Frontiere inquisitoriali nel Sacro Romano Impero, in Papato e politica internazionale nella prima...

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IRENE FOSI Frontiere inquisitoriali nel Sacro Romano Impero 1. Roma e l’impero: immagini e realtà Sì come è amplissima, e forse la maggiore delle provincie d’Europa, e di popoli feroci oltremodo ripiena, così ella [la Germania] mi affligge grande- mente l’animo, mentre io veggo ancora, che dall’heresie ell’è stata misera- mente innondata: perché, come abbondantissima verso di sé di dovitie, ha nella corruttione dell’ottimo generati ancora li mostri de’ primi heresiarchi de’ nostri tempi. 1 Così Francesco Ingoli, primo segretario di Propaganda Fide, 2 intro- duceva la sua lunga e minuta descrizione della Germania. Abbandonava ben presto le reminiscenze classiche per passare a un dettagliato esame geopolitico dell’impero, sottolineandone le complesse sfaccettature terri- toriali, riconducendo però la diffusione delle eresie a una generale infe- zione luterana contaminatrice. Secondo lo schema enunciato in apertura della sua opera, descriveva quanto Roma aveva fatto per recuperare e con- solidare l’ortodossia nei territori imperiali. Qual era il ruolo che giocava l’impero nella politica internazionale del papato in un tournant che aveva visto sempre più ampliarsi l’orizzonte della nuova evangelizzazione? Cosa rimaneva del medievale dualismo universalistico, superato dal particola- rismo territoriale maturato in Europa e in specie nelle terre imperiali con guerre devastanti e con irriducibili cesure confessionali? Questioni stra- tegiche, militari, incertezze dinastiche avevano condizionato e modulato, 1. F. Ingoli, Relazione delle quattro parti del mondo, a cura di F. Tosi, Urbaniana University Press, Roma 1999, p. 25. 2. Su di lui cfr. G. Pizzorusso, Ingoli, Francesco, in DBI, LXII, 2004, pp. 388-391.

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Irene FosI

Frontiere inquisitoriali nel Sacro Romano Impero

1. Roma e l’impero: immagini e realtà

Sì come è amplissima, e forse la maggiore delle provincie d’Europa, e di popoli feroci oltremodo ripiena, così ella [la Germania] mi affligge grande-mente l’animo, mentre io veggo ancora, che dall’heresie ell’è stata misera-mente innondata: perché, come abbondantissima verso di sé di dovitie, ha nella corruttione dell’ottimo generati ancora li mostri de’ primi heresiarchi de’ nostri tempi.1

Così Francesco Ingoli, primo segretario di Propaganda Fide,2 intro-duceva la sua lunga e minuta descrizione della Germania. Abbandonava ben presto le reminiscenze classiche per passare a un dettagliato esame geopolitico dell’impero, sottolineandone le complesse sfaccettature terri-toriali, riconducendo però la diffusione delle eresie a una generale infe-zione luterana contaminatrice. Secondo lo schema enunciato in apertura della sua opera, descriveva quanto Roma aveva fatto per recuperare e con-solidare l’ortodossia nei territori imperiali. Qual era il ruolo che giocava l’impero nella politica internazionale del papato in un tournant che aveva visto sempre più ampliarsi l’orizzonte della nuova evangelizzazione? Cosa rimaneva del medievale dualismo universalistico, superato dal particola-rismo territoriale maturato in Europa e in specie nelle terre imperiali con guerre devastanti e con irriducibili cesure confessionali? Questioni stra-tegiche, militari, incertezze dinastiche avevano condizionato e modulato,

1. F. Ingoli, Relazione delle quattro parti del mondo, a cura di F. Tosi, Urbaniana University Press, Roma 1999, p. 25.

2. Su di lui cfr. G. Pizzorusso, Ingoli, Francesco, in DBI, LXII, 2004, pp. 388-391.

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dalla seconda metà del Cinquecento, la riconquista e la ricattolicizzazione di territori imperiali conosciuti talvolta solo superficialmente, o secondo schemi, informazioni, giudizi e pregiudizi maturati nelle aspre controver-sie confessionali e diffusi da una copiosa letteratura e da una altrettanto vasta e pungente pamphlettistica. Terre di frontiera soggette a mutamen-ti demografici e politici conoscevano conflitti confessionali sanguinosi e violenti, ma potevano anche presentare convivenze più o meno pacifiche di identità e appartenenze religiose diverse e nemiche. Per Roma, superare le divisioni e ricondurre al cattolicesimo e all’obbedienza papale questi territori rappresentava anche una prova inconfutabile della forza che la cri-stianità opponeva al pericolo che il Turco portava all’Europa. La centralità che l’impero e alcune sue parti in particolare, come la Boemia, rivestivano nell’ottica romana è confermata anche dall’attenzione che lo stesso Ingoli aveva dato, nella citata Relazione, scritta come pare all’inizio degli anni Trenta del Seicento, al problema della scelta del metodo della riconquista cattolica che, secondo il segretario, doveva essere fondata sulla via apo-stolica della persuasione, abbandonando violenza e costrizione.3 In questa ottica di riconquista missionaria, dunque, lavoravano la diplomazia e le congregazioni romane.

Argomento centrale nelle istruzioni ai nunzi,4 la ricattolicizzazione dei paesi «heretici» si scontrava con oggettive difficoltà ed era stata frenata da conflittualità fra le congregazioni romane, i nunzi stessi, i vescovi locali e gli ordini religiosi, soprattutto Gesuiti e Cappuccini, autori spesso di una diplomazia parallela sostenuta in alcuni casi dai principi locali e non sempre in linea con le direttive romane. Il nunzio portava con sé un messaggio non solo diplomatico ma un bagaglio culturale, linguistico, mentale che spesso non gli permetteva di comprendere appieno i caratteri della società e della Chiesa locali con le quali si sarebbe dovuto confrontare.5 Era dunque ne-

3. Sui problemi di datazione della Relazione cfr. F. Tosi, Introduzione, p. XXI-XXII.4. Si vedano, ad esempio, Die Hauptinstruktionen Gregors XV. für die Nuntien und

Gesandten an den europäischen Fürstenhöfen 1621-1623, bearb. von K. Jaitner, 2 Bde, M. Niemeyer, Tübingen 1997 e Le istruzioni generali di Paolo V ai diplomatici pontifici 1605-1621, a cura di S. Giordano, OCD, 2 voll., M. Niemeyer, Tübingen 2003.

