I diritti all'identità sessuale e il ruolo della morale pubblica
Deleuze interprete di Nietzsche: la morale giudaico-cristiana dal risentimento alla cattiva...
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SAPIENZA - UNIVERSITÀ DI ROMA Facoltà di Filosofia
Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e Studi Teorico-Critici
Deleuze interprete di Nietzsche:
la morale giudaico-cristiana dal risentimento
alla cattiva coscienza
Materia Tesi: Storia delle dottrine teologiche
Relatore:
Prof. Gaetano Lettieri
Correlatore:
Prof. Daniele Guastini
Tesi di Laurea di:
Cristiano Carchidi
Matricola: 1096570
Anno Accademico 2011-2012
Indice
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INDICE Introduzione 1
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo 4
1.1 La genealogia come critica, il senso e il valore 4
1.2 La genealogia e la storia 10
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana 16
2.1 Il risentimento 18
2.1.1 Topologia del risentimento 25
2.1.2 Tipologia 28
2.1.3 L’azione del prete ebraico 31
2.2 La cattiva coscienza 33
2.2.1 Dal risentimento alla cattiva coscienza 33
2.2.2 Pena, dolore, colpa 35
2.2.3 L’intervento del prete cristiano 40
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico 45
3.1 Dall’ebraismo al cristianesimo 45
3.2 La psicologia del redentore 53
3.3 La psicologia di San Paolo 57
Capitolo 4: Ascesi come potenza 64
4.1 L’ideale ascetico 64
4.2 Il Nichilismo 72
4.3 La volontà di potenza 78
Capitolo 5: Il valore della differenza 85
5.1 Il corpo e l’esistenza 85
5.2 L’eterno ritorno del differente 92
5.3 La morte dell’uomo e il superuomo 102
Conclusioni 108
Bibliografia 115
Introduzione
1
Introduzione
Per dare una panoramica dell’interpretazione di Nietzsche della morale giudaico-
cristiana, ho preso come riferimento il testo di Gilles Deleuze Nietzsche e la
filosofia, concentrandomi principalmente su quei passi che fanno riferimento alla
Genealogia della morale. È fondamentale in un discorso del genere chiarire fin da
subito quale sia il metodo genealogico e da dove derivi il suo valore per
un’interpretazione della storia. Il primo capitolo sarà dedicato alla descrizione
della genealogia come nuova metodologia storica.
Oltre al testo di Deleuze sarà utilizzato un breve saggio di Michael Foucault
Nietzsche, la genealogia, la storia. Seguendo il testo di Nietzsche si ricerca su
quale campo siano potuti nascere determinati valori morali e quale sia il valore
della morale in se stessa. Deleuze definisce esplicitamente la filosofia di
Nietzsche come filosofia del senso e del valore e chiarisce come non si possa dare
una critica prescindendo da questi concetti. Nella Genealogia della morale,
Nietzsche inizia la critica dei valori morali partendo dall’analisi dei valori -buono
e cattivo- e ponendoli in relazione con i successivi -buono e malvagio-. Ricerca
sia etimologicamente sia storicamente dove si possano essere prodotte differenza
e trasformazione di una morale che nasce come “Morale dei signori”, nella quale
l’attività trova massima espressione, e diviene una “Morale degli schiavi”, dove la
reattività che conduce direttamente al nichilismo prende il sopravvento.
Tenteremo di descrivere ciò che Deleuze definisce come rapporti di forze (attive e
reattive), in cui esse si qualificano in base al ruolo gerarchico che assumono. Si
analizzeranno in seguito, sulla scorta di Deleuze, i concetti di risentimento e
cattiva coscienza che per Nietzsche sono così centrali nella storia che procede dal
Giudaismo al Cristianesimo fino ad arrivare alla modernità (socialismo,
comunismo, democrazia).
Si potrebbe fare un confronto tra religione ebraica e religione cristiana,
ricercandone i relativi rapporti per riconoscere i momenti in cui si produce una
fuoriuscita del cristianesimo dal Giudaismo. Un ruolo centrale rivestirà Paolo di
Tarso. Secondo Nietzsche, come scrive chiaramente Deleuze, il risentimento e la
Introduzione
2
cattiva coscienza sono “prodotti” dall’azione di colui che è l’indirizzatore dei
sentimenti morali: il prete, ebraico e cristiano. Si analizzerà dunque la figura del
prete, con particolare attenzione ai tentativi di descrizione psicologica data da
Nietzsche di Gesù Cristo e di San Paolo (soprattutto quest’ultimo sarà preso come
esempio del “prete-potente”). Commentando passi delle epistole di Paolo si
metterà in rilievo come la rivoluzione cristiana sia stata possibile soprattutto
grazie alla genialità del tipo-prete per eccellenza, capace di trasformarsi da
persecutore a fautore della “Religione universale” e di diventare probabilmente il
primo “profeta” del nichilismo. Il Cristianesimo viene interpretato, dunque, come
operazione eminentemente politica piuttosto che strettamente teologica.
Dall’analisi del prete dovrebbe emergere quello che Nietzsche definisce l’ideale
ascetico, punto focale da cui si snodano i concetti di nichilismo e volontà di
potenza.
Il risentimento, la cattiva coscienza e l’ideale ascetico risulteranno essere delle
maschere attraverso cui si impone il nichilismo che Deleuze distinguerà in
negativo, reattivo e passivo. Il nichilismo verrà definito come volontà del nulla
che inizialmente nega la vita reale in favore di un al di là in cui pone i valori e
crea la figura del Dio-unico. Dopo l’assassinio di Dio da parte dell’uomo il
nichilismo non si diffonderà più come volontà del nulla, ma in senso reattivo
come nulla di volontà. L’uomo che ha perso la credenza nel Dio unico e nei valori
superiori non riesce a trovare un senso all’esistenza ed eclissa la sua volontà fino a
spegnersi passivamente (momento buddhistico, nichilismo passivo).
Definendo il nichilismo come volontà del nulla o nulla di volontà, ciò che
Nietzsche pensa (secondo Deleuze) sempre in azione è una volontà che resta tale
anche quando vuole il nulla. Si tenterà, dunque, di descrivere questo particolare
tipo di volontà che Nietzsche definirà volontà di potenza. Si vedrà come Deleuze
abbia tentato di interpretare il concetto della volontà di potenza nietzschiana,
chiarendo fin da principio che essa non è in nessun modo una volontà, in senso
psicologico e antropomorfico, che vuole la potenza. Deleuze ribalterà i termini del
concetto con una geniale interpretazione della volontà di potenza come potenza di
volontà.
Introduzione
3
Infine, nell’ultimo capitolo, si tenterà di far emergere la particolarità
dell’interpretazione deleuziana della filosofia di Nietzsche e soprattutto ciò che di
questa filosofia più ha influito sul pensiero del filosofo francese. Saranno ripresi i
concetti di corpo ed esistenza per rintracciare il nuovo senso affermativo che,
secondo Deleuze, è operante nell’idea di una trasvalutazione di tutti i valori. Se
corpo ed esistenza sono sempre stati intesi in senso reattivo, come coscienza e
sopravvivenza, Deleuze tenterà di fare emergere da questi fenomeni il senso
affermativo che prevede una trasvalutazione della qualità negativa della volontà di
potenza che ne ha sempre interpretato il senso in modo da prosciugarne la forza
vitale annichilendolo. Arriveremo quindi ad introdurre l’interpretazione forse più
originale e complessa offerta da Gilles Deleuze sulla filosofia di Nietzsche,
intendere la concezione dell’eterno ritorno come eterno ritorno del differente.
Deleuze pensa che Nietzsche, concependo esclusivamente il divenire, rintracci nel
suo fluire costante il suo essere che si esprime nel ritornare. Secondo Deleuze ciò
che è identico nell’eterno ritorno è il ritorno stesso, mentre ciò che ritorna è
eternamente differente. L’eterno ritorno verrà dunque presentato come pensiero
etico e selettivo, contrapposto all’idea greca della ciclicità del tempo.
Si vedrà come il pensiero di Deleuze abbia attinto parecchio dalla dottrina
dell’eterno ritorno inteso come ritorno del differente. Nei suoi testi più importanti,
Differenza e ripetizione e La logica del senso, partirà dalla concezione
dell’eternamente differente per negare la possibilità che si diano identità
conoscibili o sensi finali e unitari invece che molteplici e differenti.
L’ultimo paragrafo del capitolo finale sarà dedicato ad un confronto tra i due
pensatori che forse più hanno subito l’influenza di Nietzsche, Gilles Deleuze e
Michael Foucault, partendo da una scritto dedicato dal primo al secondo in cui
Deleuze ,trattando l’idea foucaultiana della morte dell’uomo, arriva a concepire la
possibilità di un superuomo, inteso non come uomo superiore ma come nuovo
tipo della forma uomo.
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
4
Capitolo 1
Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
1.1. La genealogia come critica, il senso e il valore.
La Genealogia della morale è il testo in cui convergono e prendono forma i
pensieri sulla storia della morale che per Nietzsche hanno sempre avuto
un’importanza capitale e la cui valutazione lo ha coinvolto in quasi tutte le sue
opere, eccezion fatta per la Nascita della Tragedia. Soprattutto in scritti quali
Umano troppo umano, Aurora e Al di là del bene e del male, i pensieri sulla
morale rappresentano il filo conduttore attraverso cui Nietzsche cerca di indagare
il suo tempo, che vede in continua decadenza. La grande novità introdotta da
Nietzsche nella Genealogia della morale, è il metodo attraverso cui indaga la
storia della morale giudaico-cristiana, il metodo genealogico, senza la cui
comprensione è difficile capire come Nietzsche sviluppi alcune interpretazioni
della morale dominante.
Il metodo genealogico ha naturalmente a che fare con la storia, ma vuole essere
prima di tutto un metodo critico del tutto nuovo rispetto alla tradizione della
critica filosofica che arriva fino a Kant. La differenza si pone nella centralità che
Nietzsche dà ai concetti di senso e di valore e nella interpretazione di essi non
come un qualcosa di dato una volta per sempre, ma come entità che cambiano
continuamente polarizzazione in base alla forza che se ne impadronisce.
Vediamo come Gilles Deleuze nel testo Nietzsche e la filosofia, in maniera molto
complessa, cerca di spiegare la differenza tra la nuova critica iniziata da Nietzsche
e la critica tradizionale
“Nel caso di Nietzsche dobbiamo prendere le mosse dal fatto che la filosofia dei
valori, com’è da lui istituita e intesa, è la vera realizzazione della critica, il solo
modo di realizzare la critica totale, ossia di fare filosofia «a colpi di martello». La
nozione di valore implica infatti un sovvertimento critico”1.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!1 G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, Presses Universitaires de France, Paris 1962; trad. it. Nietzsche e la
filosofia, Piccola Biblioteca Einaudi, Milano, 1992, p.3
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
5
La differenza della critica dei valori che si ha con Nietzsche consiste nel fatto che
mentre prima di lui i valori erano considerati dei principi e ogni valutazione
utilizzava i valori dati per valutare i fenomeni (senza porli in questione), per
Nietzsche invece è il valore stesso che deve essere valutato per capire da dove
proviene. Il problema di Nietzsche è quello di comprendere come un valore sia
stato creato, inventato o ancora meglio prodotto:
“La valutazione si profila quale elemento differenziale dei valori ad essa
corrispondenti: elemento critico e creativo al tempo stesso. Le valutazioni
restituite al loro proprio elemento, non sono valori, ma modi di essere, di esistere,
da parte di chi giudica e valuta: fungono così da principi a quei valori in base a cui
si giudica e valuta”2.
Ciò che fa la genealogia è investigare sullo sviluppo di questi valori, su come si
sono formati, escludendo la possibilità di coglierli così come si presentano nella
loro idealità. La genealogia coglie nella genesi e nello sviluppo di un concetto non
la continuità che dall’inizio porta già in sé la (il) fine, ma le differenze che si
producono, i punti di vista che convergono e divergono, il conflitto tra forze che
vogliono impadronirsi di un valore per soggiogarlo al proprio senso.
“Genealogia vuol dire valore dell’origine e, al tempo stesso origine dei valori.
Genealogia si contrappone tanto al carattere assoluto dei valori, quanto al loro
carattere relativo o pratico. Genealogia significa elemento differenziale dei valori
da cui deriva il loro stesso valore. Genealogia vuol dire dunque origine e nascita,
ma anche differenza o distanza nell’origine. Genealogia vuol dire nobiltà e
bassezza, nobiltà e viltà, nobiltà e decadenza nell’ordine. Il nobile e il vile, l’alto e
il basso, questo è l’elemento propriamente genealogico o critico”3.
Nel concepire una genealogia della morale, intesa come giudaico-cristiana,
Nietzsche non pone la critica sul piano dei valori dati da questa morale specifica.
Ciò che più gli preme è indagare il valore della morale in genere e ricercare
costantemente la genesi dei valori considerati prettamente morali. I termini buono
e cattivo e buono e malvagio, ad un’analisi più attenta possono ricondurre a verità
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!2 Ibidem, p. 4. 3 Ibidem, p. 5.
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
6
diverse da quelle considerate eternamente date dal significato che siamo soliti
attribuire a questi concetti.
Ciò che interessa a Nietzsche nella critica dei valori morali è “Ricondurre ogni
cosa e l’origine di qualunque valore a dei valori; ma anche ricondurre questi
valori a qualcosa che ne sia l’origine, che decida il loro valore”4. Ogni valore
presuppone dunque una valutazione: il senso non è conferito dal suo essere ma
dall’intervento di una forza che gli ha conferito una direzione specifica, un verso.
Il lavoro del genealogista è dunque critico e creativo al tempo stesso; non è un
lavoro obiettivo simile a quello di un giudice che emette le sentenze in un
tribunale, come quello di Kant che utilizza il principio dell’universalità. Non è
neanche il lavoro di un meccanico che utilizza degli arnesi nella maniera degli
utilitaristi inglesi (i quali rappresentano il bersaglio critico della Genealogia fin
dall’inizio della Prefazione in cui Nietzsche stabilisce l’enorme distanza da una
visione della morale simile a quella di Paul Reè), Nietzsche critica la visione
“ingenua” degli utilitaristi inglesi che analizzano i valori della morale in base ad
un principio di utilità da loro arbitrariamente inserito nel contesto. Ciò che
interessa a Nietzsche è cogliere la differenza e la distanza dello sviluppo rispetto
all’origine di un concetto o di un valore, non la sua universalità o utilità. Il
genealogista deve dunque avere una parte attiva, compiere una continua
interrogazione, interpretare.
“In questo libro troviamo all’opera «un essere sotterraneo», uno che perfora,
scava, scalza di sottoterra. Posto che si abbia occhi per un tale lavoro in
profondità, lo si vedrà avanzare lentamente, cautamente, delicatamente
implacabile, senza che si tradisca troppo la pena che ogni lunga privazione di luce
e d’aria comporta”5.
Dunque l’interpretazione è il compito proprio del genealogista che deve essere
capace di cogliere il senso di un fenomeno o di un valore e di conseguenza
scoprire quale sia la forza che se ne è appropriata e la direzione che gli ha
conferito. Il senso è sempre molteplice perché sono molteplici le forze che
momentaneamente s’impadroniscono dell’oggetto. Interpretare il senso
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!4 Ibidem, p. 4. 5 F. Nietzsche, Aurora, Adelphi Edizioni, Milano, 2006, p. 3.
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
7
presuppone il passaggio successivo che è la valutazione dell’interpretazione. Le
forze sono sempre plurali perché sono costantemente in contrasto tra loro in una
lotta continua tra dominante e dominato. L’interpretazione è possibile per la
distanza che c’è tra forza e forza, questa distanza è la macchia cieca su cui si può
inserire il lavoro del genealogista. La distanza tra le forze è la loro differenza, il
rapporto tra le forze è volontà intesa come potenza. “La volontà, volontà di
potenza è l’elemento differenziale della forza” 6 . In ogni azione, in ogni
valutazione è presupposta una volontà che agisce su un’altra volontà, una delle
quali obbedisce mentre l’altra comanda. L’interpretazione e la valutazione
genealogica devono cogliere il pluralismo presente in ogni cosa:
“Nell’idea pluralistica di una cosa a più sensi, nell’idea di più cose, di un «questo
e poi quello» per la medesima cosa, possiamo scorgere la più grande conquista per
la filosofia: la conquista del vero concetto, la sua maturità, piuttosto che la sua
rinuncia o la sua infanzia, proprio perché la valutazione di questo e quello, il
delicato soppesare le cose e i sensi di ciascuna di esse, la stima delle forze che
definiscono in ogni istante gli aspetti di una cosa e i suoi rapporti con le altre-
insomma proprio perché tutto questo (o quello) proviene dall’arte più alta della
filosofia, l’arte dell’interpretazione. Interpretare e valutare significa soppesare”7.
Ogni forza per potersi appropriare di un oggetto deve presentarsi travestita da
altro, indossare una maschera; la difficoltà del lavoro genealogico è proprio quello
di cogliere il significato di ciò che agisce sotto ogni maschera e ciò verso cui
tende il suo travestimento. La difficoltà di cogliere l’origine è rappresentata dal
fatto che essa è celata dietro una trasfigurazione e il lavoro genealogico non può
agire direttamente sull’origine ma deve interrogare lo stato attuale di sviluppo,
unico momento per cogliere le differenze che nel processo agente dall’origine alla
maturità ha prodotto il significato che appare nel momento in cui lo si guarda.
Il genealogista non ricerca, dunque, l’origine ma la differenza tra essa e lo stato
attuale della cosa, i punti di rottura che nello sviluppo storico produce l’attuale.
“Perché mi ritorna sempre questo pensiero e mi arride in colori sempre più vari? Il
pensiero che una volta i pensatori, quando erano sulla strada diretta all’origine
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!6 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.11. 7 Ibidem, pp. 7-8.
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
8
delle cose, credevano di trovare sempre qualcosa di ciò che avrebbe avuto per
ogni agire e giudicare un significato inestimabile; che fosse anzi costantemente
presupposta una dipendenza della salvezza umana da una piena cognizione
dell’origine delle cose: mentre noi oggi al contrario, quanto più perseguiamo
l’origine, tanto meno ne siamo partecipi con i nostri interessi; anzi, tutte le
valutazioni e «gli interessi» che abbiano posto nelle cose cominciano a perdere il
loro senso, quanto più regrediamo con la nostra conoscenza a giungere alle cose
stesse. Con la piena cognizione dell’origine aumenta l’insignificanza
dell’origine”8.
È interessante integrare il problema del rapporto tra genealogia e ricerca
dell’origine (presentato da Deleuze) con le parole di Michael Foucault, il quale,
all’interno della Microfisica del potere, inserisce un breve saggio intitolato:
Nietzsche, la genealogia, la storia. Nei primi due paragrafi di questo brevissimo
scritto, il filosofo francese focalizza la sua attenzione sul problema dell’origine
inerente alla ricerca genealogica. Foucault dimostra come Nietzsche usi raramente
il termine Ursprung per designare l’obiettivo della sua ricerca. Non è l’origine
come Ursprung, come identità, essenza e purezza nell’origine; essa non è intesa
da Nietzsche in nessun modo come momento iniziale che si dà in tutta la sua
veridicità: “Ricercare una tale origine, è tentare di ritrovare «quel che era già», lo
«stesso» di un’immagine esattamente adeguata a sé”9. Ma non è questo il lavoro
del genealogista, il quale si distacca dal pensiero metafisico di un’origine del tutto
uguale allo stato attuale per scoprire che “Dietro le cose c’è «tutt’altra cosa»: non
il segreto essenziale e senza data, ma il segreto che sono senza essenza, o che la
loro essenza fu costituita pezzo per pezzo a partire da figure molto estranee”10.
