Dopo il museo

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quaderni di estetica & ermeneutica diretti da Roberto Salizzoni 2

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quadernidi

estetica & ermeneutica

diretti da Roberto Salizzoni

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Dopo il museo

a cura di Federico Luisetti e Giorgio Maragliano

Trauben

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Torino.

© 2006 degli autori per i singoli contributi

© 2006 Traubenvia Plana, 1 – 10123 Torinofax 011.7507128

Grafica di copertina: Stefano Miglietti

ISBN 88 88398 81 3

Introduzione 7

Gianni VattimoIl museo e l’esperienza dell’arte nella postmodernità 13

David S. FerrisDecostruzione e secolarizzazione di Sant’Ivo 23

Roberto SalizzoniChiese e musei 51

Hal Foster Archivi d’arte moderna 63

Federica MartiniIl trabocchetto e la cattedrale 79

Vernon Hyde MinorLa Cappella Corsini: un museo neoclassico? 93

Giorgio MaraglianoIl museo minimale 111

Piero Cresto-DinaMemoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 129

Federico LuisettiRitratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 163

Gianni VattimoIl “bene supremo” 187

Eugenio Lo SardoDal metastorico al bookshop: appunti sul museo contemporaneo 199

Hans BeltingIl museo: riflessione o sensazionalismo? 209

Nota ai testi

Riportiamo di seguito le edizioni originali dei saggi già apparsi in altra pubbli-cazione:Hans Belting, Das Museum. Ein Ort der Reflexion, nicht der Sensation, “Merkur”,Heft 8, 56. Jahrgang, August 2002, pp. 649-62.Hal Foster, Archives of Modern Art, “October”, n. 99, Winter 2002, pp. 81-95.Gianni Vattimo, Il museo e l'esperienza dell'arte nella postmodernità, “Rivista di Este-tica”, n. 37, 1991, pp. 3-11.Il testo di Gianni Vattimo, Il “bene supremo”, è stato scritto in origine per la fonda-zione Helvetia. Si ripubblica qui per gentile concessione della Fondazione stessa.

Introduzione

Questa raccolta di saggi sul museo continua un progetto intrapreso nel 20011, conil quale tentavamo una prima ricognizione delle forme museali della modernità eoffrivamo a un pubblico italiano alcuni testi chiave del dibattito contemporaneo.Benché eterogenei quanto ad interessi tematici, gli interventi raccolti nel presentevolume condividono il presupposto che sul museo si possa rif lettere soltanto inmodo contestuale, in riferimento a forme e contenuti espositivi determinati. I sag-gi si soffermano perciò su casi specifici – i Lager nazisti, i testi di Baudelaire,Valéry e Proust, le fotografie di Thomas Struth, il museo d’arte contemporanea,il Trébuchet di Duchamp, la Cappella Corsini, il San’Ivo alla Sapienza – indagandocostellazioni concettuali altrettanto localizzate: la secolarizzazione del sacro, ilmuseo come luogo critico e discorsivo, l’estetizzazione della memoria, la strutturadi memoria prodotta dall’intersezione di arte moderna, architettura museale estoria dell’arte, la spazialità avanguardista e neo-avanguardista.

1 Cfr. «Rivista di Estetica», n. s., n. 16, 2001.

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Oggi come allora, a guidarci nel tentativo di applicare un principio di ragioneall’ambito magmatico delle tipologie museali, sono alcune considerazioni einterrogativi fondamentali ai quali rispondono, ognuno dalla propria prospet-tiva, gli interventi raccolti nel presente volume. Innanzitutto, ci domandiamose sia possibile accompagnare all’attuale protagonismo “mondano” del museoun discorso estetico (sia esso storico-artistico o teorico-visivo) altrettanto inten-so, come avvenne al tempo delle Wunderkammern, dei Salons, dei musei nazio-nali storicistici e poi agli albori delle avanguardie e del modernismo (bastipensare alle posizioni iconoclastiche dei Futuristi o al dibattito innescato dalletesi di Malraux sul «museo immaginario»). Come rispondono oggi la teoria ela critica della cultura alla diffusione capillare della musealità? Che cosasegnala l’inarrestabile, bulimica proliferazione quantitativa e qualitativa dellamuseizzazione? Per quale ragione il gergo museale si è universalizzato, diven-tando una sorta di lingua franca parlata, con inf lessioni locali, sia dagli ideo-logi della «musealità imperiale» che dai profeti di modalità espositive critichee antagoniste?2

In secondo luogo, ci sembra pertinente il criterio di isolare, fra le moltepliciproposte teoriche, quelle che meglio descrivono l’orizzonte non-sistematico di unamusealità che preme dall’interno sulle pareti delle forme disciplinari, esperien-ziali e architettoniche ereditate. Infatti, anche le alternative categoriali più prati-cate dalla critica otto-novecentesca – che in questo volume Hal Foster riassumenell’alternativa fra reificazione e rianimazione – sono divenute nel frattempoobsolete a causa della loro incapacità di rendere conto tanto delle forme spettaco-lari di museizzazione quanto delle forme aperte e plurali di esposizione (ciò che

2 Per il primo tipo museale, cfr. J.-F. Lyotard, Monument des possibles (in Id., Moralités postmodernes,Paris, Galilée, 1993). Lyotard descrive il «delirio alessandrino» della «musealità imperiale» (di cui

è un ottimo esempio lo Smithsonian di Washington), che ambisce a raggiungere una «memoria inte-

grale dell’umanità». Per il secondo tipo di musealità è utile il riferimento alla nozione di «zona di

contatto» sviluppata dall’antropologo James Clifford (cfr. J. Clifford, Routes. Travel and Translation inthe Late Twentieth Century, London, Harvard University Press, 1997; tr. it. Strade. Viaggio e traduzionealla fine del secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri, 1999) e a quella di «eterotopia» introdotta da

Michel Foucault (cfr. Id., Des espaces autres, in Dits et Écrits. 1954-1988, vol. IV, Paris, Gallimard,

1994, pp. 752-62). Uno sviluppo di questa concezione del museo come spazio “critico” è rappresen-

tato dal saggio di Hans Belting raccolto nel presente volume (cfr. anche F. Ferrari, Lo spazio critico.Note per una decostruzione dell'istituzione museale, Roma, Luca Sossella Editore, 2004).

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Gianni Vattimo definisce il «museo postmoderno»). In entrambi i casi, la pienaautonomia delle strutture espositive e l’imporsi dell’involucro museale sui propricontenuti rappresentano il denominatore comune della musealità contemporanea:che si tratti di spettacolarizzazione o di pluralizzazione dei luoghi e delle praticheespositive, il museo contemporaneo non cerca più una legittimazione nella “logi-ca del contenuto”, nella fragilità di tracce da porre in salvo; al contrario, sono lecollezioni, i reperti e i soggetti dei musei a doversi ritagliare una funzioneall’interno delle scatole mastodontiche dei musei della globalizzazione neo-capi-talistica (basti pensare alle inospitali architetture del Guggenheim di Bilbao odella Tate Modern di Londra) o nel contesto di pratiche «relazionali» e democra-tizzanti.

Anziché sopprimere il museo, l’intensificazione del «valore espositivo» chesecondo Walter Benjamin caratterizza «l’epoca della riproducibilità tecnicadell’arte» sembra aver dunque trasformato la musealità, provocando una svalu-tazione delle tradizionali tecniche di conservazione e raccolta (archivio e collezio-ne) a vantaggio della fruizione degli oggetti da parte degli spettatori. Perlopiù, ilmuseo non mostra criticamente questa condizione della visualità, né si preoccupadi saggiarne i limiti e le distorsioni. E tuttavia, come argomentato in alcuni deisaggi qui raccolti (Belting, Cresto-Dina, Luisetti, Maragliano), a differenza deglischermi televisivi e dei supporti informatici della comunicazione, il museo nonpuò prevenire di esibire almeno in parte se stesso, lasciando trapelare di tanto intanto le determinazioni politiche e istituzionali del mostrare, le ricadute estetichedegli allestimenti e le rimozioni del portare allo sguardo.

Poiché il museo esteriorizza i vincoli sociali presupposti da ogni documento peraccedere alla visibilità, il predominio autolegittimantesi degli attuali apparati dimuseizzazione (architettura, pratiche curatoriali, allestimenti, comunicazione)testimonia di un mutato rapporto fra il “fuori” di ciò che è programmazione socia-le, tecnica di visualizzazione, e il “dentro” rappresentato dalla memoria culturale,dalle identità subalterne, dagli oggetti rari, dalle opere. Se concepiamo il museocome un parergon in senso derridiano, ossia come un supplemento dell’opera (ergon)che, alla stregua delle cornici dei dipinti o dei panneggi delle statue, svolge la fun-zione primaria di marcare un confine “misto” fra il contesto e l’opera3, l’egemonia

3 Cfr. J. Derrida, La vérité en peinture, Paris, Flammarion, 1978; tr. it. di G. e D. Pozzi La verità inpittura, Roma, Newton Compton, 1981.

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di pratiche aperte e spettacolari di esposizione segnala l’affermazione di un nuovoequilibrio fra il “dentro” delle tracce conservate e il “fuori” degli apparati dimuseizzazione.

Per quanto riguarda il museo d’arte, esempio privilegiato dagli interventi rac-colti nel volume, una delle domande sollevate dalla sua attuale costituzione èquella dei criteri secondo i quali le opere dovranno essere scelte ed esposte. Glianni Ottanta e Novanta hanno visto tentativi da parte di molti musei, alcuni deiquali storicamente importanti come il Victoria & Albert di Londra, di intervenireprofondamente sulla presentazione e l’esposizione del loro patrimonio, tentativiche spesso si sono mostrati fallimentari anche nei termini del desiderato aumentodel numero di visitatori. Queste esperienze non sembrano aver prodotto unarif lessione sui modi in cui la presentazione museale genera un percorso significa-tivo che sia paragonabile, per citare due esempi del Novecento, al tenore dei testiprodotti negli anni Trenta da Herbert Bayer, o degli spazi inventati da FrederickKiesler. È come se, in una sorta di eliotropismo caratteristico, l’orientamento versoil pubblico conducesse inevitabilmente verso modalità di esposizione proprie allacircolazione delle merci.

L’esempio negativo del Millennium Dome illustra bene gli equivoci contenu-ti in un simile atteggiamento: il Dome chiudeva definitivamente le porte quandol’appena aperta espansione della Tate attraeva sempre più visitatori; il pubblicoha preferito un museo di arte contemporanea, calato in una centrale elettricamodernista, ad un ambizioso progetto di divulgazione scientifica, avvolto dallabolla high-tech di Richard Rogers. Se questa costellazione di eventi attesta la cen-tralità del museo d’arte contemporanea nell’epoca presente – assieme forse aldefinitivo tramonto delle aspirazioni che prendevano forma nelle EsposizioniInternazionali – essa non dà tuttavia indicazioni rispetto alla domanda iniziale.La velocità con cui negli ultimi vent’anni sembra essere mutato il canone artisticonell’ambito del contemporaneo, con le conseguenze anche materiali dell’inclusio-ne di forme non tradizionali nello spazio espositivo, determina infatti un’equi-valente rapidità della sua riorganizzazione, che in un luogo esemplare della nuovaepoca museale quale il Beaubourg assume ormai un ritmo periodico di poco piùdi un lustro.

A tenere i fili che legano questi fatti in una connessione storico-eventualeesemplare, saranno forse i mutamenti avvenuti all’interno della considerazionepiù generale dell’opera d’arte nella seconda metà del ventesimo secolo. A que-sto fine l’aiuto che ci posson dare i testi attorno al problema del museo editi

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durante questi anni sembra piuttosto limitato. Sia Il museo immaginario (1947)di André Malraux che Il superamento dell’arte (1947) di Alexander Dorner, percitare due libri dell’inizio di quest’epoca, propongono un modello di museofortemente datato, rivelatosi se possibile ancor più caduco, nel suo ottimismotecnologico (Dorner) o psicoantropologico (Malraux), delle posizioni da cuiessi prendevano le mosse. Non è allora sorprendente che il decennio successivo,foriero dell’avvento quantitativo dei luoghi museali che esploderà negli anniSettanta e Ottanta, abbia per così dire aggiornato la questione, quasi che laconsistenza dell’opera d’arte tradizionale, minacciata dall’intrusione violentadel quotidiano inestetico (Fluxus, Pop Art) o dall’indifferenza omniesteticadel ready-made duchampiano, richiedesse un supplemento di fede – una dichia-razione incondizionata a favore dell’esistenza di un luogo neutro, nel quale iconf litti trovassero una temporanea conciliazione. È il cubo bianco descrittoda Brian O’ Doherty nel suo fondamentale libro sullo spazio espositivo, di cuiabbiamo presentato un capitolo nel fascicolo della «Rivista di Estetica» sulmuseo4.

Tra gli anni di pubblicazione di Inside the White Cube (1972) e il presente esi-ste una differenza palpabile, che i saggi compresi in questo fascicolo tentano inmodi diversi di articolare: l’arte oggi conta assai di meno. L’«alleggerimento»dell’arte attuale, secondo la precisa aggettivazione di Gianni Vattimo, è ormaidavanti agli occhi di tutti. Certo essa non è morta, come pensava l’estetica deglianni Sessanta e Settanta, e anzi ha allargato il suo campo, ma pare che non vi siassocino più promesse di liberazione o speranze nell’avvento di una totalità nuo-va. Ci si può chiedere a questo punto se il museo non abbia contribuito a generarel’alleggerimento dell’arte, se vi sia un legame intrinseco tra il mutamento avve-nuto nella considerazione dell’arte e l’ascesa dei musei, a sua volta pressochècontemporanea all’affermazione di un indirizzo storico-critico che prende a temala relazione con lo spettatore. Forse il modo migliore di rispondere a questadomanda, rimanendo all’interno di ciò che il museo dà a vedere, è la palese dif-ficoltà ad accettare oggi ciò che ancora negli anni Ottanta definiva la peculiaresequenza espositiva del museo, la successione di sale in cui si scandiva il nesso

4 B. O’Doherty, Inside the White Cube. The Ideology of the Gallery Space (1972), Berkeley, University of

California Press, 19994; tr. it. parzialedi G. Maragliano in «Rivista di Estetica», n. s., n. 16, pp.

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necessario che ogni opera d’arte nuova sembrava dover stabilire con la migliorearte dell’epoca precedente5.

L’indebolimento della concezione occidentale della storia ha reso possibile siacomprendere momenti della storia dell’arte esclusi dal canone del moderno, siaintendere la stessa storia della modernità artistica in modo meno astrattamenteconf littuale con il sapere condiviso del tempo, sia infine considerare l’opera d’artequale manifestazione di una cultura visiva che va al di là di essa e la contiene.L’estensione del campo di ciò che possiamo aspettarci di vedere in un museomostra in questo senso la necessità di una considerazione non meno comprensivadi quella che ha reso possibile la peculiare struttura architettonica del museo sto-rico-estetico, di cui Beat Wyss ha colto l’intima corrispondenza con le categoriestoriche hegeliane, nell’esempio del Neues Museum di Berlino6. Resta da discute-re se i saperi che ambiscono ad una definizione di ciò che può essere esposto in unmuseo siano stati e saranno in grado di concepire un modello di museo diverso daquello che conosciamo.

Il vantaggio del museo storico-estetico del Novecento consisteva nella condi-zione stessa dell’estetico, vale a dire nella capacità dell’artista, dello spettatore edel critico di condividere il medesimo orizzonte di comprensione. Potranno imusei, dopo il moderno, ambire ad una simile condivisione? Quale sarà il criteriopubblico che determinerà ciò che vediamo in un museo? Domande che portano,inevitabilmente, verso il suo fuori.

Federico Luisetti e Giorgio Maragliano

5 Oggi siamo in grado di cogliere negli anni Settanta il periodo in cui si esaurisce l’idea di una progres-

sione dell’arte secondo quella dialettica di superamento/negazione che costituisce il più sicuro lascito

delle avanguardie (per la decostruzione di una storia fatta di capolavori, cfr. H. Belting, Das Unsicht-bare Meisterwerk. Die modernen Mythen der Kunst, München, Beck, 1998). A questo riguardo, ci piace

ricordare l’altissimo valore anticipatorio delle riflessioni condotte sino alla morte dall’artista americano

Robert Smithson, nelle quali si manifesta la precoce consapevolezza dell’avvento di un’epoca che trova

i suoi modelli più nell’infinità ripetitiva delle parabole di Borges, o nell’ordine entropico di distretti

industriali in via di decadimento, che nella scansione lineare e organica del progresso artistico (cfr. TheWritings of Robert Smithson, a cura di N. Holt, New York, New York University Press, 1979, in partico-

lare Ultramoderne, 1967, pp. 48-51 e A Tour of the Monuments of Passaic, 1967, pp. 52-57).6 Cfr. «Rivista di Estetica», n. s., n. 16 tr. it. di G. Maragliano, pp. 99-112.

Gianni VattimoIL MUSEO E L’ESPERIENZA DELL’ARTE NELLA POSTMODERNITÀ

Il pluralismo che caratterizza l’esistenza postmoderna come conseguenza dell'indebolimentodel senso della realtà e che produce l'estetizzazione generale della vita quotidiana modificaanche l’esperienza dell'arte e del museo: questa diventa essenzialmente un’esperienza dipluralità e non può più essere descritta come soddisfazione per la perfezione di una forma.Se l’esperienza estetica è oggi essenzialmente esperienza della pluralità di mondi e forme divita possibili, il soggetto estetico ideale si può descrivere come il frequentatore di musei, e ilmuseo come un “soggetto” estetico di tipo postmoderno.

Sebbene il termine “postmoderno” abbia perso in gran parte la popolarità forseeccessiva di cui ha goduto qualche anno fa (e proprio a causa di questo eccesso),esso continua a possedere un preciso e denso significato filosofico, che si riveladecisivo per capire i tratti dell'esistenza e dell'esperienza dell'arte nella situazionedi oggi. Filosoficamente, si può parlare di un'epoca postmoderna nella misura incui si riesce a mostrare che alcuni aspetti costitutivi ed essenziali della modernitàsi sono dissolti. Mi pare che uno di questi aspetti, invero il più comprensivo egenerale, sia la credenza nel progresso; è stata questa credenza a conferire al termi-ne “moderno” quel peso normativo che esso ancora, in gran parte, possiede, comesi capisce se solo si pensa che non tutto ciò che, cronologicamente, si situa neisecoli della modernità è riconosciuto senz'altro come moderno. Le varie forme di“modernismo” che si sono presentate periodicamente nelle arti, nella letteratura,persino in filosofia, non hanno fatto che sottolineare questa portata normativa delconcetto di moderno. Ora, se “moderno” ha potuto assumere un tale significatonormativo, è stato a causa della credenza nel senso emancipativo e progressivo delprocesso storico come tale. Ciò che è più moderno può essere considerato anche

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 13-22

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più dotato di valore solo se si pensa che ciò che sta più avanti nel corso del tempoè anche più vicino al telos della perfezione verso cui quel corso è diretto. Su questabase si può arrischiare una definizione della modernità come quell'epoca nellaquale l'essere moderno costituisce il valore base.

Ebbene, è proprio questa credenza nel senso progressivo della storia l'aspettocostitutivo della modernità che è andato perduto nella nostra epoca. Sia nellarif lessione teorica di filosofi e storici, sia nella effettiva costituzione politica e socia-le del mondo attuale, una tale credenza ha perso qualunque fondamento. Non sitratta soltanto, e forse nemmeno anzitutto, di una dissoluzione a livello teorico –che s’identificherebbe con ciò che si chiama la fine delle ideologie e dei “metarac-conti”: la filosofia ha abbandonato i grandi sistemi come lo hegelismo, il marxi-smo, il positivismo, ecc. Prima di tutto, si è trattato di un insieme di trasforma-zioni storico-politiche: è con la caduta dell'imperialismo occidentale che la storia –essa stessa, forse, una “invenzione” dell'Occidente – è divenuta impensabile comeun processo unitario, dunque anche come corso unitario progressivo. Nel momentoin cui non c'è più un potere “centrale” – sia esso la Chiesa cattolica prima di Lutero,o il Sacro Romano Impero, o da ultimo il “mondo civile” che si presenta come lapiù avanzata realizzazione dell'umanità e rivendica il diritto di “civilizzare” glialtri mondi – diventa anche impossibile parlare della Storia come unico corso chepuò avere un significato progressivo e dunque fornire criteri normativi di valore.

Lo sforzo di capire la postmodernità consiste nell'analizzare le implicazioni diquesto mutamento epocale della visione della storia, che – almeno in un certo sen-so, non necessariamente identico a quello di Fukuyama – può essere anche descrit-to come la “fine della storia”. Una di queste implicazioni è l'esplosione del plura-lismo che sembra caratterizzare il mondo postmoderno. Pluralismo è una parolainnocente, ma descrive un fenomeno molto inquietante. Di fatto, la credenza nelprogresso, nello sviluppo emancipativo della storia, è stata, negli ultimi due secolialmeno, l'unico valore unificante della mentalità moderna, ciò che si potrebbeanche chiamare il suo “principio di realtà”. Una volta che questo valore si è dis-solto, è la stessa realtà come tale che perde il suo significato: la realtà non ha più,nell'esperienza postmoderna, il solido significato oggettivo che aveva per l'uma-nità del passato. Questo non dipende solo dalla fine della credenza nel progresso.E' in egual misura un effetto dell'intensa “mediatizzazione” della nostra vita socia-le. I mass media che dominano così largamente la nostra esperienza della “realtà”,non hanno creato la temuta omologazione totalitaria della nostra visione del mon-do; tutto al contrario, essi hanno fatto esplodere il pluralismo delle interpretazio-

Il museo e l’esperienza dell’arte nella postmodernità 15

ni. Non sono solo élites colte a essere consapevoli dei condizionamenti politici, eco-nomici, sociali, che pesano sui media. Tutti sanno che “la TV mente”. Questo, amio parere, significa che il sistema dei media sviluppa dal proprio interno, e perla sua stessa logica, una tendenza all'autodemitizzazione: esso si rivela da se stessonon come una descrizione oggettiva del mondo, ma come una molteplicità diagenzie interpretative. Tutto ciò, insieme alla dissoluzione della fede nella storia,ha l'effetto di un generale indebolimento del senso della realtà.

È questo, essenzialmente, il significato di ciò che alcuni autori hanno chiama-to l'estetizzazione caratteristica dell'esistenza postmoderna: l'indebolimento dellarealtà ha alla propria base l'esplicito pluralismo delle interpretazioni. «Poetica-mente abita l'uomo su questa terra», dice Hölderlin in un verso tanto spesso com-mentato da Heidegger; e, certo al di là delle intenzioni di Heidegger, uno deisignificati di questo verso può vedersi proprio in ciò che chiamiamo “estetizzazio-ne”.

È corretto usare la categoria dell'estetico per descrivere questo complesso feno-meno dell'esistenza postmoderna? Mi sembra di sì, almeno nella misura in cuil'esperienza estetica, a partire da Kant e poi da Kierkegaard, è stata concepitacome “neutrale” rispetto alla verità, alla realtà obiettiva del mondo. Non è questoil luogo di elaborare questo aspetto del problema. Ciò che qui importa è attirarel'attenzione sul fatto che l'uso del termine “estetizzazione” per descrivere la disso-luzione del moderno “senso della realtà” rimanda al nesso tra esperienza estetica epluralità. L'elemento estetico che giustifica il fatto di chiamare “estetizzazione” latrasformazione in atto nell'esistenza postmoderna è invero la pluralizzazione e lamoltiplicazione degli stili: non solo degli stili artistici, ma anche e anzitutto deglistili di vita. Fino a che c'è stata un’interpretazione dominante della realtà – un“sistema di metafore” universalmente imposto e accettato, come direbbe Nietz-sche – la pluralità delle metafore alternative era confinata nel regno della poesia,dell'esperienza estetica. Ma oggi, con la dissoluzione di questa norma, la stessadistinzione tra “realtà” e “immaginazione estetica” è andata perduta.

Che cosa ha da fare l'estetizzazione intesa in questo senso con l'esperienza este-tica – l'arte, la fruizione, la critica, ecc.? Gran parte del disagio e della sensazionedi crisi che, mi pare, si avverte nel mondo dell'arte, sembra essere legata proprioa questo fenomeno della estetizzazione. Avendo perso i loro limiti – che le confi-navano entro il mondo delle pure immagini, senza alcun rapporto con quello “rea-le” – l'arte e l'esperienza estetica hanno perso anche la loro “definizione”. Aspettidi questa perdita si possono già vedere chiaramente nelle avanguardie storiche

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d’inizio secolo, e nel loro rifiuto di farsi includere entro le tradizionali “funzioni”dell'arte e nelle sue istituzioni. Anche l'engagement politico degli espressionisti,l'impegno sociale di De Stijl e del Bauhaus si possono leggere nello stesso senso.Ciò che sta alla base dell'avanguardia è la consapevolezza, più o meno esplicita, del-la dissoluzione dei confini che separavano l'“estetico” dal “reale” in conseguenzadella liberazione del pluralismo delle interpretazioni. L'interesse degli artistid'avanguardia per l'arte africana e per oggetti di culture “altre” non era dunqueispirato solo dal bisogno di un rinnovamento formale dei propri linguaggi; era giàun modo di affermare la liberazione della pluralità come l'essenza stessa dell'espe-rienza estetica.

Questo sembra dunque essere il senso dell'estetizzazione della vita che ha luo-go nel mondo postmoderno: un pluralismo (di stili artistici ma anche di stili divita) non più dominato da una distinzione rigida tra realtà e immaginazione. Lastoria diventa sempre più estetica: i mondi e le personalità che gli storici studianosi distingono sempre meno dai mondi e dai personaggi dei romanzi. Reciproca-mente, anche l'esperienza estetica diventa sempre più “storica”, almeno nel sensoche un'opera d'arte non si giudica più in relazione a un canone formale prestabilito(il che implicherebbe l'esistenza di un sistema dominante di metafore), ma la siguarda invece come la Darstellung, la presentazione, di un mondo, come una pos-sibile “forma di vita”. Non si dimentichi che Dilthey considerava l'esperienzaestetica (in profonda analogia con quella storica) come un modo di viverenell'immaginazione altre vite, a cui abbiamo dovuto rinunciare per i limiti impo-sti dalla quotidianità ordinaria. Ciò che intendo mettere in luce, qui, è che l'esi-stenza postmoderna – ampiamente anticipata in certi aspetti dell'arte e della cul-tura degli inizi di questo secolo – trasforma l'essenza stessa dell'esperienza esteti-ca, ridefinendola in termini di pluralismo, di contro alle idee tradizionali diperfezione formale. Il piacere che proviamo nel contemplare un'opera d'arte non sipuò più descrivere come un senso di soddisfazione che corrisponde a un compi-mento. Brecht bollava questo tipo di soddisfazione come “gastronomica”, e leopponeva la sua idea del teatro epico. Per tutta l'arte d'avanguardia, e anche perl'arte di oggi, tutto ciò vale ancora, sebbene in termini diversi (per esempio, senzal'accento politico di Brecht). L'arte non riconcilia con la realtà, nemmeno con larealtà dell'opera come forma compiuta e perfetta; produce invece un'esperienza dispaesamento, di Unheimlichkeit. Il disagio provato dai primi lettori dell'Ulisse o diFinnegan's Wake, o dal pubblico originale della Fontaine di Duchamp eccetera nonè un fenomeno temporaneo, dovuto alla “novità” di questo tipo di opere. E' invece

Il museo e l’esperienza dell’arte nella postmodernità 17

la prima manifestazione della trasformazione che l'esperienza estetica ha subito neidecenni recenti e che la caratterizza oggi. Si potrebbe anche agevolmente mostra-re, di fatto, che i criteri che oggi usiamo comunemente nella valutazione delleopere d'arte non hanno più nulla da fare con la sua perfezione formale, e sono inve-ce legati alla molteplicità di evocazioni, connessioni, rimandi e aperture – sulmondo dell'arte non meno che sul mondo quotidiano – che si lasciano coglierenell'opera. E' ciò che si vede, per esempio, se si pensa a opere poetiche come quelledi Eliot o di Pound, o alla musica di Cage, o al cinema di Fellini. In nessuno diquesti casi paradigmatici si potrebbero applicare i criteri della Poetica aristotelicao dell'Estetica di Hegel.

Questi esempi, mi pare, mostrano che il pluralismo che caratterizza l'esistenzapostmoderna come conseguenza dell'indebolimento del senso della realtà e cheproduce l'estetizzazione generale della vita quotidiana, modifica anche l'esperien-za dell'arte: questa diventa essenzialmente un'esperienza di pluralità e non può piùessere descritta come soddisfazione per la perfezione di una forma. Resta da vedereche cosa questo significhi, più specificamente, per il rapporto tra esistenza quoti-diana e esperienza dell'arte. In un mondo di estetizzazione diffusa, hanno ancorasenso delle “opere d'arte”? Non dovremmo aspettarci che la vera esperienza este-tica di oggi finisca per essere quella che accade nella spettacolarizzazione dellasocietà, nello show-business, nei mass media, nella musica rock, persino nella pub-blicità, e che le arti tradizionali siano destinate a una progressiva marginalizzazio-ne fino alla scomparsa?

Non credo che la “morte dell'arte” sia una possibilità imminente. Ciò cheabbiamo di fronte, invece, è il fatto che nonostante la pluralizzazione dei codici edegli stili, l'estetica dei prodotti dei mass media è ancora molto “classica”: la per-fezione della statua greca, che è il modello supremo dell'estetica hegeliana, si trovaoggi quasi esclusivamente nella pubblicità fotografica e televisiva. Se la parolaKitsch ha un senso, essa oggi indica proprio quell'opera che pretende di essere clas-sica, di corrispondere a un ideale di perfezione. Perciò, quali che siano gli sviluppifuturi della estetizzazione dell'esistenza quotidiana, oggi dobbiamo dire che le arti“tradizionali” hanno ancora una funzione importantissima da assolvere, quellaappunto di portare alle estreme conseguenze il pluralismo del mondo postmoder-no, vincendo le tentazioni delle arti di massa a ricadere nel Kitsch come ripresadell'ideale classico (Analogia con la posizione della filosofia nei confronti dellametafisica: il pensiero ha oggi il compito di prenderne congedo, ma attraversoun'opera di complessa rimemorazione, che garantisca contro i “ritorni” della

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metafisica proprio in quelle forme che se ne credono più immuni). Le opere d'artetradizionali non hanno più forma e più struttura che i prodotti dei media: essehanno invece meno perfezione, meno rotondità, meno tratti classici, e danno menosoddisfazione “gastronomica”. Proprio perché non hanno da pubblicizzare alcunamerce, forse, esse possono esplorare tutte le implicazioni della dissoluzione delsenso del reale che si produce con la fine della modernità.

Non svilupperò qui più a lungo questa specie di piccolo sommario di esteticapostmoderna. Cercherò invece di mettere in luce alcune conseguenze che possonoderivarne per i temi propri di questo convegno. In un certo senso, questo abbozzodi estetica postmoderna si potrebbe anche considerare come una teoria del museo.Almeno, e anzitutto, nel senso che , mentre la fruizione “gastronomica” dell'operad'arte – come di un oggetto fornito di un valore formale di perfezione – sembravaprofondamente orientata verso una fruizione privata, e anche verso un possessoprivato, dell'opera d'arte, la caratterizzazione pluralistica e “storica” dell'esperien-za estetica propria della postmodernità sembra aprire la via a una ridefinizioneesplicitamente “pubblica” dell'arte (Non so se e in che misura si possa stabilireuna connessione tra questa “socializzazione” dell'arte e i fenomeni generali disocializzazione dell'economia, l'espansione crescente di quella economia mista cheassegna allo stato un ruolo determinante nel correggere gli effetti indesiderablidella pura e dura economia di mercato). Se l'esperienza estetica è oggi essenzial-mente esperienza della pluralità di mondi e forme di vita possibili, il soggettoestetico ideale si può descrivere solo come il frequentatore di musei.

È molto probabile che gran parte dei problemi concernenti l'attività di istitu-zioni artistiche pubbliche (anche quando siano sostenute da finanziamenti privati)dipendano dal fatto che si continua ad applicare ad esse la logica dell'esperienzaestetica “tradizionale”, la logica della fruizione privata (o, in termini brechtiani,gastronomica). Ovviamente, non pretendo di avere una completa e chiara idea ditutte le conseguenze implicite nella trasformazione postmoderna dell'esperienzaestetica e nel suo configurarsi come essenzialmente pluralistica. Non disponiamoancora di una “logica” dell'esperienza estetica postmoderna, almeno a quanto neso. Si può però cercare di lavorare su qualche esempio, guardando, qui, ai problemidei musei e delle istituzioni pubbliche. Si prenda per esempio il caso di quelle chesi possono chiamare “scelte estetiche pubbliche”. A chi tocca decidere quale tipodi arte deve essere sostenuta da finanziamenti pubblici? Chi sceglie le opere d'artecontemporanea da comprare per un museo pubblico? Di fatto, le istituzioni pub-bliche tendono a funzionare, più o meno esplicitamente, secondo la logica “priva-

Il museo e l’esperienza dell’arte nella postmodernità 19

tistica” della tradizione: il sindaco, o il suo partito, sceglie un critico di fiducia trai propri amici (politici o semplicemente personali), e gli assegna il compito diorganizzare la collezione, la mostra temporanea, ecc. – le quali dunque rif letteran-no di nuovo un certo gusto personale (o, in caso di “lottizzazione”, una miscela digusti). Nascono di qui difficoltà molteplici: non solo perché l'istituzione nondovrebbe funzionare così (non è previsto che funzioni così, non è mai stato codifi-cato e convenuto pubblicamente); ma anche perché in tal modo le scelte “esteti-che” del museo o della galleria pubblica sono esposte ai mutamenti di clima poli-tico, di maggioranze, e in genere a ogni genere di inf luenze “esterne”. Ovviamen-te, il problema implica anche quello, più generale, del rapporto tra istanze didecisione democratiche (parlamenti e governi nazionali o locali) ed “esperti” deidiversi campi. Solo, non direi che il campo dell'arte si possa considerare come unterreno specialistico paragonabile, per esempio, a quello dell'energia, odell'ambiente fisico, ecc. Ma anche senza approfondire qui analogie e differenze, èchiaro da questo esempio che le istituzioni artistiche pubbliche (specialmentequelle che hanno da fare con l'arte contemporanea) sono sempre più spesso di fron-te al problema di costituire una sorta di soggetto estetico “collettivo”. L'applica-zione della logica tradizionale del gusto individuale (la delega a un critico di fidu-cia) non è una vera soluzione. Credo invece che tenendo presente quella che hosommariamente descritto come la trasformazione postmoderna dell'esperienzaestetica si possano cercare altre strade. Suggerisco qui, in via del tutto provvisoria,alcuni punti:

a) Il museo non è un “soggetto” estetico nel senso tradizionale, ma invece uncentro di raccolta di informazioni, documenti, ecc. E proprio questo ne fa un sog-getto estetico di tipo postmoderno. Ciò mi sembra di grande importanza: peresempio, esclude che il museo si atteggi a giudice della qualità “estetica” (ogastronomica) delle opere. Questo non significa naturalmente che il museo colle-zioni qualunque cosa, senza alcuna valutazione: ma le sue scelte devono essere fon-date sui criteri pluralistici, e “storici”, a cui ho accennato sopra, invece che sullaqualità e la perfezione formale dell'opera. Si capisce che, in una certa misura alme-no, questo accento posto sul “documento” piuttosto che sull'opera entra già acomporre l'idea tradizionale del museo. Ma nella situazione postmoderna questoelemento diventa più esplicito e assume il ruolo determinante. Anche il fruitoresingolo, nella situazione attuale, ha già sempre una soddisfazione estetica di secon-do grado, esperisce già sempre (anche) l'esperienza estetica di altri, mai l'oggetto

20 Dopo il museo

direttamente (Del resto, è forse questo il senso del discorso di Kant nella Criticadel giudizio).

b) Per poter definire meglio e applicare criteri di questo tipo, il museo devediventare un soggetto collettivo sotto molti punti di vista. Nella misura in cuinon si concentra più sull'opera singola come feticcio, ma guarda piuttosto agli sti-li di vita, ai “mondi possibili” che si annunciano nelle opere, il museo dovrebbediventare un centro di attività molteplici legate all'arte, quello che in italiano, conun termine che mi piace poco, si chiama un centro di animazione culturale. Que-sto corrisponde a un altro tratto caratteristico del passaggio all'esperienza postmo-derna dell'arte, lo spostamento di accento dall'oggetto all'attività. Un esempio diciò mi sembra si possa vedere in molto di ciò che si fa al Centre Pompidou; ma guar-derei anche all'attività, meno visibile, di molte biblioteche di quartiere o di pic-coli comuni, che non si limitano ormai a offrire libri in lettura, ma organizzanovari tipi di eventi culturali a scopo, per l'appunto, di “animazione”. Può sembrareriduttivo pensare il museo in questi termini; ma intanto si tratta qui solo delmuseo di arte contemporanea; e comunque anche lo spostamento di accentodall'oggetto all'attività è indubbiamente uno dei significati, o forse il significatostesso, delle esperienze dell'avanguardia novecentesca, che segnano in modoimprescindibile la trasformazione dell'esperienza estetica nella contemporaneità.Se il museo non assume consapevolmente il ruolo che queste trasformazioni gliassegnano, finisce per seguire semplicemente i movimenti del mercato dell'arte, inuna rincorsa nella quale è fatalmente destinato a perdere.

c) Fino a che il mercato dell'arte esiste – e io non credo che sia destinato ascomparire del tutto, anche se la sua forma attuale ha gravi aspetti patologici, chenon hanno nulla da fare né con il significato “tradizionale” dell'esperienza estetica‚né con quello postmoderno – il museo pubblico sembra avere anche la vocazione dirappresentare una sorta di pharmakon, di un correttivo delle distorsioni create dalmercato. Tra le attività a cui ho accennato nel punto (b) dovrebbe esserci, anzitutto,l'attenzione a quelle novità artistiche che, proprio per il loro carattere di novità, nonsono (ancora?) accettate dal mercato. Questo è solo l'esempio più ovvio della fun-zione di “supplemento” che dovrebbe esercitare un museo pubblico; e sembraimplicare che il museo, in questi casi, riprenda la posizione del soggetto esteticoindividuale della tradizione, che scommette su questo o quel valore estetico nonancora riconosciuto. E' un problema, una contraddizione, dal nostro punto di vista,che probabilmente si ripresenterà continuamente, giacché la logica tradizionale del-la “qualità estetica” non può essere completamente sostituita da quella pluralistica

Il museo e l’esperienza dell’arte nella postmodernità 21

della postmodernità. Le sole “correzioni” che limitano il ritorno alla valutazione“gastronomica” dell'opera-feticcio mi paiono consistere: anzitutto, in una sorta dicriterio negativo di tipo etico kantiano: fare il contrario di quel che fa il mercato esi sarà probabilmente nel giusto; in secondo luogo, intensificare le attività di ani-mazione di cui al punto (b), in modo che le scelte “estetiche” del museo siano ilrisultato di una discussione molto ampia e corrispondano a un largo consenso,piuttosto che dipendere dal gusto demiurgico di un singolo critico o esperto.

Sebbene gli sviluppi qui suggeriti siano approssimativi e del tutto provvisori,e magari anche sbagliati, spero di aver almeno mostrato che in questa specie diutopia postmoderna il museo ha un ruolo decisivo. La trasformazione dell’espe-rienza estetica, come di molti altri aspetti dell'esistenza contemporanea, è ancorain corso. Si può sperare di interpretarne la direzione solo se ci si arrischia a sceglie-re un preciso punto di vista teorico, la cui validità diventerà chiara unicamentedalla ricchezza di discussioni che saprà suscitare.

David S. FerrisDECOSTRUZIONE E SECOLARIZZAZIONE DI SANT’IVO

Attraverso un dialogo serrato con le posizioni di Gianni Vattimo, il saggio affronta il pro-blema del rapporto fra musealità e arte nell’epoca postmoderna. Se la postmodernità non èun’innovazione stilistica che aggiunge una forma d’arte alla storia delle forme, essa ponein discussione non soltanto il rapporto fra i contesti espositivi e la definizione dell’arte, bensìla stessa possibilità di produrre arte dopo la modernità.

Nel caso del museo moderno e del suo doppio, la galleria d’arte, i contesti espositivihanno giocato un ruolo costitutivo nel decidere, in modo quasi materiale, ciò chel’arte è e non è. Lo spazio al cui interno l’arte viene presentata, la sua organizza-zione dentro questo spazio, addirittura il colore delle pareti su cui è esposta, tuttociò contribuisce a rafforzare tale decisione.

La dipendenza dai contesti espositivi non è nuova per l’arte. La religione hariconosciuto e sfruttato questa relazione ben prima che la modernità scoprisse nelmuseo la controparte secolarizzata della chiesa. L’impeto che ha portato a questascoperta è visibile nelle esposizioni tenute ai salons del Louvre nel XVIII secolo. Giàin questi salons, un luogo di esposizione diverso dalla chiesa contribuisce in modosignificativo alla decisione su ciò che è arte – anche se le loro pareti erano talmenteaffollate di dipinti che l’esperienza visiva dell’arte correva il rischio di saturarsi.Come se volesse scongiurare questo esito e salvaguardare un’esperienza artisticaall’altezza di un’epoca secolarizzata, il salon si è sviluppato nel museo modernoinsieme a una sua propria estetica, un’estetica la cui enfasi consapevole sullo spazioespositivo dell’arte ne afferma il significato per la nostra modernità. Brian

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 23-50

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O’Doherty, nel suo studio sull’ideologia dell’esposizione, Inside the White Cube, hacaratterizzato in questo modo la modernità del museo e della galleria d’arte:

Una galleria è costruita secondo leggi rigorose quanto quelle usate per costruire unachiesa medievale. Il mondo esterno non deve entrare, di conseguenza tutte le finestrevengono di solito sigillate. Le pareti dipinte di bianco. Il soffitto diventa la fonte diluce. Il pavimento di legno è così lucido che sembra di ticchettare in un corridoiod'ospedale, o moquettato in modo da avvolgere il nostro passo in un silenzio ovattato,e rilassarci i piedi mentre gli occhi si dirigono alle pareti. L'arte, come si suol dire, èlibera di “vivere la sua vita”. Il banco della ricezione è talora l'unico oggetto di arreda-mento. In questo contesto un posacenere a stelo diventa quasi un oggetto sacro, propriocome un estintore in un museo moderno non viene riconosciuto come tale ma come unenigma estetico. La trasposizione modernista della percezione, dalla vita ai valori for-mali, è così completa. Questo è ovviamente uno dei mali fatali del modernismo1.

Il problema di un’arte per la postmodernità diventa qui il tentativo di evitareciò che O’Doherty definisce, incisivamente, un «male fatale» che trasforma nelmedium dell’arte gli ambiti espositivi.

In questo contesto, il problema del significato dell’arte nella postmodernitàriguarda il come e il dove dell’esposizione dell’arte, in un’epoca che sembra averabbandonato i principi guida della più intima vocazione del museo: la preservazio-ne di una collocazione per l’arte. Un’arte postmoderna entrerebbe in conflitto conquesta vocazione dal momento che rifiutare la modernità, come già rivendica il ter-mine postmoderno, significa rifiutare la precedenza della collocazione sull’arte –le “leggi” che una modernità secolarizzata ha ereditato dalla religione e conservatonel museo.

Dal punto di vista della storia dell’arte, il rigetto di questa precedenza potreb-be non essere un’esperienza unica. La storia dell’arte è costellata di innovazioniche, nel loro tempo, non hanno trovato spazio nel museo o che sono state sminuitea esempi di morte dell’arte. E tuttavia, con maggiore frequenza, queste innovazio-ni hanno finito con l’affermare l’ininterrotta rilevanza dell’arte celebrata e allestita

1 B. O'Doherty, Appunti sullo spazio della galleria, «Rivista di Estetica», n. 16, 2001, p. 143.D. Maleuvre, in Museum Memories. History, Technology, Art, Stanford, Stanford University Press,1999, discute questo aspetto della modernità nei termini dell'inautenticità dell’esperienza dell’arteofferta dal museo moderno. Per Maleuvre, l’inautenticità nasconde «una produzione ideologicadell’individuo» (ivi, p. 3). Per O’Doherty, al contrario, è in gioco proprio la scomparsa dell’indivi-duo, evidente nello sviluppo del museo come sito dell’arte dell’installazione, un’arte che ha persoessa stessa una presenza individuale.

Decostruzione e secolarizzazione di Sant’Ivo 25

nel museo (come a dire, l’ininterrotta rilevanza del museo o della galleria d’artecome arbitri dell’arte). La capacità del museo di assorbire la nuova arte non va sot-tostimata. Ma può questo punto di forza del museo sopravvivere a una postmoder-nità che rifiuta i contesti espositivi, la collocazione e la situabilità da cui il museoderiva la sua rilevanza e la sua storia?

Se la postmodernità non fosse altro che un’innovazione stilistica o tecnica cheavviene all’interno dell’arte, il museo potrebbe facilmente assorbirla. Se invece lapostmodernità non è un’innovazione stilistica che aggiunge una forma d’arte allastoria delle forme, essa pone in discussione non soltanto il rapporto fra i contestiespositivi e la definizione dell’arte (sia nel museo che, in precedenza, nella chiesa)bensì la stessa possibilità di produrre arte dopo la modernità.

1. La modernità e il postmoderno

In un saggio di Oltre l’interpretazione, Vattimo ha tentato di gettare luce sui conflittiche circondano questi interrogativi. Il saggio, intitolato semplicemente Arte, prendele mosse dallo scontro fra gli interessi suscitati dalla contemplazione di uno deicapolavori del Borromini, la chiesa conosciuta con il nome di Sant’Ivo alla Sapienzaa Roma. Mentre l’arte che costituisce l’oggetto di questa esperienza non può inalcun modo venire descritta come postmoderna, la stessa arte diventa per Vattimoun’occasione di confronto tipicamente postmoderno tra due forze interpretative chehanno dominato la storia dell’arte e la sua produzione: quella della secolarizzazionee della religione. Enfatizzando questo confronto, Vattimo cerca di stabilire una con-dizione che ponga in discussione il valore dell’intera storia dell’arte e della sua inter-pretazione – e allo stesso tempo che interroghi il rapporto di una storia, la storiasecolarizzata della modernità, con il passato religioso. E tuttavia sollevare questiinterrogativi non è l’unica intenzione di Vattimo: in gioco è anche la natura dell’arteche abbiamo conosciuto, l’esperienza di qualcosa di diverso dalla modernità.

Per Vattimo, l’esperienza di un’arte postmoderna presuppone un’arte non piùlegata ai gesti di fondazione della modernità. La possibilità di un’arte di questogenere richiede, quanto meno, che l’epoca della modernità sia giunta alla conclu-sione, o, se non a una conclusione in atto, che il suo perdurare non determini piùle modalità di riconoscimento ed esposizione dell’arte. Da questo punto di vista, lamodernità, come l’arte per Hegel, deve diventare per noi un fenomeno del passato.Ma se Hegel pensa a una tale fine per fondare un’altra epoca, l’epoca della prosadel pensiero, il postmoderno dovrebbe rinunciare al legame tra questa fine e un

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qualsiasi atto di fondazione. La ragione di questa esigenza è chiara: perché sia pos-sibile una postmodernità, ancor prima di un’arte postmoderna, la fine dellamodernità dev’essere radicalmente dissociata dai gesti di fondazione. Il problemaaffrontato dal postmoderno è dunque quello di pensare a una fine dall’interno diun’epoca che respinge il terminare come gesto di fondazione. E tuttavia questo nonè il solo problema affrontato dal postmoderno. Pensare alla fine della modernitàsignifica anche ripudiare i mezzi attraverso i quali il postmoderno potrebbe pro-porre se stesso come un’epoca (dal momento che ciò che viene ripudiato è il gestodi fondazione di un’epoca, il gesto che annuncia il moderno). L’esigenza principaledel postmoderno è dunque di elaborare una concezione della conclusione dellamodernità, è il problema stesso della sua esistenza. In definitiva, ciò che è in gioconel postmoderno è la possibilità di pensare a un’esistenza senza fondamento e direndere conto di un’esperienza di tale esistenza.

Posto di fronte alla difficoltà di stabilire la propria esistenza dopo aver ripudia-to la storia dei gesti di fondazione che definisce la modernità, il postmoderno devetrovare una modalità espositiva per se stesso, una modalità diversa dalla storia, senon vuole ricadere nel limitato progetto della modernità2. Ma se la storia è stata ilmedium attraverso il quale il progetto della modernità ha tentato di realizzarsi –e si è ripetutamente realizzato attraverso la propria auto-interruzione – è possibileper il postmoderno evitare il ricorso a questo medium?

La domanda è se il postmoderno possa liberarsi dalla dipendenza dall’epocanei cui confronti ha definito se stesso, o se la modernità non abbia già deciso comedebba avvenire qualsiasi rottura con il passato, se il futuro della postmodernità siadi diventare, ancora una volta, moderna. Dall’interno della conoscenza di un taledestino, com’è possibile quindi rendere conto di un’esperienza della postmoderni-tà, per non parlare di un’arte che mostri questa esperienza?

Vattimo, nelle sue rif lessioni sulla modernità e la postmodernità in La fine del-la modernità, è ben consapevole dei problemi posti da ogni tentativo di sviluppareuna concezione del postmoderno. Egli avverte correttamente la vasta inf luenza del-la modernità quando scrive che la modernità «si può caratterizzare infatti comedominata dall’idea della storia del pensiero come progressiva “illuminazione”, chesi sviluppa in base alla sempre più piena appropriazione e riappropriazione dei “fon-

2 La modernità è anche un progetto che si auto-limita, e volutamente; evitando di completarsi, il fal-limento nel raggiungere la completezza diventa la base del suo ripetuto rinnovamento.

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damenti”»3. Confrontandosi con la modernità, come indica il prefisso “post”, lapostmodernità è intrappolata tra la necessità di fondare, se vuole costituirsi comeciò che segue la modernità, o altrimenti di affondare, col diventare un altro esem-pio della pseudo-storia della modernità. In tale contesto, la postmodernità nonfarebbe che portare a compimento il destino della modernità.

Posta di fronte a una storia condannata a ripetere il gesto di fondazione attra-verso il quale si fa storica, il compito della postmodernità diventa quello di ripen-sare l’essenza storica della modernità. Vattimo apre la strada a un tale ripensamentoquando afferma, ancora in La fine della modernità, che «Le cose, però, cambiano se,come pare si debba riconoscere, il postmoderno si caratterizza non solo come novitàrispetto al moderno, ma anche come dissoluzione della categoria del nuovo, comeesperienza di “fine della storia”»4. Significativa in questo contesto è la differenza tra“novità” e “nuovo”. La postmodernità dev’essere una “novità” ma non il “nuovo”,dal momento che il nuovo è l’elemento definitorio di ogni asserzione di modernità.Attraverso questa novità la postmodernità definisce la propria differenza dallamodernità. Allo stesso tempo, la dissoluzione postmoderna del nuovo è anche unpasso necessario, visto che esso è il mezzo che permette alla postmodernità di dif-ferenziarsi e in tal modo di proteggersi da una ripetizione della modernità.

Con un gesto più ampio, Vattimo ripete questa distinzione quando spiega checosa intenda per «fine della storia». Come nell’asserzione di Hegel sulla mortedell’arte, una tale fine non significa che non ci sia più arte, quanto piuttosto chenon si possa più sostenere il senso precedentemente attribuito all’arte. Per motivarequesta accezione della fine, Vattimo ridefinisce la frase «fine della storia» come«fine della storicità». Il passaggio dalla storia alla storicità segna il tentativo dipreservare la storia dalla presa della storicità (o di ciò che appare nella forma dellastoria) propria della modernità. Vattimo traccia questa distinzione insistendo sullastoricità come un dato modo di essere consapevoli della propria esistenza storica5.Non esiste dunque un rifiuto della storia nella postmodernità di Vattimo, ma unaradicalizzazione della storia che mira a separarla e preservarla dai gesti di fonda-zione della modernità. La necessità di questa distinzione diventa chiara quando

3 G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1985, p. 10.4 Ivi, p. 12.5 In questo senso Vattimo parla di «una storia come processo oggettivo dentro il quale siamocomunque inseriti, e la storicità come un modo determinato di essere consapevoli di questa apparte-nenza», ivi, p. 13.

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Vattimo dichiara che soltanto sulla base di una tale «non storicità» diventa possi-bile elaborare un’immagine dell’esistenza non più condizionata dalla modernità.Ciò che è destinato a dissolversi nella postmodernità è dunque la storicità. Comenota Vattimo a questo punto, la posta in gioco è alta, poiché esclusivamente attra-verso l’elaborazione teorica di una tale «immagine dell’esistenza … si può confe-rire peso e significato al discorso sul postmoderno» e di conseguenza sottrarlo allasfera della moda. Conferire peso e senso al discorso sul postmoderno, attribuirepieno valore alla sua novità, significa interpretare la nostra relazione con la storiasotto forma di un’immagine di esistenza.

Il modo in cui tale novità si presenta è cruciale per questo tentativo di rendereconto di un’epoca non più limitata dal bisogno di essere moderna. Con Arnold Geh-len, Vattimo adotta un modello in cui il progresso (la promessa di un sempre nuo-vo), così essenziale per sostenere l’idea della modernità, si dissolve e diventa meraroutine6. Come Vattimo afferma a questo punto, la novità non ha più la forza del nuo-vo: «la novità non ha nulla di “rivoluzionario” e sconvolgente, è ciò che permette chele cose vadano avanti nello stesso modo»7. Il fallimento della novità nel mantenerela promessa del nuovo è dunque ciò che è differente, come a dire ciò che costituiscela novità del postmoderno. Il postmoderno emerge così dall’incapacità della moder-nità di difendere la sua equiparazione del diverso con il nuovo; ciò che è nuovo nonè più necessariamente differente. Il nuovo, non più legato al compimento della suapromessa, diventa in realtà un’immagine di quella promessa, una mera novità.

Secondo Vattimo, i fattori che causano il fallimento della modernità nel soste-nere se stessa, facendo sorgere la novità, sono due. Vi è innanzitutto l’effetto dellatecnologia (con la pervasività della tecnologia, l’accelerazione della nostra capacitàdi ordinare la natura è diventata una questione di esperienza quotidiana piuttostoche epocale, la quale riduce il nuovo del progresso tecnologico). In secondo luogo,in parallelo alla crescente diffusione della tecnologia, accade ciò che Vattimo defi-nisce «la “secolarizzazione” della stessa nozione di progresso». La secolarizzazione,secondo questa accezione, rappresenta la scomparsa di ogni «meta finale» per lanozione di progresso. Nonostante Vattimo parli qui di «“dissoluzione” della sto-ria», si tratta della trasformazione della secolarizzazione in uno strumento per rag-giungere la consapevolezza della differenza tra storia e storicità. La secolarizzazione

6 Ivi, p. 15.7 Ivi, p. 15.

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causa quella «rottura dell’unità» che permette a una particolare storicità di emer-gere e dominare. La storia all’interno della quale tale rottura si è verificata non ènient’altro che la storia di un indebolimento, la cui debolezza è stata celata dallastoricità. In breve, Vattimo presuppone una storia del pensiero debole inseparabiledalla storia del pensiero. Sarà dunque l’arte debole una risposta all’interrogativosull’arte postmoderna? Prima che una simile arte debole possa apparire bisogneràaffrontare la difficoltà di concepire la storia come esperienza della debolezza.

La difficoltà di pensare una storia “debole”, come pure il nostro posto al suointerno – sia di interpreti sia di spettatori – emerge nel momento in cui Vattimoallude, con Gehlen, all’«idea di una post-histoire» e a ciò che essa comporta:«Nell’idea di post-histoire abbiamo così … un punto di riferimento meno vago,almeno si spera, per riempire di contenuto i discorsi su moderno e postmoderno»8.La sicurezza trasmessa da «abbiamo così» è mitigata non soltanto dall’interiezione«almeno si spera», ma anche dal comparativo «meno vago», che suggerisce unavaghezza minore e tuttavia il trattenersi all’interno di una certa vaghezza. Il pen-siero della nostra postmodernità è difficilmente assicurato da queste esitazioni.

E tuttavia esse dicono molto. Coma osserva Vattimo, si tratta del programmanietzschiano e heideggeriano di un superamento dei confini del pensiero metafisi-co. In nessun altro luogo questa esigenza è sentita con più forza che nella domandasu come il pensiero debba collocarsi in ciò che Vattimo definisce il postmoderno,ovvero l’epoca della post-histoire. L’interrogativo sulle modalità tramite cui rag-giungere una tale collocazione pone le maggiori difficoltà alla postmodernità. È laconsapevolezza di queste difficoltà che distingue la postmodernità dalla modernitàe dal compito da lei assegnato all’arte: l’arte come testimone dei mezzi della suaesposizione – come se la secolarizzazione della modernità avesse di fatto superatola religione invece di ripetere la sua distruzione dell’esperienza dell’arte.

Per affrontare il problema di situare o mostrare il pensiero nell’era dellapostmodernità, Vattimo ha elaborato l’ipotesi di un indebolimento dell’essere, untentativo di rintracciare un punto di riferimento in un’epoca che, come sua carat-teristica fondamentale, possiede il rifiuto di qualsiasi punto di riferimento. Vatti-mo indica in questa tesi «ciò che può aiutare il pensiero a collocarsi in manieracostruttiva nella condizione postmoderna»9. L’incertezza di «può aiutare» riecheg-

8 Ivi, pp. 18-19.9 Ivi, p. 19.

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gia quella di «almeno si spera» e di «meno vago». Nonostante l’esitazione, è ancorapresente la necessità di situare il pensiero nel postmoderno, e anche di farlo inmodo costruttivo. Di fronte a questa necessità e al conseguente pericolo di unamera riaffermazione dei gesti di fondazione attraverso i quali la modernità rappre-senta se stessa, Vattimo si volge verso due categorie, l’arte e la retorica, che hannouna lunga storia nel determinare la definizione di un’epoca o di una condizione.Vattimo scrive che per riferirsi a un’epoca come il postmoderno occorrerebbe«aprirsi a una concezione non metafisica della verità, che la interpreti non tanto apartire dal modello positivistico del sapere scientifico, quanto, per esempio …, apartire dall’esperienza dell’arte e dal modello della retorica»10. La violenza presup-posta dall’aprirsi (piuttosto che aprire) significa che comunque il postmodernovenga pensato, esso implicherà, nelle parole di Vattimo, «una “svolta” radicale» neiconfronti della modernità. La pericolosa complicità con la modernità insita in qual-siasi nozione di rottura radicale (dato che la modernità si fonda su una rotturaradicale con l’antichità) perseguita ancora Vattimo, costringendolo all’uso di unadoppia negazione per concretizzare questa rottura. Vattimo dichiara che «ciò chelegittima e rende degne di discussione le teorie postmoderniste è il fatto che la loropretesa di una “svolta” radicale rispetto alla modernità non sembra infondata»11. Lapossibilità di una tale «svolta radicale» dipende dalla legittimità di interpretarel’esistenza contemporanea come ciò che segna un’epoca post-storica, un’epoca incui la routine del nuovo dissolve la pretesa del progresso che dà forma a tutte leaffermazioni della modernità12. Quasi intendesse evitare le pretese di fondareun’epoca attraverso delle teorie del postmoderno, in realtà un’altra modernità,Vattimo definisce questa rottura «non infondata» o, più precisamente, dichiarache essa «non sembra infondata». Il ricorso a questa espressione reitera la difficoltàdi formulare il postmoderno. L’intromissione di «sembra» complica ogni riformu-lazione dialettica di «non infondata» intesa a suggerire un fondamento, sebbenenei termini negativi caratteristici dell’interpretazione adorniana di questa difficol-tà. Similmente, semplificare «sembra infondata» suggerirebbe che l’assenza di unfondamento sia soltanto una questione di apparenza. Invece, affermando che que-sta rottura radicale «non sembra infondata», Vattimo sottolinea come la mancanza

10 Ivi, p. 20.11 Ivi, p. 19, corsivo aggiunto.12 Che Vattimo concepisca il postmoderno come un’epoca, ossia in termini storici, è chiaramenteindicato in La fine della modernità attraverso numerosi riferimenti alla postmodernità come «età».

Decostruzione e secolarizzazione di Sant’Ivo 31

di fondamento non sia una questione di apparenza. In altri termini, l’apparenzanon deve essere reinserita in questa formulazione per preservare le sembianze attra-verso cui la modernità annuncerebbe il proprio ritorno – come se il postmodernofosse soltanto un’immagine dell’immagine che ha di sé la modernità. La difficoltàa cui dà voce la formulazione di Vattimo è quella di pensare il postmoderno in ter-mini non negativi – riconoscendo al tempo stesso che solo un desiderio di fonda-zione potrebbe intrattenersi con il negativo.

Benché la possibilità da parte di Vattimo di utilizzare la frase «non sembrainfondata» dipenda, sin qui, dall’osservazione delle caratteristiche dell’esistenzacontemporanea, il significato di tale caratteristiche non è semplicemente una que-stione di osservazione o di esperienza della società contemporanea e della sua orga-nizzazione della conoscenza. Problematica diventa anche una certa storia della filo-sofia, una storia che emerge con Nietzsche e trova una delle sue voci più potenti inHeidegger. Vattimo invoca questa storia quando si riferisce a un «possibile nichili-smo attivo e positivo» che rimane espresso in modo confuso in Nietzsche. Più espli-cita a questo riguardo è per Vattimo l’heideggeriana Verwindung della metafisica.Inuna conferenza del 1983, Verwindung: il nichilismo e il postmoderno in filosofia, poiriscritta e inclusa come capitolo finale in La fine della modernità, Vattimo traducequesto termine con «secolarizzazione», invocandolo come una forza che ha ridotto ilprogresso (da cui dipende il concetto di una modernità secolarizzata) alla mera ripe-tizione dell’identico. La secolarizzazione come Verwindung è, tuttavia, qualcosa di piùdi un rifiuto del progresso. Vattimo afferma nell’edizione del 1985: «La Verwindungdescriverebbe il corso della storia non come lineare progressione o come decadenza,ma come un corso di eventi nel quale l’emancipazione è raggiunta solo attraverso imezzi di una radicale trasformazione e distorsione dei loro proprio contenuti»13.

13 Ivi, p. 179. La conferenza del 1983 è stata pubblicata nel 1987 sulla rivista «SubStance», n. 57,pp. 7-17. La sezione finale di questa conferenza venne poi ripubblicata nel 1988 come capitolofinale di La fine della modernità. La frase è tratta da questa edizione: G. Vattimo, The End of Moder-nity, tr. ingl. di J. Snyder, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1988. La versione pubbli-cata da Vattimo nel 1985, come capitolo finale dell’edizione italiana di La fine della modernità, diffe-risce significativamente dalla conferenza del 1983, in particolare nelle ultime pagine qui citate. Iltraduttore dell’edizione inglese fa notare che la terza sezione dell’ultimo saggio di La fine dellamodernità «non corrisponde all’edizione italiana», ma non giustifica questa mancata fedeltà. Comeavremo modo di argomentare, la divergenza fra le due versioni è significativa soprattutto per ilcambiamento nell’interpretazione vattimiana del termine Verwindung. Vattimo fa di questa nozionelo strumento di comprensione della relazione fra il postmoderno e ciò che lo precede.

32 Dopo il museo

Ma quando Vattimo riscrive la sezione finale di questa conferenza per la pub-blicazione di La fine della modernità, egli non traduce più soltanto Verwindung consecolarizzazione – quasi per evitare qualsiasi complicità con la modernità. OraVerwindung è tradotta con tre termini, «accettazione-convalescenza-distorsione»,poiché Vattimo libera la correlazione dei significati presenti nell’uso heideggerianodi questa nozione nel mentre trasmette un’impressione del modo – un’accettazione– con cui la postmodernità si relaziona alla modernità. Questa Verwindung è perVattimo la fondazione che non fonda nel senso in cui la modernità è fondativa. Dicontro, essa marca la trasformazione dell’ontologia in ermeneutica. In questo para-grafo finale corretto di La fine della modernità, Vattimo riconosce i segni della tra-sformazione in un mondo di «realtà alleggerita», nel quale «il vero e la finzione,l’informazione, l’immagine» sono «meno nettamente scissi»14. È in questo mondoche l’ontologia diventa ermeneutica, che diventa effettivamente debole. Vattimoscrive:

È in questo mondo che l’ontologia diventa effettivamente ermeneutica, e le nozioni meta-fisiche di soggetto e oggetto, anzi di realtà e verità-fondamento, perdono di peso. Inquesta situazione si deve parlare secondo me di una “ontologia debole” come sola pos-sibilità di uscire dalla metafisica – per la via di un’accettazione-convalescenza – distor-sione che non ha più nulla dell’oltrepassamento critico caratteristico della modernità.Può darsi che in questo risieda, per il pensiero postmoderno, la chance di un nuovo,debolmente nuovo, cominciamento15.

Questa interpretazione più heideggeriana della Verwindung non attenua l’ideache il mondo nel quale la debolezza appare sia anche il mondo evocato da Vattimo,nell’introduzione a La fine della modernità, in riferimento al lavoro di Nicola Tran-faglia, il mondo della pluralità e della proliferazione dei centri, il mondo della radi-cale secolarizzazione della storia.

Le conseguenze di una tale secolarizzazione determinano una svolta radicale,non esclusivamente nella fondazione della modernità, ma anche nel modo in cui sifa esperienza di questa fondazione. La verità della modernità, la possibilità che cisia una verità per la modernità, non può più essere esperita dall’interno della stret-ta alleanza fra la modernità e la fondazione della metafisica nell’Essere. Nel mondopostmoderno si tratta di una differente esperienza, un’esperienza che Vattimo hagià connotato in termini estetici e retorici. Vattimo la privilegerà una seconda volta

14 G. Vattimo, La fine della modernità, cit., p. 189.15 Ivi, p. 189.

Decostruzione e secolarizzazione di Sant’Ivo 33

nell’introduzione a La fine della modernità, anche se in questa seconda occasionecon qualche esitazione. Vattimo scrive: «si può dire probabilmente che l’esperienzapostmoderna (e cioè, heideggerianamente, post-metafisica) della verità è un’espe-rienza estetica e retorica»16. La tendenza a esitare, se considerata dalla prospettivadi un “pensiero forte”, indica la debolezza attraverso la sua incapacità di fornireuna fondazione. E tuttavia, come abbiamo mostrato attraverso altri esempi, questaesitazione possiede una diversa coerenza. Essa si domanda come tali esperienzedeboli della verità (quella estetica e quella retorica) possano definire il postmoder-no soltanto attraverso continui riferimenti al pensiero forte rappresentato dallamodernità e dal suo progetto di fondazione. Se questo riferimento è inevitabile – ecosì sembra nel pensiero di Vattimo – allora ciò che si affronta in un mondopostmoderno è una dislocazione dell’impegno critico attraverso il quale la moder-nità continua ad esercitare la sua presenza. Una dislocazione che non richiede unsuperamento della modernità (come Vattimo specifica in varie occasioni, soprat-tutto ponendo l’enfasi sulla Verwindung piuttosto che sull’Uberwindung, o supera-mento), poiché consiste in un rifiuto di attenersi a qualsiasi progressione storicaverso una verità che possa venire determinata, nel senso kantiano del termine, inmodo critico.

Come sia in grado di verificarsi e venire riconosciuta questa dislocazione rima-ne per Vattimo un tema costante ma irrisolto. I cambiamenti della sezione finaledi La fine della modernità sono già un segno di questo problema, dal momento cheil filosofo cerca di definire in modo più preciso i mezzi attraverso i quali lapostmodernità riesce a garantirsi un’esistenza. Un simile sviluppo conduce Vatti-mo ad accentuare la dimensione nichilistica ed ermeneutica nei saggi del 1994pubblicati con il titolo di Oltre l’interpretazione, un testo nel quale l’«indebolimentointerminabile dell’essere» viene indicato come l’elemento essenziale dell’esistenzapostmoderna17. In tale indebolimento, aggiunge Vattimo: «l’oltrepassamento del-la metafisica è inteso solo come un ricordarsi dell’oblio, mai come un rifar presentel’essere, nemmeno come termine che sta sempre al di là di ogni formulazione»18.La condizione postmoderna è dunque quella in cui l’essere deve venire continua-mente riconosciuto nel suo oblio. È questa la verità su cui si basa il progetto meta-

16 Ivi, p. 20, corsivo aggiunto.17 G. Vattimo, Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Roma, Laterza,19952, p. 18.18 Ivi, p. 18.

34 Dopo il museo

fisico di fondare la verità. Vattimo coglie esplicitamente nell’arte un esempio di talefondazione: «il modello di questo accadere [della verità] è la creazione dell’operad’arte»19. Egli si volge all’arte per pensare dall’interno l’esperienza postmoderna e,allo stesso tempo, per non cadere nell’errore di identificare la modernità con unamoribonda metafisica dell’essere che, con un tale gesto, verrebbe superata. Il supe-ramento non è, in questo contesto, un evento storico che rinchiude la modernità, opersino la metafisica, in un passato non più accessibile.

2. L’arte e il postmoderno

La difficoltà, così come il seducente pericolo, di un puro e semplice superamentodella metafisica è chiaramente presente nel capitolo di Oltre l’interpretazione in cuiVattimo discute l’«esperienza di Sant’Ivo», il conflitto tra l’esperienza secolarizza-ta e quella religiosa. Nel descrivere lo scontro fra queste due esperienze di uno stes-so luogo, la chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza, Vattimo sottolinea che «è chiaro chela dimensione del museo è quella che fa da padrona»20. Il museo rappresenta la for-za di una secolarizzazione alla quale viene ora sottoposta l’esperienza religiosa. Peril filosofo la secolarizzazione significa la scomparsa di «un unico orizzonte condi-viso»; ne deriva che «l’esperienza dell’arte anche come mitologia e religione razio-nale è essenzialmente un’esperienza plurale»21. La secolarizzazione non consistenella registrazione del trionfo del secolare su religioso, quanto piuttosto nell’aper-tura della religione – così come dell’arte – a «un’esperienza plurale».

