correzioni sui poeti giocosi in M. Marti, Realismo dantesco e altri studi, Milano-Napoli, Ricciardi, pp.!157-164, partic. pp.!158-162.

6 Contini, Cultura e stile, cit., pp.!459-460.

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Ciò non significa tuttavia che le implicazioni che dalle intuizioni di Marti sono disce-se e si sono nel tempo consolidate appaiano oggi in toto ricevibili. L’eccessiva e forzosa rigidità dello schema oppositivo «bifronte» applicato da Marti al Rustico Filippi cortese e comico ha ad esempio a lungo impedito di percepire la sapienza del reimpiego di for-mule retoriche e lessico aulico a dar audacia contumeliosa a non pochi dei suoi celebri vituperia7. Ma più in generale proprio e soprattutto l’idea che la tematica amorosa sia condotta in particolare da Cecco come un subalterno e puntuale contrappunto parodico dello stilnovo è quanto oggi più necessita di una approfondita revisione.

Si tratta, beninteso, di una nozione ormai consolidata che si è fatta strada nei com-menti alle rime dell’Angiolieri così come nei profili a lui dedicati sia in pubblicazioni spe-cialistiche che di taglio divulgativo. Persino quando si è tentato di aggiornare, precisare e ampliare il quadro culturale mediolatino e romanzo a cui la produzione comico-giocosa italiana risponderebbe rispetto precisamente alle deduzioni del Marti di Cultura e stile (e per Cecco in particolare si veda il capitolo Cecco Angiolieri e la tradizione, dove fra l’al-tro si insiste sull’importanza della cultura goliardica mediolatina per la cosiddetta poetica del dado, della donna e della taverna)8, le conclusioni del capitolo sui rapporti con lo stilnovo, con cui abbiamo aperto qui il discorso, sono parse inamovibili. «L’ironizzazione letteraria della poesia cortese, soprattutto un certo anti-stilnovismo, è sicuramente una componente importante nella poesia di Cecco Angiolieri», scriveva ad esempio Franco Suitner nel suo bel saggio di ormai trent’anni fa sulla poesia satirica tardomedievale, sta-bilendo di non rivisitare su quel punto le argomentazioni di Marti, che quel tema aveva studiato «come meglio non si desidererebbe», e negando che i carmi amorosi mediolatini, in particolare quelli goliardici, avessero qualcosa a che fare con la «corposa ironizzazione antistilnovistica dei nostri comici»9.

Eppure la lettura dei sonetti amorosi di Cecco come un continuo contrappunto pa-rodico antistilnovista si scontra con la davvero esigua frequenza con cui l’Angiolieri, a ben vedere, coinvolge esplicitamente nel suo rimare e nel mescidato e ‘basso’ suo taglio stilistico-lessicale i versi di coloro che un tempo si credevano riuniti in una vera e propria scuola e che oggi più rettamente abbiamo imparato a considerare come i protagonisti di una stagione di intenso rinnovamento della lirica italiana, pur nel compiersi di percorsi sostanzialmente autonomi se non addirittura paralleli o rivaleggianti: Guido Cavalcanti soprattutto, Dante e Cino da Pistoia (strumentale, sappiamo, è l’agnizione del ben più anziano padre Guido Guinizzelli, da parte dell’autore della Commedia, l’unico peraltro a cui risalga l’invenzione e la declinazione forse ‘collettiva’ di stilnovo).

L’interpretazione di Marti, applicata poi al commento puntuale dei testi dei suoi giocosi10, è di fatto non di rado gravata da eccessi, fraintendimenti e forzature, quali già segnalava Contini11 e quali ancora si ritrovano in abbondanza nelle correnti chiose alle rime di Cecco che dagli studi di Marti prendono le mosse, tanto che Claudio Giunta ha

7 Si veda per questo aspetto G. Marrani, I sonetti di Rustico Filippi, in «Studi di Filologia Italiana», 57 (1999), pp.!33-199, alle pp.!33-43.

8 Marti, Cultura e stile, cit., pp.!83-100.9 F. Suitner, La poesia satirica e giocosa nell’età dei Comuni, Padova, Antenore, 1983, pp.!7 e 88.10 Poeti giocosi del tempo di Dante, a cura di M.!Marti, Milano, Rizzoli, 1956, cui si fa riferimento per i testi

angioliereschi, salvo quelli in corrispondenza con Dante Alighieri, per i quali varrà la lezione stabilita in Dante Alighieri, Rime, a cura di D.!De Robertis, Firenze, Le Lettere, 2002.

11 Contini, Cultura e stile, cit., p.!462 (con esempi però tratti dall’ugualmente forzata interpretazione antistilnovistica di passi delle rime del Mugnone e di Gualpertino da Coderta).