Nel fare una genealogia dei valori morali non si cerca l’origine, intesa come
momento essenziale di un valore che procede dal nulla e come una linea retta
giunge fino al momento attuale senza modificare il proprio significato, ma molto
più sottilmente per il genealogista: “bisogna saper riconoscere gli avvenimenti
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!8 F. Nietzsche, Aurora, cit., p. 39. 9 M. Foucalt, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in «Hommage à Jean Hyppolite», Paris 1971; trad. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Einaudi, 1977, Torino, p.31. 10 Ibidem, p.32.
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
9
della storia, le sue scosse, le sue sorprese, le vacillanti vittorie, le sconfitte mal
digerite, che rendono conto degli inizi, degli atavismi e delle eredità”11.
È in questo punto che s’instaura la differenza con una ricerca dell’origine di
carattere metafisico, del resto:
“La storia, colle sue intensità, cedimenti, furori segreti, le sue grandi agitazioni
febbrili come le sue sincopi, è il corpo stesso del divenire. Bisogna essere
metafisico per cercarle un’anima nell’idealità lontana dell’origine”12.
Secondo Foucault il vero lavoro del genealogista è quello di scovare i momenti di
rottura inerenti alla storia di una cosa, i momenti di discontinuità in cui una certa
interpretazione domina sulle altre e dà al valore un determinato senso. Se non è
l’origine intesa come Ursprung che guida la ricerca genealogica, sono istanze
come la provenienza (Herkfunt) e l’emergenza (Entstehung) che interessano al
genealogista. Herkfunt designa la provenienza come legata strettamente alla
nascita, al sangue, alla tradizione. La ricerca della provenienza non si attua per
trovare le somiglianze tra l’origine e la realtà attuale di una cosa, ma proprio per
trovare e indicarne le differenze nella storia evolutiva che produce un determinato
fenomeno così com’è nella sua diversità: “la provenienza permette anche di
ritrovare sotto l’aspetto unico d’un carattere o d’un concetto la proliferazione
degli avvenimenti attraverso i quali (grazie ai quali, contro i quali) si sono
formati”13. La provenienza designa il particolare modo in cui la storia si è iscritta
in un corpo, inteso come campo su cui si scontrano forze che gli conferiscono un
certo significato. Entstehung sta a designare l’emergenza come apparizione. Il
concetto di emergenza, riferito ad un significato, si pone in netto contrasto con
una presunta storia fatta di continuità che non subisce interruzioni.
“Come se dagli abissi del tempo l’occhio fosse apparso per la contemplazione,
come se la punizione fosse sempre destinata a fare esempio. Questi fini,
apparentemente ultimi, non sono nulla di più che l’episodio attuale d’una serie di
asservimenti: l’occhio fu dapprima asservito alla caccia e alla guerra; la punizione
fu volta a volta sottomessa ai bisogni di vendicarsi, di escludere l’aggressore, di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!11 Ibidem, p.34. 12 Ibidem, p.34. 13 Ibidem, p. 35.
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
10
liberarsi nei confronti della vittima, di spaventare gli altri. Ponendo il presente
all’origine, la metafisica fa credere al lavoro oscuro d’una destinazione che
cercherebbe di farsi strada sin dal primo momento”14.
Ancora una volta con l’uso del termine emergenza, Nietzsche, cerca di attuare una
sorta di superamento della visione metafisica della storia. L’emergenza mette al
centro la forza, il conflitto tra le forze e la vittoria di una sulle altre. La forza
vittoriosa si appropria dell’oggetto per caratterizzarlo. È proprio in questo luogo
che si inserisce la figura della volontà di potenza.
1.2. La genealogia e la storia “La genealogia è la storia come carnevale concertato”
M. Foucault
Che per Nietzsche la storia sia la continua griglia di analisi attraverso cui deve
passare una seria valutazione della realtà attuale, appare chiaro fin da uno dei suoi
scritti giovanili facente parte delle Considerazioni Inattuali: Sull’utilità e il danno
della storia per la vita. In questo testo è già presente sotto forma di crisalide uno
dei più importanti spunti della sua futura, matura filosofia: la storia come
conoscenza ed il suo rapporto con la vita. Non è qui possibile soffermarci sul
rapporto tra storia e vita, ma va detto che ciò che Nietzsche cercò di fare con
questo scritto è riuscire ad asservire la storia alla vita o, per meglio dire, far sì che
non sia la vita che s’immerge nella storia, ma tutto al contrario che sia la storia
utile alla vita.
“Può cominciare la nostra considerazione sul valore della mancanza di valore
nella storia. In essa si esporrà infatti perché un’istruzione senza vivificazione,
perché un sapere in cui l’attività si infiacchisce, perché la storia in quanto preziosa
superfluità di conoscenza e in quanto lusso, ci debbano essere sul serio […]
odiosi”15.
La storia resta fondamentale per cogliere la realtà, ma arreca con sé un gran
pericolo che Nietzsche chiama: ipertrofia storica. Con questa definizione vuol far
cadere l’accento su come “solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!14 Ibidem, pp. 37-38. 15 F.Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi Edizioni, Milano 2007, p.3.
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
11
la storia: ma c’è un modo di coltivare la storia e una valutazione di essa, in cui la
vita intristisce e degenera”16 . Il bersaglio della polemica di Nietzsche erano gli
storici dell’epoca i quali, non riuscendo a congiungere in un rapporto equilibrato
storia e vita, da dotti ed eruditi quali erano, creavano un forte squilibrio a favore
della storia che mette in pericolo l’agire, la vita.
La storia rimane però per Nietzsche, elemento costitutivo e costituente la realtà,
unico terreno da cui è possibile partire per una seria analisi della vita (come si può
vedere facilmente dalla critica del pericolo in cui rischia di cadere il senso critico
della storia, nel momento in cui si vuole costruire un presente senza tempo).
Obiettivo del testo è sicuramente quello di evitare un uso sproporzionato e non
prospettico della storia in cui essa andrebbe ad assumere un carattere assoluto e
soprattutto una continuità razionale. Modalità pericolosa di trattare la storia è
appunto quella di sovrapporla alla vita, di renderla più importante di quest’ultima
e con questo di mettere in pericolo l’azione. Utilizzando alcuni versi del Leopardi,
Nietzsche pone il paragone tra l’umano senso storico e quello dell’animale, nel
quale esso è del tutto assente ed ogni attimo è assolutamente nuovo. Vuole
mostrare quanto un istanza, l’oblio, sia fondamentale per l’azione e la vita e come
senza di esso: “un uomo che volesse sentire sempre e solo storicamente sarebbe
simile a colui che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che
dovesse vivere solo ruminando e sempre per ripetuta ruminazione”17.
In questo primo testo che tratta esplicitamente di storia, Nietzsche la distingue
sotto tre forme, ognuna necessaria ad uno specifico “tipo” di uomo: la storia
monumentale che serve all’attivo e al potente, la storia antiquaria che serve a chi
conserva e venera e, infine, la storia critica per chi ha bisogno di cancellare il
passato per aprirsi un varco nel presente. Ognuno di questi tipi di storia spetta ad
uno specifico tipo di persona. È causa di grande pericolo che una qualunque di
queste tipologie di storia venga utilizzata da un diverso tipo di uomo. Sia la storia
monumentale sia la storia antiquaria che quella critica, modi di utilizzare la storia
per la vita, rischiano, se degenerano, di cadere nel pericolo fatale, non asservire
più la vita, ma negarla, bloccarla, sommergerla.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!16 Ibidem, p.3. 17 Ibidem, p.8.
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
12
“In che giova dunque all’uomo d’oggi la considerazione monumentale del
passato, l’occuparsi delle cose classiche e rare delle epoche precedenti? Egli ne
deduce che la grandezza, la quale un giorno esistette, fu comunque una volta
possibile, e perciò anche sarà possibile un’altra volta; egli percorre più
coraggiosamente la sua strada, poiché ora il dubbio che lo assale nelle ore di
debolezza, di volere forse l’impossibile, è spazzato via”18.
La storia monumentale ricerca le vette più alte dell’umanità in cui ritrovare la
stessa altezza che il potente trova in sé nel presente e che lo assicura che ciò che
di grande è avvenuto nel passato può ripetersi nuovamente. Ma cosa succede nel
caso in cui la storia monumentale diventa assoluta e sovrasta gli altri due tipi di
storia? Nietzsche risponde che: “se la considerazione monumentale del passato
domina sulle altre forme di considerazione, voglio dire sull’antiquaria e sulla
critica, lo stesso passato ne soffre danno: intere, grandi parti di esso vengono
dimenticate, spregiate, e scorrono via come un grigio e ininterrotto flusso, mentre
emergono come isole solo singoli fatti abbelliti”19.
Il rischio di un’ipertrofia della considerazione storica monumentale del passato è
quella di escludere ciò che non sta in vetta, di fare un continuum tra i punti più
alti, escludendo il resto e finendo quindi per falsare la storia.
Passando a trattare la storia antiquaria Nietzsche dice: “della storia ha bisogno in
secondo luogo colui che custodisce e venera - colui che guarda indietro con
fedeltà e amore, verso il luogo onde proviene, dove è divenuto; con questa pietà
egli per così dire paga il debito di riconoscenza per la sua esistenza”20. La
considerazione antiquaria della storia, consiste nel rispetto assoluto per la
tradizione, nel sentirsi fermamente e fortemente attaccati alle proprie origini, da
cui non ci si vuole staccare e che anzi si mettono in risalto e non si vogliono
dimenticare. Figli della tradizione, della patria, dei propri avi, il rischio in cui
incorrono è quello di sopravvalutare l’importanza che hanno le radici nel presente
e, per usare una metafora, nella crescita della pianta:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!18 Ibidem, p.19. 19 Ibidem, p.21. 20 Ibidem, p.24.
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
13
“La storia antiquaria degenera nel momento stesso in cui la fresca vita del
presente non la anima e la ravviva più. Ora la pietà s’inaridisce, ora l’abitudine
erudita continua ad esistere senza la pietà e gira in modo egoistico e compiaciuto
intorno al proprio centro. Allora si osserva il ripugnante spettacolo di una cieca
furia collezionistica, di una raccolta incessante di tutto ciò che è una volta
esistito”21.
La degenerazione della considerazione storica antiquaria, consiste
nell’annullamento della possibilità di ogni azione, considerando il passato come in
ogni caso più importante e valoroso del presente e del futuro, l’agire passa quindi
in secondo piano rispetto alla venerazione e ripetizione costante del passato.
Introducendo la visione critica della storia, Nietzsche sembra inizialmente trovare
in essa la giusta soluzione. La storia critica come storia recisa, tentativo di crearsi
un presente che non derivi dal proprio passato, ma che lo nega e lo vuole
dimenticare. È però presente in essa un pericolo per certi versi opposto ai
precedenti, la storia critica rischia di annullare la storia e, senza di essa, non avere
più il terreno da cui poter muovere per l’azione.
Dicevamo, dunque, che il metodo genealogico, introdotto da Nietzsche stesso
nella Prefazione della sua Genealogia della morale, è un metodo innovativo di
indagare la storia che Nietzsche “scopre” circa tredici anni dopo la stesura della
“II Inattuale”. Michael Foucault, forse l’unico vero prosecutore della ricerca
genealogica, utilizza questo metodo in varie ricerche, compiute nel periodo
maturo della sua carriera, sul potere, sul soggetto sulla sessualità, ecc. Nel già
citato saggio intitolato Nietzsche, la genealogia, la storia descrive il metodo
genealogico in Nietzsche, il suo rapporto con la storia e con gli storici del tempo.
Nel settimo e ultimo paragrafo di questo breve scritto, Foucault introduce tre
nuovi sensi in cui si può intendere la storia, così come concepita da Nietzsche
nella Genealogia della morale e li mette in rapporto di superamento con le
precedenti visioni storiche che abbiamo visto utilizzare da Nietzsche nella II
Considerazione inattuale.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!21 Ibidem, p.27.
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
14
Il primo tipo di storia che Foucault presenta è “l’uso parodistico e distruttore di
realtà”, che si contrappone alla “storia monumentale”. Dove quest’ultima coglie
nel passato una sorta di continuità con i momenti più elevati di esso e così facendo
annulla la possibilità di creare qualcosa di interamente nuovo. Quest’uso beffardo
della storia riconosce la parodia che sta dietro questa presunta continuità e ne
segue il processo che è un mero passaggio di maschera in maschera.
Il secondo uso della storia compie, secondo Foucault, una dissociazione
sistematica della nostra identità. Mentre nella storia come parodia era centrale la
negazione di una sorta di continuità ideale della storia, è qui in questione
l’identità:
“La storia genealogicamente diretta, non ha per fine di trovare le radici della
nostra identità, ma di accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il
luogo unico da dove veniamo, questa prima patria dove i metafisici ci promettono
che faremo ritorno; essa si occupa di far apparire tutte le discontinuità che ci
attraversano”.
Questo modo di usare la storia si contrappone alla storia antiquaria, il cui
obiettivo era proprio quello di riconoscere la propria identità interamente
nell’universo del proprio passato. Ciò che vuole fare il metodo genealogico è
“mettere in luce i sistemi eterogenei che, sotto la maschera del nostro io, ci
interdicono ogni identità”. Ancora una volta la continuità nell’identità non è altro
che una maschera, in questo caso, di un “noi stessi”22.
Il terzo e ultimo uso della storia che traccia il genealogista è “Il sacrificio del
soggetto della conoscenza”23. Il soggetto, lo storico stesso, ha sempre ricercato
l’obbiettività, una coscienza storica neutra mentre, secondo Foucault, questa
coscienza storica è compresa da Nietzsche, tutto all’opposto, come un continuo
dispiegarsi di volontà di sapere che nell’uso scientifico della storia non trova altro
che un’ulteriore maschera, mentre la reale storia è fatta di “istinto, passione,
accanimento inquisitorio, raffinatezza crudele, cattiveria; scopre la violenza dei
partiti presi”24. Ciò che compie la volontà di sapere non è una speculazione di un
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!22 M.Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, p.51. 23 Ibidem, p.52. 24 Ibidem, p.52.
Capitolo 1: Nietzsche e la genealogia, l’importanza del metodo.
15
soggetto libero che giunge alla contemplazione di una verità universale. Essa si
manifesta come violenza, come accanimento, “disfa l’unità del soggetto”25.
Questo uso della storia attua un superamento rispetto alla storia critica che, nella
preoccupazione per la verità, tralascia completamente la vita. Per Foucault
Nietzsche riprende proprio questa modalità, ma la pone in tutt’altra direzione: “si
tratta di rischiarare la distruzione del soggetto della conoscenza nella volontà,
indefinitamente dispiegata, di sapere”26.
Il metodo genealogico è dunque per Foucault, il superamento di una visione
storica che ingenuamente prende per dati la continuità e l’identità storica oltre che
la scientificità e obbiettività del soggetto-storico.
Una volta affrontato il problema metodologico che comporta la Genealogia della
morale, nel prossimo capitolo sarà possibile discuterne l’applicazione alla morale
giudaico-cristiana di cui, come abbiamo visto, Nietzsche non fa una critica
sistematica rispetto ai valori da essa rappresentati, ma ne critica il valore stesso in
quanto morale.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!25 Ibidem, p.52. 26 Ibidem, p.54.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
16
Capitolo 2
Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana. “Questo mi ha insegnato una volta la vita: e di qui, saggissimi, io risolvo anche l’enigma del vostro cuore. In
verità io vi dico: un bene e male che fosse imperituro- non esiste! Esso deve superarsi continuamente, da se
stesso. Con i vostri valori e le vostre parole di bene e male, voi esercitate violenza, voi che determinate i
valori: e questo è il vostro segreto e il luccicare, tremare, debordare dell’anima vostra. Ma una forza più
grande cresce dai vostri valori, e un nuovo superamento: per essa si frantuma l’uovo e il suo guscio.
E colui che vuole essere creatore di “bene e male”: in verità costui dev’essere in primo luogo un distruttore, e
deve infrangere valori. Quindi il massimo male inerisce alla bontà suprema: questa però è la bontà
creatrice.”27
Così parlò Zarathustra. Della vittoria su se stessi.
Dopo aver cercato di descrivere il metodo genealogico introdotto da Nietzsche
nella ricerca filosofica, l’attenzione si sposta sull’argomento stesso di tale ricerca:
la morale. Affidando lo studio della morale all’interpretazione genealogica,
Nietzsche si è consapevolmente assunto il rischio di essere frainteso e, pur di
onorare le sue “scoperte”, ha portato il ragionamento sulla morale fino alle
estreme conseguenze, trovando in essa un problema o forse il problema
dell’umanità. La morale è per Nietzsche un’imposizione di valori da parte di chi
domina per continuare a farlo, e non fa e non vuole altro che sopprimere o
annullare fino a che può le forze altrimenti estrinsecabili dell’umanità.
Fin da Umano troppo umano, passando per Aurora e arrivando alla maturità con
scritti quali Al di là del bene e del male e la Genealogia della morale, la morale è
stata il centro degli studi di Nietzsche e ha assunto un’importanza tale da
condizionare i suoi rapporti sociali fino a reciderli. Il terrore di Zarathustra era
arrivare a disprezzare l’uomo: “il problema dell’origine dei valori morali è per me
un problema di prim’ordine, perché da esso dipende il futuro dell’umanità”28.
Nella Genealogia della morale, proprio grazie al metodo che abbiamo tentato di
descrivere, trovano pieno compimento i pensieri sull’origine della morale (che
negli scritti precedenti non hanno trovato la giusta sistematicità).
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!27!F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi Edizioni, Milano 2010, p.132!28 F.Nietzsche, Ecce homo, Adelphi Edizioni, Milano 2006, p.90.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
17
Come ha evidenziato Deleuze, la Genealogia della morale è l’unico o comunque
il più sistematico tra i testi del filosofo tedesco. Il libro è composto da tre
dissertazioni, ognuna delle quali è predisposta ad uno specifico argomento
“polemico” (sottotitolo del testo è infatti: uno scritto polemico).
La prima dissertazione si occupa del fenomeno del ressentiment:
“La verità della prima dissertazione è la psicologia del cristianesimo: la nascita
del cristianesimo dallo spirito del ressentiment, non, come in genere si vuol
credere, dallo “spirito”- un movimento di rivalsa nella sua essenza, la grande
rivolta contro il dominio dei valori aristocratici”29.
La seconda dissertazione si concentra sull’“origine” della cattiva coscienza e del
concetto di colpa e “presenta la psicologia della coscienza: quest’ultima non è,
come si vuol credere «la voce di Dio nell’uomo», - è l’istinto della crudeltà che si
volge all’interno appena non può scaricarsi all’esterno. La crudeltà portata per la
prima volta alla luce come uno dei più antichi e ineluttabili fondamenti della
civiltà”30. La terza e ultima dissertazione indaga sull’influenza che ha avuto
l’ideale ascetico non soltanto sulla morale ma anche sull’arte e sulla scienza: “la
terza dissertazione risponde alla domanda da dove provenga l’immensa potenza
dell’ideale ascetico, dell’ideale del sacerdote, sebbene questo sia l’ideale dannoso
per excellence, una volontà della fine, un’ideale della décadence”31.
In questo secondo capitolo si tenterà di descrivere i fenomeni del risentimento e
della cattiva coscienza, partendo dalla determinazione della differenza tra i
concetti morali di bene e male e i concetti etici di buono e cattivo.
L’interpretazione “energetica” di Gilles Deleuze dei concetti nietzschiani di
risentimento e cattiva coscienza sarà centrale e farà da filo conduttore del discorso
che continuerà nel terzo capitolo con la discussione sull’ideale ascetico e la sua
particolare volontà di potenza.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!29 Ibidem, p.113. 30 Ibidem, p.113. 31 Ibidem, p.114.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
18
2.1 Il risentimento
“Buono e malvagio, buono e cattivo”32 – questo il titolo della prima dissertazione
della Genealogia della morale. Come risulta evidente, obbiettivo di Nietzsche è
ricercare genealogicamente la genesi di questi concetti e soprattutto la differenza
che intercorre tra la determinazione di soggetti buoni o cattivi e la successiva e
moralizzata differenza tra bene e male come concetti assoluti.