È all’interno di questa pluralità che Vattimo ha caratterizzato il museopostmoderno in una conferenza del 199022. In questa conferenza, il museo con-temporaneo è un centro che raccoglie informazioni, conformemente a una «plura-lità» detta «di tipo postmoderno». Anche se in questa interpretazione del museocontemporaneo non sono richiamati né la secolarizzazione né il rapporto tra l’artee la religione, l’esperienza dell’arte qui descritta anticipa ciò che Vattimo descriveràpiù tardi come «esperienza di Sant’Ivo».

19 Ivi, p. 23.20 Ivi, p. 75.21 Ivi, p. 91.22 Il testo della conferenza, Il museo e l'esperienza dell'arte nella postmodernità, apparso in «Rivista diEstetica», n. 37 (1991), pp. 3-11, viene ora ripubblicato nel presente volume.

Decostruzione e secolarizzazione di Sant’Ivo 35

In quanto «centro di raccolta di informazioni e documenti», il museo non èsecondo Vattimo un «soggetto estetico nel senso tradizionale del termine». Puravendo sempre rappresentato un aspetto del museo tradizionale, la raccolta didocumenti assume oggi un «ruolo dominante». Attraverso tale trasformazione ilmuseo si allontana da una modalità estetica e individuale di esperienza, basata sulgiudizio della «qualità e della perfezione formale dell’opera» e diventa, invece, «unsoggetto collettivo sotto molti punti di vista». L’istituzionalizzazione del postmo-derno è concepita come una trasformazione del museo che lo allontana dalla tradi-zione kantiana, nella quale l’individuo gioca un ruolo determinante nell’esperienzaestetica. Eppure tale cambiamento pone una domanda essenziale a cui deve ancoraessere data risposta nel più recente testo sull’esperienza di San’Ivo. Com’è possibilefare esperienza della pluralità senza riaffermare segretamente la tradizione kantia-na dell’esperienza estetica individuale (nella quale la pluralità diventa l’oggetto diun’esperienza estetica individuale)? Evitare questa tradizione significa imprimereuna svolta radicale all’esperienza dell’arte oppure (o anche) una svolta altrettantoradicale all’ontologia dell’arte.

Un cambiamento dell’esperienza estetica è già delineato da Vattimo tramite lacaratterizzazione della natura della soddisfazione estetica nella contemporaneitàpostmoderna: «Anche il fruitore singolo, nella situazione attuale, ha già sempreuna soddisfazione estetica di secondo grado, esperisce già sempre (anche) l’espe-rienza estetica di altri, mai l’oggetto direttamente». Ma che l’individuo abbiasmarrito l’esperienza diretta dell’oggetto estetico significa necessariamente che eglifaccia un’esperienza della pluralità?

Con un’affermazione che suona come un manifesto per il museo postmoderno(scritta sotto l’egida di un imperativo: prima «il museo deve», poi «il museodovrebbe»), Vattimo dichiara: «Nella misura in cui non si concentra più sull’operasingola come feticcio, ma guarda piuttosto agli stili di vita, ai “mondi possibili” chesi annunciano nelle opere, il museo dovrebbe diventare un centro di attività mol-teplici legate all’arte». L’imperativo rif lette la natura prolettica e provvisoria diqueste osservazioni, oltre che un problema inerente alla natura del museo postmo-derno e dei suoi costanti rapporti con il nuovo. Nella misura in cui il museopostmoderno deve interessarsi alle innovazioni artistiche (incluse quelle postmo-derne), esso si separa dalle decisioni compiute dal mercato dell’arte intorno al valo-re dell’arte. Eppure, se questo museo non vuole ridursi a un collezionista d’arte, ilquale considera ogni opera collezionata come un documento di una specifica eindividuale comprensione dell’arte (al punto che il mero inserimento di un ogget-

36 Dopo il museo

to, di qualsiasi oggetto, in un museo diventa un gesto che conferisce valore arti-stico), allora esso deve riaffermare il suo ruolo tradizionale ed esercitare, a un qual-che livello, un giudizio estetico individuale. Vattimo giudica questa situazione unacontraddizione «che probabilmente si ripresenterà continuamente», perché «lalogica tradizionale della “qualità estetica” non può essere completamente sostituitada quella pluralistica della postmodernità». L’elasticità della logica tradizionaledella qualità estetica e la sua persistenza all’interno del postmoderno solleva, anco-ra una volta, la questione di come, nello specifico, il postmoderno si differenzi dal-la modernità (del suo essere, in un certo senso, oltre la modernità, oltrel’interpretazione).

A questo riguardo, è significativo il carattere prolettico, provvisorio della con-ferenza del 1990 sul museo postmoderno. Questa provvisorietà permette una certainstabilità che può essere costantemente rivolta contro la modernità e la sua ten-denza a fondarsi e ri-fondarsi in termini ontologici. Parimenti, le molteplici attivitàin cui consiste la caratteristica distintiva del museo postmoderno, hanno un ruolodecisivo da giocare nel favorire questa instabilità. Rimaniamo così all’interno diun’instabilità, o per usare un termine di Vattimo, di un indebolimento che riguar-da l’arte dalla prospettiva dell’individuo che la osserva. Nonostante questa espe-rienza sia di “seconda mano”, ossia mediata dall’una o dall’altra delle moltepliciesperienze che un’opera d’arte può generare, essa non si lascia alle spalle la persi-stente presenza dell’esperienza individuale alla base di questa molteplicità. La com-plicità si riafferma continuamente e rivela quanto una comprensione dell’arte basa-ta sull’esperienza rimanga debitrice del modello kantiano del giudizio estetico. Piùche una svolta radicale nell’esperienza dell’arte siamo di fronte a una dislocazioneincapace di rompere la dipendenza dalla concezione tradizionale di un soggettoestetico individuale.

Questa complicità permette di problematizzare la facilità con la quale l’espe-rienza dell’arte è frettolosamente tradotta in una comprensione dell’arte. È unarelazione kantiana – al punto che la rilevanza attribuita all’esperienza dell’arterisulta direttamente dal fallimento della fondazione di un’ontologia dell’arte23. Inquesto contesto, rivolgersi all’esperienza indica già il fallimento dell’inserimento

23 Un fallimento simile è rappresentato, nella Critica del giudizio di Kant, dall’introduzione di unaspiegazione estetica dell’indeterminazione per preservare il giudizio estetico e, con esso, la possibi-lità di una filosofia del soggetto o, in altri termini, la continua possibilità per il soggetto di porsi alcentro della filosofia.

Decostruzione e secolarizzazione di Sant’Ivo 37

dell’arte in un’ontologia, o, secondo un’altra prospettiva, il fallimento da parte del-la modernità di rendere conto di un’arte che conduce alla valorizzazione dell’espe-rienza dell’arte. A questo riguardo, dove l’arte è coinvolta, la modernità riconducea Kant e al tentativo di radicare il giudizio nell’esperienza estetica.

L’esperienza di Sant’Ivo solleva il problema del ritorno, apparentemente inevi-tabile, a Kant. Un’esperienza dislocata dell’arte si verifica all’interno di una con-dizione che mette in discussione il contesto moderno, secolarizzato dell’arte, ilmuseo. La dislocazione, strategica fin dall’inizio, si volge deliberatamente all’isti-tuzione che precede il museo come sede per l’esposizione dell’arte, la chiesa.

Benché il saggio di Vattimo inizi con un’esperienza visiva dell’arte, in questio-ne non è il valore di una simile esperienza ma piuttosto una comprensione conflit-tuale dell’arte non più legata a un individuo o a una collocazione, ma a due forzein disaccordo, quella secolare e quella religiosa. Lo scontro tra tali forze inauguraun’esperienza plurale, che non sembra più basata su un differente giudizio esteticoindividuale. La seguente affermazione sottolinea come la comprensione dell’arte acui Vattimo tende non sia una mera riformulazione dell’esperienza estetica kantia-na: «il punto è che proprio “l’esperienza di Sant’Ivo” dà un’espressione più concretae precisa alla sensazione inizialmente vaga che, nella rivendicazione ermeneuticadella verità dell’arte, manchi qualcosa … questo qualcosa … si possa trovarerif lettendo sul rapporto, spesso conflittuale, tra arte e religione, o anche, detto inaltri termini, sul destino dell’arte in relazione al processo della secolarizzazionemoderna»24. Quando Vattimo parla d’arte in termini di un conflitto con la reli-gione descrive una relazione che egli considera «costitutiva», un termine usato travirgolette quasi a segnalare che questa costituzione è differente dalla modernitàfondativa25. Il modo in cui tale costituzione è pensata è cruciale per evitare la ripe-tizione nichilistica del gesto di fondazione della modernità.

Pur riconoscendo all’arte l’esigenza di mantenere la propria specificità rispettoalla religione, è chiaro per Vattimo che essa può venire pensata soltanto entro deilimiti, se la si vuole concepire nei termini di una storia secolarizzata. Per opporsialla tradizione del disinteresse estetico, al cui interno l’arte e la religione rimango-

24 G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, cit., pp. 77-78.25 La frase è la seguente: «il rapporto dell’arte con la religione rimane quello “costitutivo”, almenonel senso che, nella storia della cultura occidentale, la confusione a cui l’arte deve sottrarsi per affer-mare la propria specificità ed esercitare dunque la funzione che le è propria è principalmente, e anziesclusivamente, quella con la religione», ivi, p. 80.

38 Dopo il museo

no nettamente separate, Vattimo si appoggia all’idealismo tedesco, in particolarea un testo conosciuto come Programma sistematico dell’idealismo tedesco, che si ritienesia stato scritto da Hegel, Hölderlin e Schelling. La religione dei sensi auspicata daquesto testo è interpretata da Vattimo come «forse la più emblematica configura-zione ideale di un’arte che si concepisce esplicitamente come religione secolarizza-ta»26. Ciò che è qui in questione non è l’accuratezza dell’interpretazione vattimianadella «religione dei sensi» (eine sinnliche Religion), quanto piuttosto la decisaammissione della religione all’interno del secolare, in breve un’apertura dell’artealla religione27. Per Vattimo un esito analogo si legge nella pretesa lukáciana che«la dimensione estetica dell’esperienza si costituisce … attraverso un processo diemancipazione dalla … teologia e [dalla] Chiesa»28. Secondo Vattimo, questaemancipazione non si esaurisce nella religione in senso stretto, bensì nel suo equi-valente secolarizzato: «in quella Chiesa di nuovo tipo che è il partito comunista»29.Lukács è qui esemplare dei limiti della secolarizzazione, limiti testimoniati anchedall’idealismo tedesco attraverso la nozione di un’arte come religione dei sensi30.Mentre per Lukács l’esperienza del limite segna il fallimento della fondazione delsignificato dell’arte nell’esperienza sociale, Vattimo scorge in tale momentoun’ambiguità essenziale della secolarizzazione. Lukács non è consapevole di questaambiguità, dell’intreccio di secolarizzazione e religione. Riconoscere l’ambiguitàsignifica secondo Vattimo riconoscere una difficoltà che ci impedisce di pensarealla secolarizzazione «in tutta la sua portata»31. L’esperienza dell’arte diventa, intale contesto, l’impossibilità di portare a compimento il progetto di emancipazionedella secolarizzazione in termini secolari. È il problema con cui si confronta la

26 Ivi, p. 79.27 Cfr. Hegel, Werke in Zwanzig Bänden, Frankfurt, Suhrkamp, 1971, vol. 1, p. 235. Questa aper-tura del testo nei confronti della religione coglie il carattere religioso dell’estetica nel politeismo – dicontro al monoteismo della ragione e del cuore. Nel contesto di questa caratterizzazione, resta indubbio se l’apertura dell’arte alla religione nel primo testo dell’idealismo tedesco sia effettivamenteun’apertura alla religione in toto, o piuttosto un’apertura alla quale manca l’esperienza religiosariservata per e dal monoteismo.28 G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, cit., p. 80.29 Ivi, p. 81.30 Oltre a Lukács, Vattimo include anche Benjamin nella tendenza della modernità a rifiutare diporre limiti alla secolarizzazione. E tuttavia, Vattimo interpreta tale ambiguità come il riconosci-mento di un limite, cfr. Oltre l’interpretazione, cit, p. 65.31 Ivi, p. 82, corsivo aggiunto.

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modernità: evitare di riprodurre le condizioni che sostennero il pensiero dellamodernità, una modernità che non avrebbe bisogno della postmodernità.

La difficoltà di concepire il postmoderno in modo da distinguerlo dalla moder-nità, senza ripetere il gesto di fondazione attraverso la distinzione, diventa la dif-ficoltà di concepire la relazione tra arte e religione – l’esperienza di Sant’Ivo. Men-tre La fine della modernità ha cercato di pensare in modo diverso la modernità «apartire dall’esperienza dell’arte e dal modello della retorica», l’obiettivo che si pro-pone ora Vattimo è di concepire l’arte in modo diverso dalla tradizione secolariz-zata che appare, da una prospettiva storica e filosofica, legata alla modernità (a talpunto da intendere il progresso come emancipazione). Poiché la svolta in direzionedell’arte e della retorica (che abbandona l’esperienza della verità come fondazione)ha bisogno di una svolta interna (una svolta che comprenderà la religione), Vattimodeve affrontare una secolarizzazione destinata a ritornare proprio a quell’esperienzada cui aveva cercato di separarsi: la religione. Il problema della religione nell’epocamoderna è quello della secolarizzazione, al quale ci riporta indietro, nella rif les-sione di Vattimo, la secolarizzazione prodotta dalla modernità. Per questa ragione,Vattimo giungerà alla conclusione che l’arte moderna in generale «non possa nonincontrare la questione della secolarizzazione come questione centrale»32. Il proble-ma è dunque inevitabile, come a dire che per Vattimo la religione è un aspetto ine-vitabile dell’opera d’arte nell’epoca postmoderna.

Ciò che secondo Vattimo è rilevante in questa configurazione dell’arte non è ilritorno alla religione inteso come una ripresa del momento precedente alla separa-zione dell’estetico dalle altre forme di esperienza (inf luenzate nonostante il disin-teresse). In discussione è una religione che non sia una forma secolarizzata dellacristianità, ossia il risultato di quel tipo di secolarizzazione incarnata da Lukács.Nella rif lessione che Vattimo sviluppa in questo capitolo di Oltre l’interpretazione,una tale religione appare nel momento in cui la secolarizzazione rivela la sua segre-ta ambiguità. Dunque anch’essa vi appartiene e, di conseguenza, tale ambiguità vainterpretata come un mezzo attraverso il quale l’arte è in rapporto con la religione.L’ambiguità è il mezzo attraverso il quale l’una si apre all’altra; essa è, per citareun termine utilizzato da Vattimo, un «legame». Il modo in cui Vattimo lo affrontaè significativo delle difficoltà: l’ambiguità prende la forma di una relazione dialet-tica, come risulta evidente quando Vattimo critica Lukács per non essere stato in

32 Ivi, p. 81.

40 Dopo il museo

grado di riconoscere l’ambiguità insita nell’idea di secolarizzazione: «Lukács fini-sce per credere di essersi lasciato definitivamente alle spalle un legame con la reli-gione che, invece, continua ad agire tanto più potentemente quanto meno lo si vuo-le riconoscere»33. Meno religione c’è, più essa è presente. Questa determinazionenegativa assicura il permanere della religione in un’epoca secolarizzata – e dalmomento che è in gioco una logica dialettica, l’opposto è altrettanto vero. Attra-verso questa determinazione, ciò che è stato definito ambiguità ora appare come ilmomento della relazione all’interno di una storia dialettica dell’arte e della religio-ne. Se l’ambiguità può facilitare la relazione, essa non risponde ancora alla doman-da del perché la secolarizzazione debba confluire nella religione.

Una risposta a questa domanda sembrerebbe già presente nell’osservazione che«non si riesce a pensare la secolarizzazione in tutta la sua portata»34. Il rifiuto diuna totalità della secolarizzazione è anche descritto come il fallimento nel raggiun-gere una comprensione «unilaterale» del piano secolare, ossia un fallimento nelgiungere a una comprensione di un secolare che rimanga secolare. Quando è coin-volta l’esperienza estetica, tale fallimento indica il limite di una comprensionedell’estetica come tentativo di fornire un resoconto sistematico dell’arte e della suavalutazione. L’incapacità dell’estetica di raggiungere un tale risultato unilaterale,se pensata insieme alla fallita emancipazione della dimensione secolare dalla reli-gione, suggerisce che ciò che si mostra in un’estetica secolarizzata è un’epoca inca-pace di svincolarsi dalla sua formazione storica. La riapparizione della religione puòvenire compresa allora come una riaffermazione del mito che serve alla secolariz-zazione per raggiungere l’emancipazione. Questa è la sua condizione storica. Diconseguenza, il compito che Vattimo delinea come esperienza di Sant’Ivo è la teo-rizzazione di un’estetica non più basata su un’intenzione unilaterale ma, allo stessotempo, che non rinunci a una storia al cui interno questa intenzione possadispiegarsi.

Il primo passo compiuto da Vattimo per elaborare una tale estetica è l’inseri-mento di un’ambiguità all’interno della forza (la secolarizzazione) che definisce ilcontesto storico nel quale si sviluppa la teoria estetica. L’ambiguità permetteun’apertura – che inf luenza sia l’arte sia la religione– un’apertura nella quale si dàla verità. Ma quando Vattimo descrive le modalità attraverso cui tale apertura è

33 Ibid.34 Ivi, p. 82.

Decostruzione e secolarizzazione di Sant’Ivo 41

segnalata, subentra un’altra difficoltà: «L’estetica […] deve farsi ascolto della veri-tà che “si apre” nelle opere»35. Se la necessità tramite la quale l’estetica «deve»diventare ascolto della verità è ricondotta a un fallimento interno alla secolarizza-zione (anche se questo è solo un fallimento dall’interno della prospettiva della seco-larizzazione), allora questa necessità sarebbe ancora una volta esclusivamente dia-lettica – nel senso che essa sarebbe debitrice di tutti i suoi significati («tutta la suaportata») al fallimento della secolarizzazione. Per evitare questa situazione, ladomanda ora posta da Vattimo – «come si attuerà questo ascolto» – concerne lanostra relazione (postmoderna) con la secolarizzazione. Dal momento che essaimplica la possibilità di un’interpretazione non secolare della secolarizzazione, ingioco nell’ascolto della verità che si apre nell’arte non è solo l’esperienza di Sant’Ivoma anche (e ancora) il luogo dell’arte nella filosofia.

Molto dipende dalla realizzazione di questo «ascolto» nell’opera d’arte – e nonsolo per lo spettatore dell’arte e per le istituzioni (museo e chiesa, per esempio) nel-le quali tale osservazione è sancita. Il raggiungimento dell’ascolto presuppone chela verità in questione parli, che sia linguistica. Ritorna qui l’ambiguità precedente.In un saggio dove un’esperienza esemplare dell’arte coinvolge opere visive, come sideve intendere questo parlare? Tra le forme d’arte, la pittura è quella che conservagelosamente il silenzio come presupposto. Inoltre, come intendere la svolta di Vat-timo nel suo saggio sull’arte, in Oltre l’interpretazione, dall’arte visiva dell’esperien-za di Sant’Ivo all’arte linguistica che entra in scena e infine domina la sua rif les-sione dopo aver posto l’interrogativo «Ma come si attuerà questo ascolto?». È neces-sario che l’arte che risponde a questa domanda prenda la forma della domanda?

Per spiegare come questo ascolto si debba realizzare, l’ultima sezione del saggiodi Vattimo si volge a Heidegger. Nell’espressione heideggeriana «apertura di unmondo», riferita all’opera d’arte, Vattimo rintraccia una comprensione che rimaneseparata dall’esplicita storicizzazione presente nell’interpretazione unilateraledell’arte come secolare o religiosa36. Anche in questo giudizio Vattimo privilegia«la forza inaugurale della parola poetica», una parola a cui Heidegger assegna ilcompito di rivelare la verità dei mondi storici. Qui il passaggio dall’esempiodell’arte visiva al linguaggio è riconducibile alla predilezione heideggeriana per la

35 Ivi, p. 83.36 L’enfasi sulla temporalità che Vattimo attribuisce alle teorie estetiche di Bloch, Dufrenne eLukács appartiene alla dimensione storica che fa dell’opera d’arte, invariabilmente, un documento.Vedi Oltre l’interpretazione, cit., p. 86.

42 Dopo il museo

parola poetica – che Vattimo riprenderà soffermandosi su due saggi di Heideggerdedicati a Hölderlin. Lo scopo di questa rif lessione è di comprendere fino a chepunto «l’arte come fenomeno di secolarizzazione […] può costituire un momentodecisivo nel precisare e radicalizzare in senso nichilistico la tesi ermeneuticadell’arte come messa in opera della verità»37. In discussione è la relazione dell’espe-rienza di Sant’Ivo con la difesa ermeneutica della verità dell’opera d’arte, oltre chela relazione di quest’esperienza con ciò che Vattimo definisce «la possibilità diorientarsi fra i molti significati che essa [la rivendicazione ermeneutica della veritàdell’arte] può assumere e di fatto ha assunto». Ma perché questa esperienza sia unarisposta, perché esista una relazione – e questa è la sola conseguenza affrontata daVattimo quando egli afferma «se non questo – se non la ricerca della veritàdell’opera come apertura di mondi storici, profezia, documento, o semplice muta-mento di prospettiva – che cosa?»38 – bisogna intraprendere la via dei due saggi diHeidegger su Hölderlin. Benché siano introdotti come una sintesi dei temi affron-tati con l’esperienza di Sant’Ivo (il rapporto tra arte e religione, la verità dell’arte,una concezione dell’arte indipendente dalla prospettiva estetica), l’interpretazionevattimiana di questi saggi termina, curiosamente, con un’ellissi che segue la frase«la sua [di Heidegger] concezione della metafisica e della sua crisi … (punti disospensione nel testo originale, Nota del traduttore)»39. Per quale ragione questoritorno, attraverso l’esperienza di Sant’Ivo, ai saggi che Vattimo definisce (controil pensiero corrente) come i «testi canonici» dell’ermeneutica, conduce all’ellissi deipunti di sospensione proprio nel momento in cui si nomina una crisi?

Atteniamoci alla sua analisi dei saggi heideggeriani. Vattimo estrae due temiprincipali: il primo riguarda «l’essenza storico-ontologica della poesia», il secondola «funzione religiosa del poeta». Pur ammettendo la presenza di «un certo“romanticismo” heideggeriano», persino una tendenza mitologizzante nel modo incui Hölderlin è tratteggiato da Heidegger, Vattimo insisterà sul significato dellarelazione tra poeta e divinità. Un’altra ellissi si verifica nell’interpretazione di que-sta relazione, alla fine della glossa sul frequente rimando heideggeriano, in questisaggi, alle divinità: «se [Heidegger] parla degli Dèi, è perché sta parlando di poeti,e soprattutto di un poeta come Hölderlin così profondamente radicato nella nostal-

37 Ivi, p. 85.38 Ibid.39 Ivi, p. 88.

Decostruzione e secolarizzazione di Sant’Ivo 43

gia classicistica per la Grecia e in una certa visione del cristianesimo in relazione allamitologia artistica […] Di nuovo la questione del Systemprogramm»40. Non soltantoquesta affermazione determina una sostituzione a cui occorre prestare attenzione(poeti per divinità) ma essa include entrambi nel progetto metafisico che richiamale precedenti osservazioni di Vattimo sul testo di Hegel-Hölderlin–Schelling.L’ellissi indicherebbe perciò una rottura significativa della separazione da questatendenza mitologizzante. In questo caso l’ellissi segnala l’interruzione di una lettu-ra che avrebbe ricondotto al progetto annunciato nel Systemprogramm. Per evitare unasimile conseguenza, Vattimo insiste sulla necessità di demistificare la tendenzamitologizzante, un passo necessario per accostarsi alla rif lessione heideggeriana sulruolo di Hölderlin come poeta41. L’operazione di demistificazione ha bisogno dellalettura e dell’interpretazione, per liberare Heidegger dalla mitologia. L’esito demi-stificato di questa lettura e interpretazione di Heidegger eviterà così il falso presup-posto adottato da un’“estetica moderna”, libera dagli interrogativi sollevati dalSystemprogramm, vale a dire, la relazione tra arte e religione. Ma perché questo esitoè posto in ellissi? Perché questa lettura e interpretazione ha bisogno di un’ellissi?

Il problema sotteso a questa interpretazione di Heidegger e del rapporto tra idue saggi su Hölderlin e l’esperienza di Sant’Ivo consiste nella difficoltà di conce-pire le conseguenze di una metafisica messa in crisi – o da se stessa o dalla sua cri-tica. La possibilità di elaborare queste conseguenze in modo più preciso e concretonon è semplicemente un dilemma filosofico, o, se lo è, esso solleva il problema dellapersistente assimilazione dell’arte alla filosofia, sia nella fase metafisica che inquella – per utilizzare un’espressione di Vattimo – della metafisica “debole”. Laposta in palio nell’arte è molto alta per Vattimo, o meglio, è in gioco la possibilitàche ci sia qualcosa in gioco nell’arte, e questo qualcosa è l’opportunità di teorizzarela dimensione filosofica della postmodernità. Vattimo insiste su questo puntoquando richiama il «significato ontologico, per la storia del senso dell’essere, che sipuò cogliere nel destino dell’arte e della poesia nell’epoca della fine della moderni-tà»42. Sebbene Vattimo parli di «arte e poesia», è ancora la poesia, sulla scia di Hei-

40 Ivi, p. 88. Sulla relazione di Hölderlin con la Grecia cfr. il mio Silent Urns: Romanticism, Hellenism,Modernity, Standford, Standford University Press, 2000, capitolo 6.41 La differenza fra Hölderlin e l’idealismo tedesco è sostenuta anche da Heidegger, che descriveHölderlin come una figura totalmente estranea (ganz außerhalb) alla metafisica dell’idealismo tede-sco, cfr. Schelling, Tubingen, Niemeyer, 1971, p. 230.42 Oltre l’interpretazione, cit., p. 88.

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degger, ad essere privilegiata: «in quest’epoca la poesia ci invita a guardarla comeepoca in cui è centrale il problema della secolarizzazione»43. La poesia che parla siesprime con la voce di Hölderlin e solo secondariamente attraverso la lettura vatti-miana dell’interpretazione di heideggeriana di Hölderlin come «il poeta del poeta»,il poeta che scrive «la poesia della poesia». Attraverso questa lettura, Vattimo col-legherebbe l’«essenza storico-ontologica della poesia» alla «funzione “religiosa delpoeta”» e in tal modo affermerebbe tutto ciò che è stato sostenuto con l’esperienzadi Sant’Ivo. E tuttavia, alcune cautele sono necessarie se questo collegamento vuoleevitare di confondere due elementi che possiedono implicazioni ontologiche diffe-renti: una rif lessione sull’essenza della poesia e sulle scelte tematiche di un poeta.Hölderlin, in quanto figura che unisce questi due elementi, può venire consideratocome colui che ha raggiunto tale unificazione soltanto nella misura in cui la rif les-sione sull’essenza della poesia venga già intesa come un riconoscimento della fun-zione religiosa del poeta. Tuttavia, se quest’ultimo è originato, o comunque puòessere attribuito soltanto alle scelte tematiche di un poeta (la decisione di Hölderlindi mettere in versi l’essenza della poesia nei termini degli dèi fuggitivi, ecc) alloral’elemento religioso non riguarda una tale funzione ma piuttosto parla dell’essenzadella poesia nell’assenza di una tale funzione (il dio da venire). È per questa ragioneche Vattimo, nel riferirsi alla «funzione “religiosa del poeta”», utilizza le esitantivirgolette intorno alla parola religione? È la religione ancora quell’elemento, perquanto problematico, che la poesia di Hölderlin può solo invitare o, nel migliore deicasi, valere da riferimento nel mettere tra virgolette l’invito? È in questo invito chela poesia scopre il suo più fondamentale carattere di religione?

Le conseguenze di una risposta affermativa a queste domande condizionadirettamente l’esperienza di Sant’Ivo, ovvero ciò che Vattimo definirà il «legamedi derivazione tra arte e religione»44. A tal punto che il riconoscimento di questolegame è possibile esclusivamente in quella che Vattimo descrive come «l’epocadella fine della metafisica»; un riconoscimento che dev’essere letto non semplice-mente come l’effetto di una tale epoca, ma di una secolarizzazione avvenutaall’interno di quest’epoca. Poiché la secolarizzazione non si è emancipata comple-tamente dalla religione, essa rispecchia il suo legame con ciò da cui cerca di libe-rarsi. E tuttavia questa situazione segnala anche la natura metafisica della secola-

43 Ibid.44 Ivi, p. 91.

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rizzazione, il suo mirare a una fine per giustificarsi storicamente. Vattimo ricono-sce questa circostanza nella sua critica a Lukács. E tuttavia, a suo avviso, se siproblematizza la secolarizzazione a partire dall’impossibilità di pensare «la seco-larizzazione in tutta la sua portata» si corre il rischio di fallire nel distinguere lasecolarizzazione dal problema costitutivo della metafisica, il problema di pensarequella fine che determina la storia della metafisica. Anche se la secolarizzazione èintesa come una sorta di fallimento della metafisica, esso viene ancora giudicatodalla prospettiva dell’emancipazione dal fallimento, ossia è ancora pensatodall’interno delle tendenze profonde del progetto metafisico. Se la secolarizzazioneè incapace di totalizzare se stessa – e questo è il suo standard di emancipazione –e se essa è considerata come la forza storica attraverso la quale si ottiene «un com-plesso rapporto di azioni reciproche» tra arte e religione caratteristico dell’esperien-za di Sant’Ivo, allora la questione essenziale da affrontare nel tentativo di dare pre-cisione e concretezza a questa relazione sarà una differenziazione (che non ponefine) di questo reiterato fallimento nel terminare ciò che rimane nel nucleo dellametafisica e della sua modernità.

Vattimo è incline a pensare questa differenziazione come una sorta di fine dellamodernità. Oltre che in un intero volume di saggi, questo tema è presente nel sag-gio sull’esperienza di Sant’Ivo. Ad esempio quando egli afferma «la centralità deltutto peculiare che, nell’epoca della metafisica e della sua fine, cioè della moder-nità, l’arte assume rispetto alle altre forme della cultura»45. Mi pare innegabileche la modernità costituisca per Vattimo una sorta di fine; ma che tipo di fine rap-presenta questa modernità? Si dovrebbe notare, prima di proseguire, che Vattimodefinisce la fine nei termini di un’epoca. E dal momento che quest’epoca non vieneasserita storicamente ma piuttosto attraverso il pensiero, essa non può venire con-siderata semplicemente storica. Inoltre, questa fine appartiene alla metafisica (Vat-timo parla di una fine che appartiene alla metafisica). È dunque la modernità ilperiodo della fine protratta della metafisica, il periodo nel quale la metafisica puòsolo esporre il suo fondamento storico mediante una serie di eventi che compren-dono la modernità? Il «pensiero debole» cresce in questo contesto, come esito sto-rico di una tradizione metafisica – fino a pensare che la debolezza debba esseresempre stata fondamentale per la metafisica (la cui storia, o sviluppo, consisterebbenella storia delle negoziazioni con una tale debolezza). Eppure, per Vattimo, il rico-

45 Ivi, p. 89, corsivo aggiunto.

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noscimento esplicito di questa debolezza è a sua volta un indice storico. QuandoVattimo cita l’estetizzazione come un aspetto significativo dell’esperienza socialepostmoderna, egli la definisce come ciò che possiede «un senso legato alla storiadella tarda modernità come storia dell’indebolimento dell’essere»46. In quantosegno della fine di un’epoca, questo indebolimento deve attuarsi come un’antici-pazione di qualcosa ancora da venire – un’anticipazione sottolineata anche dalladescrizione, vattimiana e heideggeriana, della funzione “religiosa” del poeta. Sequesta funzione non può essere distinta dall’invito della poesia – dall’invito dellinguaggio nella parola poetica – allora il ritorno alla religione, persino in una for-ma non unilaterale, una forma indebolita, indicherà quanto questo ritorno aun’esperienza della religione sospesa tra il dileguarsi delle divinità e la problema-tica anticipazione di un dio a venire, sia diventato il mezzo per storicizzare ilpostmoderno. Un altro esito non è possibile se il postmoderno vuole evitare didiventare un ulteriore evento nella storia seriale della modernità e dei suoi reiteratigesti di fondazione. Eppure, per sviluppare questa tesi da un punto di vista storico,ossia per pensare l’indebolimento dell’essere come l’epoca di una fine, Vattimodarà voce anche a una relazione la cui struttura ha le sue radici nella risposta este-tica del romanticismo e idealismo tedeschi. L’apertura della religione all’arte, edell’arte alla religione, sfocia in un’interessante relazione chiasmatica, dal momen-to che l’arte diventa una religione secolarizzata e la religione «meno dogmatica edisciplinare, più “estetica”»47. La scambiabilità delle posizioni richiama quellaoscillazione, o Schwebung, invocata dal primo romanticismo tedesco come una figu-ra per descrivere una relazione reciproca tra uno o più elementi e l’anticipazione diuna sintesi48. Rimanere all’interno di questa anticipazione significa, per Vattimo,rimanere all’interno di un campo di possibilità che non è nient’altro che il postmo-derno, una postmodernità la cui sintesi, persino in quanto epoca, rimane proble-matica, una questione di anticipazione. È dunque il postmoderno il segno di unametafisica condotta al punto della sua stessa ellissi? Possiamo concepire il postmo-derno soltanto come tarda modernità, come un’epoca la cui caratteristica essenzialesia l’indebolimento dell’essere?

46 Ivi, p. 80.47 Ivi, p. 92.48 Sul ruolo di questa figura come anticipazione della sintesi, cfr. Friedrich Schlegel und die romantischeIronie di Peter Szondi, Schriften, Frankfurt, Suhrkamp, 1978, vol. 2, p. 22.

Decostruzione e secolarizzazione di Sant’Ivo 47

Incorniciata da una simile ellissi, dove si pone ora l’arte e, in particolare,l’esperienza dell’arte? Non più in grado di portare a termine il progetto della seco-larizzazione e altrettanto incapace di sostenere l’esperienza di una religione unila-terale, l’arte deve diventare il discorso della possibilità. Questa comprensionedell’arte, già presente nella conferenza di Vattimo sul museo e l’arte contempora-nea, quando egli definisce il museo postmoderno come «un soggetto collettivosotto molti punti di vista», rif lette la tendenza a vedere l’arte come un’attività sle-gata dalla sua stessa storia. Un’inessenzialità strategica è presente e inevitabile, dalmomento che le nozioni tramite le quali si discute e si conferisce significato all’arteesigono una corrispondenza alla storia che cerca di affermarne la fondazione.Sospendere questa richiesta, porla effettivamente in ellissi, implica, in questo con-testo (il contesto nel quale si affronta qualcosa di diverso dalla modernità), l’espe-rienza protratta dell’indebolimento. L’esperienza contemporanea dell’arte diventaper Vattimo il medium attraverso cui l’indebolimento può essere esperito – un’arteche rivela la sua verità in questo indebolimento e in quanto è l’indebolimento.Quest’arte si rivela essenzialmente prolettica e, al contempo, la postmodernità simostra come l’effetto storico di una prolessi protratta, il continuo indebolimento diuna conclusione unilaterale. Di conseguenza, la prolessi della postmodernità è ilmezzo per preservare l’ellissi che segna il destino della modernità. Sospesa in que-sta ellissi, l’arte diventa l’esempio di una sapienza debole e la postmodernità ilmuseo della sua esistenza protratta.

Due sono gli esiti di questo resoconto della postmodernità. In quanto epocadell’anticipazione continua, il postmoderno è meno ciò che viene dopo la moderni-tà che non il riconoscimento della fondazione alla quale continuamente la moder-nità ritorna e dalla quale si allontana. Una simile modernità non può venire limi-tata a un determinato periodo, meno ancora definita in termini storici dal “post”della postmodernità. Questo “post” descrive piuttosto la condizione della moder-nità: ciò rispetto a cui la modernità è sempre dopo e ciò che rimane sempre primadella modernità. A questo riguardo, la postmodernità non può essere pensata comeuna fine o persino come lo strumento per porre termine alla modernità; per usareun termine di Vattimo, la sua debolezza impedirebbe una tale conclusione. È dun-que interessante notare, proprio nel testo di Vattimo, il riconoscimento continuodella «metafisica e della sua fine». Ovviamente, pensare a una tale fine fuori dallametafisica significherebbe attribuire alla postmodernità lo status di un’epoca sto-rica – bisognerebbe che la postmodernità diventasse la posizione dalla quale l’inte-ra metafisica può venire pensata. Vattimo prende atto che è possibile pensare sol-

48 Dopo il museo

tanto a una tale posizione dall’interno di una metafisica legata al progetto di fon-dazione della modernità. Evitare questa posizione significa evitare di trasformarela postmodernità in una fondazione. Al contempo, la precauzione implica la rinun-cia a qualsiasi affermazione sulla fine della metafisica. La postmodernità di Vatti-mo è dunque sospesa tra la critica della modernità e la ripetizione della modernità.

Nonostante tali conseguenze, il continuo uso da parte di Vattimo di espressio-ni quali «epoca della metafisica e della sua fine» rivela quanto il significato filo-sofico di questa postmodernità rimanga vincolato a una cornice storica. Per usareuna frase di Vattimo, citata precedentemente, «se non questo […] che cosa?»,l’inevitabile rassegnazione di questa domanda – per non menzionare la sua strate-gia retorica – mostra una difficoltà che appartiene tanto profondamente al progettodella postmodernità da diventare la sua caratteristica più saliente. Una difficoltàche può già essere individuata in ciò che appare, a prima vista, come l’estetizzazio-ne proliferante associata a questa «epoca» – un aspetto al quale Vattimo dedicaattenzione. Dal momento che l’estetica dilaga e diventa un «caratteristico aspettodella vita sociale postmoderna», l’unica storia accessibile al postmoderno dovràrif lette tale proliferazione: una storia che non racconta più la fine della metafisica.Ma cos’altro può essere la storia se non la storia del fallimento nel finire? E non saràquesto fallimento già compreso nel progetto metafisico come sua affermazione?Queste domande conducono a un altro interrogativo: è possibile intendere l’ellissinel testo di Vattimo come il segno di un’epoca storica? È quanto suggerirebbe larif lessione sull’esperienza di Sant’Ivo – nella misura in cui ciò che viene anticipatoattraverso questa esperienza possiede un significato storico. Ma da quale prospet-tiva? Dell’arte? Della religione? Anticipare un mondo nel quale la religione possadiventare più estetica e l’arte consapevole di se stessa come religione secolarizzatasignifica anticipare un mondo che deriva la sua esistenza dalla sintesi anticipatanella retorica di questo futuro chiasmatico. In un tale futuro, quale esperienza saràascoltata nell’opera d’arte? Quella della religione secolarizzata? Di una religioneestetica? O esse mostreranno la medesima essenza? E se anche lo facessero, cosaverrebbe messo davvero in discussione? Che una possa parlare come l’altra? Chequalcosa possa ancora essere ascoltato nell’opera d’arte alla fine della metafisica?Che l’arte debba ancora possedere una voce, non importa quanto debole, e che lanostra esperienza dell’arte debba sentirla? La svolta sottolineata precedentemente,dall’arte visiva alla poesia, rivela molto nel contesto di queste domande, dalmomento che essa indica una svolta da un esempio tratto dall’arte visiva (l’esempioalla base dell’esperienza di Sant’Ivo) a un esempio di arte che tramite il suo

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medium partecipa già al regno del linguaggio, alla poesia. Non appartiene forseall’esperienza di Sant’Ivo anche questa incapacità dell’arte di parlare, un’incapaci-tà che resiste alla metaforizzazione del poeta nella poesia, che tramite il suo silen-zio rifiuta di concedere autorità alle rivendicazioni, secolari o religiose, fatte in suonome? Se l’arte è arte soltanto grazie a questa incapacità, allora c’è una differenzache appartiene all’arte ma che rimane separata dalla secolarizzazione e dalle sueintenzioni estetizzanti, una differenza che rimarrebbe separata dalla religione per-sino se la religione l’avesse inclusa come misticismo49. Il tentativo di preservare (eil resoconto di Vattimo dell’esperienza di Sant’Ivo è uno di tali tentativi) questadifferenza come epoca del postmoderno nasconde sino a che misura la possibilitàstorica della postmodernità affondi nell’esperienza dell’arte50.

Nell’esperienza di questo affondamento l’interrogativo sull’arte postmodernaritorna: non come promessa di un’arte attuale, o di un simulacro che estenda inde-finitamente questa promessa, bensì come il compito di comprendere in che modol’esperienza dell’arte possa avvenire anche nel suo abbandonarsi a un luogo qualeil museo. Non c’è bisogno di alcun museo postmoderno, virtuale o reale che sia,per compiere quest’esperienza. Il postmoderno non ha bisogno di un’arte più diquanto ne avesse bisogno la modernità, proprio perché il suo riconoscimentodell’arte è il riconoscimento di una condizione, di quella condizione che le tenden-ze secolarizzanti della modernità, e anche della religione, hanno tentato di celaretramite una collocazione che avrebbe dovuto rispondere alla domanda sull’arteancora prima che essa potesse manifestarsi. Volere un’arte per la postmodernità –un’esigenza a cui non si è dimostrato estraneo lo stesso postmoderno – significarifiutare l’esperienza che l’arte possiede già.

(traduzione di Elisa Pasini)

49 Mistico, nel senso di ciò che rimane segreto, non detto, ma il cui significato riposa nell’anticipa-zione della sua rivelazione, del suo parlare.50 Ferris gioca sull’assonanza del verbo to found, “fondare”, e to founder, “affondare”, “sprofondare”(nota del traduttore).

Roberto SalizzoniCHIESE E MUSEI

Più che di museo si può parlare oggi di museizzazione, di un processo globale nell’ambito delquale i singoli musei sono scansioni, momenti. C’è chi considera il fenomeno come sviluppodel “delitto perfetto” che prevede la sostituzione del mondo con l’immagine considerata comel’ affermazione definitiva dell’ “industria culturale”, e chi lo valuta invece come una pos-sibile uscita dalla “separatezza estetica”, una ripresa di contatto con il mondo della vita.Tra questi ultimi si colloca Vattimo, che riflettendo sull’ “esperienza del Sant’Ivo” riscoprela parentela tra chiesa e museo e prospetta una ripresa della religione in un’arte dell’ “oscil-lazione”. Il contributo discute questa ipotesi alla luce della dottrina canonica del culto delleimmagini (secondo Concilio di Nicea), che in effetti dispone uno spazio per l’oscillazione esancisce la possibilità di una “percezione distratta” nella prospettiva della redenzione. Lapratica della museizzazione non sembra tuttavia oggi andare in questa direzione.

1. Musei e museizzazione

Proliferano musei ed esposizioni. Nascono senza sosta nuovi musei, per così diredal basso, da condizioni culturali fortemente localizzate, destinati a consolidare esegnalare realtà produttive in senso lato, artigianali, alimentari, di costume, diambiente naturale – i cosiddetti ecomusei si trovano al culmine di questi processi;ma anche dall’alto, attraverso veri e propri processi di moltiplicazione diasporica:molti dei grandi musei internazionali clonano e disseminano sedi staccate, nuovesuccursali, con pretese di autonomia o di continuità. Le esposizioni sono propostea getto continuo, dentro o fuori dai musei, a loro volta esposte dalla pubblicità deimezzi di comunicazione di massa sullo scaffale dei prodotti della cura del corpo edello spirito, preparate e seguite dalla pubblicazione di cataloghi e guide variamen-te allegate. I tratti distintivi del fenomeno sono inconfondibili, quelli quantitativiesorbitanti: sembra di avere a che fare non tanto con singoli fenomeni che si con-frontano e aggregano, quanto con un movimento generale che determina i singoliepisodi. Se fino alla metà circa del secolo scorso si poteva pensare la museizzazionecome tratto comune di operazioni legate all’istituzione e alla vita dei musei, al pas-

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 51-62

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saggio del secolo risulta più realistico pensare il museo come momento determina-to da un generale processo di museizzazione. Il fenomeno nel suo complesso non èpassato inosservato: è stato letto ad esempio come sintomo di una “diserzione dalpresente”, di un ritrarsi complementare alla progressiva diffusione del “patrimoniostorico” negli spazi museali variamente, ma incessantemente istituiti1. La frequen-tazione del museo nelle sue varie forme diventa concorrenziale e di fatto emarginal’esperienza viva dell’arte nei suoi luoghi deputati. Si va meno a teatro, a concerto,al cinema, ma si frequentano di più le località del patrimonio storico ed artistico2.Il soggetto estetico dominante del mondo museizzato è il turista d’arte, non più lospettatore, l’ascoltatore, l’amatore d’arte. È con ogni probabilità proprio a partiredal nuovo soggetto del turismo di massa, dalla sua figura e dalla sua condizioneche si può accedere ad una prima comprensione del “blob” museale. «C’è una reci-procità, una ricorsività, tra l’esibizione del mondo e il mondo come esibizione di sestesso»3. Quella che ho chiamato museizzazione nella prospettiva del suo vero sog-getto fruitore, che è il turista, è il risultato di un doppio movimento: quello cheriguarda da una parte le trasformazioni dell’esibizione del mondo all’interno deimusei, dall’altra il disporsi del mondo stesso in una condizione esibita. È come senel loro moltiplicarsi i musei non soltanto trasformassero il loro assetto interno, mainsieme inseguissero o fossero risucchiati da un processo di autoesibizione delmondo. Succede così che i musei moltiplicandosi si dispongono lungo percorsi4, eche il mondo a sua volta si configura come museo5.

Una volta assunto come vista e spettacolo da vedere è il mondo della vita che diventa essostesso museo. Il turismo necessita di destinazioni, e i musei sono attrazioni di primariarilevanza. I musei non sono solo le tappe di un itinerario: sono anche i nodi di una retedi attrazioni che forma la geografia ricreativa di una regione e in definitiva del globo6.

1 «In Gran Bretagna … risulta che circa ogni settimana venga inaugurato un nuovo museo … Se lapercentuale di crescita dovesse ulteriormente aumentare, l’intero paese diventerebbe un grandemuseo all’aria aperta, e lo si potrebbe raggiungere nello stesso momento in cui si atterra ad Hea-throw» (J. Urry, Lo sguardo del turista. Il tempo libero e il viaggio nelle società contemporanee, Formello,Seam, 1995, pp. 153-54. L’osservazione è relativa al 1987).2 Ivi, p. 155.3 B. Kisshenblatt-Gimblett, Destination Culture. Tourism, Museums, and Heritage, Berkeley, Universityof California Press, 1998, p. 144.4 «I musei riproducono anche i protocolli del viaggio. I visitatori possono procurarsi un Passaportodei Musei che riguarda i più di 190 musei nel Queensland, in Australia, avere una timbro sui lorodocumenti quando hanno completato la visita, e tenerli come ricordo» (ivi, p. 135).

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Alla dinamica di f luidificazione dei musei come luoghi disposti nel mondo –regione e globo insieme – corrisponde al loro interno una progressiva metamorfosidei tratti strutturali.

L’industria del turismo muovendosi da un approccio imperniato sul prodotto ad unoguidato dal mercato – e dalla creazione di un’esperienza basata sul vedere ad unabasata sul fare – piazza i musei a rimorchio dell’industria … Il consapevole slittamen-to di prospettiva dal punto di vista dell’artefatto del museo a quello dei suoi visitatoriè segnalato dal termine “esperienza”, che è diventato onnipresente tanto nel mercatodel turismo, quanto in quello del museo, termine che sta ad indicare un coinvolgimen-to dei sensi, delle emozioni e dell’immaginazione. I musei erano una volta definiti dal-la loro relazione con gli oggetti: i curatori erano dei “conservatori” e la loro maggiorerisorsa erano le loro collezioni. Oggi si definiscono più che mai nella loro relazione coni visitatori7.

2. Due letture

La nuova configurazione dell’esperienza estetica tra musei e turismo, tra museiz-zazione e consumo culturale si presta ad una serie di letture comprese tra dueestremi: quello che vi trova una ulteriore e forse definitiva conferma del monopolioormai globale dell’industria culturale, e quello che vi riconosce i segni di una nuo-va dinamicità dei fatti della cultura potenzialmente e forse già effettivamenteemancipativi. La prima lettura considera i turisti della cultura gli agenti aggior-nati dell’ “industria culturale”, gli autori o almeno i complici del “delitto perfetto”consistente, come ha sostenuto Baudrillard nella sostituzione integrale del mondocon le sue immagine attraverso un’operazione che non ha lasciato tracce. La resadei musei al turismo di massa cristallizza fin dall’inizio le aspettative sull’esisten-te in un’aderenza perfetta a riscontri programmati e si direbbe, per usare il lessicofrancofortese, amministrati. Sembra che si realizzi nei musei la condizione cheAdorno ascriveva alla pubblicità della cioccolata, che il rimosso vi possa tornare

5 «Cercando di confezionarsi in modo da attrarre una crescente nuova categoria di viaggiatori curiosie sofisticati, l’Australia si sta letteralmente reinventando … Quel che stiamo facendo è creareun’intera nuova geografia culturale basata sulle cose che gli altri devono vedere; è fare dell’Australiaun posto ben disposto con un’ampia tipologia di cose da vedere». La citazione tratta da una rivistamensile di Sydney del 1993 è riportata da Kirshenblatt-Gimblett che così conclude: «Si tratta di unprocesso museologico» (ivi, p. 141).6 Ivi, p. 132.7 Ivi, p. 138.

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soltanto con i segni della rimozione. È quel che indica Augé quando propone diconsiderare il turismo come un viaggio tra due serie di immagini, quelle che ituristi hanno visto «prima della partenza e quelle che vedranno al ritorno (le loro,quelle di cui si considerano autori)»8. Si tratta di un viaggio senza movimento pro-prio perché il suo tempo è un “perpetuo presente”9, un presente isolato da entram-bi i lati, «staccato dal passato e dal futuro, di apparenze rif lesse da apparenza»quale è quello che Bauman riconosce anch’egli al turista, assunto come figura tipi-ca del mondo postmoderno10. Il turista culturale che si esercita nell’apparentemovimento in un tempo cristallizzato, che conosce soltanto la ripetizione, superaogni possibilità emancipativa, decreta l’inattualità di ogni esperienza straniantelegata all’arte nel momento in cui assume giocosamente «una forte componente dinon-autenticità rif lessiva», che si esercita come stabile disposizione a «deliziarsidella non-autenticità della normale esperienza turistica»11. L’immagine raggiuntanel museo non apre allo straniamento, ma si dà essa stessa come sanzione della suaimpossibilità, nella tranquilla certezza che l’autentico non sia alla portata. Ariscontro empirico di questa disposizione d’animo si può ricordare come la mag-gioranza dei visitatori si dichiarino convinti, a proposito dei capolavori che si muo-vono da ogni distanza per ammirare, che i pezzi esposti non siano gli originali, madelle copie: convinzione che si rafforza per le opere più note come la Gioconda diLeonardo. La museizzazione, la diffusione senza soste e senza limiti del museo edei suoi spazi “simultanei”, permette ai viaggiatori del turismo culturale di restarea casa, o forse piuttosto di viaggiare essendo costantemente sulla rotta di casa. Laletteratura sociologica ci ricorda costantemente che possedere una casa è una con-dizione per il viaggio del turista, che fin dall’inizio è già di ritorno. Ma il quadroforse più efficace di questa condizione lo dà un giornale, l’Economist (1991): «Men-tre l’architettura del villaggio globale diviene sempre più complessa, un’altrastruttura viene costruita con minore ostentazione – il bozzolo per il viaggiatore chedeve recarsi all’estero, ma non vuole abbandonare casa sua»12. È un po’ come se il

8 M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, tr. it. A. Serafini, Torino, Boringhieri, 2004, p. 55.9 Ivi, p. 69.10 Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, tr. it. R. Marchisio e S. Neirotti, il Mulino, 1999,pp. 36, 41.11 R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, tr. it. A. De Leonibus, Trieste, Aste-rios, 1999, p. 234; su questo punto si veda anche J. Urry, cit., pp. 15-34.12 Citato in R. Robertson, cit., p. 235.

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museo avesse portato a compimento il compito che Gadamer gli riconosce nell’eco-nomia della coscienza estetica, quello di consolidare, di istituzionalizzare il suotratto di “simultaneità”, e che questo si fosse prodotto non nella dimensione delsuo inerente essere differenziato e separato, della sua esclusione dal mondo vita, maal contrario attraverso l’inclusione e l’assimilazione di quel mondo: tale sarebbe lacondizione di un’ “estetizzazione” compiuta. A un tale quadro sbozzato nei terminidell’estetica e dell’ermeneutica gadameriana corrisponde perfettamente il processoche la sociologia indica con l’orribile termine di “glocalizzazione”, traduzione diun’espressione giapponese da tempo utilizzata nel mondo del marketing13. Nel mon-do del consumo di cultura amministrato dal museo e dal turismo si è realizzatoun ibrido, che ha l’ingombrante stabilità del globale e la consapevole parzialitàinstabile, mutevole del locale.

Ma è precisamente contro questo ibrido mostruoso che porta i tratti di unacompiuta derealizzazione che Vattimo, il più significativo fautore dell’ “altra” let-tura della museizzazione in chiave positiva, propositiva ed essenzialmente anti-adorniana, vede la possibilità di un vittorioso intervento dell’arte, da rinnovarenella tradizione avanguardistica dello shock e dello spaesamento, anche se destinatoa dispiegarsi come arte della comunicazione e dell’esperienza piuttosto chedell’opera. In questa prospettiva diventa importante e probabilmente decisiva unarinnovata funzionalità culturale del museo, in grado di tenere aperto e praticarecon una costante oscillazione lo spazio tra locale e globale, disposto non tanto perl’esibizione di oggetti, quanto per il prodursi di esperienze. I soggetti non sareb-bero i turisti chiusi nei loro bozzoli di presente tutti uguali, ma attori liberatinell’oscillazione costante tra localizzazione e globalità, riconosciuti come dialettinel mondo della comunicazione generalizzata. La condizione decisiva perché questopossa accadere è di portare fino in fondo, e con ciò auspicabilmente aldilà di esso,il processo di perdita della realtà, con i suoi tratti inquietanti di estetizzazione,ovvero di glocalizzazione.

3. L’esperienza di Sant’Ivo.

La “verità” possibile dell’esperienza estetica tardo-moderna è probabilmente il “colle-zionismo”, la mobilità delle mode, il museo anche; e alla fine, lo stesso mercato, comeluogo di circolazione di oggetti che hanno demitizzato il riferimento al valore d’uso e

13 Ivi, p. 235.

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sono puri valori di scambio: non necessariamente solo di scambio monetario, ma anchedi scambio simbolico, sono status symbols tessere di riconoscimento di gruppi14.

Nella dissoluzione del profilo tradizionale del museo, come collettore-espositore diopere, nel suo disporsi all’esperienza del turista culturale e nel suo integrarsi strut-turale in un mercato globale di f lussi Vattimo non vede il dispiegarsi di una mossaamministrativa in senso adorniano, vi scorge al contrario la possibilità di un attivocommercio simbolico, nel quale nuove identità si possono determinare e con ciòemancipare. Vattimo non è certo il solo a intravedere un ruolo non amministratodel museo nelle sue recenti metamorfosi. C’è ad esempio chi con estrema convin-zione autorevolmente afferma che:

I musei non sono più da considerare come luoghi che passivamente conservano edespongono il capitale culturale che è stato loro affidato. Sono dei formatori, o più anco-ra, dei creatori di valori. Idealmente educano la gente a divenire da parte loro soggetticritici, che imparano ad imparare, a porsi in perenne oscillazione come domande sulmondo. Questa educazione, che mi rappresento come una funzione etica, è mirata aduna maturazione dell’esperienza e si sta affermando non più come un prodotto deriva-to, ma come la missione centrale del museo15.

A questa tesi l’autore perviene partendo da due presupposti, che considera pro-priamente estetici: il fatto che il museo più che una somma di istituzioni sia unfatto unico, globale, e la convinzione che da sempre, fin dalle sue origini, il museosia stato propriamente una collezione di collezioni, ovvero un insieme di oggettinon fisici, ma dell’ordine del discorso, destinati a creare esperienze16. Come si vedesi tratta di una prospettiva sul museo e sulla sua funzione in gran parte concilia-bile con quella di Vattimo. Valorizzando tuttavia articolazioni genealogiche diversedella storia del museo e della collezione, le due prospettive divergono nel tono e nelprogetto culturale che vogliono favorire. Se Hein auspica il recupero dello spiritooriginario del collezionismo moderno, Vattimo si spinge nella preistoria della col-lezione e del museo e vede nella chiesa, nel luogo di culto cristiano un termine di

14 G. Vattimo, La società trasparente, Milano, Garzanti, 2000, p. 96.15 H.S. Hein, The Museum in Transition: A Philosophical Perspective, Washington, Smithsonian Books,2000, p. XII.16 «L’interesse estetico non risulta ristretto all’opera d’arte nel museo d’arte, la cui influenza e il cuistatus io ritengo che siano eccessivi. Il dominio estetico invece include il mondo di tutti i musei e ilmuseo di tutto il mondo. È in continuità e si sovrappone a tutto quel che è eticamente doveroso ecognitivamente richiesto, ovunque si dia» (Ibid.).

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confronto produttivo per orientare il destino del museo postmoderno. È quel chefa proponendo alla rif lessione la cosiddetta “esperienza di Sant’Ivo”17. La cosa nonpuò di per sé sorprendere: le stesse storie del collezionismo indicano nelle chieseuna condizione che anticipa, anche se non inaugura le forme moderne della colle-zione. K. Pomian sostiene che nel Medioevo: «ogni chiesa, pur essendo un luogodi culto, offriva … allo sguardo una quantità d’oggetti, vere e proprie collezio-ni»18. Non solo, ma i moderni musei nascerebbero proprio sostituendo: «le chiesein quanto luoghi dove tutti i membri di una società possono comunicare nella cele-brazione di uno stesso culto»19.

L’esperienza di Sant’Ivo è proposta attraverso il confronto di due immagini,una sorta di dittico esemplare. Da una parte quella del turista che pur imbaraz-zato non ha remore ad entrare in chiesa nel corso di una funzione per compiere lasua opera di riconoscimento; dall’altra quella improbabile di un credente che pregadi fronte ad un quadro di soggetto sacro esposto in un museo20. Nel primo casocon lo sguardo insieme accogliente e perplesso del credente si confronta quelloesperto del turista che ascrive il primo alla “simultaneità estetica” che sta speri-mentando. Nel secondo lo sguardo eventuale del visitatore turista non potrebbe cheessere stupefatto e scandalizzato21. In sostanza il credente dedito al suo culto risul-ta ben più tollerante nei confronti del turista, di quanto questi lo sarebbe a partiinvertite nel museo, nella sua dimensione propria, nei confronti del primo. Vorrei

17 G. Vattimo, cit., pp. 73-92.18 K. Pomian, Collezione in Enciclopedia, vol. III, Torino, Einaudi, 1978, p. 339.19 Ivi, p. 362.20 Cfr. G. Vattimo, cit., pp. 73-75.21 In realtà la situazione nei musei è già oggi ben più mossa. Il culto rispettoso della bellezza è sol-tanto una delle forme cultuali, anche se si tratta di quella dominante, che i musei hanno conosciutodalla loro nascita moderna. Le identità “immaginate” (cfr. in proposito “Etnorami globali: appunti equestioni per un’antropologia transnazionale” in A. Appaduraj, Modernità in polvere, tr. it. P. Vereni,Roma, Meltemi, 2000) dei turisti resistono al filtro della bellezza e della conoscenza allestito daicuratori, rendendo babelico il quadro etnografico del museo. Ad esempio la nuova fortuna di Leo-nardo, tra romanzo e cinema, ha ulteriormente aumentato l’appetito consumistico dei visitatori.«Questo attirerà ancora più persone bizzarre, che già non mancano». Afferma un custode del Lou-vre, che poi specifica: «Ci sono i mistici che si prosternano davanti alle statue egiziane o depongonole loro offerte ai piedi degli idoli africani, i realisti nostalgici, il mago che pretende di “parlare” igeroglifici … I fans di Dan Brown li trovi soprattutto la sera … in piccoli raggruppamenti intornoalla Vergine delle rocce …» (V. Maurus, La vie secrète du Louvre, “Le Monde”, 20 agosto 2005).

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dire: il credente dispone di uno sguardo distratto, è in grado di sottrarsi alla con-dizione del culto e di rientrare senza sostanziale imbarazzo: riesce ad oscillare tral’adorazione e la visione del mondo. Il turista culturale non ha categorie accettabiliper accogliere il credente inaspettatamente colto in preghiera nel suo regno, risul-tando inapplicabile a quel punto la categoria estetica, l’unica di cui dispone.

4. L’immagine dopo Nicea

La prospettiva di sul museo tien conto del recupero di un più generale compitoemancipativo dell’arte nel mondo della comunicazione generalizzata che Vattimoritiene possibile: quello di permettere a tutti i soggetti di prendere parola e comu-nicare oscillando tra appartenenza e straniamento, tra localizzazione e globalizza-zione, per scompigliare il mondo delle immagini, intaccare la perfezione del delit-to. Il punto di difficoltà è chiaro: la globalizzazione è precisamente quel che si dàcome sistema di ubicazione universale. Nella compresenza dei luoghi si disponel’esperienza di apparente movimento e di sostanziale stasi propria del turista, comeviaggio dall’immagine all’immagine. Vivere la vita del mondo della comunicazio-ne generalizzata, la dimensione “autostressante”22 del mondo globale, quella cherende cronica l’esposizione continua di ciascuno a tutto, l’esperienza dell’essereraggiungibile in qualsiasi momento da qualsiasi altro punto, significa disporsi inuna condizione che Gehlen direbbe di cristallizzazione, ovvero della compressionestabile di ogni possibilità di oscillazione. Quel che Vattimo prospetta, quandorichiama la radice religiosa dell’arte nel confronto tra chiesa è museo, è dunque lapossibilità di ritrovare nella forma del culto cristiano, nella sua mobile disposizionead una distrazione esercitata come oscillazione competente, il dispositivo per incri-nare la contemplazione cristallizzata del turista d’arte, manifestamente disposta afarsi riconoscere come consumo, scansione consumistica di una “periodizzazione”del mercato montata con globale precisione. Questa prospettiva, si intende, è daprendere ragionevolmente in considerazione, una volta convenuto che la soluzionedi tutto, il recupero di un tratto emancipativo nella fruizione dell’arte e della cul-tura nel museo non si riconosca nella proliferazione dei comportamenti “bizzarri”,ovvero risolutamente non estetici, ma cultuali e ideologici, che come abbiamo vistogià affollano lo spazio del museo. Riconoscere come emancipazione dei soggetti

22 Cfr. P. Sloterdijk, L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, tr. it. di B. Agnese,Roma, Carocci, 2002.

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proliferati la legittimazione della loro “bizzarria” significherebbe sottrarre con ciòstesso ogni tratto di localizzazione al museo, consegnandolo definitivamente aldestino di “non luogo” verso il quale sembra tuttavia già per suo conto avviato. Pri-ma di rassegnarsi a classificare gli spazi del museo e dell’esposizione nella catego-ria del supermercato, ridotti compiutamente a strategia di mercato e ad occasionedi consumo, val la pena di vedere se e come sia possibile recuperarne davvero unacarica emancipativa dalla sua radice cristiana.

La disponibilità del credente cristiano a distrarsi in un’oscillazione competente,nel distacco temporaneo ma sostanzialmente convenuto e coltivato dall’oggetto delsuo culto, è maturata nell’esperienza secolare di intreccio e di dialogo tra parola eimmagine aperta dal dispositivo teologico e dottrinale per il culto nel secondoConcilio di Nicea. Il concilio del 787 assolve il compito di annullare le conclusioniiconoclastiche del precedente concilio di Hiera (754): in sostanza da una partelegittima la raffigurazione del sacro, fondandola sulla sostanziale corrispondenzatra immagine e racconto evangelico23, dall’altra di fronte e nella dimensione dellarappresentazione apre per il culto del credente uno spazio di oscillazione tra vene-razione dell’immagine e adorazione del prototipo, tra forma dell’immagine e pre-senza del divino24. L’immagine è raccolta ma non avulsa dal racconto evangelico e

23 Si legge negli atti del concilio: «Questa rappresentazione è apportatrice di un beneficio simile aquello del racconto evangelico, giacché cose che alludono reciprocamente l’una all’altra senza dubbiorecano il riflesso l’una dell’altra» (L. Russo (a cura di) Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’imma-gine, Palermo, Aesthetica edizioni, 1997, p. 147). «Quando vediamo in un’icona l’angelo che portala buona notizia alla Vergine, dobbiamo certamente andare con la mente al ricordo del racconto evan-gelico: “l’angelo Gabriele fu mandato dal Signore alla Vergine. E lui andò da lei e disse: ‘Ave, o pienadi grazia, il Signore è con te. Benedetta sei tra le donne’ ”. È dal Vangelo, dunque, che abbiamoascoltato il mistero comunicato alla Vergine dall’angelo, e in questo modo ce ne ricordiamo, e,quando vediamo la stessa cosa su un’icona, percepiamo l’evento in modo più vivido» (ivi, p. 92).24 «La quarta sessione del concilio affronta la distinzione tra i concetti di proskynesis (venerazione) elatreia (adorazione). Qui, come in altri momenti della discussione … parve opportuno precisare chealle icone spetta una prosternazione d’onore (thimetiké proskynesis), ma non la vera adorazione (alethinélatría) che spetta alla sola natura divina; l’onore reso all’immagine, infatti, passa al “prototipo”,ovvero a colui che essa rappresenta, così come gli altri atti della pietà popolare (come l’uso di baciarele icone) erano da intendere come tributi alla persona raffigurata. Si ritenne di dover sottolineare,insomma, che il culto delle icone non poteva essere confuso con un atto di idolatria, come pretende-vano gli iconomachi: in alcun modo la semplice materia poteva essere in sé oggetto di devozione, masolo in quanto mezzo che pone il fedele in rapporto con il sacro, esattamente come la croce non vienevenerata per il legno di cui è fatta, ma perché ricorda a tutti la passione di Cristo» (M. Re, Il secondo

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nel suo culto attuato dal credente come venerazione si apre la possibilità di una pre-senza divina, che l’adorazione del prototipo rende reale. Venerazione dell’immagi-ne e adorazione del prototipo si legittimano reciprocamente. La promessa di unapresenza soprannaturale giustifica l’indugio contemplativo sull’immagine.L’immagine condivisa nella sua adesione, nel suo intreccio con il racconto evange-lico propone e conferma la presenza del divino nel culto. Lo spazio dell’oscillazionepossibile e necessaria è quello tra un’immagine che significa e la presenza delsignificato.

Il secondo concilio di Nicea chiude in termini dottrinali una lunga vicenda,anche se non la conclude storicamente, consegnandola piuttosto a dispute e dibat-titi che durano fino ai giorni nostri. Si tratta della vicenda attraverso la quale siimposta, prende forma e si consolida definitivamente il “mnemotopo” di Gerusa-lemme nella comunità cristiana delle origini25. Se è entro la fine del primo secoloche si stabilizzano le scritture evangeliche con l’innesto e il contributo strutturaledella lezione e della “visione” paolina, è tra il primo e il quarto secolo che la comu-nità dei credenti proiettata nella speranza e nell’aspettativa di una redenzionefutura anche se non immediata, fonda tale speranza in un passato e in una memo-ria corrispondente. Un passato e una memoria da costruire come fondazione ade-guata della speranza, da incardinare sul riconoscimento, la messa in immagine ela connessione dei luoghi che furono scena della vicenda alla quale Paolo assegnadefinitivamente il vero significato: la vicenda del figlio di Dio, che si fa uomo eriscatta con la propria morte i credenti. Una storia che dettata nell’impresa costrut-tiva da un’aspettativa di emancipazione si consolida come fonte perenne dell’attesa.La costruzione del passato e della memoria trova il suo materiale essenziale nelle

Concilio di Nicea e la controversia iconoclastica, in L. Russo, cit., p. 179). Naturalmente tutto ciò nonchiuse lo scontro con gli iconoclasti (iconomachi), come d’altra parte non impedì eccessi di carattereidolatrico o superstizioso, come ad esempio: «scegliere delle icone come padrini o … attribuirepotere taumaturgico all’intonaco su cui era dipinta un’immagine sacra», Ibid.25 Sulla nozione di mnemotopo confronta M. Halbwachs, La topographie légendaire des évangiles en terresainte. Etude de mémoire collective, Paris, PUF, 1971. È a questo autore, alla sua opera (cfr anche M.Halbwachs, I quadri sociali della memoria – ed. or 1927 –, tr. it. G. Brevetto, L. Carnevale, G. Pec-chinenda, Napoli, Ipermedium 1997) e ai suoi prosecutori come Jan Assmann (cfr. J. Assmann, Lamemoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, tr. it. F. De Angelis,Torino, Einaudi, 1997), che faccio riferimento in questo rapido riepilogo della vicenda che vede dauna parte l’affermarsi di una memoria e di un’iconografia determinata nella primitiva cristiana,dall’altra la vicenda dello scontro tra iconoclasti e iconoduli segnata dalle delibere dottrinali dei con-cili.

Chiese e musei 61

immagini, nelle reliquie e nei resti dei luoghi. La comunità cristiana nei ripetuti eplateali episodi di idolatria superstiziosa che segnano la sua storia tra il quarto el’ottavo secolo cede di fronte ad un rischio che era a quel punto inevitabile. L’ico-noclastia è una reazione naturale, doverosa per una dottrina che si era sviluppatanel solco e nell’interazione con la religione ebraica, e aperto con ciò un conto impor-tante con l’interdizione anticotestamentaria delle immagini. L’iconodulia si affer-ma soprattutto perché nella meditata soluzione nicena si dimostra in grado di sal-vare un passato essenziale al progetto dottrinale nella sua spettacolare evidenza dirappresentazione, che l’iconoclastia metteva a rischio impedendo il ricorsoall’immagine. Uno spazio di oscillazione tra la presenza della forma e quella deldivino viene reso praticabile per il culto: l’adorazione del prototipo si produce attra-verso la forma dell’immagine e ad essa costantemente torna per confermarsi e con-fortarsi. L’immagine della rappresentazione come mnemotopo si intreccia conquella che dispone la chiesa come edificio e ordina la vita della comunità dei cre-denti in una prospettiva di attesa.