5. Cfr. su questi aspetti delle nunziature A. Koller, Diplomazia e vita quotidiana. Il nun-zio Ottavio Santacroce e la sua familia, in Per il Cinquecento religioso italiano. Clero cultura e società, Atti del Convegno internazionale di studi, Siena, 27-30 giugno 2001, a cura di M. Sangalli, II, Edizioni dell’ateneo, Roma 2003, pp. 635-648; Id., Überlegungen zur Leben-swelt eines kirchlichen Diplomatenhaushalts im 16. und 17 Jahrhundert, in Impulse für eine

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cessario per i diplomatici pontifici e per i loro collaboratori conoscere e interpretare questa realtà, padroneggiare la lingua per comunicare – e spes-so questo era un ostacolo di non scarso rilievo – informarsi di pratiche e costumi locali che sembravano scontrarsi con le rigide normative ricevu-te in partenza. Si trattava poi di resistere alle pressioni di nobili cattolici, regolamentare i cerimoniali di conversione, allontanare dal clero secolare comportamenti e pratiche che suscitassero scandalo fra i sudditi riformati e fornissero appetibile materia per attacchi da parte di «predicanti heretici» e pamphletaires. La corrispondenza dei nunzi con Roma rappresenta la testi-monianza delle quotidiane difficoltà che sorgevano dalla necessità di tenere fede alle istruzioni ricevute in partenza e di applicarle in una realtà diversa e addirittura ostile. Le lettere non sono dirette solo alla Segreteria di Stato, re-ferente istituzionale della loro missione diplomatica. Interlocutrici diventa-no soprattutto la congregazione dell’Inquisizione e, dopo la sua istituzione nel 1622, anche Propaganda Fide. Si tratta di una comunicazione intensa, spesso drammatica, tesa a proteggere le proprie prerogative, a difendere «la riputatione della Sede Apostolica» e a cercare una linea comune, vincente di fronte al dilagare dell’eresia nei diversi strati sociali, nelle corti, nelle cam-pagne. In questo quadro complesso di rapporti diplomatici e politici, però, mancavano ai nunzi alcuni fondamentali strumenti e la vigilanza inquisito-riale sul loro operato poteva rivelarsi un potente freno al loro agire.

Nel breve di nomina dei nunzi si definivano infatti le facoltà ordinarie e si aggiungevano poi facoltà inquisitoriali – come quella, appunto, di as-solvere gli eretici – in brevi separati, per «sottolineare come tali facoltà di per sé non dovessero ritenersi come ordinarie»,6 per evitare conflittualità con i vescovi locali, e soprattutto per dirigere da Roma, in maniera coe-

religiöse Alltagsgeschichte des Donau-Alpen-Adria-raumes, hrsg. von R. Klieber, H. Hold, Böhlau, Wien-Köln-Weimar 2005, pp. 95-108; Id., Imperator und Pontifex. Forschungen zum Verhältnis von Kaiserhof und römischer Kurie im Zeitalter der Konfessionalisierung (1555-1648), Aschendorf Verlag, Münster 2012. P. Burschel, Das Eigene und das Fremde. Zur an-tropologische Entzifferung diplomatische Texte, in Kurie und Politik. Stand und Perspektiven der Nuntiaturberichtsforschung, hrsg. von A. Koller, M. Niemeyer, Tübingen 1998, pp. 260-271 e le osservazioni di W. Reinhard, Historische Antropologie frühneuzeitlicher Diplomatie: ein Versuch über Nuntiaturberichte 1592-1622, in Wahrnehmungen des Fremden. Differen-zerfahrungen von Diplomaten im 16. und 17. Jahrhundert, hrsg. von M. Rohrschneider und A. Strohmeyer, Aschendorff Verlag, Münster 2007, pp. 53-72.

6. Giordano, Le Istruzioni, I, p. 148 che sottolinea come tali facoltà, durante il pontifi-cato Borghese, fossero state concesse solo a Giovanni Garzia Millini, legato all’imperatore e nominato anche commissario e inquisitore generale in Germania. In effetti, molte lettere

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rente e accentrata, l’operato della diplomazia pontificia, in accordo anche con gli ordini religiosi impegnati nelle missioni, con la congregazione di Propaganda Fide e il clero locale. Tuttavia, questa prassi si mostrò spesso inadeguata per disciplinare in maniera continua e incisiva, da Roma, real-tà territoriali complesse, poco conosciute o conosciute superficialmente e generò inevitabili frizioni anche fra le stesse congregazioni romane. Que-sto sistema fondato sulla “circolazione triangolare”, ormai ben collaudato nella prima metà del Seicento, evidenzia inequivocabilmente come la po-litica internazionale – in questo caso europea e imperiale – fosse diretta e controllata dal “sistema” delle congregazioni, nelle quali, secondo una prassi comune, sedevano gli stessi uomini, rendendo più solide le siner-gie di governo. Segmento di raccordo funzionale ed efficace – anche per smussare inevitabili conflitti insorti sulle competenze nelle materie solle-vate dai nunzi nella loro corrispondenza – era la figura del cardinal nepote. Questo sistema di governo si era affermato già con Clemente VIII e aveva raggiunto il suo apice funzionale fra il pontificato Barberini e Chigi, pur con evidenti mutamenti interni. Nella prima metà del Seicento, in questo ingranaggio curiale che si occupava della riconquista cattolica delle terre imperiali “eretiche”, un ruolo preminente fu svolto dalla congregazione inquisitoriale. Le lettere qui considerate erano dirette, in originale o in co-pia, a questi tre organismi romani e tra questi circolavano secondo il col-laudato circuito di comunicazione e di dichiarata ricerca di sinergie e di intenti comuni: inevitabilmente, però, in questo stesso percorso tornavano sempre all’Inquisizione per l’ultima, definitiva parola. La corrispondenza con il Sant’Uffizio evidenzia insomma la sua decisa e ineludibile volontà di controllo sull’operato dei nunzi, nel tentativo di difendere la propria su-periorità decisionale di fronte alle altre congregazioni romane e sull’intero sistema della diplomazia pontificia.

2. Una lontana presenza: il Sant’Uffizio e le terre «heretiche»

Nella “voce” Germania del Dizionario Storico dell’Inquisizione, che ri-percorre le tappe dell’istituzione papale fin dal XII secolo nei diversi territo-ri dell’impero e ne considera anche la leggenda nera, rafforzata dai progressi

inviate dai successivi nunzi al Sant’Uffizio, si appellavano a questo precedente per veder ampliate le loro facoltà.

