E. Ivetic, Un confine nel Mediterraneo. L’Adriatico orientale tra Italia e Slavia (1300-1900),...

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NOTIZIE ESTRATTO da ARCHIVIO STORICO ITALIANO 2015/2 ~ a. 173 n. 644

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ARCHIVIO STORICO ITALIANO2015/2 ~ a. 173 n. 644

ISSN 0391-7770

FONDATO DA G. P. VIEUSSEUXE PUBBLICATO DALLA

DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA TOSCANA

ARCHIVIOSTORICO ITALIANO

644 Anno CLXXIII

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DISP. II

L E O S . O L S C H K I E D I T O R EF I R E N Z E

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Anno CLXXIII

Fasc.644

ARCHIVIO STORICO ITALIANODirettore : Giuliano Pinto

Comitato di Redazione :Mario ascheri, serGio Bertelli, eMilio cristiani, riccardo FuBini,

richard a. Goldthwaite, christiane KlaPisch-ZuBer, halina ManiKowsKa,rosalia Manno, rita MaZZei, Mauro Moretti, renato Pasta,

roBerto Pertici, Mauro ronZani, thoMas sZaBó,lorenZo tanZini, serGio toGnetti, andrea ZorZi

Segreteria di Redazione :lorenZo tanZini, serGio toGnetti, claudia triPodi

Direzione e Redazione: Deputazione di Storia Patria per la ToscanaVia dei Ginori n. 7, 50123 Firenze, tel. 055 213251

www.deputazionetoscana.it

I N D I C E

Anno CLXXIII (2015) N. 644 - Disp. II (aprile-giugno)

MemorieDaniele Giusti, Scritture quattrocentesche della famiglia Gaddi:

il Priorista e i Ricordi Pag 191

Raúl González aRévalo, De las postrimerías nazaríes a los albores castellanos. Ambrogio Spinola y la continuidadde los genoveses del Reino de Grenada (1478-1508) » 239

silvina Paula viDal, Una revisione delle tesi di André Chastel su alcune rappresentazioni contemporanee del Sacco di Roma(1527) » 275

GiusePPe seche, Vicende e letture di studenti universitari del XVI secolo » 313

DocumentiMaRco venDittelli, Annotazioni ed elenchi relativi alla basilica

romana di Santa Maria Maggiore dei primi anni del secoloXIII in calce al manoscritto Vaticano latino 4772 » 341

RecensionieuGenio RiveRsi, La memoria dei Canossa. Saggi di contestualiz-

zazione della Vita Mathildis di Donizone (enRico Faini) » 351

I comuni di Jean-Claude Maire Vigueur. Percorsi storiografici a cura di Maria Teresa Caciorgna, Sandro Carocci, AndreaZorzi (Giuliano Pinto) Pag 354

valeRie theis, Le gouvernement pontifical du Comtat Venaissin vers 1270-vers 1350 (siMone Balossino) » 358

Paolo GRillo, Milano guelfa (1302-1310) (seRGio toGnetti) . » 360

sylvain PaRent, Dans les abysses de l’infidelité. Le procès contre lesennemis de l’Église en Italie au temps de Jean XXII (1316-1334)(FRancesco PiRani) » 364

Carteggio degli oratori sforzeschi alla corte pontificia, I, Niccolò V(27 febbraio 1447-30 aprile 1452) a cura di G Battioni(eManuele catone) » 368

FeDeRica veRatelli, À la mode italienne. Commerce du luxe et diplomatie dans les Pays-Bas méridionaux, 1447-1530. Édition critique de documents de la Chambre de comptes de Lille (MaRia Paola zanoBoni) » 371

Notizie » 374

Summaries » 401

segue nella 3a pagina di copertina

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La rivista adotta per tutti i saggi ricevuti un sistema di Peer review. La redazione valuta preliminarmente la coerenza del saggio con l’impianto e la tradizione della rivista. I contributi che rispondono a tale criterio vengono quindi inviati in forma anonima a due studiosi, parimenti anonimi, esperti della materia. In caso di valu-tazione positiva la pubblicazione del saggio è comunque vincolata alla correzione del testo sulla base delle raccomandazioni dei referee.Oltre che nei principali cataloghi e bibliografie nazionali, la rivista è presente in ISI Web of Knowledge (Art and Humanities Citations Index); Current Contents, Scopus Bibliographie Database, ERIH. La rivista è stata collocata dall’Anvur in fascia A ai fini della V.Q.R. e dell’Abilitazione nazionale, Area 11.

NOTIZIE

Attività economiche e sviluppi insediativi nell’Italia dei secoli XI-XV. Omaggio a Giuliano Pinto, a cura di Enrico Lusso, Cherasco, Centro Internazionale di Studi sugli Insediamenti Medievali, 2014, pp. 352. – Il volume raccoglie i contributi di un convegno tenutosi a Cherasco nell’ottobre del 2013 intorno al nesso tra insediamenti, attività produttive e siti commerciali nell’Italia del basso Medioevo. I saggi, dopo l’introduzione del curatore, sono raggruppati per quattro aree tematiche. Nella prima (Strade, insediamenti e luoghi di mercato) vengono ospitati gli interventi di Paolo Pirillo su viabilità montana e mercatali nell’Appennino tosco-emiliano e tosco-romagnolo; di Thomas Szabò su trasporti, strade e vetturali nelle Alpi occidentali e centrali; di Francesco Panero su luoghi di mercato, borghi nuovi signorili e borghi franchi comunali nell’Italia nord-occidentale. Nella seconda sezione (Insediamenti produttivi) si collocano i saggi di Enrico Lusso su fortificazioni, produzioni e opifici rurali in area piemontese; di Paolo Grillo sulla diffusione della grangia cistercense e della cascina nella pianura lombarda; di Beatrice Del Bo sulle cartiere negli insediamenti rurali della bassa milanese; di Maria Elena Cortese sugli opifici minerari e metallurgici nei villaggi e nelle ‘nuove città’ a partire dal caso toscano; di Gianluca Belli su luoghi di mercato e urbanistica cittadina. Nella terza parte (Strutture portuali) intervengono Francesco Pirani a proposito dei centri costieri e di quelli portuali della riviera Adriatica compresa tra la Romagna e il Molise; Dario Canzian in riferimento a trasporti e attività economiche nei porti fluviali dell’area veneta; Enrico Basso su insediamenti rivieraschi e cantieristica nautica nella Liguria; Pinuccia Franca Simbula sul ruolo dei porti nell’evoluzione dell’economia sarda. L’ultima sezione (Insediamenti e commercio nell’Italia del sud) ospita un saggio di carattere generale di Jean-Marie Martin e uno più specifico di Amedeo Feniello dedicato a produzione e commercio dei cereali nella Puglia in età aragonese.

seRGio toGnetti

Cross-Cultural Exchanges in World History, 1000-1900, edited by Francesca Trivellato, Leor Halevi, and Catia Antunes, Oxford, Oxford University Press, 2014, pp. 296. – A distanza di trent’anni dal volume di Curtin (Cross-Cultural Trade in World History, Cambridge, 1984), prendendo in esame un arco temporale molto ampio, dal 1000 al 1900, gli studi si concentrano sugli scambi interculturali in tre aree (Mediterraneo, Atlantico e Oceano Indiano). L’obiettivo è esaminare origini e sviluppi di questi scambi resi particolarmente difficili dalla diversa religione. Indagini di questo tipo si scontrano con il problema della distruzione delle fonti

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da parte delle comunità, che intendevano proteggersi dalla diffidenza e dal clima di sospetto che questo genere di transazioni provocavano. Inoltre, la scarsità di fonti primarie costringe a leggere in filigrana altre fonti e a prendere in considerazione gli oggetti commerciati, i manufatti che non potevano essere occultati. Così tra merci proibite, consumi, difesa del monopolio commerciale, integrazioni e scontri culturali si muovono questi saggi con l’obiettivo di cimentarsi con cinque interrogativi (pp.13-22), dal ruolo della religione a quello della violenza nei commerci.

Attraverso singoli casi di studio, dieci studiosi, provenienti da tradizioni storiografiche diverse, pongono in luce elementi e fattori da considerare nell’analisi comparativa e sintetica. Due punti emergono con chiarezza: l’esigenza di contratti e istituzioni che regolamentassero gli scambi commerciali tra mercanti di religioni diverse e come l’esito di questi rapporti non producesse necessariamente forme di secolarizzazione e quindi di tolleranza.

Analizzando la storiografia da Max Weber a Curtin fino agli esiti più recenti, Halevi propone di innovare la prospettiva occupandosi degli oggetti piuttosto che degli agenti commerciali, sottolineando soprattutto «the need to disentangle commodities by paying close attention to theological or legal views about foreign material objects» (p. 26). David Harris Sacks va invece alle origini degli scambi interculturali con l’episodio del 1612 a Trinity Bay dell’incontro tra coloni inglesi e indiani Beothuk. Esperto studioso di storia portoghese, Marcocci esamina i rapporti commerciali lusitani con il mondo islamico, mostrando l’influenza dell’elemento religioso e le istanze politiche per superare i limiti posti dalla Chiesa. Kaiser e Calafat esaminano, tra XVI e XVIII secolo, l’economia del riscatto nel Mediterraneo come forma di commercio tra sud Europa e Maghreb, mentre Kathryn A. Miller si occupa dello scambio dei prigionieri dalla prospettiva islamica. Indispensabile il saggio sul commercio olandese e sull’incidenza crescente della cooperazione tra operatori commerciali e finanziari (Antunes). Spostandosi in altra area e in altro periodo storico, Marzagalli pone in evidenza il commercio interreligioso e intraconfessionale nella Francia prerivoluzionaria al fine di rovesciare alcuni assunti sulla base di nuova documentazione rintracciata. In area asiatica si muove Margariti, che si addentra nel mercato indiano (XI-XIII secolo) e constata l’esistenza di «interdenominational currency zones», laddove Tagliacozzo mostra come l’espansione coloniale europea involontariamente ampliò le possibilità per i musulmani di assolvere all’obbligo del pellegrinaggio alla Mecca (Hajj).

Di questi scambi attori principali sono spesso gli ebrei vittime della diaspora: Peter Mark si occupa del commercio di opere d’arte prodotte in Africa, in Serra Leoa (vasi in avorio e saliere), facendo così emergere l’ibridismo culturale e seguendo, al contempo, le tappe di alcune famiglie di ebrei in fuga dall’Europa, ma, dall’iconografia, si scoprono anche interessanti silenzi opportunistici come quello sul commercio della cola per evitare e distrarre la concorrenza.

La prospettiva comparativa resta e si arricchisce con un intelligente uso di fonti primarie e con un’analisi approfondita che fa emergere continuità e discontinuità nel lungo periodo scelto e nelle aree prese in esame.

MiChaela valente

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I giovani nel Medioevo. Ideali e pratiche di vita. Atti del Convegno (Ascoli Piceno, 29 novembre - 1 dicembre 2012), a cura di Isa Lori Sanfilippo e Antonio Rigon, Roma, Istituto storico italiano per il medio evo, 2014, pp. 312. – Il volume pubblica gli atti del convegno di studi organizzato dall’Istituto superiore di studi medievali “Cecco d’Ascoli” in occasione della XXIV edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno. Il tema scelto raccoglie gli stimoli offerti alla fine del secolo scorso della storiografia d’Oltralpe sullo studio sociale dei giovani nel basso Medioevo, ma lo precisa, orienta e puntualizza, aprendo nuove e feconde piste di ricerca. La declinazione al plurale dei giovani, l’attenta verifica, caso per caso, di cosa significhi essere giovani e di quale ruolo essi abbiano rivestito all’interno della società, rappresenta una modalità d’approccio condivisa nei diversi saggi, nonché uno dei punti di forza dell’intero volume. Infatti, la nozione di giovinezza, come quella di famiglia, non è mai considerata come un fattore precostituito, bensì come un elemento da esperire sia attraverso la disamina delle fonti sia attraverso l’analisi dei contesti socio-culturali.