È dunque il tratto emancipativo, la promessa di redenzione che conferisceall’immagine del passato lo spazio per l’oscillazione e la forza dello straniamento.Quel che il museo può imparare dalla pratica del culto cristiano non è nulla oltrequesto. È la speranza che permette di rammemorare un passato nelle immagini,di distrarsi perciò nel culto senza disorientarsi: l’oscillazione è il movimento natu-rale del culto, la polarità di speranza e memoria detta la sua pulsazione vitale. Ilturista culturale non troverà mai nell’immagine la speranza che non porta con sé:nel suo bagaglio c’è soltanto il biglietto di ritorno e alla fine del viaggio la confer-ma rassicurante di non essersi mai mosso da casa. Nel suo presente isolato daentrambi i lati il turista sembra realizzare il paradigma dell’idolatria superstiziosa.

Hal Foster ARCHIVI D’ARTE MODERNA

Come in Michel Foucault, il termine archivio indica «il sistema che governa l’apparizionedegli enunciati», la trama di rapporti che struttura le espressioni di un periodo storico. Ilsaggio traccia lo schema di alcune relazioni archiviali dominanti in Occidente tra la pra-tica dell’arte moderna, il museo d’arte e la storia dell’arte, nel periodo che va all’incircadal 1850 al 1950. Se il vecchio museo, come immaginato da Baudelaire, era il luogo dellarianimazione mnemonica dell’arte visiva, il nuovo museo tende a separare l’esperienzamnemonica da quella visuale. La funzione mnemonica del museo viene sempre più deman-data all’archivio elettronico

Gli “archivi” del mio titolo non sono sale polverose, piene degli aridi documentidell’erudizione accademica. Intendo il termine come lo ha usato Foucault, per indi-care «il sistema che governa l’apparizione degli enunciati», che struttura le parti-colari espressioni di un periodo particolare1. In questo senso un archivio non è diper sé né affermativo né critico, ma fornisce semplicemente i termini del discorso.Tuttavia questo “semplicemente” non è cosa da poco, perché se un archivio strut-tura i termini del discorso, limita anche ciò che può o non può essere espresso inun tempo e in un luogo determinato. Voglio tracciare qui lo schema di alcuni spo-stamenti significativi nelle relazioni archiviali dominanti in Occidente tra la pra-tica dell’arte moderna, il museo d’arte e la storia dell’arte, nel periodo che vaall’incirca dal 1850 al 1950. Mi propongo in particolare di considerare la «strut-tura-di-memoria» che questi tre moventi hanno prodotto insieme in questo peri-

1 M. Foucault, L’archeologia del sapere, tr. di G. Bogliolo, Milano, Rizzoli, 1980, p. 173. A differenzache in Foucault, voglio tuttavia collocare questi archivi nel processo storico; i miei accenti cadrannosugli spostamenti tra l’uno e l’altro.

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 63-78

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odo, e di descrivere all’interno di questa struttura della memoria una «dialetticadel vedere» (confido che questi termini diverranno più chiari in seguito)2. Fisseròl’attenzione su tre momenti particolari – forse più euristici che storici – ed esem-plificherò ciascuno di essi con una coppia determinata di personaggi e testi. Inqualsiasi modo li si voglia intendere, i miei esempi rimangono uomini e i miei testicontinuano a far parte del canone, ma gli uomini, visti retrospettivamente, sem-brano un po’ meno trionfanti, e oggi il canone sembra meno una barricata da pren-dere d’assalto che una rovina nella quale rovistare. Questa condizione (non neces-sariamente melanconica) distingue il presente dell’arte e della critica, politicamen-te e strategicamente, da un recente passato (il passato della critica postmodernistadel modernismo), e parte del mio obiettivo è di sottolineare questa differenza.

La mia prima coppia in questa dialettica del vedere è composta da Baudelairee Manet. «Il ricordo», scrive Baudelaire nel suo Salon del 1846, «è la grande pietradi paragone dell’arte; l’arte è una mnemotecnica del bello»3. Ciò che egli ne deduceè che una grande opera in una tradizione artistica deve evocare la memoria di pre-cedenti più illustri all’interno di questa tradizione, quali suoi fondamenti e con-ferme (per Baudelaire ciò significava la pittura di ambizioni più elevate apparsa dalRinascimento in poi, poiché denigrava la scultura). Tuttavia l’opera non deve esse-re sopraffatta da questi precedenti, ma deve attivare il ricordo di tali importantiimmagini in modo subliminale, rinviando ad esse, camuffandole, trasformando-le4. Come istanza positiva di questa «mnemotecnica del bello», Baudelaire indicala persistenza di La zattera della Medusa (1819) di Géricault nella Barca di Dante(1822) di Delacroix. Questo genere di subtestualità delle retroimmagini mnemo-niche, da tener ben distinto da qualsiasi genere di pastiche di citazioni palesi, è ciòche costituisce per lui una tradizione artistica, quasi nel senso etimologico di “tra-duzione” come trasmissione di significati potenziali, e alla luce di questo la memo-ria è, per Baudelaire, il medium della pittura5.

2 Ho preso in prestito il primo termine da Michael Fried (vedi nota 4) e il secondo da Susan Buck-Morss in Dialectics of Seeing: Walter Benjamin and the Arcades Project, Cambridge, MIT Press, 1989.3 Ch. Baudelaire, Salon del 1846, in Poesie e prose, a cura di G. Raboni, tr. it. di E. Somarè, Milano,Mondatori, 1973, p. 729.4 Vedi M. Fried, Painting Memories: On the Containment of the Past in Baudelaire and Manet, «CriticalInquiry», 10, n. 3, 1984, pp. 510-542; vedi anche il suo Manet’s Modernism, or the Face of Painting inthe 1860s, Chicago, University of Chicago Press, 1996. Sono debitore di Painting Memories anche per iparagrafi seguenti.

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Potremmo aggiungere due piccole correzioni. In primo luogo, in un capovolgi-mento diventato familiare da quando T. S. Eliot scrisse Tradition and IndividualTalent (1917), queste retroimmagini possono anche essere retroattive: la Barcapotrebbe anche risalire la corrente sino alla Zattera, cioè sino alle sue elaborazionimnemoniche. In tal modo la tradizione non è mai data ma sempre costruita, e inuna maniera sempre più provvisoria di quanto sembri. Questa provvisorietà èdiventata ovvia per noi, al punto che se i modernisti sentivano la tradizione comeun pesante fardello, noi la sentiamo come un’insopportabile leggerezza dell’essere– sebbene alcuni continuino a proiettarvi un peso che non ha più, come se ne aves-simo bisogno quale oggetto abituale di affezione o di antagonismo. In secondo luo-go, il modello di pratica artistica sostenuto da Baudelaire è già storico-artistico, epresuppone già lo spazio del museo come la struttura dei suoi effetti mnemonici,come il luogo (più immaginario che reale) dove una tradizione artistica si dispiega.Considerata in modo diverso, questa «mnemotecnica del bello» presuppone lo sno-do istituzionale tra l’atelier e lo studio, dove tali trasformazioni sono poste in ope-ra, e la mostra e il museo, dove esse diventano effettive per gli altri (questo rinvioè ulteriormente mediato, naturalmente, dai molti discorsi dei critici del salon, dailettori di recensioni, dai caricaturisti, dalle chiacchiere e così via). In breve, nelloschema di Baudelaire la pittura è un’arte della memoria, e il museo la suaarchitettura6.

Poco dopo questo intervento di Baudelaire nel dibattito sulla memoria artisticadella metà del XIX secolo, emerge Manet. Come ha affermato Michael Fried, il pit-tore francese ha scompigliato in qualche modo il modello di Baudelaire, allorchéil suo operare spinge la subtestualità delle retroimmagini verso un pastiche di cita-zioni palesi. In modo più esplicito dei suoi predecessori, Manet espone o megliopropone una «struttura-di-memoria» della pittura europea dal Rinascimento inpoi, o almeno un nucleo allusivo in questo testo complesso. Secondo Fried, le cita-zioni di Manet sono palesi perché egli aspira a sussumere un passato postrinasci-

5 Preferisco il termine “sopravvivenza” come persistenza vitale di questi significati, Nachleben nelsenso di Aby Warburg (vedi più avanti). Christopher Pye mi fa notare che sia il quadro di Gericaultche quello di Delacroix prendono a tema la sopravvivenza, e Eduardo Cadava che un significatosepolto di “tradizione”, forse non privo di rilievo in questo contesto, è “tradimento”.6 Non potrebbero forse alcune delle tecniche mnemoniche di cui Frances Yates ha seguito il percorsodall’antichità al Rinascimento, nel suo classico L’arte della memoria (Torino, Einaudi, 1993), conti-nuare nel museo moderno?

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mentale della pittura europea – attraverso allusioni di parte-per-il-tutto all’artefrancese, spagnola e italiana (i suoi riferimenti importanti sono Le Nain,Velàzquez, e Tiziano, tra gli altri, e il suo Vecchio musicista, 1862, è una sorta dicompendio di riferimenti)7. In questo modo Manet produce, forse per la prima vol-ta, l’effetto di un’arte trans-europea, di una quasi-totalità di tale pittura – uneffetto che presto permetterà di immaginare una Pittura con la “p” maiuscola, eche porterà più tardi ad associare Manet con l’avvento dell’arte moderna.

Un’ovvia esemplificazione di questo è Le déjeuner sur l’herbe (1863), non soloper le sue ben note evocazioni di maestri rinascimentali come Raffaello (un det-taglio del perduto Giudizio di Paride è citato nelle figure centrali, attraverso un’inci-sione di Marcantonio Raimondi), ma anche per la sua inusuale combinazione deitradizionali generi pittorici come il nudo, la natura morta, il ritratto e il paesaggio,ognuno dei quali è trasformato in un «dipinto della vita moderna». Per Fried que-sto testo di immagini e combinazione di generi crea una più elevata unità della pit-tura, che è caratteristica di Manet e dei suoi seguaci, un’unità di cui Fried segueil lignaggio a partire dal tableau di Diderot fino all’astrazione tardo-moderna rag-giunta da Frank Stella: un’unità interna al dipinto che promuove un’autonomia deldipinto. Ovviamente Baudelaire vedeva le cose in modo diverso: con il suo ambi-valente omaggio a Manet come il primo nella «decrepitezza» della sua arte, sug-geriva che la struttura-di-memoria della pittura, la sua continuità come subtestua-lità di retroimmagini, corre con Manet il rischio di corrompersi, forse perché lecitazioni sono troppo esplicite, troppo varie, troppo «fotografiche»8. Comunque,piuttosto che scegliere una lettura o l’altra, potremmo conciliare entrambi i puntidi vista proponendo – in un modo non così paradossale come potrebbe sembrare– che la struttura-di-memoria della pittura post-rinascimentale sia l’effetto di unaforzatura nel medesimo istante in cui viene raggiunta.

Permettetemi di sottolineare due punti ricordati poco fa: l’arte moderna vienegià concepita da Baudelaire e Manet in termini implicitamente storico-artistici, equesta concezione dipende dalla sua collocazione museale. Inoltre, tale museo èsoprattutto immaginario, un’estensione del Louvre basata su tracce mnemoniche,imitazioni di bottega, riproduzioni fotografiche e così via – un «museo immagi-

7 M. Fried, Painting Memories, cit., pp. 526-30.8 Baudelaire, lettera del 1865 a Manet, in Correspondance, 2 vv. (Paris, 1973), vol. 2: p. 497. Per certiaspetti Jeff Wall ritorna a questa questione cruciale in Manet, e la reclama come la dinamica propriadella sua pratica immaginale.

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nario» prima che così lo definisse André Malraux o meglio, un museo con miriadidi pareti, sia reali che fittizie. E tuttavia questa struttura-di-memoria è moltolimitata, incentrata quasi per intero sulla pittura e lungo un tracciato geograficoristretto (per lo più da Parigi a Roma, con poche deviazioni verso l’Olanda e la Spa-gna – difficilmente oltre l’Europa). Ancor più in là, tale struttura è decisamenteedipica, costruita su una rete di botteghe patriarcali e gruppi rivali da “David aDelacroix” e oltre9. Eppure sono proprio queste limitazioni a rendere la pitturafrancese del diciannovesimo secolo – le trasformazioni dei suoi elementi e le dislo-cazioni dei suoi desideri – così efficace da un punto di vista formale, semiotico emnemonico.

In gran parte queste condizioni sussistono ancora per il modello di Valéry,Proust e il museo che Theodor Adorno collocava, nel suo saggio del 1953 che recaquesto titolo, verso la fine del diciannovesimo secolo. Ma qui, con Valéry e Proust,la prossima tappa in questa dialettica museale del vedere, sono trascorsi alcunidecenni da Baudelaire e Manet, e i modi di guardare al museo sono un po’ cam-biati. Per Adorno, Valéry rappresenta la posizione di chi pensa il museo sia il luogodove «giustiziamo … l’arte del passato»10. «Museo e mausoleo non sono legati sol-tanto da un’associazione fonetica», scrive il critico tedesco sostituendosi alla vocedel poeta e critico francese. «I musei sono come tombe di famiglia delle opered’arte. Essi testimoniano la neutralizzazione della cultura»11. Secondo Adorno,questo è il punto di vista del produttore d’arte nello studio, che può considerare ilmuseo solo come luogo della «reificazione» e del «caos», ed egli lo distingue dallavisione ascritta a Proust. Nello schema di Adorno, Proust inizia là dove Valéry siferma – con «la sopravvivenza dell’opera» – che Proust vede dalla posizione privi-legiata non di chi fa l’arte ma dello spettatore dell’arte nel museo. Da un punto divista idealista à la Proust, il museo è una sorta di perfezione fantasmagorica dellostudio, un luogo dello spirito dove la materiale confusione della produzione arti-stica viene sublimata – dove, con le sue parole, «la sala di museo … simboleggiamolto meglio con la sua nudità e l’assenza di ogni particolarità gli spazi interiori

9 Su questa struttura edipica nella pittura francese del diciannovesimo secolo vedi Norman Bryson,Tradition and Desire: From David to Delacroix, Cambridge, Cambridge University Press, 1984, e Tho-mas Crow, Emulation: Making Artists in Revolutionary France, New Haven, Yale University Press,1995.10 Th.W. Adorno, Prismi, tr. di Alba Burger Cori, Torino, Einaudi, 1972, p. 178. 11 Ivi, p. 175.

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dove l’artista si è astratto per creare»12. Piuttosto che il luogo di una fattuale rei-ficazione, allora, il museo per Proust è il luogo di una rianimazione fantastica, diuna autentica idealizzazione spirituale. Al posto di un caos di opere, per Proust ilmuseo mette in scena «il processo tra le opere [che] è … un processo di verità»(qui è Adorno a parlare per lui)13. Sebbene Proust presenti questo “processo” comepositivo, si tratta essenzialmente dello stesso conflitto edipico che attraversa lastruttura-di-memoria descritta poco fa; è solo più agonistico della subtestualitàdelle retroimmagini suggerita da Baudelaire. Infatti Proust e Valéry rappresentanoversioni più estreme delle posizioni associate a Baudelaire e Manet: la prima figuradi ogni coppia accentua la rianimazione mnemonica del “bello”, mentre l’ultimapone in primo piano la sua reificazione museale.

Per la stessa ragione, comunque, le opinioni di Valéry e Proust sul museo d’artenon sono in opposizione, più di quanto non lo siano i modelli di memoria artisticaproposti da Baudelaire e Manet. Ognuna di queste coppie indica piuttosto una dia-lettica di reificazione e rianimazione che struttura tutte queste rif lessioni sull’arte eil museo nel moderno. Come abbiamo visto, Adorno usa la prima nozione,«reifi-cazione», in relazione a Valéry; Adorno la trae naturalmente da Lukács, che la ela-borò a partire dai passi in Marx sul feticismo della merce non molto tempo dopole affermazioni di Valéry e di Proust. Nel suo importante saggio Reificazione ecoscienza di classe (1922), Lukács sosteneva che la rianimazione spirituale richiestada Baudelaire e Proust è una compensazione idealistica della reificazione capitali-stica; in realtà la reificazione e la rianimazione costituiscono una delle «antinomiedel pensiero borghese» che egli descrive14. Questa antinomia (io l’ho chiamata, piùottimisticamente, dialettica) permea anche «la storia dell’arte come disciplinaumanistica», e questo è ciò che voglio qui rimarcare: la storia dell’arte è nata dauna crisi, sempre tacitamente sottintesa, talora enunciata in tono drammatico, da

12 Ivi, p. 180; M. Proust, À l’ombre de jeunes filles en fleurs, 2 vv. (Paris), vol. 2: pp. 62-63 (tr. it.All’ombra delle fanciulle in fiore, Milano, Mondatori, 1963). Questa breve riflessione sul museo cadenel mezzo di una lunga meditazione sulle partenze e gli arrivi, sulla decontestualizzazione e riconte-stualizzazione ed il loro effetto sulle abitudini e la memoria. «A questo riguardo così come per qual-siasi altro», scrive Proust, «la nostra epoca è infettata da una mania per esporre le cose soltantonell’ambiente di cui fanno parte, sopprimendo così la cosa essenziale, l’atto della mente che le iso-lava da quell’ambiente».13 Ibid.14 G. Lukács, Storia e coscienza di classe, tr. di G. Piana, Milano, Mondatori, 1973, p. 144.

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una frammentazione e reificazione della tradizione, alla quale la disciplina deveporre rimedio con un progetto salvifico che avviene per via di ricostituzione e ria-nimazione. Non voglio dire, come notò Karl Kraus della psicoanalisi, che la storiadell’arte sia la malattia di ciò di cui crede essere la cura. Le crisi della memoria allequali la disciplina reagisce sono spesso ben reali, ma proprio perché risiedono neifatti, la storia dell’arte non può risolverle ma solo spostarle di luogo, sospenderle,o altrimenti continuare ad elaborarle15.

In questa seconda parte voglio includere un’altra coppia di figure, meno dia-lettica delle altre ma più importante per la storia dell’arte: Heinrich Wölff lin eAby Warburg16. Come i loro (quasi) contemporanei Valéry e Proust, Wölff lin eWarburg ereditano la relazione archiviale associata qui a Baudelaire e Manet, laprima a perimetrare ad un tempo solo la totalità dell’arte europea ed il caos deiframmenti museali. In questa luce, il primo momento archiviale non può che esi-gere il genere di sintetici termini modellizzanti che questi fondatori della storiadell’arte proposero nel nostro secondo momento: mi riferisco agli «stili» diacriticidi Wölff lin (lo schema del Classico contrapposto al Barocco esposto nei Concettifondamentali della storia dell’arte, 1915, e nei testi precedenti) e alle «formule delpathos» di Warburg (le pose e i gesti emotivi nella «sopravvivenza dell’antico» cheegli ricostruiva nel progetto di atlante Mnemosyne e in diversi articoli). Più precisa-mente, questi termini sintetici emergono in modo tale da erigere una difesa controil museo quale caos di frammenti del momento Baudelaire-Manet – una difesa alservizio di un’unità formale e di una continuità storica presentate come sempreminacciate, ma mai perdute17.

Al servizio dell’unità o della continuità: quando Wölff lin discute «le ragionidello sviluppo» in Concetti fondamentali della storia dell’arte, questa domanda sulle«ragioni» potrebbe rivelare il timore che l’arte non mostri più uno sviluppo del

15 Sulle crisi della memoria vedi R. Terdiman, Present Past: Modernity and the Memory Crisis, Ithaca,N.Y., Cornell University Press, 1993. In Tradition’s Destruction: On the Library of Alexandria, «Octo-ber», n. 100, 2002, D. Heller-Roazen afferma che la perdita della memoria possiede un caratterefondativo e non catastrofico rispetto all’archivio (sia la biblioteca che il museo), che la crisi dellamemoria è la sua naturale raison d’être. Queste crisi, però, cadono soltanto in punti cruciali della sto-ria (vedi più avanti).16 Le ultime opere di Alois Riegl – il Riegl del Culto dei monumenti (1903), per intenderci – potreb-bero essere qui ugualmente utili.17 Per non dire, specialmente nel caso di Wölfflin, dell’originalità dell’opera, della soggettività delsingolo, della cultura nazionale e così via.

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genere che egli aveva indicato nel suo passato18. Warburg condivise questa preoc-cupazione, ed entrambi la elaborarono nella loro attività storico-artistica, in un cer-to senso come la loro storia dell’arte. Forse essi speravano che l’ordine là costruitoavrebbe trovato una via per passare nella loro vita, cosa non inusuale forse tra glistorici (dell’arte). In ogni caso, Wölff lin pubblicò i sui Concetti fondamentali solonel 1915, sebbene il libro fosse concluso ben prima, un ritardo che sta a indicare,come ha affermato Martin Warnke, che Wölff lin considerava i suoi Concetti fonda-mentali un «magazzino dell’esperienza sensoriale anteguerra», un archivio dellaraffinata sensibilità degli anni prima del conflitto, destinata ad essere sconvoltadalla Grande Guerra – una struttura-della-memoria dell’arte europea trascrittaper una conservazione pedagogica19. È certo che quando Wölff lin infine pubblicòi sui Concetti fondamentali, l’opera era nata morta dal punto di vista epistemologico,perché inadeguata all’arte più avanzata (il 1915 segna l’avvento del monocromo,della costruzione e il ready-made – tutti elementi che resistono ai termini deldiscorso sullo stile di Wölff lin)20.

18 H. Wölfflin, Concetti fondamentali della storia dell’arte, Milano, TEA, 1994. Questo non è solo ilsentire hegeliano secondo il quale l’arte sarebbe una «cosa del passato» e la storia dell’arte unadisciplina tardiva per definizione. In questione è la logica salvifica inscritta nella dialettica di reifica-zione e rianimazione (vedi più avanti).19 M. Warnke, On Heinrich Wölfflin, «Representations», n. 27, 1989, p. 176.20 Il 1915 è l’anno in cui Duchamp inventa a New York il termine “ready-made”, un modello d’arteche irride il discorso stilistico, in special modo la sua codificazione della singolarità del soggetto edell’autenticità dell’opera; l’anno in cui Malevich espone i suoi primi quadri suprematisti e Tatlin iprimi rilievi costruttivisti, due dei primi tentativi di rovesciare completamente il discorso stilistico,in modo particolare la sua codificazione delle forme borghesi di produzione e di ricezione; e l'annoin cui Picasso torna a disegnare à la Ingres, vale a dire ad una specie di pastiche postmodernista antelitteram che complica qualsiasi narrazione storicista degli stili (ben di più di quanto accada conl’eclettismo ottocentesco che tanto preoccupava Wölfflin). Ma se il formalismo di Wölfflin nonpoteva affrontare l’arte d’avanguardia, alcuni dei suoi seguaci ritennero che poteva essere adattatoalla “pittura modernista”, prima quella francese poi quella americana. Ad esempio, Greenberg eFried cavarono da questa pittura una “dialettica del modernismo” che è espressamente debitrice diWölfflin. Essa era spinta dalla medesima dinamica dell’usura percettiva e della soluzione di pro-blemi formali che Wölfflin vedeva all’opera nella sua storia degli stili, ed anch’essa era dedita allarianimazione dell’arte e della visione contro la reificazione – la reificazione del Kitsch per Greenberge della “teatralità” per Fried, che è come dire della riproduzione meccanica e della civiltà della merce(sulla “dialettica del modernismo” vedi M. Fried, Three American Painters: Kenneth Noland, Jules Oli-tski, Frank Stella, Cambridge, Fogg Art Museum, 1965, ristampato in Art and Objecthood, Chicago,University of Chicago Press, 1998).

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Warburg subì la stessa crisi storica, in modo persino più profondo. Come ènoto, egli venne affidato alle cure di una clinica psichiatrica dopo un collasso ner-voso, avvenuto nell’ottobre del 1918 (data che coincide precisamente con il crollomilitare della Germania), e dovette affrontare, lui ebreo, l’ulteriore minacciadell’ascesa del fascismo dopo la sua guarigione nel 1923. Non vi è dubbio che «lasopravvivenza dell’antico» avrebbe significato cose interamente diverse quattroanni dopo la sua morte (1929), con la salita al potere dei nazisti21.

A questo punto, comunque, il nostro secondo momento nella dialettica muse-ale del vedere è già sfumato in un terzo. Sopra mi riferivo alla «storia dell’artecome disciplina umanistica». Questa frase è familiare agli storici dell’arte, qualetitolo di un saggio del 1940 nel quale Erwin Panofsky definiva la disciplina in ter-mini che indicano anch’essi una dialettica di reificazione e rianimazione. «La ricer-ca archeologica è cieca e vuota senza la ri-creazione estetica», scrive Panofsky «e la

21 Ovviamente noi non abbiamo dovuto affrontare né la guerra mondiale né la minaccia fascistacome Wölfflin e Warburg, ma esistono dei paralleli con la crisi di quasi un secolo fa: una sfida benpiù profonda per la tradizione eurocentrica, un’altrettanto drammatica trasformazione delle basitecnologiche della società, una più ampia estensione dell’Impero capitalista, e così via: quanto bastaper generare oggi un rinnovato timore per la struttura-di-memoria delle pratiche artistiche e delladiscorsività storica. Questo timore viene affrontato in modo efficace – non solamente enunciato – indue recenti interventi nel campo della metodologia storico-artistica: Le jugement de Pâris di HubertDamisch, che segue le tracce di un «giudizio» specifico alla storia dell’arte, e The Intelligence of Art diThomas Crow, che registra la presenza di una «intelligenza» specifica dell’arte; vedi Le jugement dePâris, Paris, Flammarion, 1998 e The Intelligence of Art, Chapel Hill, University of North CarolinaPress, 1999. In modi diversi, entrambi gli autori trattano una logica della trasformazione che purnon essendo immanente all’arte rimane tuttavia ad essa specifica. In tal modo, essi non intendonol’arte come autonoma, ma considerano in ogni caso la storia dell’arte come una disciplina partico-lare. Lo spirito di Warburg aleggia sui due libri, in modo esplicito in quello di Damisch. In terminidi modello disciplinare, Wölfflin oggi è del tutto desueto, così come lo è Panofsky, perlomeno nellasua variante iconografica, perlomeno per il campo modernista. Ci si è richiamati a Riegl per il suointeresse nelle forme marginali e nei periodi negletti della storia, al servizio della critica del canoneavvenuta all’epoca dell’avvento del postmodernismo, in modo tale che è già all’opera una tardaindustria riegliana. L’attrattiva di Warburg va tuttavia al di là del processo di eliminazionedell’avversario. Non vi è dubbio che i suoi guai personali parlino al cuore dei nostri tempi traumato-fili, come anche il suo profondo interesse per la sopravvivenza mnemonica dell’immagine, perquanto problematica possa essere la quasi fusione che egli opera tra l’elemento mnemonico e quellotraumatico. Più importante è il suo ampio metodo, che offre una pratica interdisciplinare nella sto-ria dell’arte capace di toccare problemi, sia psicoanalitici che antropologici, in grado di estendere ilcampo disciplinare.

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ri-creazione estetica è irrazionale e spesso si smarrisce se non è accompagnata dallaricerca archeologica. Ma sostenendosi a vicenda, queste due attività possono soste-nere un sistema che ha un senso, cioè una sinossi storica»22. Quasi buttato in facciaal fascismo, che Panofsky nomina nelle sue conclusioni, questo testo presenta lostorico come un umanista e viceversa, e asserisce che «gli umanesimi … non sonoposti davanti al compito di arrestare ciò che altrimenti scivolerebbe via, ma di vivi-ficare ciò che altrimenti rimarrebbe morto»23. Anche questo è un credo idealista:proprio come Proust voleva lo studio rianimato nel museo, i suoi materiali là subli-mati, Panofsky vuole la rianimazione del passato nella storia dell’arte, dove i suoiframmenti sono redenti. Questa posizione idealista dovrà poi essere contrappostaalla posizione materialistica di Benjamin, che nelle sue Tesi di filosofia della storia,anch’esse scritte nel 1940 davanti al pericolo fascista, quasi inverte la formulazionedi Panofsky: «Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “comepropriamente è stato”», Benjamin scrive, «significa impadronirsi di un ricordocome esso balena nell’istante di un pericolo»24. Piuttosto che rianimare e riordina-re la tradizione, Benjamin esorta a emancipare questi frammenti «dalla loro paras-sitaria dipendenza dal rituale» e a impiegarli nel presente per fini politici (comenotoriamente sosteneva nel suo saggio del 1936, L’opera d’arte nell’epoca della suariproducibilità tecnica25).

In tal modo, se Panofsky tenta di risolvere la dialettica della reificazione e dellavivificazione a favore della seconda, Benjamin tenta di inasprire la medesima dia-lettica a favore della reificazione, o piuttosto di una condizione comunista postasull’altro versante della reificazione. Molti esponenti della sinistra degli anni ventie trenta (il più importante dei quali era Gramsci) raccolsero questa chiamata adaprirsi la strada nella «fosca ragione» del capitalismo che, come affermava SiegfriedKracauer in La massa come ornamento (1927), «non razionalizza troppo, ma troppo

22 E. Panofsky, Il significato delle arti visive, tr. it. di R. Federici, Torino, Einaudi 1999, p. 22.23 Ivi, p. 24. Questa formulazione richiama una preoccupazione hegeliana della disciplina: in chemodo la grande arte può essere ad un tempo una «cosa del passato» ed essere disponibile allacoscienza contemporanea. A questo riguardo vedi M. Podro, The Critical Historians of Art, NewHaven, Yale University Press, 1982, l’introduzione in particolare.24 W. Benjamin, Angelus Novus, tr. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1976, p. 74.25 W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (erste Fassung), inGesammelte Schriften, I, 2, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a. M,Suhrkamp, 1980, p. 442.

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poco»26. Anche Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnicasegue questa linea di “sinistra-fordista”: lo sconvolgimento della tradizione, porta-to avanti dalla riproduzione meccanica e dalla produzione di massa, è sia distrut-tivo che costruttivo; o, piuttosto, è inizialmente distruttivo e quindi potenzial-mente costruttivo. In quest’epoca Benjamin aveva ancora una visione di questapotenziale costruzione – gli esperimenti del Costruttivismo nell’Unione Sovietica– che avrebbe spazzato via i frammenti della vecchia cultura borghese o li avrebberiassemblati in modo radicale nella nuova cultura del proletariato. Ma con la sop-pressione da parte di Stalin dell’avanguardia nei primi anni trenta questo mirag-gio era già svanito, e Benjamin non raggiunse mai l’altro versante della reificazio-ne. Ciò che sembrava imminente in L’autore come produttore (1934) era diventatoutopia solo quattro anni dopo nelle sue Tesi sulla filosofia della storia. Come la figu-ra allegorica del suo saggio, l’Angelus Novus disegnato da Paul Klee e di proprietàdella stesso Benjamin, egli sente nelle sue ali i venti della modernità, ma essi sisono trasformati in tempesta: «Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali diste-se. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe che accumulasenza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi»27.

Sinora ho supposto l’esistenza di tre diverse relazioni d’archivio tra la praticadell’arte moderna, il museo d’arte e la storia dell’arte in tre differenti momenti sto-rici: il primo associato a Baudelaire e Manet alla metà del diciannovesimo secolo,il secondo a Proust e Valéry al passaggio verso il ventesimo secolo, il terzo a Pano-fsky e Benjamin, alla vigilia della seconda guerra mondiale. In modi diversi laseconda figura di ciascuna coppia rivolge il pensiero a una totalità dell’arte, che laseconda figura rivela, consapevolmente o no, essere costituita soltanto da fram-menti. Ancora, per Benjamin il principale responsabile di questa frammentazioneè la riproduzione meccanica: nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproduci-

26 S. Kracauer, La massa come ornamento, Napoli, Prismi, 1982. Warburg fa da ponte tra la prima e laseconda relazione che abbiamo determinato: per approfondire la terza, associata qui a Benjamin ePanofsky, andrebbe sviluppato il confronto tra Kracauer e Warburg, che si completano in modoinquietante rispetto al rapporto tra elemento fotografico e mnemonico – l’ha tuttavia già fatto inmodo brillante Benjamin H.D. Buchloh, in Gerhard Richter’s Atlas: The Anomic Archive, «October»,n. 88, 1999, pp. 117-145.27 W. Benjamin, Angelus Novus, cit., pp. 76-77.

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bilità tecnica essa rimuove l’arte dal contesto, manda in pezzi la sua tradizione e neliquida l’aura. Anche se offre al museo una nuova totalità, al tempo stesso lo con-danna all’insignificanza, e il cinema si fa avanti per soppiantarlo culturalmente. Inquesto modo il «valore cultuale» dell’arte è sradicato e sostituito dal «valore espo-sitivo» dell’arte, il suo produrre per il mercato e il museo. Ma, almeno potenzial-mente, questo valore viene anche messo in discussione, e al posto di questi ritualivecchi e nuovi Benjamin chiama in causa un cambiamento del funzionamentopolitico dell’arte. Tale è il suo resoconto della seconda relazione d’archivio quandoè sul punto di diventare la terza, un resoconto che dimostra quanto ciascun spo-stamento archiviale a un tempo conferisca un potere e lo revochi, sia trasgressivoe affermativo.

Eppure questo resoconto è stato messo in discussione, direttamente o no, daaltre voci. Ho citato Panofsky, ma Malraux potrebbe essere più pertinente in que-sto contesto perché era in contatto con Benjamin al momento della stesura del sag-gio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che fu determinante peril suo iniziale schema del musée imaginaire28. Malraux coglie la stessa trasformazio-ne archiviale di Benjamin, ma ne trae conclusioni diverse. Per Malraux la riprodu-zione meccanica non solo mina l’originalità, ma può anche localizzarla, persinocostruirla29. Sebbene l’opera d’arte riprodotta perda alcune delle sue proprietàcome oggetto, per la stessa ragione ne acquista altre, come la «massima pregnanzadi significato per lo stile»30. In breve, dove Benjamin vedeva un definitivo collassodel museo causato dalla riproduzione meccanica, Malraux coglieva la sua indefi-nita espansione. Se per Benjamin la riproduzione meccanica manda in pezzi la tra-dizione e liquida l’aura, per Malraux essa fornisce gli strumenti per riassemblaretali frammenti nella metatradizione degli stili globali – un nuovo “museo imma-ginario” il cui soggetto è la “famiglia dell’uomo”. Per Malraux è proprio il f lusso

28 Su questo rapporto vedi Denis Hollier, On Paper, in Cynthia Davidson (a cura di), Anymore, NewYork, Any Foundation, 2001. Vedi anche R. Krauss, Postmodernism’s Museum without Walls, in R.Greenberg et al., Thinking about Exhibitions, New York, Routledge, 1996. Il «museo senza pareti» èuna traduzione infelice di le musée imaginaire. Per una critica coeva del concetto vedi GeorgesDuthuit, Le musée inimaginable, Paris, Librairie José Corti, 1956.29 Eppure anche questo è implicito nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,sebbene gran parte dei commentatori non lo abbiano rilevato. «Al momento della sua fattura undipinto medievale della Madonna non poteva ancora essere considerato “autentico”», scrive Benjaminin una nota. «Diventa tale solo nei secoli successivi, e forse nel modo più sviluppato nel secolo appenatrascorso», in Gesammelte Schriften I, 2, cit., p. 476, n. 3.

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nato dalla liquidazione dell’aura che permette a tutti i frammenti di ricongiunger-si nel fiume della storia, o in quella che lui chiama «la vita persistente di certe for-me, che emergono di continuo come spettri dal passato»31. Qui le reificate tombedi famiglia nel museo di Valéry diventano i rianimati spiriti gemelli del museo diMalraux. Qui, inoltre, l’angelo della storia-come-catastrofe immaginato da Benja-min diventa l’umanista tecnocratico personificato da Malraux, che lavora per recu-perare le crisi locali in una continuità globale, per trasformare il caos delle imma-gini nell’ordine museologico.

Esistono certo altre voci critiche da aggiungere a questo terzo momento, e nonho toccato la miriade di pratiche moderniste che esso sostiene. Una quarta relazio-ne d’archivio va senza dubbio presa in considerazione, quella che emerge dopo laseconda guerra mondiale con la società dei consumi, registrata in modi diversidall’Independent Group in Inghilterra, dai Situazionisti in Francia, e da artisticome Robert Rauschenberg e Andy Warhol negli Stati Uniti, Gerhard Richter eSigmar Polke in Germania32. Ma la domanda che desidero porre qui riguarda ilnostro presente: esiste un’ulteriore relazione di archivio, un quinto momento nelladialettica del vedere, reso possibile dall’informazione elettronica? Se è così, infran-

30 A. Malraux, The Voices of Silence, p. 112, Princeton, Princeton University Press 1978. «Tutto ciò cheresta di Eschilo è il suo genio. Accade lo stesso con le figure che in una riproduzione perdono il lorosignificato di oggetti e la loro funzione (religiosa o altra); le vediamo solo come opere d’arte,vediamo solo il talento di chi le ha prodotte. Potremmo quasi definirle “momenti” d’arte piuttostoche opere. Ma per quanto siano diversi, tutti questi oggetti […] parlano della stessa impresa; ècome se, una presenza non vista, lo spirito dell’arte, li avesse sollecitati tutti verso la stessa meta,dalla miniatura alla pittura, dall’affresco alla vetrata, e dunque, in certi momenti, avesse indicatoall’improvviso una nuova linea di avanzamento, parallela o decisamente divergente. Così accade che,grazie alla pretestuosa unità imposta dalla riproduzione fotografica su una molteplicità di oggetti,che vanno dalla statua al bassorilievo, dal bassorilievo ai sigilli e da questi alle lastre dei nomadi,uno “stile babilonese” sembra emergere come vera unità, non una mera classificazione, come qual-cosa che somiglia piuttosto allo stile di vita di un grande creatore. Niente più dei grandi stili tra-smette in maniera più vivida e più affascinante l’idea di un destino che dà forma agli scopidell’uomo, le cui evoluzioni e trasformazioni sembrano segni lontani lasciati dal destino col suo pas-saggio sulla superficie della terra».31 Ivi, p.1. Malraux non è davvero isolato in questo atteggiamento totalizzante: questo era ilmomento di grandiose speculazioni sull’arte e l’architettura, come dimostrano tra gli altri SiegfriedGideon, Gyorgy Kepes, Henri Focillon, Joseph Schillinger e Alexander Dorner.32 Non è un caso che la mia narrazione delle relazioni d’archivio sia conforme grosso modo allaperiodizzazione dello spettacolo proposta da Guy Debord, T. J. Clark, e Jonathan Crary.

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gerà tanto più la tradizione e liquiderà l’aura come per il Benjamin della riprodu-zione meccanica, o, al contrario, consentirà di scoprire sempre più affinità stilisti-che, di promuovere sempre più valori artistici, come sosteneva Malraux nel muséeimaginaire? Oppure farà di questa opposizione, di questi termini, della loro dialet-tica, qualcosa di morto e sorpassato? Quale epistemologia culturale potrebbesostenere un riordinamento della pratica artistica, il museo d’arte e la storiadell’arte?

Non ho conclusioni da offrire al riguardo, solo poche impressioni. In qualchemodo la dialettica della reificazione e della rianimazione continua, e con una mag-giore intensità di prima. Da una parte, mentre il nuovo ordine digitale trasformagli artefatti in informazione, esso sembra frammentare l’oggetto e dissolvere deltutto la sua aura. Dall’altra, qualsiasi dissoluzione dell’aura non fa che aumentareil nostro desiderio di essa o della sua produzione, in una proiezione compensatoriaormai familiare. Dal momento che una nuova aura è difficile da produrre, l’auragià affermata aumenta di valore a dismisura (come Rem Koolhaas una volta hanotato, le riserve di passato non sono mai sufficienti). Così, in una ripresa elettro-nica della sindrome di Mona Lisa, dove il cliché non fa che accrescere il culto, l’operad’arte potrebbe diventare più auratica, non meno, allorché essa diviene sempre piùun simulacro nell’archivio elettronico. Una versione di questa proiezione compen-satoria è divenuta ora parte integrante della comune retorica del museo d’arte: civiene detto che l’archivio elettronico non allontana dall’oggetto museale, e ancormeno lo soppianta; esso è impegnato a riportarci all’opera d’arte e ad accrescere lasua aura. E, almeno a livello operativo, questo archivio non entra in conflitto conil protocollo elementare della storia dell’arte, perché entrambi hanno un’imposta-zione iconografica; in questo modo almeno, entrambi sono rivolti alla referenzialitàdell’oggetto.

Ma lasciatemi concludere con un’altra virata, e ritornare ancora una volta allanostra prima relazione d’archivio. Anche Foucault associa questo momento aManet e il museo (così come a Flaubert e la biblioteca) nella nota formulazione«ogni quadro ora appartiene alla grande superficie quadrettata della pittura; eogni opera letteraria appartiene al mormorio indefinito dello scritto»33.

33 M. Foucault, Un “fantastico” da biblioteca, tr. it. di C. Milanese, in Scritti letterari, Milano, Feltri-nelli, 1984, p. 139.

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In molti modi questa «grande superficie quadrettata della pittura» viene supe-rata e conservata – trasgredita e vinta – nel “museo immaginario”, e per Foucaultcome per Malraux lo stesso fondamento del museo immaginario dell’arte modernaè discorsivo: è quasi creato dalle idee, le idee di Stile, Arte e Museo. Benjamin nonè appagato da questo unico momento discorsivo, poiché egli mette in primo pianoil ruolo materiale non solo della riproduzione fotografica ma anche del «valoreespositivo». Con questo termine intende il valore di scambio che penetra nell’isti-tuzione dell’arte, trasformando sia l’opera d’arte che la struttura del suo contesto.Naturalmente questa trasformazione era stata oggetto di ricerca da parte di varimovimenti a lui contemporanei, il nostro terzo momento dell’archivio. Pensiamoad esempio al Bauhaus. Nel suo progetto di trasformazione dell’opera d’arte, ilBauhaus pose in discussione le relazioni archiviali che la pittura e il museo aveva-no intrattenuto nei nostri primi due momenti; eppure questa contestazione facili-tava anche «l’estensione pratica del sistema del valore di scambio a tutto il campodei segni, delle forme, e degli oggetti»34. In tal modo, il Bauhaus trasgredival’antico ordine dell’arte, ma promuoveva al tempo stesso anche la nuova sovranitàdel design capitalistico, la nuova economia politica del segno mercificato. E questaeconomia politica domina le istituzioni culturali e sociali come mai prima d’ora35.

Alcuni aspetti di questa trasformazione storica ci sono familiari, ad esempiol’intreccio, sin dagli inizi, fra l’arte moderna e l’esposizione delle merci (il museoaffiancato dall’esposizione industriale da un lato e dal grande magazzinodall’altro), o la conformità dell’arte moderna – nelle sue categorie di oggettidiscreti fatti per l’esposizione e la vendita – rispetto al valore espositivo e di scam-

34 J. Baudrillard, Per la critica dell’economia politica del segno, tr. it. di M. Spinella, Milano, Mazzotta1974, p. 202. La descrizione più tagliente di questa dialettica rimane il libro di Manfredo Tafuri,Progetto e utopia, Bari, Laterza 1973. Sulla “mediazione” dell’architettura moderna, vedi BeatrizColomina, Privacy and Publicity: Modern Architecture as Mass Media, Cambridge, MIT Press, 1994.35 Per certi aspetti il museo contemporaneo (il Guggenheim è l’ammiraglia di questa flotta) riconci-lia in modo perverso l’opposizione dialettica presentata da Malraux e da Benjamin. Da una parte, inuna versione di ciò che Malraux immaginava, il museo immaginario virtuale è diventato realtà conil museo elettronico, il museo on-line. Dall’altra, versione di ciò che Benjamin aveva previsto, uncinema al di là del museo viene ora ricondotto nel museo, nella forma di mostre progettate perdispiegarsi cinematicamente, o per scorrere come pagine web. Anche in questo modo l’istituzionedell’arte continua a conformarsi alle nuove strutture dello scambio, per essere rimodellata secondo ilparadigma visuale-digitale dei siti web. E molti artisti e architetti hanno fatto altrettanto, in modoaffermativo o critico – sebbene non sia chiaro cosa possa dirsi critico in questo contesto.

78 Dopo il museo

bio. Ma a partire da queste direttrici vi sono sviluppi più recenti da considerare,come il punto in cui il valore espositivo è diventato nell’arte ormai pressochè auto-nomo, sino a sommergere ciò che viene presentato alla vista. In realtà il design e lamessa in scena al servizio del valore espositivo e di scambio sono posti in primopiano come mai prima: oggi ciò che il museo espone sopra ogni altra cosa è il pro-prio valore spettacolare – questo è il principale punto di attrazione e l’oggettoprincipale della reverenza. Tra i molti altri effetti c’è questo: se il vecchio museo,come immaginato da Baudelaire attraverso Proust e oltre, era il luogo della riani-mazione mnemonica dell’arte visiva, il nuovo museo tende a separare l’esperienzamnemonica da quella visuale. La funzione mnemonica del museo viene sempre piùdemandata all’archivio elettronico, al quale si può accedere pressoché dovunque,mentre la funzione visuale viene affidata non soltanto alla forma espositivadell’arte ma anche all’edificio museale quale spettacolo – vale a dire, quale imma-gine da far circolare nei media al servizio del valore del marchio e del capitale cul-turale. Questa immagine oggi è la primaria forma di “arte”.

(traduzione di Elisa Pasini)

Federica MartiniIL TRABOCCHETTO E LA CATTEDRALE

Divenuto corrente fra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, il termine "installazione"riflette le numerose contraddizioni che regolano il rapporto fra opera d'arte e spazio esposi-tivo in epoca contemporanea. L'ambiguità fra installazione come allestimento e come inter-vento artistico è al centro di numerosi lavori di artisti contemporanei, eredi di una nozionedi costruzione dello spazio espositivo legato all'epoca moderna e ad alcune opere chiave rea-lizzate fra il 1917 e la prima metà degli anni Venti: Trébuchet di Marcel Duchamp,Merzbau di Kurt Schwitters e Proun di El Lissitsky.

1. Lo spazio prodotto

La cattedrale, simbolo del Bauhaus e oggetto di riflessione di Le Corbusier e il “traboc-chetto” di Duchamp (Trébuchet, 1917, Musée national d’art moderne, Parigi), immagineironica di un’opera d’arte che tenta di ridisegnare il suo contesto di esposizione. Da unlato l’architettura e dall’altro un’avanguardia che, al principio del Novecento, pone inter-rogativi non ancora del tutto risolti dalla pratica artistica. Considerando le opere recentirealizzate all’interno di istituzioni museali, si nota come sempre piú frequentemente lastruttura della mostra e dello spazio che la ospita si collochi al centro del loro intervento1.

1 Di particolare interesse, in questo contesto, le mostre monografiche dedicate a Monica Bonvicini, Elm-green & Dragset, Urs Fischer, Dominique Gonzales-Foerster e Pierre Huyghe fra il 2001 e il 2004:Monica Bonvicini – Scream and Shake, a cura di L. Bovier, Magasin d’art contemporain Grenoble, 3.6 –2.9.2001; Elmgreen & Dragset – Taking Place, a cura di B. Ruf, Kunstalle Zürich, 10.11.2001–20.1.2002; Pierre Huyghe, a cura di C. Christov-Bakargiev, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contempora-nea, 21.04 – 18.07.2004; Dominique Gonzales-Foerster – Multiverse, a cura di B. Ruf, Kunsthalle Zürich,12.6 – 15.08.2004; Urs Fischer: Kyr Royal, a cura di M. Varadinis, Kunsthaus Zürich, 9.7 – 26.9.2004.

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 79-92

80 Dopo il museo

Che si tratti di installazioni o di progetti monografici attenti all’allestimento, laquestione del rapporto fra l’opera e lo spazio e, per estensione, fra artisti e archi-tettura, diventa uno snodo cruciale del tentativo contemporaneo di rinnovare il for-mato della mostra. Così accade nel lavoro di Pierre Huyghe, che affronta la que-stione nel progetto The House or Home (1995) e sceglie di privilegiare la collabora-zione fra artisti entro un contesto culturale diffuso piuttosto che nello spazioarchitettonico dell’istituzione2.

Benché l’arte contemporanea sia ben avvezza alla presenza di installazioni nellecollezioni dei musei e la nozione di progetto estetico si applichi sia allo spaziodell’architettura sia a quello dell’artista, in epoca moderna l’installazione comeforma d’arte non ha trovato un’adeguata formalizzazione, né il museo si è dimo-strato pronto, nella maggior parte dei casi, ad accoglierla. Opere come il Trébuchetdi Marcel Duchamp, il Merzbau di Kurt Schwitters e l’allestimento di Proun di ElLissitzky indicano un possibile superamento della dicotomia fra arte e architetturache incide ancora sul dibattito odierno e sui due diversi modi di costruire lo spa-zio: quello dell’architettura e quello dell’artista.

2. Spazio dell’arte, spazio dell’architettura

Punto d’incontro del diverso modo di articolare lo spazio da parte dell’architetturae dell’arte è il museo d’arte contemporanea. Considerando ad esempio il caso delBonnefantenmuseum di Maastricht, realizzato fra il 1990 e il 1995 su progetto diAldo Rossi, si può osservare come anche la reciproca compenetrazione fra arte ededificio non dia necessariamente luogo a una fruizione corretta delle opere. Mentreil lavoro del curatore di arte contemporanea si concentra in modo sempre più inci-sivo sulla fase di progettazione dell’opera, con l’obiettivo di facilitarne la realizza-zione, è l’intervento dell’architetto che configura con maggiore decisione ilmomento espositivo, ovvero la relazione fra il visitatore e il lavoro dell’artista. Aproposito del museo di Rossi, Vittorio Magnago Lampugnani nota come non sia«l’architettura a rendere un edificio un museo, ma gli oggetti che ci si mettono

2 «L’intento del progetto … non è costruire una casa e nemmeno definire una forma per la stessa,piuttosto di abitarla. Si potrebbe definire questo progetto come un tentativo architettonico, ma taleaffermazione richiede determinate specificazioni: l’architettura diventa la costruzione di una situa-zione», P. Huyghe, P. Parreno, Associazione dei tempi liberati, in Pierre Huyghe, a cura di C. Christov-Bakargiev, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Skira, Milano 2004, p. 293. Cfr. N.Bourriaud, Esthétique relationelle, Dijon, Les presses du réel, 1998.

Il trabocchetto e la cattedrale 81

dentro», sottolineando come l’intenzione dell’architetto italiano non fosse lacostruzione di «un museo che assomigliasse a un museo» ma di «uno spazio in cuil’arte potesse trovarsi a proprio agio»3. Così tanto a suo agio, osserva MagnagoLampugnani, che alcune installazioni collocate nella torre metallica del Bonnefan-tenmuseum sembrano perdere la loro urgenza critica: sono, per l’appunto, troppoadatte all’ambiente circostante per comunicare correttamente il loro messaggio.

L’esperienza di Rossi non è un caso isolato: l’intensità con cui oggi si costrui-scono i musei del “nuovo”, così definiti dallo storico dell’architettura JosephRykwert, corrisponde a un interesse proprio della postmodernità di «sfruttare ilterritorio» a fini artistici, ipotizzando che il contenitore possa amplificare il valoredel contenuto. Il museo è una delle invenzioni possibili: al giorno d’oggi, osservaRykwert, si sta sviluppando «una nuova tipologia di museo che funge da punto diriferimento e da elemento di attrazione urbana». L’indebolimento del “culto deimonumenti”, la crescita smisurata delle collezioni dei musei e la conseguenteincapacità di un singolo luogo di contenerle ha provocato una «segmentazione deimusei [che], per quanto radicati sul posto, sono diventati gli edifici di culto di unareligione mondiale»4. L’effetto dell’apertura del museo Guggenheim di Bilbao5 diFrank O. Gehry sulla città – a Bilbao, in effetti, più che la collezione, si va a visi-tare l’edificio in sé – è un cambiamento sul piano della fruizione. Al centro deldiscorso museale si colloca quindi non tanto un oggetto, quanto l’esperienza ovve-ro, osserva Nicholas Serota, Direttore della Tate di Londra, l’obiettivo del museo(dentro e fuori i confini architettonici del suo edificio, potremmo dire), è quellodi «creare una matrice di relazioni mutevoli che i visitatori esplorino a seconda deiloro particolari interessi e possibilità»6.

Sui modi in cui il problema si è manifestato in tempi recenti era già interve-nuto Germano Celant nel contesto della settima Documenta: «[Arte e architettu-ra] hanno smesso di contemplare e rappresentare il mondo visibile ed esperibile,

3 V. Magnago Lampugnani, Musei per un nuovo millennio: idee, progetti, edifici, Monaco, Prestel,2001, p. 109.4 J. Rykwert, La seduzione del luogo, Torino, Einaudi, 2002.5 Realizzato da Frank O. Gehry nel 1997, il Museo Guggenheim di Bilbao ha una struttura a stellacoperta in titanio che si sviluppa a partire dall’atrio centrale. Sul lato nord il museo si apre sulfiume.6 N. Serota, Experience or Interpretation: the Dilemma of Museums of Modern Art, London, Thames andHudson, 2000, p. 55.

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preferendo diventare loro stesse oggetto di ammirazione di rappresentazione … Sipotrebbe dire che l’arte e l’architettura vengono adesso presentate in qualità di“ready-made” la cui unica ragion d’essere risiede nel presente, piuttosto che inun’analisi complessa della loro struttura»7. Fra le conseguenze più evidenti dellarif lessione di Celant risulta il conflitto di competenze fra architetti e artisti. Comeosserva Henri Lefebvre, infatti, tutte le opere, architettoniche e artistiche, occupa-no i luoghi e danno loro forma8: nel momento in cui, nota Luciano Fabro, «l’archi-tetto è un costruttore di spazi»9 e poiché molto spesso pure l’artista produce opereper lo spazio, dovrebbe allora venir meno la tradizionale distinzione fra conteni-tore – il museo – e contenuto – l’opera. Quando i due interventi non vengonocoordinati, come nel caso della costruzione a New York del Guggenheim Museumdi Frank Lloyd Wright, la cui progettazione inizia nel 1943, ci si ritrova di frontea un guscio architettonico, un ready-made, di per sé affascinante ma non funzio-nale: il suo andamento curvilineo di spirale rovesciata rompe con l’ortogonalità deigrattacieli di New York ma si contrappone alla verticalità di quadri che, per esserefruiti correttamente, necessitavano di una superficie lineare.

La distinzione fra spazio architettonico e l’insieme degli artefatti – le collezio-ni e le mostre temporanee che si allestiscono al suo interno –, divenuta centrale nelmomento in cui si rafforza l’idea di un museo come entità autonoma inserita in uncontesto urbano significativo10, si colloca in effetti alla base dell’identità degli spa-zi espositivi contemporanei. Tale entità autonoma, osserva l’architetto olandeseRem Koolhaas, è uno spazio simbolico: «La funzione ultima dell’architettura saràdi creare degli spazi simbolici che offrano una riposta ai desideri permanenti dellacomunità»11.

3. Installazioni, spazi simbolici, spazi vuoti

A livello macro, quindi, lo spazio “di lavoro” condiviso da architetti e artisti è lacittà: la progettazione del museo e il progetto di arte pubblica manifestano nella

7 G. Celant, A Visual Machine – Art Installation and its Modern Archetypes, in R. Fuchs (a cura di),Documenta 7, Kassel, Documenta Foundation 1982, p. XIII.8 H. Lefebvre, La production de l’espace, Paris, Ed. Anthropos, 2000.9 F. Poli, Intervista a Luciano Fabro, in R. Fuchs e Johannes Gachnang (a cura di), Ouverture II. Sulmuseo, Torino, Umberto Allemandi & C., 1987, p. 24.10 V. Magnano Lampugnani, cit., p. 124.11 Ibid.

Il trabocchetto e la cattedrale 83

dimensione urbana le due modalità differenti di occupare lo spazio dell’arte edell’architettura. A livello micro, l’area di intervento comune è quello del museo.È al suo interno che «i desideri permanenti» della comunità di cui parla Koolhaastrovano forma in allestimenti e installazioni effimeri: in inglese le due realtà han-no, significativamente, un solo nome, installation. In entrambi i casi si tratta dicostruire un discorso estetico mediante la distribuzione di oggetti nello spazio. Edè sempre attorno a questo concetto che, a partire dal secondo dopoguerra, si assistea una progressiva convergenza di ambiti e funzioni dell’artista, del curatore edell’architetto.

Nonostante il termine “installazione” diventi corrente soltanto fra gli anniSettanta e Ottanta, in quanto forma d’arte l’installazione raggiunge piena autono-mia negli anni Sessanta, ovvero nel momento in cui si fa più forte la protesta degliartisti nei confronti dell’istituzione museale. Analogamente alla performance eall’happening, l’installazione non nasce in quanto genere puro, ma accoglie moltedelle rif lessioni sulla smaterializzazione dell’oggetto artistico e sullo statuto dellospazio – istituzionale e non – che in quegli anni emergono non soltanto nelle artifigurative ma anche nell’architettura, nella letteratura e nel teatro. Il tentativomodernista di instaurare un’equivalenza fra spazio estetico e sociale12, nei tardianni Sessanta passa in buona parte per la messa in scena teatrale: lo spazio vuotoattraversato da una persona e l’osservatore dentro o fuori la scena descritto dalregistra teatrale Peter Brook ne è un esempio.

Sulla nozione di spazio “corretto”, adatto all’opera senza coincidere con essa, sipoggia l’idea di museo laboratorio: l’atelier dell’artista e il sito in cui viene collo-cata l’installazione diventano paradigma di un’utopica area espositiva, ad un tem-po neutra e vuota. A dimostrarne la paradossalità saranno le sperimentazioni arti-stiche di quegli anni: teatro d’avanguardia, happening, performance e installazione.

Effimera perché realizzata specificamente per un luogo, o per via della fragilitàdei materiali, e a volte permanente, come richiedeva Donald Judd per contrastarel’inf lazione espositiva che si lamentava già negli anni Sessanta13, l’installazionerif lette nel suo andamento narrativo irregolare la tendenza contemporanea a strut-turare mostre e percorsi secondo modelli sempre meno lineari e cronologici. Comeil museo, l’installazione sceglie la sovrapposizione di spazi, ordini temporali e nar-

12 N. de Oliveira, N. Oxley, M. Petry, Installation Art, London, Thames and Hudson, 1996, p. 11.13 D. Judd, Architecture Architektur, a cura di P. Noever, Wien, Hatje Cantz,1991.

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razioni individuali differenti: il richiamo dichiarato all’idea di Gesamtkunstwerk,opera d’arte totale, ne spiega in parte la difficile definizione. È infatti un’opera cheoccupa territori percepiti come non appartenenti alle arti visive e, seppur espostain un museo, ne sfida le tradizionali nozioni di durata e conservazione.

Proprio per la sua associazione a generi diversi, in particolare l’architettura ela scultura, l’installazione accoglie la volontà moderna di rendere dinamica la rela-zione fra spazio e tempo, la sua esigenza di un punto di vista f luido e non univocosull’oggetto, così come la necessità di far poggiare lo sguardo contemporaneo sudi una sorta di presente reminescente. Lo spazio vuoto cui allude Brook, oltre chesito in cui può aver luogo l’intervento estetico, sia esso artistico o architettonico,è di fatto anche uno spazio ideale. È uno spazio che, già nei programmi di NaumGabo e Anton Pevsner, rinuncia al volume «in quanto forma spaziale pittorica eplastica», che accetta la profondità, e quindi la relazione fra l’oggetto e il luogo incui viene collocato, come criterio estetico sostitutivo rispetto «all’ombra e [al]rilievo» del linguaggio scultoreo tradizionale14. L’installazione è uno spazio idealeche, come insegna l’avanguardia, fa del coinvolgimento dello spettatore edell’esperienza uno degli elementi centrali.

Quando nel 1919 Walter Gropius esplicitò il progetto utopico del primoBauhaus, auspicando la creazione di «un’arte universale» basata «sull’unità spiri-tuale della sua epoca» e sull’intimo collegamento con il contesto sociale, il riferi-mento era, già allora, a uno stato di «drammaticità» diffusa che includesse nonsoltanto l’interno dell’edificio, o il palcoscenico, ma l’edificio stesso come un tuttoarchitettonico15. Era proprio sull’architettura, erede della dimensione collettiva chein passato aveva animato la costruzione delle cattedrali gotiche, che Gropius fon-dava il proposito di costruire un’opera d’arte a suo modo totale16. E fu la xilografiadella cattedrale realizzata da Feininger nel 1919 a presiedere alla formazione delBauhaus tedesco: sintetico memento visivo degli obiettivi della nuova avanguardia,la cattedrale era l’immagine emblematica dell’opera totale e collettiva, di «uno

14 N. Gabo, A. Pevsner, The Realistic Manifesto 1920, in J.E. Bowlt, Russian Art of the Avant-garde –Theory and Criticism 1902-1934, London, Thames and Hudson, 1988, pp. 208-14.15 Cfr. N. de Oliveira, Nicola Oxley, Michael Petry, cit., p. 15.16 Nel 1919 Gropius pubblica un testo dal titolo Architettura nello stato democratico libero nel DeutscheRevolutionsalmanach für das Jahr 1919. Si tratta di uno dei primi scritti in cui emerge con chiarezzail desiderio del Bauhaus di «dar vita a un’arte universale» basata «sull’unità spirituale della suaepoca e sull’intimo collegamento con il contesto sociale».

Il trabocchetto e la cattedrale 85

spazio misurabile soltanto sulla scala dell’agire umano, [che] si distribuisce secon-do le vicende e le funzioni dell’esistenza»17. Così anche il teatro, avrebbe affermatoOskar Schlemmer sempre nel contesto del Bauhaus, affermando che la storia dellearti drammatiche coincide con l’incontro fra l’uomo, «che rappresenta gli eventi delcorpo e dell’anima»; la forma e il colore, «mezzi del pittore e dello scultore»; il luo-go in cui l’azione avviene, ovvero «la compagine formale dello spazio e dell’archi-tettura, campo di attività del costruttore»18.

Gli strumenti dell’artista e gli spazi dell’architetto: lo scritto di Schlemmermette in scena due elementi centrali della rif lessione sulla Installation art, gli stes-si del Manifesto tecnico dello Spazialismo (1951) di Lucio Fontana: «L'architettura èvolume, base, altezza, profondità, contenute nello spazio, la 4a dimensione idealedell'architettura è l'arte. La scultura è volume, base, altezza, profondità. La pitturaè descrizione» e, ancora nel 1953: «Non ci può essere una pittura o scultura spa-ziale, ma solo un concetto spaziale dell’arte»19.

Sul piano pittorico, un altro contributo proviene dalla lettura del lavoro diJackson Pollock fatta da Harold Rosenberg. È nell’atteggiamento degli ActionPainter americani che Rosenberg intravede, nei primi anni Cinquanta, la possibi-lità di un’opera intesa innanzi tutto come spazio della performance, sede non tantodi un’immagine, ma di un evento: «la tela diventa un’arena in cui agire piuttostoche uno spazio in cui riprodurre, ridisegnare, analizzare o “esprimere” un oggettoreale o immaginato»20. Premessa fondamentale, questa, soprattutto per la genera-zione successiva di artisti americani che, sotto l’etichetta della Minimal art avreb-be forzato i limiti spaziali delle tele rettangolari di Jackson Pollock, Mark Rothkoe Clifford Still – definite da Donald Judd come «entità, oggetto unico» – in favoredella «non definibile somma di un gruppo di entità e riferimenti»21. Una preoc-

17 G.C. Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, Torino, Einaudi, 1988, p. 98.18 O. Schlemmer, Uomo e figura artistica, in O. Schlemmer, L. Moholy-Nagy, F. Molnár, Il teatro delBauhaus, Torino, Einaudi 1975, p. 3. Originariamente pubblicato in Die Bühne im Bauhaus (1925),quarto volume della collana Bauhausbücher fondata da Walter Gropius.19 Lucio Fontana, dal catalogo della mostra personale alla Galleria del Naviglio, Milano 1953, in G.Celant (a cura di), L’inferno dell’arte italiana – Materiali 1946-1964, Genova, Costa & Nolan 1990,p. 160.20 H. Rosenberg, The American Action Painters, in Id., The Tradition of the New (1959), New York, DaCapo Press, 1994, p. 25.21 D. Judd, Specific Objects in Id., Écrits 1963-1990, Paris, Daniel Lelong Éditeur, 1991, pp. 11; 13-15. Scritto nel 1964, il testo di Judd verrà pubblicato l’anno successivo su Arts Yearbook 8/1965.

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cupazione molto vicina a quella dell’avanguardia storica di Gropius, MarcelDuchamp e Vladimir Tatlin, che abolisce la rappresentazione «di corpi individua-li, antropomorfici e onnicomprensivi in spazi fatti di materiali inerti, se non eter-ni». L’alternativa aperta dal ready-made di Duchamp e dai Controrilievi di Tatlinnel 1914-1915, seguiti dal Monumento alla Terza internazionale dello stesso Tatlinnel 1920, costituisce ancora oggi, a livello più o meno consapevole secondo lo sto-rico dell’arte Benjamin Buchloh, lo sfondo della discussione sui rapporti fra scul-tura, architettura e installazione22. L’asse del discorso si sposta sulla «dialetticadella scultura, tra la sua funzione come modello per la produzione estetica dellarealtà (ne è un esempio la sua transizione in architettura e design) e quella dimodello di investigazione e contemplazione della realtà della produzione esteti-ca»23. Più precisamente, prosegue Buchloh, architettura e scultura si presentanocome i due poli del dibattito estetico che la scultura ha impostato a partiredall’avanguardia storica, senza escludere la possibile dissoluzione del discorso scul-toreo. È nell’installazione, secondo l’ipotesi di uno spazio non soltanto riempito dal-la scultura, che si fonda la possibilità per il sito in cui l’opera “ha luogo” di concor-rere alla costruzione del senso dell’opera stessa. Su un versante più rigidamentemodernista, in Art and Objecthood (1967) Michael Fried legge in negativo le conse-guenze della crescente centralità di sito, osservatore e opera: la Minimal art ameri-cana, con la sua sequenza di volumi e la modularità della struttura, è teatrale inquanto presuppone l’esperienza di «un oggetto nel contesto di una situazione – situa-zione che, per definizione, include lo spettatore»24. La necessaria distanza fra oggettoe soggetto rivendicata dall’artista Robert Morris e citata da Fried viene spiegata neitermini della volontà di coinvolgere fisicamente chi osserva l’opera: l’oggettominimalista, nota Fried, non viene collocato nello stesso spazio in cui si trova chiosserva, ma «sulla traiettoria [dello spettatore]»25. Il corpo dell’osservatore e ladistanza che le notevoli dimensioni dell’oggetto richiedono diventano elementicostitutivi di una situazione espositiva all’interno del museo. L’allestimento,ovvero la distribuzione di oggetti d’arte all’interno dello spazio espositivo, non

22 B. Buchloh, Michael Asher and the Conclusion of Modernist Sculpture, in Performance, Text(e)s & Docu-ments, Montreal, Editions Parachute, 1981, pp. 55-65.23 Ibid.24 M. Fried, Art and Objecthood, in G. Battcock (a cura di), Minimal Art – A Critical Anthology, NewYork, E.P. Dutton 1968, p. 125. Originariamente pubblicato su «Artforum», giugno 1967. 25 Ibid.

Il trabocchetto e la cattedrale 87

coincide più con il gesto «di appendere un’opera d’arte o di posizionare una scul-tura, ma diventa una pratica artistica in sé e per sé»26.

4. Trébuchet e Proun: il ready-made e lo spazio del quadro

In effetti l’ipotesi che lo spazio in cui viene collocata l’opera d’arte sia un oggettod’indagine condiviso da artisti e architetti, e che il lavoro degli uni interferisca conla progettualità degli altri, costituisce uno snodo centrale del dibattito sul museocontemporaneo, la cui origine moderna viene però spesso dimenticata in favore diuna lettura postmoderna. Con il Trébuchet di Marcel Duchamp la poetica del rea-dy-made estende la sua rif lessione critica oltre le pareti del museo, gli spazi tradi-zionali dell’opera, lo sgabello-piedistallo, misurandosi con il condizionamento delmovimento dello spettatore nello spazio espositivo. Il Trébuchet, un appendiabiti inlegno e metallo fissato al pavimento, può essere definito, per le sue implicazioni,fra i primi esempi di installazione27; esso chiama in causa «un’esperienza spazialesimile [a quella determinata] dalle manifestazioni architettoniche» e non unasemplice relazione spettatore-opera28. Nelle parole di Duchamp, il Trébuchet è unpun tridimensionale: l’appendiabiti fissato a terra è un trabocchetto concettualeche, alludendo allo scavalcamento del pedone nel gioco degli scacchi, suggerisceun’azione piuttosto che un’esperienza visiva. L’opera di Duchamp lascia quindiirrisolto l’equivoco del termine inglese installation, nel suo duplice significato diallestimento e installazione. Da un lato, in quanto dislocazione di un oggettod’arte entro lo spazio di un museo, il Trébuchet è un allestimento; ma consideratodal punto di vista della poetica del ready-made, Trébuchet è un’opera che, attraversoil ribaltamento della funzione e della posizione dell’appendiabiti, interrompel’andamento tradizionale dello spazio museale per entrare in quello del visitatore.

Un problema analogo viene affrontato nei primi anni Venti da El Lissitzky,architetto di formazione e, insieme a Kazimir Malevitch, una delle figure chiavedel Suprematismo russo. All’indomani dell’offerta da parte del Novembergruppedi allestire la sua opera pittorica Proun (1922-3) in una sala indipendente, nel ten-

26 E. Suderburg (a cura di), Space, Site, Intervention – Situating Installation art, Minneapolis, The Uni-versity of Minnesota Press, 2000, p. 5.27 L’ipotesi è stata formulata da Francesco Poli nel corso del ciclo di conferenze da lui curato nellaprimavera 2004 presso la GAM di Torino e intitolato Arte e Ambiente.28 M. Rosenthal, Understanding Installation Art, Munich-NewYork, Prestel, 2003, p. 26.