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della Riforma e dalla polemica antiromana, si afferma che «si può senza dubbio supporre che le materie tedesche non occupassero più dell’1-2% del-le attività svolte dall’Inquisizione romana».7 Si enucleano inoltre le materie sulle quali la suprema congregazione sarebbe intervenuta: dalle facoltà da concedere per assolvere gli apostati al controllo dei libri, alla questione dei matrimoni e di altri rapporti confessionalmente “misti” nelle terre imperiali. Emerge così da queste pagine un’immagine un po’ troppo semplificata e circoscritta. Certo, quella inquisitoriale è una presenza indiretta, non un’as-senza, e va ricercata nel sistema della curia romana, nel suo funzionamento, nelle relazioni politiche e personali, nella circolazione della cultura che se-gnarono i rapporti fra il papato e le terre tedesche in età moderna. Insomma, le fonti inquisitoriali devono essere intrecciate, confrontate, colmate con quelle di altre congregazioni, con le lettere, non solo ufficiali, di nunzi, con la propaganda e i suoi artefici. Da questo ricco arsenale documentario sca-turisce non solo la realtà dell’area imperiale frammentata e fluida ma la sua percezione a livello curiale, la cultura di chi era chiamato a operare, la con-sapevolezza, la continuità e coerenza del complesso sistema romano nell’af-frontarla. O piuttosto emerge lo iato fra teoria e prassi, fra realtà e progetto. Le lettere e i memoriali inviati al Sant’Uffizio si propongono dunque come fonti privilegiate per indagare, aldilà della propaganda ufficiale che celebra-va i trionfi delle armi cattoliche e l’apparente concordia e unità di intenti fra il papa e l’imperatore, divergenze non superficiali che avrebbero, in seguito, segnato gli sviluppi della politica europea.

Arrivavano infatti missive da Vienna e Praga, ma anche dalle diocesi di confine con il mondo degli Ortodossi e dei Turchi che premevano alle porte dell’Europa. Costante era la richiesta di annullare o almeno ridurre la differenza fra quanto stabilito, in teoria, a Roma e la pratica, la quotidia-nità con la quale, lontano, tutti si dovevano confrontare. I problemi posti da questo incessante flusso comunicativo che si snodava fra l’impero e Roma erano numerosi e di diversa natura: dal controverso problema delle facoltà absolvendi ab haeresi, al controllo della circolazione dei libri, e di quelli proibiti in specie, destinati alla fiera di Francoforte. Di conseguenza si sollevava la questione della impellente necessità di disporre di un perso-

7. A. Burkardt, G. Schwerhoff, Germania, in Dizionario Storico dell’Inquisizione, a cura di A. Prosperi con la collaborazione di J. Tedeschi e V. Lavenia, vol. II, Edizioni della Normale, Pisa 2010, pp. 655-662. Si veda inoltre Tribunal der Barbaren? Deutschland und die Inquisition in der Frühen Neuzeit, hrsg. A. Burkardt, G. Schwerhoff, UVK Verlags gesellschaft, Konstanz-München 2012.

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nale capace di vigilare ed esaminare questa produzione editoriale anche nei diversi volgari. Erano problematiche che superavano l’aspetto contingente, ma rivestivano un significato profondo per la difesa della cultura cattolica nei territori segnati dalle eresie. Se, da un lato, si ribadiva quanto fosse ne-cessario un controllo diffuso e capillare sulla circolazione delle Bibbie in volgare e di altri testi devozionali, come i Salmi, «consuetudine comunis-sima e molto invecchiata per tutta la Germania»,8 dall’altra si comprendeva che non si dovevano infrangere radicati costumi per evitare ulteriori attriti con le popolazioni locali. Il problema non era nuovo e solo dopo più di un decennio, nel quale soprattutto i nunzi avevano ripetutamente premuto sull’Inquisizione perché fosse concessa la lettura della Bibbia e di altri testi nelle lingue vernacolari, fu ripristinata, nel 1596, la regola IV dell’Indice tridentino.9 Proibirli, come si sollecitava da Roma,

apparirebbe al popolo tanto inimico di mutationi et alterationi, occasione di gravissimi scandali e non si effettuerebbe cosa alcuna, tanto più che alli sem-plici li parrebbe esser privi della parola di Dio, come loro dicono, se non si servissero di Salmi,

faceva infatti osservare al Sant’Uffizio anche il nunzio agli Svizzeri Ladislao d’Aquino.10 Se, quindi, era opportuno venire incontro ai «sem-plici», si doveva anche allentare il rigore per permettere agli ecclesiastici di leggere libri proibiti per rispondere adeguatamente alla numerosa pam-phlettistica antiromana che circolava in quelle terre e affondava le sue ra-dici negli stereotipi elaborati dalla Riforma. Ripetutamente nelle lettere si lamentava la scadente formazione del clero cattolico, la sua difficoltà di potersi confrontare, nelle controversie, con i «predicanti heretici». Era, questa una dolorosa constatazione che attraversava tutto il mondo di lingua tedesca, dalla Svizzera alla Germania del Nord, alla Boemia, proprio nel momento in cui si scontravano gli eserciti nella guerra dei Trent’Anni e le

8. ACDF, SO, St st. TT 1-a, c.1026r.9. Come è stato osservato «il cedimento di Roma dopo anni di discussioni non intese

rispondere e non rispose al principio della tutela delle tradizioni locali, ma per fornire al clero cattolico uno strumento da usare nella controversistica contro i riformati, trasforman-do una fonte di nutrimento spirituale in un “sacro arsenale” da usare contro i protestanti»: G. Fragnito, Per una geografia delle traduzioni bibliche nell’Europa cattolica (sedicesimo e diciassettesimo secolo), in Papes, princes et savants dans l’Europe moderne. Mélanges à la mémoire de Bruno Neveu, réunis par J.-L. Quantin et J.-C. Waquet, Droz, Gèneve 2007, pp. 51-77 (la cit. a p. 76).

10. ACDF, SO, St st. TT 1-a, c.1026r (Lucerna, 19 maggio 1609).

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conversioni, specialmente quelle di principi territoriali, di nobili, di mili-tari o di predicatori riformati rappresentavano per Roma un’irrinunciabile risorsa da utilizzare anche in chiave propagandistica.

Se, comunque, i problemi legati alla riconquista cattolica dell’Europa e alle conversioni si fanno più acuti durante il periodo della guerra dei Trent’Anni, già si erano posti in modo palese fin dal tardo Cinquecento.11 Ma per rimediare occorrevano strumenti adeguati come poter disporre di un clero secolare e regolare adeguatamente preparato che non desse scan-dalo e sapesse rispondere in maniera convincente alle provocazioni dei «ministri heretici» e sostenere con essi un confronto culturale.12 Occorreva poi un sostegno senza riserve da parte dell’imperatore. Requisito, quest’ul-timo, che se appariva scontato in teoria, in pratica era soggetto a tutti i con-dizionamenti del complesso quadro politico europeo delineatosi fra tardo Cinquecento e la fine del secolo successivo.13

Il contrasto sulle strategie da seguire per convertire le popolazioni ri-conquistate, prima e durante la guerra dei Trent’Anni, dalle armi catto-liche, riguadagnare alla Chiesa romana le élites locali, assicurare onore e prestigio sociale a chi abbandonava l’eresia, garantire eventualmente carriere e uffici nella corte imperiale o nella curia pontificia, si intrecciò spesso con un non sempre latente conflitto fra la corte di Vienna e Roma. Nella documentazione curiale l’imperatore è più volte stigmatizzato come indifferente o addirittura ostile: e non ci si riferiva solo a Rodolfo II,14 ma anche a Ferdinando II, tradizionalmente indicato, fin dalla storiografia co-

11. C. Zwierlein, “Convertire tutta l’Alemagna” – Fürstenkonversionen in den Strate-giendekrahmen der römischen Europapolitik um 1600: Zum Verhältnis von «Machiavellismus» und «Konfessionalismus», in Konversion und Konfession in der frühen Neuzeit, hg. von U. Lorz-Heuman, J.-F. Mißfelder, M. Pohlig, Güterloher Verlagshaus, Gütersloh 2007, pp. 63-105.