I tredici saggi contenuti nel volume esaminano il ruolo dei giovani, principalmente all’interno della società cittadina italiana nel basso Medioevo. La pluridisciplinarità dei saggi, con una netta prevalenza della storia sociale, dimostra un proficuo dialogo fra sensibilità e approcci diversi. Nel contributo iniziale Ilaria Taddei (I giovani alla fine del Medioevo: rappresentazione e modelli di comportamento) muove dalla constatazione che le fonti offrono quasi sempre uno sguardo sui giovani e quello dei giovani sulla realtà: prevale pertanto un atteggiamento giudicante, che si esprime variamente. Se fino a tutto il Duecento l’ethos cavalleresco stabilisce un’analogia tra l’universo delle associazioni giovanili e quello delle società di milites, indulgendo dunque sui comportamenti dei giovani, nel tardo Medioevo, invece, si osserva una progressiva e stringente stigmatizzazione degli eccessi giovanili da parte sia della predicazione che della legislazione. Entro tale cornice, un gruppo compatto di saggi si rivolge a inquadrare le esperienze dei giovani all’interno della famiglia, intesa in un’accezione ampia e inclusiva. Marina Gazzini (I giovani tra famiglia naturale e famiglie artificiali) affronta il tema del rapporto fra la famiglia biologica e lo spettro delle varie realtà associative espressioni del mondo urbano, che spesso tendono a integrarsi e sempre ad assumere forme e modelli plasmati sulla famiglia naturale, sviluppando una vera e propria “retorica delle famiglia”. Maria Clara Rossi (Pratiche dell’adozione e dell’affidamento nel basso medioevo) esplora un ambito, quello dell’adozione, scarsamente indagato nella storiografia e analizza, attraverso una fitta disamina di fonti ospedaliere, la varietà di affetti e relazioni, create dai molteplici “legami d’anima”, capaci di rivelare vivaci e complessi microcosmi. Alle finalità istituzionali e alle morfologie sociali di importanti enti ospedalieri rivolgono la loro attenzione sia Michele Pellegrini (“More filiorum”. Il problematico inserimento dei giovani esposti in una familia ospedaliera del tardo medievale), sia Anna Esposito (Dalla ruota all’“altare”: le proiette dell’ospedale Santo Spirito di Roma (secc. XV-inizio XVI)). Nel primo caso viene esaminato il ruolo dei giovani orfani all’interno dell’ospedale di Santa Maria della Scala di Siena, che esercita una funzione genitoriale esplicitamente asserita nelle fonti trecentesche; nel secondo caso si analizza il destino delle trovatelle del grande ospedale romano di Santo Spirito, posto sotto lo stretto

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controllo del papato. Alla diversa sorte dei giovani maschi rispetto alle fanciulle si riconnette di saggio di Didier Lett (Les jeunes garçons et les jeunes filles des statuts communaux des Marches à la fin du Moyen Âge), che verifica, nel concreto delle normativa cittadina marchigiana, il divaricarsi dei ruoli sociali proprio nel corso della giovinezza: gli statuti circoscrivono infatti con chiarezza due diversi campi, quello latamente sociale per i ragazzi e quello strettamente familiare per le donne.

Sul mondo del lavoro e sui contesti produttivi urbani si concentrano due saggi. Franco Franceschi (I giovani, l’apprendistato, il lavoro) analizza le relazioni fra maestri artigiani e giovani apprendisti, considerati all’interno della più generale evoluzione del lavoro. Se fino a tutto il XIII secolo fra maestri e discepoli il rapporto è coeso, riconducibile per molti versi a quello familiare, dal Trecento in poi il fulcro di tale rapporto si sposta ormai sulla produzione e non più sull’apprendimento, per cui la figura del giovane discepolo va sempre più confondendosi con quella del salariato. Quanto al mondo mercantile, invece, Maria Elisa Soldani («Molti vogliono sanza maestro esser maestri». L’avviamento dei giovani alla mercatura nell’Italia tardomedievale) indaga le tappe formative del giovane che intenda affacciarsi all’arte della mercatura, rilevando il primato dell’esperienza diretta nel fondaco. Alla formazione culturale dei giovani è poi dedicata un’altra coppia di saggi. Michael Matheus (Studiare nelle università del Medioevo) declina il tema riguardo all’istruzione superiore e osserva in particolare le diverse forme associative giovanili nelle città universitarie, evidenziandone il funzionamento e i rituali di passaggio. Luigi Pellegrini (I giovani e gli Ordini mendicanti) esamina invece il reclutamento e la formazione dei giovani all’interno dei Minori e dei Predicatori, mettendo in risalto le rispettive peculiarità.

A una prospettiva antropologica si apre il saggio di Alvaro Barbieri (Una tumultuosa primavera: universali della giovinezza in armi), che pone al centro la connessione, ideologica e linguistica, fra giovinezza e forza vitale, veicolata attraverso l’attività militare. Quest’ultima, nella sua dimensione più propriamente storica, è affrontata da Aldo A. Settia (I giovani e l’esercizio delle armi), che indaga in particolare l’avviamento e la formazione dei giovani al mestiere delle armi: se i pedagoghi umanisti si prodigano nel consigliare ai giovani di iniziare precocemente il loro addestramento, le “battagliole” di tradizione comunale assolvono la funzione sociale di consentire agli adolescenti di commisurarsi con l’uso delle armi, benché sotto forma ludica. Infine il saggio di Furio Brugnolo («... esta bella pargoletta». L’amore “giovane” nella lirica italiana antica e in Dante) declina il tema della giovinezza in ambito squisitamente letterario, con speciale riferimento alla poesia dantesca, analizzando con acribia filologica la novità di Dante nel contesto della lirica che vede come protagoniste giovanissime donne. Il volume si chiude con il testo della lectio magistralis di Grado Giovanni Merlo (Il passato tra memoria e storia. Il mestiere dello storico non è poi tanto facile), vincitore del Premio internazionale Ascoli Piceno: si tratta di uno scritto originalissimo, che procede per frammenti, incentrato sul mestiere dello storico; un testo sospeso fra lieve ironia e profondo senso di responsabilità, sul quale vale senz’altro la pena di fermarsi a meditare.

FRanCesCo PiRani

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Le radici della storia economica in Italia. La costruzione di un metodo, a cura di L. De Matteo, A. Guenzi, P. Pecorari, fascicolo monografico di «Storia Economica», XVII, (2014, fasc. 2. – Tra i numeri monografici recentemente inaugurati dalla rivista, uno dei più importanti è questo dedicato ai padri fondatori della storia economica in Italia. Al centro della maggior parte degli undici saggi – e del pensiero degli storici oggetto di analisi – è il concetto secondo il quale solo la storia economica legata alle fonti può svolgere un’insostituibile funzione formativa, permettendo di analizzare l’uomo nella sua interezza, quale soggetto effettivo dei rapporti economici. In tale filone si inserisce direttamente il pensiero di Amintore Fanfani, secondo cui non si devono «trascurare mai i riflessi umani delle azioni economiche», in modo che, al di là delle dispute teoriche, ci si possa «rendere conto di tutto il processo mediante il quale l’uomo svolge un’attività economica, come momento della sua fatica per realizzare il proprio ben vivere» (A. Carera, Amintore Fanfani e la storia delle azioni economiche). La puntuale analisi delle fonti e l’attenzione per i molteplici aspetti del vissuto, che consentano di cogliere l’uomo nella sua interezza, sono state al centro anche dell’opera di Armando Sapori (F. Franceschi, Armando Sapori e la storia economica “à part entière”), mentre un metodo di ricerca volto soprattutto alla «vita sociale vissuta modestamente giorno per giorno» e alle «attività più umili della massa sociale» era propugnato da Gino Luzzatto. Entrambi condividevano l’idea che «di storie ve n’è una sola: non esiste una storia politica, una storia giuridica, una storia economica, una storia della cultura, e così via, ma esiste soltanto la storia di un popolo, di cui politica, diritto, economia etc. sono tante manifestazioni strettamente collegate fra loro» (G. M. Varanini, Gino Luzzatto. Alle origini della storia economica italiana).

L’avvio delle ricerche su un corpus documentario di capitale importanza come l’Archivio Datini di Prato, costituisce il lascito più prezioso di Federigo Melis. Ma il suo contributo non si limitò soltanto a questo: le sue indagini si svilupparono con grande respiro spaziale in numerosi archivi italiani e stranieri. Un metodo storico, il suo, saldamente ancorato alla documentazione inedita da cui trarre un modello reale e non teorico, perché «la teoria non appartiene alla storia, e tanto meno alla storia economica» (L. Frangioni, Federigo Melis e la storia economica medievale). Non diversa su questo punto la posizione di Aldo De Maddalena (M. Cattini, Dall’economico al sociale. Aldo De Maddalena per la storia di Milano e della Lombardia) che ha sostenuto la necessità di una puntuale indagine condotta con analisi micro-economiche a livello individuale, familiare e aziendale, che chiarissero le dinamiche sociali e quelle di un sistema economico analizzato fino ad allora superficialmente. Propugnatore di un metodo di ricerca legato al culto per il documento d’archivio è stato pure Gino Barbieri (G. Zalin, La sintesi tra fatti e idee in Gino Barbieri), che andando oltre la storia economica si è avvicinato ai problemi come sociologo e come storico tout court. In questo modo ha ricostruito l’economia milanese quattrocentesca in opere come Economia e politica nel Ducato di Milano, 1386-1535, pubblicato nel 1938, e Le origini del capitalismo lombardo (1961), ampiamente basate sulla documentazione notarile, e che rimangono ancora oggi tra le pochissime opere su un argomento a Milano decisamente poco trattato.

Rammaricandosi che i teorici economici, lasciandosi attrarre sempre più dalla

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matematica, si fossero ormai distaccati dagli storici dell’economia, voltisi invece in senso opposto verso lo studio dei «casi ordinari della vita», Carlo M. Cipolla riteneva che lo studioso dovesse fare sempre riferimento a uno schema logico o a una teoria, per essere in grado di esporre con chiarezza un problema e per poter organizzare e interpretare in modo coerente i dati raccolti (G. Vigo, Carlo M. Cipolla. La storia economica e i suoi metodi ). Di fronte però alle tendenze della storiografia, soprattutto americana, basata ormai esclusivamente sui dati statistici senza il supporto della documentazione, lo studioso riaffermò con forza la necessità di un minuzioso esame critico delle fonti. I modelli sono infatti necessari per mettere ordine nella molteplicità delle informazioni e per individuarne i collegamenti, ma non possono sostituirsi ai dati di base. E comunque, i modelli non bastano: all’interpretazione è necessaria anche la sensibilità dello storico. Luigi Dal Pane (F. Cazzola, Luigi Dal Pane. Tra storia sociale e storia economica) ha sostenuto da parte sua l’idea che la storia economica, partendo «dalle strutture, dai fatti di massa», senza però escludere la considerazione di quelli individuali – giusto mezzo tra la storia degli individui e quella degli avvenimenti - rappresenti un ausilio indispensabile a dare valore e misura alla conoscenza storica e ad arricchirne il quadro.

Gli altri contributi riguardano storici economici dell’età contemporanea: Mario Romani, docente alla Cattolica di Milano, sostenitore della centralità della conoscenza storica e di una storia economica non limitata alla narrazione dei fatti economici, ma che comprendesse anche gli uomini, le istituzioni, la dimensione sociale (A. Cova, Mario Romani: uno storico e la contemporaneità); e ancora Domenico Demarco e Luigi De Rosa, studiosi di storia del Mezzogiorno (E. De Simone, Domenico Demarco: una scuola, un metodo; G. Sabatini, L’attualità dell’opera di Luigi De Rosa).

