Evoluzione, preistoria dell'uomo e società contemporanea / book

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Evoluzione, preistoria dell’uomoe società contemporanea

A cura di Lucia Sarti e Massimo Tarantini

Carocci editore

a edizione, maggio © copyright by

Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: studiograficoagostini, Roma

Finito di stampare nel maggio dalla Litografia Varo (Pisa)

ISBN ----

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Senza regolare autorizzazione,è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,compresa la fotocopia, anche per uso interno

o didattico.

Volume realizzato con il contributo dell’Università di Siena

. Le ragioni di un convegnodi Lucia Sarti e Massimo Tarantini

. Darwin e il Darwin Daydi Francesco Frati

. Evoluzione, preistoria dell’uomo e società contemporanea.Un’introduzionedi Massimo Tarantini

Parte primaImmagini dell’evoluzione e della preistoria

. Evoluzionismo e creazionismo di Pietro Omodeo

. David e il Neandertal. Gli stereotipi colti sulla preistoria di Antonio Brusa

. Evoluzione umana e ricercadi Carlo Peretto

Parte secondaFossili, molecole, genealogie

. La fenotipia ossea nella ricostruzione dell’evoluzione umana di Francesco Mallegni

Indice

I N D I C E

. DNA ed evoluzione umanadi Gianfranco Biondi e Olga Rickards

. Lettere degli antenati. Antropologia, genealogia, geneticadi Pier Giorgio Solinas

Parte terzaLa trasmissione di un sapere scientifico

. Comunicare e interpretare la preistoria nei musei di Michele Lanzinger

. Il problema del bush. Preistoria, comunicazione e sensocomunedi Cinzia Dal Maso

. Insegnare l’evoluzione dell’uomo nella scuola superiore di Brunella Danesi

. La preistoria a scuola? Coniughiamola al presentedi Tomaso Di Fraia

Le ragioni di un convegnodi Lucia Sarti e Massimo Tarantini

Il volume che qui si presenta raccoglie gli atti di una giornata di studitenuta a Siena il febbraio e organizzata nell’ambito delle ini-ziative svolte su scala internazionale in occasione del “Darwin Day”.

Organizzare un convegno sull’evoluzione e la preistoria dell’uomonella cornice di questa ricorrenza voleva essere un contributo per te-nere alta l’attenzione su tali tematiche, in un momento difficile per ladignità e l’autonomia della ricerca scientifica e dell’insegnamento. Inquei mesi, come molti ricorderanno, si agitava il dibattito attorno alforte ridimensionamento dell’insegnamento dell’evoluzione nellescuole, voluto dai provvedimenti dell’allora ministro della Pubblicaistruzione Letizia Moratti – un dibattito in parte scemato nonostantenon si sia ancora intervenuti su quei provvedimenti.

La reazione a quelle iniziative legislative fu davvero assai ampia,dalla scuola all’università alle accademie scientifiche, testimoniando lasensibilità al tema di insegnanti e ricercatori. Al fianco di questa posi-tiva e unanime opposizione, restava tuttavia l’impressione di una dif-fusione scarsa – e talora distorta – nella cultura media italiana dei con-cetti di base e dei problemi dell’evoluzionismo. E lo stesso si potevadire riguardo alla preistoria dell’uomo, tematica che naturalmente siintreccia (anzi, si sovrappone) all’evoluzionismo biologico, pur inte-ressando una tradizione di ricerca differente.

Per la preistoria dell’uomo – che la si guardi in un’ottica prevalen-temente biologica oppure culturale – ci sembrava andasse posta la do-manda, solo apparentemente ingenua, sul perché ad esempio la granparte (il ,%) della storia dell’umanità sia ancora sbrigativamente trat-tata in poche pagine dai manuali scolastici. Si trattava dunque di chie-dersi a cosa fosse dovuta la scarsa presenza dei due ambiti di ricerca nel-la cultura media italiana; se essa avesse ad esempio a che fare con unaprecisa idea di Storia (e di Uomo) o con la sempre marcata divaricazio-

ne tra scienze dell’uomo e della natura. Necessario appariva, inoltre, in-dagare gli intrecci con la cultura contemporanea, a cominciare dalla cul-tura cattolica, e capire quali siano, in effetti, le immagini più diffuse del-l’evoluzione e della preistoria dell’uomo nella società italiana contem-poranea, quale la percezione della ricerca preistorica (e archeologica ingenerale), quale la discrasia tra idee degli addetti ai lavori e grande pub-blico. Il discorso si sposta così sulle forme e i contenuti della divulga-zione e della formazione scolastica e universitaria e sul ruolo delle scuo-le, dell’università, dei musei, dei mezzi di comunicazione, nel veicolaredeterminate immagini dell’evoluzione e della preistoria. Tali questionipresuppongono, a monte, la domanda sul senso di una maggiore diffu-sione delle conoscenze sulla preistoria nelle scuole, nella cultura gene-rale, ma anche nel dibattito filosofico contemporaneo.

Organizzando la giornata di studi, non pretendevamo certo di of-frire risposte esaustive a tali complesse questioni, ma più modesta-mente di stimolare una riflessione aperta su questi temi, invitando aconsiderare le diverse immagini dell’evoluzione e della preistoria del-l’uomo, tanto nel passato quanto nel presente (la parte Immagini del-l’evoluzione e della preistoria); cercando di mettere a confronto com-petenze disciplinari diverse e mostrare così la ricerca scientifica nel vi-vo del suo operare (la parte Fossili, molecole, genealogie); sollecitandouna riflessione sulle modalità di comunicazione dei risultati della ri-cerca scientifica nelle scuole, nei musei, sui giornali (la parte La tra-smissione di un sapere scientifico).

Fin dal titolo del convegno (Evoluzione e preistoria dell’uomo nel-la società contemporanea. Percorsi conoscitivi e forme di trasmissione diun sapere scientifico), la nostra intenzione era di proporre, in sede diriflessione generale, un congiungimento tra due ambiti di ricerca (l’e-voluzione umana, intesa in senso biologico, e l’archeologia preistori-ca), spesso tenuti distinti dalle partizioni disciplinari, ma unite – oltreche dal loro oggetto – dalla comune convinzione dell’importanza del-lo studio della più antica e lunga storia dell’umanità. Uno studio, que-sto, il cui ruolo e significato ci sembra urgente riproporre a partire dauna riflessione collettiva che coinvolga il mondo delle università, del-le scuole, dei musei, dei mezzi di comunicazione. Ci auguriamo chequesto volume possa costituire un contributo in questo senso.

La giornata di studi Evoluzione e preistoria dell’uomo nella società contem-poranea. Percorsi conoscitivi e forme di trasmissione di un sapere scientifico,

L U C I A S A RT I , M A S S I M O TA R A N T I N I

organizzata dalla Sezione di Preistoria del Dipartimento di Archeologia eStoria delle Arti dell’Università di Siena, si è svolta presso l’Accademia deiFisiocritici il febbraio , con il patrocinio della stessa Accademia deiFisiocritici, dell’Associazione Nazionale Musei Scientifici, dell’Associazio-ne Nazionale Insegnanti di Scienze Naturali e dell’Istituto Italiano di Prei-storia e Protostoria. All’organizzazione dell’evento ha collaborato il MuseoFiorentino di Preistoria.

Questo il programma del convegno, in parte modificato nella stesura de-gli atti: – Folco Giusti, Francesco Frati, Lucia Sarti (Università di Siena): Saluti in-troduttivi; – Massimo Tarantini (Università di Siena): Apertura dei lavori; – Pietro Omodeo (Università di Siena): L’evoluzione e la dignità dell’uomo; – Giacomo Giacobini (Università di Torino): anni di scoperte sull’evo-luzione umana. Bilanci e prospettive; – Carlo Peretto (Università di Ferrara): Il significato della ricerca sull’evo-luzione umana;– Francesco Mallegni (Università di Pisa): La fenotipia come strumento diricostruzione dell’evoluzione umana; – Gianfranco Biondi (Università dell’Aquila), Olga Rickards (Università diRoma): DNA ed evoluzione umana; – Pier Giorgio Solinas (Università di Siena): Lettere degli antenati. Antro-pologia, genealogia, genetica; – Fabio Martini (Università di Firenze): L’arte preistorica: significati e pro-blemi di metodo;– Michele Lanzinger (Museo Tridentino di Scienze Naturali): Comunicarepreistoria nei musei;– Cinzia Dal Maso (giornalista): Il problema del bush. Preistoria, comunica-zione e senso comune;– Antonio Brusa (Università di Bari): Stereotipi e valori profondi dell’inse-gnamento della preistoria;– Brunella Danesi (Associazione Nazionale Insegnanti di Scienze Natura-li): L’insegnamento dell’evoluzione nelle scuole superiori;– Tomaso Di Fraia (Università di Pisa): La preistoria nelle scuole? Coniu-ghiamola al presente.

. L E R A G I O N I D I U N C O N V E G N O

Darwin e il Darwin Daydi Francesco Frati

Non credo sia un caso che un biologo evoluzionista come me si troviqui in compagnia di colleghi (letterati, storici) di facoltà e disciplinecosiddette umanistiche. Lo studio dell’evoluzione, infatti, ha molto incomune con gli studi storici; non è altro che lo studio della storia del-la vita organica sulla Terra. «Come tutti gli studi storici», lo ha de-scritto molto bene il grande genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza e, adifferenza di molti campi della biologia, allo studio dell’evoluzionemanca molto spesso, se non in rari casi, «il sostegno che può deriva-re dall’esperimento». La storia, come l’evoluzione, «non si può ripe-tere tale e quale» in laboratorio, perché molti particolari sono ormaiandati perduti (Cavalli-Sforza, Cavalli-Sforza, ). Per questo mo-tivo lo studio dell’evoluzione somiglia così tanto agli studi storici. Èuna questione di metodo. Ed è questo metodo scientifico che vienecelebrato oggi.

L’obiettivo di un’iniziativa come questa, per la quale, come mem-bri della comunità scientifica nazionale e internazionale, dobbiamoringraziare gli organizzatori, è quello di contribuire a diffondere la cul-tura scientifica nella società e a far comprendere anche ai non addettiai lavori il modo di fare ricerca scientifica. Da alcuni anni vengono or-ganizzate, anche in Italia, iniziative riconducibili al “Darwin Day”,cioè alla celebrazione della figura di questo grandioso attore dello sce-nario scientifico dell’Ottocento, nell’occasione della ricorrenza del suocompleanno. Tali iniziative, tuttavia, vanno al di là della semplice ce-lebrazione dell’uomo, che pure rivoluzionò il modo di interpretare ilmondo vivente, rappresentando una delle menti più lucide della bio-logia di tutti i tempi, non solo del suo tempo. Se si trattasse solo di que-sto, solo della celebrazione di un uomo, seppure grandioso, i DarwinDay di tutto il mondo avrebbero avuto vita breve. Fortunatamente, in-vece, per merito dei loro organizzatori, essi si sono trasformati in

un’occasione di approfondimento e diffusione della cultura scientifi-ca. Magari i temi che verranno trattati potrebbero persino non esserestati argomento di studio per lo stesso Darwin. Eppure il suo metodo,il paradigma evoluzionistico da lui introdotto, è ciò che ancora muo-ve le menti e l’entusiasmo dei ricercatori alla scoperta di nuove e mi-gliori spiegazioni per la comprensione di tutti i fenomeni biologici, trai quali, come in quest’occasione, l’evoluzione biologica dell’uomo el’evoluzione sociale dell’umanità.

C’è un altro aspetto che lega scienze naturali e antropologia, nelcontesto del Darwin Day. Provate a leggere, per esempio, Viaggio di unnaturalista intorno al mondo (Darwin, ), probabilmente la secon-da opera, in ordine di importanza, scritta da Charles Darwin. In essa,il grande naturalista descrive le osservazioni compiute durante il suoviaggio sul brigantino Beagle, durato circa cinque anni, tra l’Americadel Sud, l’arcipelago delle Galápagos, le isole del Pacifico, la NuovaZelanda e l’Australia. È il viaggio che, sono parole dello stesso Darwin,«è stato di gran lunga l’avvenimento più importante della mia vita, equello che ha determinato tutta la mia carriera» (Darwin, ). Eb-bene, dal diario di viaggio di un naturalista il lettore si aspetterebbeuna lunga descrizione di piante, animali, ecosistemi, paesaggi. Ovvia-mente tali descrizioni si trovano, ma molto abbondanti sono anche leaccurate osservazioni antropologiche, quelle, cioè, relative ai diversipopoli incontrati lungo il viaggio. Alcune di queste osservazioni tradi-scono un’impostazione tipicamente colonialista, come quelle in cui sitenta un’approssimativa classificazione dei diversi popoli, indiani, fue-gini, tahitiani, aborigeni australiani e neozelandesi, secondo una pre-sunta scala di “civiltà”, o la celebrazione della potenza civilizzatricedell’impegno colonialista del proprio paese in Australia e Nuova Ze-landa. Ma le sue osservazioni hanno spesso grande carattere di mo-dernità. Come la manifestazione di una certa ripugnanza verso laschiavitù, soprattutto nelle sue forme più offensive della dignità uma-na; oppure la descrizione di veri e propri esperimenti antropologici,come il reinserimento nella loro società di tre indigeni che erano statiprelevati e portati in Inghilterra pochi anni prima dallo stesso capita-no del Beagle Fitz Roy. L’accuratezza di queste osservazioni ci fannoconcludere che se Darwin non fosse diventato il grandissimo naturali-sta che è stato, sarebbe forse potuto diventare un buon antropologo.

Come accennato in precedenza, la grandezza di Darwin sta pro-babilmente nell’aver introdotto un nuovo modo di interpretare i mec-

F R A N C E S C O F R AT I

. D A RW I N E I L D A RW I N D AY

canismi che regolano l’esistenza di tutti gli organismi viventi sulla Ter-ra, dai più semplici ai più complessi. Proprio di questo abbiamo biso-gno: far comprendere a tutti quanto sia importante difendere, facen-dolo conoscere meglio, un modo di fare ricerca scientifica, e quindi ri-cerca della conoscenza, e, aggiungo, arricchimento culturale, fondatosu principi meccanicistici, liberi da pregiudizi ideologici, religiosi opersino politici.

Darwin, lo sappiamo tutti, ebbe a scontrarsi con l’autorità religiosae con la pruderie della borghesia benpensante dell’epoca, quella che,come scriveva Giuseppe Montalenti, non poteva accettare che l’uomodiscendesse dalla scimmie («se proprio è vero – secondo le parole at-tribuite a una signora della buona società dell’epoca – almeno non lo sifaccia sapere in giro»), preferendo considerarsi discendenti decaduti diesseri più nobili ed elevati (gli angeli), anziché esseri derivati da crea-ture più umili e semplici (le scimmie, appunto) (Montalenti, ).

Incidentalmente, ad un secolo e mezzo dall’uscita dell’Origine del-le specie, la biologia moderna, ma, dovrei dire, la scienza intera, si tro-va a combattere gli stessi avversari, arruolati in un esercito misto difondamentalisti religiosi e di politici opportunisti (non è molto di-stante nel tempo il malcelato tentativo di eliminare l’insegnamento del-l’evoluzione dai programmi didattici delle scuole medie): un esercitoche vorrebbe privare la scienza della sua indipendenza dalla religionee dalla politica, e i nostri ragazzi della possibilità di apprendere un me-todo rigoroso ed estremamente entusiasmante (direi persino diverten-te) di avvicinarsi alla comprensione delle leggi che regolano l’origine ela trasformazione degli organismi viventi sulla Terra. Per difenderequesta indipendenza occorrono iniziative come questa, che hanno l’o-biettivo di trasmettere al pubblico lo stesso entusiasmo che lo scien-ziato mette nel proprio quotidiano lavoro di ricerca.

Allo scienziato, o meglio, con un termine che a me piace di più, alricercatore, non chiedete la Verità: quella la chiedono, e la ottengono,i fedeli alle proprie religioni, e gli adepti alle loro sette. Al ricercatorechiedete di spiegare i risultati delle sue ricerche, e i metodi attraversoi quali tali risultati sono stati ottenuti. Questo è il bello della scienza.

Bibliografia

- . ., - . (), Chi siamo. La storia della diversitàumana, Mondadori, Milano.

. (), Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Einaudi, Torino (ed.or. The Voyage of the Beagle).

. (), Autobiografia, Einaudi, Torino (ed. or. The Autobiography of CharlesDarwin, -).

. (), L’evoluzione, Einaudi, Torino.

F R A N C E S C O F R AT I

Evoluzione, preistoria dell’uomo e società contemporanea.

Un’introduzionedi Massimo Tarantini

L’infiltrazione di problemi evoluzionistici in discussioni poli-tiche chiaramente remote è una prova di più sia della grandeportata di questa concezione della vita sia dell’unione ine-stricabile di problemi scientifici e sociali.

Gould, , p.

Che la teoria dell’evoluzione per selezione naturale avrebbe incontra-to molti ostacoli, non solo di ordine scientifico, fu problema di cuiCharles Darwin era ben consapevole. Proprio per evitare che la di-scussione coinvolgesse questioni extrascientifiche, preferì escluderedalla trattazione le implicazioni che la sua teoria avrebbe avuto se ap-plicata all’uomo: «Lei mi chiede – scriveva ad Alfred R. Wallace il dicembre – se affronterò il problema dell’uomo; penso che eviteròl’intero argomento, che è avvolto da una grande quantità di pregiudi-zi» (cit. in Greene, , p. ).

Che a quasi centocinquant’anni dalla pubblicazione dell’Origin ofspecies questi pregiudizi potessero essere ancora operanti e persinopermeare l’azione politica di governi, come quelli dell’Italia e degliStati Uniti, era invece una previsione che nemmeno il più pessimistatra gli evoluzionisti, qualche decennio fa, avrebbe forse fatto.

Prendiamo ad esempio la cosiddetta teoria dell’intelligent design.Elaborata verso la metà degli anni Novanta negli USA, essa rappresentauna sorta di aggiornamento della tradizionale interpretazione biblica:non professa più la creazione in sei giorni e un’età assai recente dellaTerra, né nega la presenza di alcuni processi evolutivi, ma sostiene chela complessa organizzazione degli organismi viventi non può essere cheil frutto di un disegno intelligente, elaborato da un “progettista” supe-riore. Pur non esplicitando la natura e il nome di questo progettista, l’IDè in sostanza un atto di fede. Il movimento che lo sostiene (in partico-lare il Discovery Institute di Seattle) si è posto in esplicita opposizionecon il darwinismo e con qualsiasi lettura materialistica della realtà, non

accettando che la comparsa di strutture complesse, come una cellula oun essere umano, possa essere frutto dell’evoluzione. Se nel mondo ac-cademico hanno trovato un seguito assai ridotto, possiamo anzi dire deltutto marginale, queste posizioni stanno invece riscuotendo un succes-so davvero preoccupante al di fuori della comunità scientifica, grazieanche a un contesto politico decisamente favorevole: «in oltre degliStati degli Stati Uniti sono state esaminate proposte ostili alla teoria del-l’evoluzione» (Orr, , p. ) e per numerosi consigli scolastici di-strettuali l’insegnamento scolastico dell’ID ha assunto pari dignità ri-spetto a quello dell’evoluzionismo. Nell’ottobre , del resto, in unsondaggio della CBS il % degli statunitensi intervistati rispose di pre-ferire il creazionismo all’evoluzionismo. Sensibili a questi risultati, leaziende private si sono ben guardate dal finanziare una grande mostrasu Charles Darwin organizzata dal prestigioso American Museum ofNatural History, mentre per la costituzione del Creation Museum, po-co fuori Cincinnati (Ohio), la cui apertura è prevista per l’aprile ,sono stati racimolati da sponsor privati e da singoli cittadini qualcosacome ventitré milioni di dollari. Insomma, i tempi del “processo dellascimmia”, intentato nel contro John T. Scopes, insegnante reo diaver professato la teoria evoluzionista, non sembrano così lontani.

In Italia, invece, un’azione politico-culturale affine a quella delmovimento dell’ID e dei teo-con statunitensi è stata condotta diretta-mente dai vertici politici nazionali (ovvero dall’allora più alta caricagovernativa in materia di pubblica istruzione: il ministro del prece-dente governo, Letizia Moratti), opportunamente affiancati da vere eproprie campagne – ancora in corso – condotte, tra gli altri, da “Il Fo-glio” di Giuliano Ferrara e dall’“Avvenire”, quotidiano vicino allaConferenza episcopale italiana. La conseguenza più grave di questaazione politico-culturale è stata senza dubbio la ridefinizione dei pro-grammi scolastici voluta nel gennaio dal ministro Moratti, checomportò la cancellazione di quei quattro punti che inserivano l’inse-gnamento dell’evoluzione nelle scuole medie. Tra questi particolare ri-

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. Per il sondaggio CBS e il mancato finanziamento all’AMNH, cfr. Staglianò (); sui con-tributi al Museo di Cincinnati, cfr. http://www.answersingenesis.org/museum/donate.asp (lacifra è aggiornata al agosto ). Cifre analoghe a quelle della CBS si trovano in un son-daggio Gallup, secondo il quale il % degli statunitensi crede nel creazionismo e solo il %nell’evoluzione (“il manifesto”, novembre , p. ). Sull’intelligent design cfr. il contri-buto citato di Orr () e Pievani (); sul processo Scopes e la dettagliata ricostruzioneche ne fornì Ray Ginger, cfr. Omodeo ().

. E V O L U Z I O N E, P R E I S T O R I A D E L L’U O M O E S O C I E T À C O N T E M P O R A N E A

lievo aveva, dal nostro punto di vista, quello che prevedeva, con sinte-si efficace, l’insegnamento di “Origini ed evoluzione biologica e cul-turale della specie umana”.

A questa cancellazione (ancora peggio dunque dell’equiparazionestatunitense) corrispose un’ampia reazione degli insegnanti e della co-munità scientifica, in seguito alla quale si ottenne l’istituzione di unacommissione ministeriale incaricata di valutare l’opportunità dell’in-segnamento dell’evoluzione nelle scuole. Le conclusioni della com-missione, presieduta dalla Levi Montalcini, furono, come non avreb-be potuto essere altrimenti, molto nette, con l’“ingiunzione” (secondole parole della stessa Moratti) di reintrodurre l’insegnamento dell’evo-luzione (l’evoluzione in genere) non solo nelle scuole secondarie (cioèle medie) ma anche nelle primarie (cioè le vecchie elementari).

Il testo consegnato dalla commissione il febbraio non è no-to nella sua formulazione originaria, a causa di successive manipola-zioni ministeriali. Un testo evidentemente poco gradito, i cui contenuti(contrariamente a quanto sostenuto dal ministero) non sono stati re-cepiti dai programmi di scienze emanati nell’ottobre . L’insegna-mento dell’evoluzione viene infatti limitato alla terza media, con le se-guenti indicazioni: “Interazioni reciproche tra geosfera e biosfera, lo-ro coevoluzione. Darwin”. Punto e basta. Nient’altro. Le proposte del-l’intero corpo insegnanti e di tutta la comunità scientifica sono statesemplicemente ignorate. L’insegnamento dell’evoluzione dell’uomoviene di fatto circoscritta all’istruzione superiore; prima di allora è me-glio consolare i nostri fanciulli con favole rassicuranti rispetto alle no-stre origini e al nostro posto nel mondo naturale.

L’eliminazione dell’evoluzione dall’insegnamento nelle scuole me-die è un fatto gravissimo: ad essere messa in discussione è la stessa va-lidità dell’approccio scientifico – fatto di dubbi e verifiche continue –,oltre che la sua utilità come strumento di formazione.

È evidente che tutto questo si inserisce in una rinnovata tensionetra mondo cattolico e mondo laico e in un rinnovato protagonismo, as-

. Tutta la vicenda qui in breve riportata è stata attentamente seguita e costantementedenunciata da Telmo Pievani, ai cui scritti si rinvia per un’analisi più approfondita che in-veste le stesse fondamenta scientifiche e filosofiche dell’offensiva teo-con: cfr. Pievani(a, b, c, con una risposta a un precedente contributo di Pievani da parte diGiuseppe Bertagna, allora influente consulente ministeriale per i programmi scolastici, e ledue versioni del Rapporto conclusivo della commissione “Darwin”, d).

sociato alla gestione di importanti posti di potere, di componenti for-temente conservatrici. Una tensione che è sotto gli occhi di tutti e in-teressa la società italiana nel suo insieme.

Il rapporto con la cultura cattolica è dunque un punto centrale estoricamente radicato (cfr. il saggio di Pietro Omodeo in questo volu-me, che ripercorre la “creazione” del creazionismo), eppure esso nonsembra sufficiente a spiegare la diffusione ridotta – e talora distorta –nella cultura media italiana dei concetti di base e dei problemi relativialla più antica storia dell’umanità. Si tratta di un problema le cui radi-ci investono nell’insieme l’attuale concezione dell’uomo e del suo po-sto nella natura. Interrogativi antichi, evidentemente, ma ancora piùattuali e urgenti che in passato.

In un commento inviato al ministero nel (Terreni, , p.), l’Associazione nazionale insegnanti di scienze naturali fece osser-vare come in quegli stessi programmi ministeriali che riducevano l’in-segnamento dell’evoluzione si parlasse poco o niente di ambiente e difenomeni di adattamento, oltre che di rapporto tra uomo e ambiente.L’astrazione dell’uomo dall’evoluzione naturale va di pari passo conuna visione antropocentrica, che vede l’uomo come componente au-tonoma dal mondo naturale. Un’idea davvero miope e pericolosa, lecui conseguenze ambientali sono sotto gli occhi di tutti.

Questa doppia assenza (evoluzione/ambiente) mi sembra confer-mi una volta di più la stretta relazione tra la scarsa importanza confe-rita all’insegnamento della più antica storia dell’umanità e l’idea del-l’uomo e del suo rapporto con la natura nella cultura contemporanea.La storia dell’uomo, del resto, a dare ascolto a certi stereotipi (che pur-troppo permeano ancora i nostri manuali scolastici: cfr. qui il contri-buto di Antonio Brusa), non sarebbe altro che un continuo processodi affrancamento dalla natura. L’uomo preistorico è raffigurato sem-pre in balia di una natura ostile e pericolosa, da cui solo la sua labo-riosità lo ha liberato, come si trattasse di una nuova creazione (Stock-zowski, , pp. -).

La percezione nella società contemporanea della “preistoria” del-l’uomo – termine ormai entrato nell’uso per designare le vicende pre-

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. È sufficiente citare alcuni dei temi e delle iniziative che animavano la scena politicaagli inizi del : messa in discussione della legge sull’aborto; ostilità verso la pillola abor-tiva RU; finanziamento alle scuole private (cioè confessionali); esenzione dall’ICI per ibeni ecclesiastici, anche quelli a fini commerciali.

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cedenti la registrazione scritta degli eventi, ma pur sempre infelice e ri-velatore, quasi che solo la presenza della scrittura conferisse alle vicen-de dell’uomo, passato e presente, la dignità di storia – può dunque es-sere una spia interessante di concezioni del mondo ben più ampie e per-vasive. Indagare la natura di questa percezione e di questi stereotipi,ben diffusi anche a livelli alti della nostra cultura (si veda, ad esempio,la sconfortante trasmissione radiofonica dedicata all’evoluzione da Ra-dio Tre nel , o la pubblicità a piena pagina della Grande enciclope-dia per ragazzi di Repubblica, che dalle pagine di uno dei più importan-ti e “progressisti” quotidiani italiani associa l’immagine dell’uomo prei-storico considerato come preda, all’immancabile anacronismo che lovede al fianco dei dinosauri), vuol dire dunque indagare in che modole idee della preistoria siano specchio di ideologie più ampie e, inoltre,misurare la discrasia tra idee degli addetti ai lavori e grande pubblico.E si badi che indagare le immagini e gli stereotipi sulla più antica storiadell’uomo vuol dire anche riflettere sui contenuti di cui, come studiosispecialisti, rischiamo di farci portatori, talora inconsapevoli, magari inintenzionali processi di semplificazione a fini divulgativi.

Come sanare lo scollamento oggi esistente, in tema di evoluzionee preistoria dell’uomo, tra mondo scientifico e società?

Non si pretende di offrire qui una soluzione, che richiede iniziati-ve e strategie istituzionali di ampio respiro. Ma non è forse inutile pro-porre alla riflessione alcuni punti su cui sembra importante insistere ea partire dai quali è stata appunto impostata la giornata di studi di cuiqui si propongono gli atti. Sono due i poli entro i quali si colloca laquestione, e cioè: come opera e procede la ricerca scientifica e qualisono le modalità di trasmissione delle conoscenze.

Un saggio recente (Donghi, ) ha opportunamente insistito sul-l’importanza che la storia di una scoperta scientifica può avere per co-municare, a diversi livelli, la natura di quella stessa scoperta. Di più,possiamo dire che appare importante trasmettere non solo i risultatidella ricerca scientifica ma gli stessi percorsi conoscitivi che hanno por-tato a quei risultati. Percorsi che non sempre (anzi, quasi mai) sono li-

. Sui contenuti e la logica della trasmissione radiofonica di Radio Tre, cfr. l’interessantee dettagliata analisi di La Vergata (). La pubblicità della Grande enciclopedia per ragaz-zi di Repubblica recitava: «Nell’era primordiale, quando l’uomo era più spesso preda che pre-datore, i padroni del mondo si chiamavano Tyrannosaurus rex, Velociraptor, Triceratops,Brochiosaurus. In questo straordinario volume, curato da specialisti internazionali [...]» (in“la Repubblica”, marzo , il corsivo è nostro).

neari, ma piuttosto tortuosi e complessi, fatti di incertezze e contami-nazioni. Il successo dell’idea che la crescita di un sapere dipenda solodall’approfondimento di “paradigmi” nell’ambito delle attività propriedi una “scienza normale” (per riprendere le note definizioni di Kuhn,) non può farci dimenticare il ruolo fondamentale che svolge il con-fronto tra diverse discipline, oltre che tra differenti indirizzi di ricercainterni alle singole discipline. La parte di questo volume intitolata Fos-sili, molecole, genealogie vorrebbe costituirne un esempio: cogliere lascienza nel vivo delle sue discussioni, piuttosto che come insieme mo-nolitico, è forse il modo migliore per diffondere l’idea che la ricerca –spesso ridotta a nozioni preconfezionate quando si tratta di comuni-carla – è invece una cosa viva, intrinsecamente non dogmatica, che sicostruisce davvero giorno per giorno.

Parlando di ricerca, si è già toccato l’altro punto proposto comeoggetto di riflessione: le forme e i modi della trasmissione delle cono-scenze relative all’evoluzione e alla preistoria dell’uomo nei musei, suimezzi di informazione, nelle scuole, ai quali è dedicata la terza partedi questo volume.

Senza nulla anticipare al proposito, vorrei in breve sottolinearedue punti.

Il primo è che la divulgazione scientifica resta un tema difficile nelnostro paese e credo non solo per difficoltà oggettive, vorrei dire sto-riche (cfr. Govoni, ), ma anche per una certa mentalità che tendea vedere nella divulgazione un abbassamento della pratica scientifica.

Il secondo punto è la centralità della scuola come luogo formati-vo. Non bisogna dimenticare che per tutti la scuola è il primo luogo diapproccio alle scienze e alla storia e che per molte, moltissime perso-ne, la scuola resterà per tutta la vita la sola occasione di contatto siste-matico con queste discipline. In questo quadro, la sostanziale assenzadella più antica storia dell’uomo dai programmi delle scuole di spe-cializzazione per l’insegnamento secondario non lascia presagire nien-te di buono per il futuro.

Ho parlato intenzionalmente di approccio alle scienze e alla storia,per ribadire come la ricerca sulla più antica storia dell’umanità, a ca-vallo tra scienze naturali e scienze dell’uomo, potrebbe essere la linea

M A S S I M O TA R A N T I N I

. A questo proposito vorrei sottolineare anche l’esigenza di “tradurre” saperi specia-listici nell’ambito di una comunicazione con esperti di altri ambiti disciplinari: esigenzafondamentale per la comunicazione interdisciplinare, che il bimestrale di scienze “Darwin”sembra avere colto perfettamente.

. E V O L U Z I O N E, P R E I S T O R I A D E L L’U O M O E S O C I E T À C O N T E M P O R A N E A

guida per programmi e percorsi interdisciplinari. Non a caso sono quipresentati due diversi interventi sull’insegnamento nelle scuole dell’e-voluzione e della preistoria dell’uomo, uno relativo all’ambito scienti-fico, l’altro a quello storico.

Sia permesso, in conclusione, proporre alcune frammentarie ri-sposte a un interrogativo che sta a monte di tutto: quali sono, oltre lapur fondamentale e ineludibile rivendicazione di un sapere laico, i si-gnificati profondi della ricerca sulla più antica storia dell’umanità, edunque per quale ragione reputiamo importante una sua diffusione?

È possibile sviluppare tre linee di riflessione.. Innanzitutto, e riprendo qui un tema caro ad André Leroi-Gourhan(, ), viviamo in un mondo tecnologicamente avanzato, in cui ladivaricazione tra la “mano” e la “mente” è sempre più marcata: una di-varicazione che ha attraversato la storia dell’educazione degli ultimimillenni, segnando «il primato dell’insegnamento-apprendimento pervia eminentemente intellettuale su quello per via eminentemente prati-ca. Ossia il primato della mente sul braccio» (Santoni Rugiu, , p. ).Gli studi di preistoria possono senz’altro offrire una prospettiva privi-legiata – di lunga durata – per bilanciare lo squilibrio e cogliere il valo-re dei rapporti tra l’uomo e la tecnica: della tecnica intesa come aspet-to fondamentale nella storia dell’umanità e del sapere tecnico inteso co-me abilità manuale ed elemento integrato con le capacità intellettive.Da questo punto di vista, la didattica della preistoria nei musei e nellescuole, orientata secondo il principio dell’“imparare facendo”, cioè conlaboratori pratici, ha un notevole potenziale formativo e si riallaccia aimportanti tradizioni pedagogiche e psicologiche. . La ricerca sulla preistoria dell’uomo, inoltre, è una disciplina diconfine, che ha nel suo statuto costitutivo tanto le scienze umane quan-to le naturali. La presenza di queste due diverse tradizioni è chiara-mente percepibile fin dal momento in cui, a metà Ottocento, la prei-storia è divenuta oggetto di ricerche scientifiche. I suoi percorsi cono-scitivi e l’attenzione a ricostruire i processi storici di interazione tra di-

. Sulle potenzialità dell’insegnamento dell’archeologia esiste ormai un’amplissimaproduzione. Mi limito qui a segnalare, tra i testi più recenti: Malone, Stone, Baxter (),per un’ampia panoramica mondiale; Rainbird, Hamilakis (), sull’insegnamento del-l’archeologia nelle scuole inglesi; particolare attenzione all’insegnamento della preistoria èprestata in Marquet, Pathy-Barker, Cohen (). In italiano, descrizione di laboratori di-dattici e considerazioni pedagogiche per l’insegnamento della preistoria si trovano in Bru-sa () e in Landi ().

versi aspetti del reale possono rappresentare un significativo stimoload andare oltre quella «frammentazione cognitiva del mondo» (Galli-no, , p. IX) indotta dalla necessaria, ma allo stesso tempo limitan-te, iperspecializzazione. Da questo punto di vista, si leggono con gran-de piacere, e non senza una certa sorpresa, le parole pronunciate inuna seduta della British Academy nel novembre da Eric J. Hob-sbawm, il quale sostiene che le ricerche sull’evoluzione umana indica-no «le nuove prospettive per la storia», quelle di una «“storia totale”– non “la storia di tutto” ma la storia intesa come una tela indivisibile,nella quale tutte le attività umane sono interconnesse. Una storia checonsidera il pianeta in tutta la sua complessità». Questa prospettiva «ciriporta inevitabilmente all’approccio di base dell’evoluzione umana,adottata da archeologi e studiosi della preistoria, che consiste nellostudio delle modalità di interazione (e controllo crescente) fra la no-stra specie e l’ambiente» (Hobsbawm, , p. ).. Si arriva così all’ultimo dei punti, che a mio avviso conferisce at-tualità alle ricerche sulla preistoria dell’uomo. Il precario equilibrioambientale cui abbiamo portato la Terra pone in maniera urgente iltema dei rapporti uomo-ambiente. La ricerca preistorica da questopunto di vista offre una prospettiva di lunga durata ed è una storia incui il rapporto con l’ambiente è davvero una linea guida. Jared Dia-mond (), più di altri, ci ha illustrato le potenzialità di uno studiodella preistoria – e della storia – in relazione ai fattori ecologici e geo-grafici per comprendere il mondo attuale, apportando peraltro argo-mentazioni di assoluto rilievo per confutare qualsiasi razzismo cultu-rale, come già le ricerche genetiche sull’evoluzione umana degli ultimicentomila anni (Cavalli-Sforza, ) avevano definitivamente mostra-to l’inconsistenza del razzismo biologico. Jean Zammit (), per ci-tare un altro caso significativo, ha mostrato come la gran parte dellemoderne malattie infettive (tubercolosi, vaiolo ecc.) si sia originata inseguito alla domesticazione degli animali nel corso del Neolitico. Ilprogresso ha conseguenze non sempre prevedibili.

M A S S I M O TA R A N T I N I

. Non si contano più i saggi e le ricerche relativi alle condizioni ambientali del pianeta;il numero purtroppo non si traduce in ascolto da parte degli organi decisionali nazionali e so-vranazionali. Mi limito qui a segnalare un libro di Eldredge (), per la sua capacità di illu-strare il ruolo della biodiversità, e il recente Living Planet Report , ennesimo circostan-ziato allarme sulle condizioni di degrado del pianeta e sulla necessità di misure immediate(consultabile on line: http://www.wwf.it/ambiente/dossier/Living_planet_report_.pdf).

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Piace pensare che, nel momento in cui sempre più l’attenzione ècentrata su prospettive di corta durata (e la miopia sulle questionienergetiche e ambientali parla chiaro), la diffusione di una storia – chepoi è la nostra – di lunga, lunghissima durata, possa giovare a megliocomprendere le implicazioni che può avere la nostra pressione sul de-licato equilibrio ambientale.

Si tratta, oltretutto, di una storia collettiva – cioè di tutti gli uomi-ni – e di fronte a cambiamenti climatici che non possono essere af-frontati che dalla specie umana nel suo insieme, non è forse inutile fa-re in modo che la nostra “coscienza di specie”, per così dire, si ridefi-nisca attraverso la consapevolezza della propria storia comune, oltregli interessi particolari. Una storia sulle cui basi andrebbe fondata«quell’educazione a una cittadinanza planetaria» che, all’epoca dellaglobalizzazione, appare come la «missione fondatrice di ogni futurascuola e di ogni futura università» (Bocchi, Ceruti, , p. XVII).

Una storia collettiva, dunque, la cui conoscenza e diffusione negliultimi anni drammatici della seconda guerra mondiale sembrò indi-spensabile a Grahame Clark per sradicare le cause profonde di quelconflitto: «What is needed above all is an overriding sense of humansolidarity such as can come only from consciousness of common ori-gins. Divided we fall victims to tribal leaders: united we may yet moveto a life of elementary decency» (Clark, , p. ).

Sessant’anni dopo, un’educazione in cui lo studio della più anticastoria dell’uomo abbia il ruolo che le spetta sembra ancora uno stru-mento importante per far fronte alle incombenze del nostro tempo.

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Parte primaImmagini dell’evoluzione

e della preistoria

Evoluzionismo e creazionismo di Pietro Omodeo

Nei dibattiti sull’evoluzionismo che si ha occasione di ascoltare, quel-li televisivi compresi, non è raro sentire qualche oppositore che si trin-cera dietro l’affermazione: il creazionismo è verità rivelata, io sono uncredente, quindi qualunque argomento venga portato a favore dell’e-voluzione lo rifiuto, anche se dalla parte vostra c’è qualche teologo cat-tolico o di altra religione.

Io mi chiedo come reagirebbero queste persone nel leggere un bra-no come questo, scritto da un grande naturalista senese intorno allametà del Cinquecento:

Tiene il vulgo per cosa certa, che non solamente i sassi, che sono e sempre sa-ranno sopra la terra, ma anche le vene dei metalli, tutte le gemme e pietre pre-ziose, così come di giorno in giorno si ritrovano nelle viscere della Terra fos-sero tutte insieme nella prima creazione del mondo fatte tutte da Dio, ne-gando che di poi in qua sia nata e rinata materia alcuna […] né s’accorgonocostoro quanto grandissima ingiuria facciano alla natura, la quale non fa al-tro che produrre di nuovo le cose che per lo passato sempre produsse. Delquale assai grossolano errore ci rende testimonianza il veder noi […].

Così afferma, nei suoi Commentarii al Dioscoride (Venezia ), PierAndrea Mattioli (-), medico personale di Rodolfo d’Asburgo,portando a sostegno della propria tesi il fatto che certi materiali siriformano nelle cave e nelle miniere dopo che i cavatori li hanno por-tati via, anno dopo anno.

Discorso quasi identico fa Georg Bauer (-), il più grandenaturalista tedesco del Rinascimento, che firma sempre i suoi lavoricon il nome latino Agricola:

La sciocca e ridicola opinione del volgo simile a qualche favola e ad ogni espe-rienza contraria, vuole che non soltanto i sassi ma […] anco i metalli e le

gemme e altre specie di terre dal grande Iddio formate e create a punto comeoggi si ritrovano, e che mai da quel tempo in qua non ne sia stata alcuna dinuovo generata […] né che il fattore del tutto desse altrimenti a la natura virtùe potenza di poterli perpetuare il che, quanto sia falso et erroneo assai si puòintendere da le cose che si sono disputate sopra (De la generatione de le cose,Venezia ).

Conclude quindi anche il dotto naturalista tedesco col dire che tutti i mi-nerali si riformano per effetto delle capacità di cui è dotata la natura.

Questi brani, tanto simili da sembrare copiati l’uno dall’altro (eforse lo sono), rivelano il peso che allora veniva dato alla Natura nellevicende geologiche della Terra e lo sdegno verso la concezione fissistadella creazione, come oggi si direbbe.

Veniamo al Seicento, secolo che vede la rapida crescita del pensie-ro scientifico moderno. In quell’epoca il mondo dei naturalisti si tro-va diviso in due schieramenti a proposito della riproduzione degli ani-mali e delle piante. Da una parte troviamo i tradizionalisti, che so-stengono che molti animali compaiono per generazione spontanea oda materiali in putrefazione, o all’interno di altri organismi che poisfruttano come parassiti. Da un’altra parte militano studiosi impegna-ti a dimostrare, con rigore sperimentale, che tutti gli animali nasconoda uova e tutte le piante nascono da seme, e che quindi la generazio-ne spontanea non si verifica.

Campione della tesi che tutti gli animali nascono da uova è Fran-cesco Redi (-), medico della corte medicea a Firenze. A Redipresto si sono associati personaggi illustri quali Marcello Malpighi(-), Alfonso Borelli (-), Jan Swammerdam (-),Regnier de Graaf (-) e altri meno illustri ma certamente dili-genti e abili osservatori, quali Antonio Felice Marsigli (-), poivescovo di Perugia, e lo speziale livornese Diacinto Cestoni (-).Questi studiosi hanno saputo descrivere le uova degli animali più mo-desti: chiocciole, pulci, acari della scabbia e anche le uova dei mam-miferi. Alcuni di essi, peraltro, trascinati dall’entusiasmo e dalla fanta-sia, hanno compiuto un passo falso, formulando una teoria strampala-ta, che è stata difesa su basi non sempre scientifiche, ma che è stata an-che bersagliata da critiche per un secolo e mezzo. Ne parleremo poi.

Campione della tesi della generazione spontanea, che rimonta adAristotele, è stato l’abate tedesco Athanasius Kircher (-), sa-cerdote della Compagnia di Gesù, il quale tentava di far quadrare i ri-sultati dello studio naturalistico con notizie tratte dalle Sacre Scritture.

P I E T R O O M O D E O

Kircher nel Mundus subterraneus (Amsterdam ) fornisce le ri-cette per dirigere a volontà il fenomeno della generazione spontanea alfine di ottenere mosche e scorpioni, rane e serpi. In una sua seconda ope-ra, intitolata Arca Noë (Amsterdam ), egli considera come Noè aves-se organizzato l’Arca per ospitare gli animali e nutrirli, durante i quaran-ta giorni del Diluvio universale. Nel fare i conti, però, il nostro abate siaccorge che – pur essendo, secondo lui, lunga quasi cento metri – l’Arcamai avrebbe potuto contenere tutti gli animali del Vecchio e del Nuovomondo allora noti, nonché le derrate destinate a nutrirli. Poiché non cisarebbero entrati tutti («quad illorum Arca capax non fuerit»), Kircherpropone due soluzioni per spiegare l’attuale ricchezza in specie.

La prima soluzione riguarda le ibridazioni avvenute dopo che dal-l’Arca erano uscite le tante coppie che vi avevano trovato rifugio. Acausa di essa molte nuove specie sarebbero nate: la giraffa dall’incro-cio del leopardo col cammello, la marmotta dall’incrocio del tasso conlo scoiattolo, mentre l’Alopecopithecum sarebbe derivato dall’ibrida-zione della volpe con la scimmia. Vien fatto di chiedersi: di quale ani-male si tratta? Poiché l’autore ci informa che la femmina porta i pic-coli in una borsa ventrale dobbiamo credere che si tratti dell’opossum,marsupiale americano. La storia degli ibridi è decisamente nel fanta-stico, ma bisogna notare che Linneo, cent’anni dopo, volendo com-prendere l’origine di molti animali, propone la medesima soluzione.