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avuto più di recente facile gioco nello scorgervi una delle testimonianze della fallibilità e illusorietà dell’esegesi condotta con la tecnica, come lui la chiama, dell’intertestualità e della critica che punta sull’interpretazione metaletteraria dei testi comici, salvo poi però controproporre un inattuale e scarsamente convincente ritorno ad una lettura in chiave sinceramente biografica dei testi comici, sia pur con il giusto correttivo di un più generale inquadramento dei temi trattati nei rispettivi genera12. Pare difficile, ad esempio, poter intendere con Antonio Lanza il sonetto Chi non sente d’Amor o tant’ o quanto come una tagliente dissacrazione del concetto guinizelliano di Amore per la sola menzione di quest’ultimo come «nobil cosa» capace di sollevare dalle pene eterne persino Satana (vv.!9-14), laddove invece l’Angiolieri semplicemente segue in tono intenzionalmente dimesso e paradossale una precisa trafila di argomenti in lode di Amore di marca limpidamente prestilnovista (basta un’occhiata alla tenzone fra ser Pace e Federigo dall’Ambra ai ff.!75v-76v del ms. Banco Rari 217 della Nazionale di Firenze o ripercorrere le pagine dedicate a quest’argomento da d’Arco Silvio Avalle)13; o ancora immaginare con Raffaella Castagnola, per amor di sempiterna parodia della tematica amorosa stilnovistica, che l’inconoscibile Gaetto di Babb’ e Becchina, l’A-mor e mie madre (v.!9) sia per l’appunto un «rubacuori» (gaetto varrebbe ‘grazioso’ o ‘piacevole a vedersi’), degno padre delle ammaliatrici che attraggono il poeta, e non, com’è più probabile, semplicemente un ladro per antonomasia, capace di qualificare per immediato paragone la rapacità delle donne cui Cecco consegna il proprio corpo e la propria borsa14. Dei contemporanei suoi stilnovisti Cecco sembra piuttosto cogliere sparsamente e in modo disarticolato una certa novità di formule, quelle ad esempio dolorose e strazianti di Cavalcanti (esemplare il sonetto Il cuore in corpo mi sento tre-mare), ma l’orizzonte poetico rispetto al quale si muove sembra indubbiamente quello che oggi ci conservano i grandi e celebri canzonieri antichi, il già citato Banco Rari 217 della Nazionale fiorentina, il Laurenziano Redi 9 e il Vaticano latino 3793, in una parola la grande stagione fondativa della lirica italiana, della quale, specialmente nei sonetti amorosi, assume gli schemi e i modelli reinterpretandoli in veste stilisticamente alterata e burlesca: veste ‘comica’ senz’altro, che esiterei però a bollare come parodica tout court, stante che alla parodia, una volta prese le distanze dal pregiudizio tanto a lungo invalso nella critica, dovrebbe alla fine esser tolta la prerogativa di esser cifra e misura di una porzione ampia e così fortemente rappresentativa del corpus dell’Angio-lieri in favore di una considerazione più affinata dei tanti e diversi motivi che animano il dettato novo dell’Angiolieri –!siano essi di provenienza giullaresca, si avvicinino al linguaggio dei contrasti o delle pastorelle o screzino il frasario col ricorso al sermo cotidianus!–, e che non è scontato affatto che si compongano in una satira ordinata e ben mirata. Cercano anzi in libera e piena autonomia, mi pare, la rimodulazione

12 C. Giunta, Versi a un destinatario, Bologna, Il Mulino, 2002, pp.!267-354.13 Mi riferisco nell’ordine a Cecco Angiolieri, Le rime, a cura di A.!Lanza, Roma, Archivio Guido Izzi, 1990, pp.!XXX-

XXXI (la stessa tesi è ribadita in F.!Alfie, Comedy and Culture. Cecco Angiolieri’s Poetry and Late Medieval Society, Leeds, Northern University Press, 2001, pp.!64-66), e a d’Arco S.!Avalle, Ai luoghi di delizia pieni. Studi sulla lirica italiana del XIII secolo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977, pp.!29-30. La tenzone fra ser Pace e il dall’Ambra si legge in Concordanze della lingua poetica italia delle origini, a cura di d’Arco S.!Avalle, Milano-Napoli, Ricciardi, 1992, pp.!159-165.

14 Cecco Angiolieri, Rime, a cura di R. Castagnola, Milano, Mursia, pp.!164-165 (e in prec. p.!117); sul sonetto e sul passo in oggetto vedi già G. Marrani, I ‘pessimi parenti’ di Cecco. Note di lettura per due sonetti angioliereschi, in «Per Leggere», 12 (2007), pp.!5-22, alle pp.!13-15.