In sintesi, i saggi contenuti nel fascicolo si possono raggruppare per lo più intorno a due riferimenti principali: quello dei medievisti / modernisti, prevalentemente toscani (Sapori, Melis, Fanfani) e lombardi (Barbieri, De Maddalena, Cipolla), molti dei quali trovarono il loro punto d’incontro a Milano alla Bocconi (Sapori, De Maddalena) e alla Cattolica (Fanfani e Barbieri, suo allievo); l’altro degli storici economici dell’età contemporanea, prevalentemente docenti in università meridionali (a Napoli, De Rosa e Demarco).

MaRia Paola zanoboni

Circulation des idées et des pratiques politiques: France et Italie (XIIIe-XVIe siècle), étudies reunis par Anne Lemonde et Ilaria Taddei, Roma, École française de Rome, 2013 (Collection de l’École française de Rome 478), pp. 406. – I contributi raccolti nel volume si muovono entro una comune prospettiva metodologica. Nell’indagare i rapporti e gli influssi culturali, ma pure le incomprensioni e i reciproci rifiuti, i saggi rifiutano di assumere le identità di Italia e Francia come un concetto univoco e acquisito una volta per tutte. Procedono invece attraverso un’attenta verifica dell’alchimia per mezzo della quale si definiscono nel tempo le appartenenze comuni, oppure le differenze e il senso di alterità. L’approccio è pertanto fortemente empirico, fondato sulla centralità delle esperienze, che innescano moti di scambio o viceversa di reazione,

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capaci di rimodellare e di ridefinire continuamente le nozioni identitarie. In tale contesto, lo studio delle pratiche e della riflessione politica gioca un ruolo essenziale, poiché consente di cogliere la comunicazione di esperienze e gli apporti reciproci.

Il punto d’avvio, sul piano cronologico, per una ricerca intrapresa con tali obiettivi, appare il XIII secolo, periodo in cui il trionfo delle autonomie comunali in Italia e nel Midi francese coincide con l’affermazione sempre più appariscente della monarchia francese. Entro tale cornice si sviluppano le riflessioni teoriche degli intellettuali dell’epoca, tese a dimostrare la superiorità di una forma di potere sull’altra, ma fondate su un sapere giuridico e filosofico comune. A tale proposito, Élisabeth Crouzet Pavan («La cité qui plus sagement se gouverne»: variations sur le paradigme vénitien) indaga la percezione degli assetti costituzionali di Venezia da parte degli intellettuali francesi negli ultimi secoli del Medioevo, dimostrando che anche i migliori pensatori fecero propri e veicolarono i più vieti stereotipi sul perfetto equilibrio dei poteri della città lagunare. Patrick Gilli (Cité et citoyens dans la pensée politique italienne et française (fin XIIIe -fin XIVe siècle): unité et diversité des lectures d’Aristote), dal canto suo, evidenzia i diversi approcci al tema della ‘cittadinanza’. La riflessione prende avvio dottrinalmente dalla comune lezione aristotelica, ma dà origine a esiti assai difformi nei commentatori dello Studio parigino, rispetto agli intellettuali ‘municipali’ italiani, primo fra tutti Brunetto Latini. Anche il tema della nobiltà può essere declinato in molti modi, nel corso Trecento, come dimostra Guido Castelnuovo (Bartole de Sassoferrato et le Songe du Vergier: les noblesses de la cité à l’aube du Royaume). Se le enunciazioni teoriche sulla concezione della nobiltà, fra i due versanti delle Alpi, denotano solide basi comuni, in ogni peculiare contesto il ruolo sociale dei nobili è definito da esigenze e obiettivi assai concreti, siano essi le forme di costruzione della monarchia francese oppure le mobili dinamiche politiche delle città italiane. Anche il pensiero di un grande intellettuale come Machiavelli si può prestarsi a molti usi, secondo quanto dimostra Ariane Boltanski (Machiavélien ou anti-machiavélien? Conseiller le Prince à la cour des derniers Valois): nella Francia delle lotte di religione, l’insegnamento del segretario fiorentino fu rigettato, perché si scorgeva in esso l’idea di una possibile degenerazione della monarchia in tirannide. D’altro canto, come osserva Jean Balsamo (L’expérience italienne «à l’essai»: Montaigne, Machiavel, Guichardin), il pensiero di Machiavelli era sposato in chiave propagandistica dagli ugonotti, mentre un grande intellettuale come Montaigne ne prese le distanze sia sul versante storiografico sia su quello politico, preferendo invece la razionalità più oggettiva di Guicciardini.

Sulle dinamiche dello scambio sono incentrati una serie di saggi. Giuliano Milani (Sulle relazioni politiche e ideologiche tra Carlo I d’Angiò e i comuni italiani: una nota) riprende le fila di un tema molto indagato nella recente storiografia, quello degli influssi angioini nelle città comunali italiane nell’ultimo quarto del Duecento, per porre l’accento sulla scarsa coerenza del progetto politico angioino, troppo spesso enfatizzato negli studi. Alla porosità delle frontiere rivolge invece lo sguardo Anne Lemonde (Le Dauphiné, trait d’union entre deux mondes? Grenoble-Paris-Naples, 1226-1349), indagando uno spazio regionale, il Delfinato, interessato da molteplici scambi e influssi: in tale contesto, l’esperimento compiuto dal principe Umberto II, poco prima della metà del Trecento, di impiantare compiutamente

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il modello istituzionale napoletano, rappresenta un caso paradigmatico. Marion Chaigne-Legouy («Pays de par-deçà, pays de pardelà»: les relations entre Angevins et Napolitains sous le regard de Jean le Fèvre, chancelier de la seconde Maison d’Anjou (1380-1388)) indaga in particolare il ruolo di ponte culturale fra Sicilia, Provenza e Napoli, rivestito da Marie de Blois, mettendo in luce una rete fitta di relazioni, influssi, contaminazioni. Pierre Savy (Pouvoir seigneurial et modèle monarchique français (Milan, XIVe-XVe siècles)) dimostra invece l’attivo operare di modelli monarchici, ispirati alla Francia, nel consolidamento del potere visconteo e poi sforzesco a Milano, analizzando pure le implicazioni concrete, quali la politica matrimoniale e i processi di costruzione territoriale. Sempre all’area lombarda, ma a una fase di poco successiva, è rivolto lo sguardo di Letizia Arcangeli («Parlamento» e «libertà» nello Stato di Milano al tempo di Luigi XII (1499-1512)), che indaga le trasformazioni istituzionali introdotte nel 1499 da Luigi XII a Milano, in relazione dialettica con le aspirazioni politiche dei cittadini. Sylvie Deswarte-Rosa (La Trinité trifrons en France dans le sillage de Savonarole) muove la sua ricerca nel campo dell’iconografia, mettendo in risalto il lascito, soprattutto a Lione, della predicazione savonaroliana in tema della rappresentazione della Trinità.

Quanto al discorso sul tema del potere, altri saggi indagano il grado di osmosi fra le riflessioni teoriche, le pratiche e i personaggi attivi sul proscenio politico internazionale. Benoît Grevin (Les notaires médiévaux croyaient-ils à leurs préambules? Note sur la circulation des motifs idéologiques entre la Curie pontificale, la cour de Sicile et l’Europe du nord (France/Angleterre/Mitteleuropa) au XIIIe-XIVe siècle) propone una verifica della circolazione dei modelli formali fra le cancellerie europee, tema su cui si è molto spesa la diplomatica negli ultimi tempi, osservando le differenti declinazioni politiche degli stessi stilemi in uso. A un caso specifico, quello della città di Marsiglia, rivolge l’attenzione Enrica Salvatori (Libertà, impero, diritto e pace: ideologia e pratica di potere a Marsiglia nel XIII secolo), portando alla luce una serie di apporti che la città marittima ricevette dagli altri centri costieri tirrenici dell’Italia settentrionale ed evidenziando la rete di relazioni politiche e gli eventuali prestiti ideologici in una vasta koiné. Laurence Ciavaldini Rivière (Modèle monarchique et rayonnement politique dans l’Europe du XIVe siècle: la Maison d’Anjou et l’Apocalypse) sposta invece il fulcro dell’interesse sulla circolazione di modelli iconografici, soprattutto nei primo Trecento, fra la Francia e il Regno di Napoli, prendendo in particolare in esame la tradizione figurativa dell’Apocalisse. Sempre sul versante della cultura visiva, Rosa Maria Dessì (Entre Sienne, Naples et Avignon au XIVe siècle: formes de la communication visuelle et circulation des peintres-magistrats) dà risalto alla circolazione di idee e rappresentazione fra Avignone e l’Italia nel corso del Trecento: tale osmosi fu resa possibile grazie ai continui viaggi degli artisti e degli uomini di potere al di qua e al di là delle Alpi, riscontrabili attraverso una pluralità di casi qui esaminati. Uno di questi, relativo a Luigi Marsili, agostiniano del convento fiorentino di Santo Spirito, è indagato da Lorenzo Tanzini (Luigi Marsili: Firenze e il mondo politico francese all’alba del Grande Scisma): questo personaggio è emblematico in quanto seppe elaborare le sue dottrine politiche mettendo a frutto l’esperienza fatta in Francia, a contatto con la corte di Carlo V. Per rimanere in ambiente fiorentino, Ilaria Taddei («Fedeli servidori et divotissimi figliuoli fiorentini dei Reali di Francia»: parenté et libertas dans le langage diplomatique,

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fin XIVe -début XVe siècle) evidenzia il ruolo di Coluccio Salutati, sullo scadere del Trecento, nella messa a punto di una sofisticata teoria politica, scaturita in relazione agli stretti contatti politici fra la città toscana e la monarchia francese. Spetta a Riccardo Fubini (Conclusioni) tirare le fila del discorso: il pregio di saggi che compongono il volume consiste dunque nel non essersi mai arrestati al mero confronto, all’esame degli ‘influssi’ fra Francia e Italia, ma nell’aver considerato in profondità le dinamiche dello scambio nel concreto terreno politico, istituzionale e culturale.

FRanCesCo PiRani

eGiDio ivetiC, Un confine nel Mediterraneo. L’Adriatico orientale tra Italia e Slavia (1300-1900), Roma, Viella, 2014, pp. 328, – La definizione dei confini orientali dell’Italia è una questione complessa negli ultimi due secoli ha condizionato tensioni nazionalistiche, conflitti bellici e drammi umanitari legati alla oppressione di presunte minoranze. Nel suo volume, Ivetic si propone di ripercorrere sei secoli di storia per capirne le ragioni e descrivere lo straordinario incontro di civiltà diverse avvenuto nell’Adriatico orientale, un contesto geografico che riunisce territori per i quali ancora oggi risalta la difficoltà nel tracciare una identità comune ed un passato condiviso. L’analisi riguarda in particolare l’intera costa orientale dell’Adriatico, che si polarizza sostanzialmente nello studio di due macroregioni, l’Istria e la Dalmazia.

La storia dei Balcani occidentali, che fin dai primi secoli del Medioevo segnano il confine tra l’Europa romanza e l’Europa slava, tra cattolicità ed ortodossia, tra Occidente ed Oriente, si caratterizza infatti per la sovrapposizione di lingue, religioni e culture non sempre riconducibili ad un contesto geografico ed istituzionale definito. L’autore sottolinea perciò la peculiarità dell’Adriatico orientale quale «problema storico e storiografico nell’ambito del Mediterraneo e d’Europa», in quanto punto di incontro delle diverse storiografie nazionali che vi confluiscono, perpetuando le diversità e le tensioni degli uomini che hanno abitato questa regione. In contrasto con il continuo mutarsi dei confini politici e dei ribaltamenti di maggioranze e minoranze, Ivetic cerca di mettere in evidenza la straordinaria continuità di certe dicotomie: la città e le campagne, la costa e l’entroterra, l’Istria occidentale e quella orientale.