La seconda proposta di Kircher è molto più interessante. A pro-posito del bisonte nordamericano egli dice testualmente: «Bovinaespeciei animal, vel coeli influxu peculiari, aut climatis locique natura,uti fere omnia animalia Americae in hanc formam transmutatum fuis-se» (che così si traduce: «Una qualche sorta di bovino si è trasforma-to in questa forma, o per qualche particolare influsso del cielo o per lanatura del luogo e del clima, come è accaduto per quasi tutti gli ani-mali dell’America»).

Ribadisce quindi il nostro autore che questi due eventi, l’ibrida-zione e la mutazione indotta dall’ambiente, hanno permesso di ripo-polare il mondo intero e afferma che questa ipotesi è conforme all’im-perativo crescite et multiplicamini et replete terram, imperativo che co-sì si deve intendere: “crescete di numero e moltiplicatevi di specie eriempite la terra” (Roberto Benigni l’intende in modo più pragmatico:mangiate e fate all’amore).

Nell’Ottocento quest’interpretazione kircheriana è stata candi-damente riproposta da Andrea Bonelli (-), cauto sostenito-

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FIGURA .Frontespizio del Mundus subterraneus di Athanasius Kircher, pubblicato ad Amsterdamnel

re dell’evoluzionismo, il quale dice espressamente di attenersi alleposizioni conciliatrici di monsignor Frassinous. Qualche commen-tatore ha accolto quest’idea con indignazione. Va detto, tuttavia,che in Kircher essa ha un significato preciso: la moltiplicazione del-le specie a partire da quelle create in limitato numero dal Creatore,dipende dalla mutabilità insita in loro e persino nella superficie delglobo, superficie che si è modificata anch’essa a causa del Diluviouniversale nel volgere del tempo. Se non si tratta di evoluzionismoin senso moderno, si tratta in ogni caso di una visione dinamica del-la natura dei viventi e della Terra stessa.

Va infine notato che se Kircher ammette una variabilità intrinsecaai viventi, e la accetta persino per l’uomo, egli si indigna tuttavia e ri-fiuta come assurda la tesi di Isaac de la Peyrère (-), secondo ilquale la Bibbia ammetterebbe l’esistenza di altri esseri umani prima diAdamo, i cosiddetti “preadamiti”.

Qualche odierno sostenitore del creazionismo può obiettare cheKircher è stato un visionario isolato che non merita attenzione, e chein effetti non ne ha ricevuta molta. È invece vero che egli è stato a suotempo un esperto naturalista e un personaggio autorevole, che ha in-segnato a lungo nel Collegio Romano, dotandolo di un museo ancoroggi esistente. Va notato, inoltre, che questo Collegio è l’istituzione piùimportante tra le molte fondate dai gesuiti e che ospita l’UniversitàGregoriana. Del resto Kircher è ancor oggi tenuto in grande conside-razione dai suoi confratelli.

Veniamo ora ai negatori della generazione spontanea e ai sostenito-ri dell’origine di tutti gli animali da uova, tra i quali si distingue il gran-de microscopista fiammingo Jan Swammerdam. Questi, in base a osser-vazioni di altri autori, male interpretate, e in base ad alcune proprie os-servazioni, credette di vedere ben formato entro ciascun uovo di rana,l’animale che da esso sarebbe uscito (Biblia naturae, Leyden -, po-stumi). Swammerdam era dotato di una bizzarra personalità, in quantoa una capacità di osservazione limpida e acuta univa un’immaginazionevisionaria. Egli immaginò quindi che dentro all’animale che si sviluppa-va nell’uovo fossero contenute altre uova con dentro completamenteformati gli individui della generazione successiva e così via, ma non al-l’infinito, poiché – come la filosofia insegna – entro un uovo di dimen-sioni finite non possono essere contenute infinite generazioni.

Questa implicazione gli sembrò molto opportuna perché in buonaccordo con la fine del mondo prevista nelle Sacre Scritture. Non solo,

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FIGURA .Frontespizio del Miraculum Naturae di Jan Swammerdam (Londra )

l’ipotesi appariva anche conforme al dogma del peccato originale: es-sendo tutti i futuri esseri umani presenti fin dall’inizio nelle ovaie di Evaessi erano stati contaminati tutti dal suo peccato. Swammerdam, pur es-sendo luterano convinto, non esitò a esporre il suo castello di idee scien-tifico-teologiche al cattolico Nicola Malebranche, abate oratoriano.

Malebranche (-) era un entusiasta seguace della filosofia edella fisica di Cartesio, che a quel tempo erano sospettate di essere ere-tiche, e si era dato da fare per allontanare questo pericoloso sospettoo, se si vuole, per cristianizzare il cartesianesimo.

Tra gli argomenti da lui portati a questo scopo ce n’era uno moltosemplice, derivato dal dialogo che Cicerone aveva scritto per confuta-re le tesi di Epicuro. Nel dialogo, intitolato De natura deorum, l’orato-re romano sostiene che la bellezza della Natura, l’equilibro che in es-sa si osserva e la perfezione delle creature che essa ospita, testimonia-no le somme qualità delle divinità che ad essa presiedono e hanno tut-to prodotto. Concludeva a sua volta Malebranche: se poi queste crea-ture vengono intese, come vuole Cartesio, al modo di perfettissimemacchine, ciò va a maggior gloria dell’Onnipotente che le ha create.

Avendo simile posizione, Malebranche non esitò a incoraggiareSwammerdam, il quale, forte di questo consenso, espose in una suaopera, intitolata Miraculum Naturae (Leyden ), quello che si puòconsiderare il manifesto del preformismo e della creazione in actu ditutti i viventi. Malebranche espose a sua volta quelle idee (ma quasi perinciso) nel suo libro intitolato Recherche de la vérité (Paris -).

L’atto di nascita del creazionismo in actu, secondo cui in un fiatvenne creata ogni cosa, corrisponde più o meno a quello che oggi è ri-tenuto il creazionismo “verace”; esso può quindi essere datato al ,non al tempo di Mosè.

Ho detto che non so in qual modo gli oppositori dell’evoluzioni-smo possano reagire di fronte a simile disinvoltura nell’interpretare levicende della creazione. Ma non è difficile immaginare che, stringen-dosi nelle spalle, dicano: “discorsi da incompetenti che non ci riguar-dano”. Ma hanno torto. In effetti, se Mattioli, Agricola e Kircher siesprimono in un modo che oggi a qualcuno può sembrare troppo li-bero e disinvolto, ciò dipende dal fatto che allora la creazione non ve-niva messa in discussione da nessuno, ma che il creazionismo, che og-gi qualcuno presenta come un dogma, non era stato inventato ancora.

L’idea più correntemente accettata in proposito era quella me-dioevale, secondo la quale la Natura era stata delegata a proseguire il

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FIGURA .Frontespizio della Recherche de la vérité di Nicola Malebranche, pubblicata a Pariginel

miracolo della creazione. Dante stesso ne parla con convinzione. Maquesta concezione, che faceva della Natura un’entità chiave, e in cer-to modo divina, convinceva poco in tempo di controriforma, sia per-ché non documentata in alcun testo sacro, sia perché era troppo faci-le sostituire la Natura al Creatore stesso e quindi passare da un mono-teismo a un panteismo.

Torniamo all’idea lanciata da Swammerdam più per motivi reli-giosi che scientifici. L’idea della preformazione piacque comunque almicroscopista Nicolaas Hartsoeker (-), che propose una mo-difica, che non nelle uova fossero state incluse tutte le generazioni avenire, bensì nella testa degli spermatozoi ().

Il medico francese François De Plantade (-), venutone aconoscenza, escogitò prontamente una beffa, nella quale sono cascatiin molti. Pubblicò infatti un opuscolo nel quale erano descritti e illu-strati alcuni spermatozoi entro i quali si potevano scorgere i feti desti-nati a evolvere in adulti muniti di spermatozoi, in ciascuno dei qualiera contenuto un altro feto.

Fu Antonio Vallisneri (-) a lanciare il preformismo in mo-do più meditato, sviluppando gli spunti sopra citati. Ne era venuto aconoscenza attraverso il breve trattato di Swammerdam e forse ancheper il tramite dell’opera di Malebranche propagandata dagli oratoria-ni e, se non mi sbaglio, anche dai giansenisti; e Vallisneri aveva una na-scosta predilezione proprio per i giansenisti.

L’autorevole medico e naturalista così si esprime nel trattato Isto-ria della generazione dell’uomo, e degli animali (, in Opere fisico-mediche, Venezia , vol. II):

Nell’ovaio di ogni e qualunque femmina stanno nascosti tutti i feti che di ma-no in mano vengono a salutare il giorno, per essere tutti stati creati in un col-po dall’onnipotente e sapientissima mano di Dio nella prima Madre: onde ilnascere degli uomini, degli animali, e diremo ancor delle piante e di quanto èsopra la terra, non è che un manifestarsi di ciò che era involto, occultato e inun angustissimo spazio ristretto; a concepire la qual cosa, quantunque la no-stra immaginazione si spaventi, la ragione però ci sforza di concederlo.

Con Vallisneri la teoria dell’inscatolamento dei germi, inventata daSwammerdam e Malebranche, diventa il più completo e definitivo ma-nifesto del creazionismo estremo, come si direbbe oggi.

Sorprende molto che Vallisneri, studioso di grande valore e difen-sore rigoroso della razionalità in campo scientifico, e anche credente

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molto tiepido, abbia fatto proprio il modello della creazione una tan-tum. Questo suo comportamento ha però due giustificazioni. La pri-ma è che per questa via egli si metteva al riparo dal ricorso alla Prov-videnza nel campo naturalistico che, invocata di continuo nei sermonie nei libri di edificazione e nelle conversazioni quotidiane, vanificaval’impegnativa ricerca di una risposta a tanti perché. Ad esempio, alledomande: di cosa si nutre la cicala priva di bocca e nel cui intestinonon si trova che un po’ di liquido? È proprio possibile che si nutra dirugiada? A questa domanda, e ad altre dello stesso tipo, c’era semprechi rispondeva: “la Provvidenza soccorre anche il più minuto insetto”.Come mai l’ape costruisce cellette perfettamente esagonali e di identi-che dimensioni? Qui giungeva puntuale la risposta rinunciataria: “laProvvidenza ha disposto così”.

La seconda giustificazione riguarda – allora come ora – la spinta,talvolta molto energica, a utilizzare i principi delle scienze esatte in tut-ti i campi della scienza. Il creazionismo soddisfaceva a due principi al-lora in auge: la divisibilità all’infinito della materia propugnata da Car-tesio e il calcolo infinitesimale propugnato da Leibniz e Newton.

Alcuni fatti che si trovano discussi in scritti medici e naturalisticiche vanno dalla fine del Seicento a quasi metà del Settecento sonoistruttivi in proposito e anche divertenti.

Per opposti motivi i gesuiti erano duramente contrari al creazioni-smo in actu, che metteva da parte la Provvidenza sempre vigile e solle-cita per ogni creatura grande e piccina. Ne dà prova, tra gli altri, padreFilippo Buonanni S.J. (-), laborioso naturalista che insegnava alCollegio Romano, il quale protesta contro quegli eretici che pretendo-no «quasi che delle sue creature faccia Egli [cioè Dio] come la serpe,che sgravata dal parto più non ci pensa», infatti «s’egli le produce, an-che assiste loro e con regola di somma Provvidenza le governa».

D’altronde i gesuiti non potevano essere d’accordo sul creazioni-smo e la fissità della specie, non solo per quanto aveva scritto Athana-sius Kircher nell’Arca Noë, ma per la convinzione che la generazionespontanea di animali di ogni genere fosse una realtà indiscutibile.

È quindi una grande sorpresa trovare che negli anni Quaranta delSettecento il preformismo viene accolto e propugnato da due eccle-siastici molto in vista. Uno era il canonico Benedetto Stay (-),gesuita dalmata, che ha scritto un lungo poema in esametri latini in-titolato semplicemente Philosophia (Roma ). L’altro era niente-meno che il cardinale Melchior de Polignac (-), membro di

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una famiglia aristocratica molto in vista in Francia, amico di Male-branche e grande diplomatico. A lui la città di Roma è debitrice del-la splendida scalinata che da piazza di Spagna conduce alla chiesa diTrinità dei Monti.

Il poema di Polignac, intitolato Antilucretius, cioè “contro Lucre-zio” e anch’esso in esametri latini, era stato concepito prima di quellodi Stay (che l’aveva sentito recitare e l’aveva preso a modello), ma eraapparso solo nel poiché tanto il cardinale quanto il curatore desi-gnato per la pubblicazione dell’opera erano morti nel frattempo. Il ti-tolo è molto significativo poiché rende chiaro che l’ipotesi ultracrea-zionista posta al centro del poema sta lì come contraltare all’evoluzio-nismo enunciato da Lucrezio nel grande poema d’ispirazione epicureaintitolato De rerum natura.

Il totale degli esametri latini scritti dal cardinale de Polignac e dalcanonico Stay ammonta a quasi venticinquemila. Gli autori conosce-vano bene il latino e la metrica, ma venticinquemila versi sono tanti enessuno dei due era disoccupato, soprattutto il cardinale de Polignac.Viene quindi da domandarsi: per quale motivo tanta erudita fatica?

Le date di pubblicazione di varie opere rappresentano in questocaso una guida utile. La data della Philosophia è il , dell’Antilucre-tius il (siamo arrivati agli inizi dell’Illuminismo); il romanzo filo-sofico di De Maillet, nel quale si leggono le prime idee trasformiste,circolava manoscritto fin dal ; la Vénus physique di Maupertuis èdel ; Giambattista Vico aveva affermato, già nel , che alla suaorigine l’uomo non aveva vissuto nell’età dell’oro ma che aveva vissu-to al modo delle fiere. Insomma, fin dai suoi primi passi l’Illuminismosi pone le grandi domande esistenziali: chi siamo? Da dove veniamo?Dove andiamo? E cerca le risposte a queste domande nelle scienze na-turali. Intanto arrivano dall’Asia e dall’Africa le prime scimmie antro-pomorfe e sono in molti a chiedersi quale sia il loro posto nella natu-ra, e a proporre la loro parentela con la nostra specie.

Il creazionismo e il meccanicismo cartesiano elaborati da Male-branche sembrano fornire risposte alternative e meno blasfeme. Inol-tre, verso la metà del Settecento, Linneo li applica alla zoologia e allabotanica, sostenendo la fissità delle specie, ma in forma meno rigida diquanto di solito si suppone.

Sennonché le tesi dei preformisti non si accordano con quanto glistudiosi di embriologia stavano appurando. In particolare, CasparWolff (-) con la sua grande opera sull’embriologia epigenetica

. E V O L U Z I O N I S M O E C R E A Z I O N I S M O

(Theoria generationis, ) manda in crisi le tesi dell’inscatolamentodei germi e altre critiche fanno tramontare del tutto il preformismo,che scompare di scena alla fine del Settecento. Quanto alla tesi che laperfezione delle creature testimoni la somma abilità del Creatore, es-sa dura più a lungo e farà parte del curricolo di studi teologici cheCharles Darwin seguirà all’università di Cambridge negli anni -.Essa però non soddisfa quelli che continuano a chiedere e a chiedersi:chi siamo? Da dove veniamo?

Non tutti i tentativi di risposta suonano blasfemi come quelli diJulien Offroy de La Mettrie (-), di Denis Diderot (-)e di De Lisle de Sales (-) (i due ultimi finiranno in carcere perl’audacia delle loro idee). Altri autori, come Carlo Linneo (Carl vonLinné, -), cercano di conciliare il loro credo con fatti chenon possono ignorare. Linneo, ad esempio, che ben conosceva lescimmie antropomorfe, nell’XI edizione del suo Systema Naturae() pone l’orang-utan nel genere Homo, assegnandogli il nome diHomo nocturnus.

Diderot racconta maliziosamente che il cardinale de Polignac difronte alla gabbia dell’orango, dopo averlo considerato con attenzio-ne, avrebbe esclamato: “Parla che ti battezzo”. Lord Monboddo, scoz-zese, discute a sua volta in tutta serietà se questo scimmione possa es-sere un uomo selvatico che non ha ancora imparato a parlare.

Monsignor Nicholas Patrick Wiseman (-), divenuto poi ar-civescovo cattolico di Westminster e cardinale, nonché autore di unodei migliori trattati di antropologia pubblicati nel primo Ottocento, ri-torna alle posizioni di Kircher e così si esprime nel suo Discorso sui rap-porti tra scienza e religione rivelata del :

La potenza divina amava forse manifestarsi per sviluppi graduali, sollevandosi– per così dire – a passo a passo dall’inanimato all’organizzato, da ciò che èprivo di sensibilità a ciò che agisce per istinto, dall’irrazionale all’umano. Cherepugnanza c’è nel ritenere che dopo la prima creazione del primo grossola-no abbozzo di questo mondo fino al momento in cui esso fu rivestito di tuttii suoi ornamenti e proporzionato ai bisogni e alle abitudini dell’uomo, laProvvidenza abbia voluto procedere con altrettanta gradualità, in modo chela vita avanzasse a poco a poco verso la perfezione, vuoi nelle sue facoltà in-terne, vuoi nelle sue strutture esterne?

Il contenuto di questo brano, e in particolare il riferimento al pro-gresso, diciamo così, neuropsicologico degli animali e dell’uomo, fan-

P I E T R O O M O D E O

no pensare a un influsso di Lamarck o di Cabanis sul pensiero di Wi-seman. Comunque, simile apertura non è durata a lungo, poiché i ge-suiti nella seconda metà dell’Ottocento si sono schierati con veemen-za contro le idee trasformiste ed evoluzionistiche introdotte dal loroantico confratello. Anche lo stesso Wiseman recederà dalle sue posi-zioni conciliatrici.

Con questo io concludo, e chiedo scusa di essere stato un po’ mo-notono e puntiglioso. Ma così dovevo fare per sbloccare una diatribanata su un presupposto erroneo e per aprire, spero, una dialettica piùproficua.

. E V O L U Z I O N I S M O E C R E A Z I O N I S M O

David e il Neandertal. Gli stereotipi colti sulla preistoria

di Antonio Brusa

.Il successo didattico della preistoria

Il punto di partenza di ogni ragionamento sulla didattica della prei-storia – quasi obbligato, sia per il prestigio dell’autore, sia per la noneccessiva abbondanza della letteratura specifica – è costituito da un ar-ticolo di Peter Stone (), nel quale lo studioso metteva sintetica-mente a punto le ragioni per le quali è importante studiare a scuolaquesta parte della storia dell’umanità.

La preistoria, scriveva Stone, è un campo di straordinarie appli-cazioni didattiche. Si presta alla costruzione di laboratori, affascinan-te ricaduta scolastica e divulgativa dell’archeologia sperimentale. Per-mette di partire da documenti e scavi locali, per ricavarne conclusio-ni facilmente generalizzabili a tutto il genere umano. Sollecita la ca-pacità, anche dei giovani studenti, di lanciarsi in ipotesi ardite ma al

. Questo lavoro si basa su un’indagine rivolta a un corpus di manuali di storia, pub-blicati negli ultimi venti anni: circa manuali europei (di paesi diversi) e una trentinadi manuali africani, asiatici e americani (la differenza di numero deriva dal fatto che la ri-cerca è stata condotta presso il Georg Eckert Institut, e riflette la composizione della suapur ricca biblioteca). Per creare una “profondità temporale”, con l’aiuto di Mario Ianno-ne, di Historia Ludens, sono stati analizzati oltre manuali italiani, dalla fine dell’Otto-cento a oggi; il fondo utilizzato è quello di Didattica della Storia, presso il Dipartimento diScienze Storiche e Sociali dell’Università di Bari. Una ricognizione, seguita da un primo“catalogo degli stereotipi”, in Gadaleta (, pp. -). Alberto Salza (, pp. ss.) scri-ve di preistoria tenendo presente in controluce il complesso dei miti e degli stereotipi, deiquali si parla in questo lavoro, che, quindi, gli è largamente debitore. Ho trovato nella let-teratura un solo saggio sulla preistoria nei manuali (Rúiz Zapatero, Álvarez-Sanchís, ),che mostra l’evoluzione della trattazione didattica in Spagna. Lo splendido e informatocontributo di Stockzowski () dà conto dei manuali francesi e russi e fornisce un’anali-si degli stereotipi prevalentemente antropologica.

tempo stesso verosimili. È un terreno dove si incrociano naturalmen-te molte discipline: e per questo motivo risulta di grande interesse pergli insegnanti, perennemente affamati di strumenti interdisciplinari.Per ultimo, la preistoria rappresenta la porzione infinitamente mag-giore di storia dell’umanità. Per questo complesso di vantaggi, Stonesi felicitava per l’ingresso di questa disciplina nel national curriculuminglese, e, implicitamente sollecitava, dalle pagine di “Teaching Hi-story”, anche i lettori di altri paesi a considerare attentamente i bene-fici didattici.

In realtà, anche un rapido sguardo all’immensa produzione ma-nualistica, che ha caratterizzato la vita delle scuole nel mondo occi-dentale, permette di cogliere la prodigiosa espansione della preisto-ria, negli ultimi decenni del secolo scorso. Nella prima parte del No-vecento, infatti, a questo periodo venivano solitamente dedicate po-che righe e frettolose, giusto per introdurre i discorsi più importan-ti, quelli sulla storia a partire da Sumer e soprattutto dalla Grecia.Nella seconda, invece, aumenta non solo la quantità di pagine, masoprattutto la loro qualità: sia nella ricchezza delle informazioni,spesso aggiornate all’ultima scoperta, sia nella bellezza degli appara-ti iconografici (carte, disegni, foto, ricostruzioni). Il fatto strano è chetale crescita non è stata favorita da una pubblicistica di sostegno, sto-rica o pedagogica. Al contrario, sembra quasi che la preistoria si siaautopromossa nelle scuole. Sicuramente hanno giocato un loro ruo-lo, in questo successo, il suo fascino, forse anche il pregiudizio che sitratti di un periodo più facile da studiare, e quindi particolarmenteindicato nelle fasi iniziali del curricolo. Certamente ha avuto un pe-so la forte pressione dei media e della divulgazione in generale, cam-pi nei quali la preistoria ha conosciuto uno sviluppo enorme. Ma,poiché a questo incremento – come si è appena detto – non ha cor-risposto un parallelo interesse degli studiosi alla trattazione didatti-

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. Fra i pochi, in Italia, a sostenere con ostinazione la necessità del suo insegnamentoè Biancofiore (, ). Nel corso degli anni Settanta-Ottanta, poi, lo studio della prei-storia è oggetto sostenuto da alcune associazioni di insegnanti, come il CIDI e l’MCE, ancheper un nascente interesse didattico per l’antropologia e le scienze umane (AA.VV., ; Ma-rini, Borgognini, ). Come studio curricolare a pieno titolo cfr. Calvani (). Un con-vegno sul tema è Olivari ().

. Almansa Sánchez () mostra l’assoluta predominanza dei media nella diffu-sione delle conoscenze archeologiche e preistoriche: di queste, oltre il % verrebbe dal-la televisione.

ca e ai problemi della divulgazione, si è creata una situazione ambi-gua, caratterizzata dall’esplosione di conoscenze da una parte e dal-la carenza di studi dall’altra. Credo che proprio queste siano le con-dizioni ideali per la crescita rigogliosa di stereotipi di ogni tipo. Eforse presentendo ciò, la prima delle ragioni elencate da Stone, perpromuovere lo studio scolastico della preistoria, fu la necessità di lot-tare contro gli stereotipi. Ma, a quel tempo, allo studioso sembrò suf-ficiente segnalare la questione con un’allusione a Raquel Welch, l’av-venente interprete di un celebre film degli anni Sessanta, Un milio-ne di anni fa, nel quale gli uomini se la dovevano vedere con i dino-sauri, per mettere sotto accusa l’anacronismo, il peccato mortaledello storico (lo sappiamo dai tempi di Lucien Febvre), e sottinten-dere il suo rimedio naturale: rimettere in ordine cronologico, al lorogiusto posto, le conoscenze.

.Il dinosauro è uno stereotipo colto

Oggi, a distanza di tempo – come conferma, peraltro, la straordinariaproduzione di Stone (Stone, Mackenzie, ; Stone, Molyneaux, ;Stone, Planel, ; Malone, Stone, Baxter, ) – dobbiamo ricono-scere che l’espansione sociale delle conoscenze sulla preistoria è stataaccompagnata da un analogo, impetuoso incremento di stereotipi. Ilnumero, la qualità e la pervasività di questi stereotipi ci consigliano diriconsiderarne natura e funzioni. Appare limitato valutarli come sem-plici “idee sbagliate”, testimoni, magari un po’ ridicoli, dell’ignoran-za, del cattivo funzionamento della scuola o del malefico influsso del-la televisione. Essi sembrano il frutto di problemi, molto profondi, cheriguardano i rapporti fra il sistema di produzione scientifico e la dif-fusione delle conoscenze. Propongono non più, soltanto, problemi diinsegnamento, ma seri interrogativi sul modo stesso di produrre scien-za, e ci costringono a tornare sulle domande, che la storica Régine Per-noud (, p. ) si poneva sul finire del secolo scorso: «Perché que-sto scarto fra scienza e sapere comune? Come e in quali circostanzequesto fossato si è scavato?». Interrogativi resi più pressanti proprio

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. Don Chaffey, One Million Years BC, rifacimento inglese (Hammer Film, ) di unpasticcio hollywoodiano degli anni Quaranta, dall’identico titolo: un film largamente asto-rico, accusa Wikipedia, proprio perché mette insieme uomini e dinosauri.

dalla contraddittorietà di una situazione, che vede mescolati stretta-mente motivi di soddisfazione e di delusione.

Per quanto la Pernoud si riferisse al suo Medioevo, il parallelo conla preistoria è ben motivato dalla considerazione che questi due pe-riodi sembrano accomunati dall’identico destino, di essere le epochestoriche maggiormente afflitte da questo particolare virus conoscitivo.E che sia una comparazione fruttuosa, lo capiamo dal fatto che essa ciconferma in una prima congettura: questi stereotipi sono spesso di ori-gine accademica. “Stereotipi colti”, vorremmo chiamarli, per distin-guerli dagli “stereotipi quotidiani”, quelli generati, per lo più, dai pro-blemi della nostra vita di tutti i giorni, come gli stereotipi che riguar-dano il genere, la generazione e i rapporti con gli altri (stranieri, di-versi, emarginati, poveri) (Brusa, ). Questa semplice distinzioneha delle conseguenze di qualche interesse. Gli stereotipi quotidiani so-no sicuramente quelli maggiormente studiati; hanno dato origine a unavasta letteratura e a un dibattito molto sentito sulle loro implicazionididattiche (interamente a questa classe di stereotipi è legata la que-stione della “correttezza politica”). Essi ci appaiono come un’indebi-ta intrusione, nel mondo della scienza, di atteggiamenti deprecabili delvivere quotidiano.

Gli stereotipi colti, invece, manifestano un percorso inverso. Tro-vano una loro origine nel mondo scientifico, per quanto, a volte, laloro grande diffusione lascerebbe intendere il contrario (ma si deveammettere che non si incontrano facilmente dinosauri o vassalli perle strade). Essi, perciò, testimoniano la pervasività della conoscenzascientifica, e proprio il loro aumento appare più come un effetto pa-radossale dell’enorme diffusione della scienza, che una sua regres-sione, di fronte alle esigenze deplorevoli della vita di ogni giorno.Inoltre, mentre gli stereotipi quotidiani richiedono, per il loro studioe la loro comprensione, un campo di discipline che va dalle scienzesociali alle psicologie e alle pedagogie, lo studio degli stereotipi col-ti obbliga in prima persona lo storico: qui si tratta esclusivamente diconoscenze storiche e del loro uso. Viene investito, in pieno, quel«triangolo fra resti del passato, archeologo e pubblico», che secon-

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. Arcuri, Cadinu (): una trattazione sintetica ed efficace degli stereotipi che qui sichiamano “quotidiani” e nel testo dei due psicologi sociali “stereotipi” tout court, dal momentoche non viene presa in considerazione l’esistenza di “stereotipi colti”. Furnhan (, pp. ss.): stereotipi di genere, di generazione e interculturali nell’apprendimento della storia.

do Philippe Jockey (, p. ) identifica l’essenza dell’archeolo-gia e, potremmo dire, della stessa storia.

Non tutti gli stereotipi “colti” sembrano della stessa natura. Ve nesono alcuni che svolgono un curioso ruolo di “vaccino”, e che vale lapena di segnalare, perché la loro funzione sembra quella di impedireai loro portatori di preoccuparsi eccessivamente di aggiornare le pro-prie conoscenze. Ad esempio, nel campo degli studi sul Medioevo, cene sono due, diffusissimi: “il Medioevo è un periodo buio”; “il Me-dioevo è la storia dei papi e degli imperatori”. La maggior parte deidocenti (e anche dei manuali) li conosce e li cita come stereotipi, daevitare e da sostituire con conoscenze precise. Rassicurati dallo scam-pato pericolo, perciò, molti si ritengono vaccinati da tutti gli altri ste-reotipi. Invece, si sono vaccinati contro l’aggiornamento. Hanno ab-bassato, per così dire, le loro difese, con conseguenze disastrose, co-me dimostra lo sterminato elenco degli stereotipi, ricavabili dai ma-nuali europei.

Per l’appunto, “il dinosauro che attacca gli uomini” sembra lo“stereotipo vaccino” fondamentale della preistoria. È raro trovareun insegnante che non lo citi come conseguenza nefasta dei media(ovviamente della televisione, dei vari Jurassik Park e dei cartonianimati) e come dimostrazione della sua personale preoccupazionein un buon insegnamento. Ma il fatto è che, una volta messi al loroposto uomini e dinosauri, sembra che le dighe contro le conoscen-ze stereotipate collassino, e si venga sommersi da una quantità cosìingente di conoscenze sbagliate sulla preistoria, che siamo costrettia un’opera di classificazione e di ordine: per evitare, infine, che tut-to si esaurisca nella compilazione dell’ennesimo “sciocchezzaio”,corredato dalle lamentazioni sulla scuola (queste sì di una ritualità

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. Nel dialogo fittizio fra Jean Clottes e i nipoti, quella sui dinosauri è la prima do-manda alla quale lo studioso deve rispondere (Clottes, , p. ); Gould (, p. ) at-tribuisce la “mania dei dinosauri” agli abusi del marketing, e osserva che il % degli adul-ti americani, al principio degli anni Novanta, era convinto della contemporaneità fra uo-mini e dinosauri. Per parte mia, rilevo che la copertina di un celeberrimo testo divulgativoscientifico presentava fin dagli anni Venti un dinosauro che, «appoggiando le zampe soprauna delle nostre case più alte, avrebbe potuto mangiare al balcone del quinto piano» (Flam-marion, , p. ). A quasi un secolo di distanza, l’Enciclopedia dei ragazzi, distribuita inoltre . copie e presentata da Remo Bodei (in “Corriere della Sera”, agosto ,p. ) come uno strumento per sconfiggere «il sapere da fast food», intitola il primo volu-me dedicato alla storia La preistoria e i dinosauri (Rizzoli-Corriere della Sera, Milano ).

stereotipata) e da un sarcasmo che pare inevitabile, ma il cui unicorisultato è quello di esorcizzare il terrore dell’impotenza, di fronte aprocessi di socializzazione della cultura, considerati definitivamen-te indomabili.

L’osservazione che non tutti gli stereotipi sono uguali, invece, ciaiuta a pensare una strategia scientifico-didattica, che non disperda leenergie nella vana rincorsa alla produzione inesauribile di cliché, e cipermetta di concentrarle in alcuni punti nodali. A questo scopo, sem-bra utile isolare – oltre ai “vaccini”, di cui sopra – alcuni stereotipi chedefinirei “strutturali”, perché non si riferiscono a un oggetto in parti-colare, ma «intervengono come schemi di comprensione a disposizio-ne per apprendere il mondo, schemi per leggere gli eventi, per rico-struirli e renderli intelligibili» (Grandière, , p. ). Questi costrut-ti conoscitivi appaiono diversi dagli “stereotipi fattuali”, che riguar-dano questo o quell’aspetto del passato, e appaiono originati da un di-fetto di conoscenze o da conoscenze non aggiornate (spesso anche po-co accurate o imprecise).

.Gli ominidi si evolvono in fila indiana

Lo stereotipo “strutturale”, da cui conviene iniziare la nostra inda-gine, è sicuramente il più noto e diffuso: la linea evolutiva umana.Una sequenza di uomini in fila indiana, che, partendo dai più anti-chi, dai caratteri scimmieschi, giunge ai tipi moderni, simili a noi.Nella confezione di questo stereotipo convergono molti fattori: ilsessocentrismo, perché si tratta, nella maggioranza dei casi, di indi-vidui maschi; lo stereotipo generazionale (sono spesso giovani e ai-tanti, per lo più armati di bastoni e, man mano che si evolvono, di

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. È bene sottolineare che questo lavoro è limitato alla ricerca e alla valutazione del fe-nomeno degli stereotipi e non si pone il compito di un bilancio complessivo dell’insegna-mento della preistoria, né dà una valutazione della manualistica esaminata: della quale vadetto, anzi, che spesso è di grande qualità. Peraltro, chi scrive è anche autore di manuali e,come tanti, vittima di disegnatori molto fantasiosi (cfr. Brusa, , dove si possono ammi-rare le pecore al tempo di Erectus, o i bambini neolitici che giocano con spade di legno).Sulla metodologia e i problemi di indagine sui manuali cfr. Bourdillon (); sugli appa-rati paratestuali e sul loro rapporto con il testo cfr. Brusa () e Jud, Kaenel (), unaraccolta magnifica di immagini, scolastiche e divulgative, della preistoria, in ambiente sviz-zero e tedesco.

lance); un eurocentrismo implicito, dal momento che marciano da si-nistra verso destra, sulla falsariga della scrittura occidentale, e dun-que del progresso verso il futuro (secondo una visione euro-moder-no-centrica della storia). Alcune di queste caratteristiche rendonoquesto stereotipo simile a quelli analizzati dalla pedagogia e dallescienze sociali (la predominanza del maschio giovane, la violenzaecc.), ma altre riflessioni ci fanno certi che quest’immagine tradizio-nale non veicola soltanto dei pregiudizi del quotidiano, quanto piut-tosto una visione complessa del passato.

Su questa icona, infatti, si può fondare il racconto dello sviluppoprogressivo che dai primi ominidi conduce all’uomo moderno. A suavolta, il racconto ci insegna un modello di sviluppo lineare e per tap-pe; un senso della storia, che procede da un passato di brutalità versoun mondo civile.

L’evoluzione cladistica è, da qualche decennio, il paradigma dellaricostruzione del passato più remoto della storia umana (per quantocon le note differenziazioni e i dibattiti più accesi). Per giunta, gli stu-diosi non fanno più riferimento, se non per combatterlo, al modello li-neare. Nonostante ciò, la popolarità dell’icona lineare appare inconte-stabile. Fra i motivi di questo successo, vi è sicuramente il fatto che es-sa è di immediata comprensione, facilmente riproducibile e soprattut-to (come abbiamo appena visto) è un modello ricco di significati, perquanto deprecabili. Il modello cladistico non è – al contrario – dotatodi un’icona dalle qualità comparabili. Forse questi sono i motivi per iquali oggi troviamo la rappresentazione lineare ovunque, in moltissi-mi manuali (per quanto essi possano presentare un testo aggiornato)

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. Se si tiene conto, poi, di alcune varianti di questa icona (la serie dei crani, dei cervellio degli scheletri), tutti posti in serie crescente, si riconosce che la diffusione della sequenza li-neare ha i caratteri della pervasività. Alcune descrizioni verbali della sequenza in Striano,Striano (, p. ); Caramanica, Bartolomeo (, p. ); Colombo, Florio (, p. ). L’i-cona è abituale anche nella letteratura divulgativa e nella stampa: dalla scimmia al computer(in “Il Giornale”, maggio , p. ); o la versione ironica di Bucchi (in “la Repubblica”, novembre ). Dalla medusa all’uomo, invece, la copertina suggestiva di “Science etVie”, , , pp. ss. (numero speciale: L’évolution a-t-elle un sens?); una rappresenta-zione essenziale e severa in AA.VV. (, p. ); I. Backouche, Les hommes de la préhistoire, Li-to, Paris, s.d. (gioco didattico). Discute le illustrazioni “classiche” dell’evoluzione, come vi-ziate dall’idea del progresso e della complessità crescente, Gould (, pp. -).

. Di questa progressione, da sinistra a destra, se ne fa una sorta di razionalizzazionepaleografica, nella quale la linea evolutiva è paragonata al “rotolo” classico, per cui «pro-seguendo a srotolare verso destra comparirebbero nuove forme di vita più complesse» (Ar-

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boit, , p. ). Si deve notare, peraltro, che l’incipiente diffusione dell’icona multilinea-re sembra anch’essa legata all’idea di marcia verso il progresso, per quanto diviso in corsie,come in uno stadio di atletica, o in un’autostrada, in cui tutti rispettano il codice: un bel-l’esempio è l’immagine riportata in Dohui (, pp. -). Identico risultato in “Science etVie”, , , pp. ss. (numero speciale: Qui a inventé l’homme?). Fra le proposte “al-ternative”, segnalo Giardina (, p. ), nel quale gli umani sono rappresentati in marciasincronica, e trionfalmente virile, verso il lettore; ugualmente spavaldi gli umani raffigura-ti in una sorta di «foto di famiglia impossibile» (riportata a norma poco dopo da una se-quenza lineare) in Cantarella et al. (, pp. e ).

. Batias-Rascalou, Casali (): la sequenza è scimmia-ominide (Lucy?)-ragazza vesti-ta e con un cesto di fiori (ma il testo è comunque un bell’esempio di letteratura divulgativa perl’infanzia). Dalla stampa domenicale svizzera, invece, l’immagine di una sequenza di ominidi,conchiusa da donne che progrediscono nude, sempre più moderne e slanciate (Roeder, ,p. ). Tutto l’imbarazzo dell’illustratore, invece, nella copertina di Facchini (): c’è la se-quenza maschile, ma non tutti portano le armi (Neandertal porta dei fiori: omaggio a un rin-venimento peraltro contestato), sono “disassati”, ma salgono tutti una scala evolutiva.

e, non ci deve sorprendere, anche come logo di convegni scientifici,nei quali, naturalmente, ci si è lamentati abbondantemente della dif-fusione di idee preconcette sulla preistoria.

Dal punto di vista didattico, poi, sembra che l’attenzione degliinsegnanti (e degli studiosi di didattica) si sia specialmente concen-trata sulla difficoltà, da parte dei giovani studenti, di immaginarecorrettamente tempi così lunghi, di milioni di anni; così come si èintervenuti sul sessocentrismo evidente dell’icona, sostituendo i ma-schi con le femmine (cfr. FIG. .). Si sono inventate, perciò, solu-zioni sempre più affascinanti, divertenti, efficaci e politicamente

FIGURA .Evoluzione delle donne (da Batias-Rascalou, Casali, )

corrette: per insegnare meglio, dobbiamo concludere con qualcheapprensione, un rapporto sbagliato fra passato remoto dell’umanitàe presente.

.Le ben radicate origini degli stereotipi

È un’icona relativamente giovane, quella della sequenza evolutivaumana, perché è a partire dagli anni Ottanta che la troviamo come do-minatrice incontrastata delle prime pagine dei manuali. Pur tuttavia,è riuscita a catalizzare intorno a sé una trama fitta di riferimenti (co-stituiti in larga misura da stereotipi fattuali, sedimentatisi lentamentenel corso del tempo), che la rendono, paradossalmente, assai appeti-bile dal punto di vista didattico. Essa appare all’insegnante un’imma-gine ricca e utile, dal momento che “trascina con sé” molte altre co-noscenze. Al tempo stesso, il suo “sradicamento” diventa assai pro-blematico, proprio perché – insieme con l’immagine lineare – occor-rerebbe bonificare il terreno dalla grande quantità di immagini fat-tuali della preistoria. Questo grumo di conoscenze costituisce lo sce-nario, che anima e rende vivo il racconto dell’evoluzione. Lo riassu-mono Brigitte e Gilles Delluc (, p. ), due allievi di Leroi-Gourhan, con appassionata ironia:

L’uomo dei tempi preistorici, un disgraziato coperto di stracci, sembra unbarbone della notte dei tempi. È un bruto, una mezza scimmia, bellicoso,carnivoro e, senza alcun dubbio, cannibale. È una vittima sfortunata deigrandi animali, dal diplodoco fino all’orso delle caverne. Un sopravvissuto,una specie di manichino patchwork, assemblato da persone piene di imma-ginazione in un vecchio museo di etnografia. Questo infelice riesce a mala-pena a scampare, indossando eskimi fra i ghiacci, rifugiandosi nelle caver-ne e praticando la caccia. Per di più, si fa volentieri con funghi, più o menoallucinogeni, e con bevande sospette. La sua compagna è ugualmente benassortita. Vestita di pelli sbrindellate, sommersa da una torma di bambini,è un’obesa, sempre incinta, quando non svolge la funzione di misteriosa epaffuta dea della fecondità.

In questo racconto si riconoscono, uno per uno, i temi fondamen-tali, in cui è possibile organizzare gli stereotipi fattuali più diffusinella manualistica (con l’esclusione dell’uso di allucinogeni, s’in-tende). C’è la vita preistorica, difficile e dura, con gli umani che si

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nutrono di carne cruda nel loro ambiente prediletto, la caverna. Unautentico topos di successo, che ritroviamo in ogni tempo, e ovun-que, e che funge, nel piano narrativo della storia, come un incipitcontrastivo di grande efficacia: è la diversità completa, a partire dal-la quale il lettore è in grado di percepire la lunghezza immensa delpercorso compiuto dal genere umano. I preistorici, per di più, nonhanno nulla per difendersi: né unghie, né denti, né forza muscolare.Solo l’intelligenza. È ben vero che questa è un dono di Dio, comespiegava agli studenti italiani degli anni Cinquanta Raffaello Mor-ghen (, p. ), illustre medievista: «Anche gli scarsi resti della vi-ta dell’uomo primitivo ci attestano, nella specie umana di quelle lon-tane età, la presenza della divina scintilla dell’intelligenza, con laquale Dio ha voluto distinguere l’uomo da tutti gli animali che po-polano la terra». Ma, a dispetto di quest’origine santa, l’intelligen-za si affaccia nel racconto storico come un’arma, e il suo scopo è

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. Eppure, la conoscenza precisa è a disposizione della divulgazione: cfr. ad esempiola voce “Abri sous roche”, in Batias-Rascalou, Casali (, p. ); oppure Bordes et al.(, p. ). Ecco, invece, gli esempi manualistici della diffusione dello stereotipo: Gras-smann (, p. ); Hug (, p. ); Walzik (, p. ); Erkki Leimu et al. (, p. ); Ai-mand (, p. ). La vita nelle caverne è un progresso, rispetto alla precedente situazionedi bestialità errabonda, in Hubac, Chaubauges (, p. ). E “bestiali” sono i preistoriciper il più diffuso testo francese: Isaac (, pp. ss.; cfr. anche l’edizione del , pp. -); e cfr. Roberts (, p. ). Caverne anche in Africa: AA.VV. (a, pp. -); AA.VV. (,p. ). Per l’America cfr. Drago (, p. ), dove i trogloditi rappresentano un progresso,rispetto alla precedente vita randagia; al contrario sono evidentemente un inizio della sto-ria per Equino, Equino (), cui fa riscontro l’italiano Dettore et al. (). Le cavernecompaiono subito nella manualistica italiana: Bragagnolo (, p. ); Ranalli (, p. ).Negli anni Sessanta si prendevano in considerazione, in aggiunta alle caverne, delle «tanescavate nel terreno molle» (Rinaldi, , p. ), mentre il più recente Neri (, p. ), as-sicura che le «caverne in alto non erano facilmente raggiungibili dalle belve».