Dopo aver polemizzato, come abbiamo visto nel primo capitolo, con i moralisti
inglesi che ricercano l’origine dei valori morali nella sfera dell’utilità e pongono
azioni altruistiche come buone in sé che diventano valori stabili grazie a
meccanismi psicologici quali l’abitudine e l’oblio, Nietzsche ricerca quale sia il
vero terreno di origine dei valori: buono e malvagio, buono e cattivo. Ciò che
muove il suo interesse è la ricerca delle cause per cui questi concetti si sono
determinati e le ragioni per le quali nei secoli il loro significato sia mutato fino a
diventare l’opposto. Nietzsche pensa che sia importante capire Chi pone questi
valori, da Dove ne provenga l’imposizione. Ritrova, al contrario di ciò che si è
fatto nelle interpretazioni morali precedenti a lui (inglesi soprattutto), questi valori
antitetici come originariamente affermativi, prodotti da una considerazione di se
stessi da parte di soggetti forti potenti e vigorosi: i signori. Questi, come
corrispettivo della loro forza affermativa, si definiscono buoni e impongono
valori, come forse precedentemente hanno imposto un certo linguaggio.
“Sono stati gli stessi «buoni», vale a dire i nobili, i potenti, gli uomini di
condizione superiore e di elevato sentire ad aver avvertito e determinato se stessi
come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto con tutto quanto è ignobile e
d’ignobile sentire, volgare e plebeo. Prendendo le mosse da questo pathos della
distanza si sono per primi arrogati il diritto di forgiare valori, di coniare le
designazioni dei valori: che cosa importava loro l’utilità33”. E ancora “il pathos
della nobiltà e della distanza, come ho già detto, il perdurante e dominante
sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemonica in rapporto
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!32!F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi Edizioni, Milano, 2004, p.13!33 Ibidem, p.15.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
19
a una schiatta inferiore, a un «sotto»- è questa l’origine dell’opposizione tra
«buono» e «cattivo»”34.
Secondo Nietzsche, successivamente, con il declinare della forza aristocratica di
porre (e soprattutto mantenere) valori e l’avvento dell’ebraismo prima e del
cristianesimo dopo, questi valori hanno subito uno spostamento semantico: il non-
egoistico è stato opposto all’egoistico ed è stato pian piano integrato e identificato
con il concetto di «buono», arrivando infine a confondersi con il proprio opposto.
Un’accurata ricerca filologica ha permesso a Nietzsche di rintracciare l’origine
etimologica dei due concetti, buono e cattivo, in varie lingue anche molto distanti
tra loro. Le designazioni del concetto di «buono» nelle diverse lingue hanno avuto
una genesi simile:
“Trovai allora che esse (designazioni di buono) si riconducono tutte a una identica
metamorfosi concettuale -che ovunque «nobile», «aristocratico», nel senso di ceto
sociale, costituiscono il concetto fondamentale da cui ha tratto necessariamente
origine e sviluppo l’idea di «buono» nel senso di «spiritualmente nobile», e
«aristocratico», nel senso di «spiritualmente bennato», «spiritualmente
privilegiato»: uno sviluppo che corre sempre parallelo a quell’altro, il quale
finisce per far trapassare il concetto di «volgare», «plebeo», «ignobile» in quello
di «cattivo»”35.
L’esempio più importante di trasformazione a livello semantico: “è dato dalla
stessa parola tedesca «schlecht» [cattivo] che è identica a «schlicht» [semplice]- si
confronti «schlechtweg» [semplicemente], «schlechterdings» [assolutamente]- e
designava originariamente l’uomo semplice, comune, ancora senza uno sguardo
obliquo, gravido di sospetto, unicamente in antitesi all’uomo nobile. Pressappoco
intorno all’epoca della Guerra dei trent’anni, abbastanza tardi, dunque, questo
significato si modifica in quello oggi corrente.- Questo mi parve, in ordine alla
genealogia della morale, una cognizione sostanziale; se essa è stata raggiunta
soltanto tardivamente lo si deve all’influenza rallentatrice che ha esercitato il
pregiudizio democratico, all’interno del mondo moderno, relativamente a tutti i
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!34 Ibidem, p.15. 35 Ibidem, p.17.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
20
problemi delle origini”36. Ciò che si evince da questo importante esempio è come
sia un “potere” o, per meglio dire, una forza che, dominando su altre, riesce a
imporsi in ogni ambito partendo da quello del linguaggio, considerato anch’esso
da sempre in maniera idealistica come già dato e designante direttamente il
significato della cosa che rappresenta con il proprio suono.
I valori di buono e cattivo sono imposizioni che si trasformano e cambiano
significato in base a chi in un determinato momento storico li domina e indirizza.
Vediamo velocemente altri esempi in cui la trasformazione semantica dei concetti
di buono e cattivo deriva non direttamente dal loro significato, ma dai caratteri
che li costituiscono: l’aristocrazia greca descritta da Teognide definiva i suoi
componenti come “i veridici”: “la parola coniata in tal senso, “έστλος”, significa,
secondo la radice, qualcuno che è, che ha realtà, che è reale, che è vero; in
seguito, con una trasposizione soggettiva, il vero in quanto veridico: in questa fase
della metamorfosi concettuale essa diventa l’espressione caratteristica e il termine
di riferimento dell’aristocrazia e travalica in tutto e per tutto nel significato di
«aristocratico», per distinguerlo dall’uomo volgare, mentitore, come lo chiama e
lo descrive Teognide...”37 . In altri termini greci come «κακóς» e «δειλóς» che
designano «il plebeo» contrapposto all’«αγαϑóς» “è sottolineata la codardia”.
Infine, “credo mi sia consentito interpretare il latino bonus «il guerriero»: posto
che a buon diritto riconduco bonus a un più antico duonus (confronta
bellum=duellum=duen-lum, in cui mi sembra conservato quel duonus). Bonus
quindi come uomo della disputa, della disunione (duo), come guerriero: si vede
quello che nell’antica Roma costituiva in un uomo la sua «bontà»”38.
Nietzsche considera una regola il fatto che lo spostamento semantico avvenga da
una principio politico ad uno spirituale e non trova un’eccezione nel fatto che sia
la casta sacerdotale che successivamente assurge al potere e di conseguenza
connoti il significato dei concetti di valori in senso sacerdotale: “ed ecco che si fa
avanti per la prima volta il termine di «puro» e «impuro», come segno distintivo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!36 Ibidem, p.17. 37 Ibidem, p.18. 38 Ibidem, p.19.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
21
delle classi: e anche in questo caso vengono a svilupparsi più tardi termini come
«buono» e «cattivo» in un significato non più attinente al ceto”39.
Toccando il problema del potere sacerdotale arriviamo al vero centro della prima
dissertazione: il sacerdote è il fautore, secondo Nietzsche, del rovesciamento di
significato subito dai valori un tempo eticamente intesi di «buono» e «cattivo»
che assumono un significato prettamente moralizzato. Il potere sacerdotale ha la
necessità di rovesciare i valori stabiliti dalla società cavalleresco-aristocratica
poiché non ha altre possibilità di conservarsi. Storicamente la prima aristocrazia
sacerdotale che è riuscita ad assumere su di sé il potere, capovolgendo le tavole
dei valori stabiliti affermativamente dai “signori”, è stata quella ebraica,
“Gli ebrei, quel popolo sacerdotale che ha saputo infine prendersi soddisfazione
dei propri nemici e dominatori unicamente attraverso una radicale trasvalutazione
dei loro valori, dunque attraverso un atto improntato alla più spirituale
vendetta”40. In questa impotenza, in questo “unico” modo che avevano gli ebrei
per conquistare il potere si coglie la potenza del ressentiment, l’unica possibilità
che avevano gli Ebrei di ribaltare la situazione storica a proprio favore era
rappresentata dal ribaltamento delle tavole di valori imposti dall’aristocrazia
guerriera:
“Sono stati gli ebrei ad aver osato con una terrificante consequenzialità,
stringendolo ben saldo con i denti dell’odio più abissale (l’odio dell’impotenza), il
rovesciamento dell’aristocratica equazione di valore
(buono=nobile=potente=bello=felice=caro agli dei), ovverossia «i miserabili
soltanto sono i buoni; solo i poveri, gli impotenti, gli umili sono i buoni, i
sofferenti, gli indigenti, gli infermi, i deformi sono anche gli unici devoti, gli unici
uomini pii, per i quali soli esiste una beatitudine- mentre invece voi, voi nobili e
potenti, siete per l’eternità i malvagi, i crudeli, i lascivi, gl’ insaziati, gli empi e
sarete anche eternamente gli sciagurati, i maledetti e i dannati!»…”41 .
Siamo così giunti al punto focale del paragrafo: il concetto di risentimento,
introdotto da Nietzsche in queste pagine della Genealogia della morale come
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!39 Ibidem, p.20. 40 Ibidem, p.22. 41 Ibidem, p.23.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
22
carattere principale di quel movimento da lui inteso come trasvalutante i valori.
Movimento che, partendo dall’impotenza (dovuta alla mancanza di forza
necessaria all’azione), utilizza gli unici mezzi attraverso i quali può conquistare
“potenza” per liberarsi dal giogo al quale dovrebbe naturalmente sottostare.
Per comprendere il più precisamente possibile il concetto e il significato di ciò
che Nietzsche designa come ressentiment, è necessario appoggiarsi alla geniale
interpretazione che ne dà Gilles Deleuze traducendolo in un linguaggio
“energetico”. Deleuze intende il risentimento come l’impossibilità di una reazione
che non riuscendo ad essere agita diventa qualcosa di sentito. È necessario prima
di procedere, comprendere l’utilizzo del concetto di forza e la distinzione tra
Azione e Reazione.
Deleuze introduce il discorso sulle forze descrivendo ciò che rappresentano per
Nietzsche i concetti di coscienza e di corpo. La coscienza è da intendere per
Nietzsche, come per Freud: “una regione dell’io sulla quale si esercita l’influenza
del mondo esterno. Essa peraltro, più che in rapporto all’esteriorità, ossia in
termini di realtà, viene definita in rapporto alla superiorità, ossia in termini di
valori”42. Questa nuova concezione della coscienza pone anche in un nuovo
rapporto il conscio e l’inconscio. Per Nietzsche la coscienza è sempre coscienza di
un inferiore rispetto ad un superiore che non è cosciente; la coscienza si pone in
un rapporto di sottomissione verso un inconscio che l’asserve e di cui la stessa
coscienza è funzione. Nietzsche pensa che la coscienza emerga solo nei casi in cui
deve riconoscere un corpo superiore rispetto a sé. Il corpo è dunque il prodotto di
un costante rapporto di forze di cui la coscienza è parte, anzi, la parte “inferiore”.
Un qualsiasi corpo si forma nel momento, prodotto dal caso, di un incontro tra
forze che si ordinano e subordinano. Il caso è il rapporto stesso tra le forze ed
“essenza” della forza.
“Essendo composto da una pluralità di forze irriducibili il corpo è un fenomeno
molteplice la cui unità si determina in base a “un dominio”; in esso le forze
superiori o dominanti si definiscono come attive, mentre quelle inferiori o
dominate come reattive. Attivo e reattivo sono qualità originarie che esprimono il
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!42 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.59.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
23
rapporto tra forza e forza; le forze che entrano in rapporto tra loro non possiedono
infatti una quantità a prescindere da una qualità, ma a una differenza di quantità
corrisponde sempre anche una qualità”43.
Dunque, si deve ad una differenza di quantità la differenza di qualità tra le forze.
“La qualità non è dunque di per se stessa separabile dalla differenza di
quantità”44; ed è proprio questa differenza di quantità che costituisce la qualità
della forza, in un continuo rapporto tra forze.
È necessario introdurre un ultimo elemento, per concludere il discorso
strettamente indirizzato alla descrizione delle forze: la volontà di potenza. Questo
nuovo concetto di volontà (che affronteremo direttamente nel quarto capitolo) è il
vero elemento che pone la differenza tra le forze: “il vittorioso concetto di
«forza», con cui i nostri fisici hanno creato il Dio e il mondo, abbisogna ancora di
un completamento: gli si deve assegnare un mondo interno, che io chiamo
«volontà di potenza»”45. È la volontà di potenza, dunque, l’elemento differenziale
della forza che conferisce una certa qualità e che permette alle forze di comandare
o obbedire: “la volontà di potenza è l’elemento dal quale derivano sia la
differenza di quantità di forze che stanno in rapporto tra loro, sia la qualità che, in
questo rapporto, è proprio a ciascuna forza”46. La volontà di potenza permette che
si produca una differenza nel rapporto tra le forze:
“Essa è il principio della sintesi delle forze, la quale, essendo in relazione con il
tempo, fa sì che queste ripercorrano le medesime differenze e che le differenze si
riproducano. La sintesi delle forze, della loro differenza e del loro riprodursi è
l’eterno ritorno, di cui la volontà di potenza costituisce il principio”47.
Non ci si può spingere oltre in questo discorso che rischia di allontanare dal
punto focale del paragrafo: il risentimento come non-reazione. Descritte le forze
attive e reattive, il loro principio costituente e il prodursi della differenza nel loro
rapportarsi vicendevolmente, si può procedere con lo studio delle forze finalizzato
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!43 Ibidem, p.61. 44 Ibidem, p.65. 45 F.Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, Volume VII, Adelphi Edizioni, Milano 1990, p.241 46 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.75. 47 Ibidem, p.75.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
24
alla comprensione del trionfo (storicamente inteso da Nietzsche) delle forze
reattive sotto forma di ressentiment e successivamente di cattiva coscienza.
È fondamentale per il nostro discorso sul risentimento comprendere una
caratteristica delle forze reattive che, forze inferiori che obbediscono, sono
comunque delle forze e come tali si estrinsecano. L’obbedire è una delle due
caratteristiche delle forze di cui l’altra, opposta, è il comandare.
“Le forze inferiori vengono definite reattive; esse non perdono affatto la loro
forza, la loro quantità di forza, anzi, la esercitano e ne garantiscono i meccanismi
e le finalità, le condizioni di vita e le funzioni, i fini di conservazione, di
adattamento e di utilità”48.
La critica di Nietzsche contro il pensiero moderno e contro ogni forma di
meccanicismo e finalismo che contrassegnavano tra le altre istituzioni del
pensiero anche la scienza del suo tempo, si basa sul fatto che esse considerano le
forze solo in maniera reattiva, appunto in termini di adattamento, conservazione
utilità. È ovviamente molto più difficile caratterizzare le forze attive che sono
plastiche e non appartengono alla coscienza. Tutte le funzioni “coscienti” quali, la
memoria, la nutrizione, la conservazione e l’abitudine, sono essenzialmente
reattive ed è naturalmente da queste che parte la coscienza per farsi un’idea del
mondo. L’attività pura è difficile da cogliere. Per Nietzsche è una forza plastica,
creatrice ed affermatrice; è possibile forse intuirla come ciò che conferisce al
corpo la vera forza che gli permette di trasformarsi e ricrearsi al di là della mera
sopravvivenza. Un buon esempio può essere riferito alla memoria, sempre
considerata in maniera reattiva. Nietzsche introduce già in Sull’utilità e il danno
della storia per la vita per poi riprenderlo nella Genealogia della morale, il
concetto di dimenticanza attiva, meglio noto come oblio. Questa forza
sconosciuta e inconoscibile è segno dell’attività pura. Non il ricordare ogni cosa,
ma proprio il saper assorbire e “digerire” il superfluo che ormai è passato.
“Il risentimento denota un tipo le cui forze reattive prevalgono su quelle attive
nell’unico modo che è loro possibile, cessando cioè di essere agite. Dobbiamo
stare attenti a non definire il risentimento come forza di una reazione e non
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!48 Ibidem, p.61.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
25
dobbiamo dimenticare il principio per cui l’uomo del risentimento è colui che non
re-agisce. Il termine risentimento contiene un’indicazione rigorosa: la reazione
cessa di essere agita per diventare qualcosa di sentito”49.
È importante non considerare le forze reattive come non-forze: “allo stato normale
o di salute, il compito delle forze reattive consiste sempre nel limitare l’azione-
scomponendola, ritardandola ed ostacolandola- in funzione di un’altra forza che
agisce su di noi; inversamente, le forze attive fanno esplodere la reazione in un
dato istante, in un momento favorevole, in una direzione determinata e al fine di
un adattamento rapido e preciso, dando origine così ad un’immediata risposta”50.
Il tipo attivo-in salute non è un tipo in cui agiscono solo forze attive, ma è un tipo
in cui le forze reattive vengono agite. Perché ci sia salute è necessario che ci sia
un giusto rapporto tra forze attive e reattive in modo che le prime comandino e le
seconde obbediscano lasciandosi agire.
Il problema del tipo-del-risentimento è che in esso il normale rapporto tra le forze
viene capovolto, le forze reattive riescono a dominare su quelle attive nell’unico
modo possibile: “La reazione cessa di essere agita per diventare qualcosa di
sentito, le forze reattive prevalgono su quelle attive sottraendosi alla loro
azione”51. A questo punto, il problema che si pone Deleuze è capire come possano
queste forze reattive, costituzionalmente meno “potenti” delle forze attive,
prendere il sopravvento sottraendosi. Data la difficoltà della spiegazione e
trattandosi di un discorso che si appoggia su un linguaggio per così dire
“energetico” che cerca di descrivere una dinamica delle forze, Deleuze si serve
del discorso ugualmente “energetico” di Freud e pone un paragone con la così
detta ipotesi topica.
2.1.1 Topologia del risentimento
Deleuze, fine studioso di Psicoanalisi, ritrova nell’ipotesi topica freudiana gli
elementi del discorso nietzschiano sui due apparati reattivo e attivo come conscio
e inconscio. Tale ipotesi è utilizzata da Freud per spiegare come avviene la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!49 Ibidem, pp.167-168. 50 Ibidem, p.167. 51 Ibidem, p.168.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
26
ricezione di uno stimolo e la successiva conservazione della traccia da esso
lasciata. Queste due funzioni appartengono a due sistemi diversi che
corrispondono a coscienza e inconscio: la prima avverte lo stimolo che viene
durevolmente conservato dal secondo. La coscienza risulta essere, dunque,
quell’apparato costituitosi come risultato di un’evoluzione, posto al limite tra
esterno e interno e dotato di capacità recettiva. Per Nietzsche, secondo Deleuze,
l’apparato reattivo si distingue in coscienza e inconscio:
“L’inconscio reattivo è costituito dalle tracce mnestiche, dalle impronte durature.
È un sistema digestivo, vegetativo e ruminante, caratterizzato dall’«impossibilità
di liberarsi nuovamente dell’impressione una volta incisa». Non v’è dubbio che
persino in questa digestione senza fine le forze reattive eseguano il compito loro
attribuito: si fissano sull’impronta indelebile, investono la traccia”52.
A questo primo sistema reattivo, inconscio, deputato alla conservazione sottesa
della traccia se ne aggiunge un secondo: “ma questa prima specie di forze reattive
è palesemente insufficiente, in quanto non vi sarebbe mai possibilità di
adattamento se l’apparato reattivo non disponesse di un altro sistema di forze, un
sistema in cui la reazione si sposta dalle tracce allo stimolo presente o
all’immagine diretta all’oggetto. Questa seconda specie di forze reattive fa
tutt’uno con la coscienza, corteccia costantemente rinnovantesi di una recettività
sempre fresca, ambito per «un mondo di nuove cose sconosciute»”53.