Per secoli, fino alla nascita dei nazionalismi ottocenteschi, sono state questi gli unici confini percepiti dalla popolazione di questa regione, nonostante il lungo perdurare degli scontri armati tra Venezia, L’Impero Ottomano e l’Ungheria asburgica. Paradossalmente, è la pax asburgica della seconda metà del XIX secolo ad innescare un moto irreversibile di auto-definizione collettiva dell’identità e di costruzione di unità linguistiche artificiali oggi denominate italiane, slovene e croate. Ecco quindi che al di là della microstoria delle appartenenze, qui riassunte egregiamente con il contributo della storiografia, l’oggetto di questo studio è la definizione del confine tra Italia e Slavia, una «faglia» che per secoli ha messo in contatto uomini piuttosto che luoghi, attraverso la continua costituzione, la revisione e l’annientamento di numerosi confini, politici, linguistici, religiosi ma anche sociali.

FRanCesCo bettaRini

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JaMes R. bankeR, Piero della Francesca. Artist & Man, Oxford, Oxford University Press, 2014, pp. xxiii-276 con illustrazioni. – Piero della Francesca (1412?-1492) è uno tra i più conosciuti artisti del Rinascimento italiano che fece della prospettiva un elemento fondamentale del suo lavoro di pittore. Ma Piero della Francesca non fu semplicemente questo. La sua complessa personalità emerge vividamente dal volume di James Banker, che prende in esame la produzione artistica del pittore di Borgo San Sepolcro e passa in rassegna tutti i documenti esistenti sul suo conto, sia quelli legati all’attività artistica, sia quelli attestanti la sua presenza come testimone nelle carte notarili. In questo modo l’Autore riesce ad individuare la figura di Piero della Francesca nella città natale e nelle città dove ha operato durante tutta la sua vita, tra le quali Ancona, Rimini, Arezzo, Perugia, Urbino. È proprio nella complessa storia di questi luoghi, caratterizzati da una vivace vita culturale, che Banker contestualizza l’opera dell’artista biturgense, rendendo così un’immagine completa delle varie sfumature che lo contraddistinsero. Dopo il prologo e una sintetica tabella cronologica della vita e delle opere, seguono quattordici capitoli che illustrano la sua biografia, le realizzazioni pittoriche e trattatistiche, gli spostamenti sul territorio. Nella lettura di queste pagine si ha la sensazione di viaggiare con l’artista, tanto è vivida la personalità che viene delineata. La trattazione biografica accentua questo aspetto con l’uso della prima persona plurale: «we must [...] accompany Piero on his visit to Rome in 1458-59 and explore his developing passion for Greek geometry» (p. 63). La ricerca di Banker prende le mosse dalla formazione dell’artista a Borgo San Sepolcro, proseguendo con l’analisi delle prime commissioni, fino ad esaminare le grandi imprese pittoriche per le quali l’artista è oggi più noto. Infine, si studiano le relazioni tra il pittore e le famiglie committenti e promotrici della sua arte. L’autore del volume affronta anche lo studio degli ultimi anni di vita dell’artista, nei quali lo stesso riscopre, o rammenta, i suoi doveri di capo famiglia che, a causa dei viaggi molto frequenti, aveva trascurato. Il filo conduttore nella vita di Piero è l’attaccamento alla sua città natale. Dalla lettura delle pagine del volume si vede che Borgo San Sepolcro è presente in diverse forme nelle opere dell’artista, sia come citazione iconografica, sia come tangibile legame con alcuni suoi concittadini, che lo porterà a rientrare sempre nella città d’origine. Un altro elemento che emerge dai suoi lavori è l’«umanità», intesa come elevazione dell’uomo a un livello superiore, ad una maggiore dignità, senza sminuire la sacralità o la divinità dei personaggi protagonisti delle scene e degli eventi religiosi. Il carattere «umano» e «terreno» dell’arte di Piero della Francesca è rintracciabile anche nei suoi trattati (Trattato d’abaco, De prospectiva pingendi, Libellus de quinque corporibus regularibus). Questi mostrano l’interesse del pittore verso la matematica e la geometria piana e solida e quindi, in modo correlato, alla prospettiva e alle proporzioni, elementi sempre presenti nelle opere d’arte e per i quali l’artista è più conosciuto. L’attenzione per le scienze matematiche, che verosimilmente deriva dalla lettura dei trattati di Euclide e Archimede e forse da uno scambio con alcuni dei più importanti studiosi di queste materie nel XV secolo, è sempre accompagnata da un certo empirismo ereditato dalla professione mercantile della sua famiglia, il cui esercizio, secondo i voleri paterni, sarebbe spettato anche all’artista. Perciò nei suoi scritti egli unisce lo studio della matematica, svolto all’interno dei circoli umanistici, a quello delle prove

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empiriche e dimostrazioni dei problemi aritmetici, accompagnate da dettagliati disegni esplicativi. Questo amore verso la geometria e gli schemi grafici è evidente nelle sue opere, sempre arricchite da soluzioni tecniche e sperimentazioni, che denotano come il pittore fosse estremamente interessato alla resa di un determinato effetto luministico, piuttosto che corporeo, coloristico o prospettico. Nella descrizione delle opere d’arte realizzate da Piero della Francesca, Banker non si limita a una descrizione iconografica, ma fornisce dati ed elementi per la lettura dei dipinti ad un livello più elevato, permettendo anche ai non addetti ai lavori una comprensione agevole delle tecniche utilizzate, delle iconografie rappresentate e del contesto culturale, sociale, economico e storico per il quale sono state prodotte. Banker racconta l’agiografia dei santi correlandola all’iconografia rappresentata nelle opere, fornisce spiegazioni tecniche dei vari metodi pittorici utilizzati, con numerosi rimandi ad altri pittori dello stesso periodo. L’autore del volume inquadra storicamente anche la situazione politica, sociale ed economica delle varie città e delle famiglie committenti, analizzando questo entourage di persone all’interno di un variegato e fecondo universo culturale. La mappa di Borgo San Sepolcro nel XV secolo e la cartina dell’Italia centrale presenti nel volume consentono al lettore di focalizzare agevolmente ed individuare, anche geograficamente, le situazioni e gli eventi trattati. Il lettore, mediante le illustrazioni delle opere d’arte, ha gli strumenti per comprendere al meglio l’arte di questo straordinario artista rinascimentale. Mettendo insieme le sfumature della sua attività artistica e trattatistica a quelle del suo lato più intimo e familiare, ai rapporti con i committenti e i cittadini del suo amato paese, il libro di Banker si configura quindi come un fine ed accurato lavoro che dipinge un ritratto di Piero della Francesca come Artist and Man.

valentina Pili

Matthieu sCheRMan, Familles et travail à Trévise à la fin du Moyen Age (vers 1434 - vers 1509), Roma, École Française de Rome, 2013, pp. 684. – Siamo di fronte a una solida ricerca di carattere economico e sociale, che intende affrontare il problema del lavoro, in epoca tardo medievale, in rapporto-relazione con il soggetto ‘famiglia’. L’oggetto dello studio è la città di Treviso in un arco cronologico di più di settant’anni (1434-1509); l’obiettivo è quello di cogliere in profondità non tanto il ruolo dell’artigianato e dei mercanti, o i processi produttivi del mondo cittadino (operazione già condotta dalla storiografia), quanto, piuttosto, il funzionamento stesso del mercato del lavoro e il rapporto tra famiglia e lavoro, con tutte le implicazioni che questi sistemi e tali relazioni comportano; temi che non erano mai stati studiati in modo organico per un contesto cittadino basso medievale. Per raggiungere il suo scopo, l’autore concentra da un lato la propria attenzione, in modo sistematico e puntuale, sull’enorme documentazione messa a disposizione dagli estimi, elaborati sulla base delle richieste di natura fiscale del centro veneziano, e dall’altro completa e supporta il suo studio con altri tipi di fonti (istituzionali, fiscali, notarili, contabilità ospedaliera e confraternale) al fine di poter incrociare i dati e ottenere una più chiara visione della realtà economico-sociale cittadina.

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Il lavoro viene quindi suddiviso in sette capitoli nei quali Scherman passa in rassegna i punti più rilevanti della ricerca. Nella prima sezione vengono identificati i contribuenti che compaiono negli estimi e viene inquadrata la loro situazione socio-economica. In un secondo momento ci si concentra sul vocabolario e sulla percezione del ‘lavoro’, sulla continuità delle carriere (padri e figli) e sulla mobilità sociale. Il terzo e il quarto capitolo sono focalizzati invece sulle differenti figure di lavoratori e sull’organizzazione del lavoro all’interno della famiglia. Nel quinto capitolo, attraverso un uso massiccio della documentazione fiscale, viene analizzata la gerarchia delle fortune e la ripartizione topografica delle famiglie. Un sesto capitolo è dedicato a quello che l’autore definisce essere la ‘protezione sociale’, un sistema che attraverso il lavoro permette il mantenimento della coesione interna della comunità e che si differenzierebbe dalla carità e dal sostegno offerto dalle istituzioni cittadine. Nell’ultimo capitolo vengono infine messi in evidenza, inserendosi in un filone di aggiornamento sulla dimensione delle relazioni economiche delle città venete nel nuovo ‘Stado da Terraferma’, gli scambi regionali e internazionali della città. La ricca appendice documentaria e una solida bibliografia completano il lavoro.

Pur essendo conscio del rischio dell’utilizzo ricorrente di una categoria concettuale come quella di ‘lavoro’ e di ‘protezione sociale’ in un contesto tardo medievale e pre-industriale l’autore riesce principalmente in due intenti. Da un lato, fa emergere una nozione, definizione globale di lavoro, compresa dagli attori dell’epoca e dalla popolazione, e riesce a sottolineare come il lavoro corrisponda, in fondo, a «une affaire de famille». Dall’altro, la sua definizione del lavoro come struttura di assistenza, sembra porre le basi per future riflessioni, in particolare in relazione alla dimensione della nozione di ‘bene comune’.

loRenzo FResChi

elizabeth w. Mellyn, Mad Tuscans and their Families. A History of Mental Disorder in Early Modern Italy, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2014, pp. 290. – Il disagio mentale, anche in tempi in cui a questa formula si preferivano espressioni identificative meno addomesticate, è sempre stato avvertito come un’esperienza tanto più straziante in quanto capace di ricadere, oltre che sul diretto interessato, su coloro che – amici, intimi o parenti – ne subiscono le conseguenze in ragione dell’affetto o della familiarità che li lega al malato. Nelle società organizzate, inoltre, tale esperienza varca i confini del privato nella misura in cui fa emergere, tra le sue problematicità, aspetti di ordine pubblico: comportamenti insensati, pericolosi, folli, oltre che semplicemente difformi dalla norma, possono mettere a rischio il preteso ordine sociale in cui si manifestano.