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tativo di far dialogare il quadro con lo spazio architettonico, Lissitzky mette a pun-to un allestimento che non espone l’oggetto artistico «ma l’esposizione stessa»29.L’indagine di Proun si concentra infatti sulla nozione rinascimentale di prospettivae sulla visione dello spazio che ne deriva: obiettivo di Lissitzky diventa la creazionedi uno spazio «che non si guarda dal buco della serratura» perché «lo spazio nonè un quadro: vogliamo viverci dentro»30.

Su queste note teoriche Lissitzky avrebbe basato il suo allestimento per laGrosse Berliner Kunstaustellung, per molti versi interpretabile come un progettodi installazione. La profonda unità fra oggetto e spazio espositivo realizzatadall’allestimento di Lissitzky si allontana, così come il Trébuchet di Duchamp,dall’idea di arte homeless, slegata dal senso del luogo, che Douglas Crimp vedecome caratteristica cruciale del museo moderno: in Proun e Trébuchet viene menol’idea di «oggetto d’arte dotato in sé e per sé di un significato fisso e transtorico,non appartenente a un luogo preciso [oppure] appartenente a un non-luogo che èil museo»31. La volontà di Lissitzky di fare della mostra «uno spazio organizzatoin modo tale che si cammini al suo interno con un movimento rotativo»32, «unascena sulla quale i quadri appaiono come gli attori di un dramma o di una com-media»33 si traduce in un’uscita radicale da quei «musei-dormitorio» cui alludevapolemicamente Filippo Tommaso Marinetti nel Primo manifesto del futurismo(1909). Con analoga metafora, Lissitzky parla di muri come «letto di riposo dei qua-dri», bidimensionali e legati a un andamento verticale a cui, più o meno consape-volmente, già l’avanguardia cerca di sostituire la tridimensionalità del sito e ildinamismo della visione che saranno al centro dell’installazione come pratica arti-stica a partire dagli anni Sessanta.

29 Y.-A. Bois, Exposition: Esthétique de la distraction, espace de demonstration, in «Cahiers du Muséenational d’art moderne», Paris, n. 29, autunno 1989, p. 72; tr. it. di L. Lévêque, in «Rivista diEstetica», n. s., n. 16, pp. 113-141.30 El Lissitzky, Proun Space, in Id., Russia: an Architecture for World Revolution, Cambridge, Ma., TheMIT Press, 1986, p. 138.31 D. Crimp, On the Museum’s Ruins, Cambridge, Ma., The MIT Press, 1993, p. 17.32 El Lissitzky, cit., p. 139.33 Cit. in Y.-A. Bois, cit., p. 75.

Il trabocchetto e la cattedrale 89

5. La cattedrale delle miserie erotiche di Schwitters

Nel 1943, quando un attacco aereo distrugge il Merzbau, la struttura dell’opera diKurt Schwitters è ancora presumibilmente distribuita nelle 8 stanze al 5 di Wal-dhausenstrasse, Hannover, dove l’artista viveva con la sua famiglia34. Proliferatanello studio di Schwitters a partire dal 1923, il Merzbau è una sorta di scultura sitespecific che dà forma architettonica agli oggetti dadaisti e ai ritagli di giornale nor-malmente destinati ai suoi collage. La costruzione del Merzbau inizia probabilmentedalle colonne, successivamente collegate con fili e corde ai Merz, nome che a partiredal 1919 l’artista attribuisce ai sui collage e assemblage, appesi sui muri. La relazionefra opera e spazio assume quindi anche nel lavoro di Schwitters, una dimensioneconcreta. Uscita dai vincoli tradizionali del Merz, il Merzbau «cancella l’architettu-ra originale [del luogo]: non si tratta più di dipingere o di utilizzare i muri, ma dismantellare completamente la vecchia funzione dello spazio per trasformare il suostudio in … uno spazio per esperire l’arte»35. In effetti, scriverà l’artista ad AlfredBarr nel 1936, la sua è una «scultura astratta (cubista) dove è possibile muoversi.Direzioni e movimenti di superfici costruite emanano da piani immaginari cheagiscono in qualità di direzioni e movimenti nello spazio e si intersecano mutua-mente nello spazio vuoto»36. Le grotte e le sezioni del Merzbau, inclusa la Cattedraledelle miserie erotiche (1928 ca.), sono fra loro interdipendenti non soltanto a livelloformale, precisa ancora Schwitters, ma seguono «le leggi segrete» e «la sensorialitàvivente» appartenenti al reticolo di storie e relazioni umane incluse nell’opera37. In

34 La distruzione del Merzbau (sia dell’originale di Hannover sia del successivo costruito a Lysaker,Norvegia e andato distrutto a causa di un incendio involontario) fa sì che la sua analisi sia legataesclusivamente alle fotografie scattate dal figlio Ernst Schwitters e alle testimonianze di chiconobbe l’artista e la sua casa. Nel 1987 Harald Szeemann ne ha curato una ricostruzione in colla-borazione con l’architetto Peter Bissegger, attualmente conservata presso lo Sprengel Museum diHannover. Destino condiviso anche dalle altre due opere citate in questo saggio: l’originale del Tré-buchet di Duchamp, fotografato nel suo studio fra il 1917 e il 1918, è andato perduto. Rimangono lafoto inclusa in La Boîte en valise (1936-1941, Collezione privata, Parigi) e i multipli realizzati nel1964 dalla Galleria Schwartz, Milano, sotto la diretta supervisione dell’artista.35 S. Meyer-Büser, On Disappearing in Space – Walk-in in Collages from Schwitters to the Present Day, inS. Meyer-Büser e K. Orchard (a cura di), In the Beginning war Merz: from Kurt Schwitters to the PresentDay, München, Hatje Cantz, 2000, p. 274.36 Lettera di Kurt Schwitters ad Alfred Barr, 1936, Archivi del Museum of Modern Art di NewYork, cit. in J. Elderfield, Kurt Schwitters, London, Thames and Hudson, 1985, p. 156.37 J.-C. Bailly, Kurt Schwitters, Paris, Hazan, 1993, p. 91.

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questo senso, lo spazio del Merzbau è uno spazio gotico: l’impossibilità di abbrac-ciare l’opera in un solo sguardo, il legame profondo fra architettura e immagine ela capacità di sovrastare, anche a livello spirituale, il visitatore avvicinano il pro-getto di Schwitters all’idea di cattedrale gotica che aveva animato il Bauhaus38. Èun tempio costruito entro uno spazio domestico, una cattedrale eretta all’interno diuna casa, come auspicava John Ruskin in The Seven Lamps of Architecture (1849)39,lontana dalla cattedrale bianca, «vergine, priva di tutti gli interventi artisticiparassitari» ricercata da Le Corbusier40.

Anche in questo caso tuttavia, e contro ogni possibile esito ornamentale, lapresenza dell’arte nello spazio dell’architettura può produrre conseguenze inaspet-tate e addirittura ridisegnare lo spazio architettonico. In proposito scrive Le Cor-busier: «Ammetto l’affresco non per valorizzare un muro, ma al contrario comemezzo per distruggere tumultuosamente il muro, per togliergli tutte le nozioni distabilità, di peso etc.»41. Un programma che ricorda da vicino le conseguenzedell’ingresso entro lo spazio museale dell’installazione dell’artista, cui in epocacontemporanea si aggiunge la partecipazione (e talvolta quasi la co-autorialità) delcuratore. Se proiettassimo sugli anni Novanta e al principio del XXI secolo quelladialettica fra architettura e installazione a cui abbiamo accennato a partire da treopere dell’avanguardia storica, ci troveremmo spesso di fronte a uno spazio dise-gnato a sei mani. Solo recentemente la f luidità o ambiguità nella distinzione diruoli fra curatore, artista e architetto è divenuta un elemento caratterizzante dellaprogettazione dello spazio espositivo. L’attribuzione all’architetto della mera fun-zione di progettazione dello spazio entro cui l’opera dell’artista si colloca, lascian-do al curatore la creazione del contesto espositivo, ovvero di una struttura discor-siva che lega le opere in un percorso visivo e di senso, appare oggi una distinzioneinadeguata. Se si considerano esperienze come Zone of Urgency/Zone di urgenza, pre-sentata da Hou Hanru alla 50a Biennale di Venezia, ci si accorge di quanto la rea-lizzazione della mostra poggi in realtà su tre contesti, su tre voci che interpretanoun’idea rendendo possibile un progetto espositivo molto prossimo al principio

38 Mark Rosenthal, cit., p. 33.39 Le Corbusier, L’art decoratif d’aujourd’hui, Paris, G. Crès, 2002; J. Ruskin, The Seven Lamps ofArchitecture, London, G. Allen, 1904.40 Cit. in F. Barré, Contour et Allertours in A.-M. Charbonneaux e N. Hillaire (a cura di), Oeuvre etlieu: essai set documents, Paris, Flammarion, 2002, p. 6.41 Ibid.

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dell’opera d’arte totale che animava l’ipotesi di piena collaborazione fra le artisostenuta da Bauhaus e dal Proun di Lissitzsky. Nel caso di Hanru, la volontà dirappresentare la scena cinese contemporanea attraverso la ricostruzione del conte-sto in cui è stata prodotta – quello «spazio urbano esploso» che corrisponde allezone di urgenza citate nel titolo della sua mostra – ha permesso di trasporre il rit-mo di visione proprio della metropoli negli spazi dell’Arsenale. Attraversato dauna serie di pedane di altezza irregolare, Zone of Urgency/Zone di urgenza presentaal visitatore un piano espositivo a più livelli, offrendo una fruizione lontana daquella abitualmente esperita nei musei tradizionali. Le opere emergono “dallo”spazio, più che esservici collocate staticamente, in modo analogo agli oggetti e alleimmagini che incrociano il nostro sguardo nelle aree urbane. Come auspicava LeCourbusier, l’opera non valorizza il muro, ovvero il contesto dell’istituzione, malo “distrugge”, modificando, analogamente al Trébuchet di Duchamp, il comporta-mento del visitatore nello spazio.

Vernon Hyde MinorLA CAPPELLA CORSINI: UN MUSEO NEOCLASSICO?

Il mausoleo dei Corsini nella basilica romana di San Giovanni in Laterano è consideratotalvolta dagli storici dell’arte come un esempio di transizione dal Barocco al Classicismo.A partire da un esame delle strategie di fruizione critica della Cappella, interpretabile siacome spazio museale sia come luogo retorico-celebrativo, il saggio propone una lettura erme-neutica della genesi del discorso museale moderno, soffermandosi sull’origine del paradigmaestetico da cui dipende l’orizzonte concettuale del museo moderno.

L'ultima cosa che Ludwig von Pastor descrive nella sua vita di Clemente XII Cor-sini (papa, 1730-40) è la cappella della famiglia Corsini nella basilica romana diSan Giovanni in Laterano (fig.1). Egli afferma che «il mausoleo dei Corsini è unatestimonianza eloquente del senso d'arte di Clemente XII, come la facciata latera-nense innalzantesi di un solo getto è una prova del passaggio al classicismo ope-rantesi nell'architettura italiana»1. Sebbene molto sia stato scritto sull'arte esull'architettura romana dai tempi di von Pastor, l’idea che la Cappella Corsinioccupi una qualche zona di transizione fra il Barocco e una versione del classicismonon è stata messa seriamente in discussione. In un importante studio della Cap-pella Corsini2, Elisabeth Kieven per prima cosa passava in rassegna le reazioni

1 L. Barone von Pastor, Storia dei Papi, tr. Mons. Prof. Pio Cenci, vol. XV, Roma, Desclée & Ci. Edi-tori Pontifici, 1962, p. 795.2 E. Kieven, Überlegungen zu Architektur und Ausstattung der Capella Corsini, Studi sul Settecento: L’archi-tettura da Clemente XI a Benedetto XIV—Pluralità di tendenze, a cura di E. Debenedetti, Roma 1989,pp. 69-91.

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 93-110

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contemporanee alla Cappella, per proseguire con ciò che avevano da dire le succes-sive generazioni di commentatori. Si scopriva così che gli sprezzanti commentiapparsi negli anni Trenta venivano in larga parte a cadere negli anni centrali delsecolo. Kieven spiega in parte il fenomeno con il ruolo di precursore attribuitoall'architetto Alessandro Galilei. Molti dei commenti denigratori iniziali sembra-no rif lettere un poco lusinghiero (e forse inconscio) confronto fra la Cappella Cor-sini e la cappella mausoleo di Sisto V a Santa Maria Maggiore (che fu il modellodi Galilei). Ciò che sembra possibile stabilire è che Galilei supera l'arte romanacoeva – e in verità anche quella del passato abbastanza recente (in particolare,l'architettura di Carlo Fontana nella Cappella Sistina in Santa Maria Maggiore) –e si muove nella direzione di un senso neoclassico della forma, cosa che Kievendimostra nelle sue analisi degli elementi architettonici della Cappella Corsini. Ellasostiene invero che la Cappella Corsini di Galilei fu un «precursore» del Neoclas-sicismo. Essere in anticipo sui tempi nel 1730 significa, fra le altre cose, compiereuna svolta verso la chiarezza e la precisione e un allontanamento dalla grandeur diuna scala monumentale. Forse questo allontanamento dalla maestà e dal decorobarocco è ciò che conduce il diarista romano contemporaneo Francesco Valesio acommentare che la cappella «non ha incontrata la soddisfazione di tutti, venendominuta e secca» 3.

Cercare di collocare la cappella lungo un continuum fra uno stile e il successivoè una tipica e in alcuni casi utile consuetudine storico-artistica. La categoria delclassicismo può essere applicata alla Cappella Corsini in molti sensi diversi. Primadi tutto, quando il termine viene usato in storia della letteratura e in storiadell'arte rinvia ad una versione dell'antico precetto dell'imitatio auctorum: imitare imodelli migliori e i migliori maestri, vale a dire l'arte della Grecia e di Roma(come pure del Rinascimento). L'intero vocabolario architettonico (se non necessa-riamente la sintassi) di questa cappella deriva dai modelli vitruviani. Nella storiadell'arte, in modo particolare, il termine classico è stato associato alla versione

3 F. Valesio, Diario di Roma, ed. a cura di G. Scano e G. Graglia, V, Milano, 1979, p. 758: «Cele-brandosi oggi la festa di S. Andrea Corsini, si fece solenne musica nella nuova cappella fabricata daS. Beatitudine in S. Giovanni in Laterano ed ora terminata: vi assisté tutto il capitolo ed, essendol’aria serena e temperate, vi furono a visitarla molti de’ cardinali ed all’arrivo di ciascheduno di que-sti si sparavano Quattro mortaletti, il che fece fare lo scarpellino di detta cappella, ricca di marmi emetalli, ma non ha incontrata la soddisfazione di tutti, venendo riputata minuta e secca». Cit. in E.Kieven, Überlegungen zu Architektur, cit., p. 69.

La Cappella Corsini: un museo neoclassico? 95

wölff liniana delle forme «chiuse» e lineari in opposizione a quelle «aperte» e pit-toriche del Barocco. Ma ugualmente, l'incantamento che le categorie stilisticheesercitano sulla storia dell'arte porta ad anomalie. In questo caso, si dovrà dire chela cappella non è rinascimentale, manierista, barocca, rococò, e nemmeno ancorapropriamente neoclassica; essa sembra muoversi lungo una traiettoria fra il Baroccoe il Classico, ma nessuno sa davvero dove collocarla precisamente. Ciò che impa-riamo dal situare un oggetto in una scala stilistica graduata, non è sempre cosaovvia. Questo porre categorie formali quali mezzi per decodificare e comprenderela cappella può, in altre parole, condurre lontano dai suoi molteplici significati,come ad esempio le circostanze che accompagnano il concepimento e l'esecuzionedell'opera d'arte. La difficoltà può avere a che fare con il fatto che la Cappella Cor-sini e le sue decorazioni apparvero in un periodo nel quale gli eruditi italiani eranocoinvolti, come potremo vedere brevemente, in febbrili dibattiti sulla retorica let-teraria e visiva e sul concetto ribelle del “buon gusto”.

Pastor fa anche l’insolito ma acuto commento che la Cappella Corsini «rappre-senta un piccolo museo della scultura romana del tempo»4. In altre parole, la cap-pella non è diversa da Palazzo Nuovo in Campidoglio, dove il Marchese GregorioAntonio Capponi, sotto la tutela di Papa Clemente XII, aveva appena sovrintesoall’apertura del primo museo pubblico d’Europa. La differenza fra i due è che ilmuseo Capitolino ospita sculture antiche, mentre la Cappella Corsini contienesculture degli anni ’30 del 1700 (sebbene alcuni dei monumenti siano costituitida materiale antico). In ogni caso, per quanto il Museo Capitolino e la CappellaCorsini siano spazi architettonici con scopi apparentemente differenti, si puòosservare come essi condividano più di quanto ci si aspetterebbe in un primomomento. Le due osservazioni – che la Cappella Corsini è «in transito» e perciònon precisamente determinabile (per quanto “classica” in senso lato), e che l’effet-to dell’insieme è simile a quello di un museo – rivelano lo statuto incerto delle artivisive nel mezzo delle discussioni assai controverse sul gusto e sulle poetiche nellaprima parte del diciottesimo secolo. Esse rivelano inoltre qualcosa del modo in cuila critica storico-artistica moderna ha tentato di cogliere la verità di un oggetto odi un insieme artistico.

Più che riportare i fatti riguardanti la Cappella Corsini (che sono già ben defi-niti), il mio proposito qui è quello di valutare le interpretazioni e gli apprezza-

4 L. Barone von Pastor, Storia dei Papi, cit., p. 795.

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menti del complesso architettonico, allora e oggi. Spero di dimostrare in tal modoche gli artisti e i mecenati cercavano di affrontare il concetto emergente del “buongusto”. Come risultato, la scultura (in particolare) dimostra un esitante, titubanteatteggiamento verso la sua funzione trascendentale, mentre l’architettura rif letteun nuovo genere di decorum, che in senso storico-artistico non è classico.

Giacché il significato della Cappella Corsini non è soltanto filosofico o religioso– ma piuttosto ha anche a che fare con il modo in cui gli osservatori entrano in rap-porto con il suo spazio – vorrei fare ora alcuni commenti introduttivi sul modo incui un osservatore, e in modo particolare uno storico dell’arte, visita la cappella ela sottopone a giudizio. Qual è, in altre parole, il mio atteggiamento rispetto aquesto insieme architettonico, decorativo e scultoreo? In primo luogo, comevediamo la Cappella Corsini agli inizi del ventunesimo secolo? I Corsini possiedo-no ancora il mausoleo di famiglia, e non lo aprono normalmente al pubblico, adeccezione del giorno della festa di Sant’Andrea Corsini. Per il resto dell’anno lacappella è visibile solo attraverso bellissimi cancelli in ferro battuto che vanno dalpavimento al soffitto, posti all’entrata della cappella sulla navata interna sinistra,dall’ingresso della basilica Laterana. Dopo aver fatto richiesta alle autorità prepo-ste, uno storico dell’arte (mi pongo nella posizione del visitatore) può ottenere ilpermesso di entrare nella cappella ai fini di un esame “professionale”. In altreparole, per lo storico dell’arte l’“essere nel mondo” della Cappella Corsini è siadefinito che delimitato in qualche modo da un impegno nei confronti dei discen-denti, come pure da un dovere nei confronti della propria professione. Dal puntodi vista dello studioso, è possibile scegliere di fare esperienza dello spazio come sefosse davvero un museo di scultura, architettura, opera in marmo e gusto. Questoper dire che io, come storico dell’arte, cercherei probabilmente di valutare la cap-pella (mentre compio la mia visita privata) nei modi che sono peculiari alle con-suetudini della storia dell’arte: ponendo la cappella e le sue decorazioni in un con-testo o in una cornice di studi, chiamando in causa categorie stilistiche e un giu-dizio estetico, porterei a compimento le mie responsabilità di storico dell’arte,dando alla mia esperienza nella cappella un qualche centro disciplinare. Allo stessotempo, per motivi in gran parte riconducibili al periodo in cui vivo, camminereinella cappella come se fosse un museo. La mia visita sarebbe motivata principal-mente dal desiderio di vedere l’arte, non di contemplare la memoria di ClementeXII, di S. Andrea Corsini, e degli altri membri della famiglia. Ciò nondimeno,farei attenzione alla rappresentazione artistica della morte (il sarcofago e i puttiche si asciugano pigramente gli occhi o spengono una fiaccola), alla commemora-

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zione, l’identità, il potere, la religione, la tradizione e l’autorità. Sarò un lettore eun destinatario – o un partecipante – di particolari messaggi provenientidall’architettura e dai suoi arredi. Come spero di mostrare, i messaggi o i sugge-rimenti estetici complicheranno probabilmente i miei doveri di storico dell’arte.

Nella Cappella Corsini è percepibile in realtà un’inquieta tensione tra la bel-lezza e il significato trascendentale, un’inquietudine che credo abbia impresso ilsuo tono alle discussioni sulla cappella nel diciottesimo secolo, e che sta sullo sfon-do dei commenti moderni.

Il mio spazio esistenziale – vale a dire, il mondo che occupo e nel quale cam-mino – è anche lo spazio del mondo dell’arte. Sono fisicamente all’internodell’opera d’arte, anche se l’uso di piedistalli, un trono e le nicchie aiuta a isolaree a far spiccare ciò che Gaston Bachelard chiama lo «spazio eulogizzato» per lascultura.

Il contesto storico di questo periodo dell’arte romana, spesso chiamato “Baroc-chetto”, conduce ad una visione estetica che considero malaccorta, fondatasull’idea di un piccolo Barocco, un Barocco che è stato reso grazioso e svuotato del-la sua grandeur. Ad esempio potremmo osservare che la statua della Temperanza diFilippo Della Valle (fig.2) ha alcune cose in comune con l’immagine della Gene-rosità di Alessandro Algardi (fig.3) per la Tomba di Leone XI (completata nel1644) in San Pietro. Ciò che forse fa della figura di Della Valle una parte delBarocchetto, comunque, è la sua scala più piccola e il suo privilegiare i dettagliintimi. Hugh Honour osserva che la preferenza di Della Valle per gli schemi e lesfaccettature intricate, rende la sua opera non del tutto appropriata ad una sua col-locazione in grandi contesti architettonici5. Ma c’è dell’altro, qualcosa che va aldilàdi ciò che normalmente si associa al Barocchetto (o alternativamente Barocco déten-te o “classicismo tardo Barocco”), e questo qualcosa ha a che fare con la “leggiadria”della Temperanza, con il suo esser quasi ricoperta dalle vesti ondeggianti ma pienedi pieghe, con il suo creare un raffinato effetto erotico con il petto messo a nudo.E la scarsa attenzione rivolta al sobrio suo compito di versare l’acqua nel vinogenera perplessità. Se è una figura allegorica, perché questo distacco dai suoi dove-

5 H. Honour, Filippo Della Valle, «Connoisseur»¸ CXLIV, 1959, p. 172-179. Vedere inoltre V. HydeMinor, Passive Tranquillity: the Sculpture of Filippo Della Valle, Philadelphia, American PhilosophicalSociety, Transactions Series, 1997.

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ri? Questa frattura – addirittura ripudio – dell’allegoresis, insieme alla sua ossimo-rica castità erotica dovrebbero essere per noi i primi segnali che qualcosa è fuoriposto. Ritornerò brevemente su questi temi.

Rudolf Wittkower affermò (con riferimento specifico alla Temperanza) cheFilippo Della Valle fu uno degli «scultori più attraenti e poetici del diciottesimosecolo romano». Fece riferimento anche alle «belle qualità e l’abilità tecnica»6 diDella Valle. Questi commenti sono, ovviamente, mere caratterizzazioni, certo nongiudizi definitivi; ma fanno cenno una volta ancora alle propensioni verso l’arte egli artisti della generazione della Cappella Corsini. Cosa sta realmente accadendoin questo contesto? Perché noi storici e storici dell’arte camminiamo in punta dipiedi attorno all’arte del cosiddetto “Barocchetto”, senza riuscir mai ad arrivare aduna conclusione rispetto alla sua missione, il suo significato, la sua metafisica?Nella letteratura sull’arte del primo Settecento ci sono abbondanti segnali chestesse accadendo qualcosa di piacevole ed estetico, ma cosa esattamente?

Una prima descrizione della Cappella Corsini di Caterina Chracas, redattricedel notiziario settimanale ed organo semi-ufficiale del Vaticano Diario ordinario,riferisce quanto segue:

Essendosi terminata la fabrica della magnifica cappella dell'Eccma Casa Corsini, nuo-vamente costrutta nella sagrosanta Patriarcale Basilica di S. Giovanni in Laterano,ornata di fini marmi, bassorilievi, statue e bellissimi stucchi messi ad oro, con ottimaarchitettura e buon gusto in tutte le sue parti, siccome arricchita di tutte le sagre sup-pellettili, ed altri finimenti che si richiedono per un sì decoroso luogo, con ogni pro-prietà e splendidezza; ieri mattina dall'Emo Sig. Card. Guadagni, Nipote e VicarioGenerale della S. di N. S. fu l'altare della medesima Cappella consagrato in onore delglorioso S. Andrea Corsini Vescovo di Fiesole, e vi ripose le reliquie de Ss. Mm. Loren-zo e Clemente, esposte il giorno antecedente dalla stessa Eminenza Sua nella cappelladel Coro d'inverno di quel R.mo Capitolo; alla medesima funzione che venne fatta conogni maggior solennità, e coll'assistenza di tutto quel Rmo Capitolo Laterano, vi fumolta Prelatura, Nobiltà e popolo, oltre l'esservi intervenuto in coretto 1'Emo Sig.Card. Corsini, parimenti Nipote della S. S. con tutta 1a di lui Ecc.ma Casa, e Sig.Gran Priore Antinori7.

6 R. Wittkower, Art and Architecture in Italy 1600-1750, Parte III: Late Baroque and Rococo 1675-1750, rev. Joseph Connors and Jennifer Montagu, New Haven, Yale University Press, 1999, p. 56(Arte e Architettura in Italia 1600-1750, trad. di L. Monarca Naldini e M. V. Malvano, Torino,Einaudi, 1972, p. 385).7 Chracas. Diario ordinario (di Roma), January 8, 1735, n. 2721, p. 10.

La Cappella Corsini: un museo neoclassico? 99

Vi sono numerosi commenti rivelatori in quella che appare una descrizioneabbastanza prosaica, sebbene dotata di sanzione ufficiale, della dedica della nuovacappella, un evento per nulla inusuale nella Roma del Settecento. I riferimenti aimarmi fini, ai rilievi, alle statue, alle magnifiche lesene, il ricco arredamento e gliornamenti aiutano a sottolineare la dignità del luogo, il decoro dell’evento, el’“eccellente” casata dei Corsini. Questa descrizione rappresenta un sottile cambia-mento nella dottrina tradizionale del decorum. Per quanto il decorum classico o ora-ziano abbia sempre avuto implicazioni qualitative, esse si accentuarono all’iniziodel diciottesimo secolo. Ciò che nelle classiche tradizioni umanistiche della cultu-ra e retorica italiana era associato alla giusta misura e alla commensurabilità oratende verso un emergente concetto del gusto – e non un gusto qualunque, ma spe-cificamente il “buon gusto”.

Le discussioni sul gusto fiorirono e proliferarono attraverso l’Europa neldiciottesimo secolo: alcuni in Italia erano particolarmente frustrati dalla mancanzadi volontà da parte degli eruditi italiani di accettare un elemento chiave in un con-cetto emergente delle pratiche artistiche e letterarie che non fosse legato alla tra-dizione retorica italiana. A questo punto però dobbiamo fare un passo indietro peruna breve analisi di uno dei grandi ma relativamente poco conosciuti (specialmen-te al di fuori dell’Italia) dibattiti nella filosofia dell’arte – quello fra DominiqueBouhours e il Marchese Gian Gioseffi Orsi.

Sebbene i temi del dibattito Orsi-Bouhours siano complessi, la sua storia puòessere raccontata abbastanza velocemente. Il gesuita francese DominiqueBouhours, un assiduo frequentatore dei salotti di Mademoiselle De Scudery e diPresident Lamoignon (che fu un sostenitore della causa giansenista) pubblicò Lesentretiens d'Ariste et d'Eugène nel 1671, seguito dal più incisivo La manière de bienpenser dans les ouvrages d'esprit8 del 1687, nel quale gettò il guanto di sfida nellabattaglia per l'egemonia culturale fra Francia e Italia e tentò di presentare il nuovoconcetto di gusto come un elemento cruciale del rivoluzionario nuovo modello

8 G.G. Orsi, Le considerazioni sopra un famoso libro franzese intitolato La manière de bien penser dans lesouvrages d’esprit, Bologna, Pisarri, 1703. Un’edizione successiva – Marchese Giovan-Gioseffo Orsi,Considerazioni Sopra la Maniera di ben Pensare ne’ Componimenti già pubblicata dal Padre DomenicoBouhours della Compagnia di Gesù, Modena, 1735 (s’aggiungono tutte le Scritture, che in occasionedi questa letteraria Contesa uscirono a favore, e contro al detto Marchese Orsi, Colla di lui Vita, ecolle sue Rime in fine) 2 vol. – unisce una traduzione in italiano del testo di Bouhours e vari scrittidi Orsi e altri letterati coinvolti nella controversia.

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francese di arte e cultura. Già nel 1674 Nicolas Boileau, il cosiddetto legislatoredel Parnaso, aveva dato inizio con L'art poétique alla critica del Barocco, e alla pro-mozione di un tipo di gusto che in fin dei conti egli attribuiva ai propri lettori.In altre parole, Boileau non aveva alcun desiderio di definire il gusto, ma in veritàrivendicava (nella prefazione alla edizione del 1701 di L'art poétique) di poter desu-mere il gusto dai suoi lettori, gli intellettuali d’élite dei suoi tempi.

Nel 1703 il Marchese Gian Gioseffo Orsi replicò a Bouhours con Le considera-zioni sopra un famoso libro franzese intitolato La manière de bien penser dans les ouvragesd'esprit. Bouhours contribuì a determinare forme del discorso e della scrittura cheelevavano la lingua francese, a spese de (di ciò che molti credettero fosse) la posae la finzione dello spagnolo e dell'italiano; era un nuovo linguaggio delle corti, deisaloni, delle accademie, honnêteté; e – cosa interessante – di molti giansenisti fran-cesi. Promuovendo la lingua francese, Bouhours sperava anche di mostrare a tuttal'Europa un nuovo modo di pensare e scrivere di arte e letteratura. Egli detronizzòAristotele e continuò il lavoro iniziato da Jean Baptiste Colbert e Luigi XIV al ser-vizio della monarchia e dell'assolutismo linguistico9. I dialoghi di Bouhours fraPhilante e Eudoxe sono un attacco agli italiani e all’antica nobiltà francese – lanoblesse d'épée – a beneficio di les honnêtes gens, Racine, St. Cyran e Port Royale, e –quasi albeggiante all’orizzonte – la Repubblica delle Lettere con l'emergente,habermasiana “sfera pubblica”.

Bouhours promuoveva un linguaggio non compromesso dai generi letterari,che fosse adatto per tutti i tipi di scrittura, sia in prosa che in versi, o nella con-versazione cortese. Orsi si era accorto che ad essere sotto attacco era l'intera strut-tura rinascimentale/barocca della poetica e della retorica – in verità, la retorica inquanto tale. Riconoscendo che l'assalto francese non era limitato ad alcune que-stioni o ad opere letterarie individuali, ma all'intero sistema del linguaggio lette-

9 M.G. Accorsi and E. Graziosi, Da Bologna all’Europa: La Polemica Orsi-Bouhours, «La rassegna dellaletteratura italiana», Settembre-Dicembre, 1989, pp. 84-137. La letteratura sulla controversia èpiuttosto estesa: G. Toffanin, L’Eredità del Rinascimento in Arcadia, Bologna, Zanichelli, 1923, pp.59-109; G. L. Moncallero, L’Arcadia vol. I: Teorica d’Arcadia. La premessa antisecentista e classicista,Firenze, Olschki, 1958, pp. 188-231; V. Lugli, Il Muratori e la “placida battaglia” contro Bouhours, inMiscellanea di studi muratoriani (Atti e memorie del Convegno di studi storici in onore di L. A. Muratori nelbicentenario della morte, Modena, 14-16 aprile 1950), Modena, Aedes Muratoriana, 1950, pp. 135-141; F.P. Madonia, Osservazioni in margine alla polemica Orsi-Bouhours, «Esperienze letterarie»,XXIII, n. 1, 1998, pp. 77-89.

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rario italiano e alla nozione aristotelica dell’imitazione come guida critica alla cre-azione letteraria, Orsi deplorò l'epocale importanza di questa nuova attitudine«antiprecettistica». Così, come a erigere difese contro questo «infranciosamento»,Orsi recuperò uno dei grandi modelli della tradizione italiana, Petrarca (e i petrar-chisti del Cinquecento) in qualità di rinnovatore dell'elegia, dell'ode, e della poesiapastorale. Orsi non avrebbe potuto concepire la rinuncia al petrarchismo; speròche grazie al prestigio del grande poeta, la tradizione italiana che lui rappresentavasarebbe stata inattaccabile. Il marchese bolognese insisteva anche sulla distinzionefra il lirico e il drammatico, mentre si opponeva al prosaicismo del linguaggio let-terario.

Orsi avrebbe potuto ammettere che un certo grado di naturalezza non eraqualcosa di negativo, ma allo stesso tempo non comprese il sensible naturel francese,o volle semplicemente confutarlo. Il suo appello alla via media in retorica fu ilpunto di massima vicinanza che egli volle concedere alla nature di Bouhours.

Tutto ciò non significa che gli italiani non fossero interessati ad una riforma;non si può nemmeno essere d’accordo con Guido Tagliabue secondo cui gli italianinon la compresero. Gli italiani che parteciparono al dibattito Orsi-Bouhours nonavevano intenzione di adottare il “buon gusto” nei termini indicati da Boileau oBouhours, che essi giudicavano essere essenzialmente anti-italiano. Uno dei temicentrali nella discussione sul buono e cattivo gusto fu, dopo tutto, l’identità nazio-nale. Respingendo Bouhours e Boileau mentre utilizzavano a loro modo il concettodi “buon gusto”, gli italiani – molti dei quali erano allo stesso tempo membridell’Accademia degli Arcadi – stavano anche lottando con la loro identità italiana ela loro posizione all’interno di un eterogeneo raggruppamento di studiosi, genti-luomini, signore, funzionari della Chiesa, giuristi, insegnanti, riformatori, librai,poeti – in breve, intellettuali che stavano cercando di organizzare e dare senso avari strati della cultura.

Quando Camillo Ettorri, il confratello di Dominique Bouhours nella Societàdi Gesù, pubblicò nel 1696 il suo Il buon gusto ne' componimenti retorici, egli, comeOrsi poco dopo di lui, percepì l'importanza del nuovo discorso francese sul gusto.Come Orsi, Ettorri definiva il concetto di “buon gusto” in modo che i suoi colle-ghi italiani potessero comprenderlo (come indica il titolo) contestualizzando il“buon gusto” all'interno della tradizione retorica, e più o meno intenzionalmentefraintendendo le parole di Bouhours.

102 Dopo il museo

Egli traduceva sentiment naturel con «naturale giudicio», spostando il signifi-cato della frase dal sentimento al giudizio10. Quando Ettorri scriveva che il gustoè «il giudicio regolato dall'arte», limitava il concetto di giudizio subordinandoloall'arte, e fissava dei precetti retorici. In tal modo egli rendeva il concetto più ari-stotelico e meno anti-retorico. Egli tradusse anche la noblesse, l'agrément, e la deli-catesse con il «sublime», il «bello», e «il delicato», facendo conto così del suo desi-derio palese di giungere a una nuova estetica basata sulla vecchia retorica11. Ettorrie i suoi colleghi critici e intellettuali bolognesi non erano in accordo con il lin-guaggio usato da Bouhours. L'uso fatto dallo scrittore francese delle parole coeur eesprit mostra come gli italiani tendessero a non vedere da una parte l’aspetto affet-tivo e l'emozionale, e la concezione della ragionevolezza e del buon senso diBouhours dall'altra. Gli italiani piuttosto traducevano esprit con «ingegno», cosache diede vita alla specie di opposizione retorica fra ingegno – abilità, intelligen-za, ingegnosità, inventività – e «arte»12.

A dispetto delle imbeccate che gli italiani non colsero (o evitarono) nelledisquisizioni sul “buon gusto” di Bouhours e Boileau, i bolognesi – e ben prestotutti gli intellettuali italiani – videro la necessità di una riforma culturale, lette-raria, artistica.

Sebbene la poesia italiana seguisse ancora alcuni fraseggi latinizzanti e dipen-desse dall'iperbole e dall'inversione, l'italiano discorsivo aveva largamente abban-donato gli stili più vecchi di fraseggio e, come il pastorale, aveva sostituito lecostruzioni ipotattiche con le paratattiche, preferendo proposizioni dichiarativerelativamente chiare.

Questo dibattito franco-italiano fu al centro del fermento intellettuale e dellosviluppo della Accademia degli Arcadi e degli scritti critici di Crescimbeni, Mura-tori, Gravina, Maffei, Manfredi, Villisneri e Zeno. Gli italiani divennero più con-sapevoli della loro tradizione letteraria e del fatto che il Barocco e il Marinismoerano divenuti passé. Riconobbero che il pubblico dei lettori italiani era ormai

10 C. Ettorri, Il buon gusto ne’ componimenti retorici, Bologna, 1696, pp. 4-5: «Un autor franzese che,senza nome ha stampato in materie di ben parlare, reca due definizioni del buon gusto (diciam così)rettorico. L’uno, che egli è armonia d’ingegno e di ragione: l’altra un naturale giudicio il qualerisiede indipendentemente da’ precetti nell’animo di alcuni; in vigor di cui reprimendo l’impetodell’ingegno fa che si contegna nelle sue proposizioni entro i confini della ragione».11 E. Graziosi, Da Bologna all’Europa, cit., p. 113.12 Ivi, pp. 122-123.

La Cappella Corsini: un museo neoclassico? 103

diventato assai consapevole dei grandi cambiamenti letterari, intellettuali e forseanche politici europei, tutti cambiamenti che sarebbero stati compresi abbastanzapresto all'interno del contesto culturale dell'Illuminismo. È grazie a Bouhours (edopo la sua morte, ai cosiddetti «giornalisti gesuiti» che pubblicarono le Mémoiresde Trèvoux) e a Boileau che vi fu una ricerca quasi frenetica da parte dei loro nemicidi una tradizione letteraria italiana, che doveva manifestarsi prontamente neiquattordici volumi delle Rime degli Arcadi di Giovan Mario Crescimbeni, nella suaL'istoria della vulgar poesia (Roma, 1689) e nei quattro volumi sul petrarchismoitaliano curati da Manfredi, Scelta di sonetti e canzoni de' più eccellenti rimatori d'ognisecolo (Bologna, 1709-1711).

Questa digressione sul “buon gusto” ci ha fornito una base per la nostra espe-rienza della Cappella Corsini, e suggerirà alcuni modi in cui essa sembrerebbe cre-are l'esperienza di un museo. La nozione del gusto proposta da Bouhours e Boile-au, portata avanti da Shaftesbury, Hutcheson, Gerard (An Essay on Taste, 1759),Hume e infine da Kant (che fece del disinteresse una parte del primo momentodella giudizio sul gusto) è nel complesso aforistica, basata sull'intuito e quasi com-pletamente gnostica; è empirica ed esperienziale, talora delicata e sentimentale, einevitabilmente estetica.

Nei suoi scritti su Longino e il sublime, Boileau incoraggiò un nuovo tipo dicreatività e di immaginazione. Il “buon gusto” è qualcos’altro. Quando GiovanMario Crescimbeni, uno dei fondatori nel 1690 dell’Accademia degli Arcadi, cosìcome suo primo (e per lungo tempo) Custode Generale, scrisse una prima storiadegli Arcadi, egli affermò che era missione della sua accademia «maggiormentecoltivare lo studio delle scienze e risvegliare di buona parte d’Italia il buon gustonelle lettere umane ed in particolare nella poesia volgare» 13. Come Ludovico Anto-nio Muratori e Camillo Ettorri, egli voleva estendere il “buon gusto” a tutte lescienze e le arti, comprese le arti visive. Ettorri scriveva «… non è ristretto il buongusto a’ professori di lettere umane. Si stende a chiunque compare in alcun’operaegregio; in quanto, ben capita l’idea, o mostra le sue fatture a le conformi, odell’atrui pronuncia retta sentenza. E così abbiam’ Pittori, Scultori, Architetti,Ricamatori, &c. di buon gusto, opposti ad altri, che lo son di cattivo»14. Fondando

13 G.M. Crescimbeni, Breve notizia sullo stato antico e moderno dell’adunanza degli Arcadi, Roma: A. de’Rossi, 1712 (edizione successiva pubblicata come Storia dell’Accademia degli Arcadi istituita in Romal’anno 1690, Bulmer and Co., London, 1804, p. 5).14 C. Ettorri, Il Buon Gusto ne’ Componimenti Rettorici, Bologna, 1696, p 4.

104 Dopo il museo

l’accademia sull’Arcadia di Jacopo Sannazzaro (con le sue radici nelle tradizionidella poesia pastorale petrarchiana, virgiliana e di Teocrito), Crescimbeni e gli altrifondatori dell’accademia scoprivano un modo per collocare il nuovo discorso sul“buon gusto” in una tradizione poetica che cercava una via mediana nello stile e nellinguaggio, decisamente anti-barocca – il sine qua non per qualsiasi movimento cul-turale e artistico che tentasse di essere attuale mentre evitava allo stesso tempo leimplicazioni più dirompenti della spinta francese verso il bon goût.

I principali patroni, consiglieri, l’architetto, e gli scultori della Cappella Cor-sini non avrebbero potuto evitare le implicazioni della discussione sul “buongusto” più di quanto avrebbero potuto escludersi dalle proprie istituzioni cultu-rali e religiose o dalle circostanze proprie delle loro carriere artistiche. La convin-zione moderna per cui la cappella rappresenta un movimento verso il classicismo,mentre è generalmente corretta per la vaga maniera con cui gli storici dell’arteusano questo termine, non affronta tuttavia la questione del “buon gusto”. Piut-tosto che invocare il classicismo, si farebbe meglio a reagire a ciò che Muratoriintendeva con “buon gusto”: «… il conoscere ed il poter giudicare ciò, che siadifettoso, o imperfetto, o mediocre nelle Scienze e nelle Arti …». Per Muratori ei suoi contemporanei era più semplice definire il “buon gusto” partendo dal suoopposto, il “cattivo gusto”. Ad essere in difetto erano l’eccesso, il concettismo,agutezza, le metafore tortuose e l’eccessiva elaborazione. Per quanto avesse ammi-rato Giovanni Battista Marino, Muratori dovette infine attribuire la colpa per la«decadenza» e il «barbarismo» della cultura italiana – quei peccati che avevanoofferto a Bouhours, Boileau ed altri i colpi per abbattere gli italiani – alla ScuolaMarinesca. Egli scrisse,

Per anni parecchi è stata in gran credito la Scuola Marinesca … ma da molti anni inqua essendosi accordati i migliori Ingegni d’Italia per isbandire que’ pensieri ingegno-si che non han per fondamento il vero s’è ridotta a pochi giovani mal accorti o vecchitenecissimi dell’antico linguaggio la Monarchia del Gusto cattivo. O con isdegno ocon riso s’intendono ora le agutezze, i Concetti falsi avendo finalmente la Ragione, laVerità e il buon Gusto riportata vittoria e trionfato nelle Accademie Italiane. Con tut-to ciò, poiché il desiderio di giovare altrui mi ha fatto riprendere questa fatica, saràparimenti lecito a me di perseguitar le reliquie di una peste letteraria che va ripullu-lando ne’ versi e nelle Prose d’alcuni e massimamente perchè vivono ancora col bene-ficio delle stampe coloro che, o in Teorica o in Pratica, fondarono il barbaro Regno diquesti falsi pensieri15.

La Cappella Corsini: un museo neoclassico? 105

In un commento alle Reflessioni sopra il buon gusto di Muratori, il veneziano Ber-nardo Trevisan scrisse che «Spesso nell’ardire eccede; spesso manca nella cautela;e sempre, che in uno di questi estremi s’abbatta, si scosta dal Vero, s’allontana dalBene, e dal Buon Gusto s’aliena»16.

In altre parole il “buon gusto” è altamente prescrittivo. Evitando gli estremie le posizioni ardue (o eccessivamente ardenti), si procede in sintonia con il buonoe il vero, liberi dalle opinioni ricevute (uno dei grandi fastidi del Muratori) e dallatroppa fiducia riposta nei maestri dell’antichità. Giacché il “buon gusto” nel Set-tecento romano era inseparabile dallo stile arcadico e pastorale, occorre tener contoalmeno in termini generali dell’ambiente e dell’atteggiamento arcadico/pastorali.Tutto ciò lo si deve vedere contro lo sfondo di una cappella mausoleo, postaall’interno del perimetro di una delle grandi basiliche del cattolicesimo, la cui pre-senza doveva commemorare il pontefice, rivelando allo stesso tempo la veritàattraverso le figure allegoriche delle virtù.

Torniamo ora alla Temperanza di Della Valle. Come ho già suggerito, c’è qual-cosa di sconcertante in questa figura. Il bibliotecario di Corsini, Giovanni Bottari(che fu un arcadico – come lo furono Neri Corsini e Filippo Della Valle) stabilìquali allegorie mostrare. Scelse le quattro virtù platoniche o cardinali, e suggerìche gli scultori seguissero, in linea generale, le rappresentazioni di Cesare Ripanell’Iconologia17. Alla base delle pareti della cappella vi sono quattro porte, soprale quali sono i quattro sarcofagi di marmo nero per la famiglia Corsini. Essi sonosormontati dalle nicchie che contengono le statue allegoriche. Oltre alla Temperanzadi Della Valle, troviamo la Forza di Giuseppe Rusconi, la Giustizia di GiuseppeLironi e la Prudenza di Agostino Comacchini (fig. 4).

Come avvenne per il linguaggio allegorico in generale, nella scultura romanala rappresentazione delle virtù, dei vizi ed altre personificazioni morì di una mortelenta nel diciottesimo secolo18. Sebbene non ci sia alcun dubbio che queste statue

15 L. A. Muratori, Opere, vol. IX, parte 1; citato in G. L. Moncallero, L’Arcadia: Teorica D’Arcadia, Lapremessa antisecentista e classicista, Firenze, Leo S. Olschki, 1953, p. 148.16 B. Trevisano, Introduzione all’Opera del Pritanio cioè la Teorica del Buon Gusto, in Opere del PropostoLodovico Antonio Muratori, VIII, Arezzo, 1768, p. 47.17 Per Ripa si veda l’edizione a cura di Piero Buscaroli e con una prefazione di Mario Praz, Milano,Editori Associati, l992.18 V. Hyde Minor, The Recollection and Undermining of Allegory in Eighteenth-Century Roman Sculpture,«Storia dell'Arte», n. 57, 1986, pp. 183-191.

106 Dopo il museo

nella Cappella Corsini in un certo modo significhino la tradizione generale dellevirtù, i segnali sono deboli e frammentati. Poiché ho già introdotto il temadell’esperienza dell’osservatore nella Cappella Corsini (cosa essenziale se dobbiamoentrare nei significati di questi lavori, per permettere allo spazio di aprirsi per noi),vorrei ora tornare a un certo dialogismo, termine con il quale intendo la conver-sazione che si sviluppa fra le statue e l’interlocutore. Come spettatore posso rico-noscere nell’azione di diluire il vino con l’acqua un aspetto della sophrosyne, il prin-cipio greco dell’autocontrollo che sottende la latina, stoica e cristiana tradizionedella temperanza. È interessante notare che, nonostante il suggerimento di Bottaridi attenersi al ben noto testo di Cesare Ripa, Della Valle scelse un’azione non indi-cata nel testo, ma approvata dalla tradizione e dalla letteratura19. Nella cappella,dovrei altresì essere in grado di riconoscere gli attributi delle altre figure allegori-che, come lo scudo e l’armatura della Forza, la spada e la bilancia della Giustizia,e lo specchio della Prudenza. Questi attributi certamente ci aiutano nell’identifica-zione, ma non è chiaro il grado in cui partecipano a rendere la rappresentazioneallegorica un vero agente ipostatico. Trovo che la cinesi – la posizione, i gesti e leespressioni delle astrazioni umanizzate – neghi in un certo modo i valori di cui lefigure dovrebbero essere esempi. Ciò accade perché questi elementi della cinesi, conla loro retorica e la loro psicologia, devono convogliare significati coerenti conl’astrazione sovrintesa alla figura. La personificazione è normalmente catalogata inretorica nella rubrica della prosopopea, che Aristotele (Retorica, Terzo libro) videcome un modo per aggiungere vivacità all’espressione letteraria (o plastica, come inquesto caso). Nessuna di queste sculture però vivifica quelle astrazioni cheAmbrogio, Agostino e Tommaso d’Aquino trovarono essere di tale momento nellavita morale. In verità, se le virtù cardinali sono il vero e proprio cardine (dal latinocardo) sul quale gira il comportamento etico dell’uomo, perché sono espresse in unamaniera così esangue da figure tanto indifferenti?

La Prudenza sembra a tutto il mondo un manichino nella vetrina di un nego-zio. Non che mostri una passività auto-contenuta, come la figura della Prudenzanella tomba di Paolo III in San Pietro creata da Giacomo della Porta; essa non uti-lizza lo specchio per conoscere se stessa, ma piuttosto secondo la tradizione dellavanitas. Ha l’aspetto dell’ammirazione di sé, l’espressione compiaciuta di colei che

19 Cfr. la mia disamina su questa figura, in particolare Art History and Intertextuality, «Storiadell’Arte», n. 92, 1998, pp. 132-142.

La Cappella Corsini: un museo neoclassico? 107

non ha quasi bisogno di guardare nello specchio per trovar conferma di ciò che giàsa di se stessa. È una bellezza.

Le statue di figure allegoriche del primo periodo moderno possiedono una lun-ga storia. Nel più recente passato, come ho già accennato, v’erano quelle immaginidi pietra, che sembrano distanti da ogni narrazione (come quelle sulla tomba diPaolo III); e poi abbiamo personificazioni della Morte, della Carità e della Giusti-zia nel monumento funerario del Bernini per Urbano VIII (San Pietro), che sonocompletamente impegnate in attività mondane o potremmo anche dire storiche,mentre al contempo mettono in chiaro il loro “altro” significante – la loro funzio-ne allegorica. Quelle immagini ieratiche sulla tomba di Paolo sembravano quasiessere vuoti vascelli, che sono ciò nonostante un efficiente veicolo di idee trascen-dentali. Le figure di Bernini raggiungono piena storicità e funzione anagogica. Male allegorie della Cappella Corsini conservano un’autonomia fittiva, come se fos-sero parte del mondo pastorale, che diventa per Wolfgang Iser un archetipo per «ilfittizio e l’immaginario», la condizione necessaria per un apprezzamento esteticodell’arte.

Non sto però suggerendo che in questo caso da parte dell’osservatore vi sia sol-tanto piacere disinteressato. Credo che l’interlocutore di questo spazio e questestatue testimoni e partecipi all’apertura su un mondo in cui esiste una presenzanascosta, dietro e aldilà delle immagini e dell’architettura. Con tutta la perversitàdelle figure allegoriche, si è perfettamente consapevoli che fanno parte di unasequenza di immagini nella prima storia moderna della scultura italiana e in modoparticolare di quella romana, e che sono religiose. In qualche modo ciò non è facileda determinare, queste statue condividono la rivelazione della verità, sono partedel magistero della Chiesa, che consiste poi nelle sue tradizioni e nei suoi insegna-menti. Non siamo – dopo tutto – in un museo.

Il dibattito Orsi-Bohours ebbe implicazioni che vanno al di là della Repubbli-ca delle Lettere e le controversie fra intellettuali. L’Accademia degli Arcadi, con lesue migliaia di membri e la sua capacità di strappare il controllo della cultura alVaticano, e penetrare in tutte le istituzioni nel Settecento di Roma, fabbricò insenso letterale il “buon gusto” e lo rese qualcosa di cui si doveva tenere conto.Queste statue (e le architetture che esse abitano, nicchie, aediculae e la cappella)evitano il concettismo barocco, gli “eccessi” di stile e il decoro come grandeur. Allostesso tempo queste rappresentazioni delle virtù cardinali richiamano un certotipo di otium pastorale che lascia loro e noi in qualche modo scettici, languidi, e –per trasferire uno stato psicologico da noi a loro – assorti in se stessi, forse egoisti,

108 Dopo il museo

preoccupati, più imbronciati che devoti, preziosi che orgogliosi. I putti indolentiche appaiono solo moderatamente interessati all’estinto intrappolato nel sarcofagosul quale essi giacciono, sono pronti a sonnecchiare fino al giorno del giudizio,quando saranno obbligati ad assistere le anime dei Corsini nel loro viaggio verso ladivina Gerusalemme. Dobbiamo però ricordare che questa “pastoralizzazione”(piuttosto che “messa in prosa”) del decorum e della retorica è la strada che gli ita-liani volevano percorrere. Voler sbrigare questo genere di arte come rococò o “pic-colo Barocco” non fa creare una caratterizzazione debole per un’arte forte. Quandoguardo le statue allegoriche, vi trovo un otium negotiosum, non un otium otiosum (seb-bene i putti possano avere i titoli giusti per questo stato di tranquillità meno ispi-rato).

Chiamare classica quest’architettura crea un’indicazione viaria per lo stile, manon veicola in alcun modo il senso di cosa voglia dire trovarsi nel mezzo della cap-pella. Inoltre, la caratterizzazione apparentemente spiccia della cappella in Pastor,come museo di sculture moderne, suggerisce un’interpretazione estetica piuttostoche metafisica. Dobbiamo ricordare però che l’incarnazione di Cristo è ciò che ren-de possibile l’arte cristiana; la presenza dell’incarnazione non è assente nella Cap-pella Corsini.

Parlando della presenza, dove si colloca precisamente la Cappella Corsini? Noncredo che, in senso ontologico, possiamo semplicemente asserire che la cappellacoesista esattamente con la sua posizione geografica. Ho suggerito qui differentigeneri di luoghi e letture. A volte la cappella sembra esistere lungo un continuumdi stili; a volte minaccia di diventare un museo, uno spazio discorsivo di censuree possibilità assai diverse da una cappella cattolica apostolica romana. È un testofra altri testi; è un intertesto. La Cappella Corsini possiede un’esistenza quandoviene studiata attraverso il cancello, un’altra quando vi si entra. Il modo in cui siabita con e nella cappella può determinare differenti ontologie. La verità della cap-pella emerge da un complesso di circostanze e possibilità ermeneutiche – molte del-le quali ho cercato qui di mostrare.

(traduzione di Paolo Borghi)

La Cappella Corsini: un museo neoclassico? 109

fig.1 Cappella Corsini, San Giovan-

ni in Laterano, particolare

fig.2 Statua della Temperanza,

Filippo Della Valle

110 Dopo il museo

fig.3 Statua della Generosità, Simone

Algardi

fig.4 Statua della Prudenza, Agostino

Comacchini

Giorgio MaraglianoIL MUSEO MINIMALE

Che cosa avviene quando i nuovi musei destinati ad esporre l’arte del nostro tempo siaffrancano, sin nel nome, dalla continuità temporale inscritta nella definizione del moder-no? Il mutamento che si dà a vedere con l’avvento del museo d’arte contemporanea indicaun’autentica cesura storica, che invera i principi sottilmente anti-moderni dei movimentiartistici sorti tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta. L’attualealleggerimento dell’arte appare come una conseguenza affatto determinata di una inten-zione artistica volta alla realizzazione di un’esperienza estetica pubblica, che non esige laconoscenza della sintassi propria al medium pittorico o plastico. Il museo si configura cosìquale condizione istitutiva di una forma singolare di presenza straniata, dove ciò che èesposto riceve il suo senso dall’intensità energetica di un’esperienza in cui i segni significanoal di fuori di ogni sintassi interna, per prossimità materiale con il referente, come nellafotografia o nell’impronta.

Il museo d’arte contemporanea è un caso particolare nella più ampia rubrica deimusei. Esso nasce relativamente tardi1, se si considera il secolo diciannovesimol’epoca in cui il museo assume la sua configurazione storica, ma da un certomomento in poi la sua ascesa sembra inarrestabile; ancor oggi gran parte deinuovi musei costruiti ad hoc è dedicata all’arte contemporanea, con conseguenzenotevoli rispetto alla visibilità pubblica ed alle possibilità di partecipazioneindividuale. Chiedersi perché sia così equivale in un certo senso a domandareperché in epoca relativamente recente si sia scelto di chiamare “contemporanea”l’arte che si intende esporre invece di “moderna”, in una sorta di insicurezzadifensiva che poteva indicare sia la volontà di sterilizzare lo scandalo provocatodal moderno – da quella che in tedesco viene chiamata Klassische Moderne, l’avan-guardia storica – includendo per estensione di genere ciò che non lo è, che la per-cezione inquieta di uno strappo nella storia alla quale pure si intende dare omag-

1 Il primo museo d’arte contemporanea è senz’altro il Museum of Modern Art di New York, fondato

nel 1929 e guidato fino alla metà degli anni ’60 da Alfred H. Barr jr.

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 111-128

112 Dopo il museo

gio – il contemporaneo per definizione inizia con l’avanguardia, ed è possibilesoltanto allorché l’arte accademica cessa di essere un concorrente temibile. Forsel’ascesa del museo d’arte contemporanea coincide con il divenir accademicodell’arte moderna?

Qualche sospetto che possa essere così sorge, allorché si considera che l’epocad’inizio della voga dei musei di arte contemporanea è quella in cui sono già appar-se opere letterarie soi-disant postmoderne (Randall Jarrell, John Barth), in archi-tettura il funzionalismo trapassa, in arte prendono la scena movimenti affattopoco moderni come la Pop Art. Il problema nel rispondere ad una domanda delgenere non è soltanto di gusto, provvisto che a ciò che è moderno si dia un indicepositivo. Anzi forse il problema sta nel decidere se l’adeguato foro di giudizio perl’arte fatta nell’epoca del museo d’arte contemporanea, alla quale essa deve in certomodo la sua esistenza e sulla quale i musei si sono retti sino a tempi piuttostorecenti, sia il giudizio di gusto. La questione tocca direttamente il rapporto traindividuale ed universale senza il quale non si può parlare di un giudizio di gusto,e non è retorica. Gli anni ’60 e ’70 vedono infatti l’avvento di teorie artistiche chepretendono in modo esplicito di estinguere l’individualità del giudizio critico,perché privata, a favore della ricezione di per sé pubblica di opere d’arte costituitea questo fine. Si comprende bene come il museo d’arte contemporanea divenga aquesto riguardo qualcosa di più e di diverso da mero contenitore neutro di opereindifferenti alla loro destinazione.

Un fatto tanto semplice quale l’ascesa del museo d’arte contemporanea può ein un certo modo deve dare adito a interpretazioni contrastanti. Abbiamo a chefare con la definitiva accettazione da parte del pubblico di ciò che un tempo scan-dalizzava i filistei? O questa tendenza è forse l’indizio di un cambiamento dellostatus di ciò che viene esposto, dove l’allontanamento da una certa tradizione auto-rif lessiva dell’arte novecentesca prelude ad una nozione più larga della significati-vità visiva? L’alternativa è orientata dalla considerazione dell’oggetto d’esposizio-ne, ed essa non tiene conto di questioni quali la funzione dell’edificio nella cittàcontemporanea, oppure l’aspetto istituzionale, relativo al finanziamento e all’eser-cizio dei musei. In un certo modo questi aspetti sono inclusi tuttavia nello svol-gimento dell’alternativa iniziale, che, come forse qualcuno avrà osservato, non èpiù realmente tale.

La progressiva e lenta estenuazione del modello artistico autoreferenziale, apartire dalla metà degli anni ‘50, porta con sé anche la fine del valore provocatorioe demistificante di quelle pratiche artistiche che nel ‘900 hanno invocato la spon-

Il museo minimale 113

taneità, l’inconscio, o qualsivoglia impulso primevo alla significazione. Quandogli eventi cadono secondo la scansione esatta del calendario delle merci, ed è dub-bio che esista ancora un Super-Io, l’arte non sembra aver più nulla da liberare,almeno all’interno dei suoi confini. I critici più accorti lo avevano ben compreso,giacché l’ascesa e la definitiva affermazione della pittura americana di fine anni’40 ed inizi ’50 non è dipesa tanto dall’apprezzamento delle qualità enunciate nelleetichette ancor oggi correnti (Action Painting e Abstract Expressionism), quantodall’interpretazione squisitamente formale sviluppata da Clement Greenberg dal-la fine degli anni ’30, in nome di una rigorosa distinzione politica tra avanguardiae kitsch. Greenberg affida ai costituenti formali il compito di tracciare un campoall’interno del quale l’arte, depurata dai compiti narrativi ed accessori imposti dal-la cultura di massa, possa conservarsi tale2.

Dall’altra parte, dietro le critiche rivolte in America contro i canoni del for-malismo tra la fine degli anni ’50 e gli inizi ’60, in primo luogo proprio il carat-tere condizionale detenuto dalle convenzioni storiche del medium rispetto allariuscita estetica dell’opera d’arte, vi erano motivi che molto debbono ai terminicon i quali sin dalle avanguardie di inizi secolo la critica e l’arte hanno invocatoforme più originarie di significazione, tali da costituire una possibile esperienzacondivisa e intuitiva dell’opera d’arte, accessibile anche a coloro che non possie-dono l’agio e la cultura necessari al godimento estetico. La differenza specifica tragli anni ’50 e gli inizi del secolo sta forse in un modello di comprensione per ifenomeni di significazione un tempo considerati “primitivi” che vi riconosce for-me di scambio simbolico alternative (il potlach di Mauss, che diede il titolo a unarivista protosituazionista), oppure sottrae tali fenomeni ad una successione evolu-tiva, come avviene con la distinzione tra significazione e conoscenza descritta da

2 Vedi Clement Greenberg, Avant-Garde and Kitsch (1939), in The Collected Essays and Criticism, a cura

di J. O’ Brian, vol. 1, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1986, pp. 5-22. Il rove-sciamento di questa posizione nelle pratiche poste in atto in Europa dalla Internationale Situationnistelascia intravedere la medesima consapevolezza, laddove adotta a fini politici le tecniche di spiazza-mento (il détournement, la deriva urbana) proprie dell’avanguardia. In una sintesi un po’ affrettata,ma che la comune origine marxista del pensiero di Greenberg ed i situazionisti consente, si potrebbedire che questi ultimi applicano al piano delle relazioni tra il sé e la società la scissione tra arte edintrattenimento che spinge, secondo Greenberg, l’arte a rinserrarsi all’interno dei confini delmedium: il problema rimane comunque lo stesso, quello di rendere possibile in una società che loimpedisce la realizzazione di un’esperienza artistica degna di questo nome, e che possa stare al paridella storia artistica passata.

114 Dopo il museo

Lévy-Strauss nella sua introduzione all’opera di Marcel Mauss3. Allorché il pro-cesso attraverso il quale l’uomo dà un significato alle apparenze cessa di esseredirettamente e ontologicamente correlato alla creazione di forme espressive piùadeguate alla conoscenza dei fenomeni, come era avvenuto nell’intera discussionesulle origini dell’arte tra il 1870 e il 1930, la primitività non sarà più consideratal’attributo di una condizione difettiva sul piano conoscitivo, caratteristica semprepresente questa della contrapposizione tra astratto e naturalistico, con tutto il suocarico valutativo. In tal modo diviene possibile una considerazione dell’arte figu-rativa che si allontana programmaticamente dalla Bildung educativa posta da Gre-enberg a condizione della capacità di apprezzare il modo in cui un quadro o unascultura innovano all’interno dei limiti prescritti ad ogni arte. Basti pensareall’importanza che ha avuto il tema fenomenologico della costituzione precatego-riale dello spazio corporeo presso la generazione degli artisti e critici Minimal, ealla successiva evoluzione di tale indirizzo critico in chiave semiotica e post-strut-turalista presso una compagna di strada quale Rosalind Krauss: l’elemento dicontinuità rimane l’idea che l’opera d’arte postformalista determini un rapportotra spettatore ed opera distinto dalla frontalità ottica imposta dai limiti del pianopittorico, rapporto nel quale vi è continuità tra lo spazio in cui è calata l’opera equello dell’esperienza comune. La rinnovata importanza della scultura discendedirettamente da questa premessa. Se i termini della discussione sono diversi, col-pisce l’analogia tra le motivazioni della scoperta del “cubico” nella scultura afri-cana ad inizi secolo, dopo anni di opere in cui la massa doveva servire a moltipli-care impressionisticamente gli effetti di luce, e la nuova enfasi sulla capacità dellascultura di revocare la credenza in forme percettive a priori dell’esperienza. Inentrambi i casi bersaglio polemico è infatti la supremazia del pittorico nelle duearti figurative.

Vi sono qui dei momenti discriminanti sul piano storico che non è possibiletuttavia ignorare. Tra il primitivismo di inizi secolo e la critica del formalismoestetico modernista vi è infatti una differenza fondamentale. Mentre il primiti-vismo che ispira i teorici cubisti a comprendere l’art nègre riconosceva le motiva-zioni pre-estetiche nell’arte in una veste alternativa all’arte tradizionale, maancora all’interno dei limiti definiti dalla disciplina artistica e dalla Kunstwissen-

3 Vedi Claude Lévy-Strauss, Introduzione all’opera di Marcel Mauss (1950), in Marcel Mauss, Teoria

generale della magia e altri saggi, trad. it. di F. Zannino, Torino, Einaudi, 1965, xv-liv, in part. xliv-xlviii.

Il museo minimale 115

schaft coeva4, per la nuova interpretazione gli elementi dell’impresa artistica, nonpiù determinati dal medium, possono e debbono in certo modo essere i medesimiin cui si articola l’esperienza in generale, sino ad investire di senso lo stesso even-to pubblico in cui avviene l’”arte”, che così viene identificato con la partecipa-zione all’occasione in cui avviene ciò che si chiama con questo nome. L’opera siavvicina in questo modo al rito: è il contesto in cui cade l’opera d’arte a definirele regole sintattiche, o delle regole liberamente scelte determinano il contestoche comunque rimane condizione dell’opera, e per questo essa può servirsi delcorpo umano, del linguaggio verbale, della fotografia, dello stesso luogod’esposizione5.

È in questo momento – gli anni ’60 – che il museo inizia la sua inarrestabileascesa. La sua fortuna coincide con l’avvento di un’arte che sin dall’inizio pone invalore l’uso di forme elementari, impiegate non tanto per il loro pregio esteticointrinseco quanto come portatrici di un grado zero del significato, stato che lepone nelle migliori condizioni per un arrangiamento estraneo all’idea, considerataantiquata ed “Europea”, della composizione6.

La singolarità dell’arte Minimal nella costellazione di tendenze degli anni ’60risiede nella determinatezza con la quale essa promuove il luogo di esposizione adautentico soggetto dell’opera d’arte. A rigore, si potrebbe dire che essa inventa ilwhite cube, il cubo bianco e neutro della sala da esposizione, allorché fa di essol’oggetto di una intenzione unitaria, diretta all’intero7. Quest’affermazione può

4 Si veda ad esempio Carl Einstein, Scultura negra (1915), in Lo snob e altri saggi, a cura di G. Zanasi,

Napoli, Guida, 1985, pp. 115-136. L’autore di Negerplastik, allievo di Wölfflin e Simmel a Berlino,

è stato probabilmente il critico d’arte più lucido dei primi quarant’anni del secolo scorso.5 Tra i primi documenti di tale tendenza vi è senz’altro il testo di presentazione della mostra di Yves

Klein alla galleria Iris Clert di Parigi (28 aprile 1958), sul quale si veda Jean Marc Poinsot, Duemostre di Yves Klein, nel catalogo Yves Klein. La Vita, la vita stessa che è l’arte assoluta, a cura di Bruno

Corà e Gilbert Perlein, Nice 28.4. 2000-4.9.2000, Prato 23.9.2000-10.1.2001, tr. it. di E. Balar-

dini, Museo Pecci, Prato 2000, pp. 45-54.6

Vedi Bruce Glaser, Questions to Stella and Judd (1966), in Gregory Battcock (a cura di), MinimalArt. A Critical Anthology, New York, E. P. Dutton, 1968, pp. 150-151.7

Questo passo di Robert Smithson, artista della generazione appena successiva, compendia bene i

motivi determinanti di tale intenzione: «La “scultura” quando non è figurativa viene anch’essa con-

dizionata dai dettagli architettonici. I pavimenti, le pareti, le finestre ed i soffitti delimitano i con-

fini della scultura da interni. Molte delle nuove opere di scultura guadagnano scala dal venire

installate in una stanza molto ampia. Il Jewish Museum ed il Whitney possiedono interni di tal

genere. Le sale di questi musei si allontanano dai valori intimi della connoisseurship, verso un valore

116 Dopo il museo

sconcertare: non è forse il cubo bianco delle installazioni di quadri modernisti ciòche l’arte degli anni ’60 fa def lagrare, nella sua inesausta aspirazione verso il supe-ramento delle barriere sociali e culturali che dividono la vita dall’arte? Questo luo-go comune ci sembra in verità affatto erroneo anche rispetto ad altre manifestazio-ni dell’arte degli anni ’60. Dove potrebbe sembrare arte la replica di una camerada letto stile sixties, o di un bar di periferia (i tableaux, nel linguaggio critico), senon in un luogo deputato alla loro presentazione? Davanti a opere così esplicite nelrivendicare la loro costitutiva dipendenza istituzionale, preludio di ciò che neglianni ’70 sarà una vera strategia estetica di inclusione/esclusione8, l’arte e la criticaMinimal hanno il pregio di definire in modo preciso il loro legame con i principidell’arte modernista, arte di cui una lettura sottilmente revisionista trasforma itermini della stessa ricezione.