12. Il problema della scadente formazione del clero, specie secolare, in Germania assillò per tutto il Seicento Propaganda Fide: G. Denzler, Die Propagandakongregation in Rom und die Kirche in Deutschland im ersten Jahrzehnt nach dem Westfälischen Frieden, Schöning, Paderborn 1969.

13. Come si desume ad esempio, dalla insistita «necessità di purgare il suo [dell’im-peratore] Consiglio et la casa d’heretici» ricorrente nelle lettere di Girolamo Portia: Nuntia-turberichte aus Deutschland, dritte Abteilung 1572-1585, Nuntiaturen des Giovanni Delfi-no und des Bartolomeo Portia (1577-1578), bearb. von A. Koller, M. Niemeyer, Tübingen 2003, p. XXI.

14. In una lettera da Praga del 15 febbraio 1597 al cardinale di Santa Severina Giulio Antonio Santoro il nunzio Cesare Speciano poteva affermare con malcelato disappunto che «la corte è piena di heretici»: ACDF, SO, St st. TT 1-a, c. 550r.

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eva, come l’intransigente restauratore del cattolicesimo nei suoi domini.15 I giudizi romani sembrano fondarsi su un’idea ormai lontana delle fun-zioni e del ruolo imperiali e, soprattutto, su una conoscenza non sempre adeguata e aggiornata delle realtà territoriali che poteva determinare una sostanziale impreparazione ad affrontare in pratica e coordinare organica-mente l’azione di riconquista.16 Non era semplicemente il residuo culturale di un’immagine ormai superata che vedeva nell’imperatore il braccio e la spada della cristianità: la corte imperiale si era trasformata, anche le terre ereditarie erano state invase dall’eresia e, come rilevava lo stesso Ingoli nella citata Relazione, la politica imperiale era debole e

molto maggiore felicità sarebbe il poter condurre a fine li religiosi proponi-menti di S.M.tà di far restituire li beni Ecclesiastici a i successori dei leggiti-mi antichi posseditori di essi; di liberare dalle mani de gli heretici li principali Vescovati della Germania; di rimettere, per quanto sarà possibile, la religione catolica nelle città franche; cose tutte, che già si sono tentate, et in molte parti operate. Ma non senza estremo dolore io veggo impedirsi la santa intentione di S. M.tà da gli affari del mondo; veggo prevalere gl’interessi politici; veggo farsi delle paci, e moversi delle guerre, che sono a tutto ciò di grandissimo ostacolo; e scorgo nuove armi uscire dalla Svetia e dall’estremo Settentrione, e far gran progressi; mentre sono le forze di S. M.tà in Italia occupate.17

Proprio la policromia della corte imperiale, sulla quale non era facile – e spesso non opportuno politicamente – esercitare un controllo, sembrava

15. R. Bireley, S.J., Religion and Politics in the Age of the Counterreformation. Emperor Ferdinand II, William Lamormaini, S. J. and the Formation of Imperial Policy, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1981. Un quadro delle problematiche relative alla riconquista cattolica della Boemia, dei rapporti fra l’impero e Roma durante la guerra dei Trent’anni è tracciato con precisione da A. Catalano, La Boemia e la ricon-quista delle coscienze. Ernst Adalbert von Harrach e la controriforma in Europa centrale (1620-1667), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2005. Inoltre I. Fosi, «Procurar a tutt’huomo la conversione degli heretici»: Roma e le conversioni nell’Impero (secoli XVI-XVII), in «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken», 88 (2008), pp. 335-368 e il volume Roma e l’Impero nel pontificato di Urbano VIII, Atti del convegno, Roma 2 dicembre 2010, a cura di I. Fosi e A. Koller, Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano 2013.

16. Sulla conoscenza che da Roma si aveva dei problemi imperiali v. G. Braun, Kai-rserhof, Kaiser und Reich in der Relazione des Nuntius Carlo Carafa (1628), in Kaiserhof Papsthof 16.-18. Jahrhundert, hg. von R. Bösel, G. Klingenstein, A. Koller, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, Wien 2006, pp. 77-104.

17. Ingoli, Relazione, p. 39.

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mettere in serio pericolo l’opera di conversione che nunzi ed esponenti di ordini religiosi avevano incessantemente messo in atto anche attraverso confessori e predicatori di corte.18 C’erano poi altri problemi che si propo-nevano di frequente nelle lettere dei nunzi inoltrate al Sant’Uffizio. Come rispondere alle richieste di favori avanzate da ministri e consiglieri di Sua Maestà Cesarea, spesso convertiti anch’essi e, quindi, preziosi veicoli per la diffusione e il rafforzamento dell’ortodossia cattolica a corte e nelle terre dell’impero? Ai rappresentanti papali spettava, dunque, il difficile compito di mediare fra la rigida posizione romana e le esigenze politiche della corte imperiale e di far recepire il messaggio di fermezza nei confronti dell’ere-sia in un momento di aperta conflittualità politica e militare all’interno dell’impero.

Non erano solo le questioni relative alla riconquista confessionale e alle strategie da seguire a riempire le pagine delle lettere e memoriali sot-toposti dai nunzi al Sant’Uffizio. Questioni cerimoniali erano legate alla ri-tualità di celebrazioni religiose o di conversioni, ma si ponevano con forza nelle occasioni pubbliche quando il rappresentante pontificio non poteva evitare la presenza di principi riformati. Problema certo non nuovo al quale, fin da metà Cinquecento, si era risposto con inequivocabile intransigenza: evitare «conversationi» con gli eretici.19 Più difficile diventava però per la stessa congregazione inquisitoriale dettare una linea ferma in merito quan-do il cerimoniale prevedeva la presenza dell’imperatore. E, ovviamente, in periodi in cui la tensione fra il papa e «Sua Maestà Cesarea» era palpabile per i ben noti motivi legati alla guerra in atto, alla posizione di «padre comune» di Urbano VIII e alla richiesta di sussidi rivoltigli da Ferdinando II,20 la posizione del nunzio conferiva al cerimoniale un ancor più un forte

18. Sul ruolo svolto a corte da confessori e predicatori si veda lo studio di E. Garms Cornides, Pietà ed eloquenza. Il clero italiano al servizio della corte imperiale tra Sei e Settecento, in Die Höfe als Orte der Kommunikation. Die Habsburger und Italien (16.-19. Jahrhundert)-Le corti italiane come luogo di comunicazione. Gli Asburgo e l’Italia (secc. XVI-XIX), Atti del convegno, Trento, novembre 2007, a cura di M. Bellabarba, J.P. Nieder-korn, il Mulino-Duncker&Humblot, Bologna-Berlin 2010.