La storia ci insegna che la pietà umana e il senso del bene comune non sempre vanno a braccetto, ma che, tuttavia, talvolta possono incrociarsi e perfino percorrere insieme brevi tratti di strada. Quello che resta di questa strada -in comune e non- è quanto costituisce l’oggetto di studio del bel libro di Elizabeth Mellyn, fondato su una ricerca di prima mano condotta su un’ampia documentazione archivistica che copre gli anni tra il tardo Medioevo e la prima età moderna. Si tratta altresì

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di una documentazione frastagliata, molto precisa per quanto riguarda l’aspetto pubblico (carte processuali, giudiziarie, atti degli ufficiali di governo) ma assai più incerta e densa di zone d’ombra per quanto attiene invece al versante intimo, personale e pietoso della vicenda, quello cioè che ci restituisce il punto di vista del malato, o, più frequentemente, dei suoi famigliari. Ieri come oggi, infatti, dietro ogni ‘matto’ c’era spesso una famiglia. Il fatto di per sé non sempre per il malato era da ascriversi tra i vantaggi, poiché proprio nella famiglia, sede deputata alla perpetuazione dei propri membri oltre che al sostegno e alla cura dei più deboli tra essi, potevano frequentemente covare rancori, invidie, avidità di guadagno e istinti di sopraffazione che finivano per consumarsi a danno dei più indifesi. Se nella famiglia dunque, poteva esservi chi pietosamente le tentava tutte per salvaguardare la dignità del più debole, presentando istanza di grazia al Granduca per un parente incarcerato come pazzo, pagando multe e penali per farlo rilasciare, impegnandosi a garantire economicamente e in prima persona per le eventuali conseguenze della sua condotta, vi era anche chi non esitava ad approfittarsi senza scrupoli della situazione (per esempio per impadronirsi di un patrimonio o di un’eredità) con l’impunità che lo stato di infermità del parente gli garantiva. Il prezzo della pietà spesso includeva le spese di soggiorno del parente malato (in carcere o in generiche strutture ospedaliere) che non potevano gravare sul governo centrale, mentre le dinamiche di questa umana compassione si esplicavano in una lunga tarantella tra i familiari degli sventurati e il Granduca cui spettava l’ultima parola sul destino (grazia inclusa) da riservare loro. I lunghi decenni studiati dalla Mellyn raccontano di un sistema sociale inadeguato ad affrontare questo tipo di emergenze, dove il problema finiva spesso per rivelarsi di tipo economico e oscillava tra la necessità di ordine sociale e il desiderio di profitto. Sotto la generica etichetta di pazzo si comprendevano casistiche svariate, dall’ubriachezza molesta all’intemperanza giovanile, fino alla follia autentica spesso associata ad atti di violenza e dunque a un certo tasso di pericolosità. Così la sperimentazione della giustizia ovvero la storia delle soluzioni di compromesso che si venivano a creare tra l’individuo e la corte, è un altro dei punti rilevanti di questa ricerca; i molti casi di pazzia portati in giudizio e qui studiati mostrano la flessibilità del sistema giudiziario fiorentino. Si tratta di esempi svariati in cui di rado l’impulso era quello di isolare il folle esiliandolo in prigione o nelle galere; più frequentemente, si perseguiva un’idea di ordine e di pietà capace di rispettare al contempo le esigenze pubbliche e private. A rimarcare come una delle chiavi di lettura preferenziali della realtà fosse quella economica, uno dei capitoli centrali affronta il particolare tema della stretta affinità tra pazzia e tendenza allo sperpero, come incapacità di gestire oltre che sé stessi le risorse proprie e dei propri cari. Il parallelismo tra San Francesco che rinuncia ai beni terreni per seguire un’istanza di fede e il matto qualunque che nel dilapidare il proprio denaro, rivela un ulteriore segno della sua pazzia, è efficace a dimostrare quanto fosse labile la percezione del confine tra consapevolezza e incoscienza patologica e quanto questa percezione passasse proprio attraverso la gestione del denaro. E se, alle origini, sono la legge, la giustizia e, a monte di esse, la stabilità economica, le categorie sociali alle quali principalmente si faceva appello per irreggimentare, gestire, regolare e arginare il disagio, è solo tra i secoli XVI e XVII che la follia sembra finalmente

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guadagnare a sé un diverso statuto, da un lato attraverso quella nobilitazione tipicamente moderna che la eleva al rango di melancolia, dall’altro attraverso il necessario riconoscimento di una sua stretta affiliazione al campo della medicina. Attorno a questo filo interpretativo di una società che riconosce il folle, lo accoglie oppure lo isola, lo stigmatizza oppure lo esalta, lo cura o lo allontana, talora anche con approcci opposti al contempo, si articola dunque il percorso di questo volume: un volume ben scritto e minuziosamente documentato, fatto di molte microstorie, attentamente recuperate, ricostruite nel dettaglio e integrate con eccellenti acume e sensibilità di storico.

ClauDia tRiPoDi

Europe and the Islamic world. A History, ed. by John Tolan, Gilles Veinstein, and Henry Laurens, translated by Jane Marie Todd with a Foreword by John L. Esposito, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2013, pp. 478. – Una storia di relazioni secolari, non uno scontro di civiltà: questa la cifra del rapporto tra l’Occidente e il mondo islamico secondo la puntuale ricostruzione degli autori, in un’indagine che spazia dal Medioevo all’età contemporanea. Dietro le contrapposizioni ideologiche – orientalismo/occidentalismo, Jihad/crociate e colonialismo, islamofobia/antioccidentalismo – è, infatti, vissuta e vive una realtà di interazioni, scambi, intrecci fertilissimi sul piano culturale, commerciale, scientifico, umano. Una realtà certo segnata dai conflitti che l’hanno costellata, per ragioni religiose, politiche, economiche – sino alla recente ‘guerra del terrore’ domestica e internazionale - , i quali hanno finito per oscurare gli elementi di similitudine (il monoteismo, la vocazione universalistica e missionaria, l’eredità classica ecc.) come pure questo denso tessuto di relazioni. Lo scopo che si prefiggono gli autori è dunque di indagare questa storia nel suo complesso - nelle sue tensioni conflittuali, ma anche nei suoi momenti di convivenza e di cooperazione – con gli strumenti critici adeguati, abbandonando le categorie monolitiche e riduzioniste recentemente rinverdite, ad esempio, da Samuel Huntigton, e addotte dagli opposti ‘fronti’ a giustificazione di una politica tragicamente bellicista.

In linea con tale impostazione, il libro si articola in tre parti. Nella prima, redatta da J. Tolan, si ricostruiscono vari aspetti del confronto tra Oriente e Occidente in età medievale: la reciproca raffigurazione geografica, gli scontri bellici e la relativa definizione di paradigmi antagonisti, ma anche i vivaci traffici commerciali e le modalità di una convivenza e di una comunicazione interculturale ininterrotte. La seconda, a cura di G. Veinstein, si incentra sulla continuità e il cambiamento nella geopolitica provocati dall’espansione dell’Impero ottomano nell’Europa moderna, con uno sguardo attento non solo alle dinamiche politico-militari, pur dominanti, ma anche ai riflessi culturali - quali, ad esempio, il rafforzamento della figura del ‘terribile turco’ nell’immaginario collettivo e il mito della sua potenza militare, ovvero lo sviluppo di un confronto meno ideologico, attraverso la diplomazia, gli scambi mercantili, la conoscenza della cultura musulmana di viaggiatori e intellettuali, le esperienze dei territori di confine. Nell’ultima parte, H. Laurens affronta l’epoca

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inaugurata dal Settecento sino alla contemporaneità, illustrando l’evoluzione dell’approccio occidentale ai tre imperi musulmani (ottomano, persiano, moghul) avviato dall’Illuminismo, tradottosi poi in imperialismo economica e politica e sfociato, dopo il processo novecentesco di decolonizzazione, nella tensione attuale tra lo scontro identitario e l’integrazione multiculturale tra l’Occidente e l’Islam.

luCia FeliCi

PatRiCk bouCheRon, Leonardo e Machiavelli. Vite incrociate, Roma, Viella 2014, pp. 157 – Breve ma denso di fatti storici, nonché di riflessioni filosofiche e di considerazioni sulla fortuna dei due protagonisti, scandito da riferimenti letterari, citazioni storico-artistiche e architettoniche, questo libro (che traduce l’originale francese uscito sei anni fa) racconta la storia di un incontro certo avvenuto eppure sottratto alle evidenze documentarie, quello cioè tra Leonardo da Vinci e Niccolò Machiavelli. Un incontro che si suppone accaduto e depositato tra le pieghe della storia e che, pure, sembra essere sfuggito alle testimonianze superstiti. Leonardo e Machiavelli, due fiorentini tra i più celebri del loro tempo sebbene non proprio coetanei (Leonardo era di 17 anni più anziano), precursori e certo eterni protagonisti delle riflessioni storiche dei tempi successivi, sembrano avere negato alla documentazione scritta qualunque attestazione di una loro collaborazione, familiarità, amicizia, perfino di una banale conoscenza e sembrano tuttavia avere disseminato la loro epoca di tracce che la fanno sottintendere. Il primo ‘appuntamento mancato’ tra i due, quello con cui si apre la riflessione dell’a., è a Urbino, nel giugno del 1502, all’indomani di un’epoca ormai conclusa, alla presenza di un moderno conquistatore che è figura dei tempi nuovi. Cesare Borgia duca di Valentinois si è appena impossessato del Ducato di Urbino, ha occupato il Palazzo Ducale costringendo alla fuga Guidubaldo da Montefeltro, figlio del Federico che lo aveva commissionato: il palazzo stesso, teatro dell’evento, è lo specchio di una realtà storica ideale, bilanciata e pacificata dalla Pace di Lodi che dimostra ormai di essersi schiantata sotto l’impatto di forze nuove e impetuose. Col Borgia e il suo seguito itinerante c’è anche Leonardo da Vinci, sempre alla ricerca di un mecenate facoltoso e potente. Ma presso la corte del Valentino, si trova pure il segretario Machiavelli, inviato dalla cancelleria fiorentina per testare il clima corrente. È da qui che ha inizio la storia che l’a. ipotizza, ricostruisce e ricuce, colmando con la verosimiglianza dei fatti le lacune documentarie: lo fa attraverso le fonti scritte (le lettere di Machiavelli, il taccuino di Leonardo) ma anche appoggiandosi alla documentazione pubblica, letteraria, artistica, iconografica. L’a. segue i due protagonisti nei loro passaggi di vita, nei loro spostamenti e delinea l’intreccio tra i due grandi colossi del pensiero scientifico e politico del Rinascimento in un tempo storico che parte dall’ascesa del Valentino e ne attraversa la disfatta, transitando su esperienze che conobbero la partecipazione, più o meno incisiva, di entrambi quali il progetto per la deviazione del corso dell’Arno o la commissione da parte della Signoria del celeberrimo dipinto che doveva raffigurare la Battaglia di Anghiari.

Ne emerge un comune sentire di due uomini che, se pure dediti a interessi

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apparentemente distanti e animati da un diverso afflato, finiscono invece per applicare alla realtà lo stesso criterio interpretativo. Due vite incrociate ma parallele che si incontrano solo all’infinito e che pure, nel loro tempo storico, procedono di pari passo nel tentativo di poter comprendere e governare i fenomeni politici e naturali dell’universo reale. Entrambi scevri da istanze etiche, entrambi consapevoli del corso che gli eventi stanno prendendo e tuttavia non rassegnati, essi tentano di comprendere la natura -delle cose e degli uomini Leonardo, della storia politica e dei suoi protagonisti Machiavelli- con i mezzi che essa stessa mette loro a disposizione: con l’analisi, l’osservazione, la descrizione del concatenarsi dei fatti, l’applicazione di leggi matematiche e razionali. Il tutto, nondimeno, con la profonda, raggiunta consapevolezza di stare vivendo un’epoca che ha rivelato loro l’ingovernabilità degli affari del mondo: un’epoca in cui gli eventi sfuggono al controllo degli uomini proprio come sfuggono loro il corso del fiume o l’impeto della violenza durante la battaglia.