Se i due sistemi restano separati e badano ai propri compiti, la reazione può essere
agita (come dovrebbe) fintanto che le forze reattive si occupano del proprio
oggetto, cioè lo stimolo che incontra la coscienza. Perché i due apparati
funzionino, portando così la conseguente salute, è necessario che le tracce
rimangano sul terreno dell’inconscio e non invadano la coscienza. Per far ciò è
necessario anche che la forza propriamente attiva “si faccia carico della coscienza
e di ricostituirne in ogni istante la freschezza, la fluidità, l’elemento chimico
mobile e leggero. Questa facoltà attiva e sovra-cosciente è l’oblio”54.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!52 Ibidem, p.169. 53 Ibidem, p.169. 54 Ibidem, p.170.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
27
L’oblio, come si era già detto, è per Nietzsche attività pura che ha la funzione
fondamentale di tenere ben separati coscienza dello stimolo e ritenzione inconscia
della traccia: “nel medesimo istante, la reazione, prendendo a proprio oggetto lo
stimolo della coscienza, si ritrova ad essere agita, mentre nell’inconscio la
reazione alle tracce rimane insensibile”55. Il rischio in cui s’incorre nel caso di
disfunzione dell’attività obliante è enorme: “nel medesimo istante dunque la
reazione alle tracce diventa sensibile e la reazione allo stimolo cessa di essere
agita”56. I due sistemi, che dovevano necessariamente rimanere separati per
svolgere al meglio le proprie funzioni, si compenetrano; la coscienza viene invasa
dalle tracce e non c’è più possibilità di reazione attiva allo stimolo.
Questa è la descrizione della situazione che può portare le forze attive a non far
agire una reazione: “non hanno più la possibilità di esplicare la loro attività, sono
separate da ciò che è in loro potere”57. Si può ora comprendere qual è l’unico
modo in cui le forze reattive possono prevalere sulle forze attive anche se
rimangono inferiori a quest’ultime: “quando nell’apparato reattivo la traccia si
sostituisce allo stimolo, la reazione si sostituisce all’azione prendendone il
sopravvento”58. La lotta per il predominio rimane comunque lotta tra forze
reattive nel senso che alcune di esse impediscono ad altre di essere agite.
Tra grandi difficoltà siamo giunti alla definizione data da Deleuze per il
risentimento: “una reazione che, diventata sensibile, cessa di essere agita”59.
Diventata sensibile, è questo il passaggio decisivo per una giusta comprensione
del risentimento. Non è più possibile reagire concretamente ma solo in astratto; il
risentimento è un senso di vendetta che deve necessariamente rimanere a livello
“spirituale” perché non ha la forza per potersi manifestare in concreto. L’energia
che in un normale stato di salute si estrinseca, nell’uomo del risentimento diviene
sensibile trasformando la re-azione in ri-sentimento.
Ovviamente questo discorso (anche a livello terminologico) sembra esulare dal
resto del testo, ma nella descrizione del tipo reattivo, dei caratteri propri del
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!55 Ibidem, p.171. 56 Ibidem, p.170. 57 Ibidem, p.171. 58 Ibidem, p.171. 59 Ibidem, p.172.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
28
risentimento e dell’importanza che assume il tipo del sacerdote ebraico visto come
iniziatore del risentimento, sarà fondamentale tenere ben ferme queste definizioni
e distinzioni di concetti quali forza, reattività e attività.
2.1.2 Tipologia
Le forze reattive dal momento in cui prendono il sopravvento sulle forze attive,
costituiscono un tipo, “Una realtà sia biologica che psichica, sia storica che
sociale e politica”60. Deleuze cerca di tracciare la tipologia del risentimento dopo
averne descritto la topologia, convinto che Nietzsche fosse interessato a tracciare
una sorta di psicologia tipologica “sul piano del soggetto” 61 , cogliendo la
possibilità di un miglioramento solo partendo da una trasformazione di un tipo.
Nietzsche introducendo il concetto di risentimento, lo accomuna ad uno stato di
malattia con dei sintomi ben precisi. L’uomo del risentimento è dotato di una
memoria prodigiosa, non riesce a dimenticare. Lo stimolo si fissa nella memoria
confondendosi con le tracce. Non è fondamentale l’intensità della forza dello
stimolo che lo investe, “egli non ha bisogno di generalizzare per concepire il
mondo intero come oggetto del suo risentimento, in quanto l’impossibilità di
«reagire» è costitutiva del suo tipo: la reazione non si compie e invece di essere
agita viene sentita. Se la prende con il suo oggetto, qualunque esso sia, vuole
vendicarsene e fargli pagare questo infinito ritardo”62.
La vendetta del risentimento rimane sul piano spirituale, il risentimento è “spirito
di vendetta”. Deleuze collega la vendetta “spirituale” al problema della memoria
delle tracce: “L’uomo del risentimento è di per sé causa del proprio dolore: la
sclerosi, l’indurimento della sua coscienza, la rapidità con la quale ogni stimolo si
fissa e si cristallizza, il peso delle tracce che lo invadono costituiscono altrettante
crudeli sofferenze. E ad un livello più profondo, la memoria delle tracce è in sé e
per sé fonte di odio; il suo veleno e il suo disprezzo nei confronti di un oggetto
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!60 Ibidem, p.173. 61 Ibidem, p.173. 62 Ibidem, p.174.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
29
servono a compensare la propria incapacità di sottrarsi alle tracce dello stimolo
relativo a tele oggetto”63.
Altre caratteristiche del tipo-del-risentimento sono: “l’impotenza di ammirare, di
rispettare, d’amare”64, ogni stimolo che incontra lo deve sminuire, ciò che è bello
è da lui sentito come un’offesa alla stessa stregua dell’altro che in ogni caso viene
disprezzato. La passività lo costituisce, essendo la vittoria della reattività.
Passività è tutto ciò che viene sentito invece che agito, l’uomo del risentimento
non ama ma vuole essere amato, non si dà per altro ma vuole che altro gli sia dato.
Il profitto e l’utilità sono gli obiettivi che persegue, non in maniera attiva e
affermativa, ma sempre passiva: profitto e utilità come vantaggio. L’affermazione,
l’attività, l’aggressività sono le caratteristiche cui l’uomo-del-risentimento deve
necessariamente opporsi per costituirsi. L’uomo del risentimento ha bisogno
dell’altro per “affermarsi”, si definisce come buono solo come conseguenza del
fatto che pone l’altro da sé come malvagio. “Il pathos aggressivo fa parte
necessariamente della forza, così come il sentimento di vendetta e rancore fa parte
della debolezza”65.
Siamo giunti così alla formula utilizzata da Nietzsche nella Genealogia della
morale per simboleggiare la differenza tra l’uomo affermativo, “il signore”, che si
definisce buono di per sé e considera l’altro come cattivo solo come conseguenza,
e l’uomo del risentimento, “lo schiavo”, che usa il paralogismo “tu sei cattivo,
dunque io sono buono”. Da questa formula si evince la reattività che deve
necessariamente partire dalla “negazione” dell’altro per potersi affermare. Il
“signore”, tutto all’opposto, non parte dall’altro per darsi valore, ma
affermativamente da se stesso. L’affermazione di se stesso come “buono” in
quanto valoroso, aggressivo, creatore di valori è il punto di partenza per “il
signore” da cui scaturisce il fatto che l’altro da sé, il debole, il miserabile, colui
che non ha la forza di affermare ma solo quella di negare è cattivo in quanto
diverso da sé, in quanto Altro .
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!63 Ibidem, p.174. 64 Ibidem, p.176. 65 Ibidem, p.178.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
30
Il popolo ebraico è il primo popolo della storia che compie la trasvalutazione dei
“valori aristocratici”: è il popolo negatore per eccellenza, che ha bisogno di
vedere l’altro come malvagio per potersi affermare come buono e così facendo
conquistarsi il suo status. Il popolo ebraico porta la dialettica come suo manifesto,
deve negare per poter affermare. “Tu sei cattivo; io sono il contrario di quello che
sei tu; dunque io sono buono”66, per interpretare questo paralogismo Nietzsche
utilizza un esempio figurato:
“che gli agnelli nutrano avversione per i grandi uccelli rapaci, è un fatto che non
sorprende: solo che non v’è in ciò alcun motivo per rimproverare ai grandi uccelli
rapaci di impadronirsi degli agnellini. E se gli agnelli si vanno dicendo tra loro:
«Questi rapaci sono malvagi; e chi è il meno possibile uccello rapace, anzi il suo
opposto, un agnello- non dovrebbe forse essere buono?» Su questa maniera di
erigere un ideale non ci sarebbe nulla da ridire salvo il fatto che gli uccelli rapaci
guarderanno a tutto ciò con un certo scherno e si diranno forse: «con loro non ce
l’abbiamo affatto noi, con questi buoni agnelli; addirittura li amiamo: nulla è più
saporito di un tenero agnello». – Pretendere dalla forza che non si estrinsechi
come forza, che non sia un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler
signoreggiare, una sete di nemici e di opposizioni e di trionfi, è precisamente così
assurdo come pretendere dalla debolezza che essa si estrinsechi come forza”67.
Il tipo-del-risentimento è spirito di una vendetta che non può compiere perché non
ne ha la forza sufficiente. Gli ebrei sono il popolo con il più grande spirito di
resistenza e adattamento nella storia, sono dotati di un senso di sopravvivenza che
va oltre ogni cosa. Nietzsche pensa che l’uomo del risentimento, debole per
costituzione, non sarebbe stato capace di ribaltare i valori antichi, capovolgerli a
proprio vantaggio, senza essere indirizzato a sua volta da uno “spirito” attivo in
sommo grado, da una volontà di potenza capace di distruggere ma soprattutto di
creare valori. L’iniziatore e indirizzatore del risentimento è, per Nietzsche, il prete
ebraico.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!66 Ibidem, p.184. 67 F. Nietzsche, Genealogia della morale, pp.33-34.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
31
2.1.3 L’azione del prete ebraico
Nell’interpretare il paralogismo utilizzato da Nietzsche per intendere il
movimento che porta all’accusa del risentimento contro “l’altro”, inteso come
cattivo, Deleuze parla di un agnello logico che fonda il suo sillogismo “sulla
finzione di una forza separata da ciò che è in suo potere”68.
È la finzione che permette il trionfo delle forze reattive tramite uno sdoppiamento
della forza in: forza e soggetto che la estrinseca. Nietzsche ha sempre combattuto
la possibilità di un soggetto dotato di una volontà libera e capace di scegliere il
quantum di forza da utilizzare o in caso da reprimere. Deleuze scompone il
movimento della finzione interno al risentimento in tre differenti momenti. Il
primo è l’introduzione arbitraria di una causa, e consiste nella separazione della
forza dalla sua manifestazione. Si considera la forza come causa efficiente della
sua manifestazione. Nietzsche utilizza come esempio l’errore linguistico dei
naturalisti che parlano del “fulmine che illumina” come se il fulmine fosse la
causa della luce che successivamente si produce e non tutt’uno con essa. Si
considera la forza come causa efficiente della sua manifestazione. Secondo
momento è l’invenzione di un sostrato agente e la neutralizzazione della forza:
una volta sdoppiata la forza e la sua manifestazione, viene creato un soggetto
libero che potrebbe scegliere a suo arbitrio se, quando e quanta forza estrinsecare.
“La forza viene così neutralizzata e trasformata in atto di un soggetto che potrebbe
anche non agire”69. Questo non è altro che un ulteriore momento della critica
persistente in Nietzsche alla “finzione” di un soggetto libero come sostrato
“slegato” dalla necessità. Terzo e ultimo momento è la moralizzazione del
soggetto libero: questo è l’atto finale del movimento che porta allo scacco delle
forze reattive. Resa neutra la forza e introdotto un soggetto libero di estrinsecarla
o meno, si etichetta questo soggetto come meritevole o colpevole in base
all’utilizzo della forza che manifesta. Colpevole se essa è attiva, meritevole se
essa è reattiva.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!68 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.184. 69 Ibidem, p.185.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
32
Attraverso questi tre momenti siamo giunti, secondo Deleuze, allo slittamento dai
concetti eticamente intesi di buono e cattivo (forze qualificate), alla
moralizzazione attraverso i concetti di bene e male (forze sostanzializzate).
La finzione risulta l’azione fondamentale per il “potenziamento” del risentimento
che porta alla vittoria delle forze reattive su quelle attive. Sono le forze reattive,
come abbiamo visto dalla formula “tu sei cattivo dunque io sono buono”, che
hanno la necessità di contrapporsi alle forze attive per poter raggiungere un grado
di potenza che in realtà non hanno. L’unico mezzo a disposizione delle forze
reattive per contrapporsi a quelle attive e affermative è la finzione, come
proiezione e ribaltamento della situazione reale.
Ciò che Nietzsche chiama finzione delle forze reattive è “La finzione di un mondo
sovrasensibile che si contrappone al mondo sensibile, di un Dio che contraddice la
vita”70. È solo attraverso la svalutazione e negazione del mondo reale e la
successiva creazione di un mondo fittizio e ideale che il risentimento riesce a
trionfare.
Ritorniamo alle domande iniziali del capitolo: Chi è l’ideatore di questa finzione?
Da dove proviene? La risposta di Nietzsche è quanto mai chiara: è il prete ebraico
l’iniziatore di questa lunga e, alla fine, vittoriosa guerra sotterranea. “É il
sacerdote colui che conferisce una forma al risentimento, che conduce l’accusa e
porta sempre più a fondo la vendetta, e che osa addirittura rovesciare i valori; in
particolare, costui è il prete ebraico, il prete nella forma ebraica”71.
Solo attraverso l’azione del “genio” sacerdotale ebraico è stato possibile, secondo
Nietzsche, la trasvalutazione dei valori aristocratici e la vittoria delle forze reattive
che il suo genio indirizza. È importante comprendere però, che Nietzsche intende
il prete ebraico come ciò che è più lontano dall’essere una forza reattia.
È, al contrario, pura attività creatrice che si serve degli “schiavi”, dei deboli, dei
miserabili, del risentimento stesso e dunque delle forze reattive per raggiungere la
sua potenza:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!70 Ibidem, p.188. 71 Ibidem, p.189.
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
33
“La sua volontà è volontà di potenza, la sua volontà di potenza è nichilismo. Se è
vero che il nichilismo, la potenza di negare, ha bisogno delle forze reattive, è vero
anche il contrario, e cioè che il nichilismo, la potenza di negare, conduce le forze
reattive al trionfo”72.
Il prete ebraico sposa gli istinti decadenti e il nichilismo perché sono gli unici
mezzi che ha per raggiungere la potenza. Ciò che vuole evidenziare Nietzsche è il
sistema attraverso cui il sacerdote assume il suo ruolo capitale all’interno della
tradizione ebraica costituita dalla potenza “signorile” degli antichi re di Israele*.
2.2 La cattiva coscienza
2.2.1 Dal risentimento alla cattiva coscienza
Nel paragrafo precedente abbiamo visto come con il termine risentimento,
Nietzsche simbolizzi l’odio e lo spirito di vendetta che, guidati dal “genio”
sacerdotale ebraico, hanno portato al trionfo delle forze reattive sulle forze attive
con due movimenti diversi: “Il risentimento si prefigge un duplice scopo: privare
la forza attiva delle condizioni materiali in cui essa può esercitarsi; separarla
formalmente da ciò che è in suo potere”73. Abbiamo visto come, secondo Deleuze,
l’uomo del risentimento attui il suo duplice scopo con l’unico mezzo a sua
disposizione: la finzione. Il genio del risentimento attraverso l’invenzione di un
soggetto, la sua moralizzazione e la creazione di un mondo dietro al mondo riesce
a compiere una prima trasvalutazione dei valori, invertendo le gerarchie: il reale
viene negato, il “potente” diventa “malvagio”, e solo ciò che è diverso dal
malvagio può essere considerato “buono”. La reattività, per sua natura obbediente,
trionfa sull’attività che in uno stato di salute comanda.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!72 Ibidem, p.189. 73 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.192. * Credo non sia più necessario, oggi, parlando del rapporto tra Nietzsche e la tradizione ebraica dover
dimostrare la lontananza di Nietzsche rispetto alla nefasta storia tedesca a lui successiva. Deleuze coglie una
frase che simboleggia questa lontananza meglio di dotti argomenti: “Ma insomma, cosa credete che provi
quando il nome di Zarathustra esce dalla bocca degli antisemiti?” [F.Nietzsche, Lettere a Fritsch del 23 e 29
Marzo 1887, cit in Deleuze Nietzsche e la filosofia, p.190].
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
34
Abbiamo anche visto che la reattività non cessa mai di essere una forza neanche
nel momento in cui è posta sul piano dell’obbedienza. Allo stesso modo la forza
attiva, anche se sopraffatta dall’organizzazione reattiva, non può cessare di essere
una forza: una forza attiva è una forza affermativa che deve necessariamente
estrinsecare la sua “potenza”. Cerchiamo di seguirne il divenire:
“Qualsiasi sia la ragione per la quale una forza attiva si ritrova falsata, privata
delle condizioni in cui può esercitarsi e separata da ciò che è in suo potere, essa si
volge al proprio interno e contro se stessa; diventa realmente reattiva attraverso un
interiorizzarsi e un volgersi contro di sé”74. Nel momento in cui la forza attiva
non può sfogarsi verso l’esterno compie, grazie alla sua plasticità, una
trasformazione: “tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno si rivolgono
all’interno - questa è quella che io chiamo interiorizzazione dell’uomo: in tal
modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua
«anima». L’intero mondo interiore, originariamente sottile come fosse teso tra due
epidermidi, si è stemperato e dischiuso; ha acquistato profondità, latitudine,
altezza a misura che è stato impedito lo sfogo dell’uomo all’esterno”75.
Se in precedenza il risentimento era costituito da un odio sfrenato verso l’esterno,
l’altro, il cattivo, la cattiva coscienza inverte la direzione del risentimento e
attraverso la trasfigurazione di concetti quali “colpa”, “peccato”, “responsabilità”
rivolge questo odio verso l’interno producendo dolore. Il dolore è il sintomo della
malattia che, secondo Nietzsche, costituisce la cattiva coscienza. Il dolore è anche
il mezzo attraverso cui essa si fa spazio nell’uomo divenuto sempre più sensibile
ad esso. La cattiva coscienza è il trionfo del risentimento:
“Benché nel risentimento la forza attiva accusi e si proietti, quest’ultimo non
sarebbe tale se non portasse l’accusato stesso a riconoscere i propri torti, «a
rivolgersi all’interno»; l’introiezione della forza attiva non è il contrario della
proiezione, ma la conseguenza e l’esito della proiezione reattiva. Con la cattiva
coscienza non ci imbatteremo in un nuovo tipo; tutt’al più potremo individuare
nel tipo reattivo, nel tipo dello schiavo, delle varietà concrete in cui il risentimento
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!74 Ibidem, p.192 75 F. Nietzsche, Genealogia della morale, p.74
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
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si presenta quasi allo stato puro; oppure delle varietà in cui la cattiva coscienza,
raggiungendo il pieno sviluppo, si sovrappone al risentimento”76.
È dal risentimento (che separa la forza attiva da ciò che è in suo potere e
impedisce alle forze reattive stesse di essere agite) che proviene la cattiva
coscienza, questa è un prolungamento di quello. Il soggetto della cattiva coscienza
è lo stesso soggetto del risentimento; anche l’odio è lo stesso. La differenza sta in
ciò che produce: il dolore. Come abbiamo visto, la forza attiva che non trova più
libero sfogo si volge all’interno: “il dolore, invece di essere governato da forze
reattive, è prodotto dalla vecchia forza attiva; ne deriva un fenomeno curioso,
insondabile: una moltiplicazione, un’autofecondazione, un’iper-produzione del
dolore. La cattiva coscienza è la coscienza che moltiplica il proprio dolore”77. Per
produrre dolore, la cattiva coscienza si serve di mezzi che anticamente
appartenevano alle forze attive: la pena, la colpa, la responsabilità.