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prolungata dei temi amorosi su scala stilistica bassa, prediligendo la continua allusione al factum (il sesso cioè che si chiede alla donna, aspetto sempre più minoritario nella nascente tradizione lirica italiana) e congiungendo fine sapienza retorica ad un lessi-co realistico e a colloquialità plebea. Il rinnovamento del quadro critico permette fra l’altro un utile ripensamento del ruolo anche di Dante nella poesia dell’Angiolieri, non più assoluto idolo polemico ma, al pari di Cavalcanti, latore di istanze poetiche carpite precocissimamente e sparsamente dall’Angiolieri, fin dall’altezza si direbbe della gio-vanile Lo doloroso Amor, poi respinta ai margini della tradizione dall’insorgere della Vita nova, ma nella quale già è inciso il nome di Beatrice e la cifra presto tramontata del suo potere mortifero (v.!15 «quel dolce nome che mi fa il cor agro»), canzone la cui ‘realistica’ descrizione dell’amante macerato dal dolore (vv.!18-20) ha una qualche probabilità d’esser burlescamente ripresa dal celebre Io son sì magro che quasi traluco; o ancora della straziante E’ m’incresce di me sì duramente, il cui incipit si riverbera nell’esordio del sonetto E’ m’è sì malamente rincresciuto (larga parte della tradizione della canzone dantesca, seppur stemmaticamente minoritaria, reca proprio in clausola malamente15). Si resta insomma per lo più al di qua della Vita nova, alla sua preistoria, con qualche approssimazione superficiale forse al suo sonetto inaugurale, prealtro precedente –!a stare a Dante!– alla composizione del libello16. E se accettiamo che lo sguardo di Cecco si spinga fino alle canzoni che saranno poi del Convivio, fino cioè alla canzone «Le dolci rime d’amor ch’io solea / cercar ne’ miei pensieri / convien ch’io lasci…» per l’esordio «Lassar vo’ lo trovare di Becchina / Dant[e] Alighieri, e dir del Mariscalco…» (due gruppi del testimoniale della canzone, uno dei quali rappresentato dal celebre ms. Chigiano L.VIII.305, leggono fra l’altro «trovar ne’ miei pensieri») altro non possiamo constatare che l’ennesimo riuso funzionale di formule palinodiche e di ritrattazione, qui sterzate a fini caricaturali che è difficile determinare in che misura tocchino o compromettano il destinatario (l’identità del denigrato, il «Mariscalco», è questione annosa e irrisolta). Quel che importa alla fine però è che niente del coinvol-gimento dantesco nelle rime dell’Angiolieri depone per un’improbabile e miratissima satira della sua poesia, quasi Cecco potesse osservarla con la consapevolezza postuma della critica moderna che ha creduto di riunirla a quella degli altri ‘stilnovisti’ attorno ad alcuni concetti-cardine e ad una comune ricerca di stile. Le accuse e le rappresaglie più vivaci e taglienti stanno, nient’affatto sorprendentemente, sul piano della denigra-zione personale, basti rinviare al celebre «Dante Alleghier, s’i’ so’ buon begolardo, / tu me ne tien ben la lancia alle reni… etc.». Può del resto il sonetto Dante Allaghier, Cecco, tu’ servo amico, che si appunta –!com’è noto!– sulle presunte incongruenze dell’ultimo sonetto della Vita nova, sostenere di per sé l’idea di una critica che vada, come si pretende, alle radici del pensiero dell’Alighieri e di chi a lui affiliamo (di «pungente polemica contro le sottigliezze della lirica stilnovistica» parla ad esempio Lanza)17, o la sua ragione altro non è che il semplice tentativo di cogliere in fallo Dan-te, si conceda pure con intenti denigratori, sull’organizzazione propriamente logica

15 Rinvio per questi esempi alla più articolata discussione di G. Marrani, La poesia comica fra ’200 e ’300. Aspetti del-la fortuna di Cecco Angiolieri fuori Toscana, in Cecco Angiolieri e la poesia satirica medievale, Atti del convegno internazionale (Siena, 26-27 ottobre 2002), a cura di S. Carrai e G. Marrani, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2005, pp.!101-122, alle pp.!112-114.

16 Cecco Angiolieri, Rime, a cura di R. Castagnola, cit., pp.!182-183, a proposito di Tant’abbo di Becchina novellato v.!8 «a ciascun che porta gentil core».

17 Cecco Angiolieri, Le rime, a cura di A.!Lanza, cit., p.!217.

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delle argomentazioni di Oltre la spera, testo di cui peraltro conosciamo la redazione precedente l’inclusione nel libello?18