ClauDia tRiPoDi

L’écrivain et les formes du pouvoir à la Renaissance, par Juan Carlos D’Amico, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2014 («Transalpina», 17), pp. 278. – Questo numero monografico della Rivista del gruppo di ricerca su «Letterature, immaginari e società» dell’Università di Caen-Bassa Normandia focalizza un ambito particolare della storia della cultura italiana del XVI secolo, cioè il repubblicanesimo tra teoria politica e prassi delle istituzioni. Il punto di partenza è la comune riflessione sull’importanza dell’opera di Machiavelli – soprattutto i Discorsi e gli scritti militari – come momento di svolta della cultura politica italiana. Per questo i primi due saggi (Romain Descendre, Laurent Gerbier) si concentrano su alcuni elementi dell’opera del Segretario, in particolare il rapporto testuale e concettuale con le sue fonti antiche (Aristotele) e medievali (la tradizione comunale del ‘vivere civile’). Nei contributi successivi l’attenzione si sposta su Siena e le sue vicende politiche del primo Cinquecento, tra lotte interne e tentativi di riforma, fino alla definitiva sottomissione al dominio mediceo sotto la tutela asburgica. Salvatore Lo Re e Germano Pallini si concentrano sul caso di Bartolomeo Carli Piccolomini, patrizio senese e uomo di cultura allievo di Caludio Tolomei, che nella sua breve ma intensa carriera politica come cancelliere del comune poté elaborare una serie di scritti intorno all’uso della retorica per il bene pubblico. Si tratta di testi significativi sul piano linguistico, per la deliberata scelta del volgare toscano, ma anche da quello della composizione, perché il cancelliere senese si mostra sensibile ad un approccio marcato dal realismo machiavelliano pur in una linea di continuità rispetto ai temi ‘classici’ della retorica pubblica senese. Si trattava di una operazione complessa anche dal punto di vista politico, perché metteva capo ad un tentativo (in definitiva fallito) di superare l’ormai consolidato meccanismo di reclutamento degli uffici tramite i ‘Monti’, innestando nella realtà senese esperienze di natura diversa come il ‘Consiglio Grande’ di ascendenza savonaroliana o la milizia popolare. Tra Siena e Firenze opera anche Bartolomeo (Baccio) Cavalcanti, al centro dei saggi di Carlo Campitelli e

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Juan Carlos D’Amico. Il confronto con il Segretario di questo protagonista della resistenza repubblicana anti-medicea passa soprattutto attraverso la lettura dei classici (segnatamente Polibio), in un dialogo molto serrato tra passione antiquaria e drammatico coinvolgimento nelle vicende politiche del presente. Giovanni Rossi apre invece un ulteriore ambito politico approfondendo il caso di Paolo Paruta, nei cui Discorsi Politici viene sottoposto a critica il celebre confronto machiavelliano tra la Repubblica romana e Venezia, in una chiave di convinto sostegno al sistema politico della Serenissima. L’ultimo saggio, quello di Jean-Louis Fournel, sposta invece l’attenzione sulla Città del sole di Campanella come ‘dialogo poetico’, e sul suo originalissimo tentativo di concepire la poesia come azione politica nel presente. Chiude il volume una sezione miscellanea.

Nel complesso i saggi mettono in luce la centralità del pensiero di Machiavelli come spartiacque nelle modalità espressive e nei temi della cultura politica cinquecentesca: non tuttavia nella prospettiva più fortunata del rapporto tra etica e politica, ma piuttosto nei temi del governo popolare, dell’importanza dell’elemento militare, e della necessità di un confronto con l’esperienza delle cose presenti accanto alla lettura degli antichi. Le opere prese in considerazione qui, nonostante i giudizi della storiografia che le ha valutate non di rado testi velleitari e tarde ripetizioni di moduli culturali ormai passati, sono in effetti lavori non solo profondamente calati nell’attualità politica, ma anche capaci di combinare elementi disparati, adattando alle specifiche esigenze dei propri ideali politici la tradizione antica e l’insegnamento di Machiavelli.

loRenzo tanzini

niCholas sCott bakeR, The Fruit of Liberty. Political Culture in the Florentine Renaissance 1480-1550, Harvard, University Press, 2013, pp. 368. – Prendendo le mosse dal fondamentale studio di Rudolf Von Albertini, Baker ricostruisce il passaggio dalla repubblica al principato a Firenze tra 1480 e 1550, in termini di continuità, invece che di traumatica cesura. Attraverso l’analisi di fonti scritte (carteggi, documenti ufficiali, storie coeve) ed iconografiche, egli reca in luce il contributo essenziale offerto in proposito sul piano politico e culturale dal ceto ottimato.

Negli anni ottanta del Quattrocento, la cultura politica fiorentina è imperniata sugli ottimati, che ricoprono le magistrature e gli uffici pubblici, e primeggiano nelle scene collettive della cittadinanza dipinte da Domenico Ghirlandaio. Nonostante l’egemonia esercitata dai Medici, fin dal 1434, la natura della cultura politica fiorentina rimane eminentemente civica ed è improntata alla nozione di bene comune elaborata dagli ottimati, che consiste nell’assicurare il buon funzionamento del sistema repubblicano e la salvaguardia dell’indipendenza fiorentina.

Quando nel 1494, in relazione alle Guerre d’Italia, i Medici non garantiscono più l’indipendenza fiorentina, gli ottimati, dopo averli espulsi da Firenze, tentano di dotare la città di un solido governo oligarchico, privo della tutela medicea in grado di preservare i valori civico-repubblicani. Nel 1527 ancora delusi dalle scelte

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internazionali dei Medici, nel frattempo restaurati in città, reiterano il tentativo del 1494, ottenendo peraltro risultati opposti a quelli sperati. La spirale ideologica radicale dell’ultima repubblica e l’assedio del 1529 scardinano infatti le tradizionali categorie politiche del ceto ottimato, sconvolgendone la stessa coesione interna. I valori di autogoverno civico-repubblicano e di indipendenza, fino a quel momento, considerati inseparabili, entrano in conflitto. Da un lato, gli ottimati, che lasciano Firenze prima dell’inizio dell’assedio – come Francesco Guicciardini – riducono la libertà fiorentina alla mera sovranità politica. Dall’altro, quelli rimasti a Firenze come ufficiali della Repubblica identificano la libertà con la difesa ad oltranza del civismo repubblicano.

Il conflitto ideologico e militare tra queste due opzioni prosegue anche quando, a seguito del collasso della repubblica (1530), gran parte degli ottimati accetta il principato di Alessandro de’ Medici, istituito con provvisione imperiale nel 1532, come unica via utile a preservare l’indipendenza cittadina. Gli ottimati, avversi ad Alessandro, tra i quali spicca il banchiere Filippo Strozzi, lasciano Firenze, alimentando i valori del civismo repubblicano, nell’ambito del fuoruscitismo. L’acme dello scontro tra le due prospettive di libertà fiorentina si raggiunge nello scontro di Montemurlo (2 agosto 1537), dove i fuorusciti vengono sconfitti – con annessa cattura di Filippo Strozzi – dal nuovo duca di Firenze Cosimo de’ Medici. Consolidato così il suo potere, Cosimo procede nel corso degli anni quaranta alla compiuta trasformazione degli ottimati da ufficiali dello stato in un ceto di cortigiani, suggellata a livello pittorico dai coevi ritratti di Francesco Salviati.

La pur stimolante ricerca di Baker suscita qualche perplessità per l’interruzione della trattazione al 1550. L’autore offre un cenno estremamente limitato sia alle vicende del fuoruscitismo, nella fase successiva a Montemurlo, sia in particolare alla guerra di Siena (cfr. ivi, pp. 190 e 221-222). Fatto salvo un telegrafico riferimento al finanziamento con cui Bindo Altoviti supporta gli esuli, guidati da Piero Strozzi, per liberare Firenze, nel conflitto senese (cfr. ivi, p. 222), egli trascura completamente la rete economico-politica formata dalle maggiori ragioni bancarie di Firenze (Guadagni, Ulivieri, Salviati, Gondi, ecc.) che finanzia la lotta antimedicea degli esuli, fino alla pace di Cateau-Cambrésis (1559). Queste famiglie dell’élite ottimata mantengono a lungo, almeno formalmente, buoni rapporti con Cosimo, costituendo nel contempo una minacciosa zona grigia per il potere ducale, meritevole di una diversa attenzione che avrebbe consentito a Baker di verificare in modo più esaustivo e puntuale la prospettiva della continuità sostenuta nella presente ricerca.

FRanCesCo vitali

steFano MesChini, La seconda dominazione francese nel ducato di Milano. La politica e gli uomini di Francesco I (1515-1521), Varzi, Guardamagna Editori, 2014, pp. 328. – Dopo essersi cimentato più che approfonditamente sulla storia della prima dominazione francese a Milano, con ben due volumi (di cui uno in due tomi) dedicati all’età di Luigi XII usciti tra il 2004 e il 2006 per l’editore FrancoAngeli, Stefano Meschini si sofferma in questa ultima fatica sul periodo compreso tra l’epico scontro

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di Melegnano (la cosiddetta ‘battaglia dei giganti’ vinta dai francesi, guidati da Gian Giacomo Trivulzio, ai danni dell’esercito svizzero) e la rovinosa disfatta della Bicocca che avrebbe consegnato il milanese nelle mani di Carlo V.

Il volume è diviso in due macro sezioni, ambedue di carattere molto erudito. La prima ha un taglio meramente evenemenziale. L’Autore segue le vicende politico-militari, le congiure di palazzo e le rivolte dell’aristocrazia lombarda, anno per anno, mese per mese, settimana per settimana, quasi lasciandosi guidare dalle pagine di storici, cronisti e memorialisti coevi, ma anche dalle relazioni e dal carteggio di ambasciatori, legati e diplomatici di ogni ordine e grado, senza indugiare sulla condizione economica del ducato, sulla stratificazione della società lombarda e su fenomeni di ordine culturale. La seconda parte offre una lunga carrellata di biografie di governatori, alti ufficiali militari e civili, membri del senato, tesorieri e finanzieri del ducato, tanto francesi quanto italiani. Nel complesso Meschini offre agli studiosi materiale indubbiamente molto utile, ma che inevitabilmente si presta una consultazione caso per caso e per singoli episodi, più che a una lettura complessiva del fenomeno. Ne consegue che questo studio, per quanto ricchissimo di dati e di riferimenti a luoghi e personaggi, caratteristica che del resto lo accomuna ai due volumi precedenti dell’Autore, abbia poco da dire sul piano interpretativo; tant’è che Meschini non fornisce al lettore nemmeno una pagina di conclusioni finali, interrompendo bruscamente la narrazione al termine di un capitolo incentrato sugli uffici venali.

seRGio toGnetti

niColas balzaMo, Les miracles dans la France du XVIe siècle, Paris, Les Belles Lettres, 2014, pp. 528. – Nella ricerca storica individuare continuità e discontinuità rappresenta uno degli obiettivi prioritari per fare chiarezza su una determinata questione: attraverso fonti edite e inedite (molte tratte da archivi dipartimentali e municipali), intrecciando teologia e letteratura odeporica, Balzamo indaga la persistenza dell’elemento soprannaturale, in particolare i miracoli, nella cultura francese del Cinquecento. Il miracolo si presta bene all’analisi per tre ragioni: la sua finalità materiale, il suo essere oggetto storico ben definito e, infine, il fatto che fosse oggetto di polemica tra confessioni (pp. 15-16). La scelta cronologica è poi particolarmente significativa per i decisivi cambiamenti intervenuti in ambito religioso con l’affermarsi della Riforma, poiché essa si prefiggeva il superamento di pratiche superstiziose, auspicando il ritorno a forme di cristianesimo autentico. Inoltre, proprio in conseguenza della frattura protestante, la Chiesa di Roma definì codici e norme, come quelli richiesti per la canonizzazione, per impedire abusi. Infine, aver posto l’attenzione sulla Francia per la sua storia politica e religiosa, con il torbido periodo delle guerre, offre suggestioni singolari.

Il saggio è diviso in tre parti, la prima sull’eredità medievale, la seconda sull’avvento della Riforma e la critica che investe anche la concezione dei miracoli e poi una terza (Le réenchantement du monde). In un mondo in cui naturale e soprannaturale si confondono di continuo, il ricorso al soprannaturale per risolvere i

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problemi del quotidiano è costante e diffuso trasversalmente in tutti i ceti sociali. Un ricorso che spesso supera i limiti del consentito e per questo frequentemente diventa oggetto di critica e rimprovero da parte dei teologi.

Utilizzando con prudenza anche dati quantitativi, Balzamo pone in luce come il fedele si rivolgesse al sacro per ottenere un aiuto tangibile, come la guarigione: si possono così esaminare i dati sui pellegrinaggi e su tutti gli elementi di devozione che costellavano la vita del buon fedele. Principalmente, dalle fonti, emerge che i miracoli riguardavano persone con mobilità ridotta o nulla e non vedenti, ma sono interessanti anche le narrazioni delle conseguenze dell’ingratitudine, ossia di quei miracolati poi negligenti, che si procuravano altre disgrazie. Da un punto di vista teorico, il valore pedagogico del miracolo innesca un’interessante controversia a cui prendono parte moltissimi da entrambi i fronti, dal gesuita Louis Richeome al pastore calvinista Bertrand de Loque, ma anche Agrippa d’Aubigné. Sulle radici della critica tradizionale al miracolo, la Riforma desacralizza il soprannaturale, lasciandolo quindi come patrimonio di un mondo non istituzionalizzato ai guaritori, spesso senza scrupoli. Il soprannaturale cui si ricorre non è soltanto quello divino, ma c’è anche quello demoniaco: Balzamo dedica un certo spazio al caso di Laon per notare come dal 1530 al 1560 si verifichino sette casi di possessione, mentre dal 1569 al 1599, una vera impennata con ben 28. Un aumento che rivela l’intensificarsi della conflittualità politico-religiosa.