Il punto di svolta può esser colto nelle tele sagomate di Frank Stella. Esse furo-no infatti l’oggetto di interpretazioni affatto constrastanti, ad opera di due criticiformatisi entrambi con Clement Greenberg. Mentre per Michael Fried la ripetizio-ne all’interno delle tele dei contorni che segnano il limite della sagomatura indicauna peculiare soluzione del rapporto tra supporto materiale e piano pittorico9,autentico experimentum crucis del modernismo, Rosalind Krauss riconosce invece aquesti quadri un’intenzione significante che trae dal mondo i suoi segni (la croce,

più pubblico. Le pareti dei musei moderni non devono per forza esistere come pareti, con sopra oaccanto malati dettagli. L’artista potrebbe piuttosto definire l’interno quale rete totale di superficie ritmi. Ciò che vi è d’interessante nell’arte di Dan Flavin non sta soltanto nelle “luci” come tali,ma in ciò che esse fanno al fenomeno della “sala nuda”. Lo “Studio della selezione del Luogo” in ter-mini artistici è soltanto agli inizi. La ricerca di un luogo specifico è la questione di estrarre concettida dati sensibili esistenti mediante percezioni dirette. La percezione precede la concezione, quandosi arriva alla scelta o alla definizione del luogo. Il luogo non viene imposto, quanto esposto – sia essointerno od esterno. Gli interni possono essere considerati esterni, o viceversa.» Towards the Develop-ment of an Air Terminal Site (1967), in The Writings of Robert Smithson. Essays with Illustrations, a curadi Nancy Holt, New York, New York University Press, 1979, p. 47, corsivi nel testo.8 Penso in particolare ad Art & Language, Daniel Buren ed Hans Haacke.

9 Cfr. M. Fried, Three American Painters: Kenneth Noland, Jules Olitski, Frank Stella (1965), in Art and

Objecthood. Essays and Reviews, Chicago and London, The University Of Chicago Press, 1998, pp.213-265, in part. pp. 251-256.

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la stella, l’anello della sagoma), in una sorta di «storia naturale del linguaggio pit-torico»10 resa possibile dall’utilizzazione di una pittura che è mero materiale. In talmodo il significato degli elementi pittorici viene completamente esteriorizzato: lun-gi da stabilire la tensione (“illusionistica”, si sarebbe detto allora) tra piano pitto-rico e sfondo grazie alla quale esse nella interpretazione modernista trascendereb-bero la loro natura materiale, le linee divengono veicoli di un senso che è pubblico,per la lettura postformalista, nel momento in cui rimane letterale11 (Literalist artè uno degli epiteti alternativi, inventati per designare l’arte Minimal). È in un cer-to senso un’applicazione imperiosa dei principi già espressi da Ad Reinhardt – artis art is art – ma senza i risvolti da mistica negativa che appaiono nell’indifferenzaverso la richiesta di un senso comunicabile, che l’artista newyorchese rappresentòin una ben nota vignetta. All’esatto contrario, l’arte Minimal ha assunto a suocarattere peculiare il movente pubblico delle sue strategie. Ma, possiamo chiederci,in che senso un’opera d’arte può essere costituita in modo tale da essere immedia-tamente aperta e rivolta verso una ricezione pubblica e non privata, come sarebbeinvece il caso dell’arte modernista e più in generale della tradizione “ottica”dell’arte occidentale?

La risposta probabilmente sarebbe quando un’opera è costituita da elementiche non significano all’interno di una sintassi già costituita storicamente, e cheoccorre perciò conoscere per comprendere l’intero. Gli elementi di cui l’opera èfatta dispiegano piuttosto il loro senso nella relazione eventuale e localmentedeterminata che stabiliscono con il corpo dello spettatore. Egli è inscritto sindall’inizio nelle intenzioni dell’artista, e l’opera si dirige per così dire verso di lui.L’addizione e combinazione di parti discrete avviene «una cosa dopo l’altra»(Donald Judd), sulla soglia dell’esperienza comune, o comunque di un’esperienzache avviene nel tempo. L’opera è altrimenti definita una Gestalt provvisoria12, che

10 R. Krauss, Sense and Sensibility: Reflections on Post 60s’ Sculpture (1973); ritraduciamo il saggio chenon è stato più riedito in volume dalla versione francese di Claude Gintz, in Regards sur l’art améri-caine des années soixante, Paris, Éditions Territoires, 1979, p. 114.11 «Il significato dell’eliminazione da parte di Stella dell’illusionismo non sarebbe comprensibile al difuori di una volontà di far entrare tutti i significati all’interno delle convenzioni (semiologiche) diuno spazio pubblico. E di presentare lo spazio illusionista come un modello del privato, dell’Io con-cepito come qualcosa di formato prima del suo contatto con lo spazio del mondo», Ibid., corsivo neltesto.12 R. Morris, Notes on Sculpture (1966), in G. Battcock (a cura di.), Minimal Art, cit., pp. 233-234.

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muta secondo gli spostamenti del corpo dello spettatore. In molte testimonianzedel tempo l’argomento critico cardinale verte sulla natura aperta ed iperdetermi-nata ad un tempo di una relazione che sorprende lo spettatore allorché gli imponeun confronto con qualcosa, come la configurazione aprospettica delle opereambientali di Richard Serra, che lo obbliga a scoprire seguendo Krauss «la tran-sitività reciproca di vedente e veduto» descritta nelle pagine di La fenomenologiadella percezione di Merleau-Ponty13.

L’uso delle argomentazioni di Merleau-Ponty sul corpo proprio e sulla ineren-za del corpo allo spazio per motivare l’attitudine percettiva che le opere Minimalintenderebbero provocare fa sorgere alcune domande, e genera almeno una certez-za. La certezza è l’appartenenza di questo motivo della critica Minimal ad una tra-dizione del moderno che privilegia l’opera d’arte tridimensionale e più in generalela determinatezza plastica della percezione spaziale, frutto dell’integrazione di piùsensi diversi. Tale tradizione alimenta la formazione dei concetti della Kunstwis-senschaft, e costituisce un tema importante in un certo indirizzo dell’avanguardiacubista e costruttivista, ove diventa sinonimo del superiore realismo dell’arte nuo-va. La continuità di questo indirizzo critico appare nella ripresa che ne compieWalter Benjamin, allorché nel saggio sulla riproducibilità tecnica attibuisce alladeterminatezza tattile uno dei caratteri peculiari della percezione distratta, pro-pria all’esperienza estetica di massa nell’epoca del film e dell’automobile, che tro-va il suo modello nella ricezione delle opere di architettura14. Anche in Fenomeno-logia della percezione15 la rivendicazione di una spazialità tattile si richiama agliesempi di ciechi risanati proposti da Herder nel libro che inaugura questa tradi-

13 R. Krauss, Richard Serra, a Translation (1983), in The Originality of the Avant-Garde and Other Mod-ernist Myths, Cambridge (Mass.)-London, The MIT Press, 1986, p. 270.14 W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in Gesammelte Schrif-ten, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, VII-1, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1991, p.381. Un esempio importante del modo in cui questo motivo critico rimane operante nella teoriadell’architettura contemporanea in Peter Eisenman, Memoria del proyecto de la Ciudad de la Cultura enSantiago de Compostela, «Arquitectura COAM», 319, p. 5: «La sensibilità post-semiotica, la culturadell’empatia, è quella che, mostrandoci come non sia più necessario comprendere la differenza tra isegni-rappresentazione e i loro significati, ci insegna invece a tastare, la manipolazione tattile», cit.in Rafael Moneo, Sul concetto di arbitrarietà in architettura, «Casabella», LXIX, 2005, 735, p. 30, tr.it. di J. Pes.15 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), II, I, tr. it. di A. Bonomi, Milano, Il Sag-giatore, 1965, in part. pp. 301-302.

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zione, la Plastik, ad indizio della continuità di una teoria della percezione anti-car-tesiana nel senso ribadito da Krauss, teoria che nei suoi esiti estetici avversava sindagli inizi una nozione prospettivistica e meramente ottica della relazionespaziale.

Le domande che tale uso solleva riguardano ciò che soltanto di primo acchitoè un problema di compatibilità tra l’applicazione artistica e la teoria di Merleau-Ponty. Senza voler per questo considerare l’evidente differenza d’intenti con i testiin cui Merleau ha scritto di pittura, non sono certo che egli avrebbe accettato lacompleta esteriorizzazione del senso dell’opera d’arte, nella veste di veicolo disegni di per sé predisposti ad una lettura pubblica. Ciò potrebbe sembrare indif-ferente, ma invece può avere conseguenze notevoli allorché ci si chiede come, cosao chi viene implicato nella relazione di chi vede ed è visto, che è detta avvenire nel-la sfera pubblica. Che una cosa possa rimandare lo sguardo è un motivo dell’arte edell’estetica moderna16, che compare anche in L’Occhio e lo spirito di Merleau-Ponty,in una citazione di André Marchant che si riferisce alla visione del pittore17. Arimandare lo sguardo tuttavia possono essere anche le opere d’arte, come c’insegnail mito di Pigmalione. Il torso arcaico della poesia di Rilke Archaischer Torso Apol-los, che impone allo spettatore il suo sguardo edificante, è il fiore poetico tardivodi una tradizione che con Hegel intendeva già l’opera d’arte in generale e la pit-tura in particolare come un caso peculiare della relazione intersoggettiva, dove adun polo, quello dell’opera, «manca la soggettività compiuta»18. Questa tradizionerivive nei testi dei contendenti critici americani degli anni ’60. Entrambi gliinterpreti delle pitture di Stella poco fa ricordati considerano infatti l’opera d’artecome un equivalente esterno del sé. Una assimilazione permessa dal carattere figu-rale dell’opera, affermato sia nella scultura che nella pittura tradizionali nellapostura verticale di ciò che viene incontro e si confronta con lo spettatore. L’ideache l’opera sia un interlocutore del riguardante può possedere connotati morali:

16 Cfr. James Elkins, The Object Stares Back. On the Nature of Seeing, New York, Simon & Schuster,1996.17 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito (1964), trad. it. di A. Sordini, Milano 1989, p. 26. 18 G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, I, Begriff der Religion, a cura di G. Las-son, Hamburg, 1966 (2. ed.), p. 282, cit. in O. Baetschmann, Pygmalion als Betrachter. Die Rezeptionvon Plastik und Malerei in der zweiten Haelfte des 18. Jahrhunderts (1974-1977), in W. Kemp (a curadi), Dr Betrachter ist im Bild. Kunstwissenschaft und Rezeptionsaesthetik, Köln, DuMont, 1985, p. 190,n. 12.

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nella sua compiutezza rischiarante, che si afferma per litote nel modello rilkiano-winckelmanniano del torso, essa acquista delle connotazioni di integrità che rica-dono come una pretesa sull’osservatore. Tale condizione rivive nella descrizionecompiuta da Fried dell’esperienza di un’opera di Anthony Caro, istantaneità privadi durata, «in ogni momento l’opera è del tutto manifesta», presenza continua ed interache equivale alla «perpetua creazione del sé»19.

All’opposto, ciò che singolarizza opere come gli L-Beams di Robert Morris è ladurata temporale in cui soltanto lo spettatore può comprendere, percorrendo lospazio, che i poligoni regolari sono di eguali dimensioni. Compare qui una nozio-ne che come poche altre ha determinato la discussione critica, e ci pone in gradodi cogliere la trasformazione avvenuta nel e con il museo: Krauss rivendica infattia tali opere una condizione teatrale. Il criterio di distinzione per attribuire all’ope-ra un’intenzione pubblica (public) è la condizione in cui lo spettatore è il pubblico(audience) di una prestazione teatrale20.

La centralità della drammatizzazione teatrale di ciò che è vivo o inanimato nel-la cultura artistica degli anni ’60 e ’70 appare evidente. Lo stesso nome del movi-mento italiano per così dire concorrente della Minimal Art, Arte Povera, reca insé l’origine nelle teorizzazioni sul Teatro Povero di Jerzy Grotowsky. Forse una del-le parole definitive sull’epoca in cui ciò avvenne può esser un’osservazione di BrianO’ Doherty, nella quale l’artista-scrittore di origini irlandesi notava come non sifosse allora in grado di godere di qualcosa se non lo si alienava. E veramente lavocazione teatrale dell’arte di quegli anni appare oggi, in tutta la sua ingenuavolontà di superare la separazione tra opera e spettatore, quale agente di una gene-rale sovradeterminazione di ogni segno, gesto o forma, che si attua attraverso lamediazione astratta perché strumentale di ciò che sembra l’opposto della media-zione, in una sorta di fantasmagoria del naturale nella quale l’immediatezza delcontenuto è effetto di un veicolo che si toglie e scompare dietro la sua funzione. Inquesto senso leggerei i passi di Art & 0bjecthood in cui l’autore spiega perché ilprincipio teatrale sia veicolo di degenerazione delle arti: commentando testi neiquali gli artisti Minimal descrivevano la qualità peculiare dell’esperienza che essiavevano in vista, Fried pone il dito sul distanziamento psichico e fisico realizzatoper costruire una “situazione” dove tutto indistantamente sembra contare perchéesiste soltanto per chi lo osserva, in un gioco di inclusione dello spettatore che

19 M. Fried, Art and Objecthood (1967), in Art and Objecthood, cit., p. 167. Il corsivo è nel testo.

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avviene per sottrazione (si pensi a The Black Box o a Die di Tony Smith, del 1962)della sintassi, e nel quale lo spettatore diviene letteralmente soggetto di una pre-senza che si nasconde come tale ma sembra costantemente aspettarlo21.

20 R. Krauss, Passages in Modern Sculpture, Cambridge (Mass.)-London, The MIT Press, 1977, p.203; «Le sue opere successive non si ritiravano in uno spazio estetico separato da quello dello spet-tatore, ma erano invece chiaramente dipendenti da una situazione in cui lo spettatore delle opere erain realtà il suo pubblico». Occorre dire che allora questa posizione non andò esente da critiche, comeappare da questo passo di Ian Burn e Karl Beveridge: «Krauss promuove una forma d’arte comple-tamente disumanizzata, che implica la negazione del concetto di una coscienza costituente… sulle“teorie” del minimalismo, costruisce un dogma fascista e totalitario. Propone che il “significato siaesso stesso una funzione dello spazio esterno”, o “spazio pubblico”, dimenticando (o forse no) l’ideo-logia delle istituzioni che determinano questo “spazio pubblico”. Mentre pretende che ciò renderebbepiù sociale il “significato” in arte, in realtà il risultato sarebbe l’assoluto controllo e la manipola-zione dell’arte da parte del suo significato pubblico (perciò istituzionale), la negazione finale diqualsiasi possibilità di significato personale. Ciò è ripugnante! Mentre questa è certamente una“direzione” di molta arte recente, abbiamo sostenuto qui che è ciò contro cui dobbiamo lottare, noncelebrarlo e convertirlo in una dottrina formalizzata, come Krauss tenta di fare…La domanda cru-ciale qui è, dove si collocherebbe Krauss in questo quadro? Quale manipolatrice di professione dello“spazio pubblico” dei media, che ha ruolo ha in mente per sé? È chiaro che ha appreso da Greenbergpiù di quanto voglia dare a vedere», Karl Beveridge e Ian Burn, Don Judd, «The Fox», 1975, 2, p.141, n. 10. I riferimenti sono a Sense and Sensibility (vedi nota 10). Il richiamo al nome di Greenbergè particolarmente malizioso, poiché contiene un giudizio implicito sull’attività svolta dal criticoall’interno delle agenzie governative di propaganda anticomunista e filoamericana: quale membrofondatore dell’American Committee for Cultural Freedom, la carriera di Cold Warrior seguita daGreenberg ha avuto esiti internazionali da considerare nella valutazione del contesto storico di ascesadell’arte americana, simbolizzati dalla diffusione radiofonica da parte della Voice of America diModernist Painting, uno dei suoi saggi programmatici più importanti (Forum Lectures, Washington,D. C., U. S. Information Agency, 1960; sul tema si veda l’equilibrata introduzione del curatore alterzo volume degli scritti di Greenberg, Affirmations and Refusals, 1950-1956, a cura di JohnO’Brian, The University of Chicago Press, Chicago, 1995, xv-xxxiii).21 M. Fried, Art and Objecthood (1967), in Art and Objecthood, cit., pp.163-164; «Può sembrare para-dossale pretendere ad un tempo che la sensibilità letteralista aspiri ad un ideale di “qualcosa chechiunque può comprendere” (Smith), e che l’arte letteralista si rivolga a uno spettatore soltanto, mail paradosso è solo apparente. Basta che qualcuno entri nella stanza in cui è posta un’opera letterali-sta per diventare quello spettatore, quel pubblico fatto di una sola persona – come se l’opera in que-stione lo stesse aspettando. E nella misura in cui l’opera letteralista dipende dallo spettatore, èincompleta senza di lui, essa lo ha aspettato. E allorché egli è entrato nella stanza l’opera si rifiuta,ostinatamente, di lasciarlo solo –vale a dire che essa si rifiuta di smettere di stabilire un confrontocon lui, di porlo a distanza, di isolarlo».

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Siamo giunti al punto in cui la domanda sul significato di ciò che è “pubbli-co”, nella relazione tra opera e spettatore, ha trovato infine risposta: pubblico è ciòche impiega segni tratti dal mondo, si dà allo spettatore in modo teatrale, instauracon lui una relazione tra persone, nella quale o lo spettatore diviene attore dellapresentazione dell’opera, o viene isolato e posto a distanza da essa. A qualificaretutto questo sul piano dell’effetto, la nozione di una presenza relazionale realizzatamediante appropriati dispositivi di scala e di tempo, che dipendono l’unodall’altro allorché consentono l’alienazione (nel senso brechtiano di Verfremdung)che costituisce la relazione stessa. Resta da comprendere il modo in cui questi esitidi una concezione dell’opera d’arte figurale, come chiamerei ogni teoria che inten-de l’opera quale equivalente del sé22, possano determinare la richiesta di musei vol-ti ad ospitare arte per il pubblico.

Il Minimal ha infatti vinto, e con esso l’arte “radicale” degli anni ’60 e ’70 cheha seguito i suoi principi. L’entità della loro vittoria può esser colta nelle trasfor-mazioni dei luoghi destinati ad accogliere le loro opere. Già l’opera d’arte Mini-mal impone richieste particolari al luogo d’esposizione: se da essa deve scaturireuna relazione corporea con lo spettatore, difficilmente i rapporti di scala, profon-dità ed altezza originari potranno valere in uno spazio diverso. Da qui l’esigenzadi produrre opere nuove per il luogo determinato (site specific), o rispettivamentecostituire spazi adeguati al lavoro, simili al contesto originario. Per questo sononecessari spazi mobili o che possano esser modificati con facilità, non soltantoesteticamente neutri come il white cube modernista. A questo si aggiunge la pecu-liare aggressività che le opere d’arte Minimal manifestano allorché vengono instal-late assieme ad opere tradizionali. Nel principio che motiva l’esistenza dell’operaminimalista la presenza di altre opere nel medesimo spazio non soltanto non ècontemplata, ma è programmaticamente esclusa. Proseguendo la metaforica figu-rale, potremmo dire che altre opere in uno spazio innervato da un pezzo Minimalfanno la parte del voyeur, giacché assistono nella loro rigida frontalità ad una rela-zione che ci viene detta essere corporea. Senza dire che qualsiasi segnale di fronta-lità pur esteriore distrugge l’effetto ricercato, laddove introduce direzioni privile-giate e perniciose sovrapposizioni, come sanno bene i curatori museali costretti ad

22 Ho cercato di dedurre alcune conseguenze di tale nozione in Il soggetto e il paesaggio. La modernaopera di paesaggio tra norma e storia, Urbino, Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica,1990 (Documenti di Lavoro e pre-pubblicazioni 193-194).

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installare opere di questa fatta nelle infilate di sale tutte eguali caratteristiche del-la tradizione museale ottocentesca. Ma i problemi preposti all’installazione di un’opera Minimal e post-minimal non sono soltanto artistici, giacché lavori che uti-lizzano la massa ed il peso quali momenti determinanti, come le sculture in accia-io Corten di Richard Serra o i quadri fatti di putrelle di Jannis Kounellis pongonorichieste strutturali ad un edificio non sempre facili da sormontare. E come saràpossibile ospitare opere ambientali fatte letteralmente di energia luminosa (DanFlavin, James Turrell), se non in luoghi ad hoc?

La sfida avanzata agli architetti dall’arte degli anni ’60 e ’70 non era davverocosa da poco. Essa era tale da imporre una svolta essenziale rispetto alla stessastruttura del Museo, non soltanto alla disposizione dei suoi spazi interni. Penso adesempio alla Nationalgalerie di Mies van der Rohe, nella ostentata trasparenza delsuo parallelepipedo isolato, posto a distanza di rispetto dalla strada e dagli altriedifici vicini. Mentre la difficoltà di esporre in maniera adeguata certa sculturamodernista in un edificio trasparente poteva esser alleviata dalla creazione di per-corsi visivi orientati, collocare lì un’opera Minimal sarebbe quasi impossibile. Pro-prio l’immaterialità dell’edificio ed il suo isolamento fanno di esso un intero pla-stico autonomo, che rifiuta di negoziare percettivamente con ciò che contiene. Imigliori musei di arte contemporanea degli ultimi trent’anni sono in questo sensoluoghi assai diversi dal modello di Mies. Luoghi non viene detto a caso, giacché laqualità che vi si può ritrovare al meglio è quella di costituire luoghi, insiemi arti-colati di percorsi tra ambienti diversi per dimensioni e volumi, come avviene nelloStädtische Museum Abteiberg di Mönchengladbach, di Hans Hollein, o il CentroGallego Arte Contemporàneo di Santiago de Compostela, di Alvaro de Siza.

Si potrà obiettare a queste considerazioni che esse estendono in maniera sur-rettizia i principi artistici di un movimento ormai lontano nel tempo, principi chenella loro enfasi sulla corporeità figurale della relazione con lo spettatore l’artedegli ultimi trent’anni non sembra affatto aver seguito. Certo, l’installazione èormai diventata una forma artistica consueta, ma essa non era peculiare al mini-malismo, né le strategie del tutto originali: già nella mai avvenuta mostra dellaInternazionale Situazionista allo Stedeljik di Amsterdam, Die Welt als Labyrinth(Maggio 1960)23 venivano posti in opera principi (la temporalità della deriva, lamescolanza di interno ed esterno nel labirinto che dava il titolo alla mostra) e for-

23 Cfr. Die Welt als Labyrinth, «Internationale Situationniste», gennaio 1960, 4, s.i.p.

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me (il labirinto stesso) largamente diffusi in seguito nelle opere Minimal e post-Minimal. E poi l’immaterialità di forme artistiche testuali, video, o fotografichesembra collidere con la evidente materialità di molte opere Minimal, nel loro essersaldamente ancorate al luogo d’esposizione. L’illusionismo implicito in questi dueultimi supporti costituisce l’apparente negazione di questa eredità, a confermarela prognosi che vuole i movimenti artistici moderni succedersi secondo un ritmodi opposizioni polari.

Eppure queste considerazioni mancano il loro oggetto, poiché sono esse adapplicare concetti ormai invecchiati. Si capisce perché osservando come il video ela fotografia siano entrati nell’arte degli ultimi anni. I Corridors (1968-70) di Bru-ce Nauman, tra le prime opere nelle quali si mettono alla prova le possibilità delvideo, sono degli stretti corridoi nei quali una macchina da ripresa riproduce incontemporanea l’immagine dello spettatore, allorché egli si avvicina al monitor checonclude il percorso. Ciò che lo spettatore vede è ovviamente se stesso, ma un sestesso che si allontana e rimpicciolisce avvicinandosi allo schermo, giacché la vide-ocamera è posta all’inizio del breve corridoio e lo riprende di schiena. In un operavideo del 1973, Theme Song, Vito Acconci traspone questa relazione dell’io con sestesso in un rispecchiamento narcisistico, attraverso la dramatis persona che compa-re sullo schermo; il viso dell’artista a pochi centimetri dalla videocamera rivolgeall’infinito frasi d’amore stereotipe, tratte da canzoni pop coeve, all’interlocutoreimmaginario al di là dello schermo. In queste opere della generazione a ridosso delMinimal appare l’originaria vocazione teatrale del video, quale messa in scena econtemporanea presa di distanza dalla certezza di un sé stabile e immutabile, comeallora si voleva. Esso deve determinare con altri mezzi, non più materiali, la con-dizione di partenza dell’opera Minimal, nella forma di una relazione astratta efigurale ad un tempo tra l’opera ed il sé. D’altronde il minimalismo non era mossoda alcun principio di fedeltà ai materiali, e non poteva esserlo nel momento in cuiil significato dell’opera sin dall’inizio non risiedeva in essi. In quale vocabolario disegni è scritto che l’acciaio è il materiale adatto per un’opera che ha che fare con ilpeso e la massa, in rapporto al nostro corpo? La configurazione in sé non è impor-tante – Krauss scrive che queste opere non hanno interno – lo è soltanto la rete direlazioni che stabilisce con lo spettatore e lo spazio.

Non è allora un caso che una delle forme chiave per l’arte degli anni dai ’70 adoggi sia quella della traccia, dell’impronta, del segno lasciato da un corpo non piùpresente. L’incavo della sua figura accoglie per così dire il fantasma che ci riman-dano gli schermi di Nauman, artista di cui un’opera importante ha a che fare pro-

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prio con impronte, diventate calchi molti anni dopo nel lavoro di Rachel White-read. Ritorniamo così alla domanda posta agli inizi, attorno alla possibilità diun’arte che sia comprensibile a tutti, e che per questo ha posto in atto le strategieda cui oggi il Museo d’arte contemporanea dipende. Le impronte infatti condivi-dono con i segni elementari delle tele di Stella, o i parallelepipedi di Morris ilcarattere di significare al di fuori di un sistema interno alle convenzioni dell’arte.La loro peculiarità è quella dei segni indessicali, che significano per prossimitàmateriale con il referente. Questi messaggi senza codice24 affascinarono la critica el’arte di fine anni ‘70, poiché consentivano di trasporre su un piano diverso l’indi-rizzo anti-sintattico presente nel minimalismo sin dagli inizi. I segni-indice sonoinfatti privi di sintassi, proprietà questa privilegiata di una semiosi pubblica25, vol-ta alla manifestazione di una pura presenza, che si attua per via della impressionesu un corpo. Tale ricerca paradossale di un mezzo che consenta di presentare pervia di astrazione un reale che eccede ogni rappresentazione codificata trovò alloraun punto di condensazione nella fotografia, supporto che per la sua natura ancipitedi icona (per la somiglianza) e indice (perché impronta del modello) ha consentitomolteplici possibilità di trasformazione. Lo stesso pittore che più d’ogni altroincarna l’epoca appena trascorsa, Gerhard Richter, sembra talora aspirare ad unapittura che cancella se stessa in segno indessicale, come nei suoi ritratti o paesaggidipinti da e come fotografie, o nelle tele in cui la pittura mima per così direl’espandersi dell’emulsione fotografica. Che le immagini possano o meno esseresegni-indice, appare bene in questa tendenza la volontà di eludere la questionenon solo filosofico-teologica della somiglianza propria alle immagini, allorché essaimpone una cesura rif lessiva che riconduce alla differenza con il referente. Unaquestione che ritorna tuttavia, impensata, nelle facilità di ricezione della fotogra-fia in quanto arte visiva.

24 L’espressione è di Roland Barthes, Rhétorique de l’image, «Communications», 4, 1964, pp. 40-51.25 Cfr. R. Krauss, Notes on the Index. Part Two (1977), in The Originality of the Avant-Garde and OtherModernist Myths, Cambridge (Mass.)-London, The MIT Press, 1986, p. 212. In La camera chiara(1980) Barthes è di parere diverso: «In fondo, la lettura delle fotografie pubbliche è sempre una let-tura privata. … Ogni foto è letta come l’apparenza privata del suo referente: l’età della Fotografiacorrisponde precisamente all’irruzione del privato nel pubblico, o piuttosto alla creazione di unnuovo valore sociale, che è la pubblicità del privato» (La camera chiara. Note sulla fotografia, trad. it. diRemo Guidieri, Torino, Einaudi 1980, p. 98). La divergenza dall’interpretazione di Krauss emergeancor più radicalmente allorché Barthes afferma la natura teatrale della fotografia (Ivi, p. 32).

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Un problema che la profusione di messaggi senza codice genera risiede forsenell’intimazione di presenza che essi impongono allo spettatore, dalle impronte otracce dell’espressionismo astratto alla lastra fotografica dell’arte più recente. Quisi capisce la facilità e difficoltà della fotografia ad essere accolta in un museo; essasì riempie e orienta lo spazio, forse perché soddisfa la condizione elementare dellaverticalità, ma nessuno potrebbe sostenere l’effetto magico di esser-stato-lì a ripe-tizione, pena la confusione o più facilmente l’impallidimento del senso dovutoall’abitudine – proprio perché prive di sintassi, «mute presenze di un evento privodi codice»26 secondo Krauss, le fotografie non si ricordano, le si ripete.

Una difficolta ancora più essenziale nella natura di questi supporti riguarda lastessa esistenza dei musei, giacché l’arte dagli anni ’60 in poi un certo senso haeroso in modo forse irreparabile il senso di una storia univoca e progressivadell’arte estetica. Che agli inizi degli anni ’60 la stessa nozione estetica dell’operad’arte stesse subendo attacchi radicali, è difficile negarlo; la lenta riabilitazionedell’arte ottocentesca narrativa e storica esclusa dal canone modernista sembraoggi far parte di un medesimo movimento di pensiero con l’arte di quegli anni.Sarebbe d’altra parte difficile comprendere l’avvento di una disciplina quale iVisual Studies, se non si tenesse conto del modo in cui l’armatura storica del for-malismo, o ciò che si è convenuto chiamar così, costituisse allora una trama indi-visa tra arte contemporanea e non, con i suoi eroi e le sue concordanze necessarietra arte e cultura, ed i limiti del proprio campo. La cesura degli anni ’60 potrebbesegnalare allora non tanto la fine dell’arte, come si è tanto discusso in quegli anni,quanto la fine del modello storico del formalismo estetico modernista, con la suascansione interna Delacroix-Courbet-Corot-Manet-Picasso, la sua fissazione suicapolavori, e soprattutto con la sua nozione di un progresso interno dell’arte? Ver-rebbe da dire di aver a che fare con l’effetto della superfetazione dei musei, se nonsapessimo che si tratta invece di una conseguenza della mossa consapevole dell’arteverso forme di presentazione pubbliche, teatrali, senza codice. Tali forme riluttano

26 R. Krauss, Notes on the Index. Part Two (1977), in The Originality…, cit. p. 212. Queste considera-zioni non valgono per l’opera fotografica di artisti come Jeff Wall o Thomas Strüth, che mi sembratematizzare piuttosto l’aspetto compositivo e teatrale della presentazione fotografica di un ambiente:è significativo in questo senso che Michael Fried, tornato a scrivere di arte contemporanea dopo ven-ticinque anni di studi storici, abbia dedicato a costoro delle recensioni (Being There: Michael Fried onTwo Pictures by Jeff Wall, «Artforum», September 2004; Thomas Strüth at Marian Goodman Gallery,«Artforum», Summer 2005).

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ad una considerazione critica, anche se hanno bisogno spesso di un sottotesto teo-rico, che motivi perché sia arte qualcosa fatto come quella opera. In un certo sensolo spettatore adempie le condizioni dell’arte senza codice allorché sospende il giu-dizio critico a favore del giudizio d’esistenza, come quando si dice “è questo”davanti ad una fotografia. Seppur in maniera diversa, sia il medium fotograficoche il video danno valore ad una serialità/successività che inerisce alla natura deimedium, e questo tende a diminuire l’importanza della singola opera, in manieracoerente con il congedo dal punto di vista estetico dal quale prende avvio l’artedegli anni ’60. Se il significato di un’impronta viene dal suo referente, possonoritornare in maniera indiretta il contenuto, l’illusionismo, i soggetti, tutto ciò cheil modernismo aveva risolto in se stesso e che ora nella sua presentazione astrattaavanza le sue pretese. Ciò determina problemi storici non da poco; come si stori-cizza qualcosa che volutamente non si inserisce in una sequenza orientata in sensoformale, e tanto riproducibile e deperibile come le fotografie ed i video? La sortadi magica presenza immediata che la fotografia genera diviene anch’essa un osta-colo per la storicizzazione, giacché spinge ineluttabilmente verso discussioni icono-logiche inconclusive.

Il soggetto impone dei limiti e delle richieste ben diverse da quelle formali,ma ugualmente coerenti. In una sorta di ritorno al passato della pittura storicaottocentesca, le stesse mostre temporanee sono ormai spesso composte secondotematiche culturali, in modo tale che le opere sono scelte perché significherebberouna virtù o rappresentano un tema, e in un museo come la Tate Modern hannoscelto di orientare i percorsi secondo parole d’ordine tratte dal vocabolario deigeneri classici della pittura. A guidare lo spettatore non è una successione storicacriticamente sedimentata, quanto l’accostamento tematico di opere secondo lavolontà del curatore. Nel generale alleggerimento dell’arte, la figura del curatoresembra aver preso il posto di quella del critico, così come è avvenuto da tempo nel-la musica classica per i direttori d’orchestra.

Termino con alcune constatazioni, concluse da un apologo. Se si considera ilmodo in cui l’arte dagli anni ’60 in poi ha programmaticamente definito il suocampo, ci accorgiamo che essa ha allargato e ristretto ad un tempo la sua defini-zione formale: allargato per la varietà e “pubblicità” dei propri strumenti, ristrettoper le possibilità di articolazione sintattica interna, alle quali si rinuncia consape-volmente a favore di dispositivi destinati a generare un effetto peculiare di presen-za relazionale, spesso definita nel senso della intensità dell’esperienza. Nella suacarica estetica essenzialmente spaziale, tale intensità deve compensare nel nuovo

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museo delineato da Thomas Krens l’assenza della storia, che viene di per sé inten-zionalmente esclusa. Per il promotore dell’espansione del Guggenheim il museodeve portare in questo senso a realizzazione il modo in cui il minimalismo ha tra-sformato la nostra concezione dell’arte, mediante l’interazione con lo spazio in cuil’opera esiste, il nostro bisogno di avere un crescendo cumulativo e serialenell’intensità dell’esperienza artistica, «il nostro bisogno di avere di più e ad unascala più grande»27. Chi ha visitato il Guggenheim di Bilbao sa che Krens nonparla invano, giacché l’edificio posto sulle rive del fiume da Frank Gehry riescedavvero a rendere il senso della piccolezza del nostro corpo. Si penserebbe che unarchitetto come Gehry, vicino a molti autori delle opere presenti nel museo, abbiascomposto e ridotto la gigantesca figura esterna in una configurazione internaadatta ad accoglierle. Per questo ci si stupisce ancor più quando si è entrati, allor-ché ci si accorge che la percezione delle dimensioni dell’edificio è tale da renderepiccole e leggere, tutte raccolte in un colpo d’occhio, le enormi opere Minimal ePop che vi sono esposte. In un certo modo la vendetta del reale sull’arte Minimal,quando l’intensità dello spazio prevale sull’arte, il contesto sull’opera, la reverenzasul giudizio.

27 Cit. ad vocem in R. Krauss, The Cultural Logic of the Late Capitalist Museum, «October», 54, 1990,p. 7. Si tratta della ripresa di un luogo critico diffuso. Così ad esempio scriveva Marcia Tucker nel1970: «Morris sopprime la distinzione tra esperienza “estetica” ed esperienza “reale” […] L’espe-rienza di quest’arte si distingue quantitativamente, non qualitativamente, da quella degli eventi o deglioggetti naturali», M. Tucker, Robert Morris, New York, Praeger, 1970, cit. in Harold Rosenberg,Partite tutti per Clayton!, in La s-definizione dell’arte (1972), trad. it. di M. Vitta, Milano, Feltrinelli,1975, p. 232. Il corsivo è in Tucker.

Piero Cresto-DinaMEMORIA E SECOLARIZZAZIONE. IL LAGER COME MUSEO

La dimensione museale espone i luoghi della memoria al rischio della banalizzazione. Mal'inevitabile caduta di tensione può essere altresì il segno di una realtà secolarizzata chesi mantiene, per altri versi, in rapporto con l'inesprimibile. La visita ai campi si configura,in questo modo, come un rituale laico che si svolge entro uno spazio costitutivamente apertoalla rappresentazione. Il saggio si confronta con le forme estetiche che organizzano la leg-gibilità dei luoghi e coglie nella dialettica heideggeriana mondo/terra un'indicazione percomprendere la specifica qualità dell'esperienza del viaggio.

1. L’estetizzazione della memoria

Oggi l’affermazione di una coscienza storica dello sterminio non sembra più tantodover lottare contro le tendenze all’oblio e alla rimozione che hanno segnato i pri-mi decenni del dopoguerra, quanto contro un eccesso di produzione simbolica chene caratterizza il diffondersi sul piano della cultura di massa. I Lager hanno attra-versato le diverse fasi di una progressiva museizzazione. Si tratta probabilmente diun fenomeno molto simile a quello che ha coinvolto altri luoghi della storia –castelli, rovine, campi di battaglia –, da tempo mete di un turismo culturale chesembra attestare la convergenza fra il compimento della storia e la sua risoluzionein finzione. Difficilmente nell’esperienza dei visitatori lo sguardo può posarsi suqualcosa che non sia una forma estetizzata dell’evento, e ciò in modo del tutto indi-pendente dal grado di consapevolezza e concentrazione con il quale ci si accosta ailuoghi. La dimensione espositiva è ovunque dominante. Ma se è vero che «il turi-smo è la forma compiuta della guerra», come ha scritto Marc Augé a proposito diWaterloo1, non vi è turismo che possa portare a compimento la storia dei Lager. IlLager resiste al turismo di massa, l’evento che vi si è svolto non è, in quanto tale,

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 129-162

130 Dopo il museo

suscettibile di compimento. Il destino delle vittime, sia esso costituito dalla mortedi milioni di uomini o dalla sofferenza di coloro che sono sopravvissuti, non silascia porre troppo facilmente in relazione con le circostanze grazie alle quali se neconserva oggi il ricordo. Se la coscienza arretra di fronte alle implicazioni di unasimile ipotesi, è forse perché l’evento, nella sua enormità, ci pare irredimibile e vor-remmo salvaguardare, insieme con il suo essere definitivamente compiuto, anche lasua unicità. La visita ai campi, così come il mero esercizio della rammemorazione,non può costituire una sorta di risarcimento postumo nei confronti dei deportati2.L’appagamento che potrebbe nascere da questa convinzione renderebbe insignifi-cante l’esperienza del viaggio.

Davanti allo sterminio non siamo disposti a prendere in considerazione un esitofinzionale. Non perché la violenza consumata in altri contesti ci appaia meno reale,ma perché la memoria della deportazione tocca in modo più diretto la nostracoscienza postmoderna, mettendo esplicitamente in causa e rendendo in qualchemodo «incomprensibile», come ha detto Zygmunt Bauman, tutta la civiltà occi-dentale3. Nessun episodio della storia moderna ha assunto in maniera altrettantoprecisa, nella coscienza culturale occidentale, il valore di evento capace di descri-vere la forma generale della storia, la sua essenza forse catastrofica, la sua possibilemancanza di senso. Lyotard ha proposto l’immagine di un terremoto che abbiadistrutto gli strumenti stessi di misurazione4. Così, la memoria della Shoah è dive-nuta un modello per la costruzione della memoria storica in generale.

D’altra parte, pochi altri eventi storici hanno raccolto fino a oggi così tante for-me di rappresentazione, assai di rado la memoria storica si è legata altrettantostrettamente a luoghi, spazi, paesaggi, immagini. In nessun altro caso si è cosìassiduamente condensata nell’esperienza del viaggio e del confronto con i testimo-ni, considerata come indispensabile complemento alla lettura dei testi. Il compitoè allora quello di porre a confronto la profusione delle immagini e delle narrazionicon l’enunciata impossibilità di un’articolazione discorsiva dell’unicità dell’evento.

1 M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi, tr. it. di A. Salsano, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 8.2 Come è noto, l’impossibilità di un’affermazione di positività di fronte a eventi che ridicolizzano lacostruzione di ogni senso dell’immanenza è stata esemplarmente argomentata da Adorno nellepagine finali della Dialettica negativa (Th. W. Adorno, Dialettica negativa, tr. it. di C.A. Donolo,Torino, Einaudi, 19752, pp. 326-69).3 Z. Bauman, Modernità e Olocausto, tr. it. di M. Baldini, Bologna, il Mulino, 1992, p. 126.4 J.-F. Lyotard, Il dissidio, tr. it. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 81.

Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 131

Nel tentativo di aggirare una certa convenzionalità del tópos della memoria perrichiamarsi alla costitutiva distanza dello sguardo si rischia in effetti di incorrerein un tópos altrettanto convenzionale: quello dell’inesprimibilità, dell’ineffabilità,dell’alterità radicale, enfatizzando il paradosso che si formula nella costrizione a«dire l’indicibile»5. È vero, il nucleo dell’evento, il punto di vista dei morti, è desti-nato a restare inespresso6. La testimonianza dei superstiti si scontra sempre con un«fondo intestimoniabile», con una «impossibilità della testimonianza», alla qualenon può che far riscontro l’inevitabile tendenza alla sua «estetizzazione»7. Eppurenon vi è altro modo di procedere, se non quello di tenere fermo a questo nucleo irri-ducibile, ausdruckslos, nella consapevolezza che in ogni caso non potremo evitare illento trascorrere della memoria. Dire tutto quello che si può dire, sapendo che nonsi può dire tutto e che sulla cosa più importante abbiamo perso da tempo la pos-sibilità di parlare.

Trascendenza e visibilità sono i due fuochi a partire dai quali si orienta qual-siasi discorso sulla storia dei campi. Pensare al Lager come a un pezzo di mondo aldi fuori del mondo ordinario, uno spazio sottratto alla sfera della finzione genera-lizzata ci pare, da un lato, essenziale. Alla base di tutte le tendenze revisionistichee relativistiche c’è, in fondo, il mancato riconoscimento di ciò che nello sterminioresta inspiegabile e intraducibile nella lingua ordinaria della comunicazione, inac-cessibile a qualsiasi considerazione fondata su concetti come «equivalenza»,«scambio», «compensazione». Questo elemento irrecuperabile ha probabilmentequalcosa a che fare con quello strato antropologicamente profondo al quale i Lagerrinviano costringendoci a porre in una forma spaventosa la domanda: che cos’èl’uomo?8 D’altro canto, i Lager, come tutte le cose nell’epoca dell’estetizzazione

5 Cfr. R.S.C. Gordon, Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, tr. it. di D. Bertucci e B. Soravia, Roma,Carocci, 2003, pp. 69-70.6 Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, in Opere, vol. I, Torino, Einaudi, 1958-1987, p. 716: «Non siamonoi, i superstiti, i testimoni veri. … Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esi-gua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi loha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i“mussulmani”, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significatogenerale».7 Cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri,1998, pp. 32-33.8 È significativo che la domanda antropologica compaia, fin dal titolo, quale nodo tematico deiprimi e fondamentali scritti di memoria, da Levi (Se questo è un uomo) ad Antelme (L’espèce humaine).

132 Dopo il museo

diffusa, sono condannati alla visibilità, alla dimensione pubblicitaria, espositiva.La loro affinità con i luoghi nei quali si esprime la tendenza umana al colleziona-mento, alla raccolta, all’esposizione e all’archiviazione li rende inavvertitamentesolidali con quelle manifestazioni che nel mondo contemporaneo, per sua essenzamuseale, cadono sotto il controllo delle diverse agenzie dell’estetizzazione. Che sia-no organizzati a tutti gli effetti come musei – è il caso ad esempio di Auschwitz I,di Buchenwald, di Mauthausen –, o che assumano in modo più generico i caratteridel luogo di memoria e ammonimento (Mahn- und Gedenkstätte), essi non sfuggonoa una condizione elementare di «leggibilità»: la cornice entro la quale si inscrivonoi loro progetti espositivi deve risultare familiare, i codici che presiedono all’orga-nizzazione degli spazi e allo svolgimento della narrazione devono essere noti inanticipo, il visitatore deve poter attivare quegli stessi a priori della percezione chel’estetizzazione generale del mondo della vita gli ha messo in funzione. Il turistache fotografa l’impressionante fuga dei binari dalla torretta d’accesso a Birkenau osi raccoglie a Buchenwald presso la lastra metallica con i nomi delle nazioni (cheuna fiamma invisibile tiene costantemente alla temperatura del corpo umano)assume, nel bene e nel male, un contegno di tipo estetico. Che un tale atteggia-mento resti precluso al superstite, assai più attento a registrare i cambiamenti cheil tempo introduce nell’aspetto originario dei luoghi, è una circostanza piuttostorilevante, sulla quale dovremo tornare.

Il rischio implicito nell’assunzione del Lager in una logica di tipo museale èovviamente quello della banalizzazione, della neutralizzazione tranquillizzante.Qualcosa di analogo è avvenuto nei musei d’arte nel corso del Novecento, conl’assorbimento della forza d’urto dell’avanguardia nel quadro di una concezionestorico-evolutiva della crisi. Ma qui è in gioco una conciliazione ben più decisivadal punto di vista sociale. Nonostante tutti gli appelli a considerare l’eventualitàdi un ritorno di «ciò che è stato», il Lager-museo sembra rassicurare sul fatto chela nostra società funziona secondo leggi del tutto diverse da quelle che vigevano alsuo interno. Noi contempliamo la violenza al riparo delle nostre certezze, forti dellaconvinzione che la società, nel suo complesso, sia qualcosa che nasce precisamenteper impedire il Lager9. Il Lager-museo diviene così una dimostrazione e contrariodella bontà dell’ordine sociale.

9 Z. Bauman, Modernità e Olocausto, cit., p. 18.

Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 133

Il potenziale ideologico insito in una tale opzione può essere colto soprattuttose si rif lette su certe tendenze che sono tipiche della nostra epoca. L’apertura alturismo di massa fa leva sulla spettacolarizzazione della vita sociale e sull’assue-fazione del pubblico a un orizzonte interamente dominato da simboli e immagini.Il modo di essere dei semiofori è divenuto il modo di essere di tutte le cose. Ele-menti dello spazio quotidiano (strade, case, negozi, villaggi) sollecitano sempre piùspesso una fruizione «estetica», di carattere museale. Come ha rilevato Baudril-lard, il mondo è ormai un ready-made e il museo uno spazio per la trasposizionedi oggetti d’uso comune, dove la banalità del quotidiano acquista connotati este-tici10. Ne consegue la situazione esemplare di un mondo di simulazione, nel qualela realtà sparisce senza lasciare traccia11. «Prodotti e merci si producono comesegni e messaggi e si regolano sulla configurazione astratta del linguaggio».L’universo dei segni è diventato autoreferenziale, poiché ogni referenza sfuma lad-dove rimane in vigore il solo «gioco dei significanti»12.

In che modo una tale autoreferenzialità tocca le forme alle quali è consegnatala memoria storica, la ricezione dell’evento massimamente reale? A un primosguardo, la parola d’ordine della «derealizzazione», all’insegna della quale socio-logi e filosofi della cultura sono soliti rubricare i fenomeni tipici della postmoder-nità, non trova conferma più piena di quella che viene dalla considerazione deimodi di fruizione della storia. Basta pensare al carattere spettacolare acquisitodall’Olocausto in certe versioni cinematografiche o al «fascino» surrettiziamenteesercitato da talune rappresentazioni finzionali del nazionalsocialismo. La curiosi-tà indifferentemente sollecitata dalle strategie militari come dalle procedure diannientamento degli uomini nelle camere a gas, dalle biografie romanzate deipotenti come dagli esperimenti criminali dei medici nazisti, non è molto più pro-ficua, al fine di una giusta conoscenza, dell’atteggiamento di chi, di fronte all’orro-re, si rifiuta di superare una modesta soglia di informazione, pago del grado diconsapevolezza acquisito. Tuttavia, l’ovvia constatazione che quella curiosità si ali-

10 Cfr. J. Baudrillard, Il complotto dell’arte & interviste sul ‘complotto dell’arte’, tr. it. di L. Frausin Gua-rino, Milano, Pagine d’Arte, 1999, pp. 79-90. 11 Cfr. J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, tr. it. di G. Piana, Milano,Cortina, 1996, p. 9; Id., Illusione, disillusione estetiche, tr. it. di L. Guarino, Milano, Pagine d’Arte,1999, pp. 23-26.12 Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. di G. Mancuso, Milano, Feltrinelli, 19842,pp. 129-30.

134 Dopo il museo

menta dell’apparenza di ineffettualità conferita alla rappresentazione del dolore daimeccanismi dell’industria culturale non rende insignificante tutto quello che sisvolge sotto il segno dell’estetizzazione. Se è vero che anche Auschwitz può essere«digerito» come un aspetto del tutto conseguente al moltiplicarsi dei nessi funzio-nali nella realtà e andare incontro alla crescente disponibilità delle persone acogliere ovunque il lato «normale» delle cose, l’estensione della dimensione sim-bolica allo spazio della storia è anche – oggi più che mai – una condizione neces-saria per il persistere della memoria. Soltanto, si tratta di domandarsi che cosa pro-priamente venga ricordato laddove l’evento da ricordare, il suo «esser stato», siripropone continuamente come un trascendens al quale non è possibile accostarsicon i concetti generici che orientano la nostra comprensione ordinaria della storia.

2. Elaborazione e distanza

Ipotizziamo che questo rapporto fra inesprimibilità ed esponibilità possa esserepensato alla luce del concetto di «secolarizzazione», almeno nella forma che untale concetto assume nel quadro della proposta filosofica di Gianni Vattimo, doveindica soprattutto un nesso di provenienza che lega la modernità a un nucleo diesperienza del sacro che rimane attivo anche dopo la dissoluzione delle strutturesacrali nella società laica e moderna. Certo, prima di assegnare un qualunquesignificato «religioso» alla memoria della Shoah occorrerà considerare come l’espe-rienza della storia «dopo Auschwitz» sia entrata in una fase del tutto nuova, chenon solo impone la radicale riformulazione di tutti i problemi tradizionali dellateodicea13, ma vanifica in anticipo ogni ulteriore tentativo di filosofia della storia,se è vero che la moderna filosofia della storia – giusta la lezione di Karl Löwith –dipendeva in modo sostanziale dall’interpretazione teologica della storia come sto-ria della salvezza14. Ciò che per una coscienza laica, in un tale clima di congedo,mantiene tuttavia in vita la «forma» dell’esperienza religiosa non è tanto la medi-tazione sul silenzio degli dei, quanto quella sul silenzio delle vittime. L’essenzamuseale del Lager, con i rituali di raccoglimento che comporta, reagisce anzituttoalla privazione della voce, a quel torto che consiste nell’impossibilità per le vittime

13 Nel modo più lucido lo ha dimostrato H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica,tr. it. di C. Angelino, Genova, il melangolo, 1993.14 Cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, tr. it. diF. Tedeschi Negri, Milano, Edizioni di Comunità, 19652.

Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 135

di portare a conoscenza il danno subito15. Contro la tendenza a scorgere nei feno-meni di estetizzazione il segno di una dissoluzione della sacralità e di un esonerodiffuso, occorre domandarsi se non sia proprio il museo, grazie a quella funzionedi scambio fra visibile e invisibile che pertiene in generale alla pratica del collezio-nare16, a ereditare nella realtà secolarizzata parte della sacralità un tempo appar-tenuta alla chiesa. La visita ai campi si configura di fatto come una sorta di ritualesecolarizzato17, un rituale dello sguardo e del silenzio che rivela una precisa analo-gia con l’atteggiamento di quei visitatori «estetici» di Sant’Ivo descritti da Vatti-mo, i quali, inevitabilmente presi nel gioco della rappresentazione, si aggirano trai fedeli in preghiera senza poter tuttavia fare a meno di trarre occasioni di rif les-sione dalla contiguità della sfera estetica con quella religiosa.

Vattimo ha elaborato in senso ontologico-nichilistico il paradigma della seco-larizzazione, interpretando quale indice di una storia di «indebolimento dell’esse-re» anche l’«esteticità diffusa» che impronta il mondo delle merci e dell’informa-zione nel mondo postmoderno18. Solo se si guarda alla realtà secolarizzata in ter-mini di eredità e provenienza, le trasformazioni subite dall’esperienza collettivanelle società tardo-industriali possono diventare oggetto di una critica che nonderivi semplicemente dall’assunzione di principi o criteri di giudizio «altri» rispet-to all’esistente. In questo richiamo a un’«alterità» radicale – osserva giustamenteVattimo – si riproporrebbe ancora una volta la violenza tipica della metafisica, chenon può fare a meno di pensare un «fondamento» quale principio di ogni relazionedifferenziale. Se quindi il nesso fra metafisica e violenza che si compie nella con-dizione descritta dal Ge-Stell heideggeriano – ossia nel dispiegamento tecnico enell’organizzazione totale che per Heidegger caratterizza l’epoca conclusiva dellametafisica (entro la quale trova posto anche la macchina dello sterminio) – dipendeanzitutto da una relazione autoritaria tra il fondamento e il fondato, il pensiero

15 Cfr. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 21.16 Cfr. K. Pomian, Collezione, in Enciclopedia, vol. III, Torino, Einaudi, 1978, pp. 341-46.17 Cfr. J. Kugelmass, Why We Go to Poland. Holocaust Tourism as Secular Ritual, in J.E. Young (a curadi), The Art of Memory. Holocaust Memorials in History, München-New York, Prestel, 1994, pp. 175-83. Romano Boico, vincitore nel 1966 del concorso per la sistemazione della Risiera di San Sabba,concepisce il cortile cintato del campo come «una basilica laica, a cielo libero» (M. Rossi, Il Museo-Monumento della Risiera: la visita, in T. Matta, (a cura di), Un percorso della memoria. Guida ai luoghidella violenza nazista e fascista in Italia, Milano, Electa, 1996, p. 133).18 G. Vattimo, Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Roma-Bari, Laterza,1994, p. 90.

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post-metafisico dovrà dimostrare di poter fare a meno di questa logica «fondativa»rinunciando a legittimarsi in nome di istanze sottratte alla storia o quale accessoprivilegiato al «vero»19. Nessun tentativo di «superamento critico» della metafisicae della modernità, nessuna Aufklärung, può sfuggire a quella dialettica che culmi-na nella distruzione stessa dell’idea di verità e di fondamento20. Si tratta allora didefinire le condizioni di un pensiero «rammemorante», radicalmente «assegnato»alla propria eredità storica, postmoderno nella misura in cui vive fino in fondo«l’esperienza della necessità dell’errore»21 e riconosce di non poter essere altro cheripresa e prosecuzione, ossia accettazione e approfondimento secolarizzante, dellamodernità (secondo l’interpretazione fornita da Vattimo della nozione heideggeria-na di Verwindung). Da questo punto di vista, riconoscersi nel paradigma della seco-larizzazione implica da un lato l’ammissione di una logica immanente alla moder-nità, in base alla quale si può affermare ad esempio che la piena realizzazione dellametafisica nella tecnica e nel Ge-Stell è di per sé un fenomeno di secolarizzazione22,dall’altro l’elaborazione di un tipo di esperienza storica destinata a mettere fuoricausa la logica del «superamento» e del novum come valore, sulla quale si è costi-tuita la modernità stessa. La corrispondenza fra questi due significati è postulataproprio dalla nozione di Verwindung: «Il pensiero dell’oltrepassamento della meta-fisica dovrà conformarsi a una “logica” che trova nella modernità stessa»23.

Ci si deve chiedere ora come possa confrontarsi con la negatività assoluta unpensiero che guarda alle costruzioni della metafisica come a un «tessuto di erra-menti che … costituiscono la ricchezza o … l’essere della realtà» e considera glierrori come la «sorgente stessa della ricchezza che ci costituisce e che dà interesse,colore, essere, al mondo»24. Vattimo direbbe probabilmente: il fatto che la logica delpensiero non-metafisico sia la stessa che presiede al divenire moderno della tecnicae del Ge-Stell non implica la legittimazione dell’orrore, né l’appiattimento sulla«storia dei vincitori»; proprio la violenza nazista costituisce un’estrema radicaliz-

19 Cfr. G. Vattimo, Ontologia dell’attualità, in Id. (a cura di), Filosofia ‘87, Roma-Bari, Laterza, 1988,pp. 201-02.20 Cfr. G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1985, p. 176. Per Vattimo l’illumini-smo è il «dispiegarsi della forza del fondamento nella storia».21 Ivi, p. 179.22 G. Vattimo, Ontologia dell’attualità, cit., p. 208.23 Ivi, p. 209.24 G. Vattimo, La fine della modernità, cit., pp. 177, 178.

Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 137

zazione dell’istanza del fondamento, una sorta di apoteosi totalitaria della fonda-zione, la pretesa di far valere un regime linguistico sottratto alla storia e al giudi-zio. Per un pensiero che si considera inevitabilmente «assegnato» al proprio passatoè dunque ancora in gioco la possibilità di una scepsi: se il destino della metafisicasembra compiersi da sé nel senso della secolarizzazione, si può sempre stabilire laqualità della «torsione» con la quale ci si accosta alla storia. A scongiurare ilrischio che, di fronte alla catena degli errori, il pensiero verwindend diventi meraripetizione, Vattimo si è più volte richiamato a un’idea di nichilismo come istanzacritica e difesa contro la diffusa apologia dell’esistente25.

La domanda più importante riguarda però, ancora una volta, la possibilità stes-sa di una citabilità del passato. Come può un «pensiero dell’erranza», costitutiva-mente in dialogo con la tradizione, e dunque con l’oblio e la rimozione, confron-tarsi con l’oggetto «trascendente» e «reale» per antonomasia, con l’indicibile non-trasmissibile, con il «dissidio» che scaturisce dall’impossibilità di rendere testimo-nianza del torto subito, con il silenzio che avvolge l’evento improponibile? In effetti,il paradigma della secolarizzazione postula precisamente la traducibilità in sensoprofano di un’origine non più direttamente esperibile e insieme l’ammissione cheun’eventuale esperienza del passato non potrebbe in ogni caso dipendere da unadecisione individuale o da un’attestazione di autenticità testimoniale. Per Vattimoil tramonto postmoderno della nozione di soggetto trae inevitabilmente con sé lacrisi della testimonianza. Tutta la problematicità e l’angoscia che avvolge la figuradel superstite in quella che Annette Wieviorka ha definito l’ère du témoin26 verteprobabilmente sulla consapevolezza che l’avvio di una nuova epoca può dipenderesolo da un nuovo ordine del mondo che la testimonianza non è, in quanto tale, ingrado di evocare27, se non in forma indiretta e messianica. La secolarizzazione, cheVattimo declina nel senso di un’«ontologia dell’attualità», descrive una storia diindebolimento e di lento allontanamento dalla metafisica. La memoria che essaincoraggia non ha come termine un positivo. Come per l’idea di tradizione cheGershom Scholem ha considerato peculiare dell’ebraismo, il suo oggetto può esserefissato solo come oggetto di una perdita. Vattimo scrive: «L’oltrepassamento della

25 Cfr. G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, cit., p. 90.26 Cfr. A. Wieviorka, L’era del testimone, tr. it. di F. Sossi, Milano, Cortina, 1999.27 Cfr. G. Vattimo, Tramonto del soggetto e problema della testimonianza, in Le avventure della differenza,Milano, Garzanti, 1980, p. 64.

138 Dopo il museo

metafisica è inteso solo come un ricordarsi dell’oblio, mai come un rifar presentel’essere, nemmeno come termine che sta sempre al di là di ogni formulazione»28.

Come pensare allora forme di rappresentazione capaci di trarre un contenuto diverità dal suo isolamento per tradurlo sul piano della visibilità e della fruizionesociale senza riproporre, insieme con la trascendenza dell’oggetto, la vocazionesostanzialistica della metafisica? Significativamente, proprio nel corso della suarif lessione sull’«esperienza di Sant’Ivo» Vattimo recupera quell’idea di una «nuovamitologia», o di una «mitologia della ragione», che era stata formulata dagli autoridel celebre frammento noto come Systemprogramm dell’idealismo tedesco. Conl’auspicio di un «politeismo dell’immaginazione e dell’arte» che facesse da con-traltare al «monoteismo della ragione e del cuore», di una «religione sensibile» alservizio delle idee e capace di preparare utopicamente un rinnovamento generaledella cultura e dello spirito, Hegel, Schelling e Hölderlin avevano per primi messoin relazione il valore di verità dell’esperienza estetica con il suo pieno coinvolgimen-to nell’epoca della secolarizzazione, quasi che la capacità dell’arte di parlare intempi di povertà fosse dovuta alla sua natura costitutivamente «povera», alla suaconsuetudine con le diverse traduzioni di una verità già sempre obliata, al suo esse-re fin dall’inizio traduzione secolarizzante, registrazione di una distanza già inatto.

3. La rappresentazione che dilegua

In età moderna il problema della possibilità/legittimità della rappresentazione sipone in un contesto già fortemente segnato da opzioni di carattere estetico e teolo-gico emerse nel dibattito medioevale sullo statuto dell’immagine e sul suo valoredi verità29. Assumendo il significato paradigmatico di quelle rif lessioni e dandoneper acquisiti gli snodi principali, ci accingiamo ora a tracciare un itinerario del tut-to particolare nel territorio fin qui descritto: a) ammettiamo, a titolo di ipotesi, larappresentabilità del Lager; b) tentiamo in secondo luogo di giustificare quest’ipo-tesi col definire le condizioni di una buona rappresentazione; c) cerchiamo infine diverificare se queste condizioni siano in linea di principio soddisfatte dall’immagi-

28 G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, cit., p. 18.29 Cfr. L. Russo (a cura di), Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’Immagine, tr. it. di C. Gerbino,Palermo, Aesthetica, 1997; cfr. inoltre il volume, a cura del Centro Internazionale Studi di Estetica,Nicea e la civiltà dell’immagine, «Aesthetica Preprint», n. 52 (aprile 1998).

Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 139

ne estetica, svolgendo alcune considerazioni sull’arte e sulla sua dimensione testi-moniale.

È abbastanza naturale scegliere quale punto di partenza l’irriducibilitàdell’immagine alla mera riproduzione (o copia)30. Vale la pena ricordare come giànell’antichità uno dei significati dell’imago fosse quello che la poneva in relazionecon la maschera funebre; quest’ultima non era in linea di principio sottoposta a unvincolo di tipo mimetico, ma era piuttosto chiamata a preservare la memoria, a ren-dere presente l’assente e ad affermare l’essenzialità del legame fra visibile e invisibi-le31. Una fondamentale funzione simbolica veniva assicurata mediante la risoluzio-ne del passato in presenza visibile, del tempo in spazialità. Jean-Pierre Vernantinforma come anche il kolossós che nella Grecia arcaica si sotterrava nella tombavuota (ma che spesso veniva eretto al di sopra della tomba, in posizione visibile)non riproducesse affatto i lineamenti del defunto (dando l’illusione della sua appa-renza fisica), ma avesse piuttosto la funzione di incarnare la sua vita nell’aldilà,costituendone una sorta di «doppio»32. Vorremmo avanzare l’ipotesi che nella rap-presentazione estetica dello sterminio sia in gioco qualcosa di molto simileall’incontro con una sfera per sua natura sottratta allo sguardo e tuttavia almenopotenzialmente soggetta alla figurazione.

Nel tentativo di definire le condizioni di rappresentabilità dello sterminio,Jean-Luc Nancy stigmatizza come «idolo» l’immagine che vuole imporsi e averevalore per se stessa e non per quello che «rappresenta», presenza massiccia e tauto-logica che si riduce al suo essere-là e sostituisce completamente un originale assen-te33. Possiamo caratterizzare in questo modo la «cattiva rappresentazione». Vi sonomonumenti e memoriali della Shoah che vogliono esprimere sul piano sensibile –nella pietra, nel bronzo, nel cemento o nella celluloide – l’orrore materiale degli

30 Nota è la sintesi di Gadamer, secondo la quale si deve intendere per immagine (Bild) una realtàautonoma che resta legata all’originale senza tuttavia sopprimersi a suo favore, come accade invecealla copia (Abbild); a differenza della riproduzione, il Bild realizza una sorta di incremento ontologicoche coinvolge l’oggetto rappresentato e gli conferisce unità e senso: cfr. H.G. Gadamer, Verità emetodo, tr. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 19907, pp. 168-79.31 Cfr. R. Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, tr. it. di A. Pinotti,Milano, Il Castoro, 1999, pp. 22-25.32 J.-P. Vernant, Figurazione dell’invisibile e categoria psicologica del «doppio»: il kolossós, in Mito e pen-siero presso i Greci. Studi di psicologia storica, tr. it. di M. Romano e B. Bravo, Torino, Einaudi, 19782,pp. 344-45.33 Cfr. J.-L. Nancy, Tre saggi sull’immagine, tr. it. di A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2002, pp. 57-63.

140 Dopo il museo

eventi. Nel loro sforzo riproduttivo, opere come queste sfuggono a ogni criterioestetico, non «rappresentano», ma «commemorano» o segnalano, manifestando alcontempo «la loro impotenza a rappresentare, il loro fallimento artistico»34.

Rappresentazione estetica è invece quella che non vuole essere descrizione osostituirsi all’originale assente, ma resta consapevole del vuoto che si apre nel datosensibile. Nancy chiama «rappresentazione interdetta» una messa in presenza«sospesa davanti a quest’altro dalla presenza»35, sospensione che mette in gioco lastessa rappresentabilità, che inscrive la distanza direttamente nella rappresentazio-ne, anziché fare di questa la riproduzione di qualcosa. Il paradosso è qui il seguen-te: per il modo in cui si è svolto, lo sterminio coincide con la cancellazione dellapossibilità stessa della rappresentazione, ma proprio questa circostanza, questaimpossibilità, è ciò che si dovrebbe (e non si può) rappresentare. Se la Shoah «rap-presenta» qualcosa nella storia del mondo, non si tratta d’altro che dello statutoparticolare cui si vede costretta la rappresentazione dopo la Shoah stessa. Ladomanda con la quale deve misurarsi l’immagine è allora quella sulle condizioniin cui il Lager ha ridotto la rappresentazione nel mondo moderno.

Quale arte può essere all’altezza di un simile compito? Che la domanda sullecondizioni della rappresentazione – in sé ineludibile per l’arte contemporanea –possa scaturire da una rif lessione sulla temporalità e sulla memoria dopoAuschwitz risulta evidente quando si pensi al lavoro di artisti come Jochen Gerz,Hans Haacke, Ronald B. Kitaj, George Segal o Christian Boltanski. Il fatto chenon tutte le loro produzioni siano monumenti all’Olocausto non implica la leggi-bilità del loro progetto artistico al di fuori delle condizioni instaurate daquell’evento. Ciò è particolarmente evidente nel caso di Boltanski. Alle tracce invia di estinzione, all’impossibilità per l’immagine di restituire l’originale,all’orientamento «soggettivo» della memoria, all’aspetto «reliquiale» e «fram-mentario» della testimonianza l’artista francese ha dedicato un percorso chedenuncia costantemente la propria dipendenza dalla condizione epocale in cui ci sitrova a proposito della rappresentazione36.

Si potrebbe obiettare che si tratta pur sempre di una rif lessione di secondo gra-do e che altra cosa sono le opere create dai deportati stessi nel periodo della lorodetenzione. Ma la circostanza che, rif lettendo sulla memoria del genocidio, l’arte

34 Ivi, p. 64.35 Ivi. p. 65.

Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 141

possa tematizzare in generale la struttura della rappresentazione e la sua portataconoscitiva invita a mettere in secondo piano quella distinzione – pure legittima insede storica – fra arte dell’Olocausto e arte sull’Olocausto37 con la quale si intenderimarcare l’assoluto valore testimoniale di opere realizzate nei campi a rischio dellavita e con materiali di fortuna, e poi miracolosamente messe in salvo dopo la libe-razione. Accentuare troppo questa distinzione porterebbe da un lato a ridimensio-nare il significato di testimonianza delle opere nate negli anni successivi alla libe-razione dei campi (anche di quelle realizzate dagli stessi ex deportati sulla base diun’elaborazione non esente da conflitti, come per i tanti scritti di memoria fatico-samente venuti alla luce nel dopoguerra), dall’altro a trascurare la dimensione arti-stica di disegni e dipinti coevi agli eventi, ai quali si vorrebbe attribuire un’esclu-siva funzione documentaria. Ma come non ricordare la tematizzazione baudelairia-na del conflitto, artisticamente fecondo, fra visione e memoria, fra «obbedienzaall’impressione» e sintesi formale, fra velocità di esecuzione e bellezza? Se da unlato una «barbarie inevitabile, sintetica, infantile», che scaturisce dalla volontà di

36 La catastrofe ebraica compare esplicitamente al centro di installazioni come Canada o La fête dePourim (cfr. ad es. Christian Boltanski. Lessons of Darkness, Jerusalem, The Israel Museum, 1989, oChristian Boltanski. Réserves – La fête de Pourim, Basel, Museum für Gegenwartskunst, 1989), mal’interpretazione delle icone di Boltanski come monumenti ai bambini scomparsi ad Auschwitz o aTreblinka non esclude la presa d’atto di una riflessione più generale sulla sopravvivenza della memo-ria individuale e collettiva, sul tempo e sulla perdita. Scrive lo stesso Boltanski: «È sicuro che tuttodeve scomparire. Tutti i tentativi di lottare contro la morte, contro la scomparsa, sono vani. Quandoqualcuno muore, è quella che io ho chiamato la piccola memoria che sparisce veramente. Tuttoquello che sapeva, le sue storie, i suoi libri preferiti, i suoi ricordi... Tutto ciò che ci forma e che cicostruisce sparisce totalmente quando si muore», cit. in D. Eccher (a cura di), Christian Boltanski,Milano, Charta, 1997, p. 36. Nel suo commento alla Festa di Purim il filosofo e critico d’arte ArthurDanto ha scritto: «Nella nostra cultura, quando muore l’ultima persona che sa, senza bisogno cheglielo spieghino, a chi si riferisce una determinata immagine, quella è la morte definitiva del sog-getto ritratto. Niente è più profondamente anonimo dell’immagine di un viso che nessuno ricono-sce. L’equiparazione dell’irriconoscibilità delle immagini che erano un tempo immediatamente rico-nosciute con la morte stessa – con la morte della memoria – è la metafora che anima le opere carat-teristiche di Boltanski» (ivi, p. 106).37 Cfr. le voci «Arte» e «Arte in Italia», in W. Laqueur (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, ed. it. (acura di), A. Cavaglion, Torino, Einaudi, 2004, pp. 39-47. Per la distinzione citata, cfr. in particolarep. 40. Per quanto riguarda l’arte dell’Olocausto, Sybil Milton classifica cinque categorie principali diopere: 1) ritratti e autoritratti, 2) rappresentazioni di oggetti, paesaggi e nature morte, 3) dipinti dicarattere documentario sulla vita nei campi, 4) caricature, 5) lavori astratti (cfr. ivi, pp. 44-45).