. Il contrasto fra creazionismo ed evoluzionismo merita una trattazione a parte: nonposso però non segnalare il caso di un manuale americano (Hayes Jacobs, , pp. ss.),che da una parte presenta una splendida trattazione della preistoria, e tuttavia, quando scri-ve delle impronte di Laetoli, usa la tipica espressione dei creazionisti: «dimostrano che mi-lioni e mila anni fa l’uomo c’era già». Per quanto riguarda l’Italia, mi sembra che la tra-dizione manualistica metta in evidenza due atteggiamenti: da una parte, la prudenza e la vo-glia di non invischiarsi in discussioni pericolose (Rinaudo, , p. : «Non spetta alla storiarispondere a sì gravi quesiti»; Comani Mariani, , p. : «Le scienze naturali, non la storiasi devono pronunciare su questo problema difficilissimo; perciò noi usciremmo dal nostrocampo, se dicessimo di più»; si pensa, perciò, che occorra «prescindere dalle molte e graviquestioni riguardanti la primitiva comparsa dell’uomo»: Bragagnolo, , p. ); dall’altra, ilpiglio deciso di molti creazionisti (Sanesi, , dove si afferma perentoriamente che la Bib-bia comprova l’archeologia; pensiero condiviso da Aromolo, s.d., p. ; mentre per l’evolu-zionismo si parla sbrigativamente di «gravi lacune»: Rebecchini-Vanni, Tortora, , p. ).

quello di fabbricare i primi utensili, fatti per uccidere i nemici del-l’uomo: «Con la bifacciale siamo ancora lontani dall’arma piùprofondamente umana che l’uomo abbia immaginato e, tuttavia, laselce di Saint-Acheul ce ne mostra già l’embrione saldo e completo.Perché anch’essa, se ben impugnata, può colpire di taglio e di pun-ta» (Aimand, , p. ; l’autore, che nelle pagine iniziali fa rigoro-sa professione di creazionismo, riprende il brano da un famoso te-sto divulgativo: Jullian, , p. ). E sul fatto che il progresso del-l’arte di uccidere sia un buon segno dell’evoluzione, sono d’accor-do un po’ tutti, creazionisti e laici. Molti modi, ancora, servono al-lo scopo di far apprezzare la differenza fra passato e presente. Quel-lo più solito riguarda il progresso degli strumenti. Al principio c’e-ra la rozzezza. La ritroviamo ovunque, come connotazione fonda-mentale della diversità tecnologica: «egli dunque si costruì armi,punteruoli e grossi aghi con la pietra» (Magni, ); «sa rozzamen-te cucire» (Momigliano, , p. ); «con quelle rozze armi gli uo-mini cacciavano le fiere, combattevano e tagliavano il legno» (Ciar-lantini, , p. ); «arnesi assai rozzi» (Spini, Olobardi, , p. );«rudimentali» (Zavoli, , p. ) e ancora «rozzi aghi» (Stumpo,Tonelli, , p. ). Ma c’è anche un progresso estetico, come ilbellissimo Davide, messo a confronto con il brutto Neandertal, a be-neficio dei bambini ungheresi (Istvàn, , p. ) (FIG. .), o l’al-trettanto stupefacente accostamento fra Marilyn Monroe e la vene-re neolitica, invenzione didattica finlandese (Leinen et al., , p. )(FIG. .) o ancora una sequenza inequivocabile di bellezze femmi-

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. «A differenza degli animali, essendo dotato di ragione, riuscì a foggiare i primi stru-menti, dei quali si servì per combattere i suoi stessi simili, per dare la caccia agli animali fe-roci» (Melchiori, , p. ); l’arma è il «primo atto di intelligenza» per Avveduto (, p. );ma la sua invenzione può dipendere anche dal fatto che gli uomini vedono le cose in modo«meno fantasioso e più pratico» (Dettore et al., , p. ). L’uso delle armi è collegato allastazione eretta, invece, da Rosa Leone (, p. ): «diventando bipedi poterono usare le ma-ni armandole di pietre e bastoni». Mentre di una qualche nobile ascendenza classica e paga-na, l’Ercole Farnese, potrebbe essere l’archetipo di un’altra rappresentazione di successo,quella dell’uomo preistorico armato di clava, come in Vigasin, Samoszvanceva (, p. ).

. Da evidenziare, in questo contesto, la presa di distanza di Giardina (, p. :«Semplice, non rozzo») e la sottolineatura di AA.VV. (, p. : «la lavorazione della pie-tra è una grande conquista perché richiede abilità e inventiva»). Alcuni riferimenti inter-nazionali: «Per . anni tagliarono grossolanamente le pietre, dando loro la forma del-la mandorla» (Dumont, , pp. -); in Heumann (, pp. e ) il progresso vienesimboleggiato da un percorso che va dall’ascia di pietra alla motosega.

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FIGURA .David e il Neandertal per i bambini ungheresi (da Istvàn, )

nili, dal Neolitico al mondo classico, in un manuale slovacco (Ko-vac, , p. ). La storia della rappresentazione del Neandertal èsintomatica, in questo contesto. Infatti, al principio, gli autori ave-vano a disposizione almeno un modello nobile e austero, il celebrePensatore di Auguste Rodin: preferirono, quasi invariabilmente, ri-farsi alle immagini di un illustratore ceco, Frantisek Kupka, piùconformi all’idea di antenato scimmiesco e inintelligente.

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. Heinke (, pp. ss.). Hurel (, p. ) mostra una bella sequenza di rico-struzioni di Neandertal, a partire appunto dal primo modello, creato nel , sulla scortadi Auguste Rodin. “Il bovino Neandertal” è l’ironica didascalia alla celebre ricostruzionedel Museo di Storia Naturale di Chicago (Spodek, , p. ). Non mancano, ovviamen-te, Neandertal simpatici, come Java, l’aiutante neandertaliano di Martin Mystère, nel cele-

FIGURA .Eterno femminino per i finlandesi (da Leinen et al., )

In questo racconto, spesso le donne sono specializzate nella rac-colta di vegetali e svolgono ruoli domestici (cura dei bambini, vestiti,cottura). Ma, turbati da questa comprimarietà, vi sono degli autori cheassegnano loro dei compiti decisivi, come l’invenzione dell’agricoltu-ra e poi, ancora, in una foga di correttezza politica, ante litteram e al-quanto casereccia: «La terra sulla quale fu posto il fuoco si cosse, di-venne dura come la pietra. E una mamma, più intelligente, mentre ve-gliava il fuoco, avrà notato quell’indurirsi, e avrà fabbricato il primovaso di terracotta per conservarvi l’acqua e non raccoglierla più solosul palmo della mano» (Paribeni, , p. ). Gli fa eco, a oltre ses-sant’anni di distanza, un testo moderno: «Esse inventarono un sistemaper trasformare i chicchi in pane e trasferirono lo stesso sistema all’ar-gilla: la raccolsero nei terreni umidi, la impastarono con acqua, le die-dero la forma e la fecero cuocere in grandi forni all’aperto. Così in-ventarono la ceramica» (Baffi, Beni, , p. ). Un illustratore olan-dese, infine, combina insieme i diversi temi, della specializzazione edella violenza, in un destino di genere non propriamente felice.

In un manuale tedesco contemporaneo (Askani, Wagener, ,p. ), trovo una raffigurazione straordinariamente significativa: unumano (preistorico ma potrebbe essere un contemporaneo) colto inun atteggiamento di evidente ammirazione per le opere della civiliz-zazione occidentale (FIG. .). L’ascendenza colta di questa immagi-ne è indubbia. Ce la dichiara uno dei più autorevoli storici del seco-lo scorso, Arnaldo Momigliano (, p. ): «I selvaggi infatti non so-no altro che uomini i quali si sono fermati nello sviluppo a uno sta-dio corrispondente a quello che per i popoli civili è ormai preistori-co. Potremmo dire un poco paradossalmente, ma con sostanziale ve-

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bre fumetto di Bonelli. «Una ricostruzione precisa è più un piacere per l’occhio che un aiu-to alla riflessione», chiude un po’ sconsolato Rauscher (, p. ): e su questo punto cfr.anche Jockey ().

. In un caso, ho trovato l’invenzione dell’allevamento attribuita alle donne (Caocci, ,p. ), mentre la scoperta femminile del tessile è abbastanza tradizionale (Alberici, , p. ).

. Le rappresentazioni delle caverne, citate sopra, presentano tutte le attività femmi-nili richiamate nel testo. L’immagine olandese è da Hildingron, Schulp (, pp. ss.). Imanuali di età nazista sono piuttosto accurati nel distinguere le attività domestiche femmi-nili dalla caccia e dalla guerra maschili: Jenrich et al. (, p. ); Nickel (, p. ); Gö-bel (, p. ). Ho trovato pochi riferimenti, invece, a un mitico periodo matriarcale. Fraquesti Brancati (, p. ) e AA.VV. (, p. ). Sugli stereotipi femminili cfr. ÁngelesQuerot ().

rità, che i selvaggi sono dei popoli preistorici viventi ai nostri gior-ni». E, forse proprio sulla scorta di questa convinzione di fondo, i“primitivi”, ampiamente utilizzati nella manualistica corrente, sonorappresentati volentieri mentre brandiscono armi e scudi. E, ovun-que, troviamo la scena che combina emblematicamente ferinità re-mote e attuali: la caccia al pachiderma.

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. Più sfumato, uno storico contemporaneista del dopoguerra (Procacci, , p. )avverte che si tratta di un’ipotesi, quella che «il modo di vita di queste popolazioni possaessere simile a quello degli uomini primitivi». In mezzo, alcune certezze: che gli uomini pri-mitivi fossero inferiori ai barbari o alle classi diseredate moderne (Comani Mariani, , p.); che vivessero in uno stato di inferiorità civile (Vanni, , p. ). Esempi di primitivi:Grassman (, p. ), che cade nell’infortunio dei Tasaday (abbastanza generalizzato);Walzik (, p. ); Péter (, p. ); Erkki Leimu et al. (, pp. s.); Hildingron,Schulp (, pp. -); Berents et al. (, p. ); Barti (, pp. -), che mette a con-fronto primitivi e neandertaliani.

. Péter (, p. ): mammuth; Enikö (, p. ): immagine di Zdenek Burian(), artista ceco, ripresa da molti manuali di diverse nazioni, fra cui Galloy, Hoyt (,p. ); Catteuw (, p. ); Michailovskji (, p. : mammuth); Vigasin, Samoszvance-va (, pp. ss.); Kolpakov et al. (, p. : mammuth); AA.VV. (, p. : rinoceronte).Esempi italiani: Feliciani, Filippini (, p. ); Aromolo (s.d., p. ). Mentre Alberici ()scrive di «animali strani, serpenti, orsi spaventosi ed elefanti», in Biagi et al. (, p. ) eColombo, Florio (, p. ) il nemico è la tigre dai denti a sciabola; mentre il mammuthscompare, come tutti gli animali più grandi, perché sterminato dall’uomo in Di Tondo,Guadagni (, p. ). Da notare che Lars Grant-West, splendido disegnatore di “NationalGeographic” (aprile , pp. ss.), non si è lasciata scappare la lotta fra il piccolo floren-sis, appena scoperto, e l’elefante nano, con la stessa prontezza di “Scientific American”, ,, , pp. - (Becoming human). Impossibile, a questo punto, non ricordare il sospet-to di Alberto Salza (, p. ) nei confronti di quei «professori di preistoria che fannoimpantanare i mammut».

FIGURA .Un primitivo secondo un manuale tedesco (da Askani, Wagener, )

Questa rapida scorsa di stereotipi “fattuali” ci avverte che disegni,ricostruzioni, a volte foto, si rincorrono, da nazione a nazione, supe-rano barriere linguistiche, didattiche e politiche: hanno creato, nel cor-so di oltre un secolo di imprestiti e ricopiature – clonazioni, le chiamaStephen J. Gould –, una sorta di “corpus iconico internazionale”. Si ècostituita, così, una biblioteca di immagini globale, poderosa e com-plessa, che convive intrecciandosi in modi sempre nuovi e diversi conconoscenze precise e aggiornate, della quale occorrerebbe una rico-struzione storica analitica, per mostrare i percorsi, individuare i capo-stipiti e le modalità di trasmissione: lo stesso Gould auspica uno stu-dio che, sul modello della filologia classica, individui gli “stemmi” de-gli errori fondamentali (Gould, , p. ).

In questo mondo violento, anche l’evoluzione avviene per passag-gi traumatici. I deboli, i perdenti vengono eliminati e la storia conse-gna la vittoria al più forte. Non sorprende, perciò, che il concetto“strutturale” di estinzione sia interpretato come una sconfitta: ecco lasequenza infinita di immagini di Neandertal inevitabilmente tristi, for-se presaghi della loro sicura fine (e questo nonostante l’indubbio suc-cesso di specie, che per quanto estinte, hanno popolato la terra percentinaia di migliaia di anni). In questa preistoria immaginata, c’è po-sto per uno solo al mondo. Anche questo è un risvolto, inquietante,

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. Una probabile fonte iconografica, largamente utilizzata dalla manualistica e dalladivulgazione è una pubblicazione di “Time”, edita in Italia come supplemento di “Epoca”(AA.VV., ), della quale riporta una truce sequenza mesolitica, con teste decapitate e fat-te ballare sul tamburo.

. E questo anche se il testo conosce la compresenza degli umani: «fino a poco tem-po fa si credeva che l’evoluzione fosse stata un processo lineare. [...] In realtà ci furono cir-ca specie umane, che lottarono per la sopravvivenza, fino a che una sola restò» (Rosa Leo-ne, , p. ). «Nella sua espansione, Homo sapiens non esita a scontrarsi con gli altrigruppi, che in genere dispongono di una tecnologia più arretrata e a distruggerli, [...] vie-ne a conflitto con l’uomo neandethalense (sic) e lo sottomette e lo distrugge» (AA.VV., ,pp. -). Anche del florensis si rappresenta l’identica triste fine, nonostante la didascaliadichiari che non abbiamo nessuna testimonianza di incontri tra Homo florensis e sapiens (in“National Geographic”aprile , p. ). Il capitolo che qui si deve aprire, quello sulla“razza”, è talmente vasto che, come nel caso del creazionismo, sono costretto a tralasciar-lo. Per quanto riguarda l’Italia, segnalo soltanto il fatto che nella prima metà del secolo scor-so, le razze erano un dato acquisito e scontato (Momigliano, , p. ) e che man manoquesta convinzione scema, diventa anche politicamente scorretta, ma non scompare del tut-to: Striano, Striano (, p. ); Frugoni, Magretto (, p. ). Peraltro, Cipollari e Por-tera (, p. ) denunciano il perdurare del concetto di razza nei manuali delle elemen-tari (insieme con il concetto di “primitivo”).

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FIGURA .L’uomo preistorico come Ercole, Conan o Tarzan per un manuale russo (da Vigasin,Samoszvanceva, )

del modello lineare di evoluzione. E, ancora una volta, l’intervento pe-dagogico sembra accrescere questa sensazione spiacevole (pur invo-lontariamente). Ecco ad esempio come un’attività didattica innovati-va suggerisce di trattare in classe la questione dell’incompatibilità ge-netica (data per scontata) fra sapiens moderno e Neandertal: «Scriviuna sceneggiatura per una fiction TV, nella quale un maschio neander-taliano si innamora perdutamente di una femmina di sapiens, ma en-trambi sono tristi, perché hanno capito che non possono sposarsi, per-ché glielo impedisce il loro DNA» (Pahl, , p. ).

.Le culture identitarie preferiscono il Neolitico

Dalla preistoria ci si libera con la cultura: questa è una convinzionechiara, fin dai manuali più antichi. E, come si può immaginare, questoprocesso di liberazione è accompagnato da una vasta schiera di ste-reotipi fattuali: dall’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento, dalnomadismo che è visto sempre come un’alternativa precedente alla se-dentarietà, alla divisione sociale del lavoro, alla tecnologia e all’orga-nizzazione sociale, alle onnipresenti palafitte. Non ci soffermeremo suquesti, per riservare la nostra attenzione all’indagine degli aspettistrutturali di questo passaggio, perché ci permettono di ritornare sul-la questione iniziale, del successo della preistoria, cercando delle ri-sposte più interne al mondo didattico e storiografico.

Alcune domande, infatti, ce le pone la produzione manualisticaafricana. Il nutrito gruppo di manuali che ho analizzato, tutti degli ul-timi decenni del secolo scorso, riserva alla preistoria la stessa sottova-lutazione, che abbiamo notato nei manuali europei anteguerra: pochis-sime pagine (a volte un paio), e via verso la storia che conta, quella del-la civilizzazione. La sorpresa è ovvia: tutti ci aspetteremmo il contra-rio, dal momento che proprio in quegli anni si afferma (e non senza pro-

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. Costa d’Avorio (AA.VV., a, pp. ss.). Zimbabwe (Proctor, , p. : caccia, rac-colta e rapidamente verso l’agricoltura, senza ominazione). Kenia (Sharman, , pp. ss.:sintesi rapidissima); Seibörgen et al. (, pp. -: parlano del mondo, del progresso, unapagina sull’ominazione e poi il popolo San); Lambrechts (, pp. -). Zaire (De Proover,, pp. -: dopo aver specificato che lo scopo della storia è quello di dare l’orgoglio deipropri antenati, passa a presentare i pigmei, i protobantu e i bantu). Botswana (Tlou,Campbell, , p. : poche pagine di preistoria, e poi si passa ai Khoi). Madagascar (Ra-laimihoatra, , p. : i Vazimba, “primitivi” malgasci e poi la colonizzazione indiana).

blemi) l’origine africana dell’umanità. Ci attenderemmo, anzi, unaqualche utilizzazione mitica dell’Eva africana, come peraltro è stato no-tato nel campo dell’uso pubblico della storia africana (Lainé, ). In-vece, quel periodo viene bypassato proprio nei luoghi di elezione delprocesso di ominazione. Un convegno sulla riforma dei curricoli di sto-ria, tenutosi nel fra studiosi provenienti dai paesi anglofoni africa-ni, ci rivela la politica culturale sottesa a questa rimozione.

In quell’occasione (Bude, ) numerosi interventi sottolinearonoil forte collegamento da stabilire fra ambiente, cultura ed educazione

e ne ricavarono la conseguenza che l’educazione non può che occupar-si della cultura ambientale, cioè della propria cultura tradizionale. A so-stegno di questa scelta vennero chiamati in causa illustri antropologi, frai quali Edmund Leach e Ralph Linton. Ma non si trattò di un trasferi-mento in periferia della contesa accademica occidentale fra antropolo-gia e storia. Al contrario, in quegli interventi leggiamo che allora si pro-dusse una sintesi potente fra culturalismo, da una parte, e identità na-zionale, dall’altra. L’obiettivo del curricolo di storia, dice apertamenteD. N. Sifune, delegato keniota, è di diffondere nella popolazione «pa-triottismo, lealtà, fiducia in sé, tolleranza, giustizia». Per il raggiungi-mento di queste virtù, le conoscenze sulla preistoria sono inutili. I ma-nuali, denuncia Sifune (, pp. -), contengono «una massa indi-gesta di storia primordiale»; dovrebbero enfatizzare, invece, gli aspettidell’ambiente e della comunità, dell’organizzazione etnica. «L’educazio-ne coloniale – conclude il delegato ugandese – alienava gli studenti, piut-tosto che aiutarli a integrarsi nel loro ambiente» (Olujot, , p. ).

Lo studio scolastico della preistoria, dunque, è visto come un por-tato della cultura occidentale: e una riprova sorprendente di questa ideasi trova in un manuale etiopico, nel quale la nostra sequenza lineare, lostereotipo che abbiamo posto al centro della nostra indagine, è compo-sta da uomini indubbiamente bianchi (AA.VV., , p. ) (FIG. .).

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. N. B. Katunzi (Tanzania) espone un concetto di cultura “essenzializzata”, consi-derata inseparabile dall’ambiente, e sostiene che la storia ha lo scopo di incrementare il na-zionalismo (Bude, , pp. -). S. T. Bajah usa Leach e Linton per sostenere la neces-sità di insegnare la cultura tradizionale, in vista del raggiungimento dell’identità nazionalenigeriana (ivi, p. -). E. S. Olujot critica aspramente un manuale ugandese, che ha il tor-to di essere dedicato alla Word History, mentre il bambino deve «capire che i suoi parentifanno parte dell’Uganda e che questa è legata politicamente e storicamente all’Africa e alresto del mondo» (ivi, p. ).

. Le uniche trattazioni ampie della preistoria le ho trovate in manuali stampati in Fran-cia per le scuole africane: AA.VV. (), con oltre venti pagine, nelle quali si mette in eviden-

Ma, poiché lo studio della storia è finalizzato al raggiungimento dell’i-dentità nazionale, la preistoria trova vita stentata anche in altre scuo-le: in India, in Giappone o nel mondo arabo. Ogni volta, il libro sco-lastico non partirà dalla Rift Valley o da una savana africana: ma daMohenjo Daro (Saradha Balakrishnan, , p. ; Bahrat, ), dallaMesopotamia o dall’Egitto, o dalle steppe sconfinate dell’Asia centra-le, a seconda della ricostruzione genealogica della propria nazione.In questo contesto, va al di là della notazione di colore il fatto che, peril Sud Africa, l’Eva africana non sia più l’ipotetica madre genetica del-l’umanità, ma Sarah Baartman, la piccola Sarah, sfortunata donnaKhoi-Khoi, esibita a Parigi come “Venere ottentotta”, alla fine del-l’Ottocento, che – in occasione del ritorno in patria delle sue spoglie,restituite dal Musée de l’Homme – venne proclamata «la madre sim-

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za l’importanza dell’Asia nel processo di ominazione (il manuale è destinato alla scuola mal-gascia); AA.VV. (b, p. ), che sottolinea con forza l’importanza della preistoria africana.

. Solo quattro pagine di preistoria con siti occidentali nei manuali giapponesi (AA.VV.a, b). Stesso atteggiamento nei manuali del mondo islamico che ho potuto sfoglia-re, ma che purtroppo non sono in grado di citare, che iniziano volentieri dalla Mesopota-mia. Fakhroutdinov (, p. ) apre con un paragrafo sulla preistoria: si tratta ovviamentedegli Sciti.

FIGURA .La sequenza etiopica evolve verso gli europei (da AA.VV., )

bolica di tutti i sudafricani». La riscrittura storica nazionalistica muo-ve a partire dalle «testimonianze delle sofferenze», con l’esclusionequindi del passato più remoto (Triulzi, ).

L’identificazione fra storia e civiltà permette, agli autori dei ma-nuali, di riadattare il modello narrativo lineare al proprio popolo. Maper riuscirvi, e presentare conseguentemente la nazione come il de-cantato delle civilizzazioni passate, essi devono rifarsi al portatoprofondo degli stereotipi fattuali, che abbiamo visto sopra, secondo ilquale la preistoria è l’antitesi della storia, l’inumanità prima dell’uma-nità. In questo modo, l’azione combinata del culturalismo e dell’i-dentitarismo ha ridato fiato a un modello storico didattico che, lenta-mente ma con sicurezza, stava cambiando nel secondo dopoguerra.

Il confronto con la manualistica dell’Europa postcomunista, peri-colosamente segnata dal nazionalismo, ci dà una conferma di questoprocesso, quando ci mostra la riscrittura in chiave patriottica dellapreistoria. In questa visione identitaria non è la “preistoria” che in-teressa, ma la “mia preistoria”. Tale prospettiva rende utilizzabile, an-che nell’Europa occidentale, soprattutto la preistoria recente, il Neo-litico, un periodo che si rivela assai duttile agli scopi formativi nazio-nali. Ecco i “lacustri”, precursori dell’operosità svizzera, o l’infinita sa-ga dei celti, invocati come padri fondatori – storici e al tempo stessomitici – di una buona quantità di Stati e gruppi politici europei, tutti

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. La storia africana inizia nel Medioevo, così, perentoriamente, nella peraltro accu-ratissima indagine storiografica di Calchi Novati, Valsecchi ().

. Una discussione dell’afrocentrismo in Walzer (); un confronto fra modelliafrocentrici ed eurocentrici in Brusa, Cajani () (anche in www.storiairreer.it/materiali/indice/StoriaMondiale.htm). In generale, sulla ripresa delle storie “autocentrate” cfr. Pro-cacci (). Per la discussione fra identità, nazionalismo e archeologia cfr. Kohl () e itesti di P. Stone già citati.

. Croazia: Fercek (, pp. e ) racconta della preistoria “austroungarica” e diquella croata, accostata a una Lucy improbabile; Moldavia: Sarov (, pp. e ) usa lapreistoria per includere lo spazio romeno; Bajanaru () dedica una rapida doppia pagi-na al Paleolitico, per presentare poi gli indoeuropei; Macedonia: Sharif (, pp. ss.)solo preistoria macedone, corredata dalla foto di una gigantesca formazione naturale a for-ma di elefante (in mancanza di fossili…); Ungheria: Gyapay (): preistoria in Ungheria;Gyapay, Ritoòk (, p. ); Russia: Vigasin, Samoszvanceva (, p. ) apre la trattazionecon una carta che mostra come il popolamento russo risalga a epoche preistoriche; Litua-nia: Kurlovics, Tomasuns (): solo preistoria lituana, come in Kenins (, p. ). E nonmancano i casi in cui la preistoria è assente: Polek, Wilcizynski (). Il recente “canonedelle conoscenze storiche” olandese, rigorosamente etnocentrico, conferma l’esclusionedel Paleolitico, a tutto vantaggio di un Neolitico europeo, megalitico e campaniforme: cfr.http://www.entoen.nu/default.aspx?lan=e.

bisognosi di assicurarsi della profondità temporale della loro identità.Figurano, in questa galleria di utili progenitori, anche i “popoli origi-nari” italici – veneti, celti, piceni, japigi e via elencando – testimoni im-maginari di identità regionali e locali, le patrie autentiche, soffocatedalla politica, unitaria e colonialista, di Roma. «Con l’inizio dell’a-gricoltura l’uomo può considerarsi civile, egli prende amore alla terradove dimora stabilmente, ha già una Patria, che lo nutrisce, e che eglisaprà difendere sino all’ultimo sangue contro altri uomini, gli stranie-ri, che tentassero rapirgliela» (Zanetti, , p. ): queste parole, di unmanuale in uso nelle scuole professionali italiane poco prima delloscoppio della seconda guerra mondiale, non sembrano riflettere con-vinzioni del tutto scomparse.

.Una conclusione che invita a nuovi programmi

Il confronto fra mondi scolastici diversi ci fornisce, a questo punto, ul-teriori elementi per riconsiderare il nostro stereotipo fondamentaledella sequenza evolutiva. Come abbiamo visto sopra, infatti, questo èviziato da numerosi e gravi difetti. Ma, allargando l’analisi anche ai ma-nuali non europei, ne scopriamo un nuovo aspetto: comunque, questaicona veicola l’idea di un’umanità unita e solidale, e sottolinea che que-sta è il soggetto dell’evoluzione. E qui leggiamo la contraddizione difondo. Per alcuni, l’icona postula una storia collettiva dell’umanità;per altri, solleva i dubbi che tale storia non sia del tutto condivisa, main realtà sia un’imposizione e che, conseguentemente, la “vera storia”,sia unicamente la propria.

Se è così, è comprensibile che il successo dell’icona (per quanto es-sa sia stereotipata) proceda di pari passo con l’espansione delle cono-scenze preistoriche. I manuali mostrano chiaramente che la preistoria,e soprattutto il Paleolitico, acquistano importanza man mano che ilsoggetto della loro narrazione tende ad essere l’umanità, mentre neperdono proprio quando il soggetto torna ad essere la nazione. Que-st’apertura al mondo ha certamente un aspetto spontaneo e di massa,

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. Kaeser () e anche Jud, Kaenel (, passim); Díaz Santana (), dove si cri-tica il mito celtico, ma anche la susseguente opposta celtofobia; sulle carte e i miti fonda-tori cfr. Brusa (b). Per i manuali nazisti, che iniziano volentieri con la “preistoria deipopoli germanici”, cfr. i testi citati sopra.

nelle scuole occidentali, presso insegnanti, allievi e famiglie. Ma al tem-po stesso ha una forte portata scientifica, perché, da una parte, spingela storiografia occidentale a occuparsi con maggior cura di ciò che èaccaduto nel resto del mondo; e, dall’altra, la invita a considerare uno“stereotipo strutturale” da abbattere quello secondo il quale “la prei-storia non fa parte della storia”.

La recente riforma della scuola italiana, e con essa l’insegnamentodella preistoria, è tutta dentro questo conflitto. Infatti, proprio per di-chiarate ragioni di identità (italiana ed europea) e di tradizione (giu-daico-cristiana), la preistoria è stata estromessa dal ciclo di base e con-finata nel limbo delle attività preparatorie, in prima e seconda prima-ria (bambini di cinque-sei anni), con una dizione sconcertante: «stu-dio del passaggio dall’uomo preistorico all’uomo storico». Dunque,nella scuola italiana la preistoria non fa più parte della storia e, coe-rentemente, il programma ha eliminato qualsiasi accenno a una di-mensione mondiale della storia. Il fatto che tale riforma abbia ri-scosso più di un consenso nell’accademia storica italiana ci dice che,come in Kenia o in India o nel mondo arabo, molti storici, in Italia, so-no disposti a convivere con lo stereotipo colto della separazione frastoria e preistoria e a considerare quest’ultima come un elemento stra-niero e inutile, per quella “cultura originaria” che la scuola dovrebbe,a loro giudizio, tramandare.

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Evoluzione umana e ricercadi Carlo Peretto

Il dibattito sull’evoluzione e il suo significato, per ovvi motivi semprefortemente attuale, è l’oggetto del tema trattato in questo intervento,visto nella sua interazione col mondo della ricerca; lo scopo è quellodi focalizzare l’attenzione sul come e sul perché siamo oggi nella con-dizione di proporre e riassumere idee e congetture estremamente de-finite quanto articolate sul nostro processo di ominazione.

Credo, in particolare, che sia fondamentale far chiarezza sul realesignificato del metodo di indagine che oggi noi definiamo con le pa-role “ricerca sperimentale”. Questa costituisce un percorso metodo-logico inalienabile, in grado di pervenire ai risultati dell’odierna cono-scenza, non soltanto nei limiti dell’ambito prettamente tecnologico.

Il confronto, e spesso la contrapposizione, tra “idea” e “materia”ha consentito solo in fasi molto recenti all’affrancamento laico dellaricerca e dell’interpretazione dei risultati delle indagini scientifiche.È una storia non indolore che, tuttavia, vista nella sua dimensionemoderna, ha portato a partire da metà Ottocento all’impostazionecorretta della nostra storia evolutiva, sia dal punto di vista biologicoche culturale. La quantità impressionante di documenti fossili, rac-colti negli ultimi anni, costituisce una prova inequivocabile diquesto evento.

.La forte contrapposizione attuale

Col XX secolo, la scienza sembra essere entrata in una fase critica.La conoscenza sperimentale pare non essere in grado di controllarei problemi sociali, economici ed ecologici; ciò porta a modificare lastessa concezione dell’uomo, del progresso e della ricerca. La nostraumanità può così essere percepita come una minaccia planetaria,

priva della capacità di autocontrollo nella prospettiva di un futuromigliore.

È per questo motivo che l’attenzione dei mass media nei riguardidella scienza, e quindi della ricerca scientifica, non significa necessa-riamente adesione e condivisione delle scoperte, quanto piuttosto so-spetto e critica. Per molti non si tratta di affermare i continui successinello sviluppo delle conoscenze, quanto piuttosto di discuterne il si-gnificato, evidenziando le problematiche più propriamente di ordinemorale, etico, religioso ecc. In particolare sono alcuni degli sviluppidelle indagini scientifiche a essere oggetto di attenzione, come adesempio le ricerche sul DNA e sulle sue possibili manipolazioni, solle-vando discussioni e contrapposizioni dure e forti. Clonazione, OGM,staminali sono soltanto alcune parole e sigle entrate nel gergo comunepiù per gli atteggiamenti conflittuali che hanno sollevato, che per glieventuali risultati raggiunti e i possibili benefici terapeutici.

Nel suo complesso, quindi, livelli integrati e distinti conducono auna percezione disarticolata e fuorviante della ricerca: . essa è spes-so associata alle catastrofi ecologiche, interpretate quali diretta con-seguenza dell’inquinamento oggi esistente sul nostro pianeta e rite-nuto quasi inarrestabile, nonostante gli sforzi politici per una sua ri-soluzione (cfr. ad esempio il Protocollo di Kyoto); . al contempo, dapiù parti emerge la critica che essa è priva delle necessarie garanziesugli effetti che nuove scoperte possono indurre sui singoli individuio su intere popolazioni e più in generale sull’ambiente naturale; . vie-ne spesso rapportata a eventi che stravolgono l’organizzazione filoso-fica e “razionale” della realtà, con particolare riferimento alla posi-zione dell’uomo nell’ambito della natura, soprattutto nella sua pro-spettiva di evoluzione biologica, oltre che culturale; . è ricondotta,da molti in modo fuorviante, alla teoria della falsificazione di Popper,perché impossibilitata al raggiungimento di una verità assoluta nonpiù discutibile.

Quest’ultimo aspetto, valido nel suo pronunciamento di ordine ge-nerale, se non interpretato in modo corretto, potrebbe per molti rias-sumere in sé tutti e quattro i punti sopraesposti, ponendo la ricercascientifica, soprattutto quella sperimentale, nelle condizioni di perde-re significato e veridicità agli occhi del grande pubblico, in un atteg-giamento che rimane comunque soltanto di ordine speculativo. L’im-postazione di Popper evidenzia, al contrario, il procedere della ricer-ca scientifica e i successivi cambiamenti e posizionamenti delle varie

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teorie. Infatti, a un modello che giustifica la “realtà”, ne segue col tem-po uno nuovo che legittima ulteriormente forme e caratteri dell’esi-stente, includendo ad esempio, in modo tuttavia mai esaustivo, l’ori-gine e lo sviluppo dello stesso universo in sintonia con le leggi fisicheche ne giustificano la struttura, la formazione del sistema solare e delnostro pianeta, l’origine della vita e della biodiversità e la nostra stes-sa evoluzione nel corso degli ultimi milioni di anni.

È evidente, quindi, che l’atteggiamento filosofico del significato edel procedere della ricerca scientifica non altera la sua centralità e ilprogressivo quanto inarrestabile sviluppo della conoscenza.

.Il procedere della ricerca sperimentale

Ogni teoria va definita e ridefinita di continuo con indagini sperimen-tali. In questo ambito soprattutto l’evoluzione dell’uomo, ad esempio,è rafforzata dall’incessante scoperta di fossili, dagli studi molecolari,dalle indagini cronologiche, dallo studio di quanto rimane delle atti-vità materiali e spirituali degli antichi gruppi umani che vissero nellapreistoria. Ciò significa, in primo luogo, che la ricerca si pone comeobiettivo la risoluzione di problemi particolari, senza voler risponde-re a interrogativi di ordine generale. Condividere un’ipotesi, più o me-no ampia e articolata, significa indagare i fattori specifici riconducibi-li a un insieme più ampio, del quale il più delle volte non sono tutta-via noti i limiti.

L’indagine scientifica cerca risposte a domande semplici: cos’è unatomo, un elettrone, una proteina, un cristallo... In questo modo l’ac-quisizione delle nuove informazioni, che si succedono nel corso deltempo, mina prima o poi il sistema generale teorico precedentementeelaborato, per riproporne uno nuovo più o meno differente, ma certa-mente più rispondente alle necessità di giustificazione delle nuove sco-perte. L’ultima di queste rivoluzioni, per quanto riguarda la stessastruttura dell’universo, si deve ad Albert Einstein (-) che nellaformula semplice quanto elegante E=mc riassume il senso di questariorganizzazione dell’intero sistema di riferimento fisico.

Per questo motivo la ricerca sperimentale è stata, ed è ancora oggiper nostra fortuna, un fattore di rottura nell’ambito del sistema socia-le nel quale si colloca, sollevando spesso dubbi e contrasti anche acer-rimi. Da questo punto di vista la ricerca si può definire un attore dis-

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sacralizzante all’interno della nostra società moderna. Questa è unaconsiderazione che vale anche per epoche passate, e soprattutto per ilCinquecento, periodo dal quale emerge prepotentemente una linea dianalisi della realtà, seppur non indolore, che porta allo sviluppo mo-derno della nostra società, troppo spesso ricondotta soltanto a unaspetto di ordine tecnologico.

.Ricerca sperimentale tra passato e presente

Sono dell’avviso che la particolare condizione di rottura e quindi diriorganizzazione generale del sapere imposto dalla ricerca scientifica,spesso contrastato violentemente, abbia avuto momenti significativianche nel mondo antico, senza tuttavia apportare veri stravolgimentinelle condizioni del sapere generalizzato. In particolare vorrei ricor-dare in questo contesto la volontà di alcuni studiosi moderni di sotto-lineare l’importanza delle conoscenze scientifiche del mondo greco eromano, riproposte anche in un’ampia ed elegante mostra allestitapresso il Museo archeologico nazionale di Napoli, dal titolo Eureka. Inquesto contesto si ripropone l’importanza delle scoperte in quelle lon-tane epoche, con particolare riferimento al mondo greco. L’esaltazio-ne delle scoperte di quell’epoca è più che mai legittima, anche se dob-biamo porci la domanda del perché si è arrivati all’oblio di quelle co-noscenze e del perché l’immobilità del pensiero ha pervaso i secoli suc-cessivi con una visione assoluta e univoca della realtà, quasi fino al XVI

secolo (immobilità che per molti aspetti perdura tutt’oggi). La causaprincipale di tutto ciò risiede nella mancata affermazione della laicitàdella ricerca scientifica e del conseguente percorso conoscitivo. La so-pravvalutazione della “razionalità” di ordine prettamente filosofico ela dipendenza da essa hanno relegato il tutto nell’ambito della “curio-sità”, non significativa nella giustificazione dominante di un fine chepotesse comprendere il tutto, in una visione unitaria e vincolante (te-leologismo di Aristotele); un atteggiamento, quest’ultimo, che prevalein quel periodo come nei secoli successivi, lasciando e rafforzando ul-teriormente una visione fissista e statica del mondo che ci circonda.

D’altra parte la laicità nella consapevolezza della conoscenza è unostato mentale del tutto particolare, facile da esprimere a parole, macomplesso nella sua concretezza. È come per gli antropologi annien-tare se stessi per comprendere gli altri, soprattutto quelli che mag-

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giormente si ritengono diversi, vivendo gli usi e i costumi di popoli dif-ferenti in un contesto sociale del tutto nuovo e imprevisto; compor-tarsi allo stesso modo facendo cose che non si sarebbe mai immagina-to di fare e condividendo atteggiamenti sociali e morali inaspettatiquanto imprevedibili.

Oggi, rispetto al mondo antico, siamo in una situazione del tuttodifferente. Al contrario di quanto si pensava fino all’Ottocento, l’evo-luzione dell’uomo è una realtà confermata e condivisa, anche se attor-no a questa certezza si addensano in modo ricorrente continue pole-miche e critiche. Sul tema delle origini dell’uomo si imposta infatti unodei contrasti più forti tra caso e programma, evoluzione e fissismo, re-lativo e assoluto, passando dalla discussione dei fossili quali realtàmorfologica a quella del loro più ampio significato in termini di inter-pretazione generale nel contesto della stessa natura. Questo fenome-no ha anche un lato particolarmente piacevole, mettendo in condizio-ne gli studiosi della preistoria di confrontarsi non solo su aspetti di or-dine tecnico e tipologico, ristretti a un ambito tecnicistico, ma anchee soprattutto sul tavolo della speculazione e del confronto razionaledel significato dei materiali raccolti, in un dibattito di ordine non piùsolamente numerico, ma soprattutto filosofico.

Questo atteggiamento rappresenta una novità, in quanto la di-scussione che si svolge in quelli che potremmo definire “piani alti del-la razionalità” non si giustifica, come un tempo, negando il dato scien-tifico e naturalistico, quanto piuttosto lo recepisce come argomenta-zione inalienabile e allo stesso tempo condizionante per l’interpreta-zione che può essere desunta a carattere generale.

.Alle origini della ricerca sperimentale

È bene ricordare, per far chiarezza sull’origine del nuovo atteggia-mento sovradescritto, che il raccordo, o meglio il riconoscimento del-la stretta relazione tra scienze e filosofia, è il risultato di una storia re-lativamente recente, seppur talvolta con qualche errore di interpreta-zione e qualche sopravvalutazione. Esso trova la sua origine molto re-centemente nella nostra evoluzione culturale, in quel metodo definitocon l’aggettivo “sperimentale”, che rappresenta un’innovazione digrande portata a partire soltanto dal Cinquecento. È un periodo du-rante il quale troviamo un’ampia gamma di scienziati, tra cui si posso-

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no ricordare, oltre a Galileo Galilei (-), Nicolò Copernico(-) e Giovanni Keplero (-). È questa una fase di gran-de attività conoscitiva e sperimentale, che investe ogni ambito del sa-pere. Chiunque osservi, ad esempio, i disegni di Leonardo da Vinci no-ta quanto sia dettagliata la descrizione anatomica, possibile soltantograzie a numerose dissezioni non certo condivisibili e ammissibili aquel tempo. I nuovi approcci della conoscenza rappresentano comun-que fattori di attrito con l’apparato dominante di quel tempo, tantoche in molti casi studiosi vari sono “purificati” col fuoco a causa delleloro idee diverse da quelle professate dall’apparato di controllo. È ilcaso di Lucilio Vannini, oppure di Giordano Bruno che, nato nel ,nell’anno è arso sul rogo. D’altra parte lo stesso Galilei abiura perben due volte.

Anche le grandi scoperte geografiche aiutano in questa fase nelcambiamento di prospettiva nei riguardi dell’analisi della natura edelle sue differenti originalità. Da ogni parte arrivano in Europa cosenuove e curiose che stravolgono la nostra concezione del mondo li-mitato al solo ambito europeo. Nascono così grandi raccolte, i gabi-netti delle curiosità, assieme alla necessità dello sviluppo della classi-ficazione di piante e animali e comunque di tutto quanto rappresentioggetto di interesse.

I modi di interpretare e valutare la natura diventano entità ina-lienabili per una società in continuo sviluppo, tanto da consentire lanascita di grandissimi contenitori del sapere naturale, quali giardinibotanici, musei naturalistici, paleontologici, geologici ecc. A taleproposito basti ricordare, per tutti, il Musée National d’HistoireNaturelle di Parigi, che si deve soprattutto al lavoro del naturalistafrancese Georges-Louis Leclerc de Buffon (-). In questocontesto la classificazione del mondo animale e vegetale viene risi-stemata da Carl von Linné (-) nel suo Systema Naturae apartire dal .

Una conseguenza diretta di quest’enorme attività naturalistica è lapercezione, o meglio l’impressione, che il grado di differenza tra gli es-seri viventi, più o meno lontani tra loro, sottenda un’origine comune.Queste prime ipotesi vengono confermate, pur nella contrapposizio-ne a questa idea di Georges Cuvier (-), anche dallo studio deireperti paleontologici. Infatti l’analisi delle sequenza geologiche, con-tenenti un’infinità di fossili appartenenti a specie estinte, rafforza que-sto pensiero. Ad esso si oppone Cuvier, convinto fissista, che cerca nel-

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la “teoria delle rivoluzioni del globo”, poi sostenuta e sviluppata daisuoi allievi con la “teoria delle creazioni successive”, un’interpretazio-ne statica dei fenomeni osservati.

Tuttavia, per nostra fortuna, il tempo delle prime teorie evoluzio-nistiche è arrivato. E così la prima, impostata su basi scientifiche, si de-ve a Jean-Baptiste de Lamarck (-) con la pubblicazione nel della sua Philosophie zoologique. Secondo questo studioso è de-terminante il ruolo dell’ambiente quale elemento per lo sviluppo del-la diversità morfologica. L’organismo viene modificato e i cambia-menti sono ereditati di generazione in generazione. Una moltitudinedi esempi sono riportati quale prova di questa ipotesi: la talpa che haperso la vista in quanto vive sotto terra; le oche con le dita palmate per-ché vivono soprattutto in acqua; la giraffa dal collo lungo per mangia-re anche le foglie dei rami più alti degli alberi ecc. Secondo Lamarckdue leggi ne consentono la realizzazione: l’uso e il disuso degli organi;l’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Forti critiche vennero immediata-mente portate a sfavore della teoria di Lamarck, e in particolare il piùacerrimo nemico fu proprio il paleontologo Cuvier. L’osservazione piùnegativa riguardava la constatazione che non è l’uso a fare insorgerel’organo, quanto piuttosto il contrario. Ad esempio come sarebbe po-tuta insorgere l’ala se il volo non era già comunque una prerogativa diqualche essere vivente?

Oggi sappiamo che questa teoria, importante perché è la primache cerca di spiegare in modo organico l’evoluzione, non è validascientificamente. Oggi sappiamo che le caratteristiche acquisite dalfenotipo (ad esempio colore più scuro della pelle perché abbronza-ta, muscoli più forti a causa dell’intenso allenamento...) non sonoereditabili, cioè non passano al genotipo e quindi ai figli. Sappiamoche soltanto le mutazioni del genotipo comportano un cambiamen-to nelle generazioni successive e quindi soltanto queste sono eredi-tabili.

Lo stesso nonno di Darwin, Erasmus, è un convinto evoluzionista:una certa aria di famiglia influenza il nipote che sarà ben più famoso.E arriviamo così alla teoria di una evoluzione per cause interne: Char-les R. Darwin (-) sostiene e dimostra questa tesi in Origine del-le specie, pubblicato nel (l’Origine dell’uomo risale al ). So-stiene che alla base dell’evoluzione vi è la variabilità individuale sullaquale lavora la selezione naturale. L’osservazione della natura avevapermesso a Darwin di sviluppare la sua grandissima intuizione, anche

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se all’epoca non si sapeva nulla sull’esistenza e sulle proprietà del ge-noma. Dovrà passare ancora molto tempo, anche attraverso gli studisull’ereditarietà dell’incompreso Gregor Mendel (-), primache si arrivi a capire in modo sufficientemente articolato i meccanismidella variabilità genetica e delle modalità di trasmissione delle infor-mazioni alle generazioni future.

.Ricerca scientifica ed evoluzione dell’uomo

Non è un caso quindi che la paleontologia umana, o meglio la capacitàdi ricostruire il nostro percorso evolutivo, inizia il suo lavoro conosci-tivo a metà Ottocento, dapprima contrastata e poi via via nel tempoaccettata, sviluppata e sostenuta dalla ricerca scientifica. Certo la vi-sione dinamica della natura e della nostra storia evolutiva non è esen-te da critiche, provenienti sia dal mondo scientifico (costantemente al-la ricerca di ulteriori conferme), sia da quello che propende per unavisione decisamente dualistica, spesso ancorata a una contrapposizio-ne netta tra fisica e metafisica, materia e mente, soggettivo e oggettivo,tecnicismo e coscienza.

Al giorno d’oggi, aiutati tuttavia dai fossili, possiamo ripercorrereun cammino lungo milioni di anni, durante i quali il complesso pro-cesso, a cui è stato dato il nome di ominazione, ha portato alla ribaltala nostra specie, capace di modificare l’intero pianeta. Il processo evo-lutivo è stato lungo, con una capacità molto elevata di risoluzione de-gli ostacoli e dei pericoli ogni volta differenti che la natura di certo nonci ha risparmiato.