Come abbiamo visto, compito del lavoro genealogico è indagare la genesi di un
fenomeno attraverso le reinterpretazioni che subisce nel momento in cui ad
un’interpretazione dominante se ne sostituisce un’altra più “potente”. Nella
seconda dissertazione della Genealogia della morale, Nietzsche applica il metodo
genealogico ai concetti di pena e di colpa. Seguiamone il percorso per arrivare a
comprendere come la cattiva coscienza si sostituisce al risentimento e porta al
definitivo trionfo le forze reattive.
2.2.2 Pena, dolore, colpa
In alcuni paragrafi precedenti abbiamo visto quanto sia importante per Nietzsche
il concetto di oblio, facoltà attiva che permette la dimenticanza come funzione
vitale fondamentale. È stata descritta la situazione (che Nietzsche vedeva come
estremamente pericolosa) in cui questa facoltà fa difetto lasciando spazio ad un
ispessimento della memoria, parlando in senso figurato. La seconda dissertazione
della Genealogia della morale riparte da questo tema, ribadendo l’importanza
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!76 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.193 77!Ibidem, p.193!
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
36
della dimenticanza attiva e descrivendo la situazione che ha portato alla
formazione e al potenziamento della memoria a spese dell’oblio:
“Appunto questo animale necessariamente oblioso, nel quale il dimenticare
rappresenta una forza, una forma di vigorosa salute, si è ora plasmato con
l’educazione una facoltà antitetica, una memoria, mediante la quale in determinati
casi l’oblio viene sospeso - in quei casi cioè in cui si tratta di fare una
promessa”78.
Rendere l’uomo in grado di promettere è l’obiettivo a cui mira ciò che Nietzsche
definisce “l’allevamento” dell’uomo. Servendosi delle armi dell’educazione
(passando attraverso il processo che Nietzsche definisce “eticità dei costumi”):
“l’allevamento” dell’uomo dovrebbe condurre a rendere l’uomo prevedibile,
obbediente e calcolabile. In questa capacità di promettere e di mantenere la
propria promessa, Nietzsche individua la genesi del concetto di responsabilità. Per
allevare un uomo capace di essere responsabile è stato necessario opporre al più
naturale oblio dell’animale-uomo la formazione di una solida memoria anche a
costo di atroci sofferenze. Seguiamo l’ipotesi genealogica di Nietzsche:
“Forse nell’intera preistoria dell’uomo addirittura nulla è più spaventoso e sinistro
della sua mnemotecnica, «si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella memoria»
- è questo un assioma della più antica psicologia sulla terra […]. Quando l’uomo
ritenne necessario formarsi una memoria, ciò non avvenne mai senza sangue,
martiri, sacrifici; i sacrifici e i pegni più spaventosi (in cui si ricomprendono i
sacrifici dei primogeniti), le più ripugnanti mutilazioni (per esempio le
castrazioni), le più crudeli forme rituali religiose (e tutte le religioni sono, nel loro
fondo, sistemi di crudeltà) - tutto ciò ha la sua origine in quell’istinto che colse nel
dolore il coadiuvante più potente della mnemotecnica”79.
È il dolore dunque, il nuovo elemento, che risulta essere il mezzo fondamentale
grazie al quale è stato possibile il formarsi di una memoria sia sociale che
individuale. È a questo punto che, delineata per sommi capi la preistoria della
funzione mnemonica, Nietzsche introduce per la prima volta nel testo i concetti di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!78 F. Nietzsche, Genealogia della morale, p.46 79 Ibidem, pp.48-49
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
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pena e di colpa. Prende come punto di partenza l’ingenuità insita nei procedimenti
di ricerca storica di coloro che definisce i genealogisti della morale per tracciare
la sua originalissima ipotesi sulla reale genealogia di questi fenomeni: “Questi
genealogisti della morale si sono mai, sino a oggi, anche solo lontanamente
immaginati che, per esempio, quel basilare concetto morale di colpa ha preso
origine dal concetto molto materiale di debito? O che la pena come
compensazione si è sviluppata completamente a parte da ogni presupposto sulla
libertà e non libertà del volere?”80.
Insomma Nietzsche ritiene che il pensiero (forse “umano, troppo umano”) di
considerare un’azione, per quanto sbagliata, come una deliberazione di un
soggetto dotato di una volontà libera, che potrebbe agire diversamente e che
quindi meriti la sua pena, sia uno dei gravi errori che affliggono la ragione umana.
La pena, secondo la geniale ipotesi nietzschiana, ha una genesi del tutto diversa da
quella di una sua possibile origine dalla finalità del suo utilizzo attuale, la
punizione. La pena, come anche Foucault ha genialmente dimostrato in
Sorvegliare e punire, è un fenomeno che ha rivestito varie causalità in base alla
grandezza della forza che se ne è impadronita e alle finalità che ha rappresentato.
“Per il più lungo tratto di tempo della storia umana non si sono assolutamente
inflitti castighi perché si ritenesse l’autore del male responsabile della sua azione,
dunque non con il presupposto che si debba punire unicamente il colpevole - si
punisce, viceversa, allo stesso modo con cui ancora oggi i genitori castigano i loro
figli, per ira di un danno sofferto, alla quale si dà sfogo sul danneggiante - una
collera, tuttavia, mantenuta nei limiti e modificata dall’idea che ogni danno abbia
in qualche modo il suo equivalente e realmente possa essere soddisfatto, sia pure
mediante la sofferenza di chi lo ha provocato”81.
La particolarissima equazione danno-sofferto=sofferenza-provocata, la possibile
riparazione di un danno con il provocare dolore al danneggiante, riconduce la
pena e la colpa sul terreno genetico rintracciato da Nietzsche attraverso la
macchina genealogica: il rapporto creditore e debitore. Con l’analisi di questo
antico rapporto, presente probabilmente già dai primordi della storia sociale
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!80 Ibidem, p.51 81 Ibidem, p.51
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
38
umana, ritorniamo all’atto del promettere: è qui che il debitore promette di
saldare il proprio debito verso il creditore e in caso contrario si offre in pegno,
sopportando la pena. Nietzsche coglie perfettamente la particolarità di questo
rapporto di equivalenza, in cui il creditore che non viene ripagato può infliggere
ogni tipo di sofferenza alla sua controparte. La particolarità è insita nella
mancanza di riparazione del debito, o meglio in una forma di restituzione del tutto
particolare; al danno subito si risponde con un danno provocato, anche se
quest’ultimo non ripaga del primo. Nietzsche rintraccia in questa restituzione-
tramite-sofferenza subita, un’antica verità psicologica: la crudeltà di chi, da
creditore, infligge sofferenza al debitore e che produce piacere da parte di chi
infligge la sofferenza.
“Egualmente qui è stata per la prima volta ribadita quella sinistra catena di idee,
divenuta forse indissolubile «colpa e sofferenza». Diciamolo ancora una volta: in
che senso può essere la sofferenza una compensazione di «debiti»? In quanto far
soffrire arrecava soddisfazione in sommo grado, in quanto, il danneggiato
barattava il danno, con l’aggiunta dello scontento per il danno, per uno
straordinario contro-godimento: il far soffrire – una vera e propria festa, un
qualcosa che, come ho detto era tanto più in pregio quanto maggiore era il suo
contrasto con il rango e la posizione sociale del creditore”82.
Nietzsche coglie, attraverso un’ipotesi, la differenza del rapportarsi alla sofferenza
e al dolore tra l’uomo moderno-cristiano (che “inventa un Dio” per poter
sopportare dolore e sofferenza, ma che non accetta la sofferenza nel mondo e così
facendo non fa altro che moltiplicare il dolore interiorizzandolo e rendendosi
colpevole) e la prospettiva greca che, all’opposto, riesce ad accettare la sofferenza
e anzi quasi ne gode trasfigurandone il senso in un piacere per gli Dei, spettatori
amorali, che gioiscono per le pene degli uomini.
Con la formazione degli stati il rapporto creditore-debitore si è trasformato
istituzionalizzandosi. Lo stato promette sicurezza e salvaguardia del cittadino in
cambio di una promessa di rispetto della legge istituzionalizzata. Il delinquente
risulta essere colui che non rispetta la promessa e diventa un debitore che attacca
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!82 Ibidem, p.53
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
39
il suo creditore. Il creditore-stato rompe la promessa ed esclude da sé il
delinquente. Con il crescere della “potenza” delle comunità la durezza della pena
diminuisce in maniera inversamente proporzionale. Ancora una volta viene
mostrato un nuovo utilizzo della pena all’interno del rapporto creditore-debitore.
Tra i molti che assume, Nietzsche si concentra su uno solo dei sensi della pena:
“La fiducia nella pena […]. Il valore della pena deve essere quello di destare nel
colpevole il sentimento della colpa, in essa si cerca il caratteristico instrumentum
di quella reazione psichica che prende il nome di cattiva coscienza, rimorso”83.
Non è su questo terreno che, secondo Nietzsche, nasce il reale rimorso. La pena
non può provocare nel delinquente un reale rimorso: proprio perché è anticamente
frammista alla festa e al piacere per la sofferenza non è così lontana dalla
tipologia dell’azione a lui imputata. È su tutt’altro terreno che Nietzsche coglie
l’origine del senso di colpa, ritornando al rapporto tra creditore e debitore, ma in
una diversa configurazione: il rapporto tra una stirpe debitrice e propri antenati
creditori. Con il crescere della comunità cresce l’ammontare del debito-
immaginario verso i propri antenati che acquistano un credito sempre maggiore
fino ad essere trasfigurati in vere divinità. Con il crescere del debito cresce la
considerazione di grandezza della divinità, “l’avvento del Dio cristiano, in quanto
massimo dio che sia stato sino a oggi raggiunto, ha portato perciò in evidenza,
sulla terra, anche il maximum del senso di debito”84.
Si arriva, con il Cristianesimo, ad una moralizzazione della colpa che si innesta
sul terreno della cattiva coscienza: un possibile riscatto del debito appare sempre
più irraggiungibile, la colpa viene interiorizzata e si rivolge contro il debitore che
soffre l’impossibilità di ripagare il proprio amato creditore:
“Finché eccoci all’improvviso di fronte al paradossale e spaventoso espediente in
cui la martoriata umanità ha trovato un momento di sollievo, quel tratto geniale
del cristianesimo: Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell’uomo, Dio stesso
che si ripaga su se stesso, Dio come l’unico che può riscattare l’uomo da ciò che
per l’uomo stesso è divenuto irriscattabile - il creditore che si sacrifica per il suo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!83 Ibidem, p.70 84 Ibidem, p.81
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
40
debitore, per amore (dobbiamo poi crederci?), per amore verso il suo
debitore!...”.85
2.2.3 L’intervento del prete cristiano
La cattiva coscienza è la prosecuzione del cammino iniziato dalla coscienza
reattiva con il risentimento. Questa coscienza reattiva proietta il suo odio verso
l’esterno per compiere una vendetta che può rimanere solo immaginaria
(spirituale), guidata dalla “saggezza” del prete ebraico. La coscienza che
attraverso il risentimento compie una proiezione della reazione-immaginaria verso
l’esterno subisce una trasformazione per cui il risentimento cambia direzione.
Abbiamo visto che le forze attive, nel momento in cui non possono far agire le
forze reattive e dunque estrinsecarsi verso l’esterno, si interiorizzano provocando
e accrescendo il dolore. Come abbiamo visto per il risentimento, le sole forze
reattive non avrebbero potuto, con la loro sola “potenza”, giungere alla
trasvalutazione dei valori, creando un’organizzazione reattiva capace di annullare
l’attività. È stato necessario l’intervento del prete ebraico per trasformare
l’impotenza in potenza, per condurre le forze reattive a conquistare potere sulle
forze attive e prevaricanti.
Anche per quanto riguarda il passaggio successivo, che conduce la reattività dal
non-poter-reagire al reagire-contro-se-stessi, dal risentimento alla cattiva
coscienza, è stato necessario l’intervento di un genio pari, di un plasmatore e
affermatore di sé: è stato necessario l’intervento del prete-cristiano: “è il prete-
cristiano a far uscire la cattiva coscienza dal suo stato grezzo o animale, a
presiedere all’interiorizzazione del dolore; è lui, prete-medico, a guarire il dolore
infettando la piaga; è lui, prete-artista, a condurre la cattiva coscienza alla sua
forma superiore, al dolore come conseguenza di un peccato”86.
Il prete cristiano è per Nietzsche il modificatore di direzione del ressentiment.
Insomma, il filosofo tedesco, descrive due aspetti diversi del soggetto-prete. Il
primo aspetto è proprio di colui che conferisce una prima direzione al
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!85 Ibidem, p.82 86 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, pp.196-197
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
41
risentimento, trasformando il dolore dei sofferenti in odio che successivamente
direziona contro l’altro, l’attivo; attraverso il risentimento rende reattive le forze
attive e prepara il passaggio successivo. Il secondo aspetto viene assunto dal
soggetto-prete rendendo necessario il passaggio dell’accusa dall’esterno
all’interno, modifica la direzione del risentimento e moltiplica il dolore attraverso
un brillante stratagemma:
“Egli inventa la nozione di peccato. È grazie al concetto di peccato che la colpa
viene interiorizzata e sentita come senso di colpa, rimorso. “Così il dolore diventa
conseguenza di un peccato -viene interiorizzato; il suo seno è ora esclusivamente
intimo”87.
Il cristianesimo compie il passaggio successivo rispetto all’ebraismo, conferisce
alla sofferenza una nuova direzione, non più verso l’esterno sotto forma di odio
dell’altro per impotenza, ma verso l’interno come sofferenza da senso di colpa
provocato dal peccato (reso inestinguibile). Il mezzo utilizzato dal prete ebraico
per compiere la trasvalutazione dei valori attivi era la finzione. Sempre attraverso
la finzione il prete cristiano riesce a compiere il passaggio successivo
interiorizzando il dolore e trasformando il risentimento in cattiva coscienza.
Seguiamo Gilles Deleuze nella sua particolare ipotesi del modo attraverso il quale
sarebbe stato possibile al cristianesimo imporsi come forza reattiva, sotto la guida
del prete cristiano simboleggiato da San Paolo (la cui figura ha così tanto
interessato Nietzsche e che riprenderemo, per descriverla, nel successivo
capitolo). Deleuze si chiede come, secondo Nietzsche, si sia compiuto quel
passaggio che appunto ha condotto dal risentimento alla cattiva coscienza. La
risposta proviene da un fenomeno che Nietzsche descrive in azione, ma senza
definirlo dettagliatamente: la cultura. Deleuze descrive un triplice passaggio della
cultura nel suo intrecciarsi con la storia, la cultura considerata dal punto di vista
preistorico, la cultura considerata da punto di vista post-istorico, la cultura
considerata dal punto di vista storico. Seguiamo Deleuze:
“Cultura significa addestramento e selezione, nella sua dinamica Nietzsche
definisce la cultura con l’espressione «eticità dei costumi», cui si accompagna
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!87 Ibidem, p. 198
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
42
sempre la gogna, la tortura, gli atroci mezzi atti ad addestrare l’uomo. In questo
addestramento violento l’occhio del genealogista distingue però due momenti: 1)
ciò a cui un popolo, una razza o una classe obbedisce è sempre storico, arbitrario,
grottesco, stupido e limitato ed è per lo più espressione delle peggiori forze
reattive; 2) ma nel fatto che si obbedisca a qualcosa- e poco importa a cosa- si
manifesta un principio che va oltre i popoli, le razze, le classi: si obbedisce alla
legge perché è legge, per cui l’aspetto formale della legge indica una certa attività,
una certa forza attiva che viene esercitata sull’uomo con il compito di addestrarlo.
Due aspetti devono essere tenuti ben distinti, benché risultino inseparabili
all’interno del processo storico: da una parte la pressione storica di uno Stato, di
una Chiesa, ecc. sugli individui da assoggettare; dall’altra l’attività dell’uomo
come essere generico, l’attività della specie umana che si esercita sull’individuo
come tale”88.
Se prima si è utilizzato il termine “allevamento” riferendolo all’uomo era da
intendersi nel senso di un’attività che si impone su strutture reattive (ad esempio
attraverso la legge). La cultura come attività generica è ciò a cui si riferisce
Nietzsche quando utilizza il termine preistorico. La cultura, attività generica che
inizialmente s’impone sulla reattività con forza, necessita di rendere solida la
coscienza: è la cultura che crea la memoria come facoltà di promettere. È la
cultura, intesa come attività generica, che nella sua forma ancora preistorica ha
costituito il rapporto tra creditore e debitore. È evidente che non è dal lato della
cultura (in questo senso preistorico), che va ricercata l’origine del risentimento e
della cattiva coscienza. Come spiega Nietzsche un fenomeno come la giustizia,
sempre che sia possibile conferirgli una configurazione, non potrebbe mai essere
ricercato sul terreno del risentimento, in quanto è precedente ad esso ed è
manifestazione dell’attività. Obiettivo della cultura è quello di produrre un
individuo-sovrano.
A questo punto Deleuze si chiede quale sia il fenomeno che opponendosi alla
cultura, in senso preistorico, ne inverte la direzione e porta al trionfo le forze
reattive sulle forze attive costituendo il risentimento e la cattiva coscienza;
“Abbiamo però trascurato un punto importante: in realtà sono le forze inferiori e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!88 Ibidem, p. 200
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
43
reattive a trionfare. Abbiamo trascurato la storia. Allora dobbiamo riconoscere che
la cultura è da tempo scomparsa e contemporaneamente non è ancora cominciata.
L’attività generica si perde nella notte del passato, mentre il suo prodotto è
avvolto dalla notte del futuro. Nella storia, l’essenza della cultura, catturata da
forze estranee di tutt’altra natura, assume un senso assai diverso e l’attività
generica si confonde con un movimento che la snatura, snaturandone anche il
prodotto. Anzi, la storia consiste proprio in questo snaturamento e coincide con la
«degenerazione della cultura». In luogo dell’attività generica, la storia ci presenta
razze, popoli, classi, Chiese, Stati; sull’attività generica s’innestano
organizzazioni sociali, associazioni, comunità di carattere reattivo, parassiti che le
si sovrappongono per assorbirla. Grazie al loro falso movimento cui inducono
l’attività generica, le forze reattive danno vita a quelle forme collettive che
Nietzsche chiama «greggi»”89.
Secondo Deleuze, dunque, è l’incontro della cultura preistorica (intesa come
attività generica) con la storia umana che produce la decadenza della prima
favorendo dell’ascesa della seconda e diffondendo, come conseguenza, i sintomi
del risentimento e della cattiva coscienza. La storia capovolge la normale
selezione e gerarchia e sostituisce all’attività pura, (che dovrebbe portare ad una
sempre maggiore organizzazione passando attraverso l’autosoppressione degli
elementi che la costituiscono) basata sull’accrescersi vitale della volontà di
potenza insita nel mondo, grandi costruzioni reattive quali lo Stato e la Chiesa,
che non mirano a produrre quello che Nietzsche definisce “l’individuo-sovrano”
ma l’uomo da “gregge”, addomesticato e reso obbediente. Vediamo
schematicamente come, secondo Deleuze, il sacerdote guida questo movimento
che porta dall’attività generica al predominio delle organizzazioni reattive. In un
primo momento le forze reattive utilizzano l’attività generica per formare delle
associazioni reattive che hanno le sembianze di un gregge (Chiesa); in un secondo
momento il prete, pastore del gregge, interviene sull’uomo debole rendendolo
reattivo e creando la cattiva coscienza tramite l’introiezione di un rapporto tra
creditore e debitore in cui il debitore (reso uomo-da-gregge) sente di avere un
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!89 Ibidem, p.207
Capitolo 2: Un’interpretazione della morale giudaico-cristiana.