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vedere tutto e registrare il transitorio, traspare spesso anche in un’arte perfetta,dall’altro nessun grande artista dipinge, propriamente parlando, dal vero, ma sem-pre affidandosi alla propria capacità di assorbire e trattenere l’impressione, il coloregenerale, il contorno38. Così si può dire che la giusta restrizione del concetto diesteticità alla rappresentazione artistica, in base alla quale Nancy nega valore este-tico a forme di presentazione sensibile artisticamente «fallimentari», non deve fardimenticare che nella rielaborazione figurativa dell’esperienza del Lager gli stessiconfini fra rappresentazione artistica e presentazione extra-artistica tendono a con-fondersi: anche il più semplice dei disegni, fissando l’attimo del ricordo e costrin-gendo l’osservatore a ricostruire la continuità dei vissuti, gli istanti che precedonoe seguono quello irrigidito nell’immagine, ad animare l’orrore del quotidiano,esprime una verità per nulla circoscritta all’aspetto illustrativo. Anche di fronte aopere in cui prevale l’intento di esporre con precisione documentaria la vita e lamorte dei deportati, come nei dipinti eccezionalmente perspicui di WladyslawSiwek39, lo choc percettivo rivendica la propria centralità. Tutta la discussione sullalegittimità del giudizio estetico per opere che sembrano scaturite anzitutto da unimpulso all’esattezza e alla veridicità diviene privo di senso se si considera la capa-cità propria dell’immagine di restituire la «forza cruda dell’occhio che ha visto etrasmette la sua indignazione»40. Abbiamo un’espressione artistica che è anchetestimonianza, così come molti scritti di memoria non rinunciano a essere lettera-tura. Il ricorso all’espressione figurativa da parte dei prigionieri dei campi invita aprendere atto di un peculiare orientamento «immaginale» della memoria e ci spin-ge a riconoscere la possibilità di una dimensione secolarizzata dell’esperienza, diuna sua virtuale traducibilità. Il Lager – proveremo in seguito ad argomentare – èuno spazio tendenzialmente aperto alla figurazione.

Prendiamo in esame l’opera di Zoran Music. È l’artista stesso a dircelo: «SenzaDachau avrei fatto della semplice illustrazione. Dopo Dachau dovevo andare alcuore delle cose»41. Il bisogno di rappresentare nasce dalla visione della morte.Music porta i cadaveri in primo piano, prende in consegna i corpi rimasti senzasepoltura, ne fa l’oggetto centrale della propria testimonianza. I disegni eseguiti aDachau nell’estremo del pericolo – e certamente non nati per il museo – diventano

38 Cfr. Ch. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, in Scritti sull’arte, tr. it. di G. Guglielmi ed E.Raimondi, Torino, Einaudi, 1992, pp. 290-92.39 Cfr. Wladyslaw Siwek, Kiedys to namaluje..., Oswiecim, Panstwowe Muzeum Auschwitz-Birke-nau, 2000.

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la sorgente di tutta l’opera successiva (fig. 1). Una sorta di anamnesi lo induce a rie-laborare dopo il 1970 le visioni già una volta fissate sulla carta e fino a quelmomento tenute nascoste. A partire dal ciclo Nous ne sommes pas les Derniers essetornano a «occupare il cuore dell’opera e a nutrirla»42. I mucchi di corpi emaciati,gli arti aggrovigliati e contratti, la bocca aperta, la pelle quasi trasparente, le lun-ghe membra scarnificate, le dita sottili, la rete ancora visibile delle vene: è davantia queste immagini che Music dice di aver avuto «la rivelazione improvvisa di unabellezza tragica». Nei cadaveri fragili e disseccati vede qualcosa come una «grazia»che il disegno, «omaggio ultimo a ciò che resta di umano in queste forme», nondeve tradire43.

Per Music dipingere è come aspettare che le cose arrivino a poco a poco, com-parendo dall’oscurità, così come le forme compaiono all’occhio di colui che, prove-nendo dall’esterno luminoso, entra nel buio di una cattedrale e vede gli oggettidelinearsi a poco a poco. Egli attende che le immagini affiorino, che i ricordi esca-no dall’oblio: cose da tempo scomparse, immagini di cui resta solo l’essenziale44. Lasua pittura coglie il breve istante del disvelamento, che è anche quello in cui le cosericominciano a sprofondare nel nulla. Gli ultimi dipinti sono figure del superstite:

40 P. Levi, Presentazione, in A. Benvenuti, K.Z. Disegni dai campi di concentramento nazifascisti. Artecome testimonianza, Treviso, edizione fuori commercio con la partecipazione della Cassa di Risparmiodella Marca Trivigiana, 1983, p. 7. Il volume curato da Benvenuti costituisce, per quanto ne sap-piamo, il più ampio catalogo pubblicato in Italia di disegni eseguiti nei Lager. La rassegna com-prende più di duecentosettanta opere di un centinaio di artisti. Benvenuti ha raccolto le riproduzioniprendendo visione degli originali nelle collezioni di Budapest, Lubiana, Novi Sad, Terezin, Varsavia,Belgrado, Praga, Oswiecim, Gerusalemme e di molti centri concentrazionari. Fra i disegni presentinel catalogo ricordiamo quelli eseguiti da Jerzy Adam Brandhuber e Xavery Dunikowski adAuschwitz, da Corrado Cagli, Karol Konieczny, Jósef Szajna e Boris Taslitzky a Buchenwald, daAldo Carpi a Gusen, da Carlo Slama e Léon Delarbre a Dora, da Leo Haas a Terezin, da Zoran Musice Bozo Pengov a Dachau, da Wladyslaw Siwek a Birkenau. Molti luoghi deputati alla memoria dellaShoah ospitano collezioni permanenti. Ad Auschwitz si trovano più di seimila dipinti, sculture elavori grafici. Presso il centro Yad Vashem di Gerusalemme, dove si trova la più ampia collezione diopere dedicate al genocidio, le creazioni degli artisti ebrei che nei vari paesi europei operarono sottol’occupazione tedesca si affiancano a quelle di artisti della seconda o terza generazione dei superstiti.41 Cit. in Zoran Music. Œuvres de 1947 à 2001, Genève, Galerie Jan Krugier, Ditesheim & Cie,2001, p. 36.42 J. Clair, La barbarie ordinaire. Music à Dachau, Paris, Gallimard, 2001, p. 59.43 Ivi, p. 32.44 Cfr. Zoran Music. Œuvres de 1947 à 2001, cit., pp. 80-81.

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personaggi solitari, con il volto quasi illeggibile, seduti o con le braccia innatural-mente tese, a malapena emergenti da uno sfondo indistinto e scuro, quasi confusicon esso. A volte si tratta dell’artista nel suo atelier. Gli impressionanti autoritrattiai quali alla fine si consacra in modo quasi esclusivo sembrano apparizioni, spettriche sorgono dal regno dei morti. Da essi si può capire in quale misura l’elabora-zione del proprio tema abbia portato Music a problematizzare l’essenza stessa dellarappresentazione, ossia il suo carattere sospeso, violentemente esposto al nulla eall’oblio. Questi dipinti non si limitano a registrare apparizioni in forma di ricordi,ma mostrano la pittura in se stessa come apparizione. Secondo le parole di JeanClair: la pittura come «manifestazione», «sorgere del visibile alle soglie dell’invi-sibile»45.

Su un punto non è dunque possibile ingannarsi: l’intento non è quello di rive-lare l’orrore in quanto tale, documentando o illustrando qualcosa come «la realtà».Dipingere l’orrore vorrebbe dire narrare, attendere ancora alla dimensione figura-tiva. Music non disegna la camera a gas, che del resto non vede se non dopo la libe-razione, ma piuttosto cerca di comprendere la morte «da pittore», rif lettendo sullecondizioni stesse della visibilità. Questa dimensione apofatica dell’orrore entro laquale si inscrive la sua pittura ci porta in prossimità delle Figure di Francis Bacon,per molte delle quali un interprete come Deleuze ha sottolineato l’estraneità a ogniforma di brutalità o tortura. La Figura, vale a dire il modo rappresentativo con ilquale Bacon supera la figurazione (l’illustrativo, il narrativo), compare qui anchenel suo antico significato di «apparizione», «larva». La violenza che le appartienenon è quella del rappresentato, ma quella della sensazione, che agisce direttamentesul sistema nervoso46.

Anche il progetto di dissoluzione del volto che Deleuze attribuisce a Baconpotrebbe caratterizzare altrettanto bene gli ultimi dipinti di Music. Fin dall’inizioquesti aveva potuto assimilare dal vivo le deformazioni cui, in modo programma-tico, Bacon sottopone il corpo in vista della sua «interpretazione» pittorica. Ciò cheviene meno in entrambi è la sintesi organica della figura: essa viene colta piuttostonell’atto di disfarsi. Del resto, la carne macellata in Bacon e le cataste di cadaveriin Music rappresentano in modo ancor più eloquente «quello stato del corpo in cui

45 J. Clair, La barbarie ordinaire. Music à Dachau, cit., pp. 66-67.46 Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, tr. it. di Stefano Verdicchio, Macerata, Quod-libet, 19993, p. 88.

Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 145

la carne e le ossa, anziché comporsi strutturalmente, si confrontano localmente»47.Ancora una volta non si tratta di descrivere, ma di pensare fino in fondo le condi-zioni della rappresentazione in un’epoca di crisi della rappresentazione, vale a direin un’epoca nella quale ciò che più di ogni altra cosa dovrebbe essere mostrato siè definitivamente sottratto alla visibilità. L’adempimento dell’antica profeziasecondo la quale tutto deve ritornare in polvere viene verificato nel corpo stesso diuna pittura che non può più essere rivelazione, ma non accetta per questo di con-segnarsi alla pura immanenza.

4. Architettura del vuoto

Nel dispositivo nazista di rappresentazione, alla crisi della rappresentazione fariscontro un eccesso simbolico che Nancy definisce «iper-rappresentazione»: lapura e semplice esibizione di una presenza totale, satura, che rimanda solo al pro-prio esser-presente, alla propria immanenza, che non manifesta altro che se stessa.Poiché non rivela nulla, è una rappresentazione «senza resti, senza scavo …, senzalinee di fuga», «proprio il contrario del monoteismo, della filosofia e dell’arte»48.Ma oggi ci troviamo forse di fronte a una peculiare forma di «torsione» estetica,giustificata da una paradossale linea di continuità fra l’oggetto della musealizza-zione e i modi in cui questa si realizza. Sembra anzitutto che il Lager-museo ere-diti dalla realtà totalitaria l’impulso parossistico alla raccolta e alla catalogazionedei propri materiali. Si pensi ad esempio alla cura maniacale con la quale nei cam-pi venivano registrati uomini e cose, alla quasi sistematica trascrizione delleimmatricolazioni e dei decessi (cui negli ultimi anni si oppose soltanto la volontàdi sterminio totale), alla meticolosa definizione di spazi e funzioni, all’intrinseca«musealità» della Effektenkammer, nella quale trovavano posto ad Auschwitz glioggetti tolti ai deportati al momento del loro ingresso nel Lager49(figg. 2, 3). Lavocazione rappresentativa e «mediatica» del nazismo non si esercitava soltanto nelleparate militari e nell’arte monumentale, ma aveva un suo momento specificamente«collezionistico», che non può essere spiegato solo sulla base delle pur evidenti

47 Ivi, pp. 55-5648 Cfr. J.-L. Nancy, Tre saggi sull’immagine, cit., pp. 74, 79.49 Scarpe, valigie, capelli, vestiti, occhiali, protesi, ombrelli, bottoni, oggetti legati alla vita e allavoro dei deportati: la tesi dell’essenza allegorica del museo postmoderno potrebbe venirne corro-borata.

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motivazioni di carattere economico o amministrativo (quantificazione della dispo-nibilità di manodopera, trasformazione delle cose in vista del loro reinserimentonel circuito delle merci)50. Vi è qualcosa di dispendioso, di celebrativo, di gratuitoe di esemplare nel modo in cui il Lager organizza il proprio dispositivo interno,l’articolazione delle funzioni, la delimitazione degli spazi, l’assegnazione dei ruoli.Nessun oggetto, nessuno strumento (inanimato o animato), nessun luogo deverestare privo della sua cornice, della sua descrizione, di una tassonomia che deter-mini la posizione che gli compete. È un sistema che si autolegittima nell’esibire lapropria capacità inclusiva, nel mettere alla prova la propria tenuta con l’aumentodella complessità: ma qui la coesistenza della serie e della singolarità assoluta siafferma a spese della seconda.

A confermare l’impressione di una strana dialettica dell’apparenza sono poi leforme stesse del campo di sterminio: effetti prospettici, linee di fuga, contrasti diluce, monumentalità non esente da ambizioni formali51. Primo Levi osserva comeuna predisposizione scenografica e architettonica, per quanto funzionale a un pro-getto di sistematica falsificazione della realtà, fosse insita nella stessa strutturaconcentrazionaria52. Nonostante le profonde trasformazioni che hanno cancellatomolte delle tracce e definitivamente mutato il volto dei campi ancora esistenti53, lasuggestione del luogo continua ad agire sul visitatore a un livello che si potrebbedefinire «aptico» o «ambientale», prima ancora che attraverso precisi riscontri fat-tuali. Non so se questo tipo di fruizione sia corretta, voglio soltanto osservare chesi tratta del livello minimo di penetrazione, senza il quale non si dischiude la stra-da della conoscenza. Possiamo avanzare l’ipotesi che nella sistemazione museale

50 La creazione di musei e archivi sui propri «nemici» era una mania dei nazisti. Hannah Arendtricorda come Eichmann, all’inizio del suo incarico presso il Servizio di sicurezza, fosse stato asse-gnato all’Ufficio informazioni in vista della creazione di un museo massone (cfr. H. Arendt, Labanalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bernardini, Milano, Feltrinelli, 19922, p.45).51 Sulla fantasiosa tipologia kitsch delle torri di guardia si soffermavano ad esempio Alain Resnais eJean Cayrol in una celebre sequenza di Nuit et brouillard. Più spesso, tuttavia, l’architettura del Lagerrecepisce la monumentalità stereotipata delle installazioni militari.52 Primo Levi, Pagine sparse 1981-1987, in Opere, vol. II, Torino, Einaudi, 1997, p. 1269. 53 Non sto quindi pensando alla scomparsa dei luoghi, cancellati dalla ricostruzione, rioccupati daedifici civili o da capannoni industriali, e nemmeno alla soppressione di singoli elementi per volontàdei nazisti (distruzione dei crematori, delle strutture produttive ecc.), ma all’aspetto generale deicampi superstiti, al loro impatto visivo immediato.

Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 147

dei Lager sia stata decisiva la disponibilità dei luoghi a una trasformazione in sensosimbolico, come se il linguaggio formale di carattere architettonico e visivo al qua-le di volta in volta si è fatto ricorso fosse già quello della realtà preesistente e nonsi trattasse di altro che di recepirne e rovesciarne talune indicazioni, al fine di cre-are una sorta di racconto esteticamente «leggibile»54.

Ciò vale naturalmente non solo per gli spazi esterni, ma anche per l’allestimen-to dei percorsi che costituiscono la parte propriamente museale dei luoghi dellamemoria. Impianti espositivi di tipo tradizionale e persino già un po’ invecchiati,come quelli che si osservano nei padiglioni di Auschwitz I, possono comunquecontribuire a instaurare un certo grado di tensione estetica, con effetti «atmosferi-ci» di volta in volta suggeriti da un’illuminazione ridotta, dalla studiata assenzadi didascalie, dal monocromatismo delle superfici. In anni recenti si è affermatasempre più l’esigenza di un’«architettura del silenzio», espressa da una lingua«minimale» e fondata su un’estrema semplificazione dei segni55. Ovviamente sipone qui il problema del rispetto degli spazi preesistenti, ma questo non significache i modi di presentazione non possano trarre spunti decisivi dalle esperienze piùinnovative maturate in sede progettuale. Se pensiamo ad esempio allo JüdischesMuseum di Berlino o al Dansk Jødisk Museum di Copenhagen, entrambi realiz-zati su progetto dell’architetto Daniel Libeskind, siamo in grado di riconoscere duecondizioni essenziali che potrebbero essere riprese in ogni intervento sui luoghidella memoria:

1) il museo rivendica una sorta di «autosufficienza visiva e teorica», in quantorealtà che vuole essere interpretata ed esperita essa stessa come opera compiuta, «aprescindere dai contenuti espositivi»;

54 Cfr. ad es. le considerazioni sulle valenze simboliche connesse alla risistemazione del complessomuseale di Carpi da parte del gruppo di architetti BBPR in R. Gibertoni, A. Melodi, Il Campo diFossoli e il Museo Monumento al deportato di Carpi, in T. Matta (a cura di), Un percorso della memoria,cit., pp. 104-05; cfr. anche B. Zevi, Cinetica per tollerare i massacri. Museo monumento al Deportato diCarpi, in Id., Cronache di architettura, vol. IX, Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 182-85.55 Questo ad es. l’orientamento degli architetti dello studio MSP-H nella realizzazione del nuovocentro di accoglienza per i visitatori del campo di Mauthausen (cfr. «Abitare», n. 442, settembre2004).

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2) di qui l’esigenza di evitare ogni sovraccarico nell’allestimento, puntandoinvece su un programmatico svuotamento dello spazio; il museo dev’essere orga-nizzato intorno a un «vuoto» fisicamente percepibile dai visitatori e tale da costi-tuire il vero oggetto del museo; questo svuotamento può avere un valore altamenteevocativo56, proprio perché non è indotto da una tematizzazione esplicita, essendol’architettura stessa a trasmettere il senso di un percorso erratico, labirintico, conevidenti effetti di spaesamento.

Nei progetti di Libeskind l’elemento perturbante è rafforzato anche dalla con-testazione dell’ortogonalità delle superfici, dall’inclinazione delle pareti, dall’aper-tura di tagli luminosi obliqui, dal variare della pendenza del piano di calpestio.Certo, non è pensabile la pura e semplice trasposizione di queste soluzioni allarealtà del Lager, laddove è in gioco semmai la prospettiva del restauro e della rico-struzione storicamente attendibile. Ma assumere il punto di vista di una logicaautonoma dello spazio museale servirà quantomeno ad evitare svolgimenti narra-tivi incentrati su principi cronologici e storicistici tipici di un orientamento muse-ografico, purtroppo assai diffuso nei luoghi della memoria, che non riesce a indi-viduare contenuti pedagogici al di fuori di quelli affidati alla funzione didascalicadelle presentazioni.

5. Luoghi e identità

Nel nostro ambito l’efficacia di ogni relazione simbolica è legata alla presenza diun luogo reale che diviene monumento, spazio destinato all’elaborazione del lutto ealla celebrazione del ricordo nel luogo stesso degli eventi. Il Lager rivela al massimogrado quanto siano «divenuti f luidi i tradizionali confini fra museo, monumentoe prassi storiografica»57. In questo senso andrebbero lette tutte le forme attraversole quali la memoria tende a fissarsi nel paesaggio: la lapide, il segno collocato nellapiù stretta prossimità con il luogo dove la morte ha colpito o dove la vita continuaa svolgersi58. Nei vari allestimenti di forme «diffuse» di museo, collegate allo spa-

56 Cfr. G. Alessandri, Le parole del vuoto. Lo Jüdisches Museum di Berlino, in «Art e Dossier», n. 196,gennaio 2004, pp. 8-13. Riferendosi alla memoria specifica dell’ebraismo europeo, cui è dedicato ilmuseo berlinese, Alessandri ricorda come vuoto, oltre allo spazio del genocidio e dell’esilio, sia«anche lo spazio sacro della cultura ebraica, rigorosamente iconoclasta e intrisa di una valenza mes-sianica».57 A. Huyssen, Monument and Memory in a Postmodern Age, in J.E. Young (a cura di), The Art ofMemory, cit., p. 16.

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zio urbano ed extraurbano e a tutti gli altri luoghi di memoria presenti su un datoterritorio, si deve scorgere una medesima esigenza di radicamento e contestualiz-zazione. L’esperienza della traccia inserita nel territorio genera un’emozione deltutto particolare, che è al tempo stesso di carattere storico ed estetico: si tratti dellatraccia autentica che si incontra sul luogo dell’evento (traccia magari quasi scom-parsa, come a Monowice, dove fra le nuove costruzioni ben poco ricorda ancora lapresenza del campo), oppure della traccia intenzionalmente posta, ma per lo piùinosservata, disattesa (l’iscrizione, il monumento, la fotografia). I Lager e i luoghidella memoria raccontano anche storie locali e trasmettono ricordi spazialmentesituati59.

Il «luogo» nasce propriamente con il suo riconoscimento come luogo, con la suaistituzionalizzazione a monumento da parte di una collettività. È solo il monu-mento a legare l’evento alla sua rappresentazione, facendo del luogo un luogo60.Che nei confronti del luogo persino l’esperienza personale possa assumere valorefondante dipende in ultima analisi dal fatto che anche questa esperienza puòessere partecipata ad altri e divenire oggetto di un riconoscimento comune. Delresto, nell’odierna tipologia di contatto con i Lager, la riscoperta del luogo scom-parso, non monumentalizzato e pressoché cancellato (Monowice, appunto, oGliwice o Linz), costituisce solo uno dei casi possibili (benché tutt’altro che raro),al quale sarà comunque possibile attribuire una sorta di monumentalità «impli-cita» o virtuale.

Di solito il visitatore si trova di fronte a un grado più o meno accentuato dimonumentalizzazione esplicita: il memoriale in assenza del campo scomparso(Gusen), il memoriale-crematorio quale residuo di un campo preesistente (Melk),il luogo in corso di recupero (Fossoli), il luogo parzialmente ricostruito (le gallerie

58 Cfr. C. Dellavalle, Nota introduttiva, in N. Adduci, L. Boccalatte, G. Minute, Che il silenzio non siasilenzio. Memoria civica dei caduti della resistenza a Torino, Torino, Istituto piemontese per la storiadella resistenza e della società contemporanea, 2003, p. 9.59 A un impatto non del tutto diverso puntano oggi i tentativi degli artisti di ristrutturare l’espe-rienza percettiva del fruitore mediante la creazione di opere integrate nel paesaggio e determinate aesplorare le relazioni offerte dalla topografia o dalla storia del luogo (site specific art, environmentalart). 60 Cfr. N. Baiesi, G.D. Cova, Educa il luogo, in T. Matta (a cura di), Un percorso della memoria, cit., p.143.

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di Ebensee o di Dora-Mittelbau), il luogo museo o centro di documentazione(Auschwitz I, Mauthausen, Buchenwald, Dachau)61.

Il concetto antropologico di luogo presuppone una serie di relazioni di identitàe differenza che hanno il loro terreno di applicazione nella storia. Marc Augé hacaratterizzato l’idea di modernità (anche in senso baudelairiano) in termini di inte-grazione dell’antico nel nuovo, coesistenza di diverse temporalità fondata sull’indi-viduazione di luoghi identitari e relazionali presso i quali possono essere sperimen-tate quelle forme di socializzazione dell’esperienza che sono decisive per il conso-lidarsi delle singole tradizioni culturali. Ma a questo modello ha poi contrappostoil concetto di una surmodernité caratterizzata invece dall’assenza di vere e proprieforme di integrazione tra i diversi piani temporali e nella quale i luoghi antichi silimitano a occupare un posto circoscritto e specifico, come «luoghi della memoria»repertoriati e classificati. La nostra epoca – afferma – non produce più luoghi, masolo nonluoghi, ossia spazi non identitari, né relazionali, né storici62.

La rif lessione da noi condotta sul rapporto fra luogo e visitatori, fra evento eturismo, fra memoria e rappresentazione, non ci ha forse spinti a formulare l’ipo-tesi che la fruizione museale resti sempre condizionata da un’insormontabile dis-sociazione tra individuo e spazio, da una costitutiva incapacità del soggetto di ade-

61 Per la definizione di una tipologia inserita in un percorso didattico e formativo sui luoghi dimemoria, cfr. L. Monaco, G. Pernechele (a cura di), Percorsi di memoria. Viaggi di studio nei Lagernazisti 1998-2001, Città di Moncalieri - Provincia di Torino, 2002, p. 14. Un caso particolare, matutt’altro che raro, è quello del museo-memoriale senza rapporto con il luogo in cui sorge. Poichéquesta dimensione espositiva non rientra, per varie ragioni, nell’orizzonte da noi considerato, ci limi-tiamo a segnalare tre casi che mettono in luce come anche in queste fondazioni siano in corso proce-dure complesse di legittimazione culturale, politica e comunitaria. a) Più o meno discutibilmente,nel caso del centro Yad Vashem di Gerusalemme la peculiare ubicazione del sito è tale da fornire unalegittimazione etica, in chiave secolarizzata, al moderno stato di Israele, come spazio di redenzionein rapporto alla catastrofe della Shoah (cfr. S. Friedländer, Memory of the Shoah in Israel. Symbols,Rituals and Ideological Polarization, in J.E. Young (a cura di), The Art of Memory, cit., p. 153). b) Laprossimità spaziale dello United States Holocaust Memorial Museum di Washington, inauguratonel 1993, con gli edifici simbolo della storia americana sembra conferire a questo museo il compitodi custodire non soltanto la memoria dell’Olocausto, ma anche l’integrità degli ideali di democraziae uguaglianza sui quali si è costruita l’identità nazionale degli USA (J.E. Young, The Art of Memory.Holocaust Memorials in History, cit., p. 33). c) In Italia, in forme più ridotte, il Museo della Deporta-zione di Prato è concepito come un viaggio simbolico in un campo di lavoro e di sterminio nazista. Illegame con la realtà «locale» è suggerito, in questo caso, dalla vicenda degli operai del Pratesedeportati nei Lager di Mauthausen ed Ebensee.

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guarsi al livello di esperienza richiesto? I Lager-museo sembrano a tutti gli effettinonluoghi, proprio perché in essi la storia rischia continuamente di diventare uno«spettacolo specifico», dove convivono, in qualità di clienti o passeggeri, indivi-dualità poco rilevate che stentano a tradursi in veri nuclei di identità collettiva.Questa circostanza viene anzitutto sperimentata sulla pelle del superstite. Come siè detto, il ritorno sui luoghi non si ricompone per lui nella forma di una relazioneestetica. Vi è in ciò qualcosa che ricorda il non-coinvolgimento estetico dei fedelinella chiesa di Sant’Ivo, paradigmaticamente fissato da Vattimo. Per il deportatoil luogo è luogo, senza disgiunzione, senza la possibilità di un’estraneità o di unadistanza. Dove gli altri vedono vuoti, egli vede solo luoghi pieni, antropologica-mente densi. La sua attenzione per la conservazione del dettaglio e il senso di per-dita che avverte di fronte alle trasformazioni cui vanno incontro le cose si lega alricordo di un tempo in cui i Lager hanno mostrato in modo più brutale la loro ori-ginaria natura di nonluoghi: aree di transito più che di residenza, aree di estremaconcentrazione demografica segnate da una sostanziale trasformazione del rappor-to con lo spazio e dalla imposizione di un presente assoluto negatore della storia,centri di trasferimento di intere popolazioni e interi gruppi sociali, compatibilisolo con l’impiego delle più efficaci procedure per l’accelerazione del trasporto suvasta scala.

Ma proprio il riconoscimento della centralità della figura del superstite e delnesso che continua a legarlo al Lager – sia nella prospettiva della visita, laddoverisulta evidente l’importanza della sua funzione di accompagnamento, sia in unapiù ampia prospettiva di «contatto» e negoziazione fra le associazioni internazio-nali degli ex-deportati e le amministrazioni dei luoghi di memoria – dovrebbeindurci a considerare la portata «regolativa» della fruizione museale (proprio insenso kantiano). Forse entrambe le esperienze, quella del testimone che ritorna suiluoghi e quella del visitatore «estetico» che partecipa a una sorta di cerimonialelaico, tendono a realizzare una peculiare valenza identitaria contro quel nemico

62 Cfr. M. Augé, Finzioni di fine secolo seguito da Che cosa succede?, tr. it. di A. Salsano, Torino, BollatiBoringhieri, 2001, pp. 83-84; Id., Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, tr. it.di D. Rolland, Milano, Elèuthera, 1993, p. 73. Come esempi di nonluoghi Augé indica grandimagazzini, spazi commerciali, aeroporti, stazioni ferroviarie, mezzi di trasporto, catene alberghiere,strutture per il tempo libero, punti di transito, spazi soggetti a occupazioni provvisorie, bidonville,campi profughi, centri di transito per emigranti e, in generale, tutte le «installazioni necessarie perla circolazione accelerata delle persone e dei beni» (ivi, p. 36).

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comune che, secondo Walter Benjamin, «non ha smesso di vincere»63. La possibi-lità di ricostituire rapporti identitari con certi «luoghi» storici appare, nel caso delLager, rovesciata. Qui abbiamo degli spazi che sono nati come «nonluoghi» e vor-rebbero oggi diventare per la prima volta «luoghi». Dire che il Lager-museo è unmonumento significa riconoscere che nella sua orbita va costituendosi una linguache non è più quella istituita nel campo ai fini di un’elementare economia discambio e tante volte descritta negli scritti di memoria. Se il nonluogo è lo spaziodella comunicazione non umana fra individuo e potenza collettiva64, il monumen-to è una delle forme della condivisione e si oppone alla solitudine del nonluogocome la lingua autentica si oppone alla comunicazione funzionale alle esigenzedella nuda vita.

Certo, come scrive Vattimo, «il monumento … non è il calco di una vita piena,bensì la formula, che si costituisce già per trasmettersi, dunque già segnata dal suodestino di alienazione radicale»65. Il monumento, è vero, rischia di produrre nonsolo ricordo e consapevolezza, ma anche oblio, irrigidimento, distacco dal passatoe dagli spazi della vita quotidiana. Non è un caso che si sia affacciata alla coscienzaartistica l’esigenza di creare monumenti che fossero anche contro-monumenti –come quello di Jochen ed Esther Gerz ad Amburgo66 –, monumenti che mettonoin discussione i presupposti stessi del proprio esserci e vogliono sottolineare più illoro carattere di opposizione al fascismo che la loro funzione di memoriali. Recen-

63 W. Benjamin, Sul concetto di storia, tr. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p.27: «[Il pericolo] minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari … Inogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo cheè sul punto di soggiogarla».64 M. Augé, Nonluoghi, cit. p. 108.65 G. Vattimo, La fine della modernità, cit., p. 82.66 Cfr. Stephan Schmidt-Wulffen, The Monument Vanishes. A Conversation with Esther and Jochen Gerz,in J.E. Young (a cura di), The Art of Memory. Holocaust Memorials in History, cit. pp. 69-75. Si trattadi un singolare monumento che «dilegua» nel tempo, inizialmente costituito da una colonna altadodici metri a base quadrata, sulla cui superficie di piombo i passanti potevano incidere i proprinomi, attestando così il loro antifascismo. Via via che le singole porzioni della colonna fossero statepiene di iscrizioni, l’intero monumento sarebbe sprofondato nella propria base in fasi successive, finoeventualmente a scomparire del tutto. Una sezione della colonna sarebbe comunque stata semprevisibile attraverso una vetrina posta nel sottostante passaggio pedonale. Inaugurato nel 1986, ilmonumento fu abbassato per l’ottava e ultima volta nel 1993. Nell’intenzione degli artisti, il vuotocosì intervenuto sul sito del monumento sarebbe stato per tutti un invito ad assumere personal-mente il carico della memoria e della lotta contro l’ingiustizia.

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temente Peter Eisenman ha realizzato in una città carica di storia, di strutturesignificanti e di architettura come Berlino un monumento «senza significati», sen-za centro e senza bordi67. Ma non è proprio questa capacità destrutturante nei con-fronti degli spazi in cui normalmente vengono definiti valori e significati, e in cuialtrettanto normalmente si legittimano selezioni e oblii, a costituire la condizioneprimaria per la vita futura dei luoghi della memoria? È azzardato affermare che ilLager-museo, in quanto monumento, porta la dispersione postmoderna dei luoghistorici al suo punto critico, dove l’esistente denuncia la propria cattiva coscienza?L’identità che in esso si costituisce è sempre un’identità problematica, plurale,mutevole, oggetto di periodiche rinegoziazioni e di aspri confronti sul terreno dellacoscienza sociale e delle definizioni religiose o nazionali68. Archivio che racchiudein nuce tutta la nostra storia più recente, eterotopo chiamato a contestare e a rovescia-

67 In Germania il Memoriale per l’assassinio degli ebrei d’Europa è stato oggetto di un forte dibat-tito in fase di definizione del progetto. Jürgen Habermas ha sostenuto l’idea del monumento in fun-zione dell’autocomprensione politica dei cittadini tedeschi, in quanto caratterizzata in modo deter-minante dal rapporto storico con Auschwitz. Contro coloro che argomentavano l’impossibilità diinnalzare un monumento alla propria vergogna (Hermann Lübbe, Martin Walser), il filosofo fran-cofortese ha sottolineato l’esigenza un monumento che testimoniasse in modo esemplare la volontà eil messaggio dei suoi fondatori, ossia di quei «cittadini che risultano eredi diretti della cultura cherese possibile il misfatto» (cfr. J. Habermas, L’indice ammonitore. I tedeschi e il loro monumento, inTempo di passaggi, tr. it. di L. Ceppa, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 22-33).68 È sufficiente pensare alle reazioni suscitate dalla rivendicazione del carattere essenzialmente«ebraico» dello sterminio in un paese come la Polonia, dove l’immagine degli eventi di guerra si èsempre caratterizzata in termini di «sacrificio nazionale» (più di cinque milioni di cittadini polac-chi persero la vita per le misure di terrore e sterminio messe in atto dalle truppe tedesche di occupa-zione, la metà dei quali di origine ebraica: cfr. T. Bastian, Auschwitz e la «menzogna su Auschwitz».Sterminio di massa e falsificazione della storia, tr. it. di E. Grillo, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p.51; W. Laqueur (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, cit., p. 554). Superfluo notare come in questalettura «nazionale» abbia avuto un peso decisivo, oltre alla posizione ufficiale dello stato socialista,la forte identità cattolica del paese. Il 7 giugno 1979 Giovanni Paolo II definiva Auschwitz «il Gol-gota del mondo contemporaneo», avallando l’idea del martirio di Cristo quale sintesi simbolica delgenocidio ebraico. Cinque anni dopo, il trasferimento di un gruppo di suore carmelitane in un edifi-cio adiacente al perimetro di Auschwitz I apriva un conflitto destinato a trascinarsi per diversi anni,fra accordi disattesi, proteste ebraiche e posizioni di chiusura da parte della Chiesa polacca, finoall’intervento del Vaticano che nel 1989 ratificava l’accordo stipulato due anni prima a Ginevra fra ledelegazioni delle due parti, che prevedeva lo spostamento del convento e la sua trasformazione incentro interconfessionale di incontro e preghiera (cfr. J.E. Young, The Texture of Memory. HolocaustMemorials and Meaning, New Haven-London, Yale University Press, 1993, pp. 144-47).

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re tutti gli altri posizionamenti della cultura69, il Lager ci ricorda come il modellodi razionalità strumentale sul quale si è costituita la nostra idea di modernità, e innome della quale l’Occidente continua a giustificare le proprie scelte strategiche nelcontesto mondiale, non sia in linea di principio estranea a quel progetto di inge-gneria sociale che aveva come obiettivo la produzione seriale della morte e lo sfrut-tamento sistematico delle risorse umane e materiali in vista del puro dominio70.

6. Pedagogia museale

È opportuno cercare di capire che cosa il Lager possa insegnare sul museo intesocome pratica occidentale di collezionamento. Tutti i musei sono oggi un invito agettare sul passato, sulle tradizioni locali come sul concetto di cultura in generale,quello sguardo etnografico al quale ci hanno reso avvezzi i luoghi della memoria,con il loro appello a fissare l’alterità radicale, il non assimilabile per antonomasia.Bisogna evitare l’illusione che il Lager-museo possa offrire una rappresentazioneadeguata della totalità. Vi è sempre tensione tra la memoria come frammento, det-taglio, e l’intero irricostruibile. Anche qui una certa tradizione «si inventa». Nono-stante l’aura di autenticità che circonda l’oggetto della memoria, i Lager non pos-sono nascondere il carattere selettivo della propria sistemazione. Se per il collezio-nista d’arte vale il principio che «si colleziona sempre il proprio io»71, per il museostorico si può assumere la regola secondo la quale è sempre una certa cultura chesi colleziona, anche quando gli oggetti collezionati appartengono ad altre cultureo, come nel nostro caso, rappresentano qualcosa da cui la cultura prende esplicita-mente le distanze. Si imporrebbe quindi anche per i Lager quella rif lessione suicriteri di collezionamento che James Clifford ha impostato in termini antropologicied etnografici osservando come siano sempre contingenze locali e politiche a legit-timare le varie forme di narrazione72. Come ogni museo, anche il Lager dovrebbeesibire la storia della propria «collezione»73.

69 Per il concetto di «eterotopia», cfr. M. Foucault, Des espaces autres, in Dits et Écrits. 1954-1988,vol. IV (1980-1988), Paris, Gallimard, 1994, pp. 752-62.70 Cfr. Z. Bauman, Modernità e Olocausto, cit., pp. 37-38.71 J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, tr. it. di S. Esposito, Milano, Bompiani, 1972, p. 118.72 Cfr. J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, tr. it. di M.Marchetti, Torino, Bollati Boringhieri, 19992, pp. 25-26, 249-55, 264; Id., Strade. Viaggio e tradu-zione alla fine del secolo XX, tr. it. di M. Sampaolo e G. Lomazzi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999,pp. 17-18.

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Tuttavia, considerare la configurazione attuale dei luoghi della memoria comeespressione di una relazione storica in corso, che non si limita a restituire una seriedi eventi passati, ma registra le trasformazioni in atto nella nostra società, significaconcepire il Lager-museo come un eterotopo caratterizzato da una spiccata qualitàdialogica, dove lo spazio del lógos si apre fra lo spaesamento indotto dai luoghi – lochoc percettivo che ci costringe a un riassestamento delle nostre coordinate estetiche– e l’apertura di nuovi significati nello spazio del museo. È qui in atto un conflitto

73 Il problema si rivela in tutta la sua portata se si pensa alle complesse vicende che hanno segnatonegli anni del dopoguerra l’allestimento museale dei campi tedeschi e polacchi, o anche alla contra-stata presa di coscienza, nel nostro paese, del ruolo svolto dalla Repubblica Sociale Italiana nella rea-lizzazione del più grande crimine della storia moderna. Laddove solo a fatica e con grande ritardo siè manifestata in Italia la necessità di un recupero e di una valorizzazione dei Lager presenti sul terri-torio, in Germania l’esigenza di un confronto con il passato, avvertita su un piano di coscienzanazionale, ha indotto a una precoce monumentalizzazione dei luoghi, senza che tuttavia fosseavviata una qualche riflessione su quanto era stato perduto con la distruzione dell’ebraismo europeo.Se nella Repubblica federale si tendeva a concepire i campi alla stregua di cimiteri o luoghi in cuidovevano essere genericamente ricordate le vittime della guerra, nella Germania democratica i Lagersono stati sottoposti a un significativo processo di ideologizzazione e presentati come monumentialla lotta al fascismo. La categoria della «vittima», in questo caso, passava decisamente in secondopiano rispetto a quella del «combattente» (cfr. V. Knigge, Die Gedenkstätte Buchenwald seit 1989/90,in AA.VV., Die Neukonzeption der Gedenkstätte Buchenwald, Weimar, Stiftung GedenkstättenBuchenwald und Mittelbau-Dora, 2001, p. 5). Dopo la Wiedervereinigung la museografia dei luoghidella memoria ha dovuto affrontare problemi di non facile soluzione. Nei primi anni Novanta nonsono mancate accese discussioni. A titolo di esempio, si può ricordare la decisione degli amministra-tori di Buchenwald di recuperare come luogo di memoria l’area delle fosse comuni dello Speziallagersovietico, che ospitò tra l’agosto del 1945 e il febbraio del 1950 circa 28.500 prigionieri tedeschi, peril 43 % dei quali è stato possibile verificare l’iscrizione al partito nazionalsocialista (cfr. P. Reif-Spi-rek, B. Ritscher (a cura di), Speziallager in der SBZ. Gedenkstätten mit «doppelter Vergangenheit», Ber-lin, Ch. Links Verlag, 1999, pp. 140-41). È interessante osservare come i responsabili della risiste-mazione abbiano tenuto a precisare l’opportunità di distinguere nettamente le due forme dellamemoria: quella dedicata alle vittime della violenza nazista nel complesso museale di Buchenwald equella relativa al periodo dell’occupazione sovietica nell’area adiacente al campo principale. La com-missione di esperti istituita dal Ministero per la Scienza e l’Arte del Land della Turingia giunse allaconclusione che il KZ nazionalsocialista doveva costituire ancora il fulcro della rappresentazionemuseale, mentre la memoria dello Speziallager sovietico doveva essere garantita in subordine. I dueluoghi dovevano, inoltre, restare nettamente distinti da un punto di vista spaziale (cfr. ivi, p. 253).Sulla diversità delle forme di rappresentazione della memoria rispettivamente in ambito tedesco, neipaesi vittime dell’aggressione nazista e negli stati alleati vincitori cfr. J.E. Young, The Texture ofMemory, cit.

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(o un movimento dialettico) molto simile a quello descritto da Martin Heideggera proposito della portata veritativa dell’opera d’arte. Forse l’effetto estetico delLager nasce proprio dal suo duplice funzionamento, come «produzione» (Her-stel-lung) della terra ed «esposizione» (Aufstellung) di un mondo.

Seguendo Vattimo, esporre un mondo non significa tanto inaugurare nuoveverità da contrapporre a errori passati, quanto esibire i rapporti di appartenenza neiconfronti di un mondo storico, i tratti costitutivi che definiscono l’esperienza delmondo propria di una società o di una cultura74. La funzione «aprente», ossia«fondante», del Lager, la sua capacità di costituire le linee fondamentali di un’esi-stenza storica, è emersa sempre più negli ultimi anni in relazione alla cultura dellamemoria e alla pedagogia del Lager, vale a dire a quei tratti di «discorsività» cheHans Belting indica come decisivi per il futuro dei musei in generale75. In modoanalogo, Vattimo desidera che i musei diventino soggetti collettivi realizzando uno«spostamento di accento dall’oggetto all’attività», cessando cioè di fare dell’operail fulcro di un interesse prevalentemente feticistico e guardando invece ai «mondipossibili» che le opere stesse eventualmente annunciano76. Come luogo dedicatoall’archiviazione e alla conservazione dei documenti, il Lager è anche un luogo diricerca, di studio e di incontro77.

Quest’idea del museo come «centro di attività», che ci sembra strettamentecorrelata all’apertura, all’esposizione e all’intensificazione di orizzonti mondani di

74 G. Vattimo, La fine della modernità, cit., p. 70.75 Cfr. il saggio di H. Belting, Il museo: riflessione o sensazionalismo?, in questo volume.76 G. Vattimo, Il museo e l’esperienza dell’arte nella postmodernità, in «Rivista di estetica», 37, 1991,anno XXXI, p. 10, ora in questo volume.77 Vattimo sottolinea come la funzione di raccolta di informazioni e documenti sia un tratto essen-ziale del museo postmoderno (ivi, p. 9). Negli archivi del museo di Auschwitz vi sono alcune decinedi migliaia di negativi di fotografie scattate ai prigionieri al momento del loro ingresso nel campo onel corso delle periodiche «selezioni», fotografie clandestinamente scattate dai membri del Sonder-kommando nei pressi delle camere a gas, quarantotto volumi con i certificati di morte di circa 70.000prigionieri, documentazioni tecniche e planimetrie relative alla costruzione del campo, lettere e altriscritti di deportati e molto altro materiale destinato all’approfondimento e alla ricerca. Presso moltiLager vi sono oggi centri di documentazione, che mettono a disposizione moduli didattici e organiz-zano corsi sulla didattica dello sterminio. Le amministrazioni organizzano mostre itineranti, ras-segne, visite guidate, seminari e curano pubblicazioni (alcune centinaia i titoli pubblicati a cura deldipartimento per le pubblicazioni di Auschwitz). All’idea del Lager come centro di attività si ricol-lega altresì la presenza ad Auschwitz di un ufficio informazioni presso il quale è possibile ottenere,anche per corrispondenza, notizie sulla sorte dei singoli deportati.

Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 157

significato, è destinata a confrontarsi, in misura probabilmente unica nel caso delLager, con la percezione di una permanente riserva, intraducibile nei termini di unqualsivoglia significato culturale. In questo senso, Vattimo ha interpretato l’ideadell’opera d’arte come Her-stellung della terra nel senso del suo «puntuale manife-starsi come qualcosa che richiama sempre di nuovo l’attenzione». L’opera d’artepuò essere messa in opera della verità solo in quanto i rimandi che costituiscono ilmondo da essa aperto presuppongono un riferimento primario «all’altro dal mon-do, che in Heidegger ha i caratteri della physis»78. Sono dunque i caratteri unheim-lich del Lager, gli elementi di una storia-natura benjaminianamente intesa comeaccumulo catastrofico di rovine, ad agire sullo spettatore come strati mitici pro-fondi e a mettere in moto – con il loro dinamismo solo apparente (è storia, ma èstoria-natura), con l’immobilità che li caratterizza in quanto divenire ciclico delsempre-uguale – il processo storico dell’interpretazione. Il richiamo alla mortalitàracchiuso nella nozione di «terra» è dunque essenziale al fine di sottrarre la peda-gogia del Lager alle tendenze edificanti eventualmente favorite da un’affrettataidentificazione del ricordo come vaccinazione contro il ritorno del passato. A questoritorno tutti, ma proprio tutti, siamo esposti. Per questo una pedagogia del Lagerpuò essere soltanto una pedagogia della resistenza, una pedagogia che si astiene inlinea di principio dalla celebrazione e si mantiene in prossimità essenziale con ilproprio oggetto, mediante lo studio.

La consapevolezza dell’estrema diversificazione dei modi in cui si è svoltol’evento dello sterminio ha reso evidente negli ultimi anni la necessità di un’impo-stazione di carattere «idiografico», tesa a valorizzare la storia di tutti i gruppi di vit-time e dei loro specifici destini. Nel quadro di una tale rielaborazione, si sono mol-tiplicati in ambito museale i percorsi espositivi dedicati alle singole comunità dideportati79, ai «trasporti» provenienti dai diversi paesi, alla sorte dei singoli pri-gionieri nelle cosiddette «marce della morte», alla specifica dimensione economico-produttiva dei centri concentrazionari, ai movimenti di resistenza, a fatti particolari

78 G. Vattimo, La fine della modernità, cit., p. 71.79 Il campo di Auschwitz I è di fatto un museo nel quale i singoli padiglioni sono dedicati allamemoria delle diverse nazioni.

158 Dopo il museo

e ad autori identificabili di crimini80: f lessibilità della forma-museo, in grado ditrasformarsi da veicolo di metaracconti a contenitore di storie individuali.

Giova qui sottolineare ancora una volta la logica richiesta da questo tipo di ope-razioni. Dove l’impulso primario è la volontà di conoscenza, il maximum informa-tivo non deve pregiudicare la portata estetico-simbolica dell’operazione; né d’altraparte si può tollerare una rinuncia alla conoscenza a esclusivo vantaggio dell’elabo-razione formale. Credo che nel caso della memoria dello sterminio il salvataggiodell’individuale trovi già nella relazione allegorica con la totalità infranta la suafondamentale declinazione estetica. Mi limito qui a considerare un particolare tipodi rapporto con la singolarità assoluta: quello che si determina in presenza dei nomipropri o dei ritratti fotografici. Questo rapporto può verificarsi anzitutto in unadimensione espositivo-monumentale, dove la stilizzazione formale è massima e laportata estetica del gioco più scoperta. Nei cataloghi di nomi della Hall of Names aYad Vashem, della Pinkasova Synagóga di Praga o del museo-monumento al depor-tato di Carpi, così come nelle milletrecento fotografie di ebrei lituani della Towerof Faces di Washington (fig. 4) o nelle iscrizioni comparse anno dopo anno sul murodel monumento italiano a Mauthausen, vi è un potenziale epistemologico chel’intenzione rappresentativa, più o meno esplicita, si limita a precisare, lungi dalsopprimere81. Ma la stessa produttiva duplicità si può ritrovare in forme di scritturache non sono legate alla monumentalità di un singolo luogo o edificio, ma si collo-

80 Quasi esemplare, in questo senso, l’esposizione permanente inaugurata a Buchenwald nel 1995:cfr. Konzentrationslager Buchenwald 1937-1945. Begleitband zur ständigen historischen Ausstellung, Göt-tingen, Wallstein Verlag, 20002.81 A Birkenau, un luogo che difficilmente potrebbe essere classificato come «museo» in sensostretto, ha trovato posto nei locali della cosiddetta «Sauna» una collezione di fotografie tratte daalbum di famiglia di ebrei polacchi di Bedzin e Sosnowiec, ritrovate fra gli effetti personali deideportati. Nella penombra delle sale, sotto l’effetto straniante del grande pavimento riflettente cherovescia le immagini appese alle pareti, il visitatore è invitato a seguire la vicenda dei singoli gruppifamigliari e a ripercorrere le storie individuali, spesso ricostruibili nel confronto tra fotografie cheritraggono le persone in attività e situazioni diverse (figg. 5, 6). Come in certi lavori di ChristianBoltanski, qui è chiaramente percepibile un contrasto fra l’installazione, caratterizzata da unamonumentalità geometricamente sviluppata, e il ritratto fotografico, nel quale si concentra tutta ladimensione emotiva del ricordo (cfr. H. Swiebocki, Auschwitz monumento alla memoria, in «Il pre-sente e la storia», n. 65, giugno 2004, p. 191; T. Swiebocka, A Project for the Interior Arrangement ofthe Former Camp Bathhouse Building in Birkenau, tr. ingl. di W. Brand, in The Architecture of Crime. The“Central Camp Sauna” in Auschwitz II-Birkenau, Oswiecim, Auschwitz-Birkenau State Museum,2001, pp. 195-200).

Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 159

cano sul terreno specifico dell’indagine storica. Penso a casi emblematici di «libri-monumento», come quelli di Liliana Picciotto Fargion, di Italo Tibaldi, di DarioVenegoni, di Danuta Czech, scaturiti dall’intenzione asintotica di pronunciare tuttii nomi e raccogliere i destini rimasti senza espressione82.

I musei presuppongono, e talora creano, una cornice volta a determinare il sen-so delle loro inclusioni e delle relative esclusioni. Michel Foucault li concepisce, inanalogia con gli archivi e le biblioteche, come metatesti che istituiscono e organiz-zano altri livelli testuali, a loro volta implicati in una serie di relazioni e rimandi.Così come ogni libro moderno è un libro aperto alla serie infinita dei libri (in unrapporto essenziale con quanto è già stato scritto) e ogni pittura moderna è pittura«da museo» (nata per rendere esplicita la propria parentela essenziale con ciò che ègià stato dipinto)83, anche il Lager deve essere pensato come un luogo di raccoltadelle storie, un punto di convergenza delle testimonianze e dei linguaggi che intor-no alla deportazione sono nati negli ultimi sessant’anni, uno spazio caratterizzatoda una costitutiva vocazione metamorfica, da una permanente tendenza alla ride-

82 Cfr. L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano,Mursia, 1991; I. Tibaldi, Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I «trasporti» dei deportati1943-1945, Milano, Angeli, 1994; D. Venegoni, Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano. Unatragedia italiana in 7809 storie individuali, Milano, Mimesis, 2004. Quest’ultimo testo è altresìdisponibile in rete sul sito dell’ANED e della Fondazione Memoria della Deportazione (www.depor-tati.it), dove si trova anche la fondamentale, dettagliata cronologia di D. Czech, Kalendarium. Gliavvenimenti nel campo di concentramento di Auschwitz 1939-1945, tr. it. di G. Piccinini (a cura di)Dario Venegoni, 2002 (nella presentazione Lucio Monaco sottolinea la triplice valenza del libro: sto-rica, archivistica e narrativa). Una portata per certi versi analoga a quella dei testi citati può essereattribuita alla ricostruzione filmica realizzata da Claude Lanzmann con il suo Shoah, vero e propriofilm-monumento della durata di nove ore, montaggio di materiali costituiti da interviste a ex-deportati, ex-SS e civili, alcune delle quali di insostituibile valore documentario e testimoniale (sene veda la trascrizione in C. Lanzmann, Shoah, tr. it. di G. Cillario, Milano, Rizzoli, 1987). Semprenell’ambito della testimonianza visiva, non sarebbe neppure da scartare l’ipotesi di una valenza este-tica implicita nel progetto della Shoah Visual History Foundation di Steven Spielberg, che, con le sueforme invero piuttosto standardizzate, appare come una sorta di enorme museo in progress dellamemoria. La fondazione raccoglie a tutt’oggi più di 50.000 video-interviste a sopravvissuti dellaShoah da tutto il mondo (cfr. il sito: www.vhf.org). Annette Wieviorka ne ha evidenziato la dimen-sione «industriale» in un contesto di esplosione globale della testimonianza a partire dagli anniNovanta (cfr. A. Wieviorka, L’era del testimone, cit., pp. 122-29).83 Cfr. M. Foucault, Un “fantastico” da biblioteca, in Scritti letterari, tr. it. di C. Milanese, Milano, Fel-trinelli, 19963, pp. 136-39.

160 Dopo il museo

finizione delle proprie funzioni. Nel Lager si produce intertestualità84: l’enormemole degli scritti di memoria e delle testimonianze scritte e orali, per la quale nonesiste a tutt’oggi una bibliografia esauriente85, trova in esso il proprio centro ideale.Libro dei libri, archivio virtuale delle forme della testimonianza, il luogo dellamemoria non si limita ad accogliere elementi linguistici precostituiti: li pone inessere, li costituisce come tali, crea nuovi contesti di esperienza e nuove modalitàdi organizzazione della conoscenza storica. Al tempo stesso, però, è un catalogoaperto, suscettibile di ampliamenti e nuove combinazioni. Come ogni museo, èanche metamuseo, in quanto vive da un lato delle serie di oggetti/documenti chevi sono confluite, mentre contiene dall’altro indicazioni su ciò che in esso rimaneinfinitamente aperto alle possibili integrazioni. Nessuno dei linguaggi che entranoa far parte della cornice museale può aspirare a dire l’indicibile, a descrivere ciò cheper essenza si sottrae al gioco della finzione; l’esito fantasmagorico descritto daFoucault attraversa tutto lo spazio della scrittura, delle memorie, delle immagini.Ma qui l’immaginazione sperimenta anche la propria insufficienza di fronte allavalutazione di un oggetto estraneo alle regole della comunicazione estetizzata.Ogni testimonianza è in un rapporto «museale» con tutte le altre testimonianze(e più in generale con le diverse forme rappresentative accanto alle quali si «espo-ne») e tuttavia istituisce al tempo stesso una relazione unica e insondabile con ilfondo dal quale tutte le testimonianze provengono.

Tutto questo resterà per molto tempo a disposizione degli uomini futuri, mal’impatto che oggi i luoghi della memoria esercitano (ancora o di nuovo) non è assi-curato per sempre. Quando anche gli ultimi testimoni oculari se ne saranno anda-ti, i campi avranno bisogno di testimoni secondari, o «mentali», come è stato dettocon espressione quanto mai esatta86.

84 Cfr. A. Huyssen, Monument and Memory in a Postmodern Age, cit., p. 16.85 Cfr. però A. Devoto, Bibliografia dell'oppressione nazista fino al 1962, Firenze, Olschki, 1964; Id.,L'oppressione nazista: considerazioni e bibliografia 1963-1981, Firenze, Olschki, 1983. Per la storia deideportati italiani cfr. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria delladeportazione dall’Italia 1944-1993, Franco Angeli, Milano 1994. Per il campo di Mauthausen ilministero degli Interni austriaco ha dato avvio nel 2001 a un progetto di raccolta di testimonianzedi deportati denominato MSDP (Mauthausen Survivors Documentation Project), che comprendecirca ottocento interviste raccolte in una ventina di paesi (cfr. V. Frenkel, Conservare la memoria. Leinterviste ai deportati di Mauthausen, in «Il presente e la storia», n. 65, giugno 2004, pp. 207-26).86 A. Bravo, Gli archivi dell’Aned piemontese e la loro importanza per la didattica, in L. Monaco (a cura di),La deportazione nei Lager nazisti. Didattica e ricerca storiografica, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 24.

Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo 161

fig.1 Zoran Music, disegno a matita,Dachau, 1945

fig.2 Auschwitz-BirkenauState Museum (scarpe)

fig.3 Auschwitz-Birkenau State Mu-seum (protesi)

162 Dopo il museo

fig.4 United States HolocaustMemorial Museum di Washing-ton: la Tower of Faces

fig.5 Esposizione permanentenella “Sauna” di Birkenau (1)

fig.6 Esposizione perma-nente nella “Sauna” diBirkenau (2)

Federico LuisettiRITRATTI NEL MUSEO: LE MUSEUM PHOTOGRAPHS DI THOMAS STRUTH

Attraverso un’interpretazione della tecnica ritrattistica uitlizzata dalle Museum Photo-graphs di Thomas Struth, il saggio esplora la trasformazione della relazione fra opered’arte, spazi espositivi e condizioni di fruizione. Le Museum Photographs esibiscono laspecifica condizione museale postmoderna. La sovrapposizione di una sfera mondana este-tizzata e di opere d’arte funzionali alle esigenze della società dello spettacolo produce il feno-meno della “museificazione spontanea”: il museo trionfa nel suo presentarsi come un intral-cio fra le capacità di comprensione del turista culturale e la residua oggettualità delle opere.

1. Sant’Ivo

Riprendendo un motivo filosofico condiviso con varietà di accenti da autori comeMalraux, Adorno e Blanchot, in un paragrafo di Verità e metodo Gadamer indica nelmuseo la «sede esterna» della moderna coscienza estetica. Poiché espone in un’uni-tà di luogo una produzione artistica decontestualizzata e destoricizzata, il museoprovvede alla «concreta esistenza esterna» della «differenziazione estetica». Dive-nuto «sede della simultaneità», il moderno museo d’arte, «raccolta delle raccolte»,rompe i legami con la committenza e le collezioni delle antiche corti e si presentacome paradigma dell’autonomia della dimensione estetica. Nel museo, incarnazio-ne del rapporto astratto fra contenuti di verità e fenomeni estetici, il visibile si offreistantaneamente allo sguardo del visitatore, «l’opera perde il suo posto e il mondoal quale appartiene»1. Il riordinamento storico delle opere nel museo sostiene cosìl’ideologia romantica della libertà creativa dell’artista. All’apologia della purezza e

1 H.-G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. di G. Vattimo, Milano, Bompiani, 1983, p. 116.

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 163-186

164 Dopo il museo

specificità dell’esperienza estetica, Gadamer contrappone lo smascheramentodell’astrazione dell’«opera d’arte in sé»: l’ontologia ermeneutica sacrifica la mito-logia dell’opera e il culto dell’artista; l’occasione, l’esecuzione, il ruolo del fruitoreentrano a far parte dell’essenza dell’arte.

Su questa linea, Vattimo rifiuta l’alternativa fra l’inautenticità della società deiconsumi e il valore profetico della «grande arte»: l’ermeneutica deve confrontarsicon un’esteticità dissolta nella sfera economica e dell’informazione e riconoscere ilperdurare del nesso di arte e religione, la dinamica incompiuta di ogni secolariz-zazione, la sopravvivenza di una mitologia estetica anche nella processione postmo-derna dei simulacri. Vattimo ci invita così a rif lettere sull’«esperienza di Sant’Ivo»,ovvero sulla peculiare sovrapposizione, in una chiesa come il Sant’Ivo alla Sapien-za, della fruizione estetica dell’architettura del Borromini da parte degli abituali«turisti culturali» e dell’esperienza religiosa da parte dei fedeli raccolti in preghie-ra. A questo esempio Vattimo contrappone l'esperienza di un fedele in ginocchiodavanti a una pala d’altare esposta in museo, fra lo stupore dei visitatori. Nel ten-tativo di mantenere distinte la dimensione estetica e quella religiosa, a differenzadei musei d’arte che proibiscono la fruizione religiosa delle opere, le chiese pratica-no una difensiva «divisione dei tempi» per i fedeli e i turisti, che induce a rif letteresull’attuale «superiorità» dell’atteggiamento estetico2.

In termini benjaminiani, il turista del Sant’Ivo è irretito dal valore espositivodello spazio cultuale. Con il percepire esteticamente anche l’architettura dellachiesa, il turista si abbandona a un'esperienza che non necessita dell’apparato ide-ologico della museologia tradizionale, diviene egli stesso un centro di museizzazio-ne: come osserva incidentalmente Vattimo, il visitatore scambia per «figure damuseo» i fedeli raccolti in preghiera: «anche i fedeli che pregano in Sant’Ivo allaSapienza si vedono assegnato il loro posto come momenti o figure “da museo”, darispettare accanto alle opere d'arte che continuano ad “utilizzare” per un fine “nonproprio”, non puramente estetico e dunque estraneo alla dimensione a cui, invece,esse specificamente appartengono …»3.

Il carattere estetico dello spazio postmoderno, di cui sono agenti inconsapevolii visitatori delle chiese e dei musei, non coincide perciò con la coscienza estetica

2 G. Vattimo, Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Roma-Bari, Laterza,1994, p. 75.3 Ibid.

Ritratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 165

gadameriana. Tramontata è la legittimità di un’esteticità delle opere d’arte, di unasfera artistica autonoma e protetta, che trova nel museo un argine alla mercifica-zione. Di contro, la musealità postmoderna rivela modalità di fruizione in baliadell’autonomizzazione del valore espositivo, il cui risvolto oggettivo è sancito dallaspettacolarizzazione dell’architettura dei musei. E tuttavia, come interpretare laproliferazione di musei identitari, contenutistici e site specific, il cui tratto postmo-derno è rappresentato dal ripiegamento sui nuovi «soggetti estetici collettivi», dalripudio di ogni mediazione formale e disciplinare, dall’esplosione di rivendicazionisociali e di fondazioni territoriali?4 Come spiegare la convivenza di neo-etnicizza-zione e derealizzazione visiva, il contemporaneo dominio dell’identità e dell’imma-gine, la moltiplicazione di spazi espositivi simulacrali (gli imponenti musei d’artecontemporanea sui qualiconverge il turismo culturale internazionale) e di cellulemuseali localizzate e cariche di funzioni sociali, strumenti dello sviluppo parteci-pato, «zone di contatto» (J. Clifford) dei nuovi soggetti collettivi (ecomusei, museiaperti, musei post-coloniali)? Che ne è del carattere estetico dell’arte quando lamusealità diviene l’avamposto dei processi d’identificazione e del turismo di mas-sa, dell’esplorazione rif lessiva dei presupposti ideologici del mercato dell’arte e delconsumo visivo? 5

4 Cfr. G. Vattimo, Il museo postmoderno, «Rivista di Estetica», n. 37, 1991, pp. 3-11, saggio ripubbli-cato nel presente volume.5 L’intersezione di etnografia e estetizzazione segna l’emergere di una nuova figura di artista-critico.Sempre più l’«artista-etnografo» (Hal Foster) produce “opere-museo”, non “opere-mondo” avulsedai processi sociali di comunicazione. Nonostante il valore di mercato dell’arte “critica” continui adaumentare e dilaghi l’aura dell'autenticità e della creatività individuale, quest’arte si attribuisce ilcompito di decostruire la propria artisticità, interrogando l'ideologia estetica dei contesti espositivi.Sulla scia di Marcel Duchamp, Marcel Broodthaers e Joseph Beuys, artisti come Hans Haacke,Daniel Buren, Lothar Baumgarten e Louise Lawler scorgono nel trionfo della museificazione unachance emancipativa, la possibilità di rivolgere il museo contro se stesso: «Questi sviluppi [la genea-logia minimalista dell'arte contemporanea e l'imporsi dei cultural studies, N.d.A.] costituiscono unaserie di spostamenti nella localizzazione dell'arte: dalla superficie del medium allo spazio delmuseo, dagli ambiti istituzionali alle relazioni discorsive …», H. Foster, The Artist as Ethnographer,in Id. The Return of the Real. The Avant-Garde at the End of the Century, Cambridge, MA , MIT Press1999, p. 184.

166 Dopo il museo

2. San Zaccaria

A partire dal 1989, il fotografo tedesco Thomas Struth ha ritratto in fotografie digrandi dimensioni – le Museum Photographs6 – gruppi di turisti in visita presso chie-se e musei europei e americani (fig. 1):

La fotografia scattata nella chiesa di San Zaccaria nel 1995 esemplifica la ricerca diStruth. In un’unica composizione Struth incorpora una tipologia virtuale di modi divedere. Molti visitatori, seduti sui banchi della chiesa da soli o a gruppi, sembranoguardare in direzione di un altare. Un giovane uomo in primo piano contempla davantia sé con particolare concentrazione. Altri visitatori si guardano intorno o scrutanoall’insù verso la volta. C’è una coppia che osserva la grande Madonna col bambino diBellini.

L’autore di questa descrizione prosegue con una osservazione di risonanzaermeneutica:

Probabilmente, come molte delle persone sedute, sono dei turisti, ma non è possibileessere sicuri. Alcuni dei visitatori della chiesa potrebbero allo stesso modo essere venutiper pregare. Si prova la sensazione che le persone nella fotografia siano dei credenti,sebbene non sia dato di sapere in cosa essi credano: forse nel valore della cultura, o nelpotere dell’immagine, o soltanto nella possibilità di credere in un’epoca secolarizzata7.

La fotografia di San Zaccaria sancisce la sovrapposizione di fruizione religiosaed estetica, nonché la superiorità della dimensione estetica rilevata dall’«esperienzadi Sant’Ivo». Una superiorità che, attraverso il mezzo della fotografia, stravolge ladistinzione fra gli elementi dell’immagine: in qualità di spettatori delle fotografiedi Struth, contempliamo i fedeli, i turisti e i protagonisti del capolavoro del Bellinicome se appartenessero ad un unico complesso estetico, ad un peculiare genere dirappresentazione visiva. Come testimonia la corrispondenza fra la composizione deidipinti e l’involontaria disposizione dei turisti nel museo, il contenuto delleMuseum Photographs di Struth risiede nell’unità dell’esperienza museale postmoder-na. Neutralizzando la specificità dei mezzi espressivi della pittura e dell’architet-tura, il medium fotografico coglie il nuovo soggetto estetico collettivo, il comples-so museo-spettatori. Le Museum Photographs esibiscono la specifica condizionepostmoderna dell’esperienza museale, che potremmo definire “museificazione

6 Cfr. Thomas Struth: Museum Photographs, 2nd expanded ed., München, Schirmer/Mosel, 2005.7 J. Lingwood, Composure [or On Being Still], in T. Struth, Still, New York, The Monacelli Press, 2001,p. 120., tr. it. mia.

Ritratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 167

spontanea”: così come noi spettatori delle fotografie valutiamo esteticamente, afianco dei dipinti, l’architettura e i frequentatori dei musei, lo sguardo del visita-tore del Sant’Ivo tramuta in figure da museo i fedeli raccolti in preghiera. Lamuseificazione spontanea segnala il travaso delle tematiche museologiche – e conesse il museo moderno, paradigma della coscienza estetica – in una più generalepossibilità di allestimento spaziale dell'esperienza estetica. Benché ridotta a imma-gine (le Museum Photographs), a involucro (gli enormi musei postmoderni) o a simu-lazione (i musei aperti e virtuali), l'attuale costellazione espositiva ripropone «laseria e interminabile questione del Museo»8.

In quanto zona di contatto fra i presupposti dell’arte e le richieste della società,il museo è soggetto a una continua ridefinizione. Se le collezioni principesche delRinascimento, i salon e i musei pubblici dell’Ottocento accolgono la dimensionemondana dell’arte mediando fra la pura apparenza estetica dell’arte e le sue condi-zioni di esposizione, con l’ingresso nella tarda modernità gli “operatori culturali”scorgono nell'attraente gigantismo architettonico dei musei postmoderni potenzia-lità inespresse di controllo sociale. Baudrillard definisce «effetto Beaubourg» laproduzione estetica della socialità, una caratteristica della società postindustriale:il museo postmoderno, potente catalizzatore delle ambizioni culturali del pubbli-co, ribalta la serialità della produzione nell’estetica della concentrazione museale.Il «buco nero» del museo «produce le masse», le trasforma nel contenuto stesso delmuseo:

Francamente, gli unici contenuti del Beaubourg sono le masse stesse, che l’edificiotratta come convertitori, scatole nere, o in termini di input/output, così come una raf-fineria tratta i prodotti petroliferi o un flusso di materiale grezzo … Ben al di là delleistituzioni tradizionali del capitale, l’ipermercato, o il Beaubourg “ipermercato dellacultura”, rappresenta già il modello di tutte le forme di “socializzazione” controllata9.

L’«effetto Beaubourg» fa suo il presupposto soggettivo della museificazionespontanea: se i fedeli di Sant’Ivo diventano delle «figure da museo», le sagomeimponenti dei musei postmoderni irretiscono i turisti culturali allettandoli comeicone dell’esteticità. Il risultato è l'emergere di un contenuto che mai prima d'oraaveva assorbito la missione di questa istituzione, il museo stesso: «il design e lamessa in scena al servizio del valore espositivo e di scambio sono posti in primo

8 J. Derrida, Artaud le Moma, «Rivista di Estetica», n.s. 3, 1996.9 J. Baudrillard, L’effetto Beaubourg, in Id. Simulacri e impostura, bestie, Beaubourg, apparenze e altrioggetti, Bologna, Cappelli, 1980.