Del son. Dante Alleghier, Cecco, tu’ servo amico colpisce semmai che colui a cui ci s’indirizza sia identificato attraverso le proprie interlocutrici (v.!12 «le tue donne care») e attraverso l’oggetto della propria dedizione amorosa (v.!11 «la tua Beatrice»). Dati riferibili tutti al sonetto preso di mira, Oltre la spera (vv.!13-14), ma che probabilmente tradisco-no, ben al di là dell’occasione, l’ottica con la quale Cecco guarda all’Alighieri; il suo identificarlo, la percezione cioè che ne ha per il tramite delle sue rime. Dante insomma potrebbe esser stato presente all’Angiolieri soprattutto per la sua straordinaria capaci-tà, unico dopo Guittone, di articolare un percorso poetico prolungato e lungamente articolato, capace di abbandonare lo schema invalso dell’alternanza e della giustappo-sizione di testi amorosi disforici e euforici, un percorso cioè che si aggiorna anche per ritrattazioni e palinodie (col cui modello forse formalmente gioca Lassar vo’); un’identità poetica che in ambito italiano torna per di più a ruotare con una certa insistenza attorno ad alcuni personaggi (le donne, Beatrice) che fin dai tempi precedenti alla stesura e alla divulgazione della Vita nova dovevano caratterizzare la sua poesia, fino almeno cioè dalle già citate Lo doloroso Amor, dove –!si diceva!– il nome dell’amata è già fissato, ed E’ m’incresce di me che si chiude con il coinvolgimento di un uditorio femminile (vv.!85 sgg. «I’ ho parlato a voi, giovani donne…»). Tant’è che con i propri oggetti di canto, con i propri principali personaggi, Cecco pure intende identificarsi

Tant’abbo di Becchina novellatoe di mie madr’ e di babbo e d’Amore,che una parte del mondo n’ho stancato (…)(vv.!1-3)

ed è grazie ad essi riconoscibile ed identificato, come garantisce l’ignoto Simone che a lui si rivolge

Cecco, se Deo t’allegre di Becchina,o di quello che spesso sen rencoia,consegliame (…)(vv.!1-3)19

Non oltre mi pare si possa procedere nello scorgere la possibile impronta dantesca nei versi dell’Angiolieri. E si resta tutto sommato ad un Dante ancorato a un orizzonte poetico ancor privo delle prospettive aperte dal libello o rispetto ad esse radicalmen-te alternativo in senso conservativo e tradizionale20. Che è poi quanto più facilmente accomuna l’Alighieri ai suoi predecessori, a quella poesia cioè che definiamo oggi pre-stilnovista e che per la produzione in versi di Cecco –!si è detto!– è il primo e più naturale riferimento. Persino l’idea che a Dante sia da riconoscere una una lunghissi-ma e quasi congenita militia Amoris, espressa al solito in Dante Alleghier, Cecco, tu’

18 È questa grosso modo l’opinione anche di Giunta, Versi a un destinatario, cit., pp.!275-276. Per la prima redazione di Oltre la spera cfr. Dante Alighieri, Rime, cit., vol.!III, pp.!410-411.

19 Il testo in Poeti giocosi del tempo di Dante, cit., p.!234.20 In merito vedi adesso G. Marrani, E’ m’incresce di me sì duramente, in Dante Alighieri, Le quindici canzoni lette

da diversi, II 8-15, a cura di G.!Tanturli, Lecce, Pensa MultiMedia, 2012, pp.!65-86, partic. alle pp.!78-79.

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servo amico (v.!4 «il qual [Amore] è stato tuo signor antico»), non ha certo bisogno del sostegno esclusivo della lettura della Vita nova, dato che può trovare benissimo il proprio fondamento –!se non si vuol pensare addirittura al Fiore, controversa e tut-tavia possibile opera giovanile dantesca21!– nella impressionante strofa quinta ancora di E’ m’incresce: «Lo giorno che costei nel mondo venne, / secondo che si truova / nel libro della mente che vien meno, / la mia persona pargola sostenne / una passïon nova…» (vv.!57-61). È insomma la Vita nova, ossia l’emblema a norma di Purgatorio XXIV del dolce stil novo –!sia pure essa finita sotto gli occhi di Cecco!– a non costituire un limpido e univoco termine di confronto per le sue rime, men che mai un obiettivo polemico, ovvero un testo in base al quale costruire una consapevole contropoetica venata di spunti satirici e pungenti.

2. Identità di Becchina

Becchina può dunque funzionare ancora come anti-modello di Beatrice? Per Marti Becchina (ossia forse Domenica, in forma ipocoristica)22 è senza dubbio l’anti-Beatrice, destinataria addirittura di un particolare «canzoniere»: preconcetto che autorizza a leg-gere i testi amorosi di Cecco, anzi addirittura a strutturarli in edizione senza appoggio alcuno della tradizione manoscritta, come un breve e burlesco racconto in versi di un amore sventurato fra un’amata dai modi plebei e una rustica durezza di cuore e un amante raggirabile e caparbio fino al masochismo. Quasi insomma una Vita nova in veste ribaltata, il cui esito non è la perfezione morale dell’amante ma la sua sempiterna e beffarda mortificazione.

Tutto il «Canzoniere» per Becchina è come lo spato d’Islanda dello Stilnovo, la sua carica-turale rifrazione: Becchina stessa è delineata come contrappunto parodistico delle angelicate Beatrici23.