In conclusione, lo studioso sottolinea a più riprese come il controllo dei miracoli e del soprannaturale fosse «enjeu de pouvoir» e come si tratti di una questione in cui la continuità delle credenze si intreccia con la discontinuità dei mutamenti netti della sensibilità religiosa.

MiChaela valente

DaviD s. GehRinG, Anglo-German Relations and the Protestant Cause: Elizabethan Foreign Policy and Pan-Protestantism, London, Pickering and Chatto Publishers, 2013, pp. 244. – David Scott Gehring analizza le relazioni diplomatiche tra l’Inghilterra elisabettiana e i principi protestanti tedeschi, concentrandosi in modo particolare sulla possibilità di uno sviluppo politico del fronte internazionale protestante nel corso delle varie fasi del lungo regno elisabettiano.

La questione delle relazioni anglo-tedesche sotto la luce di una politica estera ‘pan-protestant’ è stata già studiata sotto diverse direttrici d’indagine, ma Gehring si propone di integrare fonti edite e manoscritte sinora tenute in scarsa considerazione, capaci di rivelare una certa omogeneità tra le posizioni inglesi e tedesche. Il volume è diviso in cinque capitoli, il primo dei quali analizza la situazione interna inglese in concomitanza del Settlement religioso, valutandone la portata anche ai fini della politica estera adottata da Elisabetta – ed in particolar modo dell’impatto della questione matrimoniale – nei confronti dei correligionari principi tedeschi e della Danimarca. Gli altri quattro capitoli portano ognuno il titolo di Foedus et fractio. Questa scelta è significativa della particolare dinamica, di avvicinamento e al tempo stesso volutamente ambigua, tenuta da Elisabetta verso i correligionari tedeschi in tutte le fasi, qui ritenute essenzialmente quattro, della politica estera inglese sotto il suo regno. Se un segno di

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indiscussa attenzione è la decisione inglese di stabilire un’ambasciata stabile alla corte dell’imperatore Rodolfo II, Gehring mette in luce come in questa dinamica abbia avuto un ruolo decisivo il peculiare processo di costruzione dell’ identità nazionale inglese, incentrata sull’anticattolicesimo e sulla figura centrale della regina come capo della chiesa e dello Stato. Un’ ideologia che avrebbe potuto ben coniugarsi con un progetto confederale con i principi del Sacro Romano Impero, che vedevano in Elisabetta il leader naturale del fronte protestante internazionale, ben più dunque che una semplice erede dell’ Enrico VIII alleato con gli Smalcaldici. Tuttavia, le relazioni non ebbero l’evoluzione sperata in senso confederale, principalmente per una serie di contingenze politiche. Secondo Gehring, decisivo fu il fatto che la politica estera inglese riflettesse sempre i rapporti di forza creatisi sul fronte interno ed a corte, come mostrano le divisioni profonde sull’opportunità di interventi massicci sul continente europeo nel caso del sostegno ai calvinisti olandesi. Inoltre, ad ostacolare i piani, intervenne una svolta generazionale a cavallo dell’anno 1592: in un breve lasso di tempo, una generazione di leader religiosi tedeschi scomparve, lasciando così che le due sponde protestanti ripiegassero le loro maggiori attenzioni sulla politica interna. Ed allo stesso tempo, tale cesura storica va considerata come rilevante per la stessa conversione di Enrico IV, ormai isolato sul piano internazionale.

steFano ColaveCChia

steFano tabaCChi, Maria de’ Medici, Roma, Salerno ed., 2012, pp. 468. – La narrazione delle vicende relative alla biografia di Maria de’ Medici intende andare molto oltre la ricostruzione delle tappe della vita della regina di Francia di origine toscana. La promessa biografica non viene disattesa ma, piuttosto, inserita in un contesto ricco e complesso che non è relegato al ruolo di mero scenario nel quale le vicende si svolgono. Il diffondersi per tutta Europa delle idee protestanti, i problemi legati al peso diplomatico di una Francia indebolita e oltremodo traumatizzata dai problemi interni, l’ascesa al trono dell’ugonotto Enrico di Borbone e, poi, l’emergere tanto a Parigi come a Madrid e a Londra di figure del tutto nuove nel panorama politico come i ministri plenipotenziari, nonché i mutevoli assestamenti della guerra dei Trent’Anni sono alcuni dei fenomeni che condizionano e determinano l’agire dei protagonisti della prima metà del Seicento. Tra loro, la regina di Francia.

La nobildonna italiana Maria de’ Medici sposa nel 1600 il relapso Enrico IV di Borbone, sovrano di nuova dinastia per una Francia prostrata dall’esperienza delle guerre di religione. Lascia Firenze e si reca a Parigi seguita da un entourage di toscani che la circonderanno per buona parte della sua vita benché la relazione con la madre patria tenda ad affievolirsi nel corso del tempo. Ella non vi farà più ritorno, né ambirà a farlo, neppure al sopraggiungere della vecchiaia nella trista realtà dell’esilio. Purtuttavia la cultura toscana permea, come è notorio, il suo essere sovrana e patrona delle arti e, soprattutto, determina il gusto che ella contribuisce a rinnovare e a diffondere tanto mediante il mecenatismo esercitato in Francia e nei Paesi Bassi durante i primi anni di esilio, da Rubens a Van Dyck, quanto attraverso la trasmissione di un modello cortigiano che arriva a Madrid e a Londra per via dei matrimoni spagnolo e inglese

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(da ritenersi, entrambi, come successi diplomatici personali della regina) delle sue due figlie Isabella I regina di Spagna (prima moglie di Filippo IV Asburgo) ed Enrichetta Maria regina d’Inghilterra (moglie di Carlo I Stuart).

Il suo ruolo di regina consorte dura fino al 1610 data in cui per Maria inizia una vita, privata e politica, inedita: Enrico IV viene assassinato da un fanatico cattolico e la regina assume il ruolo di reggente per conto del figlio primogenito e futuro re di Francia Luigi. Alla regina è affidata la costruzione di un ruolo nuovo volto a garantirle un peso politico in parte assimilabile a quello di un primo ministro capace di fornire una direzione autonoma alla vita pubblica francese tanto sul piano interno, quanto su quello della politica estera. In merito alla situazione interna Maria mira in particolare a mantenere salvi i risultati ottenuti dall’editto di Nantes nella pacificazione dei conflitti religiosi tra cattolici e ugonotti. Sul piano della politica estera ha una visione irenica il cui massimo obiettivo è orientato verso una pacificazione europea che tende a tradursi in un implicito atteggiamento filo-asburgico: tale visione sarà alla base delle incomprensioni che la distanzieranno irrimediabilmente, sul finire degli anni ’20, dalla sua famosa creatura ribelle, il cardinale Richelieu.

Specialmente nei primi anni del suo governo la regina madre punta al mantenimento della pace in Francia adottando una politica volta a tenere a bada le ambiziose pretese dei principi del sangue i quali, in una situazione di debolezza ontologica come nel caso di una reggenza, tentano in vari modi di destabilizzare il governo della regina fino a farlo entrare in crisi e poter, così, succedere al trono. Maria si barcamena con successo tra congiure di palazzo e nobili riottosi appoggiandosi ai suoi toscani, in maniera particolare alla coppia Concini-Galigai, ai barbons sostenitori della politica enriciana e al partito dei dévots ottenendo il consenso della maggior parte degli aristocratici francesi.

Il soggetto con cui dovrà, viceversa, scontrarsi aspramente sarà proprio il suo primogenito, l’erede al trono di Francia Luigi XIII. Il sovrano, affiancato dal suo favorito Luynes, opererà un colpo di stato per limitare l’influenza politica esercitata dalla regina madre e, nonostante i tentativi di pacificazione tra i due, non indugerà a relegarla in esilio, prima in Francia a Blois, e, poi, dopo un breve ritorno al potere, nei Paesi Bassi, in Inghilterra e, finalmente, a Colonia dove la sovrana trascorrerà gli ultimi giorni di vita. Intanto, accanto alle vicende biografiche e familiari dei due, accade che a Luynes subentri Richelieu, ormai cardinale proprio grazie all’intercessione di Maria, il quale giocherà un ruolo centrale nella relazione madre-figlio ma, cosa ancora più interessante, riuscirà a creare una nuova figura politica il cui ruolo, congiuntamente a quello del sovrano, andrà via via coincidendo con la Francia stessa in un percorso che tende a saldare la politica enriciana con quella che sarà di Luigi XIV.

RaFaella Pilo

CanDiDa CaRella, Roma filosofica nicodemita libertina. Scienza e censura in età moderna, Agorà&Co., Lugano 2014, pp. 206. – Se il fariseo Nicodèmo si recava di notte ad ascoltare Gesù pur osservando di giorno una piena - ma dissimulata - adesione al fariseismo (Giovanni: 3,1-21), tale atteggiamento non fu nei tempi declinato

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esclusivamente in senso confessionale. Nella Roma Seicentesca molti materialisti, scettici, atei e relativisti dissimulavano una fede non autentica, tanto che il nicodemismo e un atteggiamento tutt’altro che rigorista del potere finirono con il rappresentare «due delle condizioni essenziali della storia sociale e intellettuale romana» (p. 4). Muovendosi in quello che è da sempre il suo ambito di studi, la diffusione delle filosofie d’Oltralpe nella Roma Seicentesca e la vita intellettuale romana tra Inquisizione e censura dei libri, Carella ricostruisce, attraverso le carte d’archivio, una città dal profilo culturale vivace e inedito. A partire dalla vicenda umana e scientifica di uno dei protagonisti della Roma di fine Seicento, Giovanni Maria Lancisi, che viene raccontata in una veste inedita: più nicodemita che ‘pia’. Quello che la storiografia ufficiale ci tramanda come uomo religioso e casto fu uno scienziato cartesiano, meccanicista e materialista, attento lettore di Machiavelli, Luciano e di altri autori condannati dall’Index. Non solo nel 1690 Lancisi era stato ammonito dal Sant’Uffizio a non insegnar la dottrina degli atomi, ma «cosa infinitamente più grave, era stato processato per tesi materialiste, empie e tendenti all’ateismo» (p. 29). Il processo, del quale nei secoli poco si seppe, si risolse in un nulla di fatto; come ricostruito nel volume, nonostante il giudizio severo dell’assessore del Sant’Uffizio - Pietro Filippo Bernini - e la gravità delle accuse, che andavano dalla blasfemia all’ateismo, il processo Lancisi si risolse con un supersedeat, forse per la chiamata in correità dell’ex abate di Montecassino ed ex arcivescovo di Rossano, Angelo Della Noce, personaggio illustre e troppo in vista per essere lambito da un qualsivoglia scandalo. Nonostante le tesi di cui Lancisi si era autoaccusato, il medico riprese la sua carriera e fu archiatra di ben tre pontefici, segno forse che la sua perizia e abilità valeva ben più di un’autentica vocazione.

Una vicenda che non è certo fine a se stessa, quanto piuttosto «utile come chiave di lettura per decifrare atteggiamenti di persone e istituzioni» (p. 39): la vicenda del medico romano rappresenta un valido exemplum di quella Roma segreta, nicodemita e libertina che dà il titolo al volume.