168 Dopo il museo

piano come mai prima: oggi ciò che il museo espone sopra ogni altra cosa è il pro-prio valore spettacolare: questo è il principale punto di attrazione e l’oggetto prin-cipale della reverenza»10.

Col rappresentare unitariamente il complesso museo-turisti, le Museum Photo-graphs ritraggono (in senso letterale, torneremo in seguito sull'essenza ritrattisticadi queste fotografie) la confluenza fra l’estetizzazione della vita sociale e la socia-lizzazione delle qualità estetiche dell'arte. Accolte dalle principali istituzionimuseali, le fotografie di Struth celebrano la trasformazione del museo in un sog-getto per l’arte. Si tratta di un evento decisivo, favorito dall'autorif lessivitàdell’arte moderna. Prendiamo atto che la dialettica di soggettività e oggettivitàsegnalata da Gehlen – più l’arte è autonoma più dipende dalle istituzioni, più èsoggettiva più dipende da condizioni oggettive a lei inaccessibili – ha perso di rile-vanza. Le Museum Photographs mostrano un nuovo soggetto dell’esperienza estetica,il «soggetto estetico collettivo» teorizzato da Vattimo: esso tuttavia non coincide nécon il corpo sociale né con il linguaggio formale dell’arte, bensì con il convergeredi arte e società nella loro paralisi museale. Il complesso visitatori-arte-museo raf-figurato dalle Museum Photographs è il risultato di questo cortocircuito. All’insegnadella museificazione spontanea, l’estetizzazione dei rapporti sociali si ribaltanell’esteriorizzazione dell’arte. Fattosi ora accessibile, benché attraverso modalitàestranee a quelle della tradizione, il risvolto mondano dell’arte ridisegna le prioritàe i contenuti dei fenomeni estetici.

Questa musealità debordante, che ingloba le opere d’arte, gli spazi espositivi egli spettatori, sembra rispondere a due esigenze specifiche: da un lato sono i turistiin visita a Sant'Ivo e gli spettatori delle Museum Photographs a non poter fare a menodi percepire come "opera d'arte" il museo (o la chiesa); dall’altro, sono la chiesastessa (tramite l'artificio della divisione dei tempi) e il museo (con la sua auto-rap-presentazione in immagini esposte al suo interno) a presentarsi come oggetti digodimento estetico. È necessario perciò comprendere più a fondo l’intreccio dimuseificazione ed estetizzazione in gioco nella museificazione spontanea: mentrela «differenziazione estetica» stigmatizzata da Gadamer trovava ancora nel museouna corrispondenza esterna, e per questo separata dalle facoltà cognitive del frui-

10 H. Foster, Archives of Modern Art, «October», n. 99, 2002, p. 95, tr. it. Archivi dell’arte moderna,saggio pubblicato nel presente volume.

Ritratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 169

tore, la museificazione spontanea si dispiega a partire dalla costituzione deisoggetti.

3. Figure della museificazione spontanea

Secondo Fredric Jameson, la «logica culturale» del postmodernismo è orientatadall’egemonia di relazioni spaziali che neutralizzano l’efficacia del pensiero utopi-co e la politica estetica delle avanguardie storiche11. L’«iperspazio» postmoderno ècontraddistinto da una disgiunzione fra il corpo umano e l’ambiente costruito, acui si accompagna una dissociazione fra la percezione individuale e la spettacola-rizzazione degli edifici12. Sopraffatti dall’«alienazione tecnologica»13, i turistiesperiscono una modalità postmoderna del sublime kantiano, il «sublime isteri-co»: nel mentre vengono atterriti e confusi dalle immense architetture progettatedalla rete comunicativa decentrata del tardo capitalismo, i soggetti godono perl’«esilarante esperienza» della derealizzazione, per l’intensità della decostruzionedell’umanità degli spazi14. Le pratiche espositive dell’arte contemporanea sono unesempio privilegiato della riconfigurazione postmoderna delle coordinate spaziali:gli allestimenti di Nam June Paik e di Robert Gober annunciano la sublimitàdell’alienazione tecnologica, utilizzando come medium lo spazio della galleria e icorpi in movimento degli spettatori. È questa un’esteriorizzazione radicale, che silascia alle spalle anche la mortificazione rituale dell’esteticità praticata dalle avan-guardie storiche in funzione emancipativa.

Il «sublime isterico» jamesoniano ripropone la formulazione minimalista delruolo dello spettatore e della natura dell’opera d’arte. Per i teorici del minimali-smo, il soggetto e l’oggetto dell’esperienza estetica non si fronteggiano come altret-tante entità fisse e complete, ma sono prodotti differenzialmente nel corso del loroincontro, che avviene sotto il segno di una spazialità inclusiva, lo «spazio totale»di Robert Morris: «Come lo stesso Morris ha scritto nelle sue Note sulla scultura,l’ambizione del Minimalismo fu quella di abbandonare il dominio di ciò che eglichiamava “relazioni estetiche” per portare le relazioni al di fuori dell’opera per ren-

11 F. Jameson, Il Postmoderno: o la logica culturale del tardo capitalismo, tr. it. di S. Velotti, Milano, Gar-zanti, 1989.12 Ivi, pp. 43-4.13 Ivi, p. 45.14 Ivi, p. 34.

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derle funzionali allo spazio, alla luce, al campo visivo dell’osservatore»15. Il sog-getto dell’esperienza estetica diviene perciò un prodotto contingente, esposto alledeterminazioni ambientali, e pertanto in equilibrio precario fra le richieste del«mondo decaduto della cultura di massa» e l’utopia del superamento delle moda-lità visive di ricezione della pittura16.

Robert Morris contrappone la vocazione «intimista» dell’arte moderna a quel-la pubblica della nuova arte: il formato monumentale delle sculture minimalisteobbliga il fruitore a prendere atto della loro esistenza in uno «spazio letterale», anon privilegiare i dettagli dell’opera sulla sua collocazione in rapporto al corposovrastato dello spettatore17. All’attenzione visiva per la superficie, il colore e ilmateriale dell’opera intimista (pittura o scultura), per la quale è come se «lo spazionon esistesse», si sostituiscono le continue variazioni percettive di un oggetto espe-rito da uno spettatore in movimento nell’ambiente: «L’oggetto stesso non è dive-nuto meno importante. Soltanto è divenuto meno importante in se stesso»18. Ciò checonta ora è la sua collocazione nello «spazio totale». E poiché a sua volta lo «spaziototale» è generato dall’incontro fra l’oggetto e il soggetto dell’esperienza estetica,esso presuppone da parte dello spettatore una consapevolezza senza precedenti «diesistere nello stesso spazio dell’opera»19.

Le pagine di Vattimo sull’«esperienza di Sant’Ivo» e le Museum Photographs diStruth sanciscono il tramonto del museo come «sede esterna» della coscienza este-tica. Ciò che avvince nelle fotografie di Struth è l’eguale rilevanza compositiva cheassumono i capolavori dell’arte moderna e i turisti che «esistono nel loro stessospazio»: le circostanze di fruizione dell’arte si ribaltano nel contenuto artistico,l’esteriorizzazione del carattere di fait social delle opere è qui ritratto come una rela-zione esterna alle opere, la relazione fra gli spettatori e i dipinti. Poiché la spazialitàpostmoderna ha colonizzato la forma dell’esperienza espositiva, questi rapportiformano una totalità, e questa totalità viene afferrata rif lessivamente dalle MuseumPhotographs. La spazialità museale postmoderna non prescrive l’immersionenell’opera: come mostrano le fotografie di Struth, la forma postmoderna delle rela-

15 R. Krauss, The Cultural Logic of the Late Capitalist Museum, «October», 1990, n. 54, p. 12.16 Ivi, p. 10.17 R. Morris, Notes on Sculpture, in G. Battcock (a cura di), Minimal Art. A Critical Anthology, NewYork, Dutton, 1968, p. 231.18 Ivi, p. 234.19 Ivi, p. 232.

Ritratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 171

zioni insorge là dove lo spazio totale dell’esperienza museale presuppone la disso-ciazione fra l’arte e i suoi fruitori. Il complesso museo-spettatori, il nuovo «soggettoestetico collettivo» dell’esteticità postmoderna, è sì il contenuto rappresentativodelle Museum Photographs, ma a patto di interpretarlo come esperienza dell’incom-mensurabilità di arte (del passato) e fruizione (attuale). Per questa ragione leMuseum Photographs sono occupate dai dettagli extra-artistici degli spazi museali:i visitatori e le opere recedono di fronte alla vastità delle pareti, all’intralcio dei cor-doni che proteggono i dipinti, alla ridondanza delle cornici, agli apparati chesostengono i dipinti, ai motivi del pavimento e alla processione delle panche, allemancate suture delle tappezzerie.

Poiché lo spazio museale postmoderno è uno spazio «letterale», in cui gli atto-ri dell’esperienza estetica e gli oggetti artistici fanno esperienza della loro incom-mensurabilità, i dettagli architettonici hanno la meglio sulla relazione immediatafra i visitatori e le opere. Il museo contiene i turisti e i dipinti nella materialità delsuo frapporsi fra gli sguardi reali e gli sguardi dipinti, fra i corpi reali e quelli rap-presentati. Non appena ci soffermiamo sugli interni dei musei rappresentati nelleMuseum Photographs ci accorgiamo che lo spazio museale rappresenta la scena di unmancato dialogo fra i turisti e le opere, il luogo della dissociazione della tradizionestorico-artistica in una asintotica divergenza fra il mutismo dell’arte del passato ela chiassosità della ricezione turistica.

Le Museum Photographs permettono di cogliere l'essenziale estraneità dell’arte edei turisti al museo, una condizione preclusa ai visitatori del Louvre, della chiesadi San Zaccaria o della Galleria dell’Accademia. Mentre noi vediamo sia i turistiche il museo, i turisti non si accorgono del dominio del museo. Un tema ricorrentedelle fotografie di Struth è il silenzioso dispotismo dello spazio sull’arte e sui cor-pi. Anche le tele più imponenti, come quelle di David e di Veronese al Louvre, nonrisolvono l'incombere delle pareti, dei supporti e degli arredi. Quanto ai visitatori,essi si aggirano intimiditi in uno spazio inabitabile. La varietà dei loro comporta-menti, il loro raggrupparsi impaurito intorno alle guide, gli sguardi rivoltiall’esterno del campo visivo, le pause di distrazione, rimandano allo spaesamentoprovocato dall’architettura museale.

La museificazione spontanea intacca anche i santuari dell'esteticità modernista– il Louvre, la National Gallery, il Museum of Modern Art – nei quali Struthritrova il gigantismo, l’inassimilabilità e l'impenetrabile materialità della spazia-lità postmoderna. Muovendosi in ambienti che è incapace di afferrare, e che tutta-via condivide con le opere, il turista culturale produce la spazialità postmoderna,

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dà forma all’«allarmante disgiunzione» fra il corpo umano e l’architettura.Nell’epoca dell’estetizzazione postmoderna, l’ideologia museale colonizza anche lospazio urbano: emancipandosi dalla sudditanza alle opere, il museo trionfa nel suopresentarsi come intralcio fra le capacità di comprensione del turista culturale el’oggettualità dell’opera.

4. Spettatori del ritratto

La musealità postmoderna ripropone, in forma aggravata, una difficoltà segnalatada Walter Benjamin: con l'avvento di un pubblico di massa dedito alla fruizionesimultanea dell’arte attraverso il cinema e la fotografia, la ricezione della pitturasubisce «una grave limitazione» che l'istituzione museale non è in grado né dioccultare né di risolvere:

Il fatto è appunto questo, che la pittura non è in grado di proporre l'oggetto alla rice-zione collettiva simultanea … Nelle chiese e nei chiostri del Medioevo e nelle cortiprincipesche fin verso la fine del secolo XVIII, la ricezione collettiva di dipinti nonavveniva simultaneamente, bensì mediatamente, secondo una complessa gradualità esecondo una gerarchia. Se questa situazione si è trasformata, in tale mutamento siesprime il particolare conflitto in cui la pittura è stata coinvolta attraverso la riprodu-cibilità tecnica del quadro. Ma benché si cercasse di portarla di fronte alle masse,mediante le gallerie e i salon, non esisteva una via lungo la quale le masse potesseroorganizzare e controllare se stesse in vista di una simile ricezione20.

Benjamin colloca la fotografia là dove la difficile coabitazione del museo e dellapittura raggiunge una soglia critica sotto l'effetto del turismo culturale. Nel casodelle Museum Photographs, «il particolare conflitto in cui la pittura è stata coinvoltaattraverso la riproducibilità tecnica del quadro» costituisce il nucleo generativodella resa fotografia del complesso museale. Ma per quale ragione, Struth mette inscena dei visitatori che rif lettono mimeticamente l’arrangiamento spaziale, leposture e i colori dei dipinti?

Lasciamoci guidare dalle dichiarazioni del fotografo. Struth afferma di averideato la serie delle Museum Photographs in occasione delle sue visite al Louvre, doveaveva l’abitudine di recarsi per esaminare dei ritratti rinascimentali: «Ho avuto leprime idee al Louvre nel periodo di Natale; era molto affollato e ho pensato che il

20 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini, Torino,Einaudi, 1991, p. 39.

Ritratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 173

mondo dei visitatori del Louvre, persone dall'età e provenienza etnica più diversa,fosse incredibilmente simile ai temi dei dipinti»21. Da tempo impegnato nellaritrattistica fotografica, Struth osserva i dipinti «come fossero fotografie», allaricerca di soluzioni per i dilemmi compositivi del ritratto22. Grazie a questa circo-stanza – che non è estranea alla concezione dell'equivalenza «intellettuale» fra letecniche artistiche, sostenuta da Struth in polemica con gli appelli greenberghianialla «specificità del medium» – si affaccia il progetto di una nuova variante delritratto di gruppo. Nel museo, i visitatori e i personaggi delle tele corrispondono adue tipologie di soggetti del ritratto: da un lato ritratti di contemporanei in carneed ossa, dall'altro riproduzioni di ritratti dipinti. Una volta scattata la fotografia,il nuovo medium genera un campo di equivalenza, ridefinendo la qualitàdell'esperienza dei visitatori tramite una relazione differenziale con le proprietà deidipinti. Per Struth la fotografia è «per lo più un processo intellettuale di conoscen-za», un «medium comunicativo e analitico», in grado di riattivare il dialogo frarealtà separate, come accade nello «scrivere un libro»23.

E tuttavia, è possibile ritrarre le figure dipinte e i loro spettatori nell’unità diuna relazione significativa? Come può la fotografia rappresentare i turisti in unmuseo e al contempo proporre all'osservatore un modello credibile di fruizioneestetica? In un celebre studio del 1902 sulla ritrattistica olandese, Alois Riegl attri-buisce la peculiarità del ritratto di gruppo alla sua dipendenza da un doppio cri-terio di coerenza:

Dobbiamo solo paragonare i dipinti di Geertgen con qualsiasi esempio di un dipintoitaliano dello stesso periodo per mostrare l'enorme differenza di concezione fra i due:nel secondo caso le figure sono sempre subordinate all'interno dei loro sottogruppi, equesti, a loro volta, sono collegati all'azione principale. Nell'esempio del Nord, non c'èuna connessione diretta fra l'azione e i partecipanti, ma piuttosto il più alto grado dicoordinazione24.

Riegl definisce «coerenza interna» il primo tipo di relazione fra le figure dipin-te, un’unità formale del dipinto ottenuta tramite la «subordinazione» dei perso-

21 T. Struth, Interview between Benjamin Buchloh and Thomas Struth, in T. Struth, Thomas Struth, 1990,New York, Marian Goodman Gallery, 1990, p. 39, tr. it. mia.22 Ivi, p. 38.23 Ivi, p. 32.24 A. Riegl, The Group Portraiture of Holland, tr. ingl. di E.M. Kain e D. Brit, Los Angeles, GettyResearch Institute for the History of Art and the Humanities, 1999, p.78.

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naggi all'azione e in particolare al protagonista, nel mentre riserva l'espressione«coerenza esterna» alla «connessione fra lo spettatore e le figure dipinte nel qua-dro»25. Le due modalità sarebbero caratteristiche, rispettivamente, della pitturaitaliana e di quella nordica26. Riegl introduce inoltre una periodizzazione dellaritrattistica di gruppo, a partire dalle relazioni che intrattengono i due generi dicoerenza. In particolare, saremmo debitori nei confronti di Rembrandt della per-fetta compenetrazione di subordinazione e coordinazione, un risultato raggiuntocon il dipinto dei Sindaci dei drappieri (Amsterdam, Rijkmuseum), la cui «conce-zione pittorica rappresenta in un certo senso il punto finale di evoluzione inOlanda»27.

L'analogia fra la disposizione dei turisti nel museo e i personaggi dei quadri –sostenuta dalle posture, dai rapporti reciproci fra i visitatori, dalla scelta dei colorie, talvolta, dalla involontaria riproduzione da parte dei turisti della collocazionespaziale dei dipinti sulle pareti – conferisce alle Museum Photographs la necessariacoerenza estetica: un unico soggetto, un'unica azione contraddistinguono le figuredipinte e i loro spettatori. Struth attende con pazienza fino a quando la casualecoincidenza delle azioni trasforma il museo in un’immagine autosufficiente. La

25 Ivi, p. 253.26 Riegl associa la ricerca della coerenza interna del dipinto al ruolo svolto dall'azione e dallavolontà nella concezione pittorica italiana: «Durante tutto il quattrocento, gli artisti italianifurono interessati alla risoluzione del problema del rappresentare il corpo umano in maniera chetutte le sue parti si muovessero in risposta a un singolo atto della volontà, e di come al raffiguraredelle figure in una scena narrativa in cui sembrassero partecipare tutte a una singola azione», A.Riegl, The Group Portraiture of Holland, cit. p. 77, tr. it. mia. Di contro a questa subordinazione allavolontà del protagonista da parte dei personaggi dell'azione, la pittura del Nord mira al singolonel suo isolamento dal gruppo, al cui interno verrà coordinato a partire da una rinnovata complicitàcon lo spettatore. Degli uomini ritratti si sottolinea così la pura attenzione, la loro autonomia diindividui e la capacità di mettersi in relazione con lo spettatore del dipinto senza la mediazione diun principio narrativo interno. A queste due modalità di rappresentazione Riegl associa due tipo-logie spaziali: da un lato lo spazio «cubico» della prospettiva lineare, «proprietà dei corpi solidi»(ivi, p. 82), il cui contrassegno è la tridimensionalità, dall'altro lo «spazio libero fra le figure»,uno spazio al cui interno le figure «sembrano più libere e più varie», ibid. Emancipatisi dal nobileeroismo dei corpi ritratti dagli artisti italiani, gli uomini dipinti dagli artisti del Nord riscattanola goffaggine e arbitrarietà dei gesti, che sembrano «congelati a mezz'aria» (ivi, p. 80), tramite«un profondo stato di attenzione»: «i loro occhi sono rivolti all'interno, e rif lettono il mondoesterno come uno specchio», ivi, p. 78.27 Ivi, pp. 285-6.

Ritratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 175

percezione postmoderna del museo s'imprime sulla struttura dell'immagine foto-grafica e l'arbitraria composizione spaziale dell'azione si cristallizza in un'armoniasimulata.

Quanto detto sinora non rende conto di un tratto essenziale delle Museum Pho-tographs, l'appello allo spettatore a cui è affidata l'eloquenza visuale delle fotografiedi Struth. Prendiamo il caso della riproduzione della sala del Louvre che contienela Zattera della Medusa di Géricault (fig. 2). A risaltare è qui, in primo luogo,l'allineamento diagonale dei corpi dipinti, che duplica la disposizione degli spet-tatori nel museo. In questo modo si avvia con spontaneità una comparazione fra idue livelli, la cui somiglianza è confermata da dettagli compositivi quali il rossodella maglia di una turista, in asse con un mantello dipinto dello stesso colore, ola postura del braccio di un visitatore, che richiama quella scelta da Géricault:«mentre noi stessi guardiamo le fotografie, così come gli altri guardano i dipinti,un'analogia sorge fra i due media che qui, in linea di principio, condividonoun'unica collocazione: il museo»28. Un’analogia che scuote le abitudini percettivedello spettatore delle Museum Photographs, esponendolo alla sensazione di osservaree di venire osservato, a causa dell'identificazione con i turisti. Malgrado il predo-minio di questa «follia implosiva» fondata sull'artificio della duplicazione esteticadella musealità, non assistiamo a «un reale che s'involve in se stesso fino all'este-nuazione»29, bensì a una rinnovata visibilità dei dipinti, a conferma dell'intuizionebenjaminiana secondo cui è più facile cogliere un quadro «mediante la fotografiache non nella realtà». Per una ragione che dobbiamo ancora chiarire, la visione enabyme riattiva la «connessione fra lo spettatore e le figure dipinte nel quadro»(Riegl), esaltando la coerenza esterna richiesta dal ritratto di gruppo:

Ciò che volevo ottenere con questa serie … è una presa di posizione sul processo origi-nale di rappresentare delle persone, che conduce al mio atto di creare una nuova imma-gine, il che è in un certo modo un meccanismo molto simile: lo spettatore delle opereviste nella fotografia è un elemento che si trova collocato in uno spazio al quale anch'ioappartengo quando sto di fronte alla fotografia. Le fotografie illuminano la connessio-ne e dovrebbero distogliere gli spettatori dal considerare le opere come dei meri feticci,e iniziare la loro comprensione o intervento nelle relazioni storiche30.

28 H. Belting, Photography and Painting: Thomas Struth’s Museum Photographs, in Thomas Struth, Por-traits, Munich, Schirmer/Mosel, 1998, p. 13., tr. it. mia29 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. G. Mancuso, Milano, Feltrinelli, 1992, pp.86-87.

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Soffermiamoci su questa complessa dichiarazione di Struth. Le Museum Photo-graphs si rivolgono direttamente allo spettatore (esterno), lo chiamano in causaricordandogli di appartenere al medesimo spazio dello «spettatore delle opere vistenella fotografia». La «connessione» fra i due spazi inf luenza la percezione del qua-dro fotografato: una volta assorbito dalla fotografia e posto a fianco dei visitatoririprodotti, lo spettatore (esterno) si confonde con gli spettatori (interni). Essere-nel-museo di fronte alle fotografie di Struth significa essere-nel-museo come sog-getto delle Museum Photographs, un cortocircuito che ricodifica, senza sospenderla,l’esperienza della museificazione spontanea e il rapporto feticistico con gli oggettidel museo. Il soggetto dell'esperienza estetica, duplicato tematicamente in unospettatore esterno e in uno interno, sperimenta l'ambiguità del proprio ruolo e ini-zia la «comprensione o intervento nelle relazioni storiche».

Resta da comprendere la prima affermazione di Struth: per quale ragione laconnessione tra i due spazi e i due tipi di spettatori, in cui consiste «il processo ori-ginale di rappresentare delle persone», dovrebbe condurre all’«atto di creare unanuova immagine»? Mentre nel primo caso si tratta di una relazione interna allaricezione della fotografia, nel secondo è in gioco un rapporto che nasce dalla pro-duzione dell'immagine, dalle tecniche di ripresa fotografica.

La procedura ritrattistica seguita con scrupolosa metodicità da Struth si attieneal principio di sottoporre la produzione di una nuova immagine a un’esperienzacondivisa dal fotografo e dall’individuo fotografato. Preoccupato di non sottrarreil monopolio della rappresentazione al proprio modello, il fotografo elabora uncomplesso rituale: l'immagine non deve scaturire dal contatto mistico con il sog-getto, ma sedimentarsi in una concrezione visibile di azioni e rif lessioni condivise.Di questo rituale fanno parte i lunghi colloqui con i modelli, la scelta di rappre-sentarli nei loro ambienti domestici e la successiva cooperazione nella selezionedegli scatti migliori31. A differenza del pittore, che ricrea la realtà a partire dallapropria soggettività, Struth si pone a fianco dell'apparecchiatura fotografica, affi-dando al soggetto ritratto il compito di specchiarsi nella macchina. Anche se il

30 T. Struth, Interview between Benjamin Buchloh and Thomas Struth, cit., p. 39.31 Se dal ritratto si sottrae il processo tecnico di riproduzione, privilegiando un «aumento d'essere»riferito al modo di apparire «dell'originale», il modello di cui si suppone l'aumento d'essere vieneparadossalmente escluso dal rapporto con l'immagine di se stesso: «I giudici adeguati di un ritrattonon sono mai le persone vicine al raffigurato o addirittura il raffigurato stesso», H.G. Gadamer,Verità e metodo, tr. it. cit., p.184.

Ritratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 177

modello non vede se stesso, egli è consapevole che l'immagine coglierà il suo atteg-giamento al cospetto dell'obiettivo32. Ogni ritratto di Struth equivale perciò a unautoritratto33.

Inoltre, i lunghi tempi di esposizione prediletti da Struth impongono ai sog-getti una «immobilità volontaria», che li espone allo scorrere del tempo e alladiscontinuità introdotta dallo scatto. Lo spettatore, il fotografo e l’individuo ritrat-to assistono con parità di diritto a questo avvenimento, che preclude il voyeurismodell’istantanea e la sottrazione dell'immagine allo scorrere del tempo. Grazie aquesti stratagemmi, la tecnica ritrattistica dissolve l'illusione che la fotografia siafondata sulla composizione, un atto di pertinenza del medium fotografico, riven-dicando invece la correlazione del fotografo e del fotografato. Tramite un «mecca-nismo molto simile», lo spettatore esterno e quello interno sono costretti ad inte-ragire, dopo che la trama delle Museum Photographs li ha assegnati alla spazialitàinglobante del museo.

Le Museum Photographs prolungano dunque l'estetica del ritratto elaborata daStruth, con una significativa distinzione: mentre nei ritratti domestici i soggetti sispecchiano nell'obiettivo, che li sottopone al «test» della ripresa fotografica e allavalutazione dello spettatore, i visitatori delle Museum Photographs si rif lettono nelletele dei musei. L'assorbimento inconsapevole dei turisti nelle sagome dei dipintisostiene la coerenza interna della fotografia mentre la distrazione, lo scostamentodalla fruizione contemplativa, gli sguardi dei turisti verso l'esterno dell'immagi-ne, in direzione della presenza non vista di altri quadri e, più in generale, di una

32 T. Struth, Interview between Benjamin Buchloh and Thomas Struth, cit. p. 30.33 «Il senso di disagio dell'interprete di fronte all'apparecchiatura, così come viene descritto daPirandello, è in sé della stessa specie del senso di disagio dell'uomo di fronte alla sua immaginenello specchio. Ora, l'immagine speculare può essere staccata da lui, è diventata trasportabile. Doveviene trasportata? Davanti al pubblico», W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibi-lità tecnica, tr. it. cit., p. 34. All'incompletezza dello specchiarsi del soggetto nell'ideale della propriaimmagine, come avviene nella caratteristica del ritratto fotografico, dobbiamo la ricchezza delgenere. È l'irrisolta tensione fra la riflessione del modello nell'obiettivo e l'invisibilità immediata delrisultato di questo atto a garantire l'autonomia formale del ritratto. Benché la persona ritratta siarivolta all'obiettivo, e quindi interpelli direttamente lo spettatore, la coerenza esterna non prende ilsopravvento sulla significatività dell'immagine. Poiché nell'atto di ritrarsi il modello interroga lapropria immagine nello specchio “trasparente” dell'apparecchiatura fotografica, senza tuttavia chegli sia concesso di vederlo, lo spettatore ha la corretta impressione che il soggetto ritratto non sirivolga allo spettatore bensì a se stesso, alla propria identità non rappresentata.

178 Dopo il museo

porzione di spazio museale non riprodotto e abitato anche dallo spettatore delleMuseum Photographs attiva – «inizia» secondo Struth – il meccanismo di «connes-sione fra lo spettatore e le figure dipinte nel quadro». Riabilitando le tecniche spe-rimentate dal ritratto di gruppo pittorico nel corso della sua storia, Struth si rivolgeallo spettatore esterno. Allo stesso modo dei personaggi dei ritratti di gruppoolandesi intenti a fissare lo spettatore, col rischio di porre a repentaglio l'autosuf-ficienza dell'immagine, il bambino del Louvre fotografato da Struth insieme a unacomitiva scolastica raccolta sotto l'imponente tela del Veronese distoglie l'attenzio-ne dal gesticolare della guida e, voltandosi verso la macchina fotografica, stabilisceun contatto diretto con lo spettatore (fig. 3).

Più di frequente, i turisti delle Museum Photographs avvertono confusamente lospazio circostante, lo occupano con un disordine non armonizzabile, che isola leune dalle altre le varie figure: «I loro sguardi sono sparsi in tutte le direzioni esono differenziati con tale arte che è impossibile determinare con esattezza a cosasiano intente le figure»34(fig. 4). Altre volte ancora, i visitatori sono attirati da una«presenza non vista»35, da un personaggio non rappresentato che completa il con-tenuto narrativo della scena e giustifica il divergere degli sguardi ritratti dal con-tenuto visibile della fotografia. Ad esempio, come segnala Belting, nella fotografiache ritrae una folla in visita alla Galleria dell'Accademia di Venezia di fronte allaCena in casa di Levi del Veronese, i passanti in primo piano contemplano un Mar-tirio di San Marco del Tintoretto lasciato fuori campo dall'inquadratura diStruth36.

Malgrado questo ricorso alle tecniche narrative della pittura, la coerenza ester-na delle Museum Photographs non si adagia sul repertorio degli artifici stilistici: essaè la conseguenza dell'impossibilità di risolvere la coerenza interna nei confini delleleggi di composizione. Ciò che distingue la ritrattistica pittorica da quella fotogra-fica è l'incapacità da parte della fotografia di contenere entro una totalità intenzio-nale la risonanza di uno scatto. Accade così che lo spettatore venga investito di unaresponsabilità pressante e che alle sue virtù interpretative sia affidata la decifrazio-ne della fotografia: «A differenza del ritratto dipinto, che ha già operato la propriaselezione del campo visuale, eliminando le caratteristiche e i dettagli che non si

34 A. Riegl, The Group Portraiture of Holland, cit. p. 79.35 Ivi, p. 285.36 H. Belting, Photography and Painting, cit. p. 21.

Ritratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 179

accordano con le finalità dell'autore, la fotografia d'archivio esiste come un'entitàpredeterminata, preorganizzata, dalla quale l'interprete deve selezionare post factole caratteristiche considerate rilevanti o significative»37.

L'effetto ricercato da Struth, il divenire lo «spettatore delle opere viste nellafotografia» un elemento «collocato in uno spazio al quale anch'io appartengoquando sto di fronte alla fotografia», poggia sopra un’articolata connessione fra glispettatori interni ed esterni, che eccede la mera identificazione tematica descritta inprecedenza. Le varie forme della coerenza esterna, alle quali dobbiamo la correla-zione fra i contenuti delle fotografie e il museo, presuppogono, come avviene nellaritrattistica di Struth, l'inscrizione dell’«atto di creare una nuova immagine»nell’esperienza museale. Nella serie di fotografie di interni museali successiva alprogetto delle Museum Photographs (Audience, 2004), Struth rende visibile ai sogget-ti riprodotti la presenza ingombrante del fotografo e delle sue apparecchiature,rendendo tematico il presupposto formale delle Museum Photographs. L’equilibrio frale due modalità della coerenza, da cui deriva la complessità estetica delle MuseumPhotographs, travalica le leggi stilistiche individuate dalla critica formalista e s’inne-sta sui presupposti tecnici della creazione di un ritratto fotografico.

La centralità della coerenza esterna, il tratto distintivo delle Museum Photographs,non innesca un meccanismo narrativo, ma traduce in contenuto estetico l'esperienzamuseale. La distrazione dei visitatori del museo esclude un contenuto simbolico esegnala il dato storico della «distanza incolmabile che separa la pittura dallo spet-tatore, il passato dal presente: una distanza che cresce quando si mettono in rela-zione le persone nei dipinti con quelle in piedi di fronte ad essi. Più si cerca di para-gonarle, meno ci si riesce – non importa quanto siano in armonia con i dipinti»38.

Poiché la fotografia – almeno nella sua declinazione pre-digitale – è un«medium dell'immediatezza»39, il suo realismo diverge dalla lontananza auraticadella pittura. E quando nei ritratti fotografici è custodita la mediazione tecnologicadell'obiettivo, la fruizione conserva e prolunga l'eteronomia dell’immagine, il suolegame con l’occasionalità della situazione di ripresa. Chiamati da Struth ad assu-mere il punto di vista del fotografo nel museo – lo stesso occupato dallo spettatoredelle Museum Photographs – veniamo precipitati nel sito dell'inautenticità

37 N. Bryson, Thomas Struth's Nescient Portraiture, in Thomas Struth, Portraits, cit., tr. it. mia.38 H. Belting, Photography and Painting, cit., p.11.39 Ivi, p. 11.

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dell'immagine. La doppia eteronomia delle Museum Photographs – lo scatto del foto-grafo partecipa all’esperienza inautentica della museificazione, la ricezione da par-te del pubblico è sfidata a riconoscere la reificazione museale – interrompe l’auto-nomizzazione della visione. Come testimonia la complessa procedura ritrattistica diStruth, benché la fotografia sia in grado di cogliere un aspetto irripetibile dei per-sonaggi – la loro reazione di fronte all'ideale della propria immagine – essa è ilprodotto di una sequenza di pratiche artistiche e tecnologiche standardizzabili. Diqui la rigida serialità dei ritratti domestici di Struth e delle Museum Photographs:entrambi i generi rispondono alla logica dell'archivio:

Nell'immagine d'archivio, il “taglio” o “inquadratura” fatta dall'interprete è circon-data e imbrigliata da una pletora di informazione isolata e casuale che cade al di là diun dato ambito di interesse. È questa immersione del tratto significante in un campodi generale non-significanza e “rumore” dell'informazione che costituisce esattamentelo status di veridicità della conoscenza d'archivio, la modernità del metodo e il suooltrepassare il ritratto dipinto a livello di affidabilità40.

La coerenza esterna delle Museum Photographs richiede allo spettatore di parte-cipare consapevolmente alla contingenza dell'opera, un presupposto condiviso dal-la sensibilità minimalista per una spazialità totale e dinamica, generatadall'incontro fra l’oggetto e il soggetto dell’esperienza estetica. E tuttavia, come ciricorda l'artificiosità della composizione delle Museum Photographs, il rapporto fral'opera e il fruitore non si rovescia su quest'ultimo, come accade perlopiù con glioggetti minimalisti, che antepongono l’attività dello spettatore alla complessitàdell’opera. Le Museum Photographs non prevedono uno spettatore fenomenologico,che con i suoi meccanismi cognitivi dia forma all'oggetto. Esse rifiutano l'iposta-tizzazione della soggettività, il mito di una verginità dell'esperienza estetica otte-nuta al prezzo della riduzione dello spettatore a esecutore naturale degli stimoliprogrammati dell’oggetto. La fotografia come tecnica critica nega la gestaltizzazio-ne della ricezione e impone al soggetto della museificazione d’interrogarsi: «Dovesono messi in mostra i meccanismi dello spettacolo del contemporaneo businessmuseale, le mie fotografie possono offrire una rif lessione su questa situazione»41.

In primo luogo, l'analogia fra gli spazi dipinti e quelli vissuti dagli spettatoriillustra tematicamente l’equivalenza strutturale fra musealità e fotografia, il loro

40 N. Bryson, Thomas Struth's Nescient Portraiture, cit.41 Ivi, p. 40.

Ritratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 181

paralizzante denominatote comune42, ovvero la presentificazione della visione e ilcongelamento delle specificità artistiche e delle differenze storiche. Inoltre, secogliamo la relazione fra la produzione e la fruizione delle Museum Photographs comeun dialogo fra i mezzi fotografici e le forme contemporanee della musealità, con-statiamo un ennesimo trionfo dell’immanenza: sia lo scatto registrato dalla pelli-cola sia l’esposizione promossa dal museo sono tecnologie del «verificare la presen-za»43 . Nel caso delle Museum Photographs, che assumono come contesto di ripresa edi fruizione la musealità postmoderna, la tecnologia fotografica della presenzaincontra la simultaneità espositiva. Sulla sovrapponibilità di queste strutture siregge l’estetica delle Museum Photographs. Così come il museo moderno traduce ladispersa storicità dell’arte in una rivelazione della simultaneità – il «museo imma-ginario» di Malraux – la fotografia in quanto «medium della presenza» esplora ladecadenza dell’autosufficienza dell’immagine. Ritornando agli interrogativi prece-denti – per quale ragione Struth fotografa dei visitatori che rif lettono mimetica-mente i contenuti artistici dei musei? come interpretare il parallellismo fra l'essere-nel-museo delle Museum Photographs e il «processo originale di rappresentare dellepersone»? – l’affinità fra tecnologia fotografica e musealità postmoderna suggeri-sce ulteriori chiavi di lettura.

La fotografia è in Struth un’«arte dell’immediatezza» senza valere come unaricomposizione di soggetto e oggetto nell’ontologia dell’accadere: la forma delleMuseum Photographs è costruttiva e seriale, come nell'archivistica scientifica di Gal-ton, Charcot e Bertillon e nel catalogo fisiognomico di August Sander44. Poiché la“giusta” disposizione mimetica dei visitatori nei musei non è una creazione sogget-tiva ma una registrazione occasionale di uno stato del mondo, l’apparecchio foto-grafico cristallizza sequenze storiche incomponibili: i dipinti, il pubblico delmuseo e il nostro sguardo attualizzante racchiudono dimensioni temporali etero-

42 R. Krauss, The Photographic Conditions of Surrealism, in The Originality of the Avant-Garde and OtherModernist Myths, Cambridge, Mass., MIT Press, 1985, p. 107.43 Come ricorda Pierre Bourdieu, il presupposto sociale dello sviluppo dell’arte fotografica è il suoradicamento nella vita domestica e di conseguenza nella ritrattistica familiare, un’origine abbando-nata a causa della seduzione modernista e “pittorica”, cfr. P. Bourdieu, La fotografia: usi e funzionisociali di un'arte media, tr. it di M. Buonanno, Rimini, Guaraldi, 1971. In questa prospettiva laricerca di Struth costituisce una vera e propria genealogia della ritrattistica fotografica. Da un lato iritratti domestici (cfr. la serie Portraits) affrontano, incorporandole nell’immagine, le attuali condi-zioni di produzione della fotografia; dall’altro le Museum Photographs tematizzano il contesto socialedi ricezione del ritratto, la museificazione a cui viene sottoposto con l’inserimento nel museo.

182 Dopo il museo

genee. L’accordo formale fra la composizione dei turisti e quella dei quadri s'inca-glia nell’alterità dei dipinti, nella loro fantasmatica apparizione durante una gita almuseo. Il fallimento della coerenza interna decostruisce gli ambienti espositivi raf-figurati dalle Museum Photographs, inaugurando un confronto enigmatico fra l'auto-ritratto e la pittura di Rembrandt (fig. 5).

5. Subordinazione al museo

Il dipinto di Rembrandt assunto da Riegl come paradigma della perfetta compe-netrazione, nella ritrattistica di gruppo, di subordinazione e coordinazione, coe-renza interna ed esterna, è anche il soggetto di una fotografia di Struth scattata alRijksmuseum di Amsterdam (fig. 6). L’atteggiamento della donna seduta di fronteal capolavoro di Rembrant, intenta a fissare una porzione non rappresentata di spa-zio, ricalca quello dei sindaci. Come i personaggi di Rembrandt, la donna è vestitadi nero e mostra il volto e le mani, lo sguardo assorto, sospeso fra introspezione eattenzione per una presenza esterna al campo della fotografia. In questo caso ilruolo strutturale della coerenza esterna è dichiarato apertamente da Struth e conesso l’inadeguatezza delle soluzioni ricevute, oltre che il fallimento dell'esibizionemuseale della pittura. La composizione dei Sindaci dei drappieri non si risolve, comevoleva Riegl, in una fruizione empatica da parte dello spettatore. La donna volgele spalle al dipinto, disdegna il richiamo degli sguardi pittorici e nel far ciò ripetedi fronte all'obiettivo la subordinazione all'esterno dei protagonisti del dipinto.L’equilibrio fra coerenza esterna e interna ricercato dal ritratto di Rembrandt perdeil suo terzo polo, l’autosufficienza della visione del pubblico dell'arte.

L'attuale condizione di alienazione museale si rif lette nella posizione dellaturista del Rijksmuseum: rispondendo alla subordinazione dei personaggi deldipinto di Rembrandt con una duplicazione dell'eteronomia della rappresentazio-ne, la visitatrice distratta ci consegna intatto il dilemma della coerenza esterna, lamancata autosufficienza della fotografia e il mutismo del quadro da essa riprodot-to. Oltre che illustrazioni della museificazione spontanea, le Museum Photographs

44 L’estraniante convenzionalità delle fotografie di Struth si fonda sull’accettazione critica di questopresupposto. Struth, al quale non «interessa condurre una battaglia con il medium», procede in unadirezione opposta alla tradizione fotografica del fotomontaggio dadaista, della manipolazione surre-alista dell’immagine e in generale della decostruzione del medium fotografico, ritenuto un mediumdella presenza e come tale combattuto per le sue potenzialità mimetiche.

Ritratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 183

sono perciò dei ritratti: ritratti nell'epoca dell'esposizione museale della fotografiaa fianco dei dipinti che essa stessa contiene, esemplari di una fase successiva a quel-la descrittaci da Walter Benjamin nell'Opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilitàtecnica, un'età la nostra in cui l'inattuale diatriba fra fotografia e pittura, fra auten-ticità e riproducibilità dell'immagine è ricomposta dalle tecnologie dell'esposizionee dalla reificazione della ricezione.

In termini filosofici, quanto detto sinora nel gergo formalista di Riegl a pro-posito dell'interazione di coerenza interna ed esterna, si traduce in un’aporeticarelazione fra arte autonoma e morte dell'arte. La radicalizzazione del principio dellacoerenza esterna, ciò che il critico Michel Fried ha definito la «teatralità» dell'operad'arte, conduce nelle avanguardie e neo-avanguardie novecentesche alla non-arte,alla mera presenza di oggetti che sconfiggono le distinzioni fra opera e contesto.Quando l’oggetto d’arte si rivolge programmaticamente al suo pubblico, «chiedeallo spettatore di venir preso in considerazione, di venir preso sul serio», esso fini-sce per ottenere una «presenza da palcoscenico»; l’esistenza prende allora il soprav-vento sulla significatività, che resta affidata al contesto comunicativo, al venir«percepito come parte di quella situazione»: «Tutto conta – non come partedell’oggetto, ma come parte della situazione in cui l’oggettualità viene stabilita eda cui quella oggettualità dipende almeno in parte»45. Al termine di questo pro-cesso – che nei casi migliori ispira l’arte critica delle correnti minimaliste e site spe-cific – incontriamo la museificazione della visualità, la sconfessione della pretesaavanzata dalle immagini artistiche di rivolgersi a un pubblico “esterno”, il sacrifi-cio della residua intransitività dell’opera in nome delle aspettative dell’osservatore,in una parola, il trionfo della spettacolarizzazione museale e il suo travaso nellasociologia della ricezione. Come suggeriscono le Museum Photographs, nel museo nonsi contrappongono ormai più opere d’arte e spettacolarizzazione, tramontata èl’alternativa fra «vivificazione» e «reificazione» dell’esperienza estetica46. Lamuseificazione spontanea sconfigge la cristallizzazione dei compiti dell’artista edell’interprete, confonde i diritti reciproci della creazione e della fruizione, impo-nendo di ripensare le prerogative dell’arte.

45 M. Fried, Art and Objecthood, in Id. Art and Objecthood. Essays and Reviews, Chicago, University ofChicago Press, 1998, p. 155, tr. it. mia.46 Cfr. H. Foster, Archives of Modern Art, cit.

184 Dopo il museo

fig.1 Thomas Struth, San Zaccaria,Venezia, 1995 (180 x 228,5 cm.)

fig.2 Thomas Struth, Museo delLouvre IV, Parigi, 1989 (184 x217 cm.)

fig.3 Thomas Struth, Museodel Louvre II, Parigi, 1989(218,5 x 180 cm.)

Ritratti nel museo: le Museum Photographs di Thomas Struth 185

fig.4 Thomas Struth,Museo del Louvre III,Parigi, 1989 (152 x168 cm.)

fig.5 Thomas Struth, Alte Pinakothek (Self-Portrait), Mona-co, 2000 (116 x 147 cm.)

fig.6 Thomas Struth, Rjks-museum I, Amsterdam, 1990(164 x 212 cm.)

Gianni VattimoIL “BENE SUPREMO”

Il sistema dei beni di cultura non è fatto solo dei beni già acquisiti e immagazzinati, maanche delle cornici sociali entro cui il museo si colloca. Il museo, per la sua funzione docu-mentaria e retrospettiva offre il modello dello stato come “bene (culturale) supremo” inquanto condizione di possibilità degli altri beni. La storicità e l’idea di spirito oggettivoservono a capire che la funzione dello stato rispetto alla cultura è anzitutto di garantirequella continuità degli oggetti culturali che fornisce all’invenzione di nuove opere lo sfondodi langue senza di cui essa non sarebbe possibile.

I grandi musei d’Europa sono oggi in gran parte istituzioni pubbliche, gestite dal-lo stato o dalle varie amministrazioni locali; ma lo sono diventati in epoca relati-vamente recente, traendo la loro origine, e le loro ricche raccolte, da collezioni cheappartenevano alle famiglie dei sovrani del passato, o a casate nobiliari e talvoltaanche a ricche famiglie borghesi. In questa trasformazione si possono vedere comeriassunti e simboleggiati i problemi, e le possibili vie di soluzione, che si trova difronte chi prenda in considerazione il ruolo dello stato nello sviluppo e nella pro-mozione della cultura. Come – non senza intenti critici, che collegano l’istituzionedel museo all’affermarsi della “coscienza estetica” nella modernità – ha osservatoHans Georg Gadamer1, le grandi raccolte principesche o private del passato erano

1 Mi riferisco qui a H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960), tr. it. di G. Vattimo, Milano, Bompiani,19832, spec. pp. 110 ss. La “coscienza estetica” è considerata da Gadamer in termini molto critici, comedel resto il museo, perché corrisponde a quella divisione, nata da una interpretazione riduttiva dell’este-tica kantiana, secondo cui tutto ciò che appartiene all’ambito del gusto non ha da fare con la verità e lastoria, e risulta perciò isolato in un dominio astratto affidato solo alla degustazione soggettiva.

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 187-198

188 Dopo il museo

per lo più dirette da scelte di gusto spesso fortemente caratterizzate – preferenzaper certi stili, autori, tipi di oggetti – i musei pubblici, quando non si limitino acustodire patrimoni ereditati ma vogliano anche continuare ad arricchire le colle-zioni, per definizione non corrispondono a orientamenti di questo genere. Che“soggetto” di scelte estetiche (ed etiche, o religiose, ecc.) può essere una ammini-strazione comunale, provinciale, un ministero della cultura? Mentre con una certafatica ancora oggi gli stati, anche i più democratici, si rassegnano a riconoscere epraticare il proprio statuto “laico” – per esempio quando continuano a pensare chealla base delle leggi vi debba essere un preciso orientamento verso determinativalori etici, del resto sempre più difficili da individuare senza urtare la sensibilitàe la coscienza di questo o quel gruppo di cittadini – è stato relativamente più facileammettere che, in fatto di gusti estetici, non si può (non si deve) fissare un criterio“pubblico” accettato. Dei gusti non si discute – ma non perché si sia naturalmentetutti d’accordo; anzi, proprio per la ragione opposta, che non si può immaginare diarrivare a un accordo “oggettivamente” fondato.

Sembrerebbe che con un simile principio la questione possa risolversi facilmen-te: là dove entra in gioco il gusto, la preferenza per stili artistici e canoni di bel-lezza, non si deve pretendere alcun criterio assoluto. Ma in realtà i problemi, così,non sono finiti, anzi cominciano appena. Anzitutto – e ritorna qui la nozione di“coscienza estetica” in tutta la sua problematicità – sarà possibile allo stato,nell’assegnare fondi, decidere acquisti, promuovere mostre e altre iniziative artisti-che, ispirarsi a un simile principio estremamente liberale? E, in secondo luogo:dove comincia effettivamente il terreno del gusto? I due problemi sono strettamen-te legati – giacché in fondo si potrebbe persino venire alla conclusione che sonoquestioni di gusto, e dunque non definibili oggettivamente, tutte quelle che nonrichiedono decisioni politiche dello stato, e viceversa. Un confine, come si vede, deltutto incerto: giacché dipende dalle circostanze, e anche dalla consistenza dellerisorse di volta in volta disponibili, decidere dove e quando lo stato interviene equando no.

Questo confine diventa sempre più incerto quanto più ci si allontana, nelledecisioni politiche, dalle pure e semplici regole del traffico, per dir così. In questoterreno è abbastanza ovvio a tutti quali possano essere i criteri e i valori da tenerecome base. Possiamo intendere come “regole del traffico” moltissime leggi e normeche hanno da fare con lo svolgimento ordinato e sicuro della vita collettiva, su cuinon si disputa perché a tutti appaiono evidenti i modi di soluzione e gli scopi daperseguire. Ma si pensi per esempio alle politiche concernenti la ricerca scientifica

Il “bene supremo” 189

e l’allocazione degli ingenti fondi che essa sempre più richiede. Come si sa, in molteuniversità pubbliche del mondo non ci sono insegnamenti ufficiali di psicoanalisi;o anche di medicina omeopatica; e si potrebbero enumerare altri casi simili. Tera-pie psicoanalitiche o omeopatiche sono spesso escluse dai rimborsi della sanitàpubblica. Quasi come, molto più ovviamente (ma perché?), lo stato non rimborsale fatture (nel senso commerciale!) di maghi, fattucchiere, indovini, a coloro chedecidano di ricorrere ai loro servigi. Meno umoristicamente si deve qui pensare atante cure proposte in tempi recenti contro malattie che la medicina “ufficiale”(ma già questo termine condensa numerosi problemi) non è in grado di curare consuccesso. Mentre il caso della psicoanalisi è molto più complicato, perché spessosono gli psicoanalisti stessi che ricusano ogni forma di riconoscimento (e assogget-tamento) pubblico della loro “arte”, non di rado i sostenitori e i praticanti dellamedicina omeopatica o di altri orientamenti terapeutici lamentano che i loro saperiappaiono incerti e poco fondati anche perché la politica della ricerca non presta loroabbastanza attenzione e fondi.

Senza alcuna pretesa, né speranza ragionevole, di proporre soluzioni definitive,sono questi i problemi intorno a cui intendo rif lettere per elaborare qualche ideasui rapporti dello stato con la cultura: come può lo stato – anche e soprattutto unostato democratico, dove in linea di principio si alternano maggioranze diverse, esoprattutto dove le minoranze hanno diritto di essere rispettate in tutti quei ter-reni che coinvolgono le scelte di coscienza (dunque: in tutti i terreni che non siriducono alle “regole del traffico”) – essere soggetto attivo di scelte che possonoessere chiaramente “solo” scelte di gusto ma che possono implicare anche, in molticasi, opzioni di tipo filosofico, etico, scientifico, persino religioso; e quali potreb-bero essere i criteri da raccomandare in scelte simili, in quella che chiamiamo la“politica culturale”.

Anche se i due problemi così formulati si possono distinguere a scopo di chia-rezza, si capisce che essi non possono essere discussi che insieme. E credo si debbacominciare con il riconoscere che il primo non si lascia risolvere con una linea diconfine netta tra terreni che “toccano” al pubblico, perché implicano solo opzioni“tecniche”, e altri che invece implicano questioni di coscienza e questioni di gusto.Qui si impongono due osservazioni. Il confine tra pubblico e “altro” – non diciamoprivato proprio perché è questa qualifica che è in discussione – è mobile e storico.In secondo luogo, una tale mobilità del confine si dà anche in relazione al fatto cheè sempre più difficile distinguere le questioni di gusto da quelle etiche, religiose,di Weltanschauung. Quanto al primo punto, basta pensare all’esempio che abbiamo

190 Dopo il museo

già ricordato della ricerca scientifica, di qualunque scienza, anche “umana”, si trat-ti. Come nel caso dei musei, anche qui l’iniziativa di privati, studiosi più o menoautofinanziati, o sovrani illuminati o maniaci di questo o quel campo della cono-scenza, è stata progressivamente sostituita dall’intervento degli investimenti pub-blici, che anche in ordinamenti politici non esplicitamente democratici e costituzio-nali devono rispondere a criteri di visibilità, condivisione, legittimità in sensovasto. In concreto, molti di noi hanno esperienza di istituzioni culturali che ope-rano nel terreno non sempre nettamente definito che sta tra il finanziamento pub-blico e la partecipazione dei privati. Iniziative validissime – penso a certe istituzio-ni italiane come l’Istituto Italiano di Studi Filosofici di Napoli – nascono spessoper la munificenza di qualche privato e in seguito, quando si legittimano per ilvalore della loro attività, vengono come assunte dallo stato, cercando tuttavia diconservare l’agilità che, nascendo come pure e semplici istituzioni pubbliche, nonavrebbero forse potuto avere.

Mi sembra che questo sia un buon esempio da studiare e concettualizzare, per-ché è quello che si è realizzato storicamente nella cultura occidentale. È ancora unavolta il modello dello sviluppo del museo pubblico a partire dalle raccolte privatee principesche. Il pubblico qui si comporta davvero come “stato”, nel senso in cuiil termine allude alla stabilità e alla continuità istituzionale; un senso che del restorisuona anche nella parola che sempre più spesso si usa per designare fenomeni diquesto tipo, il termine di “fondazione”. La cultura è l’attività con cui si produconoi “beni culturali”, dalla quale, possiamo dire, nascono i “classici” di una civiltà. Ecome non si è mai dato il caso di una regola per la produzione di un testo o diun’opera classica, così non si dà un criterio di giudizio stabilito una volta per tutteche decida che cosa può essere riconosciuto come classico e che cosa no. Vorreidifendere un poco questa concezione “museale” dello stato. Rispetto ai beni di cul-tura, lo stato ha anzitutto il compito di garantirne la sopravvivenza, riconoscendoliuna volta che siano prodotti; e così facendo, tuttavia, stimola e promuove attiva-mente anche la creazione di nuovi beni, rispetto ai quali la sua funzione resta peròquella di fornire una sorta di sfondo generale, di complessiva condizione di possi-bilità. Riprendendo liberamente, sulle tracce dello storicismo tedesco di fine Otto-cento, una terminologia kantiana, potremmo dire che tra i beni di cultura lo statoè bene supremo, perché garantisce – deve garantire – le condizioni della loro pos-sibile sopravvivenza e anche della loro possibile produzione ex novo; ma il benesommo non può essere altro che l’insieme di tutti i beni di cultura di fatto esisten-ti, un insieme che non è mai concluso. Possiamo qui evocare anche la distinzione

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tra langue e parole di Ferdinand de Saussure2. Dove allo stato risulterebbe assegnatala parte della langue, il vocabolario di base senza del quale non si danno possibilinuovi usi di parole. Naturalmente, se pensiamo lo stato sul modello del museo,anche il dominio della parole non gli è completamente estraneo, come del resto nonc’è netta separazione tra i due “campi” nella dottrina di Saussure: l’ambito dellalangue è continuamente soggetto alle modificazioni che gli provengono dalle nuoveparoles che storicamente vengono pronunciate nell’orizzonte di possibilità che essodelinea. Il sistema dei beni culturali che è preservato e coltivato dallo stato è incontinuo movimento a causa delle nuove acquisizioni, esattamente come accade nelmuseo che non sia solo un archivio di raccolte chiuse.

Un tale modello vale anche per l’altro aspetto della questione che ci siamoposti; quello, cioè, di determinare quali sono i campi, i tipi di attività, a cui si puòe deve applicare il modello. Che cosa rientra nei beni di cultura per i quali stiamoesplorando l’utilità del modello che abbiamo chiamato “museale”? Anche qui ilsistema di questi beni non è definibile una volta per tutte. È soltanto a causa delsempre più ampio estendersi dei ruoli dello stato nella modernità che certi tipi diattività rientrano nel territorio della politica culturale e non più, semplicemente, inquella che stabilisce le “regole del traffico”. Gli esempi che prima ho citato a pro-posito della ricerca medica si collocano sia sullo sfondo di uno stato che ha ricono-sciuto tra i suoi compiti quello di garantire a tutti il diritto alla salute, con l’assi-stenza sanitaria pubblica; sia anche, però, sullo sfondo di una caduta, sul terrenotradizionalmente riservato alla scienza, dei limiti rigidi tra giudizi di gusto e giu-dizi di verità. Decidere se la medicina omeopatica possa essere oggetto di sostegnofinanziario nel momento della ricerca, o debba essere riconosciuta tra quelle che,come terapia, ha diritto al rimborso statale, è un problema che si pone solo in unasocietà in cui c’è l’assistenza sanitaria pubblica; ma in cui, anche, non c’è più unasola medicina riconosciuta da tutti come valida. Non siamo troppo distanti daiproblemi del gusto su cui non si disputa. O meglio: se teniamo presenti questiesempi concernenti i diversi paradigmi scientifici che competono sulla scena acca-demica e sociale, e dall’altro lato le questioni più tradizionali della politica cultu-rale, dovremo ammettere che siamo di fronte a un avvicinamento tra due terreniche, in situazioni più “tradizionali” e in società meno esplicitamente pluraliste e

2 Il suo famoso Cours de linguistique générale fu pubblicato postumo nel 1916. Lo si veda in traduzioneitaliana a cura di T. De Mauro, Bari, Laterza, 1970.

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multiculturali delle nostre, non parevano così contigui. Ci sono ormai “stili” diver-si anche nella biologia, nella fisica, nei campi delle scienze “dure”. Lo stato non èil soggetto adatto a scegliere quale di questi stili sia il più valido. Come, più ovvia-mente, non è titolato per decidere in materia di religione, di etica, di metafisica.Anche e soprattutto per questo la politica culturale, quella cioè che non ha l’ovvie-tà della regole del traffico, ha visto ampliarsi sempre di più i propri confini. Siosserverà che gli stili della medicina comportano implicazioni e conseguenze sullavita fisica dei cittadini, e dunque che rispetto ad essi la responsabilità dello stato èdiversa e più marcata di quanto non accada se in gioco c’è solo il problema di deci-dere se fare o no una mostra di pittori dadaisti. Si può agevolmente accettare que-sta obiezione; tuttavia, anche la decisione di concedere una piazza per un grandeconcerto pop ha conseguenze sulla vita dei cittadini. E così la scelta di includerecerti autori nell’ambito delle letture richieste per ottenere un diploma di scuolamedia.

Il modello “museale” che stiamo elaborando non implica affatto un abbandonodi ogni criterio di selezione, non si ispira al motto “everything goes”, almeno nonalla sua interpretazione banalizzata che ha stravolto il senso originale attribuitoglida Feyerabend: in entrambi i casi, prima o insieme alla considerazione dei disturbifisici che può provocare un certo stile medico o sui disturbi alla quiete che possonoderivare da un concerto pop, il modello museo suggerisce dei criteri razionali fon-dati sulla continuità e sulla compatibilità con la langue. Che non si’identificasenz’altro con un precetto di conformismo, come se la misura della novità accetta-bile fosse solo da identificare con il suo non essere, in fondo, novità. Il sistema deibeni di cultura non è fatto solo dei beni già acquisiti e immagazzinati o archiviati,ma anche dalle cornici sociali entro cui il museo si colloca: intendo, per esempio,quel “collaudo” della validità di un’opera che consiste nell’essersi imposta a ungran numero di “cultori della materia”, nell’aver suscitato ampia ricezione e rif les-sione critica. Come si fa, insomma, a decidere che un certo quadro è degno di essereaccolto nel museo nazionale? Si guarda certo al suo rapporto con quello che nelmuseo c’è già – il messaggio deve essere formulato nella langue, se no non se necapisce nemmeno la novità. Ma se si tratta della Fontaine di Duchamp? Qui il “col-laudo” garantito dalla continuità con la langue è sostituito dalla ricchezza deldiscorso critico, che offre all’opera quella molteplicità di interpretazioni che, nelcaso di una opera divenuta già classica, è invece fornito nella serie diacronica delleletture. Insomma: se la Fontaine di Duchamp, sia pure eterogenea rispetto alle coseche già stanno nel museo, può presentare una vasta bibliografia in cui compaiono

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molti nomi di auctoritates riconosciute nel campo, ebbene questo sarà una buonaragione per ammettervela.

Dobbiamo scandalizzarci per il carattere di incertezza e contingenza che in talmodo sembra introdursi indebitamente su un così delicato terreno di valori cultu-rali? Ma la storia delle grandi opere classiche di cui non penseremmo mai di met-tere in dubbio il buon diritto di figurare nei musei, nelle biblioteche, nelle istitu-zioni, non è altro che questa contingenza divenuta necessità in quanto imprescin-dibilità storica. Si badi che, almeno nelle intenzioni, l’interesse di questo discorsonon risiede, forse nemmeno principalmente, nelle sue possibili applicazioni prati-che e di politica culturale – dove la contingenza che si è or ora ricordata ha una par-te di gran lunga preponderante, ma per l’appunto non scandalosa. L’interesse con-siste nel fatto che qui si è di fronte a un modo eminente di presentarsi del problemadella verità nel terreno della politica. Una volta che si sia accettata l’idea della laicitàdello stato, tanto più ineludibile quanto più abbiamo da fare con stati liberali edemocratici, per definizione pluralisti, ci si trova in una condizione in cui sembra-no venire a mancare le basi della legittimità dell’azione pubblica. Il principiodemocratico di maggioranza deve essere accompagnato dal principio liberale delrispetto per le minoranze. Lo stato dunque non può legittimare le proprie scelte –soprattutto nel campo di cui ci stiamo occupando – in base al mandato ricevutodalla maggioranza. Se facesse valere questo principio rispetto agli stili – artistici,etici, religiosi, anche scientifici – si condannerebbe a un eterno conformismo esoprattutto rinnegherebbe la stessa democrazia che non prevede l’eternità dellescelte della maggioranza. Tra le minoranze che esigono rispetto ci sono anche i varigruppi sociali, le professioni, i circoli accademici, i vari “sottosistemi” della cultu-ra che comprendo non solo i critici di professione ma anche gli utenti – del teatro,dei concerti, dei musei, ecc.

Fin qui, mi sembra che si sia delineato almeno l’inizio di una risposta alledomande poste all’inizio: quali sono i terreni della politica culturale e quali pos-sono essere i “criteri” da raccomandare nella pratica di essa. Il modello del museo,o dello stato come “bene (culturale) supremo” in quanto condizione di possibilitàdegli altri beni permette: a) di riconoscere lo storico modificarsi dei campi a cui lapolitica culturale si applica; e che oggi, per esempio, non permettono più di sepa-rare tanto nettamente il terreno del “gusto” dal terreno del sapere (scientifico, filo-sofico) o del credere religioso; e b) suggerisce nel criterio della continuità (della lan-gue ) una possibile regola per definire quale debba essere l’azione dello stato in que-sti campi.

194 Dopo il museo

Soprattutto quanto a questo secondo punto sembra importante rif lettere sulleimplicazioni, e la portata positiva, del modello-museo. Per esempio: con le sueimplicazioni “documentarie” e “retrospettive”, quelle stesse che talvolta respingo-no coloro che rifiutano una visione puramente conservativa e storica della politicaculturale, esso delimita in modo sufficientemente rigoroso l’azione pubblica inquesto campo, esonerando lo stato da opzioni di valore per le quali non è attrezza-to, mantenendolo nella funzione di condizione di possibilità per la creazione deibeni di cultura, ma escludendo che possa promuovere attivamente un qualcheindirizzo specifico, cioè che debba scegliere un qualche “stile”. Una tale prospettivacontiene certo, anch’essa, una valutazione, ma assolutamente minima e in fondonegativa: ritiene infatti che il modo migliore, per lo stato, di “promuovere” la cul-tura sia quello di mettere a disposizione di tutti esempi e strumenti. I beni di cul-tura nascono come risposta all’esperienza e all’incontro con altri beni, non sonorichiesti e suscitati da qualche bisogno elementare. Questi sono piuttosto quei benio valori che si producono nel campo delle regole del traffico: sono le tecniche o ledecisioni pratiche che soddisfano a esigenze “ovvie” della comunità – la cui “ovvie-tà” è certo storicamente condizionata e mutevole, e questo giustifica la mobilità delconfine che abbiamo prima indicato tra politica culturale e politica tout court.Anche nel caso dei beni di cultura, poi, è ovvio che limiti e confini non sono cosìnettamente fissati: è possibile che un edificio d’autore nasca sia per soddisfare esi-genze pratiche, sia come risposta allo stimolo proveniente dalla storia dell’architet-tura. Ma qui , come sempre, le applicazioni concrete del principio o modello sonocontingenti e affidate alla responsabilità di coloro che devono decidere di volta involta. Possiamo però richiamarci a una importante definizione filosofica propostaa metà del Novecento da uno degli ultimi grandi filosofi dell’estetica, l’italianoLuigi Pareyson, che definiva l’arte quella attività umana che «inventa insieme il dafarsi e il modo di fare»3, mentre la tecnica inventa solo i modi di fare, corrispon-dendo a esigenze già presenti e definite nella esistenza quotidiana. I beni di culturanon sono richiesti da nessuna esigenza preesistente; in questo senso sono “eventi”e “aperture” – termini, come si sa, divenuti centrali specialmente nell’estetica chesi richiama a Heidegger – insomma sono caratterizzati da quella radicale novitàche già il pensiero romantico, da Kant in poi, aveva riconosciuto come propriadell’arte. Ma proprio perché non dipendono assolutamente da bisogni immediati,

3 La sua opera classica sul tema è Estetica. Teoria della formatività, Milano, Bompiani, 1988.

Il “bene supremo” 195

essi, più che nella “natura” come voleva Kant, si collocano totalmente nella storia.Hegel avrebbe chiamato poi questo mondo storico dei beni di cultura il mondo del-lo “spirito oggettivo”; e proprio lo spirito oggettivo, nel sistema hegeliano, ha al suoculmine lo stato.

Ora, senza voler riproporre qui una visione letteralmente hegeliana dei beni dicultura, è vero però che il riconoscimento della loro radicale storicità (Hegel), novi-tà (Kant) e eventualità (Heidegger, Pareyson) sono un buon punto di partenza perla discussione dei nostri problemi. Così, la storicità e l’idea di spirito oggettivo ser-vono a capire che la funzione dello stato rispetto alla cultura è proprio e anzituttodi garantire quella continuità degli oggetti culturali che forniscono alla invenzionedi nuove opere lo sfondo di langue senza di cui essa non sarebbe possibile. Sipotrebbe anche dire, dunque, che la funzione dello stato in tutto ciò che concernela cultura si “riduce” a un lavoro di alfabetizzazione. Come si capisce, è una “ridu-zione” del tutto sui generis; perché riassume in sé sia il compito di fornire le condi-zioni di base, il vocabolario, per la creazione dei nuovi beni di cultura; sia gli sti-moli che promuovono la creatività, potremmo dire l’enciclopedia – nel senso in cuiessa si distingue dal vocabolario perché registra gli usi “classici” che sono stati fattidei vocaboli e delle regole grammaticali della langue e, così facendo, fa risuonarel’appello a cui possono seguire nuove risposte.

Il valore di un’enciclopedia consiste tutto nella misura della sua inclusività;non raccoglie solo la traccia degli usi “corretti” della langue, registra anche, esoprattutto (giacché per il resto c’è il vocabolario) gli usi imprevisti, devianti,innovativi. Che, com’è ovvio nel caso dei beni di cultura di cui stiamo parlando,non sono solo modificazioni del senso di termini, indicano opere, istituzioni,oggetti di cui l’enciclopedia è come il catalogo. Sia l’enciclopedia, sia il vocabolariosono prodotti marcatamente storici, come si capisce. Stiamo del resto solo concet-tualizzando i modi di trasmissione della cultura di cui siamo gli eredi; e genera-lizzando al rapporto stato-cultura il modello della scuola che, in quanto fondatosoprattutto su un apprendimento storico, è anch’esso un modello “museale”. Ciò dicui ci si è spesso lagnati, a cominciare dalla grande polemica del Nietzsche dellaseconda Considerazione inattuale4, giù giù fino alla contestazione giovanile deglianni Sessanta e Settanta del Novecento. L’eccesso di cultura storica che si trasmette

4 Considerazioni inattuali, II: “Sull’utilità e il danno degli studi storici per la vita”, 1874; tr. it. di S.Giametta, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. III, t.1, Milano, Adelphi, 1972.

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nelle scuole rischia secondo Nietzsche di ottundere la capacità di creare nuovi valo-ri di cultura: l’uomo dell’Ottocento non solo pensa che tutto scorre, come Eraclito,e che non si può scendere nello stesso fiume due volte; ma conscio di questo non haneanche la forza di scendere nel fiume una volta sola, resta immobile perché tuttogli appare vano e destinato a sparire. I giovani ribelli di Berkeley e di Parigi rifiu-tavano la cultura scolastica soprattutto perché vi vedevano una delimitazione auto-ritaria dei modelli; anche di recente, in alcune università americane il canone deitesti “classici” è stato contestato, perché non includeva le culture “altre” (degliindiani americani, dell’Africa), o le culture delle minoranze (donne, gay, ecc.). Nelfrattempo, la prima obiezione, quella di Nietzsche, si è alquanto consumata(Nietzsche stesso, nello sviluppo del suo pensiero successivo allo scritto del 1874,la mise da parte); mentre la seconda ha ancora senso, ma solo quando lo stato (lapolitica culturale pubblica) non accetti sul serio il suo ruolo laico, e pretendacomunque di definire autoritariamente un canone. Si tratta di allargare al massi-mo possibile l’enciclopedia, e oggi, anche con l’uso dei nuovi mezzi messi a dispo-sizione dall’elettronica, ciò diventa sempre più possibile. La stessa limitatezzadell’orario scolastico, che spesso viene invocata come giustificazione dei limitiposti nei programmi (così anche adesso non si studia quasi la musica a scuola, néil cinema, né tanti aspetti della storia delle arti), può essere contrastata in varimodi; per esempio, riducendo il peso degli apprendimenti mnemonici là dove lememorie artificiali possono sostituire quella “naturale”. Soprattutto, giacché laquestione dei contenuti dell’istruzione scolastica è molto complessa e richiederebbeun discorso a parte molto più specialistico di quello possibile qui, alla limitatezzaautoritaria del canone della cultura si può ovviare con una politica culturale che siproponga di essere appunto la più inclusiva possibile, sia nel senso del multicultu-ralismo (che diventa sempre più necessario quanto più le nostre società europeediventano multietniche in tutti i sensi) sia in quello della inclusione di stili internie minoritari finora mantenuti ai margini. Si tratta in fondo solo di proseguire conuna certa coerenza il cammino già cominciato con il passaggio dalle raccolte pri-vate e principesche al museo pubblico: includere in uno spazio neutro, ma in realtàsolo multidimensionale, ciò che nel passato, da singoli o gruppi, è stato consideratodegno di restare. Tutto indistintamente, senza alcun criterio selettivo? Intanto, imusei hanno anche cantine, depositi, ripostigli. E poi: i direttori delle istituzioniculturali pubbliche possono ruotare, rappresentare stili diversi. Il discorso può, piùo meno agevolmente, essere allargato a tutti i beni di cultura: in arti come il teatroo la musica, è abbastanza evidente che cosa significhi un lavoro di alfabetizzazione.