19. E. Bonora, “Ubique in omnis circumspectis “. Diplomazia pontificia e intransi-genza religiosa, in Sulla diplomazia in età moderna Politica economia religione, a cura di R. Sabbatini P. Volpini, F. Angeli, Milano 2011 pp. 61-76 (Annali di storia militare europea, 3, Guerra e pace in età moderna).

20. G. Lutz, Roma e il mondo germanico nel periodo della Guerra dei trent’anni, in La corte di Roma tra Cinque e Seicento “Teatro” della politica europea, a cura di M.A. Visceglia, G. Signorotto, Bulzoni, Roma 1998, pp. 425-460.

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significato di messaggio politico.21 Citiamo solo un esempio. In occasione della «Deputatione dell’Impero» che si doveva tenere a Ulma nel 1625 la presenza degli elettori di Sassonia e Brandeburgo pose in seria difficoltà il nunzio Carlo Carafa che si appellò al cardinale S. Onofrio, Antonio Barbe-rini, anch’egli membro del Sant’Uffizio, giustificandosi

come essendosi fatti rarissime volte detti Conventi e Deputationi con l’inter-vento dell’Imperatore e perciò non havendo trovate né scritture né persone che m’habbiano possuto informare del solito, non ho potuto pigliar risolutio-ne per l’essempio […].

Chiedeva inoltre indicazioni se rispettare le precedenze senza pregiudi-zio per la «riputatione della Sede Apostolica». La questione si rivelò subito di difficile soluzione: i pareri espressi dai membri del Sant’Uffizio mostrarono la sostanziale ignoranza del problema. Chi si astenne dal fornire consigli, chi suggerì una generica e sempre utile «prudenza», chi, come il cardinale Klesl, profondo conoscitore della realtà imperiale, suggerì che il nunzio «si fusse fatto amalato o trattenuto nel tempo della Deputatione altrove in altri affari della Sede Apostolica», mentre altri cardinali con abile mossa strategica non parteciparono alla seduta della congregazione inquisitoriale del 22 novembre 1625. Alla fine «fatta matura consideratione» la congregazione inquisitoriale propose una soluzione di compromesso che non doveva pregiudicare i rap-porti fra Roma e la corte imperiale ma che avrebbe segnato anche in seguito la condotta dei diplomatici pontifici. Il nunzio

si debba astenere dall’intervenire nelle pubbliche funzioni et accompagna-menti dell’Imperatore mentre ella habbi a cedere il luogo o caminar al pari degl’Elettori heretici. L’aspettar in tal occasione S. M.tà nell’Anticamera, ove si sta confusamente si è approvato purché V. S. non lo faccia ordinaria-mente né in tutti li giorni d’accompagnamento, ma quelle volte solo che per occasione di negotio parerà alla prudenza sua. Insieme si è hauto per bene che V.S. prima passi qualche scusa con S. M.tà se non sarà assiduo nel servirla et le significhi il rispetto che la trattiene.22

21. L’efficace definizione del cerimoniale come «linguaggio politico» è di M.A. Visceglia, Il cerimoniale come linguaggio politico. Su alcuni conflitti di precedenza alla corte di Roma tra Cinquecento e Seicento, in Cérémonial et rituel à Rome (XVIe-XIXe siècle), a cura di M.A. Visceglia, C. Brice, École Française de Rome, Rome 1997, pp. 117-176 (ora in La città rituale: Roma e le sue cerimonie in età moderna, Viella, Roma 2002, pp. 119-190).

22. ACDF, SO, St st. TT 1-B, cc. nn.

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Opportuna prudenza, tracce di ambiguità, una pericolosa chiusura segneranno ancora la diplomazia pontificia nei territori imperiale, fino a Westfalia. E anche la sua sconfitta.

3. Disciplinare i matrimoni, riconquistare la nobiltà

Nelle lettere che giungevano al Sant’Uffizio si affrontavano il diffi-cile quesito circa la subconcessione di facoltà di assolvere ab haeresi, le questioni relative al sacramento del matrimonio e ai matrimoni misti, ci si interrogava sulla necessità di conservare un giusto equilibrio fra rigore e compromesso senza destare scandalo nei fedeli delle altre confessioni. I problemi della subconcessione di facoltà absolvendi ab haeresi23 e delle dispense matrimoniali, per sciogliere unioni contratte davanti a ministri eretici, per consentire matrimoni in gradi proibiti o fra cattolici e rifor-mati, per legittimare i figli, sono strettamente connessi e attraversano tut-ta la corrispondenza con Roma, sia dei nunzi che di vescovi e altri ec-clesiastici dell’impero, e vennero affrontati con estrema cautela e risolti spesso con discontinuità. L’iter di queste richieste era quello descritto: un percorso triangolare che partiva dal nunzio, giungeva alla Segreteria di Stato ed era inviato o direttamente al Sant’Uffizio o a Propaganda Fide che poi lo avrebbe inoltrato alla congregazione inquisitoriale. Nel 1625 il Sant’Uffizio ribadì che la facoltà di assolvere dall’eresia in utroque foro poteva essere delegata dai nunzi anche ai vescovi, abati e provinciali di ordini regolari. Soprattutto nelle terre ereditarie dell’impero la situazione era però di difficile controllo e molti sacerdoti si attribuivano da soli tali facoltà. In alcune circostanze, soprattutto all’inizio del Seicento, le sub-concessioni di facultates absolvendi ab haeresi venivano autorizzate dal Sant’Uffizio solo in numero limitato.24 Il problema si legava strettamente

23. La facoltà di assolvere gli eretici consentiva di «assolvere in utroque foro eretici e scismatici, anche relapsi, dopo aver ricevuto l’abiura pubblica o segreta fatta davanti a un notaio e a due testimoni e di assolverli da tutte le pene e censure ecclesiastiche, anche nei casi riservati alla Santa Sede e previsti dalla bolla In Coena Domini, in modo che i chierici potessero essere promossi ad uffici e benefici e i laici a dignità e uffici pubblici e private»: Giordano, Le istruzioni, I, pp. 149-150. In realtà, come risulta dalle lettere inviate al Sant’Uffizio, non sempre ai nunzi erano attribuite tutte queste facoltà inquisitoriali.