Forse per questo motivo l’uomo è un essere del tutto originale,avendo fatto confluire in quella che chiamiamo cultura tutta una se-rie di modi di fare, atteggiamenti e interventi che derivano dalla bio-logia, ma che gli hanno consentito di attenuare, se non talvolta evi-tare completamente, quella che Darwin chiama selezione naturale.La cultura, che come sappiamo ha la possibilità di modificare l’am-biente, diventa in questo modo un elemento di protezione, consen-tendo all’uomo di svincolarsi dalla selezione naturale e di poter vi-vere in ogni dove. La cultura, in sostanza, consente di evitare qual-siasi specializzazione di tipo ambientale e offre la possibilità di vive-re in qualsivoglia habitat naturale. L’uomo è in grado di costruirecontesti anche del tutto artificiali che gli permettono di vivere in si-

C A R L O P E R E T T O

tuazioni inimmaginabili fino a poco tempo fa, quali lo spazio o la su-perficie di altri corpi celesti.

.Evoluzione e cultura

Sorprende il fatto che lo sviluppo delle capacità adattative ad am-bienti differenti abbia portato ad una situazione del tutto nuova, co-nosciuta col termine di autoconsapevolezza, limitandoci per ora inquesto contesto rispetto all’ambito ben più ampio e complesso del-la coscienza.

La consapevolezza di ciò che esiste o che è esistito sta alla basedella capacità di poter indagare e di poter ricostruire la propria sto-ria. Forse questa è la vera differenza con le altre specie animali: sia-mo i soli a disegnare, fin nei più minimi dettagli, la galleria degli an-tenati. Ci ritroviamo nella condizione di poter percepire e definirela relazione spazio-tempo, individuando le cause e i fattori chel’hanno condizionata e modellata di continuo. È una proprietà deltutto nuova che, riprendendo le parole di Boncinelli, potremmo de-finire emergente. Una capacità che ci consente di raccontare la no-stra storia, l’ominazione, con la definizione dei suoi passaggi strate-gici, dalla stazione eretta, ai primi strumenti, dall’acquisizione deigrandi spazi aperti della savana fino alla diffusione sull’intero pia-neta, attraverso il recupero di tutte quelle testimonianze che giusti-ficano il racconto fin nelle sue parti più complesse.

Potremmo anche riconciliarci, nel racconto di questa lunga storia,con una certa visione dualistica, ponendo l’accento sul rapporto bio-logia-cultura, consapevoli comunque che i due ambiti non sono e nonsi potranno mai disgiungere, quanto piuttosto influenzare vicende-volmente in una perenne osmosi senza vincoli temporali del prima edel dopo. In questo ambito la memoria individuale delle conoscenzeculturali si sovrappone e si integra allo stesso tempo con quella natu-rale (memoria di specie), direttamente riconducibile al patrimonio ge-netico e a quanto da esso derivato in termini biologici. Siamo infattioggi consapevoli che solo quest’ultimo ha la possibilità di perpetuaredi generazione in generazione una quantità altissima di informazioniin modo del tutto autonomo, al contrario di quanto avviene per quel-le culturali che devono ogni volta essere apprese nuovamente dagli in-dividui di tutte le generazioni che si succedono nel tempo.

. E V O L U Z I O N E U M A N A E R I C E R C A

.Una considerazione finale

Si potrebbe pensare che siamo quindi meno originali di quanto il no-stro antropocentrismo possa immaginare. Siamo infatti l’oggetto diun’evoluzione sostanzialmente regolata da cause interne, rispetto allaquale abbiamo messo in atto un’ampia gamma di strategie, soprattut-to dovute alle conoscenze scientifiche e culturali, in grado di attenua-re gli effetti della selezione naturale. È evidente, tuttavia, che questaconsapevolezza erode la garanzia di stabilità e di sicurezza che nor-malmente desideriamo e verso la quale esprimiamo, in modo più o me-no inconscio, un forte desiderio di appropriazione.

L’evoluzione, quindi, sancisce l’idea che l’esistenza, la nostra, de-ve essere assunta come una sorta di osmosi con la mutevolezza dellecose, invitandoci ad accettare razionalmente il rapporto con l’im-prevedibile.

A mio avviso proprio in quest’ultima affermazione si ritrova l’astioche molti hanno nei riguardi della conoscenza scientifica. Con questorifiuto si perviene a un’interpretazione fuorviante del significato stes-so della nostra vita, che per assunto deve essere assolutamente disso-ciata da possibili disequilibri.

Il rigetto storico dell’evoluzionismo è quindi favorito da un atteg-giamento rivolto alla normalizzazione della vita quotidiana, pertantofinalizzata al mantenimento delle garanzie di ordine culturale, econo-mico e sociale, con la certezza assoluta che nulla possa cambiare in fu-turo. Tutto questo sta anche alla base dell’atteggiamento filosofico delfissismo e della nascita dell’assoluto comportamentale.

.Un’ultima riflessione

In conclusione, sono dell’avviso che non vi sono dubbi nell’affermareche a partire dalla fine del Quattrocento si siano affermate quelle in-novazioni concettuali e metodologiche che hanno trasformato la pra-tica conoscitiva dando vita alla scienza moderna.

La possibilità di discutere di ogni cosa e di non avere riferimentiassoluti in termini di conoscenza, facoltà peraltro acquisita non senzacontrapposizioni e condanne, ha consentito, nel corso degli ultimi se-coli, di sostituire al principio di autorità quello di tolleranza per diri-

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mere le controversie come stile di discussione tra gli uomini. Si può so-stenere, allora, che questo è un modo di fare verso il quale il contri-buto dei naturalisti è stato determinante.

Bibliografia

Si elencano alcune pubblicazioni a carattere generale che possono aiutare ad ap-profondire gli aspetti trattati nella relazione.

. (), Il cervello, la mente e l’anima. Le straordinarie scoperte sul-l’intelligenza umana, Mondadori, Milano.

. (), Les origines de l’homme en Europe et en Asie: atlas des sites dupaléolithique inférieur, Errance, Paris.

. (), Se un leone parlasse. L’intelligenza animale e l’evoluzione del-la coscienza, Baldini & Castoldi, Milano.

. (), L’âge d’or de l’humanité, chroniques du Paléolithique, Odi-le Jacob, Paris.

. (), Linguaggio e problemi della conoscenza, il Mulino, Bologna. . (), Ominoidi, Ominidi, Uomini, Jaca Book, Milano. . (), Evoluzione umana e cultura, La Scuola, Brescia. . (), Gli umani prima dell’umanità: una prospettiva evolutiva, Editori

Riuniti, Roma. - . (), Il gesto e la parola, Einaudi, Torino. . (), La mente, istruzioni per l’uso, Rizzoli, Milano. . (), L’istinto del linguaggio, Mondadori, Milano. . . (), Conoscenza oggettiva, Armando, Roma.. (), La mia filosofia, a cura di M. Baldini, Armando, Roma.. (), Lo scopo della scienza, a cura di M. Baldini, Armando, Roma. . (), Scimmie cacciatrici, il regime carnivoro all’origine del

comportamento umano, Longanesi, Milano. . (), Umani, in “Le Scienze”, , pp. -.

. E V O L U Z I O N E U M A N A E R I C E R C A

Parte secondaFossili, molecole, genealogie

La fenotipia ossea nella ricostruzione dell’evoluzione umana

di Francesco Mallegni

.Premessa

I dati paleoantropologici confermano che i primi stadi dell’evoluzioneumana sono iniziati in Africa subsahariana e precisamente nell’ampiafascia che partendo dall’Etiopia riguarda tutta l’Africa sudorientale;essa ebbe il suo inizio con la separazione del ramo “preumano” daquello della antropomorfe. Ma come è possibile dare indicazioni cosìprecise, anche se è ancora opportuno ammantarle di un alone di dub-bio? Quello che ritroviamo è costituito da frammenti di osso e non al-tro, resti di antichi cadaveri distrutti dall’azione dei mangiatori di ca-rogne (le sepolture saranno una conquista tardivissima da parte del-l’uomo, databili, all’inizio, a . anni da oggi) o dall’azione deglielementi (sole, pioggia, vento, acidità del terreno ecc.). Ma sono que-sti frammenti che permettono ai paleoantropologi di individuare i ca-ratteri che documentano il modo in cui le creature di cui costituironol’apparato scheletrico riuscirono a relazionarsi all’ambiente; si trattainfatti dell’unico apparato anatomico che può essere indagato.

.I preominidi e le più antiche forme di ominide

All’inizio la differenziazione dai pongidi, la famiglia i cui componentisono geneticamente e strutturalmente più vicini all’uomo, è lenta. Ilprimo reperto da cui parte questa differenziazione potrebbe essere ilSahelanthropus tchadensis; esso fu rinvenuto nel Ciad, quindi piutto-sto lontano dalla zona precedentemente definita ed è databile grossomodo fra i - milioni di anni fa (Brunet et al., ). Da alcuni è con-siderato un pongide femmina (gorilla). Solo un’altra serie di reperti de-

nominati Orroin tugenensis (colline Tugen in Kenia), leggermente piùrecenti ( milioni di anni fa) e rinvenuti in una formazione geologicadetta di Lukeino (Senut et al., ) dà più garanzie di questo distac-co; i resti da cui sono rappresentati (anche resti di femore) dimostre-rebbero infatti un inizio di conquista della stazione eretta e della deam-bulazione bipede; queste sono prerogative che distinguono l’uomo daipongidi, i primati più a lui simili, come detto in precedenza.

Altri reperti ossei, ancora più recenti (databili tra i , e i , milio-ni di anni fa), sono stati rinvenuti ad Aramis in Etiopia (Haile-Selassié,) e definiti come Ardipithecus ramidus; sono rappresentati da den-ti, da mandibole, da una base del cranio e da frammenti di omero.

È necessario sottolineare che il foramen magnum nell’occipite èspostato più in avanti di quello degli scimpanzé, ciò indicherebbe unapredisposizione alla locomozione bipede. Tuttavia, i caratteri dell’o-mero e dei denti sono ancora molto simili a quelli dei pongidi e par-ticolarmente a quelli dello scimpanzé. Ancora però non si parla di au-stralopiteci, il genere le cui molte specie vivranno più o meno con-temporaneamente fino a lambire i , milioni di anni da oggi e ancheoltre (cfr. in seguito il genere Paranthropus). A partire da circa mi-lioni di anni i fossili attribuibili alle linee ominidi si fanno più abbon-danti; i caratteri “umani” (del bipedalismo, soprattutto) sono più de-finiti e allora i paleoantropologi coniano la definizione di genere Au-stralopithecus (nell’accezione del termine iniziale, scimmie dell’Afri-ca australe, dato loro dai primi studiosi di questo antico materiale) airesti del primo essere datato fra , e , milioni di anni fa (Leakey etal., , ), e come la specie anamensis; i suoi resti sono stati rin-venuti negli anni Novanta del secolo scorso. Molti denti, parti di ma-scellare, di mandibola e ossa dell’arto superiore costituiscono il suorecord fossile. Anamensis (FIG. .) possiede caratteri più “umani” diArdipithecus: la sua dentatura è meno primitiva e l’omero è abba-stanza simile a quello umano; anche le tibie suggeriscono il possessocompleto del bipedalismo (Leakey et al., ).

Altri resti, animali e vegetali, indicano un ambiente relativamenteumido e forestato; è opinione corrente che il progressivo inaridimentodella parte sudorientale dell’Africa, scenario naturale delle prime “ma-nifestazioni umane”, sia stato accompagnato da foreste galleria intornoai corsi d’acqua; ciò avrebbe permesso la sopravvivenza di queste for-me preumane, le loro escursioni in ambienti aperti (da qui l’inizio delbipedalismo), la possibilità della conquista di territori anche molto lon-

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tani dalle zone in cui questi ebbero origine. Seguono ad anamensis al-tri reperti morfologicamente ancor meglio definibili; il loro nome dispecie è ancora più noto (anche ai mass media) e il loro record fossilene ha permesso una conoscenza ancora migliore rispetto a quello delleforme precedenti: ci riferiamo ad Australopithecus afarensis.

I resti fossili provengono dall’Etiopia, dal Kenia e dalla Tanzania esono stati datati fra e milioni di anni fa. Il famoso scheletro parzia-le AL - chiamato “Lucy” e altri resti, rinvenuti in Hadar (Etiopia)e a Laetoli (Tanzania) (ossa e impronte di piedi) negli anni Settanta del-lo scorso secolo (Johanson et al., ), già avevano indicato che lo svi-luppo del cranio, dei denti e dell’apparato locomotorio poterono averavuto sviluppi cronologicamente anche molto differenziati.

In effetti questa specie ha mantenuto alcuni caratteri dentari e cra-nici tipici dei pongidi con canini grandi e molto dimorfici, faccia pro-gnata e volume encefalico piccolo – - cc. Gli attuali scimpanzéhanno una capacità cranica di cc e i gorilla di cc. Gli arti su-periori mantengono in afarensis alcuni caratteri arcaici, più vicini aquelli dei pongidi, particolarmente la lunghezza rispetto a quella degliinferiori e l’anatomia della mano; si tratta di caratteri probabilmentecollegati con l’abilità residua di attività arboricola. Gli arti inferiori so-no decisamente strutturati al bipedalismo, nonostante alcuni caratteriarcaici quali le falangi allungate. Si pensa che la specie afarensis po-

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FIGURA .Una serie di reperti attribuibili ad Australopithecus anamensis, tra i quali (in alto a si-nistra) la mandibola olotipo della specie

trebbe essere suddivisa in due o più specie per via di una considere-vole variabilità dimensionale (McHenry, ), con probabili maschigrandi e femmine di piccolo formato, quindi a grande dimorfismo ses-suale. In caso affermativo afarensis potrebbe essere l’ultimo antenatodiretto di tutti i successivi ominidi e la sua definizione sistematica do-vrebbe cambiare in Preanthropus africanus (Strait et al., ). Legger-mente più recente di afarensis, si rinviene nella regione del El Ghazaldi Bahr, vicino a Toro Koro nel Ciad (Brunet et al., ), un mandi-bola datata a -, milioni di anni fa, in base a resti di fauna. Il repertoviene definito Australopithecus bahrelghazali. Il rinvenimento dimo-stra la presenza inequivocabile di ominidi pliocenici in Africa nordoc-cidentale e inoltre la loro distribuzione larga e una diffusione abba-stanza precoce. Dobbiamo allora tenere conto delle famose foreste gal-leria che potevano costituire possibili transiti in regioni anche lontanedalla zona di origine seguendo corsi d’acqua importanti (vedi in que-sto caso il Nilo) con la rete degli affluenti, a meno che non si debbaammettere siano esistiti più punti di insorgenza di questo genere. Cer-tamente tutte queste specie non si possono accettare se non ammet-tendo un’insorgenza a cespuglio (Wood, a, b) con tanti ramidestinati a estinguersi nel tempo, tranne uno che porterà a Homo, spe-cie sopravvivente sapiens. Facciamo un esempio banale e non del tut-to rispondente: un cespuglio di rose con tanti polloni sviluppatisi daun unico ceppo ma che vanno a costituire varie entità.

Oltre che le tre specie attribuite al genere Australopithecus, dob-biamo includere una nuova forma che non soltanto viene definita co-me nuova specie, ma persino un nuovo genere, Kenyanthropus platyo-ps (Leakey et al., ), cioè “l’uomo dalla faccia piatta del Kenia”. Es-so viene da una stratificazione datata a ,-, milioni di anni fa. La re-lativa morfologia è differente dagli altri ominidi (gli altri australopite-ci mostrano un forte prognatismo). Inoltre, Kenyanthropus mostra unacapacità cranica ridotta. Quindi i ritrovamenti delle varie ossa indi-cherebbero come parecchie forme di ominidi arcaici avrebbero potu-to coesistere in Africa fra e milioni di anni fa.

Da circa milioni di anni nella famiglia degli ominidi almeno due li-nee evolutive coesistono: in entrambi a poco a poco si va delineando unosviluppo progressivo dei caratteri cranio-facciali sempre meglio distin-guibili da quelli dei pongidi: facce meno prognate e denti anteriori mol-to ridotti. Tuttavia la prima tendenza evolutiva ha dovuto sviluppare unpotente apparato masticatorio, particolarmente nei denti giugali (riscon-

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trabili anche nelle grandi dimensioni delle strutture ossee). La secondatendenza, al contrario, ha determinato la riduzione della dentatura late-rale e delle strutture ossee relative; a questi aggiustamenti è seguito unosviluppo cerebrale progressivamente più capace (encefalizzazione) e unaquasi sicura alimentazione a base anche di proteine animali.

La più antica forma conosciuta con un apparato dentario che uti-lizza prevalentemente i denti giugali compare a circa ,-, milioni dianni fa in Africa orientale e australe (in Etiopia, nel Kenia e forse nelMalawi orientale) e viene definita come robustus. Un cranio completo,il cosiddetto “cranio nero”, a causa del colore degli strati di fossilizza-zione in cui è stato raccolto e che lo hanno tinto, detto poi, con il nuo-vo appellativo di genere, Paranthropus, specie aethiopicus, è stato tro-vato in Kenia: la sua sigla è KNM-WT .. Può essersi sviluppato daafarensis ed essere capostipite, nella relativa morfologia craniofaccia-le, delle forme che hanno sviluppato ancora di più il loro apparato ma-sticatorio. In particolare Paranthropus mostra una capacità cranica ri-dotta ( cc), insieme a una cresta sagittale sulla volta, l’elemento ti-pico di questo gruppo, e un facciale sviluppato, quale morfologia ana-tomica “robusta”. Questa primitività è quasi da antropoide. Le formedi Paranthropus, rappresentate da un buon numero di fossili, datati frapiù di milioni a più o meno un milione di anni, sono da attribuire adue varietà della stessa specie, anche se sono molto simili: boisei, orien-tale (FIG. .), e robustus del Sud Africa. La loro capacità cranica è dicirca cc (Tobias, ).

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FIGURA .Il calvario OH , denominato Paranthropus boisei

Il Paranthropus aethiopicus potrebbe essere l’antenato diretto diP. boisei, il robustus, data la sua posizione geografica (Sud Africa),potrebbe essere considerato dunque una variante geografica del boi-sei, data anche la sua antichità maggiore. Tutte e tre sono forme chepossiamo supporre specializzate nel consumo delle fibre vegetali ecoriacee (architettura masticatoria potente, faccia grande e piana,poco prognata; archi zigomatici forti, denti laterali enormi, denti an-teriori ridotti, cresta sagittale sulla volta cranica per inserzioni deimuscoli masticatori potenti; grande e forte mandibola). Per tutto ciòquesti ominidi non possono essere associati all’altro genere più o me-no coevo (Australopithecus) che era certamente onnivoro. Un po’prima di un milione di anni i parantropi, nelle due forme, scom-paiono senza lasciare discendenza; questo loro perdurare, quando datempo sono in circolazione i rappresentanti del genere Homo e si so-no estinte le australopitecine, può essere spiegato con la mancanzadi competizione tra i due generi (Homo e Paranthropus), impegnati,almeno l’ultimo, a sfruttare risorse alimentari meno variegate. Anchein Sud Africa sono presenti australopiteci della specie africanus do-po i milioni di anni da oggi: essi datano prima del P. robustus e so-no rappresentati dai resti cranici del famoso “bambino di Taung”.Ulteriori resti, datati a -, milioni di anni fa sono stati rinvenuti aSterkfontein e a Makapansgat; grazie a questi è possibile ricostruir-ne la morfologia e l’anatomia: dentatura giugale un po’ meno svilup-pata e struttura facciale meno forte, quindi abbastanza differente da-gli altri A. arcaici e dai P. robusti; per questo A. africanus è stato chia-mato “gracile”.

Al giorno d’oggi i rapporti filogenetici di africanus non sono deltutto chiari; le sue strutture anatomiche sono molto simili a quelle deipongidi: alcune ossa craniche, le proporzioni fra gli arti superiori e in-feriori sono simili a quelli dei pongidi tanto da pensare a un’abilità al-la vita arboricola (l’arto superiore è molto forte per l’arrampicamento)oltre al bipedalismo (Clarke, ). Non c’è contrasto quindi con lamorfologia di afarensis, che non mostra un simile sviluppo negli artisuperiori (McHenry, Berger, ). Un altro fossile è stato trovato inEtiopia e viene datato fra e milioni di anni fa; trovato in Bouri (Etio-pia) è un cranio parziale recentemente attribuito a una nuova specie,Australopithecus ghari (Asfaw et al., ). Il gahri può rappresentareun buon collegamento fra l’afarensis e Homo (anche se la capacità cra-nica è ridotta – sui cc – i denti, nonostante le grandi dimensioni,

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hanno una morfologia più vicina a quella di Homo, così come le pro-porzioni fra l’omero e il femore). Tuttavia, le proporzioni fra l’omeroe le ossa dell’avambraccio sono simili a quelle dei pongidi.

.L’origine del genere Homo

Quasi in contemporanea ai parantropi si colloca l’origine del genereHomo; essa dovrebbe essere collegato a una fluttuazione climaticafredda, seguita da inaridimento e dalla riduzione delle risorse alimen-tari. Si forma un nuovo taxa, datato fra , e , milioni da oggi, e vasotto la definizione di Homo habilis, che è quindi da considerare il pri-mo rappresentante di questo nuovo genere. I suoi resti sono stati tro-vati in parecchi luoghi dall’Africa orientale, quale Olduway (Tanza-nia), in Kenia, in Etiopia e in Malawi e forse in Sud Africa. Inizial-mente tutti i resti non parantropini e non assegnabili ad africanus so-no stati ipotizzati appartenere ad habilis. Tuttavia, la comunità scien-tifica solo recentemente ha accettato l’istituzione di questa specie (To-bias, a). Alcuni studiosi hanno contestato il valore di questa isti-tuzione (Leakey et al., ); si pensava che habilis potesse essere uncongenere di australopithecus africanus o “gracile” (Wood, Collard,). Le differenze con africanus non sono molte, ma sono sufficientida includere habilis nel genere Homo. Semmai la sua eterogeneità lo faconsiderare come appartenente a due distinte specie: habilis e rudol-fensis (Wood, b). Entrambi mostrano una capacità cranica mag-giore rispetto a quella delle australopitecine e denti giugali più picco-li, con un diametro mesio-distale importante.

I resti cranici presentano maggiore sviluppo delle regioni frontalee parietale, l’occipitale è più arrotondato e la base meno pneumatizza-ta; i denti hanno dimensioni più piccole e i giugali indicherebbero unloro utilizzo rispetto a quello delle australopitecine (FIG. .). Per laprima volta si ha la quasi certezza della produzione di strumenti litici,attività rapportabile esclusivamente al genere Homo.

Homo habilis e rudolfensis differirebbero per alcune morfologieimportanti; habilis ha una capacità cranica media di cc; la faccia èmolto prognata e abbastanza convessa; il toro sopraorbitale è inci-piente; lo scheletro postcraniale ha proporzioni che si avvicinano aquelle di africanus (arto superiore più forte e relativamente più lungodi quello inferiore, adatto per una vita semiarboricola). Il rudolfensis

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FIGURA .Il calvario KNM-ER , denominato Homo habilis

FIGURA .Il calvario KNM-R , denominato Homo rudolfensis

(FIG. .) ha capacità cranica più grande ( cc); la faccia è più gran-de, piana e diritta, con incisivi grandi, toro sopraorbitario iniziale.

Questi caratteri ricordano quelli del Kenyanthropus platyops, piùvecchio di habilis di , milioni di anni. Alla fine del Pliocene e all’ini-zio del Pleistocene (,-, milioni di anni fa) una nuova forma piùcomplessa di Homo è comparsa con la possibilità di colonizzare nuo-vi ambienti e territori dell’Africa; questa nuova specie è stata denomi-nata ergaster databile a , milioni di anni fa.

Se diverse specie del genere Homo coesistettero in Africa durantela transizione di Plio-Pleistocene, non è chiaro chi è quella alla cui ba-se sta Homo ergaster (,-, milioni di anni fa). I più antichi resti so-no stati rinvenuti a Koobi Fora (Turkana orientale, Kenia) e includo-no vari frammenti ossei variamente conservati. Nel è stato trova-to a Nariokotome nel Kenia uno scheletro incredibilmente completodi un ragazzo alto ,, di anni, datato a , milioni di anni (FIG. .).

Nell’insieme questi fossili hanno morfologia differente rispetto aifossili dell’estremo Oriente (Homo erectus) e mostrano alcuni caratte-ri moderni confrontati con le forme asiatiche (stricto sensu Homo erec-tus). Per questo soltanto la specie africana avrebbe potuto produrre isapiens mentre gli altri si sono estinti senza lasciare discendenza.

A proposito di erectus asiatico, la prima prova fossile viene da Gia-va (Indonesia), circa cent’anni fa. Originariamente fu denominato dal-

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FIGURA .Il calvario WT , denominato Homo ergaster

l’olandese E. Dubois () Pithecanthropus (anello tra scimmia e uo-mo). Altri ritrovamenti sono avvenuti in seguito sempre a Giava e inCina (Sinanthropus pekinensis) in un sito, Zhou-kou-dian. Erectus po-trebbe essere una forma derivata da ergaster, migrato in Asia attraver-so la Mesopotamia e/o costeggiando l’Arabia. Erectus (FIG. .) ha unagrande capacità cranica rispetto ad habilis, rudolfensis ed ergaster(. cc in media, con una variabilità fra e . cc), piccoli dentigiugali, più brevi e quadrangolari, ossa nasali prominenti, strutture ro-buste, quali le arcate zigomatiche e i tori frontale e occipitale.

Si tratta di strutture di interpretazione problematica (almeno quel-le craniche legate a una particolare dentatura). Il fattore di evoluzionein erectus potrebbe essere stato la ricerca e il consumo di proteine ani-mali e un miglioramento dell’arsenale tecnico litico. Le problematichesul significato dei molti reperti a Giava, per esempio, dipendono dairitrovamenti fortuiti di non addetti ai lavori (contadini locali). Sonostate tentate datazioni fondate su cronologia assoluta essenziale basa-ta su Potassio/Argon, sui metodi delle tracce di fissione e sull’analisibiostratigrafica e paleomagnetica. Ciò ha portato a collocare erectus fra,-, milioni di anni. Per alcuni reperti del record indonesiano si han-no ipotesi di sincronia con le forme di ergaster africano: il cranio tro-vato nel , datato a .. anni fa (Swisher III et al., ). I crani da Ngandong, trovati tra il e il , sembrano molto più re-centi degli altri; infatti la fauna coeva, recentemente datata con il me-todo ESR, li ha posti tra i fra e i . anni fa (Swisher III et al., ).Si tratta di reperti quindi che sconfessano il modello evolutivo multi-regionale, secondo cui le forme di erectus sarebbero coinvolte nellosviluppo dei sapiens.

Rispetto alle forme arcaiche africane di ergaster, gli erectus asiaticimostrano un modernità più grande (faccia bassa e diritta, espansionedelle ossa parietali, capienza cranica notevole fino a . cc, occipita-le grande e arrotondato). Alcuni studiosi interpretano questa morfo-logia come sviluppo locale dell’erectus che in seguito avrebbe portato,secondo la teoria multiregionale, alle popolazioni asiatiche moderneattraverso forme di transizione rappresentate dai fossili suddetti (Wol-poff, ). Alcuni caratteri morfologici delle attuali popolazioni asia-tiche, quale la faccia piana, le alte ossa zigomatiche e la morfologia deidenti, sono stati interpretati come prova della continuità genetica frale popolazioni asiatiche del Pleistocene centrale e le popolazioni asia-tiche moderne. Al contrario, altri suppongono che le popolazioni più

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moderne (teoria monocentrica o dell’out of Africa) hanno migrato dal-l’Africa in Asia e avrebbero causato l’estinzione di erectus.

Ultimamente sono stati trovati a Dmanisi (Siblisi, Georgia) reper-ti umani indicanti una colonizzazione umana che ha coinvolto Europae Medio Oriente: crani e mandibole sono stati rinvenuti a partiredal .

Sono stati datati a circa , milioni di anni fa grazie al metodo diPotassio/Argon, basato su uno strato basaltico su cui riposavano iresti accompagnati da strumenti litici di tipo olduvaiano. Nono-stante la variabilità considerevole (in parte da habilis e in parte daergaster), i resti sono attribuiti ad Homo georgicus. Alcuni caratteriprimitivi, quali le dimensioni craniche simili a quelle di habilis fan-no supporre che georgicus derivi da forme africane di ergaster (Ga-bounia et al., ).

Nel è stato rinvenuto a Ceprano (provincia di Frosinone)un cranio incompleto forse dagli strati vulcanoclastici databili tra,-, milioni di anni fa. Recentemente è stata proposta per esso laspecie cepranensis (Mallegni et al., ): in effetti mostra i caratte-ri che lo separano da Homo erectus (frontale espanso, parietali late-ralmente verticali, toro frontale con inizio di separazione fra rilievosupraciliare e arco supraorbitario) (FIG. .).

Tali caratteri, assai moderni, lo collocano sulla linea evolutiva di sa-piens tramite rhodesiensis africano; nulla vieta di pensare un suo coin-volgimento nella formazione di Neandertal tramite l’heidelbergensiseuropeo (Aragona e Petralona).

Dalla Spagna occidentale provengono resti umani datati tra i e gli. anni da oggi (sito Gran Dolina di Atapuerca, vicino a Burgos).Sono stati considerati come una nuova specie, Homo antecessor, qualeantenato diretto dei neandertaliani e dei sapiens (Bermudez de Castroet al., ). I reperti su cui è stata diagnosticata la specie sono appar-tenuti a infanti, da qui il problema di questa definizione di specie.

Lo sviluppo umano in Europa durante il Pleistocene centrale èconfermato da un numero considerevole di resti fossili, datati nonsempre correttamente. I più antichi sono rappresentati dalla mandi-bola di Mauer, vicino a Heidelberg (Germania), nel ; altri fossili,come quelli trovati in Aragona, sui Pirenei francesi e a Petralona (Gre-cia) sono datati con incertezza.

Al giorno d’oggi la denominazione che li indica è heidelbergensis(Rightmire, ), definizione data dalla mandibola sopra citata. Ulte-

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FIGURA .Homo erectus=Sinantropus pechinensis (uno dei reperti rinvenuto nella Grotta diZhou-kou-dian, presso Pechino)

FIGURA .Il calvario di Ceprano=Homo cepranensis

riori fossili più recenti, Swanscombe (Inghilterra), Atapuerca (Sima delos Huesos in Spagna) e Steinheim (Germania), datati a circa -. anni fa, mostrano un numero maggiore di caratteri di pro-gressione (incipiente cranio sferoidale, inizio di faccia in estensione, al-lineamento dei denti anteriori, toro sopraorbitario quasi unico, iniziodello spazio retromolare ecc.). Si tratta di esemplari morfologicamen-te vicini ai futuri neandertaliani, per cui sarebbe logico chiamarli nean-dertaliani antesignani.

I neandertaliani precoci che seguono, adattati alle pressioni selet-tive della glaciazione del Riss, hanno tratto probabilmente vantaggiodal miglioramento climatico avvenuto fra e . anni da oggi percolonizzare zone prima non disponibili per la presenza delle barrieregeografiche (distese glaciali continentali).

Alcuni gruppi si sono spinti fino in Medio Oriente, dove hannosviluppato una morfologia particolare. Con la glaciazione ulteriore delWürm, l’Europa è di nuovo divenuta relativamente isolata. Le popo-lazioni neandertaliane, unico gruppo umano in Europa fino a .anni fa, popolano i territori europei specializzandosi nelle cacce e nel-l’alimentazione di tipo carnivoro. I caratteri morfologici sono: contor-no cranico rotondeggiante (visto dal dietro), faccia ad estensione, pon-te nasale alto, toro sopraorbitario continuo, occipite a “chignon” ca-ratterizzato dal solco sopriniaco, grande capacità cranica (media .cc), spazio retromolare e terzo molare visibile quando la mandibola èvista di lato. L’areale di diffusione non oltrepassa a oriente l’Uzbeki-stan e non penetra a sud nell’Africa.

In quest’ultimo continente, la tendenza evolutiva indicata dalla do-cumentazione fossile pleistocenica sembra condurre alla comparsadelle prime popolazioni con morfologia moderna. Queste forme afri-cane possono essere denominate rhodesiensis e, iniziando forse menodi . anni fa, cominciano a mostrare una morfologia differente epiù moderna, già presente in cepranensis. Esse sono: il cranio di Kabwe(Zambia, precedentemente Rhodesia), di Bodo in Etiopia, di Saldanhain Sud Africa, di Ndutu in Tanzania, di Salé a Rabat (Marocco). La lo-ro capacità cranica è notevole (fra . e . cc), l’altezza cranica èaumentata e l’espansione nella larghezza delle ossa parietali è sensibi-le, l’occipitale è arrotondato. La morfologia di questi fossili africanipleistocenici è tuttavia chiaramente distinguibile da quella dei fossilieuropei coevi (già decisamente avviati verso la morfologia neanderta-liana) così come da quella delle forme asiatiche di erectus.

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.Homo sapiens

È sempre in Sud Africa che compaiono le prime forme decisamentemoderne. I tratti morfologici che appaiono e che si conservano prati-camente inalterati fino ai nostri giorni sono i seguenti: cranio a voltaalta e piuttosto breve; osso frontale con andamento verticale o sub-verticale; parietali espansi, squama occipitale generalmente arroton-data e sprovvista di un toro evidente, capacità cranica variabile (.e . cc), faccia piuttosto appiattita e recessa rispetto alla porzionepiù avanzata del neurocranio, fossa canina evidente, regione sopraor-bitaria priva di toro continuo e comunque con certi tratti più svilup-pati negli individui di sesso maschile, con arcate sopraorbitarie in for-ma di due archi (con tuberosità sopraorbitaria e arco sopraccigliare se-parati da un’incisura sopraorbitaria), mandibola con mento ben ossi-ficato e priva di spazio retromolare.

Le principali autoapomorfie di sapiens sono globularità del neuro-cranio e retrazione della faccia (Lieberman et al., ). Valori di in-dice di globularità maggiori di , e valori di indice di ritrazione fac-ciale minori di , discriminerebbero l’uomo anatomicamente mo-derno dalle forme umane arcaiche.

La recentissima scoperta avvenuta ad Herto (Middle Awash, Etio-pia) di resti umani sufficientemente completi e dall’anatomia presso-ché moderna ma con alcune somiglianze con fossili africani più anti-chi (datati radiometricamente con convincente attendibilità a -. anni fa) (White et al., ; Clark et al., ), sembra daresempre più forza all’ipotesi di un’origine africana della nostra specie;con questi reperti si possono associare i fossili di Florisbad, Laetoli(Ngaloba, LH ), Guomde (KNM-ER e ) Omo Kibish II, Dar-es-Soltan e Jebel Irhound. A questi si aggiungono reperti ancoramorfologicamente più definiti verso il sapiens e sono: Omo Kibish I,Klaises Rivers Mouth e Border Cave (circa . BP). L’affresco chesi può tracciare, dall’analisi dei fossili africani, è quindi abbastanzachiaro nel delineare l’esistenza di una continuità regionale africanadella linea evolutiva che ha visto la definizione dell’anatomia della no-stra specie, ma lascia ancora molti punti interrogativi sui legami tas-sonomici che legano fossili dall’aspetto polimorfo che ritroviamo inAfrica (ma anche in Medio Oriente) fra circa e anni da oggi.I fossili di Herto, in particolare, forniscono prova dell’esistenza di un

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rappresentante della nostra specie dalle caratteristiche anatomichemoderne in un periodo cronologico compatibile con le stime possibi-li in base ai dati genetico-molecolari (Cann, ) ma non chiarisco-no la tassonomia e i legami filogenetici fra molti rappresentanti delgruppo polimorfico di fossili ascrivibile al Pleistocene medio e supe-riore africano. In particolare non possono chiarire se le diverse carat-terizzazioni morfologiche siano dovute solo alla diversa cronologia oa meccanismi evolutivi differenziati in diverse aree geografiche o auna combinazione di queste due.

A partire da . anni fa si assiste alla diaspora di sapiens dal-l’Africa e allora abbiamo i due siti di Skhul e di Qafzeh, in MedioOriente, che dimostrano il loro arrivo (Stringer, , ; Stringer,Trinkaus, ; Trinkaus, , , ; Vandermeersch, ).

Questi reperti sembrano essere i precursori diretti (protocroma-gnoniani) dei gruppi umani che invasero l’Europa circa . anni fa.Anche il resto del mondo in diversi periodi fu raggiunto da Homo sa-piens: in Cina (siti di Liujiang, di Laishui, di Zhou-kou-dian Upper Ca-ve); in Indonesia (siti di Wadjak) (Storm, ) a iniziare da . an-ni fa; così pure in Australia (Lake Mungo e Talgai ecc.) con datazioni ilprimo a ±. anni fa (Thorne et al., ) e il secondo a circa .anni (Brown, ). In America a partire da circa . anni fa.

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. L A F E N O T I P I A O S S E A N E L L A R I C O S T R U Z I O N E D E L L’E V O L U Z I O N E U M A N A

DNA ed evoluzione umanadi Gianfranco Biondi e Olga Rickards

.La nascita dell’antropologia molecolare

L’espressione “antropologia molecolare” è nata da un’invenzione diEmile Zuckerkandl, il quale la usò per la prima volta nell’estate del al convegno su La classificazione e l’evoluzione dell’uomo, orga-nizzato da Sherwood Washburn a Burg Wartenstein in Austria pressoil Centro conferenze europeo della Fondazione Wenner-Gren per laRicerca Antropologica (Washburn, ). Alla riunione, Zuckerkandlsostenne l’idea che le molecole fossero in grado di fornire informazio-ni utili sulla filogenesi esattamente come i fossili (Lewin, ), ma loscetticismo prevalse tra gli studiosi e solo Theodosius Dobzhansky sischierò a favore dell’importanza che le molecole avrebbero assunto ne-gli studi evolutivi (Biondi, Rickards, ).

La biologia sistematica ha finito poi per accettare il nuovo approc-cio, cioè lo studio molecolare dell’evoluzione, dato che questo si è di-mostrato estremamente utile per comprendere le relazioni evolutive trale specie; e in antropologia ha permesso di risolvere alcuni problemicruciali della nostra evoluzione: in particolare, le separazioni all’inter-no delle scimmie antropomorfe, compresa quella che ci ha diviso dagliscimpanzé, e l’origine dell’uomo moderno e i suoi rapporti filogeneticicon l’uomo di Neandertal. Ma l’antropologia molecolare è andata an-che oltre a ciò, perché ha definito dei modelli evolutivi che hanno per-messo di chiarire i rapporti tra i cambiamenti genetici e quelli anato-mici. Non sempre, infatti, il confronto tra i soli complessi morfologiciè in grado di individuare completamente le relazioni evolutive che le-gano le specie. E un esempio illuminante di ciò è rappresentato dai rap-porti filogenetici tra l’uomo e lo scimpanzé: nel comportamento e nel-l’anatomia assai diversi, ma geneticamente molto simili (Biondi,Rickards, , , ; Biondi, Martini, Rickards, Rotilio, ).

L’invenzione più straordinaria dello studio molecolare dell’evolu-zione è certamente quella dell’“orologio molecolare” elaborata nel da Linus Pauling ed Emile Zuckerkandl, i quali avevano osserva-to che quanto più le specie erano simili tanto più lo erano le loro pro-teine e di conseguenza le loro somiglianze genetiche. Era noto che lespecie figlie di un medesimo progenitore avessero all’inizio della lorostoria forme identiche di una certa molecola, in quanto copie di essa,e che da quel momento in poi le mutazioni inducessero cambiamentidifferenziali capaci di andarsi a sommare e che la variabilità osservatafosse direttamente proporzionale al tempo trascorso dal momento del-la divergenza. In pratica, il ritmo delle mutazioni – indipendente dal-l’ambiente in cui vivono gli organismi – scandisce la velocità alla qua-le si differenziano geneticamente i gruppi. Il problema quindi consi-steva nel riuscire a stabilire la velocità della divaricazione e ciò fu pos-sibile mutuando dalla paleontologia le date delle separazioni tra le spe-cie e dall’analisi genetica la quantità delle variazioni. A partire da que-sti dati è stato poi possibile calcolare il ritmo dell’accumulo dei cam-biamenti rapportandoli al tempo impiegato per realizzarsi. Grazie al-lo studio di una proteina, l’emoglobina, Pauling e Zuckerkandl sonoapprodati a un’idea che ha rivoluzionato il modo di indagare la storiadell’evoluzione organica (Biondi, Rickards, ).

.La filogenesi delle scimmie antropomorfe

Il DNA è entrato nella ricerca antropologica all’inizio degli anni Ot-tanta del XX secolo e grazie a Charles Sibley e John Ahlquist, due ri-cercatori interessati al problema della divergenza gorilla-scimpanzé-uomo. In particolare, la questione da chiarire riguardava proprio lemodalità attraverso cui la loro separazione si era realizzata: ovvero,se era avvenuta nello stesso momento o in momenti diversi. Nel pri-mo caso, infatti, da un tronco comune si sarebbero originate con-temporaneamente le tre linee evolutive, mentre nel secondo, glieventi si sarebbero succeduti nel tempo. Sibley e Ahlquist hanno ri-solto il caso ricorrendo alla tecnica dell’ibridazione del DNA, chepermette di valutare il grado di somiglianza totale dei genomi. Il DNA

di due specie viene posto in una provetta alla quale si fornisce l’e-nergia, per esempio calore, necessaria per rompere i legami chimiciche tengono uniti i due filamenti di ogni molecola e poi, una volta

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che si sia ottenuta una miscela di singoli filamenti dei due DNA, si to-glie via via energia in modo che si possano ricomporre molecole adoppio filamento. Nel corso di questo processo si verranno a forma-re delle molecole ibride, in cui i due filamenti appartengono alle duespecie. Successivamente si misura quanta energia si deve fornire alsistema per rompere le catene ibride, sapendo che quanto più sonosimili le specie, cioè quanto maggiore è il numero di basi condivise,tanto meglio i filamenti ibridi si appaieranno e tanto più forti risul-teranno i legami tra essi.

Il lavoro di Sibley e Ahlquist è consistito nel misurare il calore ne-cessario per rompere le molecole ibride di DNA delle coppie uomo-scimpanzé, uomo-gorilla e scimpanzé-gorilla. E in tal modo valutare ledifferenze genetiche tra le specie, che poi sono state convertite neitempi delle separazioni evolutive grazie all’orologio molecolare. Finoa quel momento, la maggior parte degli antropologi era convinta chela linea evolutiva umana si fosse separata molto anticamente dal tron-co scimpanzé-gorilla, addirittura oltre milioni di anni fa, e che que-ste specie fossero tra loro geneticamente più simili di quanto ciascunadi esse non lo fosse con l’umanità. Ma l’esito dell’esperimento dei ri-cercatori ha sovvertito il pensiero comune. Intanto, la divergenza tral’uomo e le antropomorfe africane non superava i - milioni di annifa e, inoltre, l’uomo e lo scimpanzé risultarono geneticamente più af-fini di quanto ciascuno di loro lo fosse con il gorilla. Il percorso evo-lutivo dei tre parenti, quindi, doveva essere stato del tutto diverso daquello immaginato e precisamente il gorilla si era distaccato per pri-mo, mentre uomo e scimpanzé avevano proseguito ancora insieme pri-ma di arrivare alla loro successiva divisione.

Nel corso degli anni successivi, l’enorme sviluppo delle biotecno-logie ha permesso di stimare in modo decisamente più accurato i tem-pi delle separazioni evolutive all’interno delle scimmie antropomorfe.I primi a staccarsi dal tronco comune sono stati i gibboni e i siaman-ghi circa milioni di anni fa, poi si è staccato l’orango circa milio-ni di anni fa, poi il gorilla circa milioni di anni fa e infine, circa mi-lioni di anni fa, si sono separati i due parenti più prossimi: l’uomo e loscimpanzé. Assai più recentemente, circa milioni di anni fa, lo scim-panzé ha subito una divergenza evolutiva interna che ha portato allanascita delle due specie tuttora viventi: lo scimpanzé comune (il Pantroglodytes) e lo scimpanzé pigmeo o bonobo (il Pan paniscus). E que-st’ultima specie è la più vicina a noi, non solo dal punto di vista gene-

tico, ma anche per quanto riguarda le abitudini comportamentali(Goodman, ; Goodman et al., ; Patterson et al., ).

Il lavoro di Sibley e Ahlquist ha permesso di risolvere uno dei casipiù controversi della storia dell’antropologia: la posizione tassonomicadel ramapiteco, un primate miocenico vissuto tra e milioni di annifa in oriente, dall’area indo-pakistana alla Turchia. Le sue prime testi-monianze furono rinvenute nel in un sito fossilifero dei montiSiwalik, nell’India settentrionale, da Edward Lewis e per lungo temposi era ritenuto che il ramapiteco fosse un antenato diretto dell’uomo, inquanto sembrava presentare una morfologia dell’arcata dentaria similealla nostra, cioè parabolica e non ad U come nelle antropomorfe, ma ladatazione molecolare lo ha allontanato dalla nostra filogenesi. E studianatomo-morfologici più approfonditi ne hanno fatto un antenato del-l’orango. Le supposte somiglianze con la linea evolutiva umana, infat-ti, erano dovute solo a un’errata ricostruzione della sua mandibola apartire dai frammenti fossili rinvenuti negli scavi archeologici.