44
debito inestinguibile nei confronti del creditore (Dio). Nel terzo e ultimo
momento:
“Il prete non si limita ad avvelenare il gregge; egli lo organizza e lo difende,
inventa i mezzi per farci sopportare il dolore moltiplicato e interiorizzato, rende
sopportabile la colpa che egli stesso inietta, ci fa partecipi di una apparente attività
e di una apparente giustizia al servizio di Dio, ci coinvolge nell’aggregazione e
risveglia in noi «il desiderio di veder prosperare la comunità»” 90 .
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!90!Ibidem, p.213
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
45
Capitolo 3
Problema del prete e ideale ascetico.
3.1 Dall’ebraismo al cristianesimo
Nel secondo capitolo abbiamo visto come per Nietzsche si siano generati i
fenomeni del risentimento e della cattiva coscienza. Questi concetti rivestono una
grande importanza negli ultimi scritti del filosofo di Röcken, diventando le
categorie fondamentali attraverso cui guardare l’attualità per seguire il movimento
che, per come da lui concepito, conduce l’uomo moderno sempre più nel terreno
della décadence. Questo movimento verso il basso è un processo livellatore che
mira a spuntare le differenti “altezze” per generare un’identità livellata. Abbiamo
anche visto chi secondo Nietzsche sia iniziatore e fautore dei due processi,
l’istinto sacerdotale nella sua duplice forma: ebraica e cristiana. Il prete, che mira
alla potenza, ha compiuto la trasvalutazione degli antichi valori affermativi dei
signori nei valori reattivi di una morale da schiavi. Ha condotto una “guerra
sotterranea” contro i signori, i potenti, gli affermativi, attraverso la finzione,
l’unico mezzo a sua disposizione data la sua “impotenza”. L’istinto sacerdotale ha
contrapposto la finzione di un “mondo dietro al mondo”, di un aldilà, di un Dio
retributivo, ai vitali valori “reali-naturali” ai quali gerarchicamente sarebbe stato
inferiore. Per riuscire nella sua impresa ha dovuto inizialmente svalutare il mondo
e far forza sul maggior numero degli oppressi, stanchi della realtà, ai quali ha
promesso un altro-della-finzione. Il prete ha dovuto creare una morale reattiva per
sprigionare il suo spirito di vendetta (che non poteva scatenarsi nel concreto
tramite la forza). Lo spirito sacerdotale, condotto dall’odio più sfrenato verso i
potenti-per-costituzione, si è servito della debolezza (estranea al suo tipo) per
avere la meglio sui forti. L’odio è stato, dapprima, rivolto all’esterno ed era
giudaico (risentimento) per poi essere trasferito all’interno con il cristianesimo
(cattiva coscienza) e provocare dolore alleviabile solo dal prete stesso,
emanazione terrena del Dio dell’amore.
Cerchiamo ora di seguire il percorso che ha portato Nietzsche, studiando la storia
ebraico-cristiana, alla “scoperta” dei fenomeni del risentimento e della cattiva
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
46
coscienza e all’individuazione del sacerdote come centro propulsore della
trasvalutazione dei valori affermativi in quelli reattivi. In vari passi disseminati
disordinatamente nei testi, Nietzsche parla del popolo ebraico in maniera
ambivalente, con un misto di ammirazione profonda e di disprezzo. Per Nietzsche
gli ebrei rivestono un’importanza storica fondamentale in quanto sono gli artefici
della prima trasvalutazione dei valori aristocratici:
“Gli ebrei sono il popolo più notevole della storia mondiale poiché, posti dinanzi
al problema dell’essere o non essere, hanno preferito, l’essere a qualsiasi prezzo:
questo prezzo fu la radicale falsificazione di ogni natura, di ogni naturalità, di
ogni realtà, dell’intero mondo interiore come di quello esteriore […]. In maniera
irrimediabile hanno successivamente rovesciato nella contraddizione coi loro
valori naturali la religione, il culto, la morale, la storia, la psicologia. Incontriamo
ancora una volta, e in proporzioni indicibilmente più grandi, lo stesso fenomeno,
sebbene soltanto come copia: a confronto col “popolo dei santi” manca infatti alla
Chiesa cattolica ogni pretesa di originalità. Precisamente per questo gli ebrei sono
il popolo più fatale della storia del mondo: nei loro postumi effetti hanno
falsificato a tal punto l’umanità che ancora oggi il cristiano può sentire in maniera
antisemita, senza comprendere se stesso come l’ultima conseguenza
dell’ebraismo”91.
Nietzsche, sempre fermo nel sancire la nefasta funzione storica che ha rivestito il
popolo ebraico attraverso la trasvalutazione degli antichi valori, riconosce agli
ebrei una forza vitale fuori dal comune e definendoli il popolo più notevole e
fatale della storia, dimostra (come in altri passi) una certa ammirazione nei loro
confronti.
Didier Franck, nel testo Nietzsche e l’ombra di Dio, cerca di trovare una
spiegazione al perché di questa ambivalente valutazione. Innanzitutto Franck
precisa che Nietzsche ha una valutazione differente della storia ebraica perché si
riferisce spesso a momenti differenti di essa. Nietzsche ha studiato la storia
ebraica dal testo di Julius Wellhausen Prologomena zur Geschichte Israels.
Questo testo, a prescindere dalla validità attuale, ha costituito un momento
importante nell’interpretazione della storia di Israele. È di nostro interesse !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!91!F. Nietzsche, L’Anticristo, Adelphi Edizioni, Milano, 2006, p.29!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
47
soprattutto l’elemento di novità introdotto dai Prologomena, relativamente al
punto in cui Wellhausen cerca di dimostrare (non è per noi importante se ci sia
riuscito o meno, ma conoscere la storia da cui Nietzsche è partito per sviluppare le
sue idee) come la legge ebraica sia un fenomeno tardivo della storia di Israele;
non costituente ma costituito. Il testo di Wellhausen dimostra, secondo Franck,
come la legge sia un fenomeno successivo alla costituzione politica di Israele e
non possa essere stato opera del solo Mosè. Franck ricerca il momento interno
della storia di Israele in cui Nietzsche individua il bivio davanti al quale gli Ebrei
si dovettero porre tra il non essere più o il continuare ad essere propendendo per
l’ultima soluzione.
“La situazione d’indigenza che mise gli ebrei davanti alla domanda dell’essere e
del non essere, alla quale risposero preferendo a ogni costo l’essere, cioè
istituendo dei valori conservativi o reattivi, è dunque quella in cui si trova Israele
dopo la distruzione del Tempio e la presa di Gerusalemme da parte delle armate di
Nabucodonosor. La trasvalutazione ebraica si confonde allora con la nascita
dell’ebraismo, in altre parole con quella legge che, secondo San Paolo, il Cristo
viene a compiere”92.
Ciò che è per noi importante da capire è perché e in che modo l’istituzione della
legge abbia dato vita ad una trasvalutazione di valori da attivi a reattivi. Per come
evidenziato da Franck, secondo il canone ebraico la legge è il titolo del
Pentateuco. Il problema diventa dunque determinare come il Pentateuco, raccolta
di leggi, sia potuto divenire La legge, come: “abbia finito col prendere un senso
assoluto”93. Per comprendere il passaggio da un insieme di leggi alla legge
assoluta, bisogna indicare l’istituzione socio-sacrale da cui inizialmente l’insieme
di leggi dipendeva. Frank precisando che non potesse essere la monarchia a
costituire questo potere (in quanto in Israele il re è sempre stato condizionato dal
potere divino e non viceversa), indica nell’alleanza tra le dodici tribù e Jahveh il
luogo in cui dev’essere rintracciato. Siamo arrivati ad un punto decisivo del
discorso, l’alleanza dell’allora popolo di Israele, le dodici tribù, con Jahveh
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!92!D.Franck, Nietzsche et l’ombre de Dieu, Presses Universitaires de France, 1998; trad. it. Nietzsche e l’ombra di Dio, Lithos editrice, Roma 2002, p.353!93!Ibidem, p.353!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
48
sancito dall’Arca, è il patto con Jahveh che costituisce Israele come suo popolo
esclusivo. Le leggi risultano, in questo momento, una semplice emanazione di
questo patto. Ciò che avviene con la distruzione del tempio di Gerusalemme fu
sentito come la fine dell’alleanza (già annunciata dai profeti), in quanto il popolo
eletto dal Dio che è anche Dio della storia è stato sconfitto e condotto in esilio. Le
leggi rimasero in vigore, mantenute dalla continuità nella speranza di quella nuova
alleanza vaticinata da Geremia ed Ezechiele. Le leggi da questo momento
divennero indipendenti dalla tradizione. In questo vuoto di potere s’inserì il
sacerdote Esdra il quale: “si recò nella provincia di Gerusalemme e, per stabilirvi
durevolmente la pace e l’ordine, proclamò che la comunità gerosolimitana sarebbe
stata retta da allora in poi dalla «legge di Dio»” 94 . Questa operazione
eminentemente politica di Esdra capovolse la situazione storica e il rapporto con
Jahveh: mentre inizialmente il rapporto tra Dio e popolo era sancito dall’alleanza
e le leggi ne erano una conseguenza, ora, caduta l’alleanza, le leggi e il loro
rispetto costituivano la comunità e il suo rapporto con Dio. Da questo momento la
legge divenne assoluta, valida incondizionatamente e universale. È in questo
preciso momento storico, legato alla missione di Esdra e all’assolutizzazione delle
leggi che si compie quella che Nietzsche definisce la prima trasvalutazione dei
valori.
Ciò che muta radicalmente è la natura di Dio stesso: “fintanto che l’alleanza resta
in vigore, obbedire alle sue leggi significa rispondere all’iniziativa divina da cui
proviene l’alleanza, e Dio è attivo. Ma una volta rotta l’alleanza, Dio, dopo aver
rivelato la legge, «non può fare altro che reagire al comportamento dell’uomo di
fronte alla legge». L’assolutizzazione della legge è dunque, almeno, il divenire
reattivo di Dio”95. Ciò che si compie con la trasvalutazione ebraica è una
“trasmutazione radicale del senso della giustizia”96. Se sotto l’alleanza la giustizia
era una libera funzione di Dio, sciolta l’alleanza la giustizia diventa retributiva e
funzione della legge, dunque reattiva come lo stesso Dio. Nietzsche comprende
perfettamente questo punto:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!94!Ibidem, p.355!95!Ibidem, p.356!96!Ibidem, p.356!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
49
“In origine, soprattutto all’epoca del potere regio, anche Israele si trovava nel
giusto, vale a dire nel naturale rapporto con tutte le cose. Il suo Jahveh era
l’espressione della coscienza del potere, del piacere di sé, della speranza riposta in
sé: ci si attendeva da lui vittoria e salvezza, con lui si confidava nella natura, che
essa desse ciò di cui il popolo aveva bisogno- soprattutto la pioggia… Jahveh era
Dio d’Israele e di conseguenza Dio della giustizia: è questa la logica di ogni
popolo che ha la potenza e una buona coscienza di essa […]. Ma ogni speranza
restò inadempiuta. Il vecchio Dio non poteva più nulla di ciò che poteva una
volta. Che cosa accadde? Si trasformò il suo concetto - si snaturalizzò il suo
concetto: esso fu mantenuto a questo prezzo. - Non fu più un’unità con Israele,
un’espressione del sentimento di sé proprio di un popolo: restò soltanto un Dio
sottoposto a condizioni… Il suo concetto diventa uno strumento nelle mani di
agitatori sacerdotali, che ormai interpretano ogni buona ventura come premio,
ogni calamità come castigo per una disobbedienza a Dio, per il «peccato»: quella
mendacissima maniera d’interpretare un presunto «ordinamento etico del mondo»,
con la quale, una volta per tutte, viene capovolto il concetto naturale di «causa» e
«effetto»”97.
Dunque questo radicale capovolgimento interno al popolo ebraico risulta essere
manifestazione dello spirito di vendetta sacerdotale il quale, partendo da una
“naturale” situazione di impotenza riesce, sovvertendo gli antichi valori e
trasformando radicalmente il rapporto tra il popolo e il suo Dio (e di conseguenza
la funzione della giustizia), ad erigersi a capo del popolo diventando
assolutamente necessario in quanto legislatore e giudice. Il prete ebraico,
attraverso la finzione del peccato, riesce a sottomettere il popolo a sé
costituendosi come tramite terreno di Dio. Da questo momento ogni forma di
disobbedienza verso Dio diviene mancata obbedienza verso il prete e costituisce
un peccato da cui solo il prete può salvare incrementando lo stato di sottomissione
del peccatore. Alla domanda, cosa fa il prete ebraico? Si può rispondere che:
“Elevando la legge al di sopra dell’alleanza dalla quale Israele traeva tutta la sua
vita e la sua potenza, il prete subordina così questa a quella, che è loro estranea,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!97!F. Nietzsche, L’Anticristo, pp.30-31!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
50
perché, invariabile assoluta, essa ignora il divenire. E una volta astratto il valore
della vita dalla vita stessa, essa non può che trovarsi svalorizzata”98.
È questo il punto centrale per Nietzsche: la vita è sempre volontà di potenza che si
accresce superando ogni resistenza alla vita, ma, nel momento in cui la resistenza
non può essere superata, la vita resta volontà di potenza che si riversa sulla
propria conservazione rivolgendosi contro se stessa. Una volontà di potenza che si
rivolge contro se stessa e dunque contro la vita nega la vita stessa e istituendo
valori al di fuori di essa (la legge), riesce a conservarsi attraverso la finzione. Il
sacerdote ebraico è il creatore del risentimento perché è la prima forma nella
storia di una volontà di potenza che nega la vita per incrementare la potenza e
conservare la vita. Per far ciò è necessario al prete ebraico creare valori contro la
vita, abbassare al minimo grado la forza vitale in modo da istituirsi come potere
assoluto, per questo fine è stato necessario al prete creare la forza reattiva (utilizza
la forza per inaridire le fonti della forza) e rivolgere l’odio all’esterno per
compiere la più spirituale delle vendette.
Vediamo che per Nietzsche la storia ebraica è solo la prima fase della
trasvalutazione dei valori aristocratici da parte del potere sacerdotale e, per usare
le sue parole: “sappiamo chi ha raccolto l’eredità di questa trasvalutazione
giudaica…”99. È il cristianesimo che compie la mossa decisiva, che conduce al
definitivo trionfo ciò che ha solo il suo inizio con gli ebrei: la rivolta degli schiavi
nella morale. Abbiamo già visto nel precedente capitolo come questa rivolta viene
perseguita dal prete cristiano: al risentimento segue la cattiva coscienza. L’odio
giudaico rivolto verso l’esterno viene reindirizzato dal nuovo tipo sacerdotale
verso l’interno in modo da produrre un dolore da cui lui stesso è l’unico che può
salvare. Per comprendere bene come per Nietzsche sia avvenuto questo passaggio
bisogna capire come lui intende il cristianesimo e il conseguente rapporto tra
ebraismo e cristianesimo. Seguiamo Gilles Deleuze su questo punto che è capitale
per il nostro discorso. Deleuze cerca di seguire la valutazione di Nietzsche nei
confronti di questa complessa relazione da due differenti punti di vista:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!98!D.Franck, Nietzsche e l’ombra di Dio, p.360 99!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.198!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
51
“Da una parte il cristianesimo è il risultato dell’ebraismo, ne prosegue e ne
realizza l’opera: tutta la potenza del risentimento conduce al Dio dei poveri, dei
malati e dei peccatori. In pagine famose Nietzsche si sofferma sulla carica di odio
di San Paolo e sulla bassezza del Nuovo Testamento; la stessa morte di Cristo è
una svolta che riconduce ai valori ebraici e che instaura una pseudo-opposizione
tra l’amore e l’odio che rende l’amore più seducente, come se fosse indipendente
dall’odio e ad esso contrapposto, e ne fosse quindi la vittima. Da un altro punto di
vista -continua Deleuze- il cristianesimo apporta un contributo nuovo: non si
limita a dar compiutezza al risentimento, ma ne cambia la direzione attraverso
l’invenzione della cattiva coscienza. Ma nemmeno in questo caso si dovrà credere
che la nuova direzione del risentimento nella cattiva coscienza si contrapponga
alla direzione originaria; si tratta soltanto di una tentazione e di una seduzione
supplementari. Il risentimento diceva è «colpa tua», la cattiva coscienza dice «è
colpa mia»; ma si sa che il risentimento non si appaga finché il suo contagio non
si sia diffuso; il suo scopo è di far diventare reattiva la vita intera, di far diventare
malati i sani; non gli basta accusare: è necessario che l’accusato si senta colpevole
[…] è l’unica condizione indispensabile affinché il prete eserciti la propria
potenza: per sua natura egli deve dominare su coloro che soffrono”100.
Nietzsche individua continuità e rottura del cristianesimo nei confronti
dell’ebraismo allora dominante. L’amore professato dal cristianesimo non è altro
in realtà che un’ulteriore trasfigurazione di quell’odio giudaico e, se il
cristianesimo è riuscito vincitore nei confronti dell’ebraismo e del mondo intero,
non è, secondo Nietzsche, per una reale validità dei suoi presupposti e valori, ma è
un’ulteriore vittoria di quell’antico odio sacerdotale che ad un certo punto si
rivolge contro se stesso. Il primo cristianesimo rappresenta una rivolta nei
confronti della casta sacerdotale allora dominante, quella ebraica:
“Il «popolo santo» (quello ebraico), che per tutte le cose aveva conservato
soltanto valori sacerdotali, parole sacerdotali, […] questo popolo produsse per il
suo istinto un’ultima formula, la quale era logica fino all’autonegazione: esso
negò, come cristianesimo, anche l’ultima forma della realtà, «il popolo santo», «il
popolo degli eletti», la stessa realtà ebraica. Il caso è di prim’ordine: il piccolo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!100!Ibidem pp.198-199!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
52
moto di ribellione, che viene battezzato col nome di Gesù di Nazareth, è ancora
una volta l’istinto ebraico - in altri termini, l’istinto sacerdotale che non sopporta
più il prete come realtà, l’invenzione di una forma di esistenza ancora più astratta,
di una visione del mondo ancora più irreale di quanto sia condizionata
dall’organizzazione di una Chiesa. Il cristianesimo nega la Chiesa…”101.
Se Nietzsche ha dimostrato una valutazione ambivalente nei confronti della
religione e del popolo ebraico, non si può certo sostenere la stessa tesi per quanto
riguarda il suo rapporto con il cristianesimo. Nietzsche vede il cristianesimo come
sua vera antitesi, in tutti i suoi testi è presente un costante riferimento polemico ad
esso (fatta eccezione per la Nascita della tragedia, in cui il cristianesimo non è
ancora esplicitamente suo bersaglio come testimonia egli stesso nel famoso
Tentativo di autocritica posto successivamente come prefazione all’opera). Come
abbiamo visto, nella Genealogia della morale il cristianesimo è fautore della
conversione del risentimento ebraico nella cattiva coscienza. Il testo
dell’Anticristo, come risulta evidente dallo stesso titolo, è una dichiarazione di
guerra nei confronti del cristianesimo. Per Nietzsche il cristianesimo ha effetti
talmente nefasti da aver contagiato l’intera Europa con la particolarissima
“malattia” che porta in dote. Il cristianesimo, inizialmente una piccola setta nata
all’interno del popolo ebraico, fuoriesce dal suo terreno natale e riesce nei secoli a
sovvertire la forma di potere più duratura nel tempo: l’impero romano. La
diffusione del cristianesimo a livello mondiale ha indebolito l’umanità sostituendo
agli antichi valori aristocratici i “nuovi” valori servili, il cristianesimo prosegue
ciò che era iniziato con l’ebraismo, compie la definitiva trasvalutazione di tutti i
valori: il cristianesimo diffonde il nichilismo.