La critica ha proseguito con decisione su questa strada arrivando a scorgere in Becchina non solo la creatura antidantesca di Cecco ma addirittura il compimento della «risposta» che la compatta (quanto per la verità inesistente) scuola dei rimatori comico-realistici dei primi secoli avrebbe voluto dare alla astruserie stilnovistiche24.

E così ancora si è tentato di stringere la relazione fra la Beatrice dantesca e la Bec-china di Cecco con impegnative speculazioni sul nome: «Becchina –! scrive Raffaella Castagnola!– è vistosamente un’anti-Beatrice: lo dimostra, insieme al nome, che inizia, come quello di Beatrice, per Be e che ha l’accento tonico sulla -i, anche l’allusivo ri-ferimento alla morte, contraria alla salvezza trasmessa da Beatrice, o al becco del son. LVI [Ogn’altra carne m’è ’n odio venuta], senhal, questo, vigorosamente realistico»25. Del becco diremo più avanti. Su quale invece esattamente sia il riferimento allusivo alla morte insito nel nome Becchina, la Castagnola si è soffermata anche altrove:

21 Così. A. Mazzucchi, A proposito della «consecuzione R[ose] – F[iore] - Angiolieri»: un supplemento d’indagine sulla «danteità» del «Fiore», in «Studi Danteschi», 63 (1991), pp.!313-333, partic. alle pp.!318-333.

22 La nozione risale a I sonetti di Cecco Angiolieri, a cura di A.F.!Massera, Bologna, Zanichelli, 1906, pp.!77-78.23 Poeti giocosi del tempo di Dante, cit., p.!116, e anche già vedi Marti, Cultura e stile, cit., p.!85.24 Cecco Angiolieri, Le rime, a cura di A. Lanza, cit., p.!XXXIV (e anche vedi p.!XIX).25 Cecco Angiolieri, Rime, a cura di R. Castagnola, cit., p.!15.

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IDENTITÀ/DIVERSITÀ

On trouve un autre exemple de remploi d’un modèle célèbre dans la fabrication du nom de Becchina: en effet, si Béatrice évoque des images de béatitude, Becchina, au contraire por-te en elle un signe évident de mort (en italien, becchina signifie “croque-mort” au féminin)26.

Discutibile non pare tanto la proposta in sé di un’aequivocatio con becchino ‘becca-morto’, per quanto azzardata (il termine conosce almeno un paio di attestazioni trecente-sche, entrambe nel Decameron)27. Piuttosto colpisce che al nome di Becchina venga così imposta in nome di un pregiudiziale antidantismo una significazione davvero onerosa, capace da sé sola di esprimere e riassumere l’opposizione al più profondo e remoto signi-ficato della Vita nova, quale oggi crediamo di conoscere. Una valenza che invano davvero cercheremmo altrimenti espressa o ribadita nell’intero corpus angiolieresco così com’è tràdito dal manipolo di testimoni che sparsamente ce lo trasmettono. Il rapporto fra Cec-co e Becchina non è infatti assolutamente foggiato sulla complessa interazione fra Dante e Beatrice nella Vita nova. Il modello è semplicemente e ben più plausibilmente quello ordinario del codice lirico. Il confronto cioè fra la donna ostile alle profferte amorose e l’amante che persiste nella sue richieste e nelle sue sofferenze nella convinzione che il rifiuto femminile altro non sia che di facciata e aspettandosi quindi merito e ricompensa per la tenacia. «Donna vol sempre ‘no’ dire e ‘sì’ fare» è infatti la formula dell’ars amatoria di Guittone (sonetto Modo ci è, v.!9)28 che meglio esprime l’impostazione finanche dei contrasti e dei débats fra gli amanti tanto della lirica amorosa duecentesca quanto della versione comica e stilisticamente snaturata che di essi ha dato Cecco. Esemplare in que-sto senso è il fitto dialogato del sonetto Oncia di carne libra di malizia, che non sarà da leggere come una caricatura della dabbenaggine dell’amante che non intende la mala parata (e nient’affatto come una caricatura dello stilnovismo), bensì come il tradizionale gioco dei ruoli, riprodotto stavolta in stile basso e colloquiale con consentaneo e limpido disvelamento del tipico e solitamente invece sempre più camuffato motivo del contendere (l’ottenimento cioè della primizia, il fiore della verginità di madonna)

– Oncia di carne libra di malizia,perché dimostri quel che ’n cor non hai?– Se’ tu sì pazzo, ch’aspetti diviziadi quel che caramente comparrai? 4– Per tuo parole ’l me’ cor non affizia;com’ peggio dici, più speme mi dài!– Credi che uom aggia mai la primizia?Giùroti ’n fede mia che non avrai. 8– Or vegg’ i’ ben che tu caschi d’amore:per che non muove ciò che tu ha’ detto,se non da cuor, ch’è forte ’nnamorato. 11– Or vuo’ pur esser con codest’errore?Or vi sta sempre, che sie benedetto!ch’i’ t’imprometto – che ’l buon dì m’ha’ dato. – 14

26 R. Castagnola, Cecco Angiolieri: considérations sur certaines formes de parodie, in Genève et l’Italie. Mélanges publiés à l’occasion du 75e anniversaire de la Société Genevoise d’études italiennes, sous la direction d’A. Kahn-Laginestra, Genève, Société Genevoise d’etudes italiennes, 1994, pp.!89-99, a p.!91.