.L’origine dell’uomo moderno

Fino agli anni Ottanta del secolo scorso, la nascita della nostra specieè stata spiegata dai paleoantropologi mediante due modelli. Quello“multiregionale” rifiutava la possibilità di ricondurre l’origine dell’u-manità moderna a un unico luogo e sosteneva, per contro, che in ognicontinente del Vecchio mondo i rappresentanti più antichi del genereHomo si fossero evoluti indipendentemente in noi sapiens (Thorne,Wolpoff, ). La prima formulazione di questo modello è stata sug-gerita nel da Franz Weidenreich ed è poi stata ripresa da MilfordWolpoff e Alan Thorne, che ne sono divenuti i paladini moderni(Thorne, Wolpoff, ; Wolpoff, ). L’ammissione che ogni formalocale di uomini pre-sapiens si fosse differenziata in sapiens nel corsodi oltre due milioni di anni equivaleva ad accreditare l’idea che l’uma-nità attuale fosse composta da specie diverse. Ma ciò non era assolu-tamente compatibile con il fatto, riconosciuto unanimemente daglistudiosi, che tutti noi costituiamo invece una sola specie e così i mul-tiregionalisti hanno introdotto nel modello una nuova variabile: unflusso continuo di geni tra le popolazioni dei diversi continenti cheavrebbe dovuto garantire un’evoluzione convergente verso la specieunitaria. Si deve notare, tuttavia, che la quantità di ibridazione neces-

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saria allo scopo era però troppo alta rispetto a ciò che si poteva rica-vare dalle numerose simulazione demo-ecologiche del passato effet-tuate in molti laboratori sparsi un po’ ovunque nel mondo.

Wolpoff e Thorne ritenevano che la serie di ominini fossili orienta-li avesse conservato una precisa continuità anatomica, i cui caratteri di-stintivi si sarebbero formati proprio al momento in cui la regione fu co-lonizzata dall’Homo erectus, circa milioni di anni fa (Ciochon, Larick,; Balter, Gibbons, ). Quegli antichi uomini rinvenuti nei sitiarcheologici di Giava possedevano ossa craniche assai spesse e arcatesopraorbitarie e denti molto voluminosi. Insomma, una costituzionecorporea massiccia che si sarebbe mantenuta inalterata fino al momen-to della comparsa degli uomini moderni. Anche l’Australia, la cui co-lonizzazione risale a . anni fa, poteva essere inserita nella conti-nuità morfologica dell’area indonesiana, perché i suoi fossili sembrava-no mostrare la gamma dei caratteri propri dei giavanesi, per quanto conalcuni tratti innovativi. E lo stesso si poteva dire per l’Asia settentrio-nale, sebbene la coerenza tra antico e moderno fosse stata garantita daun diverso aggregato di caratteri, ma con ciò fornendo, sempre secon-do Wolpoff e Thorne, un ulteriore sostegno al modello multiregionale.Nei reperti cinesi, difatti, sarebbe stato possibile evidenziare una graci-lità complessiva delle ossa, un appiattimento della faccia divenuta piùpiccola, un arrotondamento della fronte e una riduzione dello svilup-po dei denti. Le antiche popolazioni della Cina e dell’Indonesia, quin-di, avrebbero mostrato l’intera gamma di variabilità che oggi riscon-triamo tra le popolazioni che vanno dal nord dell’Asia all’Australia.Quelle che erano considerate le prove inconfutabili della continuitàmorfologica rilevata nelle due regioni asiatiche sembravano definitive,e in più David Frayer si era venuto convincendo che fosse possibile rin-tracciare la continuità anche in Europa, dove molti caratteri neander-taliani sarebbero passati immutati nei sapiens europei.

La comunità dei paleoantropologi interpreta oggi in tutt’altro mo-do i tratti morfologici portati a sostegno del modello multiregionale.Molte delle fattezze considerate peculiari della continuità asiatica, in-fatti, non testimonierebbero altro che il percorso evolutivo condivisodai rappresentanti più arcaici del nostro genere: saremmo cioè in pre-senza solo di caratteri antichi che si sono mantenuti inalterati. Il dise-gno evolutivo continuista non è riuscito a superare l’esame della verifi-ca sperimentale e si può concludere che le prove morfologiche non so-stengono affatto quel modello della nostra origine (Lahr, Foley, ).

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FIGURA .Sopra: modello dell’evoluzione multiregionale, secondo il quale i caratteri dell’uomoattuale nei vari continenti sarebbero stati ereditati dagli uomini più antichi che visse-ro in ognuno di essi. La nostra unità genetica deriverebbe dall’elevato flusso genicotra i vari gruppi. Sotto: modello dell’origine africana recente (out of Africa), secondoil quale le specie antiche di Homo in Asia, Australia ed Europa furono soppiantatedagli uomini moderni immigrati dall’Africa (da Biondi, Rickards, ).

Il modello alternativo, denominato “fuori dall’Africa”, è statoproposto nel da Christopher Stringer e Paul Andrews. Per i duestudiosi, noi eravamo nati in Africa intorno a . anni fa e latransizione dalle forme arcaiche a quelle attuali aveva avuto luogo so-lo in quel continente e come conseguenza di una speciazione pun-tiforme. Ecco allora che, essendo i sapiens una specie distinta, nonsarebbe stato possibile alcun incrocio con le linee più antiche di Ho-mo che ancora sopravvivevano nel Vecchio mondo. Gli uomini at-

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tuali, insomma, dopo essere migrati dall’Africa verso l’Asia e l’Euro-pa avrebbero finito per sostituire completamente le forme localipreesistenti, tra cui i neandertaliani che vivevano in Europa, in Me-dio Oriente e nella parte più occidentale delle terre asiatiche. Nep-pure l’idea dell’evoluzione monocentrica, però, era originale e re-cente, essendo stata proposta già nel da William Howells con ilnome di modello “dell’Arca di Noè”.

.Il DNA mitocondriale

Il DNA più utilizzato negli studi sull’evoluzione umana è stato quellomitocondriale. Si tratta del DNA presente nei mitocondri del plasmacellulare ed è costituito da una molecola a doppia elica, circolare echiusa, lunga solo . bp (coppie di basi); e contiene appena ge-ni con poche sequenze non codificanti. L’mtDNA (DNA mitocondria-le) è presente in ogni cellula in un numero di copie che va da centi-naia a migliaia e ciò implica che, a differenza di quanto avviene coni geni nucleari di cui si hanno solo due copie, c’è una notevole pro-babilità di trovare qualche molecola di mtDNA intatta anche in cam-pioni di tessuto fortemente degradato. L’mtDNA è ereditato per viamaterna, senza ricombinazione, ed evolve quindi solo per accumulodi mutazioni nel corso del tempo. Inoltre, l’mtDNA evolve in mediada a volte più velocemente dei geni del DNA nucleare di fun-zione comparabile e può essere considerato, pertanto, un orologiomolecolare con un battito accelerato. Queste due caratteristiche lorendono lo strumento ideale per studiare le relazioni antenato-di-scendente nelle popolazioni umane, che si sono diversificate evoluti-vamente in tempi assai recenti, senza l’interferenza di quel fenome-no che interviene con le ricostruzioni basate sui geni nucleari: cioè,il rimescolamento a ogni generazione dei patrimoni genetici maschi-le e femminile.

.Nel DNA la soluzione del problema

A metà degli anni Ottanta, sempre dello scorso secolo, si sono inse-riti nella disputa tra multiregionalisti e sostenitori del modello “fuo-ri dall’Africa” gli antropologi molecolari Rebecca Cann, Mark Sto-

neking e Allan Wilson. Il problema che dovevano risolvere riguar-dava le parentele che era possibile ricostruire tra le diverse popola-zioni attuali di Homo sapiens a partire dalla loro variabilità genetica.Gli antropologi molecolari potevano contare, in quegli anni, sul no-tevole progresso tecnico che si era verificato nelle biotecnologie eche aveva reso possibile l’analisi diretta del DNA, sebbene con pro-cedimenti ancora laboriosi. Alla base di quell’esame c’era stata lascoperta di una particolare classe di enzimi, le endonucleasi di re-strizione, che hanno la capacità di riconoscere alcune cortissime se-quenze di basi e di tagliare in loro corrispondenza la doppia elica.Per ricostruire il percorso genealogico della nostra specie, gli stu-diosi hanno analizzato nel il DNA mitocondriale di soggettiprovenienti da ogni continente con enzimi di restrizione e hannoottenuto linee mitocondriali diverse (Cann, Stoneking, Wilson,). E dal momento che il DNA mitocondriale è di esclusiva originematerna, l’albero filogenetico disegnato con le diverse linee non rap-presentava altro che l’evoluzione dell’umanità al femminile. Il den-drogramma si suddivideva in due rami principali: uno composto so-lo da alcuni tipi mitocondriali africani e l’altro da tutti i rimanenti,riuniti in più gruppi, o cluster, che comprendevano anche gli africa-ni non considerati prima. La topologia dell’albero metteva in evi-denza che l’antenata dell’uomo moderno era africana e che i suoi di-scendenti, cioè le linee mitocondriali africane finite nei cluster nonafricani, avevano poi conquistato il resto del mondo e dato originealle popolazioni locali.

Lo studio aveva anche messo in evidenza che durante il processodi espansione l’uomo moderno non si era incrociato con nessuna po-polazione autoctona, ovvero con nessun gruppo di uomini che primadei sapiens aveva lasciato l’Africa per migrare nel resto del Vecchiomondo. Altrimenti, il contributo di questi ultimi al patrimonio gene-tico dei sapiens si sarebbe manifestato in forma di tipi mitocondrialipiù antichi e pertanto più divergenti, e in tal modo l’albero avrebbepresentato delle diramazioni che si staccavano prima di quella africa-na. In definitiva, una topologia del tutto diversa, non più con due macon una serie di percorsi principali, nella quale i rami supplementariavrebbero costituito la testimonianza delle mutazioni che gli uominiarcaici avevano tramandato a quelli moderni. I pre-sapiens, infatti, sierano evoluti alcune centinaia di migliaia di anni prima e avevano avu-to molto tempo per accumulare mutazioni che avrebbero aumentato

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la variabilità genetica di noi moderni, se ci fosse stato incrocio. L’etàdell’antenata comune di tutta l’umanità attuale fu stimata tenendoconto che l’orologio molecolare batteva con una velocità media paria un accumulo di mutazioni del -% per milione di anni. E quel tic-chettio, applicato alle differenze genetiche osservate, indicò .-. anni fa.

Grazie alla scoperta della reazione della polimerizzazione a cate-na o PCR, alla fine di quegli anni Ottanta è stato poi possibile deter-minare direttamente la sequenza in basi del DNA. Finalmente si po-teva leggere l’informazione biologica contenuta nella successionedelle quattro molecole che spiegano la vita e il gruppo di Wilson haripetuto l’esperimento utilizzando la nuova tecnologia. E senza sor-presa, i risultati sono stati convalidati. In particolare è stata analiz-zata la regione di controllo “D-loop” del DNA mitocondriale, che èipervariabile e quindi è la più idonea per datare eventi evolutivi vici-ni nel tempo. In essa le mutazioni si accumulano a un tasso pari all’-% per milione di anni e così la quantità di variabilità trovata nellanostra specie, circa il %, ha indicato ancora una volta che l’antena-

FIGURA .Rappresentazione schematica dell’albero filogenetico costruito da Rebecca Cann e daisuoi colleghi dell’Università di Berkeley a partire dai dati del DNA mitocondriale. Le re-lazioni evolutive tra i diversi tipi mitocondriali testimoniano la nostra origine recente eafricana e confutano l’ipotesi multiregionale (da Biondi, Rickards, )

ta era vissuta tra . e . anni fa (Vigilant et al., ). Lagiovanissima età dei sapiens, la loro origine africana e la successivasostituzione in tutto il Vecchio mondo delle specie più antiche di uo-mini è stata convalidata in seguito anche dagli studi sul DNA nuclea-re, compreso quello del cromosoma Y che racconta l’evoluzione almaschile. E finalmente è stato possibile concludere che il multire-gionalismo non ha retto alle prove sperimentali fornite dall’antropo-logia molecolare.

.Non discendiamo dai neandertaliani

Il modello multiregionale prevedeva una trasformazione graduale del-l’umanità – a partire dalle prime forme di Homo che erano migratefuori dall’Africa circa milioni di anni fa – verificatasi durante tutto ilPleistocene in ogni continente del Vecchio mondo. In Africa, l’uomoattuale si sarebbe evoluto direttamente dall’Homo ergaster; in Asia,dall’Homo erectus; e in Europa, dall’Homo heidelbergensis e dall’Ho-mo neanderthalensis. Questa ipotesi, come abbiamo visto, è stata falsi-ficata da Rebecca Cann, Mark Stoneking e Allan Wilson, che hannodimostrato inequivocabilmente come la nostra origine fosse recente eafricana. Tuttavia, i loro esperimenti non sono stati giudicati dirimen-ti per escludere che i sapiens si fossero incrociati con gli uomini diNeandertal una volta giunti in Europa e quindi che noi e loro non fos-simo altro che due sottospecie della stessa specie: Homo sapiens nean-derthalensis e Homo sapiens sapiens. L’unico modo per far luce sullaquestione era legato all’analisi del DNA di quegli antichi ominini: unapossibilità che ormai era presente nel bagaglio tecnico degli antropo-logi molecolari.

La storia del DNA antico (aDNA) ha avuto inizio in Cina nel ,quando alcuni studiosi sono riusciti a recuperare dei frammenti diacido nucleico da una mummia di . anni. Successivamente, ver-so la fine di quel decennio, Erika Hagelberg e Satoshi Horai hannoamplificato con la PCR dei tratti di DNA estratto da ossa antiche e aquel punto si erano coagulate le condizioni per affrontare la doman-da antropologica relativa al nostro rapporto genetico con l’uomo diNeandertal. Il DNA di elezione usato nelle analisi sui fossili è quellomitocondriale, perché è semplice da studiare – trasmettendosi pervia materna e quindi senza ricombinazione – ed è presente in ogni

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cellula in migliaia di copie. E quest’ultima caratteristica è di estremaimportanza, in quanto dopo la morte di un individuo e con il passa-re del tempo il suo DNA tende a degradarsi, cioè a rompersi in piccoliframmenti, ed è evidente allora che se ce ne sono più copie aumentala probabilità di trovare alcuni tratti sufficientemente lunghi per es-sere studiati. L’unico svantaggio insito nell’mtDNA, se così si può di-re, riguarda il fatto che ci permette di ricostruire l’evoluzione sololungo la via materna (Rickards, ; Rickards, Martínez Labarga,, ).

A partire dalla fine degli anni Novanta dello scorso secolo, SvantePääbo e poi altri ricercatori hanno studiato alcune sequenze di mtDNA

di diversi reperti neandertaliani, compreso quello famoso rinvenutonella Valle di Neander vicino Düsseldorf nel e che ha dato il no-me alla specie. I risultati di tutti gli esperimenti sono stati concordan-ti e hanno dimostrato che quella forma è estranea alla nostra specie(Biondi, Rickards, ). La variabilità genetica dei neandertaliani, in-fatti, si posiziona completamente al di fuori di quella dell’umanità mo-derna. L’ulteriore conferma dell’estraneità dell’uomo di Neandertal ri-spetto a noi è venuta dagli studi effettuati sui resti dei sapiens antichi,che hanno indicato come non ci sia alcun salto genetico tra loro e noi;mentre la loro differenziazione genetica rispetto ai neandertaliani èdella stessa grandezza di quella già segnalata per l’umanità attuale(ibid.; Tarsi et al., ).

L’uomo moderno, possiamo concludere, né discende dai neander-taliani né si è incrociato con essi: noi siamo Homo sapiens e loro sonostati Homo neanderthalensis, una specie che si è estinta poco meno di. anni fa senza lasciare prole. I neandertaliani, insomma, sonostati un ramo secco dell’evoluzione.

Relativamente alla questione neandertaliana, una notizia davverointeressante è stata riportata sul numero di “Nature” del maggio. Il gruppo di Svante Pääbo, infatti, ha comunicato al convegnosu Biology of Genomes, tenutosi presso il Cold Spring Harbor Labo-ratory di New York, di aver sequenziato circa un milione di coppie dibasi del DNA nucleare estratto dal reperto neandertaliano rinvenutonella Grotta di Vindija, in Croazia. Quello appena compiuto è il pri-mo passo del “Progetto genoma neandertaliano”, che Pääbo ha ini-ziato nel e che consentirà in un futuro non troppo lontano di po-ter confrontare i nostri geni con quelli dell’ominino estinto e di far lu-ce così su tempi e modi dell’origine di malattie e tratti anatomo-morfo-logici peculiari.

.Il popolamento del mondo

Le indicazioni molecolari sulla migrazione della nostra specie dal-l’Africa verso gli altri continenti ci portano indietro fino a circa.-. anni fa e individuano nel Corno d’Africa il punto dipartenza. La rotta seguita dai nostri antenati in cammino verso l’O-riente è stata tracciata lungo le coste dell’Arabia, dell’Iran, del Paki-stan e dell’India, e poi ancora oltre fino alle isole del Pacifico. In Au-stralia e in Nuova Guinea, i primi sapiens sono giunti circa . an-ni fa, mentre la colonizzazione del Pacifico non va oltre i . annifa e quella della Nuova Zelanda risale a solo anni fa. Anche laprima colonizzazione dell’Europa è recente, risalendo a circa .anni fa, ma è solo con la fine dell’ultima glaciazione (quella diWürm), e quindi attorno a . anni fa, che la nostra espansioneha raggiunto anche le terre più settentrionali. Di particolare interes-se, per l’Europa, è stata la migrazione dal Medio Oriente di popolineolitici (una fase culturale compresa tra . e . anni fa), chehanno portato nel nostro continente le pratiche agricole. L’ultimagrande area geografica ad essere popolata dall’uomo è stata l’Ameri-ca, dove l’Homo sapiens – e prima di lui nessun’altra specie vi era maigiunta – è arrivato dalla Siberia attraverso lo stretto di Bering, vero-similmente lungo una rotta costiera e in un periodo compreso tra. e . anni fa.

.Il popolamento antico dell’Italia

L’analisi del DNA delle antiche popolazioni italiane ha messo in evi-denza una notevole somiglianza tra le sequenze paleolitiche e quelleneolitiche, il che lascia supporre una continuità genetica nei popoli delnostro paese, sostenuta anche dall’analisi scheletrica. Il significato ditale continuità è particolarmente suggestivo, perché dimostrerebbecome nelle prime fasi del processo di neolitizzazione la componentearcaica della popolazione italiana fosse decisamente cospicua se nonaddirittura intatta: la transizione neolitica, quindi, si sarebbe innesta-ta sulle vecchie tradizioni in modo da cambiare gli aspetti culturali an-tichi, ma almeno all’inizio non quelli biologici. Inoltre, ulteriori studicondotti su reperti più recenti, che coprono l’arco temporale che va

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dal Bronzo antico al Rinascimento, hanno permesso di inquadrare lapopolazione italiana nel contesto genetico europeo e mediterraneo. Inparticolare è risultata notevole l’influenza genetica dei popoli del Me-diterraneo orientale e del Medio Oriente sulle genti stanziate nelle re-gioni meridionali della penisola, in armonia con la descritta continuitàdei rapporti culturali e commerciali che si sono instaurati tra le duearee geografiche fin dall’età del Bronzo (Tarsi et al., ).

.Le antropomorfe africane nel genere Homo

Le varie stime della somiglianza genetica uomo-scimpanzé concorda-no su valori decisamente elevati, e quella del gruppo di Morris Good-man del ha fissato tale affinità a un valore compreso tra ,% seconsideriamo le variazioni sinonime – quelle in cui una base di una tri-pletta è rimpiazzata da un’altra che però fa riconoscere il medesimoamminoacido – e ,% se invece si considerano quelle non-sinonime– che determinano le sostituzioni amminoacidiche nelle proteine. Tan-ta “uguaglianza” genetica – confermata pure dal confronto tra il no-stro genoma e quello dello scimpanzé, di cui abbiamo attualmente lasequenza completa (The Chimpanzee Sequencing and Analysis Con-sortium, ) – ha suggerito a Goodman non solo di ridurre lo spa-zio tassonomico tra l’uomo e l’antropomorfa africana, ma anche di ac-coglierla nel nostro stesso genere Homo, che così si troverebbe a esse-re costituito, oltre che dalla specie Homo sapiens, anche da altre duespecie: Homo troglodytes, o scimpanzé comune, e Homo paniscus, oscimpanzé pigmeo o bonobo.

Il riordino della tassonomia di alcune scimmie antropomorfe,Goodman lo aveva già anticipato in due occasioni nel . Prima alDual Congress tenutosi in Sud Africa e successivamente sulla rivista“Molecular Phylogenetics and Evolution”, dove aveva asserito: «Pane Homo sono gruppi fratelli per i quali è stato stimato che l’ultimo an-tenato comune risalga a milioni di anni fa. Così per il principio del-l’equivalenza con altri cladi di primati della stessa età, Pan e Homo do-vrebbero essere trattati come sottogeneri di Homo». E la stessa con-vinzione era stata espressa anche da Jared Diamond nel nel libroIl terzo scimpanzé. Decisamente oltre si è spinta invece Elizabeth Wat-son, che sempre al Dual Congress aveva suggerito di includere in Ho-mo anche il gorilla. Per la Watson, infatti, nel nostro genere dovreb-

bero trovare posto entrambe le antropomorfe africane, con i nomi Ho-mo gorilla per il gorilla e Homo niger per gli scimpanzé. La studiosa hariunito gli scimpanzé in un’unica specie e non l’ha denominata tro-glodytes, bensì niger, dato che il primo nome era già stato usato per unorango nel da Christianus Emmanuel Hoppius.

Nel rapporto uomo-scimpanzé, il preconcetto ideologico è tradi-zionalmente prevalso sui risultati scientifici, e ciò per almeno quattrosecoli, dato che già nel Seicento era evidente quanto fosse straordina-ria la somiglianza organica dell’antropomorfa africana con noi. Eppu-re, per riuscire a inserire con successo la relazione biologica tra l’uo-mo e lo scimpanzé nella giusta collocazione naturalistica è stato ne-cessario attendere la fine del Ventesimo secolo, e Morris Goodman. Esi può notare come tale relazione ricalchi quella suggerita da CarloLinneo nel Settecento. Infatti, per il padre della biologia moderna, co-me risulta da una lettera indirizzata nel a Johann Georg Gmelin,l’uomo avrebbe potuto essere chiamato scimmia o, al contrario, lascimmia avrebbe potuto essere chiamata uomo, ma lui non ha ritenu-to saggio giungere a tanto e nel suo Systema Naturae del si è limi-tato, si fa per dire, a inserire tutti nello stesso ordine. Una prudenzanon eccessiva, quella di Linneo, se si pensa che in quell’epoca il pote-re degli ecclesiastici era immenso, e immensa era anche la loro fasci-nazione per il fuoco. Tuttavia, oltre alla nostra, Linneo si è preso la li-bertà di inserire nel genere Homo anche un’altra ben strana specie:l’Homo nocturnus, che altri non era se non l’orango.

Una volta che allo scimpanzé – e forse anche al gorilla – sarà rico-nosciuta la propria dimora nel genere Homo sarà giocoforza cambiarenome a tutta la prima parte della serie dei nostri antenati. La succes-sione fossile della sottofamiglia degli ominini entrerà al completo inHomo e tutte le forme che attualmente compongono il cespuglio del-la nostra evoluzione e che sono estranee a quel genere – e che ora co-stituiscono i generi Orrorin, Ardipithecus, Kenyanthropus, Australo-pithecus e Paranthropus – si ridurranno al rango tassonomico di sem-plici specie.

Di seguito si riporta la tassonomia classica della sottofamiglia degliominini (in parentesi l’eta della specie e la nuova denominazione).– Genere Orrorin: Orrorin tugenensis ( ma, Homo tugenensis);– genere Ardipithecus: Ardipithecus kadabba (, ma, Homo kadab-ba), Ardipithecus ramidus (, ma, Homo ramidus);

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– genere Australopithecus: Australopithecus anamensis (-, ma, Ho-mo anamensis), Australopithecus afarensis (- ma, Homo afarensis),Australopithecus africanus (-, ma, Homo africanus), Australopithe-cus bahrelghazali (,- ma, Homo bahrelghazali), Australopithecusgarhi (, ma, Homo garhi);– genere Kenyanthropus: Kenyanthropus platyops (, ma, Homoplatyops);– genere Paranthropus: Paranthropus aethiopicus (, ma, Homoaethiopicus), Paranthropus boisei (,-, ma, Homo boisei), Paranthro-pus robustus (- ma, Homo robustus);– genere Homo: Homo rudolfensis (,-, ma), Homo habilis (,-,ma), Homo ergaster (,-, ma), Homo georgicus (, ma), Homo erec-tus (,-, ma), Homo floresiensis (. anni), Homo antecessor(. anni), Homo cepranensis (. anni), Homo heidelbergen-sis (.-. anni), Homo neanderthalensis (.-.anni), Homo sapiens (da . anni).

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FIGURA .Albero filogenetico degli ominini (in milioni di anni)

H. sapiens H. cepranensis

A. bahrellghazali H. habilis A. garhi H. neanderthalensis

K. platyops H. rudolfensis H. antecessor Ar. kadabba Ar. ramidus H. georgicus H. heidelbergensis

A. afarensis O. tugenensis H. ergaster

A. anamensis H. floresiensisH. erectus

A. africanus P. boisei

P. aethiopicus P. robustus

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Lettere degli antenati. Antropologia, genealogia, genetica

di Pier Giorgio Solinas

.Re e radici

Qualche tempo fa, sulle pagine della rivista elettronica di “NationalGeographic”, è apparsa la notizia d’una scoperta, fatta da un gruppodi biologi del Trinity College di Dublino, ripresa dalla rivista statuni-tense di genetica “American Journal of Human Genetics”, la più im-portante, credo, in questo campo. La scoperta era annunciata con untitolo suggestivo: Millions of Men May Be Descended From Irish King.Milioni di uomini potrebbero essere discendenti d’un antico re irlan-dese, un re leggendario che sarebbe vissuto . anni fa, che avrebbefondato una dinastia e nello stesso tempo popolato con la sua proge-nie il paese. Questo re antenato – si chiamava Niall – è considerato unpo’ come l’eroe fondatore della nazione; fu capace di opporsi ostina-tamente e abilmente ai conquistatori romani, e riuscì a mettere le basidi uno Stato irlandese, se non di una specie di impero.

Non tutti gli storici sono convinti che alla leggenda corrispondanodei fatti veri, così come l’epopea li tramanda, anzi, sembra che alcunidubitino perfino che questo re sia davvero esistito. I biologi del TrinityCollege, al contrario, ne sono persuasi. Anzi, pensano di averne dimo-strato la verità storica frugando nell’archivio biologico ch’egli avrebbelasciato dietro di sé: l’eredità genetica trasmessa generazione dopo ge-nerazione nei cromosomi dei suoi dodici figli (così dice la leggenda:Niall non solo era un conquistatore, era un vigoroso fecondatore), epoi ai nipoti, ai pronipoti, lungo quindici secoli, vale a dire, più o me-no, cinquanta o sessanta generazioni (Moore et al., ).

La quantità di persone che oggi risulterebbero discendenti da questostraordinario progenitore è spettacolare, qualcosa come due o tre milio-ni di individui, una parte consistente dell’intera popolazione irlandese.

Un altro re, anzi un imperatore, Gengis Khan, è stato chiamato incausa come prolifico generatore di numerosa stirpe, su una scala mol-to maggiore. Anche in questo caso, le prove della discendenza di mi-lioni di uomini dall’antenato-sovrano sono principalmente biologiche,nient’altro che i messaggi genetici trasmessi attraverso un’immensa ge-nealogia che si propaga, dal capostipite imperiale, vissuto nel XIII se-colo, fino alla sua “progenie” attuale (Zerjal et al., ). Non diversa-mente da quel che accade nel caso dell’“egemonia gaelica”, anche quiil lignaggio diventa popolo, benché su una scala geografica e demo-grafica molto maggiore. La durata, in termini di generazioni e di anninon è molto diversa (sette o otto secoli), ma lo spazio appare enorme-mente dilatato rispetto al caso irlandese. Un intero continente: qual-cosa come diecimila chilometri di larghezza e altrettanti di lunghezza,definiscono il teatro biologico e demografico d’una storia geneticad’ampiezza inusitata. In questo teatro, in effetti, il grande e il piccolosi congiungono. Ogni singolo individuo custodisce in ognuna delle suecellule, l’eredità dei caratteri trasmessa lungo i secoli; una specie di sto-ria incarnata nella singola persona. Al tempo stesso, è la storia che con-giunge in una specie di parentela invisibile, ma profonda, milioni diuomini. Non importa che siano o appaiano etnicamente differenti:azeri, uzbeki, han (l’etnia oggi prevalente in Cina), oppure coreani, oanche giapponesi. Quel che la traccia biogenetica assicura è che tutticondividono dei tratti distintivi, che tutti incarnano in qualche modol’identità-archetipo del lontano progenitore, fondatore di imperi e ge-neratore di popoli.

Discuteremo fra poco come e fino a che punto i biologi molecola-ri accertano questo tipo di discendenza condivisa e, soprattutto, qua-le sia il vero significato che le si può attribuire. Prima, però, è il casodi fare qualche altro esempio, stavolta su terreni meno empirici, dicia-mo simbolici.

Faremo una digressione, molto indietro nel tempo, un tempo,per dir così, “delle origini”. Il più avo di tutti, il più sacro e il più ric-co di progenie, evidentemente, è Adamo. Simbolo mitico della fe-condità fondatrice, riflesso del potere creatore, Adamo incarna la fi-gura del progenitore primario, il padre comune al quale, risalendopasso passo nella catena degli ascendenti, alla fine tutte le genealo-gie si ricongiungono. Libera da impegni di fede o da vincoli creazio-nisti, anche la scienza finisce per imbattersi in questo personaggio,magari sotto mentite spoglie. La trasfigurazione più importante è

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quella che ricorre, negli studi di biologia evolutiva, nell’acronimo diMRCA (most recent common ancestor, l’antenato comune più recente).Naturalmente, al posto di Adamo c’è semplicemente un vertice dicoalescenza, una figura del tutto ipotetica (più spesso c’è una “Eva”,o qualcosa del genere). In ogni caso, un nome convenzionale che siusa per evocare, appunto, la figura d’un fondatore superinclusivo, ilprogenitore di tutti i progenitori.

Il paradosso di Adamo, o del suo corrispondente scientifico, con-siste nel possedere al tempo stesso la qualità di “primo”, ossia più lon-tano, e ultimo, ossia più recente: è il più lontano fra i most recent an-tenati del genere umano. D’altra parte, la sua peculiare natura di pro-genitore necessario, di nodo genealogico che la stessa catena generati-va porta alla luce quando si percorre nella sua interezza, fa sì ch’eglisia, per dir così, unico e plurimo. Scendendo nella ramificazione digruppi e sottogruppi, i fondatori di sottoprogeniture si moltiplicano,replicano la missione del primo. Padri, generatori e virtuali antenatiaspirano a una sorta di dominio nella genealogia dell’intero genereumano. Una fertilità patriarcale che ha la virtù di propagarsi, ignoran-do, se non censurando, la fecondità materna.

Un’iconografia ingenua, non meno che enigmatica, accompagnaquesti motivi nel corso dei secoli, nutrendosi di simbologie bibliche,cristiane, di allegorie vegetali e di metafore corporee (“tronco”, “radi-ci”, “rami”, ma anche “testa”, “braccia”).

Nella FIG. . è riprodotta una delle tante immagini (un’incisio-ne in un libro di preghiere del Trecento) del motivo della verga diJesse, o Albero di Jesse. In questa versione è raffigurato l’albero ge-nealogico di Davide, da cui nasce Maria, madre di Gesù, a partireda un antenato lontano, Jesse, appunto, che compare qui come ungran vecchio adagiato alla base del grande albero della sua discen-denza.

Ciò che vorrei far notare qui non è tanto l’espansione della di-scendenza – che, anzi, viene contenuta entro la logica selettiva d’unastirpe ristretta: è una sorta di dinastia – quanto l’immagine, direi qua-si un concetto reso materiale, fisicamente consistente, di corpo che di-venta albero, di capostipite che si fa progenie. Come si vede, il troncodella stirpe è una propaggine del corpo del fondatore, verrebbe quasida dire che, radicato com’è nell’inguine, o nei lombi, dell’avo, raffigu-rato in posizione semisdraiata, alla stregua d’un soggetto di natività,voglia suggerire l’idea d’una generazione perenne, da seme maschile,

. L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A, G E N E A L O G I A, G E N E T I C A

lungo una catena di successori in cui il progenitore si perpetua molti-plicando le sue filiazioni consecutive.

Se vi fossero dubbi sul significato, diciamo, viscerale del concettodi continuità riproduttiva tra il corpo del fondatore e la sua emana-zione vitale nell’albero dei discendenti si potranno consultare innu-merevoli altre raffigurazioni, in cui, con minori ambiguità, ciò che fudenominato virga Iesse, che si fa tronco e poi si ramifica, affonda le sueradici, semplicemente, nell’inguine della figura ancestrale primaria

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FIGURA .L’Albero di Jesse, da un libro d’ore del sec. XIV, Ed. R. , Bibl. Riccardiana, Firenze

. Lo schema iconografico non riguarda solo le genealogie propriamente intese. Chri-stiane Klapisch-Zuber, nel suo L’ombre des ancêtres (Klapisch-Zuber, ), riproduce lafigura dell’Albero domenicano (Bale o Strasburgo) del , nel quale il corpo disteso delfondatore (san Domenico) figura come sorgente d’una estesa discendenza spirituale. Dal-la veste aperta sull’addome sorge il tronco che si dirama nei molti rami secondari dell’or-dine religioso. L’autrice riconduce questa imagine al motivo della virga Iesse, una remini-scenza ripresa dalla tradizione biblica e trasformata in raffigurazione ricorrente: il germo-glio vegetale dal corpo del capostipite.

(cfr. in Manna, , una quantità di esempi, fino a quello, per noi for-se più leggibile, del dipinto di Matteo da Gualdo del , nel qualel’antenato sdraiato è Adamo e l’albero si erge letteralmente dal sesso).

Che cosa si ricava da questo simbolo di identità corporea albero-progenitore? Innanzi tutto, ripeto, il fatto che la vita acquista, per ope-ra della metafora vegetale, il carattere d’una permanenza, sempre pre-sente e, in un certo senso, senza morte. I fondatori e i successori fannoparte dello stesso albero, un albero che vive dalle radici alle foglie. Que-st’albero è sì una mappa del tempo, nel senso che i successori e i prede-cessori sono messi in fila, secondo un ordine coerente di precedenza, maè anche la carta sinottica d’uno svolgimento che mantiene i padri e i fi-gli in una specie di eterna simultaneità o, quanto meno, di coevità.

In secondo luogo, la generazione unilineare, se non unisessuata.Le espressioni che ho usato finora, “fertilità patriarcale”, “capostipi-te che si fa progenie”, possono aiutare solo a introdurre, imperfetta-mente, un motivo simbolico e insieme formale, sul quale dovremoconcentrare un po’ la nostra attenzione. Di che si tratta? Dire che l’al-bero mitico censura la discendenza in linea femminile può essere unmodo per rappresentare la questione: non ci sono madri, non c’è Evae non vi sono neppure le madri intermedie. Ma, fino a che punto? Sipuò immaginare sul serio che, dietro queste immagini, ci sia una con-cezione della discendenza che cancella la maternità? Che si pensassela storia del genere umano come un’arborescenza in cui gli uomini na-scono da uomini?

Basti, per ora, porre la questione: è già molto. Sarebbe difficile di-mostrare che, sì, in fin dei conti gli uomini del Medioevo pensavanoche quella che contava fosse la paternità (che fosse il padre a portarel’identità, la vera forma del figlio) o, magari, che pur sapendo benissi-mo come stavano le cose cercavano semplicemente di appropriarsi“ideologicamente” del potere di progenitura, oscurando il ruolo dellafecondità femminile.

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. D’altra parte, quella della maternità non è la sola censura che il paradigma virga Ies-se si porta dietro. Di fatto, tacitamente, scarta anche tutte le paternità concorrenti che, dinorma, compongono un ordinario albero di ascendenza. I discendenti di ogni piccolo ogrande Adamo che s’incontra nelle genealogie della tradizione occidentale tracciano cate-ne di successione a un solo posto, che non lascia spazio alle altre linee: dei quattro bisnon-ni che, di norma, dovrebbero essere annoverati (FFF, FMF, MFF, MMF) tre vengono omessi.La selezione, a questo livello, sacrifica i tre quarti delle linee ancestrali convergenti.

Quel che più ci interessa è il fatto che, in definitiva, non solo siastato possibile costruire un’immagine selettiva della parentela, coe-rente ed efficiente, ma che questa abbia potuto conservarsi fino a og-gi come paradigma dominante nella coscienza genealogica comune.

.Parentele elettroniche, comunità biologiche

Facciamo di nuovo un gran salto, di nuovo ai nostri giorni. Lasciamole origini e il Medio Evo e veniamo alle pratiche della parentela mo-derna, anzi, ultramoderna: la parentela elettronica, le genealogie in re-te e i siti web di famiglie e di cognome. È uno degli hobby più popo-lari del nostro tempo: storie di famiglia in formato elettronico, retiinformatizzate che restituiscono network estesissimi di consanguineitàsconosciute, frutto di pazienti lavori d’archivio e di scambi d’informa-zioni fra gruppi, a distanza. La novità più recente è che ormai tuttoquesto si abbina a meticolosi programmi di test genetici: la parentelaelettronica si corrobora con un metodico lavoro di screening sul DNA

di famiglia. Per capire un po’ meglio di che cosa si tratta è bene cominciare con

qualche esempio. L’esempio che sceglierò (Parker Family DNA Project.Descendents of Robert Parker) è solo uno fra i tanti, centinaia o mi-gliaia, che affollano oggi il paesaggio della passione genealogica, so-prattutto nel Nord America, in Gran Bretagna e in Europa in genere.Il progetto Parker, come tutti quelli che sono compresi nell’archivioFamily Tree (Solinas, ), consiste nel determinare l’identità geneti-ca della famiglia e stabilirne l’estensione. In sostanza, si tratta di af-fiancare alla carta genealogica una carta genetica: estrarre il testo delDNA Parker nelle sue estensioni di lignaggio e nelle sue ramificazionidi sublignaggi.

Anche qui c’è un Adamo, un piccolo Adamo ancestrale che è altempo stesso il punto zero della sequenza (l’elenco sommario dei di-scendenti, ordinati lungo una scala di nove generazioni, viene fornitoin una pagina introduttiva del sito web) e l’archetipo dell’identità con-divisa. Anche qui la discendenza ammessa è esclusivamente maschile:i campioni genetici inclusi nell’archivio provengono necessariamenteda donatori Parker maschi. L’antenato alfa ha un nome, è noto. Si chia-ma Robert Parker, nato intorno al in Inghilterra, a Plymouth. Pa-dre di sei figli, fondatore della vasta progenie che si propaga in terra

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d’emigrazione lungo i tre secoli della storia americana, il Parker nu-mero uno (PO ) figura fin dalle prime battute del progetto come la fon-te d’una comune appartenenza biologica. Ognuno dei discendenti ma-schi custodisce nella propria persona la memoria biomolecolare del-l’antenato, anzi, in qualche modo è la replica. I curatori del program-ma lo specificano espressamente: «Ogni maschio con cognomeParker, in questo diagramma ha un cromosoma Y che è la copia delcromosoma Y di Robert Parker. Questo passaggio di codice geneticoda padre a figlio è la chiave dell’uso del DNA Y per la ricerca genealo-gica. Qualunque individuo maschio di cognome Parker, in questa car-ta, avrà un DNA coincidente con il campione PO ».

A proposito del cromosoma Y bisogna subito specificare due co-se, due elementi cruciali nella storia, e ancor più nell’antropologia chestiamo cercando di illuminare. Il cromosoma Y, come si sa, è, insiemea quello X, il cromosoma responsabile della determinazione biologicadel sesso d’ogni individuo. È il ° nel genoma umano, si trasmette so-lo in linea maschile: per eccellenza è l’unico elemento dell’eredità ge-netica a trasmissione patrilineare. Come il cognome, che appunto pas-sa da padre a figlio, a nipote e pronipote maschi, questa parte del DNA

umano si presta più di ogni altra a identificare dei lignaggi, su lunghedurate, su catene di decine di generazioni. È una parte alquanto irre-golare dell’architettura genomica, qualcosa che sta fra l’inutile, il mar-ginale e il deviante. Il cromosoma Y, in effetti, pare che serva a poco:«un minuscolo e pressoché inattivo mozzicone di ripensamento gene-tico», dice Matt Ridley (). Una parte di scrittura del DNA che noncodifica, se ne sta per conto suo e non si ricombina. In un saggio mol-to citato oggi (Jobling, Tyler-Smith, ), un testo che si occupa pro-prio dell’importanza che questo minuscolo mozzicone genetico rive-ste come marcatore evolutivo, il cromosoma Y viene paragonato spi-ritosamente a una specie di delinquente giovanile: pieno di cianfrusa-glie, povero di qualcosa di utile, riluttante a socializzare con il prossi-mo, e con un’irrimediabile tendenza a degenerare.

Proprio perché non-ricombinante, proprio perché sex-specifico(a trasmissione maschile), il polimorfismo dei marcatori nella se-quenza nucleotidica del cromosoma Y si presta come nessun altro adifferenziare linee multigenerazionali di identità. Le mutazioni che siproducono in un qualunque anello della catena generativa si trasmet-tono alla generazione successiva, poi a quelle seguenti, così da carat-terizzare con precisione la linea – l’aplotipo – i cui membri ereditano

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quella mutazione. Ovviamente, quanto più numerosi saranno i mar-catori prescelti per testare l’appartenenza o meno di un certo indivi-duo al gruppo aplotipico, tanto più alto risulterà il grado di defini-zione dell’identità genetica di gruppo. In parole più semplici, l’insie-me dei contrassegni genetici adoperati per verificare la presenza ol’assenza di un certo complesso di caratteri distintivi, fornirà la basemisurabile dell’identità, una specie di denominatore biomolecolareche dovrebbe coincidere con il campo del cognome: il contrassegnogenetico del lignaggio.

Torniamo ora ai nostri Parker, il caso da “grande fratello”, la fa-miglia in vetrina che spiamo nel suo lavoro di ricostruzione della co-mune identità genealogico-genetica. Ora la vetrina sembra illuminarsipiù nitidamente, e forse più drammaticamente. Quel che i promotoridel progetto-cognome stanno facendo è un gioco, forse. Forse un grangioco di società che produce sempre nuovi partner: riconoscersi, am-pliare la conoscenza verso parentele ignorate (quanti altri Parker igno-ti non potrebbero contenere affinità biogenetiche che rivelerebberouna parentela fino a quel punto sconosciuta?). O forse è una cosa an-cora più seria, ossia provare a mettere a disposizione un pezzo del pro-prio sé (alla fin dei conti, un campione biologico consegnato al labo-ratorio per essere sequenziato) in modo tale che se ne possano estrar-re, scientificamente, i caratteri d’una identità profonda: la più profon-da, la più vera delle identità?

In effetti, questa specie di gioco è tutt’altro che un passatempo.C’è un responsabile, che spesso fa anche da presidente d’una paral-lela associazione di famiglia, e che persegue per anni la sua pazienteraccolta di campioni da immettere nella banca dati dell’aplotipo-co-gnome. La compagnia di riferimento somministra un formulario perla raccolta dei campioni e comunica le regole da seguire; prima fratutte, la selezione per sesso: il database non conterrà che campioniY, cioè maschili. Il successo del progetto dipende ovviamente dallaricchezza dei dati: dalla completezza dei marcatori, dall’ampiezza del

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. I test su campioni del DNA mitocondriale, che si trasmette esclusivamente in lineafemminile, sono possibili e praticati (le agenzie e i laboratori offrono nel loro campionariodi servizi anche questi). Ma il tipo di dati, e soprattutto di classificazioni, è del tutto diffe-rente: i “matriclan” o i “lignaggi” matrilineari che si delineano, sprovvisti di cognome, de-finiscono più che delle genealogie al femminile, dei grandi gruppi demografici, su scaletemporali molto maggiori.

campione e dal grado di precisione dei test. Man mano che il nume-ro dei record aumenta, che i dati vengono interpretati e che le tabel-le dei risultati vengono riunite, il mosaico si definisce con finezza didettagli. Al momento, per esempio – gennaio –, i Parker parte-cipanti al progetto, ossia uomini di cognome Parker che aderisconoal programma di test, che quindi hanno inviato i loro campioni (unmodesto prelievo fatto con uno spazzolino all’interno della bocca,costo: dollari per marcatori, per marcatori, per )sono più di ottanta ( adesioni, campioni ricevuti, analizzati).I risultati vengono pubblicati regolarmente via via che il laboratorioli emette, così che, possiamo dire, la tabella dei profili, individuo perindividuo, ciascuno corredato della stringa completa dei suoi o DYS – diciamo, per brevità, un po’ grossolanamente, loci – risultaconsultabile nella sua estensione.

In sostanza, la banca dati del cognome-lignaggio Parker consistein un tabulato di una settantina di record (ogni record è un individuo,un donatore) per i o marcatori previsti dal protocollo del pro-getto. Chi si aspettasse rivelazioni dai risultati di laboratorio e, ancorpiù, dalla loro raccolta in uno schedario comparativo, resterebbe de-luso. La serie dei valori che gli utenti si ritrovano tra le mani non par-la di alcun “carattere” ereditario riconoscibile. Dice semplicementequante volte si ripete in un certo locus una certa sequenza basica, allaquale, il più delle volte, gli analisti del laboratorio non associano alcuntratto fisico identificabile. A che serve, allora? E perché gli attori prin-cipali, le persone cui quelle cellule-campione appartengono, ci si ap-passionano tanto?