24. ASV, Archivio della nunziatura apostolica a Vienna, nr. 9, c. 2v. Facoltà potevano essere concesse per periodi ben determinati a legati inviati a corte per motivi straordinari:

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alla politica conversionistica, alla riconquista del territorio, soprattutto in Boemia e Ungheria, attraverso le conversioni della nobiltà locale, ma non solo. Infatti, anche a livelli più bassi della popolazione, non era facile far comprendere il significato degli ostacoli posti dalla Chiesa alla volontà di chi voleva convertirsi ed essere assolto o ricorreva ad essa per celebrare il matrimonio. Inoltre, le differenze e i confini confessionali non erano spesso percepiti nella “normale” quotidianità e soprattutto non se ne pe-netravano i complessi significati teologici.25 A Roma non si comprendeva perfettamente che le popolazioni che vivevano là dove convivevano, non sempre in maniera ostile, le diverse confessioni cristiane, non si percepi-vano le differenze dogmatiche.26 Passare da una confessione all’altra signi-ficava, per molti, andare a pregare in una chiesa o in un’altra, ascoltare le prediche di pastori o andare alla messa. Confini e divisioni potevano però risvegliarsi, acuirsi e diventare invalicabili nei periodi di guerra, di tensioni a livello locale, anche di semplici «differenze» fra famiglie, gruppi sociali, fazioni o fra intere comunità.27 Emergono le molteplici difficoltà di attuare una politica di riconquista e di controllo, di uniformità confessionale, di applicazione delle norme tridentine, di persuasione in terre dove, per mo-tivi differenti e nei diversi livelli sociali, non era nettamente avvertito il “confine” confessionale:28 per ignoranza, per pratica consuetudinaria, per

S. Giordano, La legazione del cardinale Franz von Dietrichstein per le nozze di Mattia, re d’Ungheria e di Boemia (1611), in Kaiserhof -Papsthof, in part. pp. 51-52.

25. Si vedano, a questo proposito, i saggi pubblicati nel volume Frontiers of Faith, ed. by E. Andor and I.G. Tóth, Central European University, Budapest 2001.

26. Come è stato osservato, per molti, e soprattutto per i ceti più bassi, «se convertir en Catholicisme ne signifiait normalement rien d’autre qu’aller dorénavant à la messe et célébrer les fêtes catholiques»: F. Volkland, Bi-confessionalité et identité confessionelle. Le cas du baillage commun du Thurgau en Suisse au XVIeet au XVIIe siècles, in Religion et identité, sous la diréction de G. Audisio, Publications de l’Université de Provence, Aix-en-Provence 1998, pp. 29-35 (la cit. p. 31).

27. A proposito della presenza e della convivenza – che non significa necessariamente vivere in comune – nelle città europee pluriconfessionali si veda W. Kaiser, Vies parallèles et vie commune dans le monde urbain, in Des religions dans la ville. Ressorts et stratégies de coexistence dans l’Europe des XVIe-XVIIIe siècles, sous la diréction de D. Do Paço, M. Monge, L. Tatarenko, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2010, pp. 189-193; Ch. Duhamelle, L’invention de la coexistence confessionelle dans le Saint-Empire (1555-1648), in Les affrontements religieux en Europe (1500-1650), Presses de l’Université Paris-Sor-bonne, Paris 2009, pp. 223-243.

28. Sul concetto di confine confessionale e la sua differente percezione cfr. Interkon-fessionalität-Transkonfessionalität-binnenkonfessionelle Pluralität. Neue Forschungen zur

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opportunismo.29 Erano motivi che generavano una pericolosa confusione che da Roma si voleva evitare.

La richiesta, da parte dei nunzi, di un ampliamento delle loro facoltà e, soprattutto, della possibilità di delegarle ad altri, era motivata proprio dalla necessità di assecondare e moltiplicare le conversioni30 e, di conseguenza, di concedere assoluzioni a chi tornava alla fede cattolica e risolvere la spinosa questione dei matrimoni misti e delle dispense matrimoniali. Il primo pro-blema – l’assoluzione dei convertiti – sollevava gravi conflittualità fra Roma e le autorità ecclesiastiche presenti nei territori dell’impero, impegnate nel tentativo di conciliare l’intransigenza romana con la volontà, e anche la ne-cessità, di fare proseliti e allargare le file dei fedeli. Nelle lettere al Sant’Uf-fizio i nunzi inoltre rilevavano che, quando non avevano facoltà di assolvere eretici relapsi, questi o rinunciavano a ritornare in seno alla Chiesa o per ave-re l’assoluzione si rivolgevano ad altri, soprattutto a frati più accomodanti. La pressante esigenza di provvedere a ristabilire la fede nelle terre boeme si adeguava, in questo caso, alla necessità di delegare facoltà, smussando osta-coli procedurali e sfumando implicazioni e significati teologici difficilmente comprensibili alla maggior parte della popolazione e dello stesso basso cle-ro, in una situazione politica che sconsigliava inopportune rigidità. Da Roma per nessun motivo si volevano concedere tali facoltà ai parroci, spesso im-preparati e incapaci di discernere le vere dalle false conversioni, sottoposti a

Konfessionalisierungsthese, hrsg. von K. von Greyerz, M. Jakubowski-Tiessen, T. Kauf-mann, H. Lehmann, Güterloher Verlagshaus, Gütersloh 2003; K. Luria, Sacred Boundaries. Religious Coexistence and Conflict in Early Modern France, The Catholic University of America Press, Washington 2005. Per un’ampia rassegna critica delle posizioni storiografi-che sul tema delle conversioni in età moderna si rinvia al saggio di K. Siebenhüner, Glau-benwechsel in der frühen Neuzeit. Chancen und Tendenzen einer historischen Konversions-forschung, in «Zeischrift für historische Forschung», 34 (2007), pp. 243-272.

29. Tale confusione che imbarazzava non poco soprattutto i nunzi è testimoniata a tutti i livelli sociali: ACDF, SO, TT 1-a, c. 1039r (Graz, 2 febbraio 1609). Cfr. Innerösterreich be-treffende Quellen aus den Inquisitionsarchiven in Rom und Udine, bearb. von J. Rainer unter Mitarbeit von Ch. Rainer, Historische Kommission des Steiermark, Graz 2004, p. 134.