27 Cfr. Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO) all’indrizzo www.vocabolario.org s. v.28 Vedi in merito soprattutto d’Arco S. Avalle, Ai luoghi di delizia pieni. Studi sulla lirica italiana del XIII secolo,

Milano-Napoli, Ricciardi, 1977, pp.!76-79.

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IDENTITÀ DI BECCHINA

Dante e la sua rinuncia all’insistenza presso Beatrice dopo la negazione del saluto e il disperato invio della ballata rimasta senza esito (capp.!XI e XII), preludio alla scoperta dello stilo de la loda del celebre capitolo XIX (strappo di notevolissima rilevanza rispetto alla prassi poetica coeva), rimangono sempre e comunque del tutto fuori dall’orizzon-te. Becchina non è l’antimodello di Beatrice, né Cecco specularmente e per l’appunto riflette il «Dante innamorato» di cui sarebbero messi in burla le passioni e le sofferenze amorose29.

Un buon punto di partenza per restituire invece a Becchina un profilo non snaturato o contraffatto è il becco del sonetto Ogn’altra carne m’è ’n odio venuta. Basterà ricor-darne i primi versi.

Ogn’altra carne m’è ’n odio venutae solamente d’un becco m’è ’n grado,e d’essa m’è la voglia sì cresciuta,che s’i’ non n’ho, che Di’ ne campi, arrado. Quella cu’ è, mi dice ch’è vendutaE ch’i’ son folle, ch’i’ averne bado (…)(vv.!1-6)

A nessuno è ovviamente sfuggito il gioco che qui si propone sul nome di Becchina, ma se su carne si è normalmente incentrata l’attenzione di critici e dei commentatori, per il facile argomento che offre all’illustrazione di un realismo e di una greve sensuali-tà che si son voluti aprioristicamente antitetici per l’appunto allo stilnovo (Lanza vuole addirittura che indichi il sesso della donna)30, la notazione su becco è di solito evasiva. Lo Steiner parla di un’allusione «non troppo delicata», Marti e altri si limitano a segnalare il bisticcio fra becco e Becchina, Vitale altro non segnala che la «comica interpretazione del nome» e la Castagnola da ultimo colloca in nota per becco, senza meglio chiarire, una serie di loci romanzi in cui il termine ha però il significato di ‘bocca’. Marco Berisso ha finalmente reso però riconoscibile in becco ‘la capra’, o meglio –!diciamo qui!– il capro-ne, senza però trarne ulteriori indicazioni utili31.

Stante che dunque è alla carne di capro che si deve pensare (non si danno, mi pare, alternative plausibili), e di carne che più in particolare ha una proprietaria che ha deciso di venderla ad altri (il solito concetto, alla fine, è che Cecco è troppo povero per acqui-starla), varrà la pena tentare di approfondire uno spunto che non merita di esser trattato estemporaneamente e di passata, trattandosi giustappunto di interpretatio nominis, ossia della chiave per comprendere l’identità e la natura autentica di Becchina, così com’è per Beatrice, quella semmai però di Lo doloroso Amor il cui nome contraddice illusoriamente in quel caso gli effetti mortali sull’amante.

L’attenzione non può che rivolgersi al sonetto in cui i natali di becchina son dichia-rati.

29 Cecco Angiolieri, Rime, a cura di R. Castagnola, cit., p.!15.30 Cecco Angiolieri, Le rime, a cura di A. Lanza, cit., pp.!XVIII e 114.31 Nell’ordine: Cecco Angiolieri, Il canzoniere, introduzione e commento di C.!Steiner, Torino, Utet, 1928, p.!63; Poeti

giocosi del tempo di Dante, cit., p.!174; Rimatori comico-realistici, cit., p.!361; Cecco Angiolieri, Rime, a cura di R.!Castagnola, cit., p.!158; Poesia comica del Medioevo italiano, a cura di M.!Berisso, Milano, BUR, 2011, p.!202 (ma già vedi P.!Orvieto - L. Brestolini, La poesia comico-realistica. Dalle origini al Cinquecento, Roma, Carocci, 2000, p.!90: «“il caprone”… altro evidente senhal prosaico di Becchina»).

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IDENTITÀ/DIVERSITÀ

Il son. Se ’l cor di Becchina fosse diamante nel ms. C. IV.!16 (sec. XVIII) della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, c. 70r.