È una domanda che mi sono posto molte volte, e non posso diredi aver trovato una risposta. Non credo che i motivi dichiarati (nei pro-grammi e nei commenti che accompagnano i risultati) bastino a illu-minarci. Nondimeno, seguendo più attentamente le forme di costru-zione del discorso biogenealogico qualche elemento interessante puòvenire in chiaro.

.Alla ricerca di congiunzioni

Sappiamo già una cosa, di non poco conto. Sappiamo che gli attori co-noscono già una certa versione del copione nel quale sono chiamati arecitare: la genealogia scritta o ricostruita dagli archivi. Hanno nomi,

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date, filiazioni, rami, segmenti e generazioni. Tutto questo si ritrova,almeno nel progetto “cognome Parker”, nero su bianco, alla portatadi tutti i partecipanti. Il capostipite è vissuto quattro secoli fa, ha avu-to due mogli, sei figli, di cui si conoscono i nomi. Tre di loro hanno da-to origine a loro volta a linee di filiazione secondaria e poi, alle gene-razioni successive, ad altre linee. In tutto, si contano un centinaio didiscendenti portatori di cognome, distribuiti su nove generazioni.Che cosa c’è da scoprire di più?

I propositi, tutto sommato piuttosto modesti, che i programmi-cognome dichiarano nelle loro premesse, non dicono abbastanza:verificare quanto risulti confermata una certa ascendenza, ricorda-ta o presunta, cercare di capire se le varianti dei cognomi (poniamo,Parkeer, Parkar, Palkar) possono essere collegate al cognome foca-le ecc.

Un po’ di malizia investigativa potrà servire ad andar oltre la pru-denza di facciata (una prudenza “scientifica” che gli utenti apprendo-no dalla sobrietà delle agenzie di supporto per i database e per i test).

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. In realtà, le cose sono un po’ meno semplici. Qui, nel caso Parker come in molti al-tri, più che di una genealogia si deve parlare di una serie o di un grappolo di genealogie.Attraverso le adesioni raccolte per cognome, i partecipanti, non necessariamente imparen-tati fra loro, da diverse parti del paese, o da fuori, portano, oltre che il loro campione d’i-dentità genetica, la loro memoria di pedigree: alberi costruiti per fonti scritte, ricostruzio-ni, liste o diagrammi che si presentano come altrettante linee, virtualmente indipendenti. Ilprotocollo di registrazione, e quindi l’agenzia che organizza tutto questo convergere di pro-getti cognome, Family Tree DNA, tratta ciascuna di queste singole raccolte come linee, o li-gnaggi in partenza distinti, e dunque indipendenti. Nel nostro esempio vi sono una decinadi “lignaggi” di questa fatta, tutti (parliamo di nuovo di genealogie scritte) intestati a un an-tenato-cespite. Altra cosa risulta essere la classificazione genotipica. Di norma, questa si ba-sa unicamente sulla distanza genetica: maggiore il numero di discordanze nei DYS o nei STR,maggiore la distanza; minore il numero di sostituzioni, maggiore la probabilità che i sog-getti appartengano effettivamente a una discendenza comune (ossia, a un lignaggio). IParker trattano queste classi di somiglianza come “gruppi”. Se vi sono concordanze moltoricorrenti, il profilo condiviso viene considerato come aplotipo modale del gruppo (unasorta di anticamera al riconoscimento come lignaggio) e, quando sia possibile, collegato al-la linea ancestrale identificata per record scritti nell’altra via.

. Tra le numerose agenzie e società che gestiscono questi servizi, quelle più importantiFamily Tree DNA, Oxford Ancestors, Ybase: Genealogy by Numbers, DNA Heritage (conmappa interattiva per aplogruppi e albero filogenetico, globale), Geneanet, sono collegatecon laboratori di genetica, universitari o no, presso i quali vengono eseguiti i test. La Chie-sa dei mormoni (Church of Jesus Christ of Latter-Day Saints), nella storica sede di Salt LakeCity, con il suo immenso archivio genealogico informatizzato e il suo complesso di servizidella Sorenson Molecular Genealogic Foundation, rappresenta tuttora l’istituzione più po-tente. Si possono già leggere articoli e interventi sul fenomeno montante: ad esempio Shri-ver, Kittles () e, più antropologico, Nash ().

Innanzi tutto, il vocabolario. Formule esplicite, come “aplotipo di fa-miglia” o “core haplotype” d’un cognome (fin dal programma pionie-re condotto da Bryan Sykes, che giunse, una decina d’anni fa, a rileva-re l’aplotipo Sykes, “Sykes core haplotype”), sono d’uso comune.Espressioni ancora più ad effetto, come “firma genetica” o “improntadigitale genetica”, suggeriscono una connessione diretta fra cognomee codice biomolecolare. Più misurate, le definizioni come “tipo mo-dale” o “tipo ancestrale” (di lignaggio) o, ancor più discretamente,“aplotipo centrale” si limitano a indicare modelli di frequenza statisti-ca saliente, tale da autorizzare una correlazione significativa tra porta-tori e collezione di tratti.

Il senso indiretto di questi messaggi, in ogni caso, è quello d’unasperanza, o di un’attesa: che alla fine del percorso venga fuori una spe-cie di autenticazione biologica, la scoperta di legami dimenticati e diconvergenze iscritte nel testo biochimico più intimo della propriaidentità corporea. L’archetipo, il modello allelico che prende forma in-torno a criteri di maggiore convergenza (e tipicità) è un ideale pazien-temente perseguito. Riuscire a raccogliere in una rete di stretta vici-nanza biologica gli indici di convergenza fra individui donatori signi-fica dare alla confluenza in un comune antenato un’evidenza molto piùforte di quella che può dare la semplice traccia anagrafica. Le provesono a portata di mano; sono nelle nostre cellule, nei loro recessi fon-damentali: i prodotti viventi della storia genealogica ne sono i docu-menti attivi e attuali.

L’immagine stessa dell’albero, o di quello che un tempo era l’albe-ro, muta sensibilmente: la FIG. . visualizza il network di distanza ge-netica fra i membri d’un certo gruppo di soggetti portatori di cognome.

Qui il cognome è Graves (con qualche variante: Greaves ed altri).Il campione è piuttosto numeroso: oltre duecento record al novembre, ramificati in una quantità di siti, negli Stati Uniti, in Canada, inInghilterra, in Germania.

Come si vede, il grafico non raffigura un vero e proprio albero didiscendenza, ma una mappa reticolare di maggiore o minore distanzagenetica. In sostanza, i cerchi rappresentano, in proporzione alla mag-giore o minore grandezza, la frequenza d’un certo insieme di marca-tori condivisi (ad esempio il pallino n. . è portatore d’un tipo piùfrequente), mentre la lunghezza delle linee che connettono i nodi in-dica il numero di mutazioni che differenziano l’uno dall’altro. Non sitratta qui di rintracciare i legami parentali, anello per anello, lungo la

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catena figlio, padre, nonno ecc. La catena parentale, nei suoi dettagli,resta in ombra. Nondimeno, la rete di connessione genotipica autoriz-za a ipotizzare la confluenza, o meglio la coalescenza, a una certaprofondità storica, in un capostipite. Che si tratti del più recente an-tenato comune (diciamo PRAC, traducendo l’acronimo inglese MRCA),o di quello più lontano (molto più raramente: un antenato lontano fon-de, o confonde, i diversi lignaggi), intorno alla figura del progenitore-fondatore prende forma quella sorta di formula della distinzione di li-gnaggio: una specie di araldica aplotipica.

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FIGURA .Network filogenetico dei Graves, elaborato con il software Phylogenetic NetworkAnalysis, accessibile in rete (http://www.fluxus-engineering.com)

. Tuttavia, la banca dati del sito e il prospetto d’insieme dei risultati dei test(www.gravesfa.org/DNA_test_results.html) consentono in questo caso di raggiungere, conuna connessione diretta, le carte genealogiche (una colonna di antenati, codificati in sigla,su cui si può cliccare per aprire la pagina relativa a questo o quel donatore-record). Un si-to molto ben organizzato dal punto di vista informatico: la banca dati delle genealogie permappa e carte è puntualmente collegata a quella dei record aplotipi.

L’antenato eponimo, si comprende bene, deve essere in questosenso scoperto, o riscoperto. Il suo profilo storico, attestato per via dideboli informazioni tramandate nella memoria d’archivio, potrà esse-re sostanziato di evidenze fisiche incontrovertibili. Sta a noi portarloalla luce, e riscattare così dall’incertezza l’identità del suo titolare.Sembra una specie di evocazione dall’aldilà, ma c’è ben poco di magi-co in questa evocazione.

I genea-genetisti, in effetti, non lavorano sul passato: non vanno ariesumare le ossa dei progenitori per ottenere campioni di DNA da se-quenziare, e neppure si interessano di segni indiretti, magari di analo-gie o contaminazioni fra reperti. I loro reperti sono vivi, e le parenteleche essi sperano di scoprire riguardano individui tra loro coevi e pre-senti. Certo, il bello dell’impresa consiste anche nel trovare delle da-tazioni probabili: quante generazioni fa dovrebbe esser vissuto il pro-genitore ignoto da cui proviene quel particolare tratto distintivo checondividiamo? La distanza fra i discendenti attuali e il nodo di coale-scenza, in effetti, si può calcolare in base a criteri interni alle regole bio-logiche di frequenza delle mutazioni.

Ma il valore della scoperta, ripeto, riguarda i vivi. È un po’ come po-tenziare le relazioni attuali attribuendo loro una durata, un capitale diprofondità storica. Quando i Graves di Baltimora e i Greaves di Min-neapolis, che fino ad ora non si conoscevano neppure, scoprono attra-verso la banca dati che i loro DNA condividono un tratto ancestrale cherende plausibile la loro comune discendenza da un lontano antenatosconosciuto, quel che prende forma non è solo un vago sentimento dicuginanza (“to’, siamo parenti!”). C’è qualche cosa di più o, almeno,qualche cosa di diverso. Una lignaggio elettronico, e genomico, acquistaconsistenza, una specie di creazione computazionale o biochimica che,curiosamente, veste i panni arcaici d’una nomenclatura tribale: “lignag-gi”, appunto, o magari “clan”, se non addirittura “patrilignaggi”.

Non di rado l’antenato fondatore, colonizzatore e capo di stirpe,diventa simbolo e nome di associazioni che promuovono la sua pa-rentela postuma. L’associazione dei discendenti di Edmund Rice(), per esempio, inalbera proprio il nome del primo progenitore

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. Edmund Rice, si dà notizia nelle schede informative che corredano i dati genealo-gici, emigrò in America nel , si stabilì a Sudbury, nel Massachusetts, mise su una nu-merosissima famiglia e divenne presto il più grosso proprietario della zona. I suoi discen-denti diretti, fino ai great great grandchildren, contano circa millequattrocento persone.

americano come titolo di riconoscimento condiviso. Il nome anagrafi-co, non più semplicemente individuale, assume il valore d’un titolocollettivo. A questo, ossia al nome e all’identità storica accertata, si ag-giunge (meglio, si sovrappone) il profilo genetico che si ricostruisce inlaboratorio sulla collezione dei test dei discendenti attuali.

Cari cugini – annuncia trionfalmente il presidente dell’associazione – abbiamoora stabilito l’aplotipo di Edmund Rice, ovvero il marcatore genetico. Il nostroaplotipo è una collezione di numeri unici di pezzi del cromosoma Y-DNA, ot-tenuto sotto specifiche condizioni. Questa piccolissima porzione di DNA è pas-sata attraverso le generazioni da padre a figlio, e così via. Anche se, certo, nonabbiamo fatto realmente nessun test sul DNA di Edmund, siamo sicuri di co-noscere ora come fosse il suo cromosoma Y. Quindi, in teoria quel che dob-biamo fare è di testare qualsiasi maschio che pensi di poter essere connesso.

Nessuna traccia scritturale, atto di matrimonio, certificato di nascita,o ricordo tramandato nella tradizione di famiglia, potrà eguagliarequesta certificazione intrinseca, impressa nei caratteri cifrati della vitastessa. Il ricordo impersonale incorporato nella scrittura biomolecola-re è una carta più resistente di qualunque altra carta scritta con l’in-chiostro: è la scrittura-impronta, è la cifra della distinzione originaria.

.La parte sommersa dell’albero

Fermiamoci per un momento. Abbiamo seguito finora, quasi esclusi-vamente, le piste ancestrali che seguono i principi della logica agnati-ca. Il cromosoma Y, trasmesso esclusivamente da padre in figlio, esclu-de completamente le discendenze in linea femminile. La regola biolo-gica, per quanto unilaterale possa sembrare, non può essere messa indiscussione dalle preferenze degli utenti, e nemmeno dalle speranzedegli scienziati. I lignaggi a discendenza patrilineare, dunque, hannoun’incontestabile ragione costitutiva. I cognomi, etichette che si man-tengono lungo le generazioni solo in forza di regole sociali, o giuridi-che, scorrono esattamente lungo le stesse catene di trasmissione cheseguono l’eredità genetica degli aplotipi Y.

Sappiamo bene, peraltro, che il modello agnatico, patrilineare, nonè l’unico che la genetica sia capace di praticare. Anzi. L’eredità in lineafemminile è perfettamente rintracciabile, lungo la linea della succes-sione dei marcatori mitocondriali che, appunto, si trasmettono esclu-

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sivamente di madre in figlia. È possibile dunque, almeno in teoria, de-finire degli aplotipi mitocondriali, e dunque, in qualche senso, dei “li-gnaggi materni”. Malgrado la diversa frequenza nella comparsa di mu-tazioni significative, e dunque la maggiore scala temporale sulla qualesi definiscono questi “matrilignaggi”, in effetti molti sforzi sono statifatti per delineare una geografia aplotipica per le grandi discendenzegenomiche in linea materna.

Nondimeno, la classificazione per grandi gruppi cladistici, così co-me, anzi soprattutto, le genealogie di gruppi familiari nell’ordine dei se-coli e delle poche generazioni, prediligono ormai decisamente l’altro re-gistro, quello del cromosoma Y. I matriclan non trasmettono cognomi,dunque il test mitocondriale è inutilizzabile per gli scopi dei program-mi-cognome. Per questo motivo le agenzie di raccolta e analisi dei cam-pioni prescrivono ai clienti potenziali una condizione tassativa: il dona-tore deve essere maschio. Se una donna vuole partecipare può farlo so-lo attraverso un consanguineo maschio, un fratello, o magari suo padre.

Non ho molti commenti da fare su questo punto, almeno per ora.Ma mi piace cogliere l’occasione per parlare d’un certo modo, un mo-do antropologicamente molto particolare, di usare la classificazionemitocondriale, e di accostarla a quella, rigorosamente androcentrica,di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti.

Lo farò con un esempio indiano. Da anni faccio ricerca in India, inuna parte dell’India, il Bengala, di radicata e profonda cultura brah-manica, sebbene il mio interesse si concentri soprattutto su culturenon hindu. Ebbene, anche qui arriva la suggestione, seducente e so-lenne allo stesso tempo, della genealogia genetica. Ho trovato pochicasi, per la verità, ma quelli che ho trovato sono tanto più significativise si pensa alle dimensioni delle comunità genealogiche di riferimen-to, e alla straordinaria e sofisticata cultura del calcolo genealogico chein questo paese è documentata da tempi immemorabili e, soprattutto,sociologicamente attiva tutt’oggi.

I Chitpavan sono una grande comunità castale di brahmani (qual-cosa come mezzo milione di persone); brahmani, ossia appartenenti al-la casta di vertice nella gradazione classica della gerarchia hindu. È unacomunità per modo di dire: famiglie Chitpavan si trovano in una quan-tità di città e villaggi del subcontinente, e all’estero, a partire dall’areadi Konkan. L’itinerario di immigrazione che i cultori delle genealogie edei cognomi (in questo caso i Dixit) rintracciano, attraverso il Kashmir,il Punjab, giunge fino al Maharastra. I cognomi sono moltissimi, e qui

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i cognomi corrispondono a vere sezioni strutturate sul tipo del lignag-gio, dette gotra. Manohar, Dixit, Ranade, Kane e una quantità di deno-minatori di gotra, possono considerarsi come nomi d’eccellenza nell’al-bo ideale delle caste. Come si sa, la tutela dell’identità di casta è affida-ta a una rigorosa norma di endogamia che non ammette incroci matri-moniali con partner d’altre caste. In sostanza, i membri d’un lignaggiodi casta o sottocasta brahmanica devono evitare qualunque unione chenon sia con un uomo o una donna della stessa casta o sottocasta. Solocosì la purezza e l’appartenenza si trasmettono senza degradarsi.

L’identità di casta e di famiglia, dunque, si presenta, ancor oggi,con le credenziali illustri d’una integrità di appartenenza alla quale,ora, la genetica fornisce un supporto supplementare potentissimo. Eb-bene, la carta aplotipica, che i Dixit si preoccupano di procurarsi at-traverso Family Tree DNA, fornisce il profilo genetico del gotra, del li-gnaggio. La genealogia Y-DNA e quella registrata nella memoria di fa-miglia – affidata ai libri di genealogisti specialisti (Kulwrutants) – sicombinano. Anche in questo caso, dunque, l’ipotesi di una derivazio-ne comune guida il piano dell’impresa, ma su una scala incomparabil-mente maggiore: «Determinare la linea di base dei marcatori del cro-mosoma Y per tutti i sessanta cognomi Chitpavan, e quindi confron-tarli, per stabilire quali di questi cognomi si sono evoluti in altri co-gnomi oggi correnti. Sarebbe interessante, insomma, vedere se si sonointrodotte nuove linee di discendenza paterna, e se queste hanno por-tato agli attuali cognomi».

Quattrocento cognomi, centinaia di migliaia di persone: il networkgenealogico di riferimento si avvicina alle dimensioni di un universodemografico. E però, è un universo conchiuso nei suoi confini di iden-tità di rango, di status e di endogamia.

E di sembianza: i Chitpavan sono generalmente più chiari di pelle,hanno i capelli più fini, gli occhi più chiari: sono più vicini al tipo fisicoeuropeo che indiano. Sono generosi, riflessivi, altruisti, tenaci, ingegno-si… Le identità di famiglia, di cognome, di gotra, di casta si incapsulanol’una nell’altra trovando conferme entro raggi concentrici di ingloba-mento. Il mito, la memoria mitica della genealogia, che qui è ricca e so-lida, dialogano con l’ispezione genotipica: possono i test e i risultati delsequenziamento confermare la tradizione? «Sarebbe allettante vedere setutti convergono nelle sole linee paterne che la nostra mitologia ri-vendica. Se disponessimo di una quantità abbastanza consistente di da-ti da diversi cromosomi Y Chitpavan, questo ci aiuterebbe a stabilire la

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loro comune discendenza da un unico antenato maschio nel passato, co-sì da poter suffragare le affermazioni dei “Kulwrutanatas”».

Fin qui restiamo ancora entro il circuito Y, sia pure su dimensionicosì larghe da non poter essere comparate alle grandezze dei cognomiin Occidente.

I Chitpavan in realtà hanno preso a cuore, prima di quello pater-no, il loro DNA materno, il corredo genetico delle madri Chitpavan. Sipuò dire anzi che attribuiscano all’eredità in linea materna un ruolopiù basilare: unificante e primordiale al tempo stesso. La derivazionecomune da un’Eva minore (una delle ipotetiche “sette sorelle” cheBrian Sykes ha popolarizzato nelle sue ricerche) serve a orientare inuna specie di vaga geografia delle origini la sorgente femminile dell’i-dentità Chitpavan: un luogo indeterminato, tra il Mar Nero e il MedioOriente, forse vicino all’altipiano anatolico, o alla Siria, all’Irak. Oriz-zonte oscuro, perché le linee di fecondità materna, i gotra delle spose,la loro appartenenza di casta, si dimenticano rapidamente; per mille-naria costumanza la sposa che entra nella casa maritale cede la sua ap-partenenza paterna di lignaggio e assume quella dello sposo: letteral-mente diventa parte del nuovo gotra di accoglienza.

A noi questo interessa, e interessa in una prospettiva che consenteun preciso accostamento tra genetica, gerarchia di casta e gerarchia digenere. Comparare scientificamente, entro la stessa popolazione e lastessa società, le “evidenze genetiche” relative alla storia biologica deigruppi, in parallelo per via Y-DNA e per via mtDNA: è quel che impor-tanti studi hanno cominciato a realizzare, in primo luogo quello di Mi-chael Bamshad et al. (), pubblicato pochi anni fa, e che ha fatto sen-sazione. Quel che emerge da questo lavoro è al tempo stesso audace einquietante, poiché, appunto, giunge a documentare, sulla base di unacampionatura statistica e con un severo protocollo di rilevazione gene-tica, che la distribuzione gerarchica dei gruppi castali corrisponde a unaprecisa gradazione di identità biologica. Le caste più alte, in primo luo-go i brahmani, «hanno una più alta affinità con (i tipi) europei che conquelli asiatici»: «Complessivamente – scrivono gli autori della ricerca –tutti i dati mostrano un trend, per le caste alte, verso una maggiore so-miglianza con gli europei, mentre le caste basse sono molto più similiagli asiatici». Per i cultori dell’identità Chitpavan, non occorre dire,questi risultati suonano molto graditi: la costituzione genetica del “noi”si fonde con quella sociale e mitica; la casta porta nel suo patrimoniocollettivo di comunione biologica un valore distintivo innato.

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L’interesse della ricerca di Bamshad (ma tra i firmatari vanno ri-cordati Michael Hammer e Lynn B. Jorde), infatti, non è solo d’ordi-ne genetico o statistico, o demografico, è anche, e marcatamente, sto-rico. La distinzione brahmanica che l’impresa di laboratorio trova co-sì nitida nelle sue evidenze empiriche si congiunge con la tradizioneletteraria, vedica e scritturale in genere, che stabilisce una polarità fon-damentale, nel popolamento dell’India, fra immigrati-conquistatori,arya, da una parte, e autoctoni-dasyu (“dravidici”), dall’altra. La sto-ria dell’arianizzazione del subcontinente è lunga diversi millenni, supiù piani: linguistico e di scambio demografico, oltre che politico e re-ligioso. La gerarchia castale ne è lo specchio: le caste alte non sono al-tro che le eredi dell’élite arya straniera, mentre le caste inferiori e i fuo-ri casta conservano la base antica del popolamento preariano. Questo,almeno, è lo schema, al tempo stesso tradizionale, mitico, teologico estorico (e poi etnico e linguistico) che Bamshad prende dalle teoriech’egli ritiene più accreditate. Gli invasori ariani, indoeuropei si stabi-liscono come dominatori sulle popolazioni protoasiatiche. Un’immi-grazione che si prolunga per millenni, e che si protrae fin quasi all’etàmoderna.

La geografia biologica del popolamento attuale, così come la di-vergenza aplotipica che si delinea sulla scala di status, la gerarchia dicasta, rivelano tali corrispondenze, tali regolarità, da far comparire sul-la scena della storia dell’India una dimensione completamente nuova,quella della sua puntuale testabilità biologica. Le distanze genetichefra alte e basse caste nel mtDNA mostrano che la divergenza rispetto aimodelli genotipici asiatici si accresce fra i Kshatriya, rispetto ai Shudrae ai fuori casta, ed è ancora maggiore quando si passa ai brahmani. Inparticolare, «tra le caste alte, la distanza genetica fra bramini ed euro-pei (,) è minore di quella fra Kshatriya ed Europei (,) o tra Vay-sya ed europei (,)».

In breve, i dati relativi al polimorfismo nel cromosoma Y dimo-strano che il popolamento dell’India deriva da una mescolanza in-doeuropea («Y-Chromosome variation confirms Indo-Europeanadmixture»). Il modo in cui questa admixture europea-asiatica si de-linea nell’incrocio tra i dati genotipici da una parte e quelli linguisti-ci e archeologici dall’altra si inserisce profondamente non solo nellalogica della gerarchia di status, ma anche in quella della gerarchia trasessi. Poiché, infatti, la distribuzione del fondo genotipico mitocon-driale “asiatico” è molto più estesa di quella dell’aplotipo Y “euro-

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peo”, e quest’ultimo risulta più regolarmente conforme a una grada-zione castale (crescente verso l’alto, decrescente verso il basso), sipuò ricavare l’immagine, d’insieme, d’una base materna più marca-tamente indiana e asiatica, e un vertice patrilineare, Y-aplotipico de-cisamente affine a modelli europei: «La spiegazione più plausibileper questi risultati, e quella più conforme con i dati archeologici, èche gli indiani Hindu contemporanei sono di origine proto-asiaticacon mescolanza ovest-euroasiatica».

La mistura demografica dispone gli uomini e le donne su un assedi rango biologico asimmetrico:

La mescolanza con i maschi euroasiatici era maggiore che con le femmine eu-roasiatiche. Di qui la maggiore affinità con i cromosomi Y europei. […] Que-sta spiegazione concorda sia con l’ipotesi per cui una proporzione più alta dieuroasiatici siano diventati membri delle caste superiori, allorché la gerarchiadelle caste era ai suoi esordi, sia con l’ipotesi alternativa, quella secondo laquale la stratificazione sociale precede l’incursione euro-asiatica, così che glieuroasiatici tendevano ad inserirsi nelle posizioni più alte.

Gli invasori, o immigrati europei, o euro-asiatici, entrano nello spaziosudasiatico, spazio fisico, spazio demografico, spazio genetico; porta-no i propri geni e li diffondono nella popolazione locale: uomini checonquistano e si riproducono attraverso la parte femminile delle gen-ti sottomesse. Per un verso, gli uomini, i maschi arya conquistatori epoi dominatori (nucleo delle caste elevate nella società hindu) tra-smettono agli autoctoni la loro impronta genetica, per via maschile;per un altro verso la ricevono dai loro partner inferiori: le donne sonoportatrici dell’impronta locale che tende, inversamente, a risalire nel-la linea di rango. La mobilità sociale, pur entro un regime di severa re-strizione endogamica (di casta), si apre la via appunto attraverso la ri-salita ipergamica delle donne di casta inferiore (il matrimonio anulo-ma, con quel tanto di unioni miste tra inferiori e superiori, tra famigliedi status lievemente diseguale). Bamshad introduce insomma, non socon quanta consapevolezza antropologica, un elemento d’ordine squi-sitamente sociale nel cuore del suo rilevamento biogenetico: «La fre-quenza degli aplotipi euro-asiatici nella fondazione delle caste mediee alte può risultare sottostimata a causa della mobilità sociale verso l’al-to di donne di bassa casta. Queste donne, presumibilmente, erano incondizione di introdurre aplotipi mtDNA proto-asiatici nelle caste me-die ed alte».

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.Scienza, hobby, mito?

La parte finale di questo mio contributo tocca il problema del valorecognitivo della genealogia genetica e del suo uso sociale. Di che tipodi conoscenza si tratta, in definitiva? Una specie di genetica per i pro-fani? Qualcosa che promette di svelare i segreti biologici dell’originedei cognomi, o di raggiungere lungo la pista cromosomica il piccoloAdamo di famiglia nel quale sta racchiusa la formula biogenetica del-la futura discendenza? In questa letteratura elettronica amatoriale, ineffetti, Adamo riappare, qua e là: se non altro come nome simbolico.Talora figura come superantenato, come una specie di “noi” primor-diale personificato; altre volte distribuito in tante incarnazioni distin-te, al limite come partner ancestrali di singoli iscritti al database. Inmolti casi il titolare di record, ossia il singolo iscritto al programma co-gnome, si trova fornito di una specie di doppia identità: una al pre-sente, la sua attuale, e una al passato o, piuttosto, ad un presente chenon si è disfatto del passato: quello del suo progenitore-archetipo ge-netico del quale può dirsi replicante. Entrambi partecipano alla stessalinea vitale di coalescenza. Per quanto retorica e indiretta possa appa-rire, questa sorta di coscienza supplementare lascia intravedere un sa-pere, una rappresentazione parentale, largamente inedita. Di quale ti-po di sapere si tratta, in realtà?

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. Ad esempio, la piccola epopea genealogica che i promotori del programma Beatty,sempre negli Stati Uniti, riassumono nella scheda di presentazione del loro sito, raccoglie lignaggi, molti dei quali datati al XVI secolo. I “lignaggi”, sparsi fra l’Irlanda, l’Ameri-ca, il Giappone, l’Australia, di cognome Beatty e simili, appartengono – torna la domandacruciale – allo stesso ceppo genealogico? («Did this surname derive from a common ance-stor or from among totally unrelated individuals? - years ago?»). I test incoraggianola congettura; rivelano coalescenze tra linee, fino a un primo e più consistente gruppo, ilGruppo A, che «ha un antenato comune, chiamato Adamo, che visse probabilmente in Sco-zia prima del ».

. La forma ricorrente di ordinamento dei tabulati (Y-DNA Results) è più o meno que-sta: la prima colonna, o le prime due colonne, riportano il kit number (il numero di identi-ficazione del campione organico soggetto di test: un numero, o un ID number, corrispondea un individuo); accanto, l’antenato di riferimento, quando è noto per cartas, e la sua data-zione. Per esempio, nel caso Ball (Ball Surname Y Chromosome DNA Study): # (kit num-ber), si collega ad un William Ball, Virginia (nome dell’antenato noto, del cui aplogruppoè portatore il soggetto #), circa (data approssimativa dell’antenato), di seguitovengono poi le caselle dei loci, DYS, e dei relativi valori di frequenza.

Sarebbe troppo superficiale liquidare la questione con un’alzata dispalle, come si trattasse d’un sapere divulgativo in cui la scienza è ma-teria imbastardita del senso comune, d’una passione di moda, d’unatendenza newagista insieme stravagante e pignola. Credo proprio che,non solo etnograficamente, ma anche in termini di episteme e di pro-duzione simbolica, la faccenda sia molto più seria. L’incontro fra lascienza e la gente comune, fra i laboratori (o le agenzie che se ne ser-vono per gestire i database) e gli utenti-donatori va ben oltre la gerar-chia ordinaria che distanzia i competenti dai profani. In realtà, i cul-tori dilettanti di genealogia, soprattutto quando sono anche fornitori(paganti) di campioni biologici d’identità personale, si trovano nellacondizione ambivalente di committenti e di oggetto di studio. Com-mittenti o clienti che si sottopongono a un esame di verità, essi sono inpari tempo l’oggetto del responso. Per un verso, intraprendono que-sto singolare processo di reductio (in un certo senso, recedendo dallapropria individualità, subiscono un trattamento dividualizzante), percostituirsi come fili d’un reticolo astratto che, quasi, oltrepassa la sin-golarità contingente delle singole esistenze. Per un altro verso, invece,si fanno costruttori d’una mito-antropologia che genera mondi sim-bolici prima sconosciuti, mondi di parentalità potenziata, mondi chepretendono di espandersi verso il passato e che chiedono alla provabiochimica di fornire linguaggio e garanzia di esattezza. Gli scienziati,palesemente interessati alla riuscita dell’impresa, per i propri fini(espandere i loro database, disporre d’una varietà di casi e opportu-nità comparative), finiscono tuttavia per diventare partecipi di questasorta di trascendimento comune. I gruppi, i lignaggi, i cognomi, gli “al-beri” (tutti riconvertiti in aplotipi e aplogruppi) si caricano di identitàstratiformi: etniche, preistoriche, storiche, ma anche, per dir così, “tec-nologiche”, scientificamente integrate nelle strategie di sapere e di au-torialità delle équipe di laboratorio.

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Parte terzaLa trasmissione di un sapere scientifico

Comunicare e interpretare la preistoria nei musei

di Michele Lanzinger

Questa riflessione intende limitarsi a offrire alcuni spunti sugli stili dicomunicazione e sulle modalità di interpretazione per i musei di indi-rizzo preistorico. Il breve contributo non rendiconta delle diverse mo-dalità di interpretazione museologica adottate in Italia e all’estero nelcampo della preistoria, indagine ancora mancante e quanto mai op-portuna, né, sempre nel settore della preistoria, propone alcun com-mentario sulle buone pratiche di azione interpretativa già in uso pres-so numerosi musei.

Un primo e fondamentale ragionamento, a monte di ogni ulterio-re considerazione, riguarda l’attenzione che dovrebbe essere prestataai diversi elementi che compongono il ciclo di vita del patrimonio cul-turale oggetto della valorizzazione museale. Il reperimento e lo studiodel bene, la sua tutela e conservazione e, infine, attraverso i procedi-menti della museologia e della museografia, la mediazione culturale,sono elementi fondamentali per descrivere e per permettere di com-prendere, nella sua interezza di bene culturale, il senso del patrimoniooggetto di valorizzazione.

Si ritiene che tutti questi elementi dovrebbero essere resi pubbli-camente percepibili mediante gli apparati e le azioni di mediazioneculturale del museo. Solo così, per mezzo della comprensione di tuttequeste fasi, possono costituire oggetto di apprezzamento le ragioni delfare ricerca, l’obbligo etico di tutelare e conservare il patrimonio cul-turale, infine e ovviamente, e non necessariamente per ultimo, la spe-cifica informazione culturale circa il patrimonio esposto.

Visto da una prospettiva esterna al procedimento interpretativo ealla dimensione specifica delle scienze preistoriche, questa imposta-zione tende a mettere in rapporto il successo in termini di partecipa-zione dei visitatori/utenti del museo con il consenso sociale e politi-co sugli investimenti (economici, di marketing territoriale, di investi-

mento sulle risorse umane…) a favore delle azioni di conservazione etutela. Così, il rapporto tra le istanze relative alla conservazione dei“beni” e quelle relative alla valorizzazione e promozione delle “atti-vità” culturali possono trovare un virtuoso equilibrio, raccogliereconsenso e sostenere, nel tempo, l’intera traiettoria di significato e diazione del museo.

Ciò premesso, con “comunicare e interpretare la preistoria” siprende atto dell’ingresso anche nel lessico italiano di termini neola-tini diffusamente adottati nella museologia di tradizione anglosasso-ne (communication e interpretation), i quali, almeno per il contestodi cui si parla, nel caso del primo esaltano la dimensione del mette-re in comune e della partecipazione, nel caso del secondo quello ditradurre in termini valevoli sul piano conoscitivo e pratico i concet-ti riferibili ai materiali e ai contesti museali. Termini ideologicamen-te distanti da quelli di: “divulgare”, “illustrare”, “educare”, “inse-gnare”, “trasmettere”, i quali tendono a prefigurare un’azione unili-neare di trasmissione dei saperi da un soggetto emettitore a un sog-

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FIGURA .Archeologia imitativa: l’esperienza del visitatore si confonde con l’esperienza dell’an-tenato preistorico (replica sperimentale di macinatura dei cereali presso il Museo del-le palafitte del Lago di Ledro)

getto ricevente, per lo più passivo. Quello che, sempre adottando unanglicismo, è noto come “approccio top-down”, ovvero, nel fare ri-ferimento al dibattito interno al movimento della Science & Society,del deficit model.

In termini di museo questo approccio ha conseguenze significati-ve. La centralità culturale si sposta dall’oggetto esposto all’esperienzadi visita e, come ovvia conseguenza, l’attenzione si concentra sulla co-noscenza delle aspettative del visitatore. Esse assumono sempre mag-giore rilevanza perché saranno queste, infatti, le diverse tipologie di vi-sitatore e le sue aspettative, a orientare gli stili di comunicazione e diinterpretazione del museo.

Tra le diverse categorie di visitatori, la meno interessante è quel-la di chi, per via della sue conoscenze pregresse, è assolutamente in-differente agli strumenti di interpretazione. Si tratta di casi vera-mente rari, soprattutto se si pensa a quanto ampia può essere la map-pa di rimandi e di riferimenti messa in campo da una progettazionemuseale di qualità.

Più soventemente il visitatore non dispone di apparati di cono-scenza pregressa bastevoli per interpretare autonomamente un’espo-sizione museale. È per questo motivo che la museologia da tempo haadottato tecniche via via più sofisticate per sostenere degli apparati diinterpretazione che, per simmetria, dovrebbero corrispondere a pariinteresse da parte del soggetto in visita museale. Nel proseguire in que-sta analisi semplificata dei possibili diversi visitatori, assume un ruoloforse non tanto diverso il “visitatore-cliente” catturato al museo nel-l’ambito di un’azione di marketing territoriale. In questo caso, all’in-tenzione di massimizzare la frequentazione del museo, anche a fini tu-ristici e commerciali, corrisponde un atteggiamento non alieno dal de-siderio di svago e intrattenimento. Infine, quasi a comprendere questie quelli, si mette in evidenza la categoria degli studenti delle diverseetà i quali, per via di arrivi voluti o coatti, sono soggetti importanti perqualsiasi politica di sviluppo museale.

Tutte queste diverse categorie di utilizzatori condividono lo stessofattore discriminante nel confronto dell’esperienza di visita del museo:esse decidono quando, dove, cosa e come apprendere sulla base dei lo-ro personali interessi. Infatti, se l’apprendimento può essere visto co-

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. A tal proposito cfr. P. Greco, Il modello Venezia, http://icws.sissa.it/conferences/cs.introduzione.pdf.

me l’acquisizione di informazioni, prima che esso avvenga (l’appren-dimento), il soggetto destinatario dell’azione di apprendimento (il vi-sitatore) deve esprimere interesse nel confronto di quest’ultima. L’in-teresse pertanto permea tutti i tentativi e precede l’apprendimento, ilquale, per questi motivi, può essere definito come «il processo di ri-cordare cosa ti ha interessato» (L. Beck, T. Cable, Interpretation for thest Century, Sagamore Publishing, Champaign, IL, ). Ciò è vero,o forse ancora più vero, per la categoria degli studenti. Essi raramen-te hanno un ruolo nella decisione di visitare o meno un museo e comeconseguenza, se non sono interessati, semplicemente non interagisco-no e non accendono la luce del loro personale interesse. In queste con-dizioni la visita diventa qualcosa di altro, indifferente al messaggio cul-turale che il museo desidera trasmettere.

Per via di queste premesse, si può affermare che l’atto di ricevereinformazioni è una questione profonda e personale, anche perché laconoscenza e le esperienze che progressivamente acquisiamo costrui-scono, di fatto, quello che noi siamo. Come a dire che “io sono quelloche ricordo”. Ecco perché quando l’esperienza viaggia all’incontrariodei propri convincimenti, come nel caso degli studenti forzati a un’e-

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FIGURA .Ricostruzione di un villaggio palafitticolo: la scenografia più adatta alla simulazione del-la preistoria a scopo didattico e divulgativo (Museo delle palafitte del Lago di Ledro)

sperienza culturale non voluta (“non ritenuta interessante”), non solonon vi sarà alcun apprendimento, ma l’esperienza stessa si concluderàcon un rafforzamento di negatività e del rifiuto che inevitabilmente an-drà a contaminare altre future esperienze consimili.

Anche per evitare simili situazioni, non si dice nulla di nuovo nelricordare che per far scoccare la scintilla dell’interesse, l’azione di me-diazione culturale deve porre in relazione il soggetto dell’interpreta-zione con l’esperienza di vita delle persone che compongono il pub-blico. Come è noto la gente apprende integrando e immagazzinandole informazioni nel contesto delle loro passate esperienze. Ciò ha a chefare con la teoria delle mappe cognitive ed è una precondizione bennota a chi si occupi di età evolutiva, di pedagogia e di teoria dell’inse-gnamento.

Mettere in rapporto il messaggio con la conoscenza e le esperien-ze del pubblico è dunque un “contratto” tra il museo e il visitatore che,nel corso della visita, oltre ad acquisire nuove informazioni, opera unautonomo rinforzo di quelle pregresse e immagazzinate nella propriamemoria individuale. Per questo motivo la comunicazione non è piùda considerarsi un processo lineare trasmettitore-ricevitore ma emer-ge un nuovo paradigma per il quale la “costruzione del significato”(meaning-making) è vista come un processo di negoziazione tra le par-ti. Invece che trasmessa l’informazione è creata.

Poiché, come si è visto, gli individui nel ricevere una nuova infor-mazione sagomano il significato di essa sulla base delle storie e dellepassate conoscenze ed esperienze, per il progettista della comunica-zione museale è fondamentale conoscere l’uditorio, suddividerlo insegmenti omogenei per determinate caratteristiche (età, genere, for-mazione e grado di cultura…), e quindi disporre di messaggi teorica-mente validi per ciascuno dei livelli di conoscenze pregresse (di cultu-ra) dei possibili utilizzatori del museo.

Segnalata l’esigenza di conoscere bene il visitatore, va precisatoche il proposito dell’interpretazione va ben oltre la sola fornitura diinformazioni. Essa deve rivelare qualcosa per noi stessi e deve es-serci un buon bilanciamento tra l’importanza della dimensione co-gnitiva e quella dell’emozione e dell’apprendimento-divertimento.Naturalmente l’interpretazione include l’informazione. Infatti, senon c’è informazione, il programma di comunicazione è, al massi-

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. Di ciò non ci si occuperà nel presente scritto.

mo, un programma di intrattenimento. Come a dire, «l’informazio-ne è il materiale grezzo, l’interpretazione quello rifinito» (ibid.).

Riferendosi ora alle esposizioni museali di interesse preistorico, maanche alle esposizioni archeologiche, esse canonicamente traducono inspazio museale il processo di ricerca che, per il tramite dei reperti inesposizione, ha contribuito alla definizione di un determinato segmen-to di disciplina scientifica. Si hanno così disposizioni seriali di oggetti insequenze cronostratigrafiche, insiemi di reperti omogenei per tipologiao luogo di reperimento, disegni interpretativi o diorami. In fin dei con-ti produciamo definizioni, così come la matematica produce formule.

Viceversa, la presentazione interpretativa di un museo dovrebbeessere progettata come una storia che informa, intrattiene e illumina!Anche in questo caso la storia dovrebbe relazionarsi in qualche modocon la personalità e l’esperienza del visitatore-spettatore. Nella semio-logia dell’esposizione, negli apparati scritti, nelle azioni di “didatticamuseale” e nelle azioni interpretative, nella messa in scena, nelle azio-ni di archeologia imitativa, la conoscenza andrebbe trattata in modoimmaginativo e dovrebbero essere presenti almeno questi aspetti:esempi, cause ed effetto, analogie, esagerazioni nella scala del tempo edello spazio, similitudini, metafore, aneddoti, citazioni, humour, ripe-

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FIGURA .Un altro esempio di archeologia imitativa: costruzione e uso di giavellotti presso il Mu-seo delle palafitte del Lago di Ledro

tizioni, eventi contemporanei di paragone (ibid.). Si tratta dunque ditrovare la formula che permetta di andare oltre la serialità degli oggettiesposti e di introdurre apparati o promuovere azioni che facilitino l’af-fermarsi di questa inusitata forma di dialogo tra museo e il suo pub-blico. Sia esso un dialogo mediato dagli apparati informativi, sia il con-tatto con le risorse umane impiegate nelle sale, sia infine un’azioneeducativa specificatamente organizzata. Tutto ciò, con l’obiettivo diinterpretare (nel senso di tradurre) i saperi che gli oggetti esposti, inquanto tali, non sono in grado di comunicare ai diversi pubblici.

Non solo storie tuttavia. La sperimentazione e la manipolazione èun ulteriore passaggio obbligato verso la costruzione del dialogo tra ilmuseo, i suoi reperti, i suoi visitatori. Se il percorso della ricerca pas-sa attraverso la falsificazione delle prove, un buon modo di falsificareè quello di prendere in mano gli oggetti, osservarli e riprodurli speri-mentalmente. Peraltro, se ciò è vero da un punto di vista pratico, lo èanche da un punto di vista epistemologico. Di nuovo, richiamando lecondizioni di base della comunicazione museale, l’obiettivo di coin-volgere il visitatore nell’esperienza di visita al museo è sicuramente fa-

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FIGURA .La didattica dell’archeologia può avvenire in un contesto ludico e partecipato (esem-pi di attività svolte nel Museo delle palafitte del Lago di Ledro)

cilitato qualora siano chiamate a operare esperienza, abilità e motricitàdel visitatore stesso. La sperimentazione diviene rappresentazione estoria viva di azioni e di sperimentazioni del passato. Così facendo, l’e-sperienza del visitatore si confonde con l’esperienza accumulata dal-l’antenato preistorico, in un rimando di specchi e di immedesimazio-ni che sono alla base di trame, storie, narrazioni.

Questo approccio permette di movimentare lo schema canonicodella trasmissione unilineare della visita guidata e della didattica mu-seale poiché mette in campo l’apprendimento mediante un meccani-smo bidirezionale, partecipativo, anche collettivo, di appropriazionedella conoscenza. Insomma, l’esperienza in prima persona e la narra-zione sono sicuramente un modo di facilitare il trasferimento dell’e-sperienza museale nella disponibilità di conoscenze e di saperi del pa-trimonio culturale personale.

Per fare questo i musei devono diventare dei luoghi attenti a con-servare i beni culturali ma anche disponibili a realizzare attività cultu-rali. Un museo non può non disporre di una sezione educativa e di pro-grammi per le famiglie. Inoltre, il museo deve farsi laboratorio di spe-rimentazione, dove i visitatori possono prendere la preistoria nelle lo-ro mani, riconoscere nel gesto di imitazione preistorica una catena dioperazioni che materialmente dimostrano intelligenza, progetto e stra-tegia dell’antichità. Se poi questo avviene in un contesto ludico e par-tecipato, ecco che il museo è visitato e frequentato. Un museo, dun-que, non una collezione.

Il museo non ha alcuna leva coercitiva da utilizzare nell’ambitodella sua azione di diffusione della cultura. «Se piace è usato, se nonpiace rimane deserto, e se rimane deserto non è più un museo ma sem-plicemente una collezione». Le nostre discipline si basano sulla con-cretezza dei dati forniti dalle collezioni, ma potranno meglio procede-re se sostenute dall’interesse della gente. Per questo motivo i musei so-no tra i nostri alleati più significativi.