Come in ogni buon libro la ratio dei testi citati e delle vicende ricostruite - che in questo volume si servono di un materiale inedito molto importante - vi è fil rouge, qui neppure troppo sottile, che permea il testo e fa da trait d’union tra le vicende narrate: il ‘riscatto’ della Roma Seicentesca che si rivela una città tutt’altro che arretrata culturalmente e bigotta e con essa anche di una delle istituzioni accademiche che di più vengono identificate con la vita intellettuale dell’Urbs, la ‘Sapienza’ romana. Anche se la ‘Sapienza’ sembrava vivere un periodo di grande decadenza, in quanto ufficialmente sede di studi di matrice aristotelica, in realtà ospitava molti maestri lincei e galileiani, e poi corpuscolaristi e atomisti nonché punte di eccellenza, come il matematico cartesiano Vitale Giordano o lo stesso medico Lancisi, suo allievo. Se tutto ciò avvenne, secondo l’uso medievale, fuori dalle aule della ‘Sapienza’, e cioè nelle scuole e nelle accademie private dei maestri che erano disseminate nella città, forse fu solo per favorire una maggior autonomia e libertà di docenza. Bisogna inoltre ricordare che la forma privilegiata della comunicazione intellettuale nella Roma di fine Seicento, in presenza di due istituzioni quali il Sant’Uffizio e l’Index, fu proprio l’oralità. Da ciò la difficoltà a reperire testi scritti, sia che si tratti dell’insegnamento cartesiano o di tesi ancor più pericolose ed eterodosse.

saMantha MaRuzzella

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Paul a. Cohen, History and popular memory. The power of story in moments of crisis, New York, Columbia University Press, 2014, pp. 304. – Cohen è Wasserman Professor in Studi Asiatici e History Emeritus presso il Wellesley College e da molti anni associato al Fairbank Center for Chinese Studies presso l’Università di Harvard. I suoi saggi riguardano prevalentemente la Cina, sulle cui vicende storiche ha pubblicato alcuni tra i più influenti testi di storiografia moderna, tradotti in diverse lingue, tra essi History in three keys: The Boxers as Event, Experience and Myth (1997) e Speaking to History: the Story of King Goujian in Twentieth-century China (2009). Con questo lavoro Cohen riflette sulla interazione nel tempo tra la Storia, elaborata con criteri scientifici, e le storie che raccontano vicende e personaggi, con fondamento storico, giunte a noi attraverso la memoria e le emozioni popolari contenute in opere letterarie ed artistiche ad essi dedicate. L`autore parte dalla storiografia accademica più autorevole che confronta con le traduzioni di documenti, letteratura e canzoni di gesta dell`epoca e ci guida nell`identificazione della relazione tra i fatti accaduti ed i racconti da essi scaturiti, cercando di interpretarne le ragioni della trasformazione nel tempo. Concentra l’attenzione su alcuni episodi di storia nazionale riguardanti la Serbia, la Cina, la Francia, Israele, l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna e spiega come, in circostanze di difficoltà e di pericolo, le vicende del passato storico di quei popoli, spesso infauste e dolorose (definite da Cohen chosen trauma, p. 196), si siano trasformate in storie di coraggio, divenendo strumento di coesione e patriottismo, di celebrazione dello spirito e della forza della nazione, un esempio da tramandare di generazione in generazione. La scelta degli eventi è molto interessante perché richiama l`attenzione su alcuni episodi molto noti e discussi ed altri del tutto trascurati dalla storiografia, inducendo così una più attenta riflessione sulle autentiche motivazioni che hanno ispirato l`immaginazione popolare. Viene così rievocata da Cohen la battaglia del Kosovo (nella storiografia italiana conosciuta come la battaglia della Piana dei Merli), combattuta nel giugno del 1389, ancora oggi per la nazione serba un ricordo di orgoglio nazionale, trascritto in opere letterarie, fatte di eroismo, ma oscurate dall`ombra della dominazione ottomana e dal dubbio del tradimento. L`episodio dell`assedio da parte delle legioni romane del forte di Masada (anno 74 d.C.), dimenticato per secoli e che solo alla fine del XIX secolo, attraverso la scoperta del sito archeologico, ha risvegliato l`interesse del popolo ebraico e dato energia al nascente movimento sionista, trasformando il luogo in una meta di studi, pellegrinaggi e di ispirazione di opere letterarie. Viene poi narrata la vicenda, sconosciuta in occidente, del re Goujian (496-465 a.C.), dello stato cinese dello Yue. Sovrano in lotta, durante il corso della sua intera vita, contro il re avversario dello stato di Wu che lo sottomette ed umilia, ma che a sua volta finisce nella trappola di astuzia di Goujian che lo costringe al suicidio. Una storia di sofferenza, perseveranza e vendetta cara al Generale Chiang Kai-shek che, in lotta con i nemici mortali della propria esistenza, il Giappone ed il Comunismo, amava compararsi allo stesso re Goujian. Le vicende di Giovanna d’Arco (1412-1431), raccolte in un complesso di vicende tra le quali è ancora oggi difficile discernere la realtà storica, dal racconto popolare e dalla componente leggendaria. Un personaggio storico utilizzato contemporaneamente dai generali de Gaulle e Petaine, durante il secondo conflitto mondiale, per rappresentare l`autentico ed indomito spirito della Francia

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libera. Cohen conclude raccontandoci le vicende di due personaggi storici, divenuti, a distanza di secoli, interpreti di due grandi opere cinematografiche, Alexander Nevsky (1220-1263) ed Enrico V (1387-1422). Il primo trasformato in un simbolo di eroismo per volere di Stalin, attraverso l`opera di Sergej Eisenstein, con un film che, non senza un evidente senso di contraddizione per gli stessi canoni elementari del Comunismo stalinista, esalta la memoria del principe russo, proclamato santo dalla Chiesa Ortodossa, come un esempio di leader nella resistenza contro l`aggressione straniera che rappresenta la figura autocelebrativa dello stesso Stalin. Altrettanto famosa è l`opera cinematografica Enrico V, interpretata da Laurence Olivier, film culto divenuto il simbolo dell`orgoglio britannico nella resistenza all`avanzata nazista.

Questo interessante saggio storico induce a riflettere sul fatto che spesso l`impegno per la ricerca della verità, di cui ogni storico è devoto interprete, venga superato dalla forza esercitata dalla immaginazione popolare o dalla manipolazione politica, con una capacità di penetrazione sociale e ricordo di gran lunga superiore a quella scientifica. Cohen sembra convinto che questo processo di utilizzo e trasformazione della Storia sia una radicata propensione dell`essere umano a trascendere la realtà e, come dimostra, un fenomeno senza confini geografici. Si tratta quindi di un’altra, affascinante, lettura dell’uso pubblico e moderno della storia.

Tutte le fonti accademiche e le citazioni letterarie sono riportate nell`appendice del testo, rigorosamente identificate e divise per ogni evento storico, così da divenire un utile sostegno per eventuali future ricerche.

oRazio CoCo

tiziana MaRia Di blasio, Cinema e Storia Interferenze/Confluenze, Roma, Viella, 2014, pp. 316. – Sono passati diversi decenni da quando, a proposito del rapporto tra cinema e storia, Marc Ferro sottolineava la necessità di partire dalle immagini di un film non per cercarvi solamente la conferma o la smentita di altre forme di sapere riconducibili alla tradizione scritta. Eppure è ancora forte la tentazione di servirsi del cinema per illustrare determinate caratteristiche di un’epoca storica o per esemplificare con immediatezza la particolare interpretazione di un problema storiografico. In realtà, la relazione tra cinema e storia è ben più complessa di quanto non appaia a prima vista. Ce lo rammenta Tiziana Maria Di Blasio già a partire dal sottotitolo del suo recente volume: Interferenze/Confluenze. L’autrice individua un’affinità di fondo tra le due discipline, accomunate dal fatto che entrambe sono forme di rappresentazione; attorno a questo presupposto ruotano in modo più o meno diretto molte delle interviste citate parzialmente e rilasciate nell’arco di un triennio (2011-2014) da storici e uomini di cinema.

Nell’introduzione Di Blasio delinea lo stato dell’arte ripercorrendo oltre un secolo di riflessioni teoriche dedicate a tale rapporto: dagli opuscoli di Boleslaw Matuszewski, apparsi alla fine del diciannovesimo secolo, fino al recente libro di Pierre Sorlin, uscito un paio di anni fa. Nel primo capitolo la studiosa discute i contributi più ricchi di proposte, fissando in tal modo alcuni concetti e problemi fondamentali per chiunque voglia occuparsi della relazione tra cinema e storia.

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Così, tanto per esemplificare, ci ricorda che non possiamo più considerare i film semplici finestre sull’universo bensì strumenti di cui una società dispone per autorappresentarsi (Sorlin); e che il cinema è agente della Storia (Ferro). Ci ricorda, come abbiamo ormai superato la diffidenza un tempo nutrita nei confronti delle opere cinematografiche di finzione che, al pari dei documentari, costituiscono un territorio di indagine fertile anche per la loro capacità di disvelare – magari in modo involontario – le zone non visibili del passato delle società (ancora Ferro).

A conclusione di questo itinerario assai articolato emerge una visione problematica del film storico, condensata in una definizione con la quale si apre il secondo capitolo del volume e che abbraccia uno spettro molto ampio delle sue possibili declinazioni. Anzi, l’autrice arriva a negare l’esistenza del film storico come un filone a sé stante e suggerisce di assumere un’ottica trasversale in maniera tale da ritenere storici tutti quei film che, indipendentemente dal genere a cui sono ascrivibili, siano caratterizzati da «una quantità maggiore o minore di elementi storici in relazione al desiderio ed al conseguente effetto di autenticità da cui sono animati» (pp. 139-140).

Il passo successivo dell’impostazione da lei data al problema non lascia adito ad alcun dubbio: «il Cinema, fin dalle origini, in forma diretta o indiretta, come fonte primaria o secondaria, ha attraversato la Storia costantemente e senza interruzioni, se pur con fasi alterne, e contiene in sé elementi storici tali da non potersi più escludere come fonte nella visione storiografica contemporanea» (p. 161). A questo punto del volume e sulla base del convincimento appena espresso, Di Blasio si lancia in una ampia ricognizione a mo’ di verifica condotta immergendosi a capofitto nella storia del cinema: dai primissimi film realizzati alle opere di maestri riconosciuti come David W. Griffith e Sergej M. Ejzenstejn; dal neorealismo al progetto didattico-enciclopedico rosselliniano; dal cinema di guerra al western; dalla sophistycated comedy al cinema d’impegno politico e civile; dalla fantascienza al film biografico, religioso e agiografico. La prospettiva che sostiene il suo volume è senz’altro interessante anche se lascia affiorare la sensazione che in tal modo qualunque film potrebbe rivestire interesse per lo storico.

DaviD bRuni

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romana di Santa Maria Maggiore dei primi anni del secoloXIII in calce al manoscritto Vaticano latino 4772 » 341

RecensionieuGenio RiveRsi, La memoria dei Canossa. Saggi di contestualiz-

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I comuni di Jean-Claude Maire Vigueur. Percorsi storiografici a cura di Maria Teresa Caciorgna, Sandro Carocci, AndreaZorzi (Giuliano Pinto) Pag 354

valeRie theis, Le gouvernement pontifical du Comtat Venaissin vers 1270-vers 1350 (siMone Balossino) » 358

Paolo GRillo, Milano guelfa (1302-1310) (seRGio toGnetti) . » 360

sylvain PaRent, Dans les abysses de l’infidelité. Le procès contre lesennemis de l’Église en Italie au temps de Jean XXII (1316-1334)(FRancesco PiRani) » 364

Carteggio degli oratori sforzeschi alla corte pontificia, I, Niccolò V(27 febbraio 1447-30 aprile 1452) a cura di G Battioni(eManuele catone) » 368

FeDeRica veRatelli, À la mode italienne. Commerce du luxe et diplomatie dans les Pays-Bas méridionaux, 1447-1530. Édition critique de documents de la Chambre de comptes de Lille (MaRia Paola zanoBoni) » 371

Notizie » 374

Summaries » 401

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Fasc.644