30. Il cardinale Scipione Borghese esprimeva al nunzio a Graz Giovan Battista Sal-vago la sua soddisfazione a proposito del successo del pellegrinaggio al santuario della Madonna di Celle, «e che in quella peregrinatione molti Heretici illuminati per merito della Beat.ma V.ne dalle tenebre dei loro errori, desiderano ridursi al lume della fede cattolica et non vi trovano chi li possa guidare, né dare rimedi all’anime loro per il mancamento di facoltà». Ricordava quindi che Paolo V gli concedeva facoltà di assolvere ab haeresi e di subdelegarla a due altri «conforme che ne giudicherà esser bisogno»: ASV, Archivio della nunziatura apostolica a Vienna, n. 9, cc. 22v-23v (Roma, 15 agosto 1609).

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pressioni da parte dei propri fedeli e condizionati dall’ambiente, dalle gerar-chie e dai rapporti di forza interni alla comunità in cui operavano. Interlocu-tore, durante il pontificato di Urbano VIII, di queste continue controversie e punto di riferimento essenziale rimase soprattutto il cardinal nepote, France-sco Barberini, segretario del Sant’Uffizio, a confema della sua posizione do-minante, di raccordo e mediazione all’interno del “sistema” curiale romano. La richiesta di ampliamento delle facoltà di assoluzione continuò ad essere presente con forza nella corrispondenza con Roma e solo nel 1646 fu amplia-ta dal Sant’Uffizio anche a sacerdoti solo «in locis tamen haereticorum, ubi prohibetur exercitium Catholicae Religionis», proprio in seguito alle ripetute richieste giunte da chi si trovava a confrontarsi con la realtà drammatica dei territori imperiali.31 Non era un problema presente solo nei domini imperiali causato dalla mobilità delle popolazioni che attraversavano le frontiere per sottrarsi alle violenze delle armate. Durante la guerra dei Trent’Anni infatti anche il nunzio agli Svizzeri aveva chiesto ripetutamente un ampliamento delle proprie facoltà, perché nei paesi riconquistati dalla Lega cattolica e specialmente nel Württemberg era necessario provvedere ai «molti relapsi in haeresim che qua ricorrono per essere assoluti». Era dunque necessario accogliere e aiutare «questi poveri erranti che di nuovo ritornano nel grembo della S.ta Chiesa, tanto più che tali per il più son caduti per ignoranza o for-zati, non per malitia».32

L’Inquisizione non dava neppure risposte precise per ritualizzare le conversioni, per introdurre regole fisse per codificare un cerimoniale so-lenne fruibile in ogni circostanza e capace, quindi, di dar vita a un comune linguaggio liturgico. I dubbi riguardavano inoltre altri aspetti di queste as-soluzioni. Da più parti si chiedeva infatti a Roma se gli eretici dovessero essere assolti singolarmente o in gruppo, quali fossero le formule da usarsi, se questo passaggio dovesse rappresentare un solenne momento rigida-mente ritualizzato e codificato capace di fornire un esempio stimolante per indurre altri alla conversione. Le incertezze sul cerimoniale erano state molto evidenti già durante il regno di Rodolfo II. Il Sant’Uffizio aveva rac-comandato di mantenere sempre lo stesso cerimoniale nelle conversioni e

31. La presenza di queste tematiche attraversa anche tutta la corrispondenza di F. Chigi: Nuntiaturberichte aus Deutschland. Die Kölner Nuntiatur, IX, 1, Nuntius Fabio Chigi (1639 Juni-1644 März), bearb. von M. T. Börner, Ferdinand Schöning, Paderborn-München-Wien-Zürich 2009.

32. ACDF, SO, St st. TT 1-b, cc. nn. (Lucerna, 6 novembre 1634).

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assoluzioni di eretici che si riconciliavano con la Chiesa. La cerimonialità scandita da regole certe e momenti codificati doveva essere essa stessa un segno visibile della compatta unità della Chiesa di Roma di fronte alla frammentazione delle «sette heretiche». Inoltre, continue e non più velate tensioni insorgevano con gli ordini religiosi. La facilità dei Gesuiti nel con-cedere le assoluzioni agli eretici si saldava con la loro generosità nell’as-solvere nei casi di pratica del duello e nel permettere di leggere libri proi-biti a chi ne facesse istanza. È chiaro che essi miravano così a ingraziarsi e a riconquistare la nobiltà, ad assecondarne le pratiche, lo stile di vita, la cruenta difesa dell’onore, pur condannata dal Tridentino. Nello stesso Collegium Germanicum di Roma, erano per altro educati a seguire questo comportamento flessibile, soprattutto nelle zone di frontiera, nei territori dove convivevano cattolici ed eretici, spesso in seno alla stessa famiglia.

La pratica dei matrimoni misti, pur differentemente motivata nei vari stati sociali della popolazione, era infatti largamente diffusa e aveva creato non pochi problemi alle congregazioni romane – congregazione del Concilio, Sant’Uffizio e Propaganda Fide – competenti in materia. Posizioni spesso divergenti, oscillanti fra la maggiore rigidità espressa dalla congregazione del Concilio e quella più morbida, segnata da un’at-titudine spiccatamente missionaria, di Propaganda Fide, si alternarono e si intrecciarono fra tardo Cinquecento e la prima metà del secolo successi-vo. Pareri divergenti segnarono il difficile disciplinamento della poliedrica e scottante realtà dei matrimonia mixtae religionis. Dalla vasta documen-tazione inquisitoriale, relativa ai Dubia circa Sacramenta,33 e non solo,34 emerge la difficoltà di formulare e imporre in una materia così fluida una comune disciplina, norme certe e assolute. Come è stato rilevato, si tratta piuttosto di una giurisprudenza in fieri,35 modulata secondo le circostanze,

33. A questo proposito cfr. R. Scaramella, I dubbi sul sacramento del matrimonio e la questione dei matrimoni misti nella casistica delle congregazioni romane (secc. XVI-XVIII), in Administrer les sacrements en Europe et au nouveau monde: la curie romaine et les dubia circa sacramenta, a cura di P. Broggio, C. Castelnau-L’Estoile, G. Pizzorusso, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée», 121, 1 (2009), pp. 75-94, che tuttavia concentra l’attenzione solo sulle formulazioni teoriche.

34. Oltre alla ricca documentazione inquisitoriale già citata, si veda ad esempio per quanto riguarda i territori imperiali, T. Mrkonijć, Archivio della nunziatura apostolica in Vienna, I, «Cancelleria e Segreteria», nn. 1-904- aa. 1607-1939 (1940), Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano 2008, in part. pp. 3-14.