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. Si tratta di un noto aforisma di J. Dana, direttore del Natural History Museum diNew York, della prima metà del XX secolo.

Il problema del bush. Preistoria, comunicazione e senso comune

di Cinzia Dal Maso

Bush non è l’attuale presidente degli Stati Uniti. Il bush del nostro di-scorso è il cespuglio. L’immagine che da tempo oramai ha sostituito,nella grafica sulle origini dell’uomo, la sequenza lineare di ominidi dal-la scimmia ricurva all’uomo eretto. Una vera rivoluzione che ha colpi-to però solo il mondo scientifico. Solo quello. Nel mondo comune èancora la linea a spadroneggiare. Nell’immaginario collettivo dominaancora un’idea della preistoria come progresso continuo. L’abbiamostampata in fronte sin da bambini, anche se da più parti continuano adirci che la realtà è molto più varia e complessa della nostra semplifi-cazione. Che non ci fu un’unica linea evolutiva ma piuttosto un affa-stellarsi di tentativi più o meno riusciti ma tutti importanti. Visiva-mente un bush per l’appunto, sorta di schizofrenico e incessante pro-porsi di ominidi diversi. Però a noi, gente comune, il bush non piace.Non vogliamo turbare le nostre certezze. E mai i direttori dei giornalidi larga divulgazione oseranno sradicarle. Non è una battaglia che va-le la pena combattere, non è tra le loro priorità. Così, puntualmente,ogni volta che scrivo per “Repubblica” un articolo che riguarda le ori-gini dell’uomo, mi si chiede di disegnare la famosa sequenza lineareposizionando la nuova scoperta al punto cronologicamente correttodella linea. Io testarda spiego ogni volta che non si può fare, che nonè scientificamente corretto, e propongo la grafica del bush. Ma è unabattaglia persa in partenza. “Non va di moda”, mi si dice. È grafica-mente troppo complesso e comunicativamente poco efficace. Rischie-rebbe di spiazzare la gente, di turbarla allontanandola dalla lettura del-la pagina anziché incuriosirla. Insomma la scienza progredisce ma ladivulgazione fatica a stare al passo. Anche chi ci prova si scontra con-tro pesanti muri di gomma. Perché in fondo la divulgazione, come ciinsegnano gli psicologi, ha bisogno di ancorarsi a immagini e concettinoti per raccontare l’ignoto. Di far leva sul cosiddetto “immaginario

collettivo”. E purtroppo prosegue su quella strada anche quando unargomento particolarmente nuovo e complesso richiederebbe inveceun coraggioso salto nel buio. Ma in questo la divulgazione è troppospesso estremamente ottusa e conservatrice. Crede di stare dalla partedell’uomo della strada, di tutelare i suoi interessi, ma in realtà così fa-cendo ostacola il suo diritto alla conoscenza.

Eppure da tempo oramai si dice (o meglio si torna a dire) che bi-sogna recuperare la centralità della cultura, far sì che diventi motoredi sviluppo sociale ed economico. Da tempo si ricorda che progresso,innovazione e competitività hanno bisogno di un vivaio per prodursi,che non possono nascere dal vuoto pneumatico del Grande fratello. Eche la qualità migliora quanto più è incentivata da un mercato consa-pevole, ricettivo ed esigente. È l’antico discorso del circolo virtuoso,semplice e chiaro ma bisognoso di lungimiranza e programmazioni alungo termine per attuarsi. E di precisi piani di comunicazione al pub-blico dei risultati della ricerca scientifica.

Invece finora molta “cultura” è stata a guardare, chiusa nel suomondo ad accumulare polvere. Raramente appariva qualcuno deside-roso di non lasciarla depositare e di servirsi degli strumenti della co-municazione e delle nuove tecnologie per presentarsi alla gente conformule più adeguate ai tempi (ma non per questo avvizzite nei conte-nuti); chi aveva accettato il principio che “semplice” e “popolare” nonsono affatto sinonimi di “superficiale”, che le conoscenze e le innova-zioni vanno comunicate se si vuole che diventino patrimonio condivi-so; chi era convinto che l’ampliarsi del divario fra mondo della ricercae collettività non giovava a nessuno, e si accorgeva che mentre la pri-ma accumulava scoperte e sapere, l’immaginario collettivo rimanevafermo al secolo dei lumi. In molti settori lo è ancora oggi. Perché è inu-tile negare che il secolo dei lumi e i suoi epigoni ci hanno plasmati, han-no impresso nel nostro cervello convinzioni dure da estirpare. Comel’idea di civiltà come punto d’arrivo del progresso umano che neppu-re il più agguerrito relativismo ha saputo intaccare. E “civiltà” è tra-duzione della parola greca politeia, cioè la partecipazione alla vita del-la città. Così per noi la Grecia antica è la summa della perfezione uma-na, un mondo fatto di candore proprio come i bianchi marmi delle suestatue (per quanto ci dicano che un tempo erano colorate, noi semprecandide le vediamo). O come l’aura di mistero di cui è ammantato l’E-gitto dei faraoni che molto deve, anche se non tutto, alle speculazionimassoniche. O come la classica immagine idillica della vita nella prei-

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storia, che ritrae in realtà una tipica famiglia borghese, anche se abi-tante una caverna. O come il “problema del bush”. È questo l’imma-ginario collettivo che il giornalista continua a richiamare quando par-la di storia antica. Rinunciando a fare seria divulgazione, ad aggiorna-re il pubblico sui progressi della ricerca scientifica e di riflesso anchel’“immaginario”, si è negato per lungo tempo e si sta ancora di fattonegando ai più quel diritto alla conoscenza e alla cultura che dovreb-be essere invece patrimonio di tutti.

Oggi, è vero, molto sta cambiando. Ma solo in parte. Quel che neipaesi anglosassoni è sempre stata una priorità ed è sfociata in una ve-ra rivoluzione comunicativa a partire dagli anni Settanta e Ottanta delsecolo scorso, ha raggiunto solo negli ultimi anni aree periferiche del-l’universo comunicativo come il nostro paese. Però oggi in tutto ilmondo la gente viaggia di più, ha più curiosità e sete di conoscenza. Inuna parola c’è più domanda di cultura. E l’educazione non avvieneoramai più solo sui banchi di scuola ma attraverso i canali più dispa-rati: giornali e riviste, radio e tivù, musei e mostre, libri e documenta-ri, conferenze pubbliche e lezioni-spettacolo. Oggi il progresso delleidee e del pensiero collettivi passa attraverso la comunicazione. Que-sta ha assunto un ruolo educativo importantissimo. E una grande re-sponsabilità che però fatica ancora ad assumersi fino in fondo.

Ma forse è solo questione di tempo. Oggi nel nostro paese la co-municazione di “contenuti”, quella realmente interessata alla crescitaculturale del cittadino, è ancora troppo debole per risultare incisiva eassolvere appieno la propria funzione civile. È troppo affidata a ini-ziative singole e poco coordinate. I numeri in realtà sono consistentigrazie alla crescente richiesta di buona divulgazione. Sono sempre dipiù gli allestimenti museali “moderni”, le iniziative capaci di far di-ventare i musei dei luoghi vissuti e frequentati dalla gente, gli spazi de-dicati alla divulgazione nei media, i documentari o i libri divulgativi.Mancano tuttavia professionalità dedicate. O meglio, ci sono ma nonhanno ancora un nome, uno status sociale riconosciuto. Mancano re-gole precise, a parte quelle generali della comunicazione, che però nonbastano. E di conseguenza mancano standard di qualità che consenta-no valutazioni oggettive.

Viviamo nel momento della schizofrenia, del proliferare di scheg-ge impazzite e allergiche all’ordine. E il pericolo di ampie cadute nel-la superficialità è reale e pressante: oggi troppa divulgazione si limi-ta alla cronaca spicciola e alla curiosità. Non racconta la storia ma

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brandelli di storia in salsa sensazionalistica. Fa passare messaggiestremamente semplificati nei contenuti, che non aiutano a capire emancano dello spessore necessario per diventare patrimonio comu-ne. Non fanno cultura ma business, il business del “sai perché”, chepiù o meno consapevolmente specula sulla sete di conoscenza dellagente. Nei media ciò rischia addirittura di giungere all’estrema con-seguenza di non spiegare il significato di una notizia e nel contempoaddirittura stravolgerla.

Un esempio da “Repubblica” può risultare illuminante. Nel luglioscorso Silvia Gonzalez della Liverpool John Moores University avevaannunciato al mondo di aver scoperto centinaia di orme lasciate. anni fa dai nostri antenati sulle rive di un lago nei pressi dellacittà messicana di Puebla. Ciò significava retrodatare la prima com-parsa dell’uomo nel continente americano di oltre . anni. Poi,nel novembre scorso, la doccia fredda: ricercatori del GeochronologyCenter dell’Università di Berkeley hanno datato le orme a un milionee . anni fa: «O non sono orme di ominide, oppure – ha dettoscherzando il direttore Paul Renne durante la conferenza stampa – era-no ominidi straordinariamente vecchi» (Renne et al., ). Chiara-mente scherzava. Parlava per assurdo. Eppure su “Repubblica” è usci-to un titolo del tipo Il nostro più lontano antenato ha un milione e. anni. Mentre i titoli degli altri giornali erano: Dibattito sui pri-mi americani, oppure Sono orme più antiche. A volte se le notizie sononegative, se sono fatte di pars destruens senza un’opportuna pars con-struens, è preferibile non pubblicarle neppure. È una delle regole prin-cipali del buon giornalismo che tutti i professionisti imparano. “Re-pubblica” ha voluto pubblicare comunque la notizia, e per darle un ti-tolo “positivo” l’ha dovuta stravolgere.

Raccontare le più lontane origini dell’uomo non è però semplice.È molto più complicato che raccontare la storia più recente. Perchéè argomento ostico per la gente, anche solo per la lontananza neltempo, che costringe chiunque a uno sforzo mentale semplicementeper mettere a fuoco la cronologia. Per non parlare poi delle molte in-certezze che tuttora dominano questo settore di studi. Incertezze chene costituiscono il fascino, ma rendono per contro pressoché impos-

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. Ricerca presentata alla Summer Science Exhibition della Royal Society di Londranell’estate (cfr. http://www.royalsoc.ac.uk/exhibit.asp?tip=&id=). Informazionie aggiornamenti si possono trovare sul sito Internet www.mexicanfootprints.co.uk.

sibile presentare in termini chiari e concisi lo stato della ricerca. Sipuò urlare l’ultima notizia sui quotidiani: “trovato l’ominide più an-tico”, oppure “il primo che uscì dall’Africa” (sempre ammesso chefu effettivamente così). Mentre sui periodici, che in genere presenta-no una prima riflessione sulle notizie, il compito diventa davvero ar-duo. E illustrare un argomento simile con immagini calzanti è anco-ra più arduo. Così la maggior parte delle volte si preferisce rinuncia-re, lasciando l’approfondimento solo alle riviste specializzate chehanno la facoltà di usare un linguaggio più tecnico e più spazio a di-sposizione. Oppure ai libri, che sull’argomento sono numerosi. Gliantropologi sono da sempre grandi comunicatori e di successo, an-che se parlano ovviamente a un pubblico già selezionato. Tutto ciò èrisultato evidente da una ricerca condotta nel dagli studenti del-l’insegnamento di Museologia dell’Università di Genova (Cominet-ti, Fiordaliso, ). La loro analisi quantitativa sulla presenza del te-ma “origini dell’uomo” in giornali e periodici rilevava un’alta per-centuale di notizie sui quotidiani, pochissime notizie sui settimanali,e di nuovo più spazio all’argomento dedicato da riviste specializzatemensili o da libri dedicati.

Quanto ai temi trattati, si rilevò una predominanza nei quotidianidi articoli sull’arte preistorica rispetto a quelli sulla tecnologia o sulviaggiare dell’uomo preistorico. Il fascino delle pitture rupestri paleo-litiche è indubbio e parla da sé. È argomento “popolare” che da sem-pre trova larghissima eco nei media. Anche qui però la ricerca è pro-gredita: fino a qualche anno fa pareva impossibile, un tabù scientifico,capire quando l’uomo ha cominciato a mettere in moto immaginazio-ne e creatività, a pensare per concetti astratti; indagare le origini delpensiero simbolico così come si è rivelato attraverso l’arte, gli orna-menti personali o il linguaggio; capire, in definitiva, che cosa significaessere uomini e come lo siamo diventati. Mentre negli ultimi anni di-verse équipe di studiosi si sono impegnate in questo e le loro scopertesono così sensazionali da essere tempestivamente diffuse dai media.Come quella annunciata su “Science” nell’aprile : conchiglie di. anni fa appositamente forate per fare bracciali o collane, trova-te nella caverna di Blombos in Sud Africa (Holden, ; Hen-shilwood et al., ). I gioielli più antichi al mondo titolò la stampa.Ma ora sono già stati “superati” dall’annuncio su “Science” nel giugno dell’individuazione di conchiglie analoghe provenienti da Israe-le e dall’Algeria, le prime datate addirittura a oltre . anni fa

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(Vanhaeren et al., ). Per molti ricercatori le nuove scoperte costi-tuiscono la convalida di un’ipotesi che nel era stata definita damolti colleghi troppo debole. La scoperta di Blombos poteva essereepisodica e non indicativa del fatto che l’uomo sapesse pensare sim-bolicamente già in epoche così antiche. Per i media, invece, l’impor-tanza delle notizie risiede generalmente nella possibilità di scrivere sultitolo “il più antico”. Anche in questi casi alla notizia urlata non fa se-guito nei media il ragionamento, non si spiega con sufficiente chiarez-za il vero significato della scoperta. Pare troppo specialistico per farpresa sul grande pubblico, un’indagine ancora troppo nebulosa e va-ga per essere raccontata alla gente. E, come abbiamo già detto, ognibravo comunicatore sa che la gente vuole solo certezze. Anche se, co-me in questo caso, l’argomento è di un fascino indiscusso e la ricercasi fa bellezza di penetrare i segreti della mente umana. Perché, comeha detto Colin Renfrew (in una comunicazione personale), «per noi lamente umana è ancora una scatola nera. Conosciamo molto sulle ori-gini dell’universo, le origini della vita. Ma non siamo ancora in gradodi capire le origini della nostra mente».

Non ho soluzione precisa a questo problema. Per ora mi sono limi-tata a rilevarlo. Ma credo sia estremamente urgente stimolare un dibat-tito per individuare forme comunicative diverse che sappiano real-mente avvicinare i media di larga diffusione e il grande pubblico al-l’avvincente dibattito scientifico sulle origini dell’uomo. Non è que-stione di numeri o di poca attenzione perché, come si è già detto, il no-stro passato più lontano è ampiamente presente nei media, incuriosiscee fornisce notizie sempre sensazionali. Io stessa mi sono accorta, guar-dando gli articoli scritti negli ultimi anni, di aver dedicato molta più at-tenzione alle cosiddette “preistoria” e “protostoria” che alle epoche an-tiche convenzionalmente dette “storiche” (sempre che tali distinzioniabbiano oggi ancora un senso). E la ricerca condotta dagli studenti del-l’Università di Genova conferma che la mia rudimentale statistica sipuò tranquillamente estendere ai media in generale: l’attenzione per iltema delle origini dell’uomo è alta e costante. Il problema vero è la qua-lità del messaggio che giunge al pubblico, la possibilità di andare oltreil mero e spesso sviante “sai perché”, per trasmettere il significato del-le ricerche in atto, prestare attenzione non solo ai risultati di una ricer-ca ma anche ai percorsi conoscitivi che l’hanno prodotta.

La ricerca degli studenti genovesi evidenziava anche un altro pro-blema che la comunicazione sulle origini dell’uomo condivide con l’ar-

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cheologia tutta: la presenza costante e quasi esagerata della parola “mi-stero”. È un cliché, una critica che i ricercatori rivolgono spesso almondo dei media: il “mistero” ammanterebbe il nostro passato diun’aura irreale che non gli si addice, alimenterebbe fantasie troppofantasiose. Sarebbe indice di una comunicazione attenta più alla sug-gestione che al contenuto. Al punto che qualche comunicatore oggi sivanta di non usare affatto la parola incriminata. Alessandro CecchiPaone, per esempio, dice di aver proibito a tutto il suo staff di parlaredi mistero in qualsivoglia circostanza. Io invece ne parlo spesso, conconvinzione.

Già grandi studiosi di comunicazione hanno evidenziato che, se sivuole comunicare in modo efficace, bisogna far leva su conoscenza,immaginazione, emotività. Perché la conoscenza passa attraverso l’im-maginazione, attraverso quel senso di mistero che spinge a scoprire l’i-gnoto. È ciò che attrae, che stimola la curiosità, nell’informazione main primo luogo nella ricerca stessa. Lo diceva anche Albert Einstein: ilsenso del mistero è «il più bel sentimento che si possa provare; è la sor-gente di ogni vera arte, di ogni vera scienza». E continuava: «Chi nonha mai conosciuto questa emozione, è come se fosse morto. Chi nonpossiede il dono della meraviglia, è come se avesse gli occhi spenti».L’emozione del mistero dà la vita. La meraviglia è un dono che accen-de gli occhi. Sono parole forti, esplosive. Assolvono il mistero da ognipossibile accusa di vacuità e irrealtà e gli restituiscono tutta la poten-za di motore della ricerca. Quando dunque nel comunicare si fa levasulla suggestione del mistero, non si fa che riattivare nel pubblico ilmedesimo meccanismo che ha stimolato nel ricercatore la curiosità elo ha portato alla scoperta. Non bisogna mai uccidere tutto questo, ap-piattirlo in rigore freddo ed eccessivo. Nessuna ricerca è davvero così.La ricerca sull’uomo non potrà mai esserlo.

Sdoganiamo dunque il tanto vituperato mistero, purché al momen-to del coinvolgimento del lettore faccia seguito nella comunicazione ilmassimo rigore nell’esposizione. Proprio come ogni ricerca che si ri-spetti può venire stimolata da qualsivoglia idea o intuizione, dal più fu-nambolico senso di mistero, purché poi i suoi risultati superino l’esamedella verifica scientifica. Il vero problema non è l’utilizzo tout court deltermine “mistero”, ma la qualità di tale utilizzo. L’analisi degli studentigenovesi sui contenuti e il linguaggio dei giornali si era limitata alle pri-me . parole di ciascun articolo, quelle che per l’appunto devono cat-turare l’attenzione del lettore. Io li ho esortati ad analizzare anche il se-

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guito degli articoli, per vedere quanti giornalisti si limitano a evocare ilmistero senza poi spiegare nulla, contribuendo anzi a incrementare i fal-si miti, e quanti invece proseguono il discorso con informazioni corret-te. Chi fa cioè vera e seria informazione, per quanto possibile. Chi sa tra-smettere, o prova a trasmettere, in forme coinvolgenti ma anche rigoro-se la profondità del dialogo con i nostri antenati.

La cosiddetta divulgazione scientifica possiede già da tempo le sueformule vincenti. Da tempo esistono scuole di comunicazione dellascienza e una riflessione in merito. Anche perché da sempre la scienzaè considerata difficile da comprendere, e si è manifestata presto la ne-cessità di creare una figura professionale che sappia mediare tra il ri-cercatore e il pubblico, raccontare la scienza alla gente con linguaggiochiaro e semplice. Tuttavia, troppo spesso tale divulgazione si è limi-tata a presentare al pubblico i principi della scienza, i risultati delle ri-cerche, trascurando o trattando solo sommariamente i processi chehanno condotto alla scoperta. E spesso oggi il divulgatore scientificoracconta con lo stesso arido metodo anche il passato dell’uomo. Que-sto perché ha capito che il nostro passato piace alla gente, interessa efa audience. Così oggi capita sovente nei media di vedere i nostri an-tenati, vicini o lontani da noi non fa differenza, considerati alla streguadi un principio della fisica e presentati come tali. Con rigidità eccessi-va e poco dinamismo. Si racconta la scoperta privandola troppo delsuo lato “umano” e dinamico, e si consulta l’esperto di turno che la va-luta. Ciò trova in parte giustificazione nel fatto che al giorno d’oggi latecnologia sa aiutare tutte le altre discipline a scoprire quel che primapareva impossibile. Un esempio per tutti è la rivoluzione dell’analisi alcarbonio che in archeologia ha consentito di dare un’età a oggettiantichi prima analizzabili solo in base a criteri stilistici. Ma tale com-pito fondamentale della tecnologia non deve distrarci e farci credereche sia lei la protagonista. Ci dice che l’uomo moderno è technologicuse oramai non può più vivere senza le proprie “appendici tecnologi-che”, dal banale cellulare fino agli strumenti più sofisticati. Ma nel no-stro caso questi forniscono solo un aiuto a ricostruire in modo semprepiù preciso quello che è e rimane l’oggetto principale del nostro di-scorso, l’uomo e la sua storia. Dopotutto è lui che, si è detto, piace, in-teressa, fa audience. Molto più delle pietre, i monumenti, i gioielli, lestatue, i dipinti che ci ha lasciato. Molto più della tecnologia che lo ri-vela. Perché noi uomini d’oggi sappiamo bene che dietro ogni pietrac’è sempre l’uomo che l’ha costruita, dietro un paesaggio c’è l’uomo

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che l’ha plasmato, dietro ogni scoperta scientifica c’è l’uomo che l’haintuita. La seria divulgazione della storia (e della preistoria) deve faremergere gli uomini del passato dai colori, dai mattoni, dalle pietre,dai paesaggi, dalle sue conquiste scientifiche e tecnologiche, per par-lare direttamente all’uomo d’oggi. Solo così scattano in noi emozionee meraviglia, curiosità e partecipazione. Si mettono in moto fantasia,ansia di scoperta, spinta ad agire. L’uomo parla con l’uomo, non giàcon le pietre o la terra. E per quanto si scoprano sempre più elementidi affinità tra noi (in quanto ominidi) e gli altri primati (o in generalei mammiferi), rimane pur sempre uno iato fatto di creatività, impreve-dibilità, capacità di reagire agli imprevisti, capacità critica e di astra-zione, senso della storia. L’uomo è diverso, almeno per ora. Ed è mu-tevole, cambia col passare dei secoli. Mutano le sue conoscenze, i suoipensieri e sentimenti. E questa diversità è la vera ricchezza del nostropassato e ciò che arricchisce l’uomo d’oggi. Recuperarla in tutta la suavarietà e far sì che diventi forza attiva del contemporaneo, richiede unosforzo di mediazione culturale complesso. Fatto di profonda e non epi-sodica conoscenza del passato, oltre che delle regole della comunica-zione. Per questo il comunicatore scientifico poco attento alle circo-stanze storiche di ciò che descrive non sempre coglie nel segno. E poiservono sensibilità, intuizione, curiosità, immaginazione. È a tutti glieffetti un’arte, l’arte di parlare dell’uomo all’uomo. E di stimolare op-portunamente la fantasia. Anche questo è fondamentale, anzi indi-spensabile. Perché il passato è per definizione inconoscibile nella suatotalità, per quanto lo si indaghi conserverà sempre angoli oscuri, “mi-steriosi”. È l’ultima terra incognita rimasta all’uomo moderno, oramaiincapace di seguire la scienza al di là dell’infinitamente grande e del-l’infinitamente piccolo. Il passato è la nostra riserva inesauribile di sco-perte e, dove le scoperte non possono giungere, per l’appunto di fan-tasia. Parte del nostro passato la possiamo solamente immaginare. Ciaffascina anche per questo. E quando ci avventuriamo nel passato piùlontano e indaghiamo le origini dell’uomo, subentra oltremodo il fa-scino di capire o immaginare come eravamo e come siamo, di andareall’origine di molti universali sulla nostra “umanità”. Anche se, comeabbiamo rilevato prima, questo è un passo ulteriore in avanti non im-mediatamente percepibile dalla gente. E necessita perciò di una me-diazione culturale ancora più complessa.

Questa arte di raccontare il passato e stimolare la fantasia, benchépossa vantare molti artisti tra le sue file, non è in realtà ancora ben de-

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finita nei suoi contorni. Non vi abbiamo ancora riflettuto come si è fat-to con le scienze esatte. Forse perché non abbiamo riflettuto a suffi-cienza sull’uso e il valore del passato nel mondo moderno, e di conse-guenza fatichiamo a comunicare il significato profondo della moder-na ricerca sul passato. A stimolare nel pubblico una consuetudine co-stante, partecipata e proficua con il proprio passato. Vicino e lontano.

Bibliografia

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C I N Z I A D A L M A S O

Insegnare l’evoluzione dell’uomo nella scuola superiore

di Brunella Danesi

.Difficoltà nell’insegnamento

La teoria dell’evoluzione – e il processo di ominazione in particola-re – non sono argomenti trattati in forma sistematica nella scuola ita-liana, tanto che se si chiede a giovani laureati in biologia di specifi-care quando, per la prima volta, hanno assistito a lezioni su questitemi, nella maggior parte dei casi rispondono che è avvenuto sol-tanto all’università.

È peraltro difficile fare delle generalizzazioni, perché nella scuo-la italiana varie sono le tipologie di insegnamento, per quanto ri-guarda sia i metodi didattici, sia i contenuti disciplinari. Resta il fat-to che da parte di alcuni insegnanti di Scienze naturali esiste una re-sistenza di fondo ad affrontare temi evoluzionistici, esemplificatamolto bene dall’affermazione di un docente appena immesso in ruo-lo, che, partecipando a un corso di aggiornamento on line, ebbe adichiarare che l’evoluzione, «essendo una teoria, non è poi tanto si-curo che sia proprio vera».

Del resto, a conferma di questa resistenza, basta esaminare le ri-sposte di alcune associazioni disciplinari e/o pedagogiche di frontealla rimozione dei temi evolutivi dai programmi della scuola di ba-se, proposta nel dal ministro della Pubblica istruzione LetiziaMoratti: pur con vari distinguo, c’è stata una convergenza non tra-scurabile sulla tesi espressa dal prof. Bertagna, il quale ha dichiara-to, appunto, che questo tipo di insegnamento richiede estrema cau-tela, dal momento che «per i primi otto anni è necessario rifletteresull’esperienza [...] e solo dopo è possibile affrontare in modo ade-guato le teorie sull’evoluzione della specie umana, solo allora i gio-

vani sono in grado di apprendere con una complessità e compara-zione diverse».

In verità, questi esperti non tengono conto che «niente ha sensoin biologia se non alla luce dell’evoluzione», come TheodosiusDobzhansky (-), uno dei padri fondatori della Teoria sinte-tica, affermò in un articolo del , che oggi sarebbe forse oppor-tuno rileggere.

A livello di scuola di base, non occorre parlare di modelli evolutivi;basterebbe guidare i bambini a “raccogliere i fatti” su cui poggia la scien-za in genere e la teoria evolutiva in particolare. Ciò può essere fatto:a) con uscite all’aperto, nei campi vicino alla scuola o nei parchi, co-sì da avere l’opportunità di fare loro riconoscere e dare un nome a pie-tre, animali, piante e poi insegnare a comparare i diversi esseri viventi– cani, canarini, lucertole –, a notare le strutture comuni e a segnalarele differenze;b) con la frequentazione dei numerosi musei di Storia naturale spar-si un po’ in tutta Italia e che dispongono di personale qualificato e mo-tivato, così da favorire la consapevolezza di come, in un lontano pas-sato, le forme di vita fossero profondamente diverse da quelle attual-mente presenti.

In molte scuole questo avviene e di ciò esiste una ricca documen-tazione, mentre in altre ci si limita ancora a “raccontare fatti” e maga-ri a proiettare cartoni animati, nei quali si vedono bambini che sonoinseguiti da dinosauri.

Se si esamina la situazione della scuola superiore, è subito eviden-te che questa è in parte complicata dal fatto che l’argomento è asse-gnato a campi disciplinari diversi, essendo la preistoria affidata agli in-segnanti di Lettere che affrontano l’argomento nelle classi prime – edunque in un periodo in cui gli studenti non sono in grado di apprez-zarne la complessità –, mentre l’evoluzione dell’uomo dovrebbe esse-re trattata da quelli di Scienze naturali, e quindi nel biennio delle scuo-le tecniche e nel triennio dei licei. È dunque difficile prevedere per-corsi pluridisciplinari fra insegnanti che operano in classi spesso di-verse. Ad aumentare la difficoltà concorre anche il fatto che in Italia,

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. Tratto da un’intervista rilasciata dal prof. Bertagna al quotidiano “la Repubblica” il aprile .

. Il testo è leggibile anche on line: cfr. http://people.delphiforums.com/lordorman/light.htm.

nella maggior parte dei casi, gli insegnanti della scuola superiore sonoabituati a lavorare da soli, facendo appello a conoscenze che gli stu-denti dovrebbero aver appreso in altre discipline, ma che a volte nonhanno o, se le possiedono, non riescono a ripescarle per costruire unquadro coerente.

Accade così che il processo di ominazione e la preistoria venganoaffrontati nelle classi prime della scuola secondaria, con studenti qua-si sempre completamente digiuni di evoluzione e con insegnanti diLettere che spesso conoscono poco di biologia e di evoluzione e chemagari, durante la loro formazione universitaria, non si sono mai oc-cupati di preistoria. Nei testi di storia delle classi prime, più di tre mi-lioni di anni – dalla preistoria al XIV secolo – sono riassunti in un nu-mero di pagine che oscilla dal al % di quelle complessive che com-pongono il manuale; in queste pagine ci sono cenni sulla teoria dell’e-voluzione, a volte si parla anche della formazione dei continenti, dimovimenti delle placche, di tecniche di indagine proprie degli ar-cheologi e di altro ancora.

Quello che particolarmente colpisce è inoltre il modo in cui spes-so l’argomento viene affrontato: ci si sofferma a parlare di Huxley odi Darwin, senza fare alcun cenno agli sviluppi successivi della teo-ria e suggerendo pertanto l’idea che si tratti di un modello cristalliz-zato nel tempo; si parla ancora di ipotesi circa la discendenza del-l’uomo, addirittura a volte si insiste sulla carenza di resti fossili, sen-za tener conto delle svariate centinaia di reperti rinvenuti un po’ intutto il mondo; al processo di ominazione, poi, viene dedicata unascarna paginetta, in cui – pressoché sempre – si assiste a una marciatrionfale, tappezzata da conquiste che vanno dalla stazione eretta, alcontrollo del fuoco, alla scoperta dell’agricoltura e infine a quelladella scrittura.

L’insegnamento della biologia, d’altra parte, come ho già accen-nato, non prevede necessariamente lo svolgimento dell’evoluzione e,anche quando tale argomento viene esaminato, spesso ciò viene fat-to come se fosse un argomento fra gli altri e dagli altri separato, sen-za che vada a rappresentare il quadro di riferimento essenziale pertutte le scienze della vita. Discipline apparentemente diverse sia nelmetodo di indagine che nei campi di ricerca, come la genetica, l’em-

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. A questo proposito può risultare utile consultare Gould (, pp. -).

briologia, la biologia molecolare, la citologia, l’etologia, l’ecologia,utilizzano tutte l’evoluzione come una potente chiave di interpreta-zione dei più disparati dati osservativi. Temo però che di questarealtà non rimanga traccia nei nostri adolescenti, in quanto la teoriadell’evoluzione, quando si sceglie di svolgerla, è trattata secondo unoschema consolidato che in sequenza si può così riassumere: cellule,genetica, evoluzione, forma e funzione di animali e di piante – conparticolare riferimento all’anatomia umana –, ecologia, ma raramen-te l’evoluzione viene utilizzata come principio organizzativo. Unavolta che gli studenti abbiano imparato magari a utilizzare la formu-la di Hardy-Weiberg e abbiano memorizzato i diversi tipi di isola-mento riproduttivo, la loro attenzione è indirizzata subito verso altriargomenti, per esempio l’anatomia umana o l’ecologia, come se que-sti fossero completamente scollegati dal primo, che di rado viene ri-chiamato per dare significato ai variegati fenomeni della vita. Il ri-sultato sconfortante è che questa potente chiave di interpretazionerimane inutilizzata: quando per esempio si parla di immunità, si tra-lascia di parlare della teoria della selezione clonale o, quando vienetrattata l’alimentazione umana, non ci si sofferma sulle ragioni evo-lutive che hanno permesso agli europei di poter digerire senza pro-blemi latte di mucca e di capra, a differenza di quanto avviene permolte altre popolazioni in cui l’allevamento del bestiame non si è af-fermato precocemente.

I giovani che frequentano le nostre scuole, d’altra parte, non sonotabulae rasae, giungono alle soglie del triennio con cosmologie ben ra-dicate, le stesse della società. In particolare, sono profondamente con-vinti che esista un divario incolmabile fra l’uomo e gli animali; gli ani-mali, appunto, e non gli altri animali, perché l’uomo è visto dai più co-me signore e padrone del pianeta, è soggetto a un inarrestabile pro-gresso e il tempo in cui nessun umano esisteva non è tutto sommatodegno di attenzione.

Per i nostri studenti le stagioni si susseguono anno dopo annosempre uguali, così come sempre identici e sempre ugualmente pre-senti appaiono gli uomini, che, anche se vengono meno, sono sosti-tuiti dai propri figli e dai figli dei figli, in un ciclo interminabile, deltutto simile a quello cantato da Omero nell’Iliade: «La progenie deimortali assomiglia al genere delle foglie: / il vento d’autunno le di-sperde già secche e a primavera il bosco fiorente poi le ravviva: / co-sì nascono, così sfioriscono gli uomini». Essi dovrebbero, invece,

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soffermarsi a considerare che la Terra è un pianeta in continua tra-sformazione, in cui ogni forma di vita permane per periodi geologi-ci di tempo limitati e poi fa posto ad altri organismi, anch’essi de-stinati a scomparire; il lunghissimo intervallo in cui il pianeta è sta-to completamente deserto e il periodo ancora più lungo in cui, puresistendo innumerevoli forme di vita, nessun uomo era in grado diosservarle, apprezzarne la bellezza e descriverle, appare loro irrile-vante.

La piena percezione da parte degli studenti del “tempo profondo”si rivela spesso un problema insormontabile; li chiamiamo a memoriz-zare i principali eventi che hanno caratterizzato la storia del pianeta ea ricordare i nomi delle ere e dei periodi, a partire dall’esplosione delCambriano o ancora prima, ma gli insegnanti sono sicuri che i ragazzihanno pienamente compreso la profonda differenza che esiste fra die-cimila, centomila, un milione, cento milioni di anni? Per molti di loroquesti numeri sono tutti disposti su una stessa linea posta su un oriz-zonte indistinto.

Forse troppo spesso ci si dimentica che la conquista del tempo –le sterminate antichità – è stata un’impresa difficile e che ancora nelSeicento c’era un vasto consenso intorno ai calcoli di James Ussher(-), che datavano la nascita del mondo al a.C.

TABELLA .Si esemplifica in modo didatticamente efficace come far comprendere il tempoprofondo ai profani ( anno = .. anni)

/ Comparsa di Homo abilis/ Comparsa di Homo ergaster / † Homo robustus/ Primo controllo del fuoco/ Segni di Homo sapiens in Africa / Prime sepolture

(Protocromagnon del medio oriente)/ † Homo neandertaliensis e prime manifestazioni artistiche

in Europa/ ore Inizio agricoltura/ ore Inizio metallurgia/, ore Invenzione della scrittura/, ore , Scoperta della doppia elica

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Bisognerebbe insistere di più su prospetti simili a quello rappre-sentato in TAB. ., per introdurre gli studenti dentro gli abissi deltempo, rendendoli consapevoli che, lungo questo percorso, la com-parsa di Homo sapiens e ancor più la sua storia fondata su documen-ti scritti si inseriscono come un impercettibile granello di polvere cheanche una pioggia da poco potrebbe trascinar via con la stessa rapi-dità con cui sono apparsi.

Un’altra cosmologia radicata profondamente e che deve esseremessa in discussione, se si vuole trattare in modo corretto l’evoluzio-ne dell’uomo, è legata al modello evolutivo prevalente, secondo cui at-traverso trasformazioni impercettibili – successivi gradi di perfeziona-mento – si è passati dai protisti a forme coloniali, a pluricellulari, aibruti, all’uomo, ultimo coronamento di questo processo. La scala delprogresso viene spesso riproposta in molti libri di testo, è l’unico mo-dello presentato negli articoli di divulgazione scientifica, è onnipre-sente nella pubblicità e il suo superamento richiederebbe un lavoromolto lungo e pluridisciplinare.

Le polemiche recenti circa l’insegnamento dell’evoluzione a livel-lo della scuola di base hanno probabilmente un fondamento ideologi-co; risentono di ciò che sta avvenendo un po’ in tutto il mondo e inparticolare, per quanto riguarda l’Occidente, negli Stati Uniti, dove leorganizzazioni che sostengono l’intelligent design si moltiplicano ehanno sempre più fondi e seguaci. Il rapporto scienza-fede – già com-plicato ai tempi di Galileo – non accenna a ricomporsi; in particolare,malgrado le caute aperture di papa Pio XII, con Humani Generis ()e più recentemente di Giovanni Paolo II, che alla Pontificia accademiadelle scienze ebbe a dichiarare: «nuove conoscenze conducono a nonconsiderare più la teoria dell’evoluzione una mera ipotesi» (), mol-ti sono ancora fermamente convinti che, come scriveva Tolstoj nel alla famiglia poco prima di morire, «le cose che avete imparato suldarwinismo, sull’evoluzione e sulla lotta per l’esistenza non vi spie-gheranno il significato della vostra vita e non vi forniranno una guidanelle vostre azioni, e una vita senza una spiegazione del suo significa-to e della sua importanza, e senza la guida infallibile che ne deriva, èun’esistenza degna di commiserazione».

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. La citazione in Gould (, p. ).

Non è il caso di insistere sull’interpretazione distorta che Tolstojdà della metafora della lotta per l’esistenza; più importante è porrel’accento sull’altro profondo fraintendimento, e cioè che le leggi chegovernano la natura possano essere prese come riferimento per il com-portamento etico; la noosfera di Teilhard de Chardin, le tesi Capra, lateoria di Gaia, secondo cui nella natura prevarrebbero armonia e col-laborazione, non sono sufficientemente motivate scientificamente, co-me non lo è la visione di una natura rossa di sangue nelle zanne e ne-gli artigli; nella natura prevale ora l’uno ora l’altro aspetto, ma in ognicaso le sue leggi non possono offrire conforto o consolazione in ter-mini umani. La scienza non va alla ricerca di verità ultime, ma soltan-to di interpretazioni provvisorie che non hanno lo scopo di negare oaffermare l’esistenza di Dio. La ricerca di Dio è per sua natura un per-corso – tormentato o felice – che dovrebbe avvenire all’interno dellacoscienza individuale, e scienza e fede dovrebbero rimanere accurata-mente disgiunte.

In novembre, presso l’Istituto Niels Stensen di Firenze, si è tenu-ta una serie di conferenze molto interessanti, perché si sono mosseproprio in questa direzione. Monsignor Ravasi, per esempio, ha mes-so in luce, commentando la Genesi, come se ne impoverisca il profon-do valore culturale, volendovi vedere dei riferimenti cronologici sullanascita della vita e della forma umana; è una grave lacuna che in Italiasia del tutto assente nelle scuole la lettura seria e approfondita dei te-sti sacri, dato che essi rappresentano le radici culturali della nostra ci-viltà ed è culturalmente inaccettabile che questi vengano chiamati incausa soltanto per farne un uso ideologico e distorto, sia da quanti liconsiderano portatori di verità scientifiche indiscutibili, sia da parte diquanti ne mettono in ridicolo le stesse affermazioni, che invece hannoun significato metaforico.

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. Nel convegno Creazione divina e creatività della natura, promosso dalla PontificiaUniversità della Santa Croce, viene ribadito: «L’evoluzione si può considerare come il mo-do che Dio ha voluto utilizzare per dare l’esistenza a quanto esiste al mondo, utilizzando ca-nali naturali, la cui potenzialità dipende dai piani della sapienza divina e dall’azione divinafondante» (Artigas, ; la conferenza si può leggere anche sul sito http://www.artcurel.it/artcurel/cultura/scienza/creazionedivinaecreativitadellanaturaartigas.htm). E questa per uncredente è una posizione del tutto legittima, ma è dettata da un atto di fede e la scienza, persua natura, non può né negare né accettare questa affermazione.

. Evoluzionismo ed antievoluzionismo: un contenzioso non ancora chiuso (Novembrestenseniano, ). Il programma e alcune relazioni sono scaricabili dal sito:http://www.stensen.org/modules.php?name=Congressi&id_congresso=&nome=Novembre%stenseniano%.

.Perché sarebbe auspicabile dedicarvi più tempo

Ormai da più di trenta anni naturalisti e filosofi della scienza conti-nuano a ripetere che la biologia evolutiva è una scienza con uno sta-tuto epistemologico particolare, in grado di creare un ponte versole scienze sociali e le scienze umane, dal momento che spesso af-fronta temi di confine. Questo è particolarmente vero per la ricercadelle nostre origini e la nascita dell’evoluzione culturale, temi in cuinumerose sono le intersezioni tra le scienze dell’evoluzione, le scien-ze umane e quelle sociali. Non si può inoltre dimenticare che i gio-vani sono particolarmente interessati ad affrontare questi argomen-ti che cercano di rispondere a quesiti che da sempre sono per loroparticolarmente coinvolgenti (chi siamo, da dove veniamo, quali so-no le prospettive per il nostro futuro...) e pertanto l’argomento puòessere utilizzato per mostrar loro la bellezza della scienza e la sua ca-pacità di indagare problemi appassionanti: lo studio approfonditodelle nostre origini apre pertanto infiniti percorsi pluridisciplinari eha un’alta valenza formativa.

Per quanto riguarda l’ultimo punto, basterebbe far capire agliadolescenti che la nostra culla è stata l’Africa, i nostri antenati era-no molto presumibilmente neri, anche se per uno strano gioco deldestino in seguito, ma solo “un soffio di tempo fa”, la supremazia ètoccata ad uomini dai visi pallidi. Come ci insegna il modello a ce-spuglio che ricostruisce il nostro albero genealogico, per molto tem-po sono convissuti insieme diversi ominidi che poi, per motivi an-cora non pienamente compresi, si sono estinti, ma non necessaria-mente essi erano inferiori a noi: la storia della vita sulla terra, comela storia umana, è imprevedibile, ricca di deviazioni e di vicoli a fon-do cieco che sembravano strade maestre piene di straordinarie pro-messe. L’evoluzione ci insegna anche che un grande cervello, al pa-ri delle ali, delle pinne, degli zoccoli, è dispositivo prezioso in vistadel conseguimento di certi fini, non segno di superiorità intrinseca;e che certe strutture possono essersi affermate per bisogni diversi ri-spetto a quelli per cui sono attualmente utilizzate: così le pinne so-no sorte per rispondere a esigenze di termoregolazione, per rivelar-si in seguito estremamente efficienti per consentire la conquista diun nuovo spazio vitale – quello aereo –, così la vescica natatoria de-gli Osteoitti era originariamente un polmone che solo successiva-

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mente ha assunto una funzione nuova e imprevedibile, così il nostrogrande cervello si è affermato per ragioni adattative diverse – e an-cora discusse – da quella di consentirci il lusso di un’autocoscienzaaltamente sviluppata.

.Itinerari

Come fare per affrontare questi temi in modo esaustivo? Credo che illibro di testo, anche se resta uno strumento indispensabile, non è suf-ficiente a mettere in luce la complessità del tema affrontato; esistonomolti saggi di buona divulgazione scientifica, che possono essere lettie commentati insieme agli studenti. Penso ai libri di Harris (), Tat-tersall (), Diamond (, ), Biondi e Rickards (), perquanto riguarda percorsi di tipo più strettamente biologico, ma sa-rebbe anche importante far riferimento ad alcuni passi dell’antropo-logo Lévi-Strauss () o di Leroi-Gourhan (), magari riuscendoa coinvolgere insegnanti di Lettere, di Storia dell’arte, di Filosofia e sa-rebbe altresì possibile compiere interessanti escursioni in opere di fan-tasia, leggendo quanto sulla vita dell’uomo primitivo ha scritto, peresempio, Kurtén (, ).