Nell’Anticristo e in molti altri testi, Nietzsche si sofferma sulla nascita del
cristianesimo e ne individua una frattura interna evidente fin dall’origine:
“Già la parola cristianesimo è un equivoco, - in fondo è esistito un solo cristiano
ed è morto sulla croce”102 . Per Nietzsche il cristianesimo, per come si è
sviluppato, non è che un fraintendimento della dottrina dell’uomo da cui prende il
nome: Gesù Cristo che, secondo il filosofo tedesco, è stato l’unico cristiano il cui !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!101!F. Nietzsche, L’Anticristo, p.35!102!Ibidem, p.50!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
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originale messaggio è stato frainteso o sovvertito. Ciò che ha raggiunto la vittoria
con il cristianesimo è ancora una volta l’istinto sacerdotale. In questo caso
Nietzsche individua in San Paolo il soggetto in cui s’incarna l’antico spirito di
vendetta; è Paolo il vero iniziatore del movimento inizialmente settario che ha
conquistato il mondo. Vedremo nei prossimi paragrafi la differenza “psicologica”
tra i due tipi: la psicologia del redentore e il tipo-Paolo.
3.2 La psicologia del redentore
“Il tipo «Gesù»… Gesù è esattamente l’opposto di un eroe: è un idiota. Si sente la sua incapacità
di intendere una realtà: egli si muove nel giro di cinque o sei concetti da lui prima uditi e a poco a
poco capiti [cioè falsamente] - in essa ha la sua esperienza, il suo mondo, la sua verità - il resto gli
è estraneo. Dice parole che tutti adoperano, ma non le intende come tutti, capisce solo quei cinque
o sei sfuggenti concetti. Che i veri e propri istinti virili - non solo quelli sessuali, ma anche quelli
della lotta, della fierezza, dell’eroismo - non siano mai maturati in lui, che sia un ritardato e sia
rimasto infantilmente nell’età puberale: ciò fa parte del tipo di certe nevrosi epilettoidi. Gesù è nei
suoi istinti più profondi antieroico: non si batte mai; chi vede in lui qualcosa come un eroe, come
Renan, ha volgarizzato il tipo fino a renderlo irriconoscibile. Si sente d’altra parte la sua incapacità
di intendere alcunché di intellettuale: la parola «spirito» diventa in bocca a lui un equivoco.
Neanche il più lontano soffio di scienza, di gusto, di disciplina mentale, di logica ha sfiorato
questo santo idiota: non più di quanto lo abbia toccato. Natura? Leggi di natura? Nessuno gli ha
rivelato che c’è una natura. Egli conosce solo effetti morali: un segno della cultura più bassa e
assurda. Si deve tener fermo ciò: egli è un idiota in mezzo a un popolo avvedutissimo… Solo che i
suoi discepoli non lo erano - Paolo non era in nessun modo un idiota! Da tutto ciò dipende la storia
del cristianesimo”103.
In questo breve testo, facente parte degli ultimi lasciti scritti da Nietzsche, credo
sia espressa con forti tinte quella che definiva nell’Anticristo la psicologia del
redentore. Definendolo con la dostoevskiana formula del santo-idiota, credo che
Nietzsche voglia distinguere nettamente il tipo-del-redentore da ogni possibile
incarnazione di ciò che per lui rappresenta l’odio sacerdotale incarnato dal prete.
Il Gesù di Nietzsche è l’unico vero cristiano perché la sua dottrina è rappresentata
dalla sua vita e dalla sua morte, dal modo in cui ha vissuto e dal modo in cui è
morto. In questa pratica di vita è racchiuso il vero messaggio cristiano, un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!103!F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, Adelphi Edizioni, Milano 1974, VIII, tomoIII, fr.14 [38]!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
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messaggio, che è stato successivamente reinterpretato e volutamente frainteso per
essere utilizzato in vista di tutt’altro fine. Nietzsche è convinto che ciò che è
giunto a noi tramite i Vangeli non sia altro che una deformazione del tipo. Gesù
insegna l’unico Evangelo:
“Che cosa significa lieta novella? La vita vera, la vita eterna è trovata - non viene
promessa, esiste, è in voi: come vita nell’amore, nell’amore senza detrazioni o
esclusioni, senza distanza. Ognuno è figlio d’Iddio - Gesù non pretende
assolutamente nulla per sé solo - ognuno in quanto figlio di Dio, è uguale
all’altro...”104.
Il modo in cui è stata interpretata questa figura da chi, come Renan, ne rintraccia
le caratteristiche del genio-eroe è ciò che più si allontana dalla realtà del tipo. Se
Nietzsche utilizza una formula così forte come quella di santo-idiota, santo-
anarchico è proprio per opporsi a questa tradizionale formulazione del
personaggio di Cristo. Nietzsche vede nel tipo le caratteristiche dell’idiota in
quanto uomo che, a causa di una difficoltà costitutiva del vivere nel reale, di
soffrire, di accettare il mondo, si rinchiude nella propria interiorità “come fuga
nell’«inafferrabile», nell’«inconcepibile», come ripugnanza a ogni formula, a ogni
concetto spazio-temporale, a tutto ciò che è stabile, costume, istituzione, Chiesa,
come uno starsene di casa in un mondo con cui non viene più in contatto alcuna
specie di realtà, in un mondo meramente «interiore», un mondo «vero», un mondo
«eterno»…«il regno di Dio è in voi»”105.
Nietzsche vede nel redentore un soggetto dalla forte irritabilità fisiologica, dotato
di estrema sensibilità per la sofferenza e il dolore, un uomo che non oppone
resistenza, un uomo che ha realmente insegnato l’amore “Come unica, come
ultima possibilità di vita”106.
Gesù non era un fanatico, come voleva Renan, non era il tipo-fondatore di
religione. Ciò che Gesù insegna è evitare ogni contrasto, non conosce formule e
non diffonde dogmi, conosce solo la vita che sperimenta, ogni sua frase è
simbolica, allegoria di quel mondo interiore in cui si è rifugiato. Per Nietzsche è
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!104!F. Nietzsche, L’Anticristo, p.38!105!Ibidem, p.38!106!Ibidem, p.39!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
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una figura simile a quella del Buddha, esprime un nichilismo passivo che ama la
vita e insegna la morte. Deleuze evidenzia lo stretto rapporto tra la figura reale di
Gesù (il tipo descritto da Nietzsche) e la concezione buddhistica di un nichilismo
passivo. In questa passività del nichilismo Deleuze coglie la particolarità del tipo-
del-redentore che lo nobilita rispetto a chi, come Paolo, trasfigura la figura e la
riporta in uno stato di nichilismo che è ancora negativo o reattivo.
La possibilità della comprensione del Cristo-Buddha è stata negata dai tempi e
dall’ambiente in cui è comparso ma nel recupero di questa figura, Deleuze vede
l’importanza dell’esempio di un estinguersi passivo che, come vedremo, è la base
fondamentale per sperare in una nuova trasvalutazione dei valori. Il tipo
personale del Cristo non è caratterizzato da alcun tipo di risentimento o
sentimento di vendetta, non vuole la guerra, non conosce la colpa, vuole
sopprimere il peccato. Per far ciò si spinge fino all’estrema contraddizione vitale
di rinunciare ad ogni difesa arrivando perfino a perdonare i suoi accusatori e
assassini. Il tipo del redentore vuole simbolizzare con la sua morte come sia
possibile la sua dottrina, una dottrina che acquista per lui valore proprio con
questa morte, con l’accettazione della sua morte. E quel comandamento che
risulta impossibile “ama il tuo nemico” forse solo per il suo tipo è stato una volta
possibile:
“Questo lieto messaggero morì come visse, come aveva insegnato - non per
redimere gli uomini, ma per indicare come si deve vivere. La pratica della vita è
ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini: il suo contegno dinanzi ai giudici,
agli sgherri, agli accusatori e a ogni specie di calunnia e di scherno - il suo
contegno sulla croce. Egli non resiste, non difende il suo diritto, non fa un passo
per allontanare da sé il punto estremo, fa anzi qualcosa di più, lo provoca… e
prega, soffre, ama con loro, in coloro che gli fanno del male… le parole rivolte al
ladrone sulla croce racchiudono in sé l’intero Vangelo. «Questi in verità è stato un
uomo divino, un ‘figlio d’Iddio’!» - dice il ladrone. «Se tu lo senti» - risponde il
redentore - «tu sei in paradiso, anche tu sei un figlio d’Iddio…». Non difendersi,
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
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non sdegnarsi, non attribuire responsabilità… ma neppure resistere al malvagio -
amarlo…”107.
Se questo è ciò che Nietzsche pensa della psicologia di Gesù di Nazareth, bisogna
ora soffermarsi su come sia stata possibile una deformazione tale da consegnare
alla tradizione un tipo quasi opposto al Gesù storico. Una deformazione che ha
portato il Cristo ad essere simbolo di una religione che ha avuto come premesse e
conclusioni peccato e salvezza ultraterrena che Gesù, con la sua vita, voleva
negare. Ancora una volta se è stata possibile una tale deformazione, bisogna
comprendere l’ambiente in cui è stata possibile. La dottrina che Gesù voleva
insegnare era la pratica di vita. Non credendo alle formule, egli si esprimeva
attraverso simboli che vennero interpretati da chi colse il messaggio, si era tra
ebrei e i suoi seguaci erano ebrei che conoscevano soltanto idee ebraiche:
“Quello strano mondo malato in cui ci introducono i Vangeli […], deve avere in
tutti i modi reso più rozzo il tipo: i primi discepoli, in particolare, dovevano prima
tradurre nella loro propria grossolanità un tale essere completamente immerso nei
simboli e nell’inconcepibile, per poter comprendere in generale qualche cosa, -
per essi il tipo cominciò a sussistere soltanto dopo essere stato plasmato
unitariamente in forma più note… il profeta, il messia, il futuro giudice, il maestro
di morale, il taumaturgo, Giovanni Battista - furono altrettante occasioni per
travisare il tipo…”108. Se i suoi discepoli non compresero il messaggio e non
s’interessarono alla sua vita, ciò che destò il più vivo interesse fu la sua morte. La
“croce” divenne il mistero dei misteri. Come poteva il figlio di Dio esser morto
crocifisso?
Il momento fu storicamente decisivo, l’odio ebraico si manifestò ancora una volta,
si cercò il colpevole e fu individuato in quel ceto sacerdotale che non riconobbe il
messia. “Soltanto allora si spalancò l’abisso: «Chi lo ha ucciso? Chi era il suo
naturale nemico?» - Questa domanda eruppe come un fulmine. Risposta:
l’ebraismo dominante, la sua classe più elevata. Da questo momento ci si sentì in
rivolta contro l’ordine, più tardi si vide in Gesù il ribelle contro l’ordine”109. Se
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!107!Ibidem, p.46!108!Ibidem, p.40!109!Ibidem, p.52!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
57
Gesù era morto per insegnare a non odiare, la sua morte ebbe come conseguenza
tutto l’opposto del messaggio: una vendetta, una rivolta, la trasfigurazione del
tipo. Se, per come Nietzsche li descrive, i primi discepoli erano così grossolani da
non comprendere il tipo, non fu loro possibile neanche trasfigurarlo in vista di una
nuova dottrina. Fu allora che intervenne Paolo di Tarso, dotato di tutt’altro
spessore intellettuale e culturale rispetto ai “veri” discepoli. Fu Paolo a spostare
l’accento dall’importanza della vita all’importanza della morte e a sovvertire il
significato del messaggio gesuano. Fu sempre Paolo a simbolizzare Cristo come
vittima sacrificale in vista della remissione dei peccati.
“E di colpo si fece del Vangelo la più spregevole di tutte le irrealizzabili
promesse, la spudorata dottrina dell’immortalità personale… Lo stesso Paolo la
insegnava come premio!...”110.
3.3 La psicologia di San Paolo
“Che in essa (nella Bibbia) sia descritta la storia di una delle anime più ambiziose,
più moleste e di un cervello tanto superstizioso quanto accorto, la storia
dell’apostolo Paolo - chi mai lo sa a eccezione di qualche dotto?- Tuttavia senza
questa storia singolare, senza i perturbamenti e le burrasche di un tale cervello, di
una tale anima, non esisterebbe cristianità; avremmo avuto appena notizia di una
piccola setta giudea, il maestro della quale morì sulla croce”111.
Queste poche righe sono tratte da un brano di Aurora dal titolo particolarmente
significativo: Il primo cristiano. Paolo ha sempre rivestito per Nietzsche il ruolo
di una figura dalla fondamentale importanza. Nietzsche pensa che il cristianesimo
inizi con Paolo; che sia stato Paolo (che non ha mai personalmente conosciuto il
“suo” redentore) ad aver maggiormente deformato la figura di Gesù Cristo e che
sia sempre lui il responsabile della definitiva trasvalutazione dei valori iniziata dal
ceto sacerdotale ebraico. Ciò che si conosce di Paolo di Tarso è espresso negli
Atti degli apostoli e nelle lettere da lui scritte (cronologicamente i primi testi
riconosciuti dal Canone neotestamentario). Paolo era un fariseo, si presenta lui
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!110!Ibidem, p.54!111!F. Nietzsche, Aurora, p.49!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
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stesso come progenie di Abramo appartenente alla tribù di Beniamino. Era dotato
di una grande cultura ed era fanatico osservatore della Legge ebraica. È stato un
persecutore dei primi cristiani fino al momento in cui, diretto a una missione
persecutoria contro di loro, viene colto da una “visione” di Gesù Cristo e si
converte alla Sua parola. Per questa dottrina, con lo stesso fanatismo del passato,
si legittima come apostolo e s’impegna fino alla morte (avvenuta sotto Nerone tra
il 58 e il 59 d.C.) a professarne il messaggio o più precisamente la sua
interpretazione di esso.
Ho fatto ovviamente un riassunto estremamente sommario della vita di Paolo
perché ciò che più ci interessa della sua figura è l’interpretazione che ne dà
Nietzsche. Iniziamo col dire che il filosofo tedesco conia un nuovo termine per
descrivere la funzione devastante che ha avuto Paolo sull’avvenire
dell’insegnamento di Cristo, lo chiama: disangelista. Paolo è venuto, secondo
Nietzsche, a trasfigurare la figura del redentore per imporre la sua dottrina.
“Alla «buona novella» seguì immediatamente la peggiore tra tutte: quella di
Paolo. In Paolo s’incarna il tipo antitetico alla «buona novella», il genio nell’odio,
nella visione dell’odio, nella spietata logica dell’odio. Che cosa non ha sacrificato
all’odio questo disangelista? Innanzitutto il redentore: lo inchiodò alla sua croce.
La vita, l’esempio, la dottrina, la morte, il senso e il diritto dell’intero Vangelo -
nulla di tutto ciò esistette più quando questo falsario comprese, per odio,
unicamente ciò di cui aveva bisogno. Non la realtà, non la verità storica…”112.
Cogliamo subito alcune intuizioni di Nietzsche: Paolo contrappone la sua dottrina
a quella di Gesù Cristo per “odio”. L’apostolo dei Gentili comprende le parti degli
insegnamenti che potevano essergli necessari e, cambiandone il senso, utilizza i
nuovi significati per dare sfogo al suo odio. Vediamo come continua Nietzsche:
“E ancora una volta l’istinto sacerdotale degli Ebrei perpetrò un identico, grande
delitto contro la storia - egli cancellò, né più né meno, lo ieri, l’avanti ieri del
cristianesimo, inventò per sé una storia del primo cristianesimo. E più ancora,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!112!F. Nietzsche, L’Anticristo, p.55!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
59
falsificò di nuovo la storia d’Israele, affinché apparisse come la preistoria della
sua azione; tutti i profeti hanno parlato del suo «redentore»”113.
Dunque, l’odio che guidava Paolo derivava da quell’identico spirito sacerdotale,
ricco di odio e proteso alla vendetta, che caratterizzava il ceto dominante ebraico.
Paolo, guidato da questo poderoso istinto, utilizzò la nascente storia del
cristianesimo per plasmarla nella sua nuova dottrina. Fece ancora di più, colse
tutto ciò che poteva essergli utile nell’Antico Testamento, tutto ciò che poteva
utilizzare, e lo pose in collegamento con quanto da lui annunciato; quasi fosse il
preambolo di ciò che veniva dopo. Ciò che annunciavano i profeti nell’Antico
Testamento (infedeltà di Israele-punizione divina-attesa messianica) fu avvertito e
caratterizzato da Paolo come riferimento costante al suo “profeta”.
Paolo trova il suo problema, il suo avversario, il suo nemico nella legge giudaica
che tanto aveva amato e difeso. Il suo problema era probabilmente il suo istinto, la
sua interiorità. Paolo non sopportava la legge perché per lui, uomo estremamente
turbato, non era possibile rispettarla nella sua totalità. Una volta postosi il
problema del peccato, capì che la legge lo provocava rendendo impossibile la sua
totale adempienza. La legge colpiva la carne perché Paolo, fanatico com’era,
soffriva ardentemente nel mancato rispetto della legge.
L’interpretazione di Nietzsche diventa estrema quando cerca di comprendere cosa
successe “sulla via di Damasco”, (avvenimento raccontano nella prima Lettera ai
corinzi [1Cor 15]) quando Paolo ebbe la sua personalissima visione del Cristo che
gli chiedeva pietosamente “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”(Atti 9-4)114.
Nietzsche si pone il problema del perché, dato per assodato che una visione
“reale” di Gesù non fosse possibile, Paolo abbia cambiato totalmente direzione al
suo pensiero e alla sua azione. Nietzsche sostiene che ciò che successe a Paolo fu
sì un evento del tutto unico, ma assolutamente non una visione celeste: ebbe
un’intuizione, nel senso più forte del termine. Paolo fu pervaso da un’idea a dir
poco geniale, mentre si dirigeva a perseguitare i discepoli di quest’uomo
crocifisso, lo colse il pensiero dei pensieri. Paolo capì che il Cristo in croce,
simbolo di ciò che perseguitava, sarebbe potuto essere per lui un mezzo, il più !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!113!Ibidem, p.55!114!La Bibbia di Gerusalemme, Centro editoriale dehoniana 2010, [Atti degli apostoli, 9-4], p.2605!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
60
potente, per porsi contro la legge e svuotarla. Capì che “far-credere” nella divinità
di un uomo crocifisso dalla legge sarebbe stato innalzare un paradosso
difficilmente scioglibile. Paolo comprese che professare che quel Gesù - morto
sulla croce perché trasgressore della legge - fosse in realtà il “figlio di Dio” che si
è sacrificato per gli uomini avrebbe svuotato di senso la legge.
Paolo introduce lo spirito ponendo la questione in termini dialettici: con il nuovo
messaggio si annuncia che lo spirito svuota e supera la lettera. Da questo
momento, per Paolo, ciò che conta è la fede in Gesù Cristo e nel suo essere risorto
dai morti. Ciò che gli ebrei pensavano di poter raggiungere (la salvezza)
attraverso le opere stando sotto la legge è ora svuotato di senso e anche se non del
tutto annullato, risulterà superfluo rispetto alla fede.
In Paolo si attua il superamento della legge giudaica. Da questo momento la
salvezza non dipende più dalle opere, ma dalla fede in Gesù Cristo e nel suo
sacrificio per la salvezza degli uomini. Se la Legge era il segno distintivo
dell’antica alleanza dei giudei con Dio e la nuova alleanza è slegata dalla legge e
caratterizzata dalla fede, allora è possibile per Paolo un secondo movimento di
assoluta sovversione. Gesù Cristo sulla croce si è sacrificato per tutti gli uomini,
non solo per Israele: “Maledetto chi è appeso al legno, perché in Cristo Gesù la
benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello
Spirito mediante la fede” (Gal.3-13)115. Questo è un altro momento decisivo
dell’opera di trasvalutazione compiuta da Paolo: la fede in Gesù Cristo è possibile
per tutti. Il Dio che era Padre di Israele e aveva con esso sancito un patto
testimoniato dall’arca e successivamente dalla legge, si rivolge ora a tutti gli
uomini pronti ad accogliere la fede in quel Gesù crocifisso. Paolo così facendo si
pone in conflitto con i primi cristiani, rappresentati dai dodici apostoli compagni
del Cristo.