Il “bene supremo” 197

Non concepisco che in una città in cui esiste un teatro pubblico qualcuno possaarrivare a vent’anni senza mai aver visto un dramma di Shakespeare o aver ascol-tato la Traviata dal vivo, e magari esser stato sottoposto a un bombardamentoesclusivo di opere d’avanguardia perché piacevano agli amici dell’assessore o delministro. Partire dal vocabolario di cui storicamente siamo eredi non vuol direnaturalmente chiudersi a ogni ampliamento dell’enciclopedia; ampliamento che,sul piano dei beni tradizionalmente “di gusto”, ma anche su quello degli “stili”scientifici, può avvenire sia in base al criterio della continuità con l’esistente, sia inbase a quello della inclusione progressiva delle novità fornite di “bibliografia” (laFontaine di Duchamp).

L’importante, mi pare, è che il modello del museo sia preso nella sua accezionepiù ampia e corretta. Una politica culturale pubblica è un po’ come la politica eco-nomica dello stato rispetto a quella dei privati: lo stato, o anche i grandi gruppiprivati quanto meno si lasciano guidare esclusivamente da ideali di guadagnoimmediato, ha il compito di guardare più lontano, di fare giustizia anche allegenerazioni passate (conservando le loro tracce anche quando sembrano “obsolete”)e future (mettendo a loro disposizione gli stimoli e le suggestioni di tutti, tenden-zialmente, gli stili di cultura che si sono via via presentati). Può darsi che, comepensava il Nietzsche giovane, la creatività, quella del singolo creatore, abbia biso-gno di oblio; ma anche in questo senso lo stato non è, fortunatamente, un indivi-duo, è solo il luogo in cui si trasmette quello spirito oggettivo senza del qualeanche la parola innovativa del singolo resterebbe del tutto impronunciabile.

Eugenio Lo SardoDAL METASTORICO AL BOOKSHOP: APPUNTI SUL MUSEO CONTEMPORANEO

Il museo è un fenomeno urbano che sembra contrapporsi alla mutazione del contesto in cuiè inserito. L’attuale diffuso paradigma economicista ha tuttavia trasformato profonda-mente la natura estetica del museo, realizzando come distopia l’utopia surrealista e situa-zionista di un regno dei loisirs. In dialogo con la concezione ermeneutica di “esperienzaestetica”, il saggio riflette sulla progressiva internazionalizzazione e spettacolarizzazionedella “macchina museale”.

1. Identità

Il giovane Holden lo conoscono tutti. È un giovane intelligente e di buona famiglia.Abita a New York, non lontano da Central Park. Si chiede sempre come sopravvi-vano i pesci nel laghetto ghiacciato e dove vadano le anatre d’inverno. Il college lodisgusta. Odia i coetanei che «stantuffano» nel retro delle macchine, i privilegidegli sportivi, l’arrivismo delle ragazzine. Bravissimo in letteratura, è ancora unavolta bocciato. Taglia la corda e non ha il coraggio di tornare a casa. Per tre giornivaga nelle strade della città, si rifugia in un albergo, spende i suoi soldi in alcool ein incontri deludenti. Esplora i margini del suo disagio, tormentato dal ricordo delfratello, morto bambino di leucemia. Al termine della breve odissea nella metro-poli grigia e ostile, incontra la «mitica» sorellina, Phoebe, l'unica capace di capirlo.All’appuntamento per il definitivo addio, lei si presenta con una grande valigia,pronta a seguirlo dovunque egli vada. È così piccola che non riesce nemmeno a tra-scinare il bagaglio su per la scalinata dello Science History Museum. Ma proprioin quel luogo, Holden potrà finalmente guardarsi dentro. E' l'unico posto dove lasua ansia si acqueti.

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 199-208

200 Dopo il museo

«Lo conoscevo a memoria quella lagna di museo», egli narra, «la scuola diPhoebe era la stessa dove andavo da bambino, e non facevano che portarci alMuseo». Andavano lì ogni settimana, a volte a vedere gli animali, a volte «glioggetti che gli indiani avevano fatto secoli prima. Stoviglie, cestini di paglia e tut-ta roba così». A ripensarci Holden si sentiva felice, si ricordava che, dopo aver guar-dato gli oggetti indiani, andavano a vedere un film nel grande auditorium. Face-vano vedere sempre Colombo che scopriva l’America e «sudava sette camicie perconvincere Fernando e Isabella a dargli i soldi per comprare le caravelle». A loronon gliene importava un accidente «del vecchio Colombo» ma erano sempre stra-carichi di caramelle e di gomme, e nell’auditorium c’era un odore straordinario.Un odore «come se fuori piovesse anche quando non pioveva», ed essi si trovasseronell’unico posto asciutto e caldo del mondo. Gli piaceva quel «maledetto museo».

Il museo è il luogo dell’identità, oltre la famiglia, la scuola, lo sport. Il museoè gratuito, è fuori dal mondo in un’epoca, indefinita, in un clima più confortevoledi quello che regna all’esterno. Ci si può lasciare andare, sentire se stessi. Ma nonè solo questo: «Mi ricordo», continua Holden, «che per andare all’auditorium biso-gnava passare per la sala degli indiani. Era una sala lunga lunga, e bisognava par-lare bisbigliando. Prima entrava la maestra e poi tutta la classe … Poi si passavavicino a quella lunghissima canoa da guerra, era lunga suppergiù quanto tre dan-nate Cadillac messe in fila, con una ventina di indiani dentro». Alcuni di essiremavano, altri stavano là con la grinta feroce senza far niente, e tutti avevano lafaccia dipinta con i colori di guerra. In fondo alla canoa lo stregone. Faceva venirela pelle d’oca e se toccavano gli oggetti esposti uno dei guardiani diceva: «non toc-cate niente, bambini», ma lo diceva sempre con la voce gentile, «non come unmaledetto sbirro». Dopo, continua Holden, passavano vicino a una enorme bachecadi vetro, con dentro gli indiani che strofinavano pezzetti di legno per accendere ilfuoco, e una squaw tesseva una coperta. La squaw era un po’ chinata in avanti e lesi vedeva il petto ed essi allungavano il collo, anche le femmine, «perché eranobambine e di petto non ne avevano», più dei maschi. La loro identità si costruivacontrapponendo barbari e civilizzati, pellerossa seminudi con i colori di guerra, edonne indiane da sbirciare per la loro nudità (come un tempo da noi sulle enciclo-pedie le donne africane). Ma nel museo si ritrova anche il mito della fondazione,della nascita, con Colombo che salpa da Palos e scopre l’America aprendolaall’Europa.

Come nella madeleine di Proust, alla memoria visuale si accompagna quellaolfattiva, ogni museo ha un suo odore confortante o meschino: l’odore di solide

Dal metastorico al bookshop: appunti sul museo contemporaneo 201

muffe inglesi del British, di cera da parquet del Louvre, l’odore di Arno degli Uffizi,l’indimenticabile odore di repubblica popolare del Pergamon di Berlino, il borbo-nico olezzo del Museo Nazionale di Napoli e così via. Si potrebbero distinguereodori comunali e statali, di piccole gallerie di paese e di colossi da milioni di visi-tatori. Odori che ci fanno sentire a nostro agio, come dire «toglietevi le scarpe eaccomodatevi sulle moderne moquette, non ci sono germi, malattie, infezioni,l’uomo è riuscito a sconfiggerle», o il marmo freddo e monumentale delle grandiregge trasformate in museo, dove fa gelo anche nelle estati più torride.

Nell’infanzia di Salinger, nell’America degli anni Cinquanta in preda alle con-vulsioni post-belliche, alla ricerca di una propria dimensione imperiale, non cisono solo gli indiani ma anche gli esquimesi, gli uccelli impagliati e sospesi a filidi ferro e quelli dipinti sulle pareti.

La cosa migliore di quel museo era che tutto stava allo stesso posto. Nessuno si muo-veva [badate nessuno!]. Potevi andarci centomila volte, e quell’esquimese aveva sempreappena finito di prendere quei due pesci, gli uccelli stavano ancora andando verso ilsud, i cervi stavano ancora abbeverandosi a quella fonte, con le loro belle corna e le belleesili zampe, e quella squaw col petto nudo stava ancora tessendo la stessa coperta. Nes-suno era mai diverso. L’unico ad essere diverso eri tu. Non è che fossi molto più grandené niente di simile. Non era proprio questo. Era solo che eri diverso. Ecco tutto. Sta-volta avevi addosso il soprabito, magari. Oppure il bambino che era stato vicino a tel’ultima volta si era preso la scarlattina e ora avevi un altro compagno … Voglio direeri diverso per una ragione o per l’altra – non so spiegare quello che ho in mente.

Il museo è un fenomeno urbano che sembra contrapporsi alla rapidissimamutazione del contesto in cui è inserito, il gran corpaccio del museo ne è apparen-temente immune. Perché in effetti in cosa può cambiare il volo delle oche versosud, o le squaw che tessono? Sono fenomeni remoti, stanno lì a testimoniare unlimite: ciò che non è qui, è lontano nel tempo e nello spazio. È un’illusione anchequesta. Evidentemente. Quel gran corpaccio non esprime purezza, anche lì entranole impure ombre del mondo. Ma rispetto all’individuo, al giovane Holden, l’istitu-zione ha i ritmi dell’onda atlantica, consola. Mentre non ci consola lo scorrere deltempo: vorremmo che la piccola Phoebe rimanesse per sempre così com’è, con lasua intelligenza vivace e la sua infantile passione. «Certe cose dovrebbero restarecome sono», dice Salinger/Holden, «dovreste poterle mettere in una di quelle gran-di bacheche di vetro e lasciarcele».

202 Dopo il museo

2. Situ/azione

Abbandoniamo Holden, che al Metropolitan tornerà a vedere le mummie, deside-rando di restare in una tomba di faraoni ricostruita, ad assaporare una dimensionespazio-temporale diversa da quella della quotidianità, più vicina all’elevazionedell’estasi che non a quella della frenesia e del dovere, turbato però dalla presenzadi stupidi graffiti che imbrattano le mura. Sarà in quello stesso museo che eglirisolverà la sua crisi, aiutato da Phoebe e dal suo meraviglioso amore infantile.Salinger esplora con maestria il museo della borghesia urbana, borghesia che riaf-ferma con orgoglio il suo primato cristallizzando il diverso. Luogo di meditazionee di apprendimento che oggi sembra perdere questa sua connotazione.

Adoravo questa dimensione del museo. Nei miei anni liceali e universitari, laGalleria nazionale d'arte moderna a Roma era divenuta per me un luogo di rifugio,dove fermarmi a leggere e a studiare. Mi attiravano quelle grandi sale, la possibilitàdi spogliarsi del soprabito, era come lasciare la propria identità per essere introdottoa qualcos’altro. L’arte contemporanea, le opere di Balla, di De Chirico, di Boccioni,dei surrealisti, di Burri, le prime cose di Manzoni, le statue di Moore, l’arte con-cettuale e quella povera invogliavano a considerare la realtà con un occhio diverso,le assaporavo senza troppo saperne, perdendomi. Mi sembrava che offrissero infi-niti punti di vista, quando il mio universo era limitato: scuola, famiglia, amici,sport. Quante prospettive nuove vi si aprivano, quanti diversi modi di “vedere”,come accade grazie alla poesia nelle pieghe del linguaggio, dei concetti, dei pregiu-dizi. Mi piaceva quel dialogo muto, o semplicemente stare a sedere, leggendo. Lemie sensazioni, anche in quella modernità che si manifestava, erano molto simili aquelle di Holden. Il museo mi dava il senso di nuovi limiti e di innumerevoli esplo-razioni, e di essere personalmente, per un momento, intangibile e soddisfatto.Come tra gli scaffali di una grande biblioteca o di un grande archivio dove nessunopuò disturbare e, interiormente, si intreccia un dialogo intenso con muti interlocu-tori. Un museo come i misteri di Eleusi, da cui uscire rafforzato o annichilito dallapresenza di qualcosa di intangibile, un luogo di trasformazione interiore.

Vattimo, sulla scia di Gadamer, ha sintetizzato felicemente l'esperienza esteticadefinendola «esperienza di Sant’Ivo», «un’esperienza che trasforma chi la fa»1.Convinzione propria ai grandi interpreti dell’epoca barocca, che conoscevano l’inci-denza delle immagini e delle opere d’arte sui sentimenti e sulle inclinazioni uma-

1 G. Vattimo, Oltre l'interpretazione, Roma, Laterza, 1995, pp.76-7.

Dal metastorico al bookshop: appunti sul museo contemporaneo 203

ne. Gli stessi che elaborano il percorso simbolico della fontana dei fiumi e diSant’Ivo, teorizzano, definendola, la musica degli affetti. L’intenzione stessa di Bor-romini nel creare Sant’Ivo alla Sapienza, la chiesa dell’Università di Roma, era quel-la di indurre una determinata sensazione, costruttiva per il processo cognitivo:smarrimento nei confronti dell’infinito, sfida delle umane facoltà ai misteri dellanatura. A questa immersione doveva seguire il momento della scelta, perché quellaesperienza trasforma chi la fa. Infatti nel corridoio del rettorato Borromini pone laporta del Palamolla, dove chi transita, protetto dagli influssi di Saturno dal qua-drato magico e dal volto della medusa, deve decidere, tra le due uscite, quale per-corso scegliere.

Ambedue le dimensioni del museo, quella dell’identità e quella dell’esperienzaestetica, sembravano estranee alla logica del mercato.

Cosa resta di questa idea di museo? Forse era un’illusione, un’illusione d'altritempi o una sensazione erronea. Anche a Salinger, però, era estranea la concezioneeconomicista del museo, per lui era uno spazio gratuito in cui anche un giovanesquattrinato poteva entrare. Ancora non si era affermata la logica del politically cor-rect, nessun dubbio sollevavano le menzognere rappresentazioni dei nativi america-ni, pellerossa o esquimesi che fossero, o quelle di una natura idealizzata, in cui leoche volano sempre (senza cacciatori) sullo sfondo di un glorioso tramonto verso unsud ipotetico e indistinto. Non sembrava comunque che i soldi spesi per quei gran-di complessi fossero mal investiti. Le sale, anche vuote, erano splendide nei lorovolumi, nel loro biancore. Il museo andava visto da soli, o in gruppo con la scuolaponendosi però in fondo alla coda per smarrirsi appena possibile in un labirinto incui inseguire amori e passioni.

Era un luogo dove, per utilizzare una delle prime definizioni dei situazionisti,si potevano realizzare giochi in cui fossero spariti gli elementi di competizione. Siavvertiva la sensazione di rompere il cerchio spettatore/attore per divenire tutticreatori e riuscire, a partire dai desideri, a costruire un campo di attività favorevolea quei desideri. Come scriveva Debord nel 1958: «La seule réussite qu’on puisseconcevoir dans le jeu c’est la réussite immédiate de son ambience, et l’augmenta-tion constante de ses pouvoirs»2.

Il gioco situazionista poteva realizzarsi solo in una società priva di classi, male loro straordinarie profezie, come la definizione della società contemporanea come«società dello spettacolo», sono state di volta in volta frammentate e recuperate,come quelle dei surrealisti. Il Museo è stato trasformato o ideato, in alcuni casi,come uno spazio ludico. Che cosa sono le grandi scale mobili e i tubi di plexiglass

204 Dopo il museo

del Beaubourg se non macchine per il gioco, e quei grandi sbuffi di fumo controil grigio cielo parigino? Barocco avrebbe suggerito Debord, vacance de l’histoire, e ilBarocco e l’al di là organizzato del Barocco, dovevano per il grande teorico situa-zionista avere ampio spazio nel prossimo regno dei loisirs. Molti musei contempo-ranei si adattano a questa logica. Alcuni la teorizzano, come l’Exploratorium diSan Francisco. Non è forse questo il caso del Guggenheim di Bilbao che attraemilioni di visitatori per vedere l’opera di Gehry, ma nessuno sa veramente cosa cisia dentro? O quello della New Tate di Londra, dove tutto sembra conformarsi alladimensione del gioco, non rif lettendo forse neanche la volontà degli stessi curatori,che hanno ottenuto questo effetto postmoderno sezionando le opere per tematiche,con scarne didascalie, saltando i criteri cronologici e di appartenenza, sottacendo lanazionalità di un artista (nato a …, lavorato a…), tutto omogeneizzato e globaliz-zato. Nel formato unico in cui le opere sono disposte, esse appaiono come espres-sioni ludiche. La loro sradicata omogeneità priva lo spettatore di ogni particolaretimore. L’enorme massa di gente, i televisori distribuiti nei posti più impensati, icaffè e le terrazze sul fiume (anche il ponte sospeso, monumento all’errore) l’entra-re ed uscire dalle esposizioni, l’immenso vano delle turbine, cattedrale goticariscaldata ed asciutta, fanno il resto. La borghesia allarga i suoi confini verso ilbasso e di lato, strizza l’occhio al diverso, ingloba e recupera. Tanto che il termine“borghesia” è ormai desueto, riporta al tempo del conflitto di classe, mentre il pro-blema è quello di rappresentare la diversità partendo da un presupposto di egalité.

3. Dalla corte alla bottega

La multimedialità ha fatto il suo ingresso nella statica museale, introducendo nelcorpaccio obeso arti e tecniche per niente nuove, come la fotografia, il cinema, lebasi di dati illustrate o meno. Ma è un fenomeno che non tocca alla radice lo spa-zio-tempo dell'istituzione, è piuttosto un recepire, come è sempre avvenuto, nuoveespressioni, cosa che offre, per giunta, la possibilità di colmare i buchi e di nascon-dere qualche vistosa lacuna nelle collezioni. Quella che sembra più significativa è

2 G. Debord, «Internationale Situationniste», n. 1, 1958. Il primo numero di quella rivista si aprivacon un articolo che oggi può apparire profetico, Notes Editoriales – Amère victoire du surréalisme:«Dans le cadre d’un monde qui n’a pas été essentiellement transformé, le surréalisme est réussi.Cette réussite se retourne contre le surréalisme qui n’attendait rien que du renversement de l’ordresocial dominant».

Dal metastorico al bookshop: appunti sul museo contemporaneo 205

la divaricazione crescente tra la grande macchina museale e gli spazi per la ricerca,lo studio, l'identità.

Le grandi macchine museali si allontanano sempre più dal contesto in cui sonofiorite: il Louvre, il Vaticano, gli Uffizi sono istituzioni della società dello spetta-colo, dedite al turismo di massa, in affannosa ricerca di echi sul media-set interna-zionale. Diverso il caso d'alcune grandi collezioni anglo-americane, anch'esse toc-cate dal fenomeno ma con diverse tradizioni di partenza. Molti di questi museirimangono, come la National Gallery di Washington, il Metropolitan di NewYork, il Getty a Los Angeles, i salotti buoni della nazione e della città, luoghi incui, attraverso le straordinarie collezioni che vi sono confluite, si riafferma un pri-mato, il primato di un impero.

Il Louvre, il Vaticano, gli Uffizi, sono viceversa diventati dei luoghi in vendita.La stessa necessità di renderli economicamente produttivi ne dimostra l'inutilità ela miseria. Così mentre il Getty resta la galleria di un principe, che ci ospita gra-ziosamente nella sua dimora, i nostri musei, nati come gallerie di principi, sonodeclassati al rango di botteghe di mercanti.

E' una distinzione più antica di quello che sembra. Le grandi gallerie sono natein Italia, salvo qualche rarissima eccezione, come collezioni private di principi ed'aristocratici o come beni del clero. Per vederle era necessario un invito. Le grandicollezioni pubbliche anglosassoni stanno lì invece per colmare il divario tra l'artedei grandi maestri del passato e la produzione artistica nazionale. Gli inglesi, alsorgere del British Empire, hanno sperato in un fiorire delle arti domestiche, in unloro Rinascimento modellato su quello continentale, e le opere servivano a educareil gusto dei concittadini e a rafforzare l'identità nazionale con il peso di grandi isti-tuzioni, ricche di inestimabili tesori d'arte.

Ma accanto a questa forma museale, le gallerie, già nel Seicento prese piedequello che un po’ riduttivamente viene definito «gabinetto di curiosità», che altronon è che il prodromo, non specializzato, dei musei naturalistici e universitari. Inquesto tipo di museo, di cui il più famoso è il kircheriano, sussistevano nello stessocontesto oggetti d'arte e reperti antropologici, naturalistici e scientifici. L'arte eralì per una finalità non puramente estetica ma per mostrare visivamente aspetti del-la storia, della scienza e della natura, difficili da esprimere altrimenti. Il labirintoin cui ci si trovava immersi era un'autentica sylva sylvarum.

Alcuni nostri contemporanei seguono, non so con quanto successo, questo solcogià arato. Piccoli musei di curiosità, di giochi, di marginalità sorgono un po’ ovun-que, dovendo il loro successo al genio dei fondatori. Ne possiamo citare due: il

206 Dopo il museo

museo Rocsen in Argentina o il Jurassic Thecnology Museum di Los Angeles.Ambedue, in realtà, hanno poco a che vedere con le istituzioni seicentesche, in cuimolte di quelle che oggi appaiono stravaganze erano interpretazioni erronee difenomeni naturali e della sfera biologica, interpretazioni di cui spesso sorridiamosolo per un'antistorica lettura di alcuni termini, come mostro, drago, f logisto ecc.Basta porsi nella giusta prospettiva cronologica. Un varano di Giava, ad esempio,pericoloso e carnivoro, è simile al drago di S. Giorgio, mille volte rappresentato. Senon si avevano termini migliori per descriverlo, si riferiva di aver visto un dragostrisciare sulla terra e azzannare una vacca. E' chiaro che chi ne riferiva non ci eraandato vicino, non aveva avuto tempo, né voglia di seguirlo. In fondo il narratoreera forse un mercante, interessato alle spezie, o un missionario, devoto alle anime.Ma nel ritorno a casa perché non riferire di aver visto un drago? Fa colore, è vero,e magari nella prossima spedizione se ne riporta un esemplare impagliato. Saran-no gli amici naturalisti a scervellarsi sulle abitudini e le virtù di quelle bestie. Elì le ipotesi abbondavano.

Viceversa ciò che è oggi esposto nei grandi musei scientifici tradizionali (diver-so è il caso delle “città della scienza”) ha sempre una precisa spiegazione ed una tas-sonomica didascalia, poiché i limiti della scienza odierna, dove essa si interroga sulperché e sul come, non sono facilmente mostrabili e i musei scientifici hanno unafinalità sostanzialmente educativa.

4. Conclusioni

Anche in Italia bisognerebbe reinserire le grandi collezioni nello spazio urbano echiedersi perché mai il museo archeologico di Napoli sia divenuto un'assurda rota-toria o gli Uffizi il prototipo di un museo di massa. Quanti fiorentini li visitano equanti napoletani (a parte le scolaresche) sentono come proprio il museo della lorocittà? Solo da una dimensione pubblica, nel senso che i cittadini sentano come pro-pria l'istituzione, possiamo sperare in un aff lusso di forze vitali, di energie, di sov-venzioni e di finanziamenti.

Se da un lato questa può essere un’indicazione per le grandi collezioni d'arte od'archeologia, d'altra parte l'autonomia universitaria potrebbe portare a una mag-giore valorizzazione delle strutture legate alla didattica e ai musei scientifici.

I musei sono in costante crescita numerica, ogni paesino vuole la sua piccolaattrazione, ogni pro-loco tende a musealizzarsi. I perché di questo fenomeno sono

Dal metastorico al bookshop: appunti sul museo contemporaneo 207

i più svariati ma questo crea certamente una agguerrita competizioneinternazionale.

I colleghi inglesi, che oggi redigono le linee guida per i musei d’oltre Manica,puntano ad esempio a creare una nuova identità collettiva nelle periferie recluse,dove bisogna combattere “l'isolamento e la solitudine”. Il museo e i curatori diven-tano in questa prospettiva una sorta d'assistenti sociali, di appendice del sistemaeducativo. Il tempio laico dalle grandi scalinate neoclassiche che ha invaso l'Euro-pa del secolo XIX, l'introibo alla sacralità del passato, cede il passo a una nuovamenzogna, all'illusione del postmoderno e del facile accesso alla cultura.

Abbiamo accennato a diverse funzioni dell'istituzione museale: rafforzamentodell'identità collettiva, luogo di "esperienza estetica", momento di formazione ed'integrazione sociale. Sono tutti momenti legati alla fruizione del museo. Si sonovolutamente taciuti gli aspetti della ricerca e dello studio, che avviene attraverso lecollezioni, e il fenomeno delle mostre. Ora queste dimensioni possono convivere,rientrano in un alveo più ampio quello che attribuiamo in senso lato alla cultura.Più difficile è l'innesto della dimensione mercantile. L’esperienza estetica ha biso-gno di condizioni particolari per compiersi, come quella religiosa. Non sempre duefunzioni possono convivere, come una pista di pattinaggio sui bei marmi diAndrea Della Valle e la messa vespertina. Qui non si tratta di scegliere tra gestioneprivata e gestione pubblica, tutt'altro, perché vi sono privati (caso Getty) che ren-dono le loro raccolte più pubbliche di qualsiasi istituzione pubblica (in cui spessoi funzionari si appropriano dei beni come cosa loro), bensì di capire la finalità diuna istituzione. Quel museo sta lì per far soldi grazie a ciò che mostra o deve farsoldi per mostrare ciò che ha. Se prevale la necessità di mostrare si doseranno anchegli spazi e i modi della raccolta fondi, affinché la finalità primaria non vengadistorta. Se viceversa prevale la seconda ipotesi, bisogna confrontarsi con i gusti delmercato. Porre al centro del British Museum un immenso bookshop dove primarisiedeva una splendida biblioteca è, dal mio punto di vista, una mostruosa opera-zione al cuore. Non ha più senso il pronao neoclassico, non hanno più senso lemetope del Partenone che, a questo punto, se devono solo attirare clienti, potreb-bero essere restituite alla Grecia. Ma anche la presenza nel cuore dell'istituzione ditante riproduzioni commerciali, svilisce il valore degli oggetti autentici, oggetti acui si andava introdotti, un tempo, con un percorso di laica sacralità. Il Britishcontinuerà ad attrarre milioni di turisti e sul valore economico della trasformazio-ne è chiamato a giudicare il mercato, ma sull'esperienza estetica chi emetterà sen-satamente un parere?

Hans BeltingIL MUSEO: RIFLESSIONE O SENSAZIONALISMO?

Il museo è un’invenzione della prima modernità: i due tipi di museo che troppo spesso ven-gono contrapposti, il museo d’arte e quello etnografico, rappresentano delle “sdrammatizza-zioni” dell’industrializzazione dell’Occidente e della colonizzazione del mondo restante.Questa situazione oggi si capovolge, dal momento che gli stessi luoghi nei quali trascorriamola nostra vita hanno iniziato a poco a poco a scomparire. E tuttavia, il senso del museo nonconsiste nella sua attualità, quanto nella sua alterità; dunque, anche nella “surmoderni-tà”, l’essere-altro del museo è il suo vero significato, la differenza la sua chance.

Oggi si costruiscono in continuazione musei sempre più grandi, ma manca ilminimo accordo sul senso del museo stesso. Si cercano ovunque argomenti per giu-stificare l’istituzione di nuovi musei, spesso destinati soltanto a soddisfare il biso-gno di rappresentazione pubblica. Entrando in tali edifici, i visitatori si godonol’esperienza estetica nel ridondante allestimento degli spazi, mentre vengono loropresentati programmi determinati, come su un palcoscenico museale. Ma dietro lequinte i responsabili sono in difficoltà, dal momento che la mano pubblica esigefebbrili fondazioni, delle quali essi stessi non sono convinti. Ne deriva una situa-zione confusa, in quanto non si riesce più a spiegare perché si abbia così urgentebisogno di musei. Nel maggio del 2001, in un programma di allestimento delmuseo viennese di arti applicate si parlava di un «museo discorsivo», concepitocome «risposta ai cambiamenti strutturali attualmente in corso», e si avanzavaaddirittura la richiesta di «riconfigurare il luogo delle immagini in luogo deldiscorso». Ma perché utilizziamo ancora sempre il concetto di museo, quando neponiamo in questione l’idea tradizionale? Forse si usa ancora il nome di museo per-ché si ha bisogno del suo concetto in vista di altri scopi al momento non precisabili?

Dopo il museo, “Quaderni E&E”, 5/2006 – pp. 209-224

210 Dopo il museo

O è invece possibile, come si cerca di fare in queste pagine, dare al concetto di«museo discorsivo» anche un contenuto?

1. La critica del museo

La critica del museo, vecchia quanto il museo stesso, mostra in che misura lo sta-tuto di questa istituzione sia stato contestato fin dall’inizio. La critica cominciò conun colpo di tamburo nel 1805, soltanto dodici anni dopo la fondazione del Louvre,quando Quatremère de Quincy, il Winckelmann francese, compose uno scrittodal titolo Riflessioni morali sulla vera destinazione delle opere d’arte (egli poté poi pub-blicarlo soltanto dopo l’abdicazione di Napoleone, data la sua opposizione alla poli-tica museale ufficiale). Nello scritto lamentava l’apertura democratica delle raccol-te d’arte, che comportava l’abbandono del gusto raffinato dei conoscitori della vec-chia scuola e la sostituzione del giudizio estetico, al quale si rivolge propriamentela produzione artistica, con l’informazione sulla storia dell’arte. I funzionari deimusei avevano «ucciso l’arte per farne storia». Esponendo l’una accanto all’altraopere di valore assai eterogeneo, livellavano l’arte e impedivano, proprio nelmuseo, ogni seria esperienza dell’arte. Quatremère era vissuto a lungo senzamusei: egli non voleva mescolarsi alla folla assetata di cultura della giovane metro-poli parigina. Ciò che gli sfuggiva era il fatto che si stava allora formando il pub-blico borghese, senza il quale non si potrebbe in generale neanche concepire ilmuseo tradizionale. Già allora era evidente che il progetto di un’arte «per tutti»era realizzabile solo sulla base di vistosi compromessi.

Dopo la fine della società borghese è difficile tenere in vita il vecchio signifi-cato che essa aveva assegnato al museo. Quest’ultimo aveva acquisito un’aurasacrale presentando il patrimonio artistico dello stato e conferendo all’arte la pro-pria consacrazione. Solo la sua autorità poteva garantire lo status dell’arte. La gio-vane disciplina accademica della storia dell’arte dettava alla prassi espositiva i pro-pri programmi. Già nel 1784 a Vienna si parlava di una «storia visibile dell’arte»,da realizzare nelle esposizioni del Belvedere al fine di rendere percepibile la logicadella storia a partire dallo sviluppo dell’arte storica. La variante odierna consistenel cercare nel museo lo stadio più recente dell’arte o nell’interrogare l’arte secondorappresentazioni simboliche comprensibili al proprio mondo. Nella società media-tica il consumo del tempo è molto cambiato: il bisogno dell’«evento», che dev’esse-re sempre qualcosa di nuovo, appare difficile da soddisfare entro la «lentezza» delmuseo. Nel museo si vorrebbe sopra ogni cosa vivere già il futuro, ancor prima che

Il museo: riflessione o sensazionalismo? 211

esso sia iniziato. Il fascino della storia, invece, è molto diminuito, e persino la vene-razione dell’arte non viene più praticata in nome dell’arte stessa, sebbene i templidell’arte invitino ancora a questo culto.

Quando nel 1923 Paul Valéry pubblicò il suo saggio Il problema dei musei, lostatus del museo era ancora tanto indiscusso che egli poteva polemizzare senzarischi contro le pratiche museali di allora. Non mi piace, scriveva, che nei musei misi presenti come una raccolta sensata un «disordine organizzato». Il museo ha insé qualcosa «del tempio, del salon, del cimitero e della scuola. Devo educarmi olasciarmi incantare? O devo piuttosto assolvere a un obbligo cultural-borghese?»La stessa percezione viene oltraggiata e offesa in «questa casa dell’incoerenza»,dove ogni opera priva l’altra del suo effetto. L’uomo moderno è impoveritodall’eccesso delle sue ricchezze, in mezzo alle quali persino una «Venere si trasfor-ma in mero documento (storico-artistico)». Analoghi rimproveri vanno all’indiriz-zo della storia accademica dell’arte, che già all’epoca si trincerava nei musei controil pubblico, respingendolo con cataloghi illeggibili: «Nelle faccende dell’arte leconoscenze specialistiche sono una sconfitta: non fanno che spiegare ciò che noncostituisce la vera attrattiva dell’arte e approfondire l’inessenziale … , aggiungen-do allo smisurato museo un’ancor più smisurata biblioteca». È fin troppo chiaroche l’intenditore Valéry vagheggiava un’esperienza museale di qualità diversa. Perquesto anche nel Trocadero compose le più solenni epigrafi a gloria del museo.

Nel suo famoso libro Il museo immaginario, al quale aveva lavorato fin daglianni della Seconda guerra mondiale, André Malraux difese l’idea di un «museosenza pareti», non un museo-edificio, ma in qualche modo un museo mentale.Solo in un museo virtuale, come si direbbe oggi, vedeva riscattata l’esigenza deimusei reali, con il loro casuale fondo di opere. Malraux pensava in questo modonon solo a un museo senza porte né custodi, ma anche a un’arte senza confini. Eglidescriveva il museo dell’arte universale come un anti-Louvre, senza presagire chelo stesso Louvre avrebbe un giorno accolto il «premier art» dell’Africa o del Pacifico,almeno fino al momento dell’istituzione di un museo specifico. Un’arte che rap-presentasse il potenziale creativo dell’umanità, al di là dei tempi e degli stili, sipoteva però realizzare solo nel medium della fotografia, attraverso riprese ravvici-nate e confronti inattesi. Nel libro l’autore medesimo diventava il direttore dimuseo che metteva in scena i propri sconfinati tesori, con i mezzi della modernariproduzione tecnica. Analogamente a quanto progettato nel Louvre di Napoleone,Il museo immaginario era, in quanto libro, un museo totale con tutte le opere d’arte

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del mondo, nel quale Malraux conduceva i suoi lettori di illustrazione inillustrazione.

Nonostante i sospetti e nonostante la sua pretesa di essere un’istituzione senzatempo, il museo ha assunto volti sempre nuovi, che trovavano la loro eco puntualenella critica coeva. Nell’attuale copia di testi sul museo, citiamo qui soltanto illibro Destination Culture – press’a poco «cultura dell’esperienza vissuta» – dellasociologa Barbara Kirshenblatt-Gimblett. «Il turismo – scrive l’autrice – ha biso-gno di destinazioni, e i musei in questo senso sono attrazioni fondamentali … Imusei sono diventati anche eventi nel calendario culturale. Le mostre temporaneesono definite, in gergo, turismo dell’evento». Se nel frattempo gli stessi museihanno iniziato a organizzare viaggi verso altri musei o luoghi d’arte, ciò significache il loro stesso carattere è cambiato. Il servizio diventa nei musei più importantedel prodotto, l’esperienza vissuta più importante della competenza. L’eredità cul-turale si trasforma in materia dell’industria della cultura. Così la «heritage indu-stry» diviene «a new mode of cultural production». Ma il futuro dei musei non dipen-de dai nuovi allestimenti, bensì da nuovi contenuti, mediante i quali essi possonoaprirsi a un pubblico critico e offrire luoghi della riflessione anziché luoghi della sen-sazione. Sebbene questa massima appaia per il momento come un’utopia, essa deveessere tenuta presente nelle considerazioni seguenti.

2. Un’anamnesi

Se guardiamo agli inizi del museo d’arte, cogliamo caratteristiche spesso dimen-ticate nell’attuale discussione sui suoi compiti e le sue lacune. Con i suoi duecentoanni di vita, esso rappresenta un’istituzione tutto sommato ancora giovane, chenon può sollevare pretese di atemporalità. Quale prodotto della secolarizzazione, ilmuseo fu inizialmente, come rivela l’esempio del Louvre, un ricettacolo del bottinodella Rivoluzione, che la chiesa e le corti avevano lasciato in eredità. Riconsacrandotutto questo all’arte, esso conferiva all’arte stessa il senso di un’autonomia fondatasul piano estetico-museale. Da allora il museo venne inteso come un luogo desti-nato a cose inutilizzabili (ad esempio gallerie di ritratti) e asilo per cose non piùutilizzate (ad esempio altari), ora definite come opere d’arte resistenti al tempo,non semplicemente sopravvissute quali prodotti di una storicizzazione nostalgica,come accade in un museo della tecnica. Quale luogo per ciò che era caduto in disu-so o all’uso non era mai stato destinato, esso offriva, nella forma di un dovere cul-turale, un nuovo genere di esperienza, alla quale ci si poteva rendere avvezzi attra-

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verso lo sguardo museale. La rapina e la espropriazione sono parte integrante diquella riconsacrazione simbolica che possiamo definire decontestualizzazione oricontestualizzazione. Talvolta la museizzazione culminava nel progetto di coloniz-zare il proprio passato, ancor prima che fosse in gioco l’assimilazione del bottinodi altre culture. I relitti della storia, nella loro metamorfosi in temi della culturaborghese, sopravvivevano in quei luoghi del ricordo, dove un’esperienza della per-dita veniva sostituita da un’esperienza estetica.

In epoca moderna il museo fu inoltre destinato a costituire la soglia tra la highculture e la low culture. Le immagini dei mezzi di comunicazione di massa dimo-stravano il loro carattere «profano» per il fatto stesso che il museo le rifiutava.Come dice la parola stessa, esse rimanevano «davanti al tempio» nel quale venivaamministrata la religione borghese dell’arte. Finché le fu impedito l’ingresso,l’avanguardia artistica poté riconoscere nel tempio dell’arte soltanto un’immaginedel nemico. È solo a New York che essa divenne degna di un museo, quando nel1935 aprì le sue porte il Museum of Modern Art, seppur non ancora per gli artistiamericani. Fu il museo americano a definire il canone della moderna arte europea,conferendole quel profilo storico alla luce del quale noi continuiamo a contemplarlaancor oggi. Pochi anni più tardi, nel 1939, il critico d’arte Clement Greenberg pro-clamò l’annuncio di una nuova arte americana, che grazie all’astrazione e all’ascesidall’immagine teneva le distanze dai media e riconosceva nel museo il tempio ide-ale per il futuro dell’arte.

Negli ultimi decenni questo processo ha subito un’ulteriore accelerazione. Sem-pre più spesso i musei hanno messo in primo piano un’arte contemporanea che nonpossiede ancora uno status museale. In questo modo il museo di un tempo si è tra-sformato in un palcoscenico attuale dell’arte che in aggiunta offre anche il premiodella sua consacrazione, ma ha dovuto sempre più spesso trarre questa attualitàdal mercato dell’arte, più aggiornato e competente. La contromossa è stata quelladi utilizzare i musei per realizzare progetti artistici specificamente destinati ai lorospazi. Si tratta di progetti (piuttosto che opere compiute) che coinvolgono anchetematiche di attualità, come i problemi delle minoranze, aspetti traumatici dellamemoria o conflitti culturali. Gli stessi musei prendono parte a esposizioni legatea temi determinati, che non guardano più alla storia dell’arte, ma alla società.L’arte gode così del privilegio di rif lettere le tematiche del proprio tempo con unalibertà analoga a quella della letteratura, benché con mezzi diversi.

Nondimeno il museo resta un luogo dell’arte – senza che con ciò io debbatemere di incorrere in una tautologia – e fornisce, grazie alla convivenza con l’arte

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del passato, la misura per la produzione artistica contemporanea. Qui l’arte puòfare appello alla propria genealogia per definire il proprio senso. Per quanto i mezzidi comunicazione ci facciano oggi credere che qualsiasi cosa possa essere fatta inqualsiasi momento, nell’arte un Mozart o un Rembrandt possono essere soltantorammemorati, vale a dire eseguiti in una sala da concerto o esposti in un museo (ledue istituzioni, del resto, risalgono agli stessi anni). Nell’epoca della globalizza-zione il museo locale è un luogo dove incontrare il canone della propria cultura, nelquale vi sono Mozart e Rembrandt, ma anche l’estraneo, il dimenticato, l’invisibi-le. Nel frattempo ormai nel museo non sono soltanto le opere a provenire da unaltro tempo, ma anche gli stessi spazi, anche se destinati a un uso nuovo o ricon-sacrati, allorché diventano musei i capannoni industriali o si restaurano i museigià esistenti. Il contrasto che vi era nei musei di etnologia fra i pezzi esposti e laforma occidentale dell’esposizione – un’asimmetria spaziale – viene meno laddoveentrambi sono già ricaduti nel tempo della storia. Anche i musei d’arte occidentali,che non sono stati toccati dall’esperienza coloniale, invitano oggi a uno sguardoetnografico sulla propria cultura.

3. Eterotopie

Non è un caso che il museo sia un’invenzione della prima modernità, destinata adare nuova collocazione a tutto ciò che allora veniva sacrificato alla dinamica delprogresso. Esso nasceva perciò in opposizione a quella accelerazione temporale nel-la quale avveniva anche la moderna autoliquidazione della propria storia. In quan-to luoghi in cui si afferma l’opposta tendenza alla sospensione del tempo, i primimusei invitano a un nostalgico rituale della cultura nel quale si esercita il ricordocollettivo. I due tipi di museo che così spesso contrapponiamo, il museo d’arte e ilmuseo etnografico, sono conseguenti a due grandi progetti della modernità cheproprio grazie alla museizzazione vengono, per così dire, «sdrammatizzati»:l’industrializzazione del proprio mondo e la colonizzazione del mondo restante. Isottoprodotti di questi progetti furono chiamati a rientrare in scena nel museoborghese, come storia attraverso il lavoro del ricordo, come arte attraversol’estetizzazione.

Ne nacquero delle eterotopie, come Michel Foucault chiamava i luoghi in cuisi esprime un concetto alternativo del tempo e della realtà. Erano luoghi non sol-tanto dissimili dagli altri, ma in contraddizione simbolica nei loro confronti. Tut-tavia questa situazione, nella quale è vissuto finora il museo, oggi si capovolge, dal

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momento che gli stessi luoghi nei quali trascorriamo la nostra vita hanno iniziatoa poco a poco a scomparire. Come spiega Marc Augé nel suo libro Nonluoghi, la per-cezione di luoghi solidi che si possono abitare o lasciare, ritrovandoli al ritorno, siperde nel f lusso dei dati e della telecomunicazione. Si giunge così al paradosso cheproprio il museo, con la sua tradizionale capacità di opposizione, tipica di un luogosoltanto simbolico, resiste a questa trasformazione dei luoghi reali, permettendonuovamente l’esperienza di un luogo. Proprio perché istituito come un luogo sim-bolico, il suo rapporto con il mondo esterno si ricrea a ogni generazione. Senso epossibilità del museo risiedono ancora oggi in questa eterotopia.

Nella sua idea fondante il museo era un luogo che si trovava al di fuori del tem-po e metteva in mostra cose che avevano perso la loro primitiva collocazione mon-dana. Come luogo per l’arte moderna, era l’asilo (e poi il palcoscenico) di opere chenon potevano più trovare posto nel mondo (tranne che sulle pareti private del col-lezionista) e cercavano un pubblico per poter avere un qualche effetto. Oggi cresceuna nuova aura intorno a un museo che difende la propria identità di luogo. Rap-presentando un luogo della storia extratemporale o un luogo dell’arte extraterritoria-le, esso riconfigura il concetto di luogo in senso antropologico. In qualità di tempioaperto a tutti, contende alle banche, ai nuovi templi del denaro, il monopolionell’immagine delle città. Intanto gli impianti industriali di ieri sono rimessi inattività come spazi museali, senza che la storia degli spazi stessi venga occultata,secondo l’esempio della Tate Modern a Londra o del Museo Montemartini diRoma. Sia collocando l’arte moderna in vecchi edifici, sia disponendo quella anticain edifici nuovi, un tale modo di allestimento nel contrasto accresce l’attrattiva deiluoghi. Laddove un vecchio edificio e la nuova esposizione che contiene vengonofatti interagire in modo contrappuntistico, non è più tanto facile indovinare sel’identità del luogo sia ripresa nel ricordo oppure inventata.

Quando si parla di templi dell’arte, si parla di eterotopie. Ma la metafora deltempio antico evita l’analogia reale con la chiesa. Non si vuole porre in relazionecosì diretta la religione e l’arte, o fare derivare l’una dall’altra. E tuttavia la catte-drale dentro la città costituiva un luogo ugualmente alternativo, un luogo dellatrascendenza. Quando il Louvre fu inaugurato, era appena stata sconsacrata la cat-tedrale di Notre-Dame. La nascita della società di massa a Parigi coincide, da unpunto di vista cronologico, con la fondazione del Louvre, un luogo per l’arte antica,che qui si voleva rammemorare. I mezzi di comunicazione di massa, come la foto-grafia o il panorama, restarono allora esclusi dal luogo della pittura e della scul-tura. Il Louvre portava ancora in sé il ricordo del tempo in cui era residenza reale,

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tempo contro il quale ora, come residenza dell’arte, esso prestava testimonianza.Come luogo dell’identità nazionale, analogamente al Prado di Madrid, il Louvrenon è stato posto in discussione da nessuna delle nuove fondazioni museali, seb-bene l’arte del XX secolo ne sia rimasta esclusa. La trascendenza richiede unasoglia, anche quando è la nazione ad acquisire, al di là di tale soglia, la sua potenzasimbolica. La trascendenza dell’arte, come quella della nazione, resta su un pianoimmanente al mondo, ma la sua esperienza è connessa a un’eterotopia, al museo.Forse per questo siamo così contrariati quando lo troviamo invecchiato: anche lasua aura invecchia. E a questo preferiamo il più invadente degli allestimenti.

4. Cose, luoghi, uomini

Il senso del museo non consiste nella sua attualità, ma nella sua alterità. L’essere-altro è il suo vero significato, la differenza la sua chance, anche oggi. In quanto isolanel tempo è al tempo stesso un palcoscenico per cose che sfuggono alla serie tem-porale della «surmodernità» (per riprendere l’espressione con la quale Marc Augédesigna la nostra epoca) senza che siano state sostituite, né siano sostituibili. Unaraccolta di cose fisicamente esperibili è qualcosa di fondamentalmente diverso daquell’accumulo di dati digitali con i quali legittimiamo il nostro rapporto con ilmondo. Qualcosa di simile vale anche per l’opposizione fra luoghi e reti. In modoanalogo cambia infine anche la comunicazione, che viene affidata alle condizionidei media. Pertanto qui di seguito il museo sarà posto in relazione con l’esperienzadi cose, con l’occupazione di luoghi e infine con la presenza di uomini in un ambi-to pubblico nel quale questi assumono ruoli e sperimentano contatti.

Cose. Nella società dell’informazione le cose fisiche, con la loro aura, vanno per-dute. Le cose esistenti in uno spazio che è il nostro spazio vitale, come i nostri cor-pi, possiedono anche una storia, che noi cogliamo in esse. Il nostro sguardo non siaccontenta della loro vista, ma le correda di un significato personale, indissolubil-mente connesso con la loro esistenza. Ma le cose richiedono un luogo presso il qualenoi eseguiamo davanti a esse il rituale della percezione. Ciò è vero in primo luogoper cose particolari, come gli esemplari originali delle opere d’arte, ai quali è dedi-cato il museo. Gli esemplari unici che recano su di sé le tracce di un tempo passatoci affascinano sia per la loro distanza (la loro conservazione nel tempo), sia per laloro vicinanza (la loro esistenza). Nel suo famoso saggio del 1936 su L’opera d’artenell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin definiva l’aura come«apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina».

Il museo: riflessione o sensazionalismo? 217

Nell’epoca della riproducibilità tecnica l’aura dell’opera d’arte deperisce. «Anchenel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic etnunc dell’opera d’arte, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova».A ciò appartiene anche l’«autenticità», alla quale si collega la sua «virtù di testi-monianza storica». «La liberazione dell’oggetto dalla sua guaina, la distruzionedell’aura, sono il contrassegno di una percezione la cui sensibilità per ciò che nel mon-do è dello stesso genere è cresciuta a un punto tale che essa, mediante la riproduzione,attinge l’uguaglianza di genere anche in ciò che è unico».

Per quanto non parlasse del museo, Benjamin toccava qui una questione noda-le del museo e della sua crisi in un mondo dominato dai mezzi di comunicazionedi massa. Egli difendeva i media del suo tempo contro l’aura museale dell’operad’arte, nella quale scorgeva un’intenzione antidemocratica. Ma il bisogno di auraresta, proprio perché noi possiamo accontentarci ben poco del continuo consumomediatico. Oggi parliamo con uguale nostalgia di un’altro tipo di aura, quello del-le cose fisiche, che Benjamin chiamava «oggetti naturali». Può darsi che questo siail motivo per il quale nel museo noi non vogliamo soltanto esperire l’aura dell’arte,ma anche quella di cose che vi occupano ancora sempre l’antico luogo e offrono ungenere di percezione che si riteneva perduta, una percezione, tra l’altro, di singoliosservatori (non di una massa), anche se spesso gli osservatori ricevono le informa-zioni da un’audioguida. La distrazione che «le masse cercano» ha fatto il suoingresso anche nel museo. Benjamin la contrappone al «raccoglimento» che l’arterichiede al singolo osservatore, anche se difendeva il diritto alla distrazione. Chi siraccoglie davanti all’opera d’arte «penetra nell’opera, come racconta la leggenda diun pittore cinese alla vista della sua opera compiuta». Si tratta dunque di trasferirela percezione dell’arte alla percezione delle cose fisiche, anche se queste ultime nonavevano originariamente nel museo il loro luogo «naturale».

Luoghi. Stiamo perdendo non solo l’esperienza delle cose, ma anche l’esperienzadei luoghi ai quali accordiamo un significato nella nostra vita. Sul video o in Inter-net non si trovano luoghi che noi possiamo fisicamente occupare, ma luoghiimmaginari, che appartengono a tutti e a nessuno. I luoghi di cui parlo non vannointesi in senso geografico, bensì in senso antropologico, secondo la descrizione chene ha fatto Marc Augé. Sono luoghi «carichi di senso», che vengono sempre dinuovo rifondati mediante un’occupazione rituale. Come scrive Augé, non è suffi-ciente definire i luoghi in base al fatto che sono occupati da corpi, poiché «questaoccupazione singola ed esclusiva somiglia più a quella del cadavere nella sua tom-ba» che ai luoghi che segnano il tempo in una vita personale. I luoghi antropolo-

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gici sono tuttavia «agli antipodi di quei luoghi della memoria di cui Pierre Norascrive giustamente che sono i luoghi in cui apprendiamo essenzialmente la nostradifferenza, l’immagine di ciò che non siamo più».

Si aprono qui nuove possibilità per un’analisi dei musei, se si prende in consi-derazione, per una volta in modo diverso, la loro qualità di luoghi e la si commi-sura con la perdita generale che caratterizza la nostra odierna esperienza dei luoghi.A richiedere la nostra attenzione è proprio la qualità simbolica del luogo, e non sol-tanto quella delle cose in esso esposte. In che modo e a qual fine il ricordo vi silascia mettere in scena e al tempo stesso problematizzare? I musei sono stati spessoassociati alle tombe, dimenticando in tale accusa che le tombe non sono solo desti-nate ai cadaveri, ma anche ai visitatori che vi cercano il contatto con il tempo per-duto e trasformano il luogo nella loro immaginazione. Nel contesto museale, para-dossalmente, la proverbiale «vita dell’arte» la possiamo afferrare solo rispettoall’arte di altri tempi, nonostante la distanza storica che si apre nei confronti deisuoi prodotti. Non mi interessa in prima istanza stabilire quale aura possa essereesperita in un luogo dato, ma che l’aura sia in generale ancora esperibile. Il museoè qualificato ad attirare su di sé e a trattenere ancora oggi l’antica aura del luogo.È rimasto un luogo privilegiato, non ancora manipolato dalle banche e dagli spon-sor, benché la lotta per questo spazio libero si sia accesa da tempo. Nonostante tut-ti i controlli, i musei concedono a ciascuno il diritto di libero accesso. In similienclave la società ha rinunciato, almeno in linea di principio, all’esercizio del potere.

Il nuovo culto dello spazio diviene tuttavia un diffuso rituale mediante il qualeil museo pone in ombra, in se stesso, la vecchia idea di museo. Negli spettacolariedifici museali le mostre funzionano ormai solo come un alibi. I musei recente-mente inaugurati ci conquistano con l’aura dei loro spazi, anziché affascinarci coni pezzi esposti. Dove gli spazi non bastano, ci seduce il design dell’esposizione,come accade nel teatro, attraverso la messa in scena di cose che non credevamo piùcapaci di esercitare una sufficiente attrazione. In antitesi agli spettacoli scintillan-ti, noi cediamo già di nuovo alla magia di vecchie, polverose esposizioni, al cuiallestimento siamo insensibili, e conserviamo per questo la nostra libertà. L’esplo-sione di spazi museali sensazionali è interpretabile come un sintomo del fatto chesiamo diventati dipendenti da spazi di esperienza vissuta, e andiamo a cercarlianche nei musei.

L’aura del luogo che abbiamo descritto in relazione al museo si distingue net-tamente dall’aura della galleria, che Brian O’Doherty definiva nel 1976 con il con-cetto del «white cube», in tre saggi per la rivista «Artforum». Egli aveva in mente

Il museo: riflessione o sensazionalismo? 219

un luogo del tutto artificiale, dal quale sono cancellate tutte le tracce del tempo,al fine di esporre l’arte in una falsa eternità. «Lo sviluppo del cubo bianco, imma-colato, senza luogo» è un trionfo del modernismo, ma reinventare «lo spazio dellagalleria come unità di un discorso estetico», e fondere simbolicamente il contestoespositivo con l’arte esposta, resta un’illusione. Il «cubo bianco» appare biancodappertutto e mette in mostra dovunque la stessa aura dell’arte. Una risposta alcubo è costituita dall’installazione spaziale, che si sviluppò allora in prossimità conla video art. Essa aveva il suo modello nella sovraffollata e caotica installazione spa-ziale dell’happening, introdotta da Allan Kaprow. Ben prima di Ilya Kabakov nac-quero nel museo progetti alternativi allo spazio museale, tali da attirare il visita-tore verso altri luoghi, in un ambiente privato e in un altro tempo. In tutti questitentativi, per quanto possano essere stati limitati all’arco di un intermezzo, si arti-cola una lotta per la rioccupazione e traspropriazione del museo in quanto luogo;che tale luogo sia affermato oppure negato non fa differenza. Non potrebbe appa-rire in modo più chiaro la qualità ambivalente e discutibile del luogo che chiamia-mo ancor sempre museo.

Uomini. Il museo non privilegia soltanto l’esperienza dello spazio, ma attendevisitatori che nel corso della visita, come in un concerto, tramandano un ritualedella cultura borghese. Ma è ancora sufficiente questo rituale per dare un senso almuseo del futuro? Certo, la pedagogia museale si sforza di adempiere ai compiticulturali del museo, intanto però non offre ancora al pubblico alcuna attività chegli sia specifica. Per adescare il pubblico (spesso nient’altro che un valore statistico)le mostre vengono organizzate al ritmo della cultura dell’evento, e accompagnateda visite guidate e conferenze. E tuttavia tutto questo attivismo del museo conti-nua a porre il pubblico in una condizione di passività. In ultima analisi il museoreclamizza solo le proprie esigenze. Si concepisce come un tempio i cui sacerdotiinvitano il popolo al sacrificio, e non come un foro presso il quale i cittadini discu-tono fra loro.

Gli Uomini nel museo che vengono rappresentati nella omonima raccolta di testiletterari curata da Christoph Stölzl sono singoli visitatori che hanno fissato nelricordo le loro esperienze personali, i loro sogni o i loro desideri irrealizzati. Quinon è il caso di parlarne, perché l’incontro con l’arte che essi vivono è qualcosa cheappartiene a loro soltanto. Sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Piuttosto è ingioco l’incontro con altri uomini nella cornice di esposizioni che, nel mediumdell’arte, toccano al tempo stesso questioni comuni a tutta un’epoca. Il consumodi arte, trasformato in osservazione guidata di un gruppo, è diventato da tempo

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l’unico tema delle attività di mediazione dei musei. Ma noi sappiamo da un pezzoche nelle attese del pubblico si è verificato un cambiamento. Anche nel museo itemi offrono maggiore attrattiva delle opere. Si allestiscono mostre tematiche, maancora una volta i temi sono prestabiliti e si sottraggono all’interazione del pubbli-co. Una parte organizza, l’altra consuma. Di conseguenza i musei si consegnanoalle aspettative insaziabili o al disinteresse benevolo del pubblico, che pagal’ingresso o critica il programma. I musei si difendono ancora sempre con porte ecustodi, senza rendere partecipe il pubblico, da un punto di vista contenutistico,dei propri progetti (gli sponsor sono un’altra questione).

5. Templi o fori?

Questa debolezza strutturale limita oggi il significato del museo. Si entra neimusei ancor sempre per ammirare l’arte o per denigrarla. A caratterizzare il feno-tipo del museo sono i turisti, con le loro frequenze di visita, non i cittadini, che nelmigliore dei casi vengono inclusi negli inviti per i vernissage. Così il museo promuo-ve la propria ghettizzazione. Esso è unilateralmente allineato sulla prassi espositi-va tradizionale e non si apre a un diverso modo di operare, che potrei definire pras-si dialogica. I luoghi di incontro diventeranno via via più importanti dei luoghi diintrattenimento e di consumo culturale. Oggi i fori di discussione si estinguono per noinon diversamente dalle cose e dai luoghi. I talk show offrono un pretesto per collo-qui che non hanno più luogo. Se il museo rimettesse in discussione il proprio ruo-lo, potrebbe arrivare a sospettare che il pubblico rappresenti soltanto una legitti-mazione statistica. Esempi dalla Francia e dall’Olanda, dove scrittori e filosofiincontrano il pubblico nel museo, mostrano quale direzione potrebbe prenderequesto sviluppo. Proprio un’epoca dipendente dalle immagini può compiere nelmuseo una diversa esperienza dell’immagine, se in esso è consentito qualcosa dipiù di una piacevole visita.

Non è la consistenza del patrimonio, ma le attività, a decidere del futuro deimusei. Non si tratta di adescare i curiosi con esposizioni sempre più attraenti, madi ampliare il senso delle esposizioni. Oggi i grandi musei chiedono aiuto a insignipersonalità come curatori ospiti, al fine di offrire, con allestimenti originali delproprio patrimonio, uno spettacolo a tempo determinato che possa interrompere latemuta assenza di eventi. Ma anche così si fa appello sempre soltanto allo spetta-tore. A costui è consentito esprimere tutt’al più il proprio gradimento nei confrontidell’uno o dell’altro allestimento. La mobilitazione di un pubblico critico è un com-

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pito che deve essere affrontato a piccoli passi, ad esempio tentando di pensare leesposizioni anche come occasioni per dibattiti pubblici che tocchino temi contro-versi del nostro tempo. Da questo punto di vista, la condizione privilegiata deglispazi museali apre prospettive attraenti. L’arte contemporanea possiede un poten-ziale discorsivo, ma occorre essere pronti a prendere posizione sulle sue affermazio-ni e a non accontentarsi delle domande stereotipate sull’arte.

Non è più così certo, tuttavia, che nella attuale società mediatica esista ancoraun pubblico critico, al quale il museo possa aprire le sue porte. Nel saggio citatoBenjamin richiamava l’attenzione su un nodo critico, quando scriveva: «Quantopiù il significato sociale di un’arte diminuisce, tanto più il contegno critico e quel-lo della mera fruizione da parte del pubblico divergono. Il convenzionale vienegoduto senza alcuna critica, ciò che è veramente nuovo viene criticato con ripu-gnanza». Oggi non è più in gioco soltanto il nuovo, ma il conflitto tra il profiloprofessionale dell’arte (nel senso del mercato dell’arte) e le sue pretese sociali (nelsenso di un impegno sui contenuti), dunque il problema di come si comportino gliartisti in questo conflitto e di come o perché essi esigano un pubblico. Ancheun’esposizione museale presenta di conseguenza diverse opzioni.

L’argomento può attirare su di sé il sospetto che si tratti di utopie da profani,tanto più che oggi nessuno può fornire ricette. Perciò esso può essere soltantoabbozzato. Il problema è ancora una volta quello del pubblico. Il museo può rag-giungere un pubblico diverso da quello accademico, che si raccoglie nelle sale perle conferenze. Il pubblico cittadino si lascia coinvolgere dal «proprio» museo, sesoltanto gli si concede una qualche partecipazione. Le attività sociali dei cosiddetticircoli di promozione, per quanto importanti, non possono esserne un surrogato.Nella tavola rotonda sul «museo discorsivo» avvenuta nel 2001 presso il museo perle arti applicate di Vienna, il padrone di casa Peter Noever osservò che al centro delmuseo non deve esserci il pubblico, ma l’arte, o più precisamente l’artista. Ci sichiede però se in questo caso il pubblico sia stato adeguatamente considerato.

L’ampliamento del concetto di arte (dalle installazioni agli ensemble nei qualimusica e figura formano un’unità) ha reso possibile ampliare in modo analogo lapartecipazione e l’interazione dei visitatori. A tal proposito Peter Noever osservavache le istituzioni artistiche rientrano «tra i pochi luoghi che in generale siano ingrado di analizzare la situazione della nostra società. Una tale analisi non può esse-re effettuata dai media». Solo se il museo, e non solo un singolo artista dotato dinuove idee, concepisce il suo compito come un compito politico, si può parlare dinuove incombenze del museo in un’epoca nella quale gli interessi politici della

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società vengono marginalizzati dalle tendenze corporative e dagli apparati buro-cratici. Anche la rappresentazione della cultura deve essere concepita come doman-da politica, quale essa già è in altre parti del mondo. Non è un pretesto per metterein scena dispendiose istituzioni come zone franche sovvenzionate.

6. Musei locali nell’epoca della globalizzazione

La globalizzazione costituisce per i musei una sfida di nuovo genere. Perché essidovrebbero «globalizzarsi», qualunque cosa ciò significhi, quando sull’intero glo-bo terrestre esistono già musei che vivono della propria ubicazione e in tal sensoinvitano al viaggio? Lars Nittve, il nuovo direttore del Moderna Museet di Stoc-colma, vuole trasformare la sua sede in un «museo globale». Egli intende con ciòl’ampliamento dell’ambito delle raccolte all’arte contemporanea extraoccidentale.È una richiesta giustificata, da quando la maggior parte dei musei si limita a invi-tare di nuovo i visitatori occidentali a una specie di giuramento sulla modernità,con la quale intanto noi non ci identifichiamo più in modo così assoluto. Anche seun tale mutamento di prospettiva giunge fin troppo tardi, non può costituirel’unica risposta alla globalizzazione. La nuova concorrenza che domina nelle Bien-nali e nelle esposizioni internazionali ci fa percepire in modo più acuto che lanostra geografia artistica, con la sua polizia di confine alla Hegel, non funzionapiù. In questa costellazione, anche il museo occidentale è posto davanti al compitodi rifondare la propria idea a partire da una storia specifica, rappresentandola informa rinnovata nel quadro di un’era globale.

Nella citata tavola rotonda viennese Lynne Cooke, curatrice del Dia Art Centerdi New York, definiva «il rapporto fra il locale e il globale» nell’arte contempora-nea come «non ancora chiarito». L’Occidente continua a impostare il discorso e ladirezione dello sguardo verso l’arte. Dagli artisti della cosiddetta «periferia» ci siaspetta ancora che essi «rappresentino lo spazio dal quale provengono», e che quindinel caso del Sudafrica prendano ad esempio posizione sull’apartheid, mentre unatale aspettativa non viene normalmente rivolta a un artista occidentale. «Abbiamoperso lo spirito del campo aperto» che dominava la scena artistica internazionaleprima che sorgesse l’idea di globalismo. Allora, gli artisti non occidentali non ave-vano bisogno di «esibire alcuna identità nazionale o regionale, né di contrassegnarela propria arte con insegne locali», nel caso in cui volessero avere successo in Occi-dente. Paghiamo quindi il prezzo della globalizzazione con nuove distinzioni cheminano alle basi le belle idee. Nella lotta per il potere fra le culture si delinea così

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una nuova fase, che si rif lette in modo conseguente sugli eventi del mercato, rego-lando al suo interno l’assegnazione dei posti.

Da tempo è divenuto necessario domandarsi quanto occidentale sia ancoral’arte che viene prodotta in Occidente, se è vero che protagonisti quali Nam JunePaik, celebrato come il padre della video art, sono cresciuti in Asia e hanno intro-dotto fin dagli anni intorno al 1960 una nuova mentalità nella scena artistica occi-dentale. New York è diventata nel frattempo il presidio più importante degli artisticinesi. Questa simbiosi esige dall’arte occidentale un’autopresentazione dialogicasulla ribalta del mondo globale. Abbiamo capito che anche l’Occidente, per quantosi atteggi ancora in modo tanto universalistico, è stato una cultura locale, e tutta-via non abbiamo ancora tratto da questa circostanza le debite conseguenze. Questeultime non consistono nell’abbandonare frettolosamente l’idea occidentale dimuseo, bensì esigono al contrario una rif lessione critica su di essa, in quanto tra-dizione locale del ricordo. I musei sono atti a occupare un luogo simbolico, in cuipossa essere esperita un’identità collettiva. Il loro senso non può consisterenell’esporre dappertutto gli stessi protagonisti della scena artistica contemporanea,assumendo quale metro sempre soltanto il mercato, bensì nel suscitare conflittiche modifichino la loro immagine pubblica. La sfida della condizione globaledipende dal concepire luoghi dell’identità, nei quali possa formarsi una nuovadimensione pubblica, che non rimanga confinata al cosiddetto pubblico dell’arte.

Oggi la questione di come debba essere esposta nei nostri musei l’arte non occi-dentale non concerne più soltanto l’allestimento o il commento. Il modo espositivo,con i suoi noti problemi, ha dato ben più da fare negli anni Ottanta, quando tra il1984 (esposizione Rubin al Museum of Modern Art) e il 1989 (esposizione J.H.Martin a Parigi) l’arte contemporanea di altre culture che non hanno musei némercato fece il suo ingresso sulla scena artistica occidentale. Crollò allora definiti-vamente il logoro dualismo fra museo d’arte (arte occidentale) e museo etnografi-co. Si aprirono improvvisamente gli spazi geografici in precedenza rappresentatidai due tipi di museo, e venne meno il confine temporale oltre il quale la culturaoccidentale aveva monopolizzato il moderno: Arthur Danto, richiamandosi aHegel, l’aveva chiamato «the pale of history». La discussione sul museo nell’era glo-bale (da non confondere con il fantasma di un «museo globale») non riguarda sol-tanto i rapporti con le altre culture e non si lascia isolare quale caso particolare nelpigro paesaggio museale. Essa deve trovare posto in un riordinamento generale deimusei, anche nel caso in cui ciò implichi una minaccia per la consistenza deipatrimoni.

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Non è molto sensato delineare belle teorie sulla mediazione e sull’esposizionedell’arte extraeuropea, se sulla scena museale berlinese sopravvive in malafede ilvecchio dualismo con il quale viene difesa l’arte occidentale. È più proficuo cam-biare la disposizione dei quadri nelle sale che organizzare un convegno sul tema.Ciò concerne il problema del canone, poiché la disposizione museale dei quadricoinvolge la durata e quindi la continuità, cosa che non vale per le mostre tempo-ranee. Il museo, più che un luogo, è un presidio della cultura ufficiale che si affer-ma attraverso l’esposizione. Questo canone, e con esso la garanzia dell’identità cul-turale, appare oggi minacciato se si concede all’arte non occidentale una parte nel-la geografia simbolica che si rispecchia nelle sale del museo. Così, esattamentecome nei piani di studio e nel canone disciplinare dell’università, si preferisce evi-tare il conflitto, in un luogo che vorremmo volentieri immune da conflitti, proprioper salvaguardare la rappresentazione che vi si svolge.

Il museo nella storia della cultura europea è ancora un’istituzione giovane, lacui storia coincide con quella del moderno. Nei suoi duecento anni di vita ha muta-to più volte aspetto e continuerà a farlo anche in futuro, senza per questo cessaredi esistere. Possiamo considerare il museo come un medium pubblico di tipo par-ticolare, che dispone di immagini resistenti all’oblio e che rende in generale vivi-bile il ricordo. Ma il museo è un medium di uso pubblico, come lo sono tutti imedia. I media non esistono senza un contesto d’uso o in contrasto con esso. Imusei non possono esistere contro la società, né possono sottrarsi alla sua presa.Gli stessi artisti invitano sempre più il pubblico a intervenire, tentando forme cheabbandonino il rapporto frontale con i fruitori. Anche il museo può cercare per sénuove funzioni, traendo profitto dalla sua alterità e dalla sua posizione privilegia-ta. Non si tratta di rendere attraente l’antico tempio dell’arte con allestimenti allamoda. Abbiamo bisogno di un museo discorsivo, che prenda parte alla formazione diun pubblico nuovo.

(traduzione di Piero Cresto-Dina)

Stampato per le edizioni Traubenpresso Viva srl – Torino