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IDENTITÀ DI BECCHINA

Eccolo

Se ’l cor di Becchina fosse diamantee tutta l’altra persona d’acciaio,e fosse fredda com’è di gennaioin quella part’ u’ non può ’l sol levante, 4ed ancor fosse nata d’un giogante,sì com’ell’è d’un agevol coiaio,ed i’ foss’un che toccasse ’l somaio,non mi dovrebbe dar pene cotante. 8Ma s’ell’un poco mi stess’a udita,ed i’ avesse l’ardire di parlare,credo che fôra mia speme compita: 11ch’i’ le dire’ com’i’ son su’ a vitae altre cose ch’or non vo’ contare;parm’esser certo ch’ella direbb’«ita». 14

Il sonetto dichiara Becchina figlia di un coiaio, un conciatore cioè e rivenditore di pelli, un cerbolattaio probabilmente, lo stesso del quale apprendiamo più precisamente il nome in Da po’ t’è ’n grado, Becchina, ch’i’ muoia al v.!5: «…Benci, che pela le coia»32. Lo status sociale depresso del padre e della famiglia di Becchina è stato finora il centro della discussione attorno al sonetto, soprattutto per la contrapposizione con l’estrazione altolocata dell’amante Angiolieri, qui ribaltata nella vertiginosa serie iniziale di ipotetiche dell’irrealtà nella condizione forse di un mulattiere (uno che toccasse, cioè, cavalcasse, un somaro). Per la verità ai fini della piena intelligenza del testo e del carattere volutamente paradossale dei vv.!5-7 più importerebbe sottolineare la contrapposizione fra la protervia della stirpe dei giganti e la natura sottomessa e umile che vulgatamente si associa a chi ha un somaro per cavalcatura (cfr. TLIO s. v.!àsino 1.3.2): il fine del sonetto non è infatti solo ed esattamente l’illustrazione di un amore farsescamente unilaterale fra un aristocra-tico e una plebea (situazione che, con gli imprescindibili distinguo, può ricordare una pastourelle)33, ma l’iperbolica notificazione della straordinaria durezza di cuore dell’amata. Lei che all’amante infligge pene maggiori che se il suo cuore fosse fatto di diamante e il resto del suo corpo d’acciaio (il diamante è pietra dura par excellance e termine fisso di paragone in lirica amorosa, cfr. es. Mare amoroso 252-54 «Se voi aveste il cuor più duro assai / com’àe lo dïamante per natura, / si dovreb[b]e bene inver’ me umilïare…»); lei che lo strazia coi suoi rifiuti e con la sua pervicacia nel non ascoltarlo (v.!9) ancor più che se fosse feroce progenie dei giganti34 invece che di un mite, trattabile cuoiaio35, e che se Cec-co fosse al contempo dell’indole e della natura umile dei sottomessi.

32 In I sonetti di Cecco Angiolieri, cit., p.!86, vi è un tentativo d’identificazione con un certo Bencio del popolo se-nese di San Donato condannato per furto nel 1284.

33 Su questa linea ultimamente Alfie, Comedy and Culture, cit., pp.!33-34.34 Quei giganti cioè che popolavano la terra dei primi evi (Gen. 6, 4) diventati poi emblema di disumana superbia,

complice la tradizione mitologica classica che ne illustra l’empia scalata al cielo, cfr. es. Verg. aen. 6, 580-81, e ovviamente poi Dante, Inf. XXXI 43 sgg.

35 Contini, Frammenti, cit., p.!472 nota 9 proponeva per la verità di dare ad agevol il significato di ‘dappoco’, ren-dendo così però assai meno efficace la rispondenza con l’opposta, sfrontata insolenza dei giganti. ‘Mite’ è invece peraltro la chiosa più frequente nei commenti, che hanno prodotto riscontri anche interessanti come l’applica-zione di agevole in dialetti prossimi al senese alle «galline che si lasciano facilmente prendere» (Rimatori comico-realistici, cit., p.!326).

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IDENTITÀ/DIVERSITÀ

In questo quadro e nel suo comico e retoricamente virtuoso rivaleggiare con quelle iperboliche deplorazioni della crudeltà di madonna che sono la normalità del codice lirico-amoroso, è coerentemente dichiarata la natura dell’amata: Becchina, cioè una dura, anzi proprio coriacea pelle conciata di becco, ovvia discendenza del padre Benci coiaio. Questo sono infatti le beccune o becchine, come solidamente testimoniano fra Due e Trecento statuti e trattati di mercatura. Così ad esempio recita il Breve Pellariorum de Ponte Novo a Pisa (1302)