35. Per un quadro europeo del problema cfr. C. Cristellon, The Roman Inquisition and the Control of Mixed marriages in Early Modern Europe, in Mixed marriages in Europe:

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i luoghi, il ceto sociale dei contraenti, le pressioni politiche. Molti proble-mi relativi ai matrimoni misti emergevano al momento della conversione. Era, anche questa, una ulteriore spia che per molti sudditi la differenza confessionale non era avvertita come un ostacolo alla formazione di un nuovo nucleo familiare. Lo era invece per le autorità cattoliche che teme-vano un attacco, dall’interno, al sacramento stesso del matrimonio infettato dall’eresia. Nel caso di nobili (ma non solo), la conversione al cattolicesi-mo era la condizione necessaria per ottenere la dispensa per sposare un/a cattolico/a sia per vedere riconosciuto il matrimonio contratto in grado di consanguineità e celebrato da un «ministro heretico». La richiesta inoltra-ta a Roma era motivata sia dai nunzi che da vescovi con la possibilità di legittimare i figli nati da queste unioni e di educarli nella confessione cat-tolica. Se i richiedenti potevano contare su potenti mediatori, magari nella stessa corte imperiale o nella curia pontificia, si determinava una difficile contrattazione fra questi personaggi, il nunzio, il Sant’Uffizio. Si deve co-munque osservare che se fra tardo Cinquecento e i primi decenni del secolo successivo le dispense matrimoniali per gradi di consanguineità si conce-devano con parsimonia e soprattutto con particolare attenzione verso i ceti più bassi,36 spesso dietro attestazione prodotta da esponenti del clero locale e dagli stessi nunzi di «povertà et angustia dei luoghi», successivamen-te dagli anni Trenta del Seicento, in un momento critico della guerra dei Trent’Anni, si fecero più generose, soprattutto nei confronti di esponenti della nobiltà, segno evidente di una strategia di riconquista dei territori che passava anche dalla correzione delle unioni matrimoniali.

La conversione di principi territoriali dell’impero era infatti conside-rata l’elemento decisivo per ristabilire e diffondere il cattolicesimo nelle terre dell’impero e in Svizzera. Dalla fine del Cinquecento, nelle istru-zioni ai nunzi a questo problema e alle diverse strategie per conseguire il successo era sempre riservato ampio spazio, corredato da informazioni sulla “geopolitica” dei territori dell’impero, sulle famiglie regnanti e i relativi intrecci dinastici.37 La conversione della nobiltà doveva essere

the politics and practices of religious plurality between XIV and XIX centuries, Relazione presentata al convegno, Istituto Storico Germanico, Roma 26-27 maggio 2011.

36. ASV, Archivio della nunziatura apostolica a Vienna, nn. 2; 9; 11; 12; 23.37. Ad esempio, un fascicolo con ricca documentazione è dedicato al problema della

conversione del duca di Neuburg: ACDF, SO, St st. L 7-a, cc. 470r-553v: De Ducatu Neo-burghi, circa modum illum reducendi ad fidem catholicam absque violentia. Sul tema cfr. saggio di E.-O. Mader, Die Konversion Wolfgang Wilhelm von Pfalz-Neuburg: Zur Rolle

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in ogni modo incoraggiata, anche con la sicurezza di ottenere onori e prestigio uguali e possibilmente maggiori di quelli goduti in precedenza nella società evangelica. Rendite, pensioni ecclesiastiche per figli o pa-renti, incarichi militari nell’esercito imperiale, carriere alla corte impe-riale, in Baviera e anche a Roma, erano considerati i mezzi più opportuni per compensare il convertito, conferirgli una nuova identità e integrarlo pienamente nella “nuova” società. Referente del nunzio, anche per questi casi, era a Roma soprattutto il cardinal nepote, proprio per la sua fun-zione di mediatore e di elemento di integrazione nella corte romana. Il costante e arduo lavoro dei diplomatici papali, del clero regolare veniva comunicato a Roma con accenti soddisfatti e, spesso trionfalistici, ma do-veva essere adeguatamente propagandato nelle terre dell’impero fra altri nobili e principi per stimolare con l’esempio altre fruttuose conversioni. Stampe, fogli volanti, pièces teatrali, récits de conversion si diffusero in questi anni un po’ ovunque, accompagnati spesso dalle armi di chi com-batteva sul campo. La conversione non era solo il passaggio, clamoroso o nascosto, sofferto o facile, sincero o di comodo, da una confessione all’altra. Significava abbandonare la propria identità, la famiglia, la pa-tria, le sostanze per iniziare una nuova vita, spesso incerta. E proprio nel togliere questa incertezza, nel garantire sicurezza, non solo in materia di fede, al neocattolico si dirigevano tutti gli sforzi della Chiesa di Roma. Era una lotta fra rigore e lassismo, fra autorità laiche ed ecclesiastiche, fra i diversi ordini religiosi e gli stessi nunzi. Ma era una partita che non si giocava solo nei territori imperiali. Nella ben nota Relazione della sta-to della religione cattolica scritta da Urbano Cerri nel 1678 e presentata a Innocenzo XI, rilevati tutti i disordini che a Roma erano causati dalla presenza di «heretici e scismatici» dediti a tutti «i vitij della gioventù» che «raccolgono scritture malediche e satiriche contro la Corte Romana e sui Prelati»,38 l’autore, allora segretario di Propaganda Fide, proponeva di usare questa scomoda realtà per finalità missionarie. Se infatti

von politischem und religiös-theologischem Denken für seinen Übertritt zum Katholizi-smus, in Konversion und Konfession, pp. 107-146.

38. Della Relazione di U. Cerri, tradotta anche in inglese e francese, esistono moltissi-mi esemplari. Le citazioni sono tratte da BAV, Vat. Lat. 12072, cc. 61v-62v. Sulla presenza di stranieri eretici a Roma e sulla politica perseguita dai pontefici nel Seicento rinvio a I. Fosi, Convertire lo straniero. Forestieri e Inquisizione a Roma in età moderna, Viella, Roma 2011.

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i cavalieri non partano dall’Italia tanto mal affetti verso la fede cattolica e corte di Roma, ma i Predicanti che l’accompagnano fanno raccolte di quelle notitie che gli servono per materia de sermoni nelle loro case di pestilen-za e non usano altro argumento maggiore per tenere quei miserabili popoli nell’eresia che il rappresentare i nostri disordini

si affermava che nel Settentrione s’è osservato che la persecuzione contro i sacerdoti missio-nari e cattolici non provengono mai da quelli che hanno viaggiato in Italia e particolarmente in Roma, che piuttosto li difendono e protegono avisandoli de’ pericoli e persecutioni, acciò se ne sottraggano in tempo.

La riconquista passava dunque, e già da tempo, non solo per i canali ufficiali, il divario fra teoria e prassi si colmava anche attraverso il viaggio, lo scambio, la comunicazione e la circolazione nello spazio europeo. Mer-canti, agenti e cortigiani, militari, scienziati, eruditi portavano con sé libri, diffondevano idee, sensibilità, gusti che, proprio nel corso del Seicento, avrebbero lentamente sfumato le frontiere, anche confessionali, e la loro percezione.