L’insegnante che fa bene il suo mestiere deve soprattutto cattura-re l’attenzione dei suoi studenti, riuscire a trascinarli in un viaggio incui, attraverso osservazioni dirette, ma anche attraverso letture appro-priate, possano comprendere il senso dell’avventura scientifica, le suepossibilità di arricchire l’uomo; deve, cioè, essere capace di costruirepercorsi in cui sia messa in gioco una sinergia di intelligenza, fantasia,immaginazione ed emozione. – Un esempio del tipo di lavoro che può essere svolto in classe uti-lizzando un buon saggio di divulgazione scientifica, può essere rap-presentato dal libro di Tattersall (). Esso si apre con la descri-zione dell’arte preistorica e in particolare di una sepoltura Cro-Ma-gnon risalente a . anni fa, rinvenuta nel sito russo di Sungir, lacui ricchezza fa subito comprendere come ci si trovi di fronte a re-sti di individui pienamente umani, con una completa consapevolez-za della morte e una speranza in una vita ultraterrena, durante laquale certi strumenti di uso quotidiano – posti a fianco ai tre defunti– potrebbero rivelarsi utili; i ricchi manufatti, inoltre, sono una te-stimonianza che già in quel periodo l’arte era un’occupazione pre-

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minente, per cui la vita dei cacciatori/raccoglitori non era dedicataesclusivamente ad attività di sopravvivenza, dal momento che pote-vano impegnare parte del loro tempo ad attività simboliche. Gli abi-ti dei defunti, adornati di più di tremila perle di mammut, ognunadelle quali deve aver richiesto più di un’ora di lavoro, testimonianoanche che già allora esisteva una qualche organizzazione sociale cheprevedeva una divisione dei compiti: quale differenza dall’immagi-ne del primitivo nudo e disperato che viene proposta dalla maggiorparte delle opere di cattiva divulgazione! Questa descrizione fa ri-ferimento all’arte preistorica, su cui in genere si tende a sorvolarenei licei. Eppure, cercare di comprendere le ragioni che condusse-ro i nostri antenati all’interno di oscure caverne, illuminate dall’in-certa luce di fiaccole rudimentali per raffigurare animali colti congrande sensibilità nei momenti più diversi della loro esistenza, è av-vincente; la sequenza ritmica di molte di queste immagini indica unanarrazione che aveva probabilmente significati simbolici e, come haipotizzato Leroi-Gourhan (), i grafemi che a volte compaionoinsieme ai dipinti potrebbero rappresentare frasi che fanno riferi-mento a una cosmologia sofisticata.– Il tema della preistoria permette di ripensare alla nascita dell’a-gricoltura; si può per esempio portare gli studenti a riflettere se dav-vero si sia trattato di una conquista o se al contrario possa anche es-sere stato un fenomeno che, oltre a portare dei benefici, ha portatocon sé danni, causati da un’alimentazione meno equilibrata e dalpropagarsi delle malattie infettive diffuse dalla promiscuità dell’uo-mo con gli animali domestici, come viene proposto dal saggio diDiamond (). Dal punto di vista didattico, non è tanto impor-tante abbracciare una tesi o un’altra ad essa contrapposta, quantoportare gli studenti a vedere i vari aspetti di un problema, far lorocapire che non esistono mai spiegazioni semplici; sempre brani diDiamond, letti anche in forma decontestualizzata, possono permet-tere di affrontare le ragioni adattative che hanno portato l’agricol-tura a svilupparsi soprattutto nella zona della mezza luna fertile enon altrove. – Altro problema di grande interesse è la differenza fra noi e gli al-tri animali e in particolare le scimmie antropomorfe; questo natu-ralmente porta a cercar di capire di che cosa si parli quando si par-la di intelligenza e quale sia il confine fra noi e i nostri parenti piùstretti, che, visti da vicino, per esempio attraverso gli studi trenten-

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nali della Goodall () o attraverso la grande capacità divulgativadi Mainardi () ci appaiono, come gli uomini, feroci, capaci diingannare e mentire, ma sanno anche essere generosi e teneri. – La ricostruzione di alcuni squarci negli abissi del tempo può la-sciare ricordi indelebili; a questo proposito i due romanzi del pa-leontologo Björn Kurtén (, ), la cui lettura può essere af-frontata anche da studenti del biennio, sono a mio avviso fra i piùadatti. Essi costituiscono una sorta di saga familiare, in cui viene de-scritta la vita quotidiana nella Scandinavia del sud di un clan di ne-ri, che si autodefiniscono “uomini”, i Cro-Magnon, e un gruppo dibianchi neandertaliani, i Troll; i secondi accolgono e curano un gio-vane nero ferito, Tigre, affascinati dal suo aspetto di giovane dio, daisuoi tratti neotenici. L’incontro si rivelerà nefasto, perché le donneneandertaliane, conquistate dai neri, li preferiranno ai loro conspe-cifici, dando origine alla stirpe dei bruni, segnati da un destino in-felice, in quanto sterili. Si tratta evidentemente di un romanzo e lerecenti indagini condotte sul DNA dei neandertaliani (Biondi,Rickards, ) hanno mostrato come in effetti le due popolazioni,anche se sono venute in contatto, non si sono mai incrociate. Maquel che importa ai fini didattici è l’abile combinazione di una tra-ma avvincente con una messe di dati di biologia evoluzionista che idue romanzi riescono a fornire. La ricostruzione dei neandertalianie della loro vita è profondamente diversa da quella fatta agli inizi delNovecento da Marcellin Boule, in cui venivano rappresentati comebestiali e stupidi: Kurtén ci parla di un popolo che, sotto un aspet-to feroce, cela una grande disponibilità nei confronti dell’altro e unacultura complessa, anche se profondamente diversa da quella deineri; ci fa capire che l’incontro ravvicinato fra due popoli comple-tamente diversi, sia per l’aspetto che per l’organizzazione sociale,inizialmente vissuto con estremo sospetto da parte di entrambi, puòinvece portare al reciproco rispetto, dettato dalla conoscenza del-l’altro; questi lontani predecessori sono gentili o brutali, cercano diraggiungere il potere con tutti i mezzi o si sottomettono ai bisognialtrui, sono amanti fedeli o volubili, non sono insomma diversi danoi. Il paleontologo-romanziere ci fa comprendere il significato evo-lutivo della neotenia per l’affermarsi delle cure parentali nei mam-miferi e (nel romanzo) per le scelte sessuali operate dai neanderta-liani; ci parla del vigore degli ibridi, essendo i bruni forti, intelligentie più capaci a resistere alle malattie infettive, che invece decimano

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gli altri bambini, e al contempo mette in luce come spesso l’ibrida-zione comporti sterilità; chiarisce come il dimorfismo sessuale, spic-cato nei neri e poco accentuato nei bianchi, possa essere uno dei mo-tivi della diversa organizzazione sociale negli uomini e in altri ani-mali; esemplifica moduli comportamentali atti a rassicurare il con-specifico, che possono fornire lo spunto per ulteriori approfondi-menti etologici; presenta una ricostruzione accurata dell’ecologiadel passato, riuscendo a far rivivere il mammut e la tigre dai denti asciabola.– Un altro spunto per possibili itinerari didattici è offerto da rife-rimenti a studi etnologici sui popoli “primitivi”. Tali studi, se per unverso consentono di esercitare un approccio critico alla cultura eu-rocentrica, dando dignità a culture di popoli appartenenti a società“fredde” e ormai scomparse, per l’altro – e il riferimento è, in par-ticolare, ai testi di Lévi-Strauss () – mettono in luce il rapportoche si instaura tra l’ambiente – nemico o alleato – e l’uomo che adesso reagisce in modo diversificato, ma è sempre in grado di co-struire una cultura in cui il mondo fisico e quello spirituale sonostrettamente intrecciati. Lévi-Strauss si sofferma, per esempio, a de-scrivere i Nambikwara, popolazione con una cultura materialeestremamente povera: non possedevano strumenti in metallo, il va-sellame, inesistente o estremamente grossolano, era prevalentemen-te costituito da recipienti di zucca, i coltelli erano semplici scheggedi bambù, non conoscevano piroghe e i corsi d’acqua erano attra-versati a nuoto; solo la nuda terra serviva da giaciglio: come si vede,si tratta di un popolo la cui vita, prima che venisse in contatto conl’Occidente, aveva profonde analogie con quella dell’uomo primiti-vo, quando l’agricoltura era ancora estremamente rudimentale, ep-pure, dalla descrizione dell’etnologo, questa “società fredda”, ap-parentemente cristallizzata nel tempo, ci appare equilibrata e uma-namente più ricca rispetto alle “società calde”, pervase da veloci tra-sformazioni storiche e scientifiche:

L’accordo regna generalmente nelle famiglie. Verso le tre o le quattro glialtri uomini tornano dalla caccia, l’accampamento si anima, le conversa-zioni diventano più vivaci, si formano gruppi diversi dagli agglomerati fa-miliari. Si mangiano gallette di manioca e quanto è stato trovato durante lagiornata. [...] La serata passa in conversazioni, oppure in canti e danze. [...]A volte questi passatempi si protraggono molto avanti nella notte, ma ingenerale, dopo scambi di carezze e nelle lotte amichevoli, le coppie si uni-

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scono più strettamente, le madri stringono a sé il figlio addormentato, tut-to diventa silenzioso (ivi, pp. -).

– Un ulteriore spunto di riflessione può essere offerto dall’ipotesiformulata da Lévi-Strauss a proposito delle ragioni che portaronoalla scoperta della scrittura. Al loro primo incontro con l’Occiden-te, i Nambikwara non conoscevano la scrittura e anche il disegno silimitava a semplici incisioni a zig-zag, ma, una volta che Lévi-Straussebbe distribuito loro fogli e matite, dopo un iniziale disinteresse,presero a tracciare delle linee sinuose, cercarono cioè di imitarequanto avevano visto fare dall’etnologo, anzi, il capo della bandaandò oltre e, invece di comunicare verbalmente con lo straniero,chiese un bloc-notes, prese a tracciare delle linee e le mostrò all’o-spite, con aria complice: aveva compreso che quegli strani segni po-tevano essere un simbolo di potere. L’episodio fa riflettere l’antro-pologo sul significato della scrittura, considerata da sempre esclusi-vamente come una memoria artificiale in grado di meglio organiz-zare il presente e il futuro; se questo fosse vero, si potrebbe creareun netto spartiacque fra i popoli che possiedono questo potentemezzo e quanti non lo possiedono e «rimangono prigionieri di unastoria fluttuante, priva di origine e di una durevole coscienza di unameta»; ma questo è vero solo in parte, dal momento che alcuni an-tichi abitanti dell’America non possedevano questo strumento e ciònonostante sono stati capaci di costruire una grande civiltà. Questeconsiderazioni portano Lévi-Strauss a concludere che la funzioneprimaria della scrittura è stata quella di favorire l’asservimento: ilcapo aveva adottato il simbolo della scrittura, anche se la sua com-prensione gli rimaneva estranea; «un indigeno ancora all’età dellapietra aveva indovinato che quel grande mezzo di comprensione,pur non potendo comprenderlo, poteva almeno servire per altri fi-ni»; questo è, del resto, quanto avviene ancora oggi in molti villag-gi del mondo, dove gli abitanti, anche se conoscono la scrittura, nonla possiedono e dove lo scriba esercita un ruolo di grande potere(ivi, pp. -).– Infine, un aspetto non secondario sul quale è necessario insiste-re è che le molecole biologiche, a differenza di quelle organiche,hanno anch’esse una storia; anche se al momento non è stato possi-bile ricostruirla in modo compiuto, sono testimonianza del lungo

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cammino percorso dalla vita sulla terra e presentano, come ha af-fermato Prigogine (, pp. -) una simmetria spezzata:

Un giorno, guardando una molecola della vita, un DNA o un polimero, po-tremo comprendere in quali circostanze geologiche o biologiche questemolecole si sono formate. [...] Come si imprime il tempo nella materia? Indefinitiva è questa la vita, è il tempo che si iscrive nella materia, e ciò valenon solo per la vita, ma anche per l’opera d’arte. Prendiamo l’esempio del-la scultura, delle opere più antiche che noi conosciamo, i graffiti che l’uo-mo di Neandertal scavava nella pietra. [...] Che cosa significano questigraffiti? Non ne sappiamo nulla, e tuttavia mi sembra che l’opera d’arte sial’iscrizione della nostra simmetria spezzata (un’asimmetria molto accen-tuata, perché noi viviamo molto intensamente nel tempo) nella materia,nella pietra.

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La preistoria a scuola? Coniughiamola al presente

di Tomaso Di Fraia

Per ragioni di trasparenza nei confronti dei lettori, devo anzitutto in-dicare il mio profilo scientifico-professionale, piuttosto anomalo: do-cente nei licei e al tempo stesso impegnato nella ricerca a livello uni-versitario nel campo dell’archeologia preistorica. Tale combinazione,con anni di insegnamento della storia nel biennio del liceo scien-tifico, da una parte mi ha permesso di capire le reali esigenze dellascuola, dall’altra mi ha fornito l’opportunità di verificare se, come ea quali costi sia possibile collegare ricerca e insegnamento, per giun-ta in un settore sempre trascurato nella tradizione didattica della no-stra scuola, cioè l’insegnamento della storia nella scuola media supe-riore e in particolare nel biennio iniziale (Di Fraia, ). Sulla basedi tali premesse spero di poter evitare derive filosofiche più o menoastratte, anche se qualche riflessione teorica sarà inevitabile.

La preistoria non è, o meglio – realisticamente – non dovrebbeessere un campo riservato a pochi iniziati, né una semplice minieradi strane curiosità, e soprattutto – questo è il senso del titolo di que-sto contributo – non è un ambito lontano dai nostri interessi, dal no-stro modo di concepire la vita, dai nostri problemi reali, dico di noiche viviamo nel XXI secolo.

Per evidenziare tali potenzialità nello studio della preistoria,vorrei proporre, schematicamente, alcuni possibili argomenti perpercorsi didattici, che hanno tra l’altro il vantaggio (ma purtroppo,date le condizioni della nostra scuola, può trattarsi oggettivamentedi uno svantaggio!) di essere necessariamente interdisciplinari (DiFraia, ). Tuttavia, voglio subito aggiungere che tali proposte diriflessione e di approfondimento possono essere estese anche al difuori della scuola, a tutte le persone interessate a una divulgazionescientifica seria e anche a un dibattito culturale costruito su solidefondamenta.

Prima di presentare tali tematiche vorrei però sottolineare unpunto che ritengo cruciale. La preistoria costituisce un terreno e unosservatorio privilegiato per capire che, come in tutto il mondo bio-logico l’unica cosa certa e “stabile” è, paradossalmente, il muta-mento, così anche nella lunga storia dell’uomo tutto è processuale,comprese le nostre caratteristiche biologiche. Bisogna quindi ab-bandonare il pregiudizio, o comunque l’idea ingenua e assai diffu-sa, secondo cui esiste un dinamismo della natura nel suo comples-so, ma l’uomo in quanto tale ne sarebbe sostanzialmente esente, co-me se l’ultimo gradino evolutivo occupato (cioè lo status di Homosapiens) fosse una sorta di assoluto, raggiunto una volta per tutte,senza preoccuparsi di capire fino in fondo come e perché l’uomo viè arrivato e quindi nemmeno se sia stato o sia ancora suscettibile diulteriori trasformazioni.

In realtà non esiste biologicamente una “natura umana”, data unavolta per tutte; proprio studiando la preistoria e lavorando quindi sutempi molto lunghi (decine di migliaia di anni, se ci limitiamo a Ho-mo sapiens) possiamo infatti capire che:. siamo il prodotto di una lunghissima serie di mutazioni, trasfor-mazioni, modificazioni, adattamenti; la storia del genere Homo, e pri-ma ancora quella degli australopiteci, è fatta di molteplici forme (cioèspecie) di più o meno lunga durata, con periodi in cui più specie so-no esistite contemporaneamente e forse sono convissute, o si sonocombattute, in uno stesso ambiente; . quello che a noi appare assolutamente definito e stabile (compre-sa la “natura umana”) corrisponde a una fase tutto sommato brevedell’evoluzione del genere Homo;. anche nella nostra specie alcune caratteristiche biologiche si so-no evolute nel tempo.

Passo ora a proporre tre temi di indagine e di riflessione.

.L’identità etnica, ovvero perché non possiamo non dirci meticci

I processi fondamentali attraverso cui si è definita l’identità etnicadei diversi gruppi umani sono riassumibili in tre grandi fasi fonda-mentali.. L’origine della nostra specie è oggi considerata unica dalla stra-grande maggioranza degli studiosi, se si eccettuano pochi “multire-

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gionalisti”, attestati su posizioni ormai a mio parere indifendibili (masu questo punto cfr. i contributi specifici in questo volume). Si rico-nosce cioè un’unica linea di ascendenza per Homo sapiens, ricostruitadapprima attraverso il DNA mitocondriale (per risalire alla madre ori-ginaria, la cosiddetta “Eva africana”, secondo l’abusata e banalizzataespressione mediatica) e successivamente confermata anche dagli stu-di sul cromosoma Y, relativo alla linea maschile.. In seguito alla diffusione della nostra specie in ambienti diversi,attraverso processi di deriva genetica e adattamento per mutazio-ne/selezione si è verificata una progressiva differenziazione, che si èpoi stabilizzata e cristallizzata quando ogni gruppo ha trovato lapropria nicchia ecologico-culturale (dal Paleolitico al Neolitico). . A partire soprattutto dall’età dei metalli (almeno dal a.C.),si è verificato un crescente rimescolamento etnico, grazie soprattut-to alla maggiore mobilità.

A proposito della mobilità umana – un fenomeno che ha già og-gi, e ancor più avrà in futuro, effetti sconvolgenti sull’assetto mon-diale –, sul piano della ricostruzione storica, dopo il tramonto dellevecchie teorie diffusionistiche, che pretendevano di spiegare mecca-nicamente lo sviluppo e la complessità di molti processi culturali neitermini di un presunto migrazionismo, resta comunque aperto il pro-blema di individuare, laddove è possibile, gli spostamenti dei grup-pi umani e di valutarne l’entità in termini geografici e popolazioni-stici e la portata in termini culturali. Jehanne Féblot-Augustins(), dopo aver raccolto una grande massa di dati, ha potuto con-cludere che mentre nella parte più antica del Paleolitico (circa..-.. anni fa) la distanza massima nella circolazionedelle materie prime non superava i - km, tra .. e .anni tale distanza raggiunge i km, cambiando anche le modalitàe l’entità dello sfruttamento delle risorse coinvolte. Con il Paleoliti-co superiore (circa .-. anni fa), infine, si ha una buonapercentuale di casi di trasporto di materie prime intorno ai km,molti casi oltre i km, mentre si registrano percorsi fra e km e uno eccezionale di km. Ciò evidentemente dimostra unanotevole capacità di realizzare scambi a lunga o lunghissima distan-za, ma a rigore niente ci dice sull’ampiezza dei tragitti effettivamen-te percorsi da uno stesso individuo o gruppo umano e tanto menosull’eventualità che determinati gruppi si trasferissero definitiva-mente da un luogo a un altro.

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Dapprima lo studio dei gruppi sanguigni e più recentementequello del DNA antico e moderno ci hanno fornito indicazioni relati-ve ai rapporti parentelari e a vari aspetti demografici, delineando gliscenari degli spostamenti umani su vasta scala e su tempi lunghi olunghissimi. Oggi tuttavia è possibile un livello di analisi molto piùfine, laddove ricorrano alcune condizioni favorevoli. Recentementeinfatti è stato elaborato un metodo, basato su microanalisi dei tessu-ti scheletrici, per stabilire se singoli individui siano nati e abbianotrascorso l’infanzia o parte di essa in una determinata regione, e suc-cessivamente si siano trasferiti altrove. Tali metodiche sono state av-viate in Germania e negli USA già nella seconda metà degli anni Ot-tanta e poi applicate significativamente nella seconda metà degli an-ni Novanta; non mi risulta, salvo errore, che in Italia siano stati con-dotti e pubblicati studi del genere. Si tratta in particolare delle ana-lisi delle presenze percentuali nelle ossa di bario (BA) e stronzio (SR)e degli isotopi stabili di quest’ultimo. La base biologica del metodoè costituita dal processo per cui nello smalto dei denti, subito dopola loro eruzione, restano fissati il bario e lo stronzio assunti con la die-ta durante l’infanzia, mentre nelle altre ossa il rapporto bario-calcioe stronzio-calcio si modifica ininterrottamente fino alla morte. Poi-ché nei diversi ambienti naturali (ad esempio terreni granitici rispet-to ad altri ricchi di carbonati) bario e stronzio sono presenti in mi-sura molto più differenziata rispetto a quella che potrebbe essere for-nita all’organismo umano da diverse diete nello stesso territorio, dif-ferenze marcate tra le quantità di tali elementi presenti nei due di-versi tipi di ossa indicano che un individuo ha trascorso la prima in-fanzia in una certa zona e l’ultimo periodo della propria vita in un’al-tra. Tale metodo, applicato tra l’altro in Germania agli inumati delvaso campaniforme di una serie di necropoli della Baviera (Price,Grupe, Schröter, ), ha dato i seguenti risultati:– la percentuale degli immigrati nel sud della Baviera oscilla tra il, e il ,%;– tra gli immigrati, la percentuale delle donne è un po’ più alta diquella dei maschi (% contro il %); – è stato stimato che alcuni individui, per spostarsi dalla zona incui avevano trascorso l’infanzia a quella dove morirono, dovetteropercorrere almeno km;– la direzione prevalente degli spostamenti è da NE a SO, cioè daterreni granitici a sedimenti calcarei e a loess;

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– nelle necropoli più antiche la percentuale degli immigrati variadal al %, in quelle più recenti dal al %.

La mobilità accertata riguarda dunque una percentuale variabi-le da circa / alla metà della popolazione dei vari siti; ciò potrebbeindicare che una parte della popolazione si spostava in situazioni dicrisi (per esempio eccessivo incremento demografico nella comu-nità di origine) e/o per qualche sorta di specializzazione che com-portasse la necessità di effettuare spesso trasferimenti anche moltolunghi. Bisogna inoltre cercare di chiarire in che misura tali trasfe-rimenti si possano considerare definitivi o comunque prevedesserouna permanenza prolungata, cioè se la percentuale di immigrati vaconsiderata come un gruppo che a un certo punto si è unito alla co-munità presunta sedentaria e con questa ha convissuto per un pe-riodo abbastanza lungo; oppure se gli individui nati altrove fosseropresenti per periodi relativamente brevi. Poiché il tempo minimonecessario perché si depositino nelle ossa elementi in tracce in pro-porzioni diverse da quelle accumulate precedentemente è alquantolungo, bisogna presupporre una presenza abbastanza prolungata enon un semplice soggiorno di settimane o di pochi mesi; del restol’inclusione degli immigrati in un’unica necropoli è indicativa di unariconosciuta appartenenza alla comunità, anche se non si possonoescludere in assoluto forme di riconoscimento “etnico”, in senso la-to, pur al di fuori del radicamento in un particolare territorio (vedii moderni rom). Tuttavia si pongono ancora altri problemi. Anzi-tutto l’assimilazione nelle ossa di sostanze corrispondenti a quelledel territorio delle singole necropoli potrebbe essere avvenuta at-traverso vari soggiorni (anche brevi) in siti diversi di una stessa re-gione geopedologicamente caratterizzata. È evidente che tale crite-rio può essere applicato anche alla comunità presunta sedentaria:infatti gli individui che mostrano una sostanziale corrispondenza trala dieta della prima infanzia e quella dell’ultimo periodo di vita po-trebbero comunque essersi spostati, nel corso della loro esistenza,nell’ambito di un territorio geologicamente omogeneo; e in tal casoil nomadismo o altre forme di mobilità sarebbero sottostimate. Na-turalmente tale eventualità deve essere presa in considerazione, afortiori, per quella parte di popolazione che risulta immigrata. Il fat-to che gli studi da me consultati non registrino, salvo errore, casi diindividui con percentuali di stronzio corrispondenti per l’infanzia eper il momento della morte e contemporaneamente diversi da quel-

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li caratteristici degli individui vissuti per un tempo abbastanza lun-go nel territorio in cui è ubicata la sepoltura, sembra indicare co-munque che gli stanziamenti nei luoghi raggiunti dopo i trasferi-menti non dovevano essere brevi. In definitiva, per le popolazionidel vaso campaniforme, potrebbe configurarsi uno scenario in cui lamobilità di un numero consistente (anche percentualmente) di per-sone si sarebbe realizzata, nel corso delle singole esistenze, sia at-traverso spostamenti geografici ragguardevoli (nell’ordine anche dicentinaia di chilometri), sia attraverso dislocazioni più limitate, ma-gari nell’ambito di territori geologicamente omogenei. Naturalmen-te il problema più importante, per la ricostruzione dei processi sto-rici, è costituito dalle ragioni e dalle modalità di tali fenomeni mi-gratori, e forse in parte nomadici, e dalle conseguenze culturali suscala europea.

A questo punto, vediamo di tratteggiare i probabili scenari inmodo cronologicamente e culturalmente articolato.a) Per tutto il Paleolitico e il Mesolitico (..- a.C.) lapopolazione mondiale sarebbe rimasta scarsa e molto sparpagliata;alcune stime indicano che la popolazione mondiale potrebbe esserestata di .-. individui prima dell’espansione di Homosapiens verso l’Europa, raggiungendo forse i - milioni durante ilPaleolitico e il Mesolitico (Cavalli-Sforza, Menozzi, Piazza, , p.).b) Dal Neolitico (circa a.C.) la popolazione complessiva au-menta, ma le comunità, il cui numero è ora maggiore, sono pur sem-pre piccole in termini assoluti (varie decine o al massimo qualchecentinaio di individui, tranne rare eccezioni), spesso esogamiche,tanto più quando rischiano l’estinzione per crisi economiche, epi-demie ecc.c) L’archeologia ci mostra che fino all’età del Bronzo (III millennioa.C.) la durata degli abitati è stata relativamente breve e quindi at-traverso successivi spostamenti ci sono state notevoli possibilità dimescolamento demografico, assorbimento ecc.d) Gli scambi matrimoniali devono aver costituito un fattore fre-quente e importante nei processi di ibridazione, sia in senso biolo-gico che culturale, come è documentato anche dall’etnografia.e) Con l’età dei Metalli (IV-I millennio a.C.) i processi di mobilitàsi accentuano (ricerche di metalli e altre materie prime particolari,aumento delle ricchezze accumulate, conflittualità, sistemi di tra-

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sporto più efficienti grazie all’invenzione della ruota e più tardi al-l’utilizzazione del cavallo ecc.).f) Probabilmente con l’età del Ferro (primi secoli del I millennioa.C.) con i fenomeni di sinecismo e di protourbanesimo le diverseunità etniche tendono a divenire molto più compatte, tenaci e du-rature nel tempo.g) Tuttavia si verificano anche nell’età del Ferro vari processi diespansione (vedi i Celti), anche nella forma di “microemigrazioni”(vedi il caso di M. Bibele, in Emilia, dove una comunità etrusca ècoadiuvata da gruppi armati Celti), di osmosi fra popolazioni limi-trofe (vedi Latini/Italici/Etruschi) e quelli più macroscopici di co-lonizzazione (in Italia: Greci e Fenici, ma anche Etruschi).h) I Romani, come è noto, realizzarono molti progetti di coloniz-zazione, ma probabilmente senza che da ciò, tutto sommato, deri-vassero grandi fenomeni di flussi genici.i) Dopo una serie di spostamenti di gruppi umani, ben organizza-ti ma pur sempre minoritari (invasioni barbariche ed espansionemussulmana), il Medioevo conosce una lunga fase sostanzialmentestabile. Invece con l’età moderna si aprono nuovi processi di colo-nizzazione e ibridazione, specialmente nel continente americano.l) Infine con l’industrializzazione, la crescita demografica dellapopolazione europea, l’aumento e il perfezionamento dei mezzi ditrasporto e comunicazione, le nuove necessità economico-socialiportano a rilevanti esodi interni ed esterni. Per gli ultimi - an-ni per molti di noi è sufficiente fare riferimento alla propria situa-zione personale: se guardiamo ai nostri ascendenti, in tre o quattrogenerazioni spesso si sono verificate forti commistioni tra individuidi diverse regioni italiane, se non addirittura apporti da altri paesi.

.Il rapporto uomo-cibo,

ovvero perché non possiamo non dirci onnivori

Per quanto concerne la dieta onnivora, ovviamente il cuore del pro-blema (biologico, filosofico e morale) riguarda la possibilità, o la li-ceità, o la necessità di cibarsi di carne e prodotti animali. Quando siparla di onnivori e in particolare di carnivori non si deve pensaresoltanto a predatori o, nel caso dell’uomo preistorico, a cacciatori dimedi o grossi erbivori, ma alla capacità di sfruttare tutte le nicchie

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faunistiche: dai molluschi, agli insetti, ai piccoli uccelli e pesci, a tut-ti i prodotti animali che possono fornire cibo (ad esempio uova, lar-ve, miele ecc.).

Ciò che colpisce in molte posizioni animaliste o vegetarianiste èanzitutto un preoccupante deficit di cultura storica, intesa in sensolato. Infatti, strapazzando un altro famoso aforisma, dopo quellosfruttato nel titolo del paragrafo, si potrebbe dire che “l’uomo è ciòche è perché mangia ciò che mangia” o, meglio, “perché nella suastoria evolutiva ha mangiato ciò che ha mangiato”. Ho l’impressio-ne che, sul piano antropologico-filosofico, la posizione dei vegeta-riani integrali rifletta il pregiudizio di tipo fissista già illustrato so-pra, per cui le cose in natura sarebbero date una (sola) volta per tut-te; il concetto cioè di “naturalità” come elemento assoluto e prima-rio, che guiderebbe ogni realtà successiva. Ciò è vero, ma solo in unacerta misura, cioè nel senso che l’elemento primario non cessa di esi-stere e di interagire, ma lo fa in contesti sempre nuovi e con esiti dia-lettici, che via via possono arrivare a modificarne la natura origina-ria. In realtà la naturalità per molti è un mito o un feticcio che sem-bra poter esonerare dalla fatica e dalle difficoltà della ricerca razio-nale e della problematicità delle scelte etiche: secondo tale impo-stazione, una volta stabilito ciò che è naturale e ciò che non lo è, tut-te le decisioni e i comportamenti ne dovrebbero discendere quasiautomaticamente.

Purtroppo tale pregiudizio o semplificazione si insinua anche inambienti e in persone insospettabili. È sintomatico, ad esempio, chenemmeno una personalità come Umberto Veronesi, impegnata tral’altro nella missione di diffondere la scienza e il metodo scientifico(dirige una fondazione che mira a questo scopo), sfugga a tale sor-te. Infatti mi è capitato di sentire Veronesi sostenere le seguenti te-si (cito a memoria): “I primati sono quasi tutti vegetariani; gli scim-panzé, con un DNA simile al nostro per il %, lo sono. Mangiarecarne non risponde al nostro istinto fondamentale, alla nostra natu-ra”. In queste affermazioni vi sono due passaggi indebiti, perché: .la nostra natura, come abbiamo visto, non è un dato acquisito unavolta per tutte; . e comunque non può essere identificata sulla ba-se di una comparazione superficiale. Ora, una percentuale comequella ricordata da Veronesi di per sé non dimostra nulla, per quan-to concerne il punto chiave della questione: infatti proprio in quel% di differenza si situa il risultato del salto evolutivo, dovuto sicu-

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ramente anche alla dieta onnivora. Occorre dunque evitare qua-lunque accostamento con le scimmie antropomorfe attuali basatosu un’ontologia astratta e soprattutto astorica. Questa a mio avvi-so è una significativa spia proprio della carenza di una cultura sto-rica e ancor più di un approccio metodologico storicamente cor-retto ai problemi scientifici in vari campi.a) Ma quali sono i dati dell’evoluzione del genere Homo riguar-danti il regime alimentare? Senza nessuna pretesa di sistematicità,dobbiamo prendere in considerazione almeno i seguenti punti.

Gli australopiteci erano essenzialmente vegetariani; il loro ap-parato dentario, notevolmente robusto e morfologicamente ido-neo alla triturazione di vegetali, anche coriacei, sembra aver costi-tuito la loro risposta a un ambiente in cui erano prevalenti o facil-mente reperibili tali risorse alimentari. Inoltre, se si confronta ilbacino di Lucy (l’Australopithecus afarensis meglio conservato)con quello del “ragazzo di Turkana” (Homo habilis), si vede che ilbacino del primo è molto più ampio, evidentemente per contene-re una notevole massa di tessuti intestinali, a loro volta necessariper digerire grandi quantità di vegetali. b) I primi rappresentanti del genere Homo avevano un volto assaipiù piccolo, mandibola e denti meno massicci, ed erano privi dicresta sagittale (presente invece negli australopiteci, specialmentenel robustus, per ancorare i potenti muscoli masticatori), benchécomplessivamente avessero una corporatura più grande. c) Il funzionamento del cervello nell’uomo assorbe una parte no-tevole (circa -%) dell’apporto energetico complessivo, men-tre tale valore scende all’-% negli altri primati, e al -% neglialtri animali. Anche se lo sviluppo del cervello nel genere Homopuò aver avuto più concause, una dieta ricca di sostanze partico-larmente nutritive deve averne costituito una condizione essenzia-le. La riduzione di volume dell’apparato intestinale, resa possibileda una più alta percentuale di cibi molto nutrienti, può a sua vol-ta aver favorito la destinazione al cervello di una parte più consi-stente del metabolismo complessivo. Una controprova indiretta ècostituita dal fatto che i primati col cervello più grande si nutronodi alimenti più ricchi.

In sostanza, tutto induce a ritenere che si sia prodotto un cir-colo virtuoso: «Dopo la fase iniziale di accrescimento cerebrale, ladieta e l’aumento dimensionale del cervello probabilmente agiro-

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no in maniera sinergica: un cervello più grande produceva un com-portamento sociale più complesso, che portava a cambiamenti nel-le tattiche di procacciamento del cibo e a un’alimentazione miglio-re, le quali a loro volta favorivano l’ulteriore evoluzione cerebrale»(Leonard, ).

In questo quadro l’opzione vegetariana odierna oggettivamente vacontro la nostra costituzione biologica. Sarebbe importante che i vege-tariani fossero consapevoli che il loro comportamento tende a invertireun trend che è cominciato oltre tre milioni di anni fa e che è proseguitoanche dopo l’affermazione della specie sapiens. In altre parole, mentregli australopiteci e poi gli ominidi hanno cercato di ampliare la gammadelle risorse alimentari, includendovi anche gli animali, e così facendohanno favorito un certo tipo di evoluzione, oggi il vegetariano fa l’ope-razione esattamente opposta, rinunciando a qualcosa per cui il nostroorganismo ha impiegato tantissimo tempo ad adattarsi. Infatti, sia purein modi molto differenziati, in ragione delle diverse risorse ambientali,tutte le popolazioni umane studiate dagli etnologi mostrano una dietacomprensiva di cibi sia vegetali che animali.

È giusto dunque essere conservatori riguardo al cibo, perchéquesto significa sfruttare al meglio tutto il progresso adattativo rea-lizzato dai nostri antenati in molte migliaia di anni attraverso una se-rie di importanti innovazioni: dall’apporto carneo, alla cottura deicibi, al consumo del latte in età adulta. In questo caso infatti, para-dossalmente, essere conservatori corrisponde al massimo di innova-zioni, mentre le pretese innovazioni dei vegetarianisti sono dei ten-tativi oggettivamente regressivi, di cui, oltre alla debolezza teorica,bisogna sottolineare la difficoltà e i pericoli insiti nella loro attua-zione. Infatti, poiché le trasformazioni e gli adattamenti biologici sisono assestati attraverso una lunghissima selezione specifica e intra-specifica, non sappiamo quale potrebbe essere l’esito, specialmentea lunga scadenza, dell’adozione di un vegetarianesimo integrale.Anche in questo caso deve valere il principio di precauzione, tantopiù che negli ultimi venti anni alcuni studiosi hanno collegato unaserie di malattie odierne (obesità, ipertensione, coronaropatie, dia-bete) anche all’allontanamento dalla dieta e dallo stile di vita deicacciatori, raccoglitori e agricoltori preistorici: una dieta onnivora eun adeguato consumo energetico.

Un caso particolare è quello dell’assunzione del latte nella dietadegli adulti; ovviamente gli individui in possesso della lattasi (l’enzi-

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ma, presente nei lattanti, in grado di scindere il lattosio e di permet-terne quindi la digestione) ne possono usufruire, gli altri no. In que-sto caso, a differenza di molti altri aspetti dell’alimentazione, c’è quin-di un vincolo fortissimo, costituito dall’impossibilità organica di di-gerire il latte, così come succede, a una certa percentuale di persone,per le bevande alcoliche. In altre parole, mentre chi tollera l’alcol o illatte può decidere se assumerli o meno, chi non li tollera non dispo-ne di questa opzione. Affermare, come fanno alcuni vegetariani, cheassumere latte da adulti è sbagliato e biologicamente pericoloso èquindi un’inaccettabile generalizzazione, o addirittura una posizionedogmatica, se si sostiene che l’unico modo corretto (“secondo natu-ra”) di assumere latte è quello del lattante. E comunque la persisten-za della lattasi negli adulti non è un dato primigenio, bensì il risulta-to di un processo originato da una serie di mutazioni genetiche chenel corso del tempo si sono affermate tanto da caratterizzare un’altapercentuale delle popolazioni attuali.

Anche le posizioni etiche dei vegetarianisti, pur essendo animateda intenzioni per certi versi lodevoli, mi sembrano estremamente de-boli sul piano scientifico e logico. Francamente non capisco come sipossa affermare, come fa Peter Singer (), che l’uccisione degli ani-mali è una forma di sfruttamento inaccettabile, addirittura paragona-bile alla schiavitù umana dei tempi andati. Come si concilia, infatti,l’affermazione secondo cui non è lecito uccidere gli animali per ci-barsene con il fatto che gli animali carnivori e quelli onnivori uccido-no per tale scopo? Paradossalmente, se si negasse all’uomo tale pos-sibilità, da una parte gli si negherebbe un diritto riconosciuto a tuttigli animali onnivori, dall’altra gli si attribuirebbe implicitamente unasuperiorità morale, reintroducendo dalla finestra ciò che si pretendedi cacciare dalla porta, giacché è proprio Singer a rigettare l’idea, tra-dizionalmente cristiana, di un’assoluta superiorità dell’uomo rispettoagli altri animali. Secondo l’impostazione animalista, l’uomo risulte-rebbe l’unico essere vivente che, consapevole della sofferenza dellesue potenziali vittime, si asterrebbe meritoriamente dal cibarsi di car-ne. Si potrebbe magari sostenere che la superiorità dell’uomo si rea-lizza proprio in questa scelta (di rinuncia); e tuttavia resterebbe unacontraddizione cruciale tra questa opzione umana e il fatto che, perraggiungere tale consapevolezza, i nostri lontani antenati abbiano do-vuto uccidere altri animali per cibarsene, fino a fare della dieta onni-vora un dato costitutivo della loro stessa fisiologia.

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In definitiva, potremmo dire che anche nella dieta, come peraltri aspetti fisiologici, siamo vincolati in una certa misura dal no-stro passato evolutivo. Così, ad esempio, anche se teoricamente èipotizzabile uno stile di vita che riduca l’apporto energetico e pa-rallelamente il lavoro fisico, quest’ultimo non potrà scendere sot-to una certa soglia, pena una serie di problemi sanitari (Leonard,, p. ).

.Il rapporto uomo-risorse e le scelte politiche,

ovvero perché anche la preistoria è sempre storia contemporanea. Il caso delle terremare.

Il vocabolo “terramara” in dialetto emiliano sta per “terra marna”,cioè terra grassa, e in particolare serviva a indicare nell’Ottocentoquel terreno estratto da piccoli rialzi o tumuli (alti dai ai metri)presenti in varie località della pianura padana e costituiti da depositiantropici preistorici formatisi nel corso dell’età del Bronzo media erecente (XVII-XII secolo a.C.). Per estensione il termine è passato a in-dicare proprio i rispettivi abitati preistorici. Si tratta di:

Villaggi generalmente quadrangolari, circondati da un argine e da un fossa-to; le dimensioni, durante le prime fasi del Bronzo medio, di norma non so-no superiori ai due ettari. Tale evidenza sembra interpretabile come il risul-tato di una colonizzazione della pianura da parte di comunità che sono ingrado di sfruttare i suoli pesanti e argillosi grazie all’uso dell’aratro a trazio-ne animale come pure di edificare abitati complessi con tecniche costrutti-ve elaborate e con cognizioni di ingegneria idraulica tali da rendere possi-bile la realizzazione di fossati, terrapieni e bonifiche con palificazioni. [...]Per quanto riguarda l’organizzazione interna degli abitati, [le ricerche han-no] evidenziato l’esistenza [...] di un’organizzazione intensa e pianificatadello spazio (Cardarelli, , pp. -).

I diversi approcci adottati nel corso del tempo rispetto allo studiodelle terremare offrono casi esemplari di derive ideologiche, in cuiciò che emerge con forza è appunto la volontà di piegare l’oggetto distudio alle esigenze ideologiche e addirittura alla lotta politica vera epropria (Peroni, ; Tarantini, ). Così Luigi Pigorini verso la fi-ne dell’Ottocento, soprattutto sulla base dell’organizzazione degliabitati terramaricoli secondo un preciso reticolo ortogonale, ritenne

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che le terremare fossero la prefigurazione del castrum romano e i ter-ramaricoli gli antenati dei Latini e della civiltà romana. Al contrarioGiovanni Patroni arrivò nel a sostenere che

i terramaricoli [...] si erano assoggettati al più rigido e feroce comunismo, li-vellatore implacabile anzi cancellatore dello individuo e della famiglia. [...]Gli anziani e i più forti dovevano riunirsi in un specie di Soviet che dispone-va tirannicamente delle forze e del lavoro dei singoli. [...] Non esistevano némariti né mogli né padri né figli riconosciuti come tali. [...] Il culto dell’indi-vidualità e della proprietà, di cui non si trova né potrebbe trovarsi esempionelle terremare, è veramente cosa romana e perché romana, mediterranea.

Non saprei se in tali affermazioni sia più grave l’abdicazione al rigorescientifico o il delirio ideologico, ma probabilmente la seconda cosa haprodotto la prima.

Quali erano le basi delle società terramaricole e quali furono le ra-gioni della loro prosperità? Sinteticamente possiamo indicare i se-guenti punti:. bonifiche del territorio e attenta gestione delle acque, realizzateanche attraverso forme di coordinamento territoriale;. struttura razionale degli abitati, che raggiungono spesso dimen-sioni ragguardevoli (fino a ettari), denotando un notevole livello dicoesione sociale e collaborazione (Peroni, );. sviluppo particolare del settore primario (in cui svolge un ruoloimportante l’allevamento bovino), delle produzioni specializzate e de-gli scambi, a livelli molto avanzati; per quest’ultimo aspetto sono alta-mente significativi i ritrovamenti di pesi da bilancia (Cardarelli, Pac-ciarelli, Pallante, ); . crescita demografica (fino a un totale di circa . persone),moltiplicarsi degli insediamenti, prosperità complessiva inedita.

Nonostante questo quadro, o probabilmente in buona misura inconseguenza di esso, le terremare conoscono una rapida crisi, che, ver-so il a.C. e forse nell’arco di non più di una generazione, portò al-la loro scomparsa, con una probabile diaspora degli abitanti. Gli ar-cheologi hanno cercato di individuare le cause di tale crollo e sono ar-rivati a escludere eventi naturali catastrofici (come potrebbero essereforti oscillazioni climatiche, alluvioni o al contrario fasi di grave siccità);tutt’al più è stata colta una tendenza a un graduale deterioramento cli-matico, che comunque di per sé non avrebbe potuto avere un effettoscatenante. Pertanto hanno rivolto l’attenzione ai seguenti fattori:

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. conflittualità interna (competizione per l’accesso alle risorse pro-babilmente decrescenti) e forse anche esterna (come suggerirebberol’ampliamento e il rafforzamento di argini e terrapieni nell’ultima fa-se di vita di alcuni abitati), in un periodo di profondi sommovimentiin varie aree del Mediterraneo;. coordinamento territoriale insufficiente, al contrario degli “im-peri idraulici”, sorti in Mesopotamia e in Egitto proprio in funzionedi una gestione delle risorse idriche su ampia scala e con il coinvolgi-mento cooperativo di molti gruppi umani. A questo proposito mi pia-ce citare, mutatis mutandis, una battuta fulminante messa da ItaloCalvino sulla bocca del personaggio narrante del Barone rampante,un giudizio impietoso dei ritardi e delle difficoltà dell’Italia: «Vivia-mo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti».Nel caso delle terremare sarebbe mancata insomma la capacità poli-tica di gestire la crisi o, una volta avvenuta, di riorganizzare le comu-nità su nuove basi;. rapporto troppo predatorio con la natura (in particolare la defo-restazione, attestata dagli spettri pollinici), fenomeno di cui gli stessiterramaricoli sembrano aver preso coscienza e percepito le primeconseguenze, come sembra attestare il ridotto (forzato o intenziona-le?) consumo di legname nell’ultima fase di vita di alcuni insedia-menti. Insomma, sarebbe mancato ai terramaricoli quel senso del li-mite, la cui assenza molti secoli dopo segnerà la fine delle comunitàumane sull’isola di Pasqua.

In conclusione, è fin troppo evidente che le terremare sono un ot-timo esempio di intreccio tra fattori ambientali e sociopolitici nellacrisi di un intero sistema. Tutto ciò non ci dice niente sulle sfide chedobbiamo affrontare oggi a livello locale e a livello planetario? Chis-sà se riusciremo a capire che anche la Terra, per quanto concerne lafinitezza delle risorse e l’interdipendenza dei diversi sistemi, in fon-do non è altro che una grande isola di Pasqua o un insieme di abita-ti terramaricoli!

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. L A P R E I S T O R I A A S C U O L A? C O N I U G H I A M O L A A L P R E S E N T E

Gli autori

Francesco Frati, Dipartimento di Biologia evolutiva, Università di Siena

Pietro Omodeo, Dipartimento di Biologia evolutiva, Università di Siena

Antonio Brusa, Dipartimento di Scienze storiche e sociali, Universitàdi Bari

Carlo Peretto, Dipartimento di Biologia ed Evoluzione, Università de-gli Studi di Ferrara

Francesco Mallegni, Dipartimento di Biologia, Università di Pisa

Gianfranco Biondi, Dipartimento di Scienze ambientali, Universitàdell’Aquila

Olga Rickards, Dipartimento di Biologia, Università di Roma TorVergata

Pier Giorgio Solinas, Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali, Uni-versità di Siena

Michele Lanzinger, Museo tridentino di Scienze naturali, Trento

Cinzia Dal Maso, giornalista, scrive per “la Repubblica” e “Il Sole-Ore”

Brunella Danesi, Associazione nazionale insegnanti di Scienze naturali

Tomaso Di Fraia, Dipartimento di Scienze archeologiche, Universitàdi Pisa