Ordiniamo di conciare et adesare le chuoia di buoi, vacche et vitelli, capre et beccune et cuoia d’ascino, et ongna altro cuoio, bene et lealmente, sì come in qua drieto conciammo da XX anni in quae

o ancora la Pratica della mercatura del Pegolotti, che in più luoghi elenca, col corredo delle rispondenti gabelle, becchine crude e conce (si vedano del resto per più esaustiva esemplificazione le corrispondenti voci del TLIO e quanto già annotato in P.!Larson, Glossario diplomatico toscano avanti il 1200, Firenze, Accademia della Crusca, 1995, p.!84)36. Dato perfettamente coerente e anzi direi naturalmente com-plementare con il desiderio giustappunto carnale dichiarato in Ogn’altra carne m’è ’n odio venuta, che poco sopra abbiamo ricordato. E su questa strada le implicazioni potrebbero peraltro svilupparsi e continuare, solo che si ricordino nozioni vulgate al tempo, come cioè il becco fosse fin da evi antichi animale accostabile al vizio esiziale di lussuria37, o come ancora la sua carne fosse in ogni caso da taluni del tutto sconsi-gliata perché priva di nutrimento se di becco vecchio o perché instillatrice per l’appun-to di malinconia (l’afflizione più tipica di Cecco) se di becco giovane, come giovane è senza dubbio Becchina

e se ciò è che -l beco sia giovane e abia lasciato il latare, sì dona assai nodrimento, ma egli è malvagio perciò ch’elli ingienera sanghue malinconoso. E perciò no loda Ghalieno di mangiare becco né chapra giovane, perciò ch’elli ingienerano malvagio sangue (…). E se -l beco è di gran tempo, ciò è vechio, non de l’uomo di sua carne mangiare perciò ch’ella è freda e secha e no dona al corpo de l’uomo neente nodrimento38.

Becchina è insomma carne e dura pelle conciata di becco, e perciò stessa icona della malia della femmina e insieme, per Cecco, dell’ostinata, frustrante e rustica durezza che lei oppone ad un amante che plora e dolorosamente insiste per un sì, perché lei cioè finalmente gli si conceda (l’ita del v.!14, e cfr. ad esempio il carme amoroso mediolatino Lude, ludat, ludite al v.!11 «Dicat [puellula] ‘ita’ facie, nil deneget rogata»)39.

36 Per i testi citati si veda rispettivamente Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, a cura di F.!Bonaini, Firenze, Vieusseux, 1857, vol.!III, pp.!979-989, a p.!981, e Della decima e delle altre gravezze imposte dal Comune di Firenze e della moneta e della mercatura dei fiorentini fino al secolo XVI, [a cura di G. F. Pagnini], Lisbona-Lucca, [s. e.], 1765, pp.!276-277.

37 Lo ricorda ad esempio Giovanni Boccaccio nelle sue Esposizioni sopra la Comedia di Dante, ad Inf. 31-60 «il bec-co è lussuriosissimo animale» (in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. Branca, Milano, Mondadori, 1965, vol.!VI, p.!76).

38 R. Baldini, Zucchero Bencivenni, «La santà del corpo», volgarizzamento del «régime du corps» di Aldobrandino da Siena (a. 1310) nella copia coeva di Lapo di Neri Corsini (Laur. Pl. LXXIII 47), in «Studi di Lessicografia Italiana», 15 (1998), pp.!21-300, a p.!145.

39 Carmina Burana, hrsg. von A. Hilka - O. Schumann, Heidelberg, Winter, 1930-1970, n.!172.

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IDENTITÀ DI BECCHINA

Ed è insieme, Becchina, cifra della poesia che da lei stessa discende. La necessaria versione ‘comica’, stilisticamente bassa e promiscua (non so se esattamente parodica), dell’ostilità catafratta di madonna.

Una breve postilla in fine. Per Cecco il padre Angioliero è lo ’ncoiato (Morte, merzé 8), colui cioè che a dispetto dell’età avanzatissima e della vita sordida che conduce da avido e da spietato taccagno ha il «su’ cuoio sì ’nferigno e duro, / che chi per torre al ciel volesse gire, / in lui fondar si converrebbe il muro» (Sed i’ avesse mille lingue 12-14). È insomma, per usare le parole del corrispondente Simone, poco addietro citate, «quello che spesso sen rincoia», quello cioè che si rifà la pellaccia e prolunga innaturalmente la sua vita e insieme l’attesa ormai intollerabile del figlio per l’agognata e lucrosa eredità. Il cuoio dunque, con la sua immagine di durezza e di non facilmente intaccabile tempra, è chiamato ad esprimere quanto resiste e si oppone agli appetiti del dissoluto e squattri-nato Cecco. È la caratteristica che unisce, diversamente declinata, coloro che sono i suoi principali carnefici e seviziatori: babbo e Becchina. Se dunque per i sonetti di Cecco è del tutto improprio parlare modernamente e formalmente di «canzoniere» (e assoluta-mente niente nella tradizione autorizza a farlo), mi pare tuttavia legittimo scorgere nel suo corpus una tendenza spiccata all’unitarietà e alla coesione tematica, alla costruzione di un sistema che si protende verso la codificazione coerente di un immaginario, cosa che va ben oltre la ricorrente messa in scena di un limitato cast di personaggi.

L’identità spietata e arcigna degli antagonisti si fa insomma per Cecco tratto identi-tario (e identificativo) di poesia.