Siamo arrivati a comprendere la portata assolutamente rivoluzionaria di Paolo
che, attraverso lo svuotamento della legge ebraica e il capovolgimento del
concetto di elezione, rende universale il messaggio e scioglie definitivamente il
nascente cristianesimo dal terreno ebraico da cui comunque naturalmente è sorto.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!115!Ibidem, [Gal. 3,13],p.2774!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
61
Nietzsche indica quali fossero i veri intenti del “tredicesimo” apostolo poiché:
“Paolo voleva il fine, di conseguenza volle anche i mezzi…”116. Questi “mezzi”
utilizzati da Paolo non sono per Nietzsche altro che finzioni, geniali finzioni.
Paolo è il tipico genio sacerdotale perché è il genio del capovolgimento; Nietzsche
rintraccia nell’apostolo quel trasvalutatore di tutti i valori che successivamente lui
stesso crede di poter rovesciare. In Paolo rintraccia ovunque la categoria della
finzione; in ogni suo movimento ciò che Paolo compie è un capovolgimento.
Secondo Nietzsche però, ciò che più risulterà decisivo nella successiva diffusione
del messaggio è lo spostamento di quello che è il centro di gravità della vita: “se
si trasferisce il centro di gravità della vita non nella vita, ma nell’«al di là» - nel
nulla - si è tolto il centro di gravità alla vita in generale. La grande menzogna
dell’immortalità personale distrugge ogni ragione, ogni natura nell’istinto - tutto
quanto negli istinti è benefico, promotore di vita, mallevadore dell’avvenire, desta
ormai diffidenza. Vivere in modo che non ha più senso alcuno vivere, questo
diventa ora il senso della vita…”117. Paolo compie la più spirituale delle vendette
perché si vendica contro la vita stessa. Egli comprese ciò di cui aveva bisogno per
raggiungere il suo fine:
“Quel che lui stesso non credeva, gli idioti, tra cui egli gettò la sua dottrina, lo
credettero. - Il suo bisogno era la potenza: con Paolo, il sacerdote volle ancora una
volta pervenire alla potenza - potevano servirgli soltanto quei concetti, quelle
dottrine e quei simboli, con cui si tiranneggiano masse, si formano mandrie”118.
Spostando l’importanza massima della vita in un momento successivo ad essa è
chiaro come si svaluti il mondo in favore del nulla. Il passo geniale compiuto da
Paolo è aver spostato l’accento sulla morte di Cristo più che sulla sua vita, sulla
sua resurrezione dai morti più che sul suo insegnamento. La geniale trovata della
morte di Gesù come sacrificio espiatorio per la salvezza di tutti gli uomini è la
mossa decisiva con cui Paolo assolutizza il peccato rendendolo interiore,
inevitabile e scontabile unicamente tramite la fede.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!116!F. Nietzsche, L’Anticristo, p.56!117!Ibidem, p.56!118!Ibidem, p.56!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
62
Finora abbiamo visto come Paolo abbia trovato e utilizzato simboli e concetti e
quanto in lui si manifesti esemplarmente ciò che Nietzsche definisce l’istinto
sacerdotale. Dobbiamo ora esaminare quale sia il vero bersaglio di tale istinto e di
Paolo come suo massimo rappresentante. Se necessità di Paolo era pervenire alla
potenza e se, come abbiamo visto in precedenza, la potenza che non si può
estrinsecare come tale per mancanza di forza necessita della finzione, rendere le
masse reattive è ciò che è necessario al potere sacerdotale per erigersi come tale.
Il bersaglio di Paolo è per Nietzsche la scienza, la scienza intesa come sapienza e
conoscenza del mondo:
“Una religione, come il cristianesimo, che non si trova a contatto con la realtà in
nessun punto, e che crolla non appena la realtà anche soltanto in un punto afferma
il suo diritto, deve logicamente essere nemica mortale della «sapienza del
mondo», voglio dire della scienza - essa approverà tutti i mezzi con cui può essere
avvelenata, calunniata, screditata la disciplina dello spirito, la purezza e il rigore
nelle questioni di coscienza dello spirito, la nobile freddezza e libertà dello spirito.
La «fede» come imperativo è il veto contro la scienza - in praxi la menzogna a
qualsiasi costo… Paolo comprese che la menzogna - «la fede» - era necessaria:
più tardi la Chiesa ricomprese Paolo. - Quel «Dio» che Paolo si era inventato, un
Dio che «confonde la sapienza del mondo», […] è in verità soltanto la risoluta
decisione dello stesso Paolo: chiamare «Dio» la propria volontà, thora, ciò è
originariamente ebraico. Paolo vuole confondere la «sapienza del mondo»: i suoi
nemici sono i buoni filologi e medici di Alessandria; - è a loro che fa guerra”119.
Per concludere, Paolo è per Nietzsche una figura della massima importanza,
perché è il simbolo del risentimento tipicamente sacerdotale che, sentendo
necessario l’accrescimento della potenza, utilizza la sua genialità tramite la
finzione per svalutare una realtà che non può accettare e crearne una copia irreale
in cui utilizzare la reattività per pervenire alla potenza. Paolo innalza il nulla sopra
la realtà, svaluta il mondo e, così facendo, crea valori-disvalori sempre reattivi.
Ponendo la fede al di sopra delle opere e rendendo l’elezione un criterio generale
di puro-dono-divino, Paolo indirizza il messaggio verso tutti con la
consapevolezza che esso attecchirà più facilmente tra chi su questa terra non vive !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!119!Ibidem, p. 66!
Capitolo 3: Problema del prete e ideale ascetico.
63
di benessere e speranza. Il tredicesimo apostolo crea un soggetto del tutto nuovo,
dotato di una nuova identità tutta protesa verso altro. Paolo utilizza il nulla per
assolutizzarlo. Vedremo nel seguente capitolo come, secondo Nietzsche, sia
l’ideale ascetico che rende possibile il trionfo del sacerdote mediante un
sistematico ribaltamento della realtà teso alla conquista di sempre maggiore
potenza (attraverso l’innalzamento del nulla). Paolo è stato l’esempio perfetto di
prete-potente, “Paolo è stato il più grande tra tutti gli apostoli della vendetta”120.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!120!Ibidem, p.63!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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Capitolo 4
Ascesi come potenza.
4.1 L’ideale ascetico
Ecce homo, uno degli ultimi testi scritti da Nietzsche, rappresenta una particolare
forma di autobiografia. Come si può facilmente intuire dai nomi dati ai capitoli
che lo compongono, in esso, Nietzsche attraverso un linguaggio altamente
simbolico, cerca di annunciare se stesso. In questo libro presenta una descrizione
di come si diventa ciò che si è (come ci dice il sottotitolo del testo), ponendo se
stesso come riferimento. Ad inizio e fine libro, sotto i titoli di: perché sono così
saggio, perché sono così accorto, perché sono un destino, Nietzsche con modi
particolarmente enfatici, cerca di presentarci la sua persona e la fondamentale
portata storica che essa è destinata a rappresentare. Il filosofo tedesco vuole
rappresentare se stesso come primo immoralista. Ciò contro cui combatte è la
morale, solitamente nella sua accezione giudaico-cristiana.
Abbiamo seguito i protagonisti della sua particolare interpretazione storica: i
dispositivi del risentimento e della cattiva coscienza, le forze reattive che si
sostituiscono in tutto a quelle attive e la psicologia del prete che fa da motore e
conduttore a questi particolari dispositivi. Ciò che manca per completare il
percorso che Nietzsche ha sistematizzato nelle tre dissertazioni della Genealogia
della morale è la condizione in cui sola è stato possibile il succedersi di tali
fenomeni storici. Nietzsche introduce nella terza dissertazione l’ideale ascetico,
che in realtà “era presente fin dall’inizio”121. Abbiamo avuto modo di vedere nei
precedenti capitoli come sia stato Paolo a compiere ciò che Nietzsche definisce
trasvalutazione di tutti i valori. Il percorso di svilimento della vita inizia con il
risentimento ebraico, la cui assolutizzazione della legge produce una situazione in
cui la vita si conserva in modo reattivo. Prosegue poi con il cristianesimo, in cui
fin dai Vangeli è presente sempre e soltanto Israele che trova il suo Messia da
contrapporre al mondo. Si compie con Paolo, vero genio del risentimento e della
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!121!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.217!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
65
cattiva coscienza, il definitivo trionfo delle forze reattive su quelle attive che ora
si dirigono all’interno producendo dolore. Per Nietzsche il cristianesimo inizia
con Paolo perché non sarebbe potuto iniziare con il tipo-Gesù.
Come evidenzia Gilles Deleuze, Nietzsche sembra distinguere più tipi di
religione. In queste distinzioni la religione non è sempre una forza reattiva ma,
avendo una pluralità di sensi, deve la sua qualità al tipo di forze con cui entra in
rapporto. Vi sono rari casi in cui la religione, entrando in rapporto con forze di
altro genere (attive), si pone come forza attiva di selezione ed educazione (lo
stesso esempio del Cristo-di-Nietzsche, legato all’insegnamento di una pratica di
vita da cui sono esclusi risentimento e cattiva coscienza, potrebbe assumere tale
significato).
“Se il senso della religione dipende dalle forze che sono in grado di
impadronirsene, la stessa religione è a sua volta una forza che può presentare
un’affinità più o meno accentuata con le forze che se ne impadroniscono o di cui
essa si impadronisce”122.
Quando Nietzsche in alcuni passi parla di religioni attive, si riferisce a religioni
investite da forze che le fanno funzionare come mezzi per scopi del tutto differenti
da quelli tipicamente-religiosi: “…questo filosofo si servirà delle religioni per la
sua opera di plasmazione culturale ed educativa, allo stesso modo in cui utilizzerà
le condizioni politiche ed economiche del momento”123 o “la religione stessa
potrebbe essere utilizzata come un mezzo per crearsi una quiete rispetto al rumore
e alla difficoltà di governare nel senso più grossolano del termine, nonché una
purezza di fronte alle necessarie sozzure di ogni politica attiva”.124 E ancora “la
religione porge anche a una parte dei governanti una guida e un’occasione per
prepararsi a governare e a comandare un giorno, cioè a quelle classi e a quei ceti
in lenta ascesa nei quali, grazie a felici usanze matrimoniali, la forza e il piacere
della volontà, la volontà di auto-dominio, va continuamente potenziandosi - e a
costoro la religione offre sufficienti impulsi e allettamenti per incamminarsi sulle
strade di una superiore spiritualità, per sperimentare i sentimenti del grande auto-
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!122!Ibidem, p.215!123!F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi Edizioni, Milano, 2006, p.66!124!Ibidem, p.66!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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superamento, del silenzio e della solitudine - ascetismo e castità sono infatti mezzi
quasi indispensabili per educarsi e nobilitarsi, quando una razza vuol trionfare
sulla sua origine plebea e si sforza per elevarsi al dominio che eserciterà un
giorno”125.
In casi differenti, quando ad esempio domina su altre forze ed esprime se stessa
come fine, la religione assume il suo significato primario.
Il nostro problema è stato fin dall’inizio comprendere la genesi dei fenomeni del
risentimento e della cattiva coscienza, ora bisogna capire come essi siano stati
genialmente messi in moto (abbiamo già visto Chi li ha messi in moto), come sia
stato possibile il loro trionfo. Ebbene è l’intrecciarsi di questi fenomeni all’interno
delle varie “storie delle religioni” che ha prodotto un sovvertimento dei naturali
rapporti tra le cose in favore del nulla, del falso, del non-esistente. Deleuze coglie
in Nietzsche l’idea di un legame inscindibile tra la religione e le due istanze del
risentimento e della cattiva coscienza. Seguiamo la sua spiegazione di questo
particolare rapporto di forze:
“Considerati allo stato grezzo, il risentimento e la cattiva coscienza rappresentano
infatti le forze reattive che si impadroniscono degli elementi della religione per
liberarli dal giogo sotto il quale sono tenuti dalle forze attive, mentre, allo stato
formale, il risentimento e la cattiva coscienza rappresentano le forze reattive di cui
la religione si appropria e dalla quale vengono sviluppate dal momento in cui essa
incomincia a esercitare la sua nuova sovranità; risentimento e cattiva coscienza
sono così i gradi superiori della religione come tale. L’inventore del cristianesimo
non è Cristo ma Paolo, l’uomo della cattiva coscienza e del risentimento […]. La
religione non è solo una forza: mai le forze reattive potrebbero trionfare, portando
la religione sino al suo grado superiore, se la religione non fosse di per sé animata
da una volontà, la volontà di condurre al trionfo le forze reattive”126.
Deleuze interpreta dunque la religione come la condizione attraverso cui si
possono sprigionare il risentimento e la cattiva coscienza ma anche come la forza
che può condurre questi due fenomeni e attraverso essi imporre il suo potere. La
lontananza dal risentimento e dalla cattiva coscienza resero impossibile a Gesù di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!125!Ibidem, pp.66-67!126!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, pp.216-217!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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Nazareth il fondare una religione; per far questo Paolo era l’elemento necessario.
Distinguendo nella religione una volontà diversa da una forza, una volontà che
vuole far trionfare le forze reattive, Deleuze introduce la sua interpretazione di ciò
che Nietzsche definisce ideale ascetico.
Come abbiamo visto nei paragrafi riguardanti le due tipologie di prete, ebraico e
cristiano, Nietzsche pensa ad un particolare rapporto di interazione tra le forze
reattive e il potere sacerdotale, inteso come particolare forma della volontà di
potenza. Il prete conduce le forze reattive al trionfo perché non incarna una forza
reattiva. Abbiamo visto in precedenza come le forze reattive non potrebbero avere
la meglio senza essere spinte da una volontà capace di applicare proiezione e
finzione. L’ideale ascetico, tramite la finzione di un al di là del mondo, permette
al risentimento e alla cattiva coscienza di proliferare rendendo possibile la
svalutazione della vita a favore del nulla.
Seguiamo Deleuze nella sua interpretazione dell’ideale ascetico:
“In un primo senso, l’ideale ascetico denota l’unione in cui vengono a intrecciarsi
e a rafforzarsi reciprocamente il risentimento e la cattiva coscienza; in secondo
luogo esso denota l’insieme dei mezzi di cui la malattia del risentimento e il
dolore della cattiva coscienza si servono per diventare sopportabili, per
organizzarsi e propagarsi: il prete asceta è insieme giardiniere, allevatore, pastore
e medico. Infine, nel suo senso più profondo, l’ideale ascetico esprime la volontà
che fa trionfare le forze reattive: «l’ideale ascetico esprime una volontà»”127.
Abbiamo detto che affinché le forze reattive trionfino è necessaria la categoria
della finzione. L’ideale ascetico è il produttore per eccellenza della finzione,
intesa come negazione della realtà a favore di ciò che non è reale, che non ha
sostanza, che è nulla. Quando Deleuze, interpretando Nietzsche, parla di una
volontà immanente dell’ideale ascetico, si riferisce ad un particolarissimo tipo di
volontà insito nell’uomo, per cui solo è stato possibile lo sviluppo e il dominio
dell’ideale ascetico: “nella circostanza che l’ideale ascetico ha avuto in generale
un così grande significato per l’uomo, si esprime il fondamentale dato di fatto
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!127!Ibidem, p.217!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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dell’umano volere, il suo horror vacui: quel volere ha bisogno di una meta - e
preferisce volere il nulla, piuttosto che non volere”128.
Secondo Nietzsche è a causa della sofferenza dell’uomo-nel-mondo, della
sofferenza davanti alla realtà che la finzione si è resa necessaria, come lo è sempre
stata. La differenza consiste nel modo di rapportarsi alla realtà che in ogni caso
implica sofferenza. Se Nietzsche intravedeva nei Greci un popolo realmente
affermativo, anche nel suo rapporto con la divinità, era per la loro capacità di
sopportare la sofferenza, per i loro mezzi per affrontarla. La tragedia greca
(Sofocle-Eschilo) è la massima rappresentazione di questo stato di cose. Nella
tragedia si esprimeva perfettamente la visione greca della vita e della sofferenza
che in essa era necessaria e inevitabile, ma che poteva essere accettata,
trasfigurata e resa forza vitale. I Greci partivano dal presupposto simbolico
espresso dal detto silenico che esprime in maniera così elegante Calderòn de la
Barca: “Sarebbe stato meglio non essere mai nati ed una volta nati morire
presto”129. Questo presupposto non serviva da base per svalutare o respingere la
realtà, ma tutto all’opposto per accettarla e viverla nella sua interezza.
La differenza che si ha con la morale cristiana, espressione - secondo Nietzsche -
dell’ideale ascetico tramite risentimento e cattiva coscienza, è proprio la risposta
che si dà a questa sofferenza. Con l’avvento del cristianesimo, che in ciò è unico
anche rispetto all’ebraismo, assistiamo ad un modo del tutto nuovo di rapportarsi
alla sofferenza. Gli ebrei, come i greci, erano e restano attaccati alla vita terrena,
alle cose in senso stretto, alle gioie e prosperità che la vita può offrire. È il
cristianesimo di Paolo (come simbolo del prete ascetico ricolmo di potenza) che
cerca di dare un significato alla sofferenza, di interpretarla. Da questa
particolarissima interpretazione, per cui era necessario l’ideale ascetico, si prese
partito contro il mondo e contro la vita, si creò un mondo-altro, un mondo di
finzione. In questo capovolgimento totale, in cui ciò che è vero-reale diventa
falso-ideale, quello che avviene è una trasvalutazione di tutti i valori,
dimostrazione di una volontà che tende al nulla.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!128!F. Nietzsche, Genealogia della morale, p.89!129!Calderòn de la Barca, La vita è sogno, Adelphi Edizioni, Milano, 1997, p. 56!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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“Questo appunto significa l’ideale ascetico: che qualcosa mancava, che
un’enorme lacuna circondava l’uomo - egli non sapeva giustificare, spiegare,
affermare se stesso, soffriva del problema del suo significato. Soffriva anche
d’altro, era principalmente un animale malaticcio: ma non la sofferenza in se
stessa era il suo problema, bensì il fatto che il grido della domanda «a che scopo
soffrire?» restasse senza risposta. L’uomo, l’animale più coraggioso e più abituato
al dolore, in sé non nega la sofferenza; la vuole, la ricerca persino, posto che gli si
indichi un senso di essa, un «perché» del soffrire. L’assurdità della sofferenza,
non la sofferenza, è stata la maledizione che fino a oggi è dilagata sull’umanità - e
l’ideale ascetico offrì ad essa un senso! È stato fino a oggi l’unico senso; un
qualsiasi senso è meglio che nessun senso; l’ideale ascetico è stato sotto ogni
aspetto il «faute de mieux» par excellence che sia mai esistito sino a ora. In esso la
sofferenza venne interpretata”130.
Il cristianesimo, secondo Nietzsche, ha attecchito in maniera così imponente
perché si è diretto ai più sofferenti, ai malati, ai reietti, perché erano loro che
necessitavano di un’interpretazione per la loro sofferenza, coloro che erano troppo
deboli per sopportarla. Per questo motivo Deleuze parla di uno stretto legame tra
forze reattive e volontà del nulla, perché le une non potrebbero trionfare senza
l’altra e viceversa. Le forze reattive necessitano di una finzione, di credere in
qualcosa, anche se questo qualcosa è poi nient’altro che nulla. Solo grazie alla
finzione dell’ideale ascetico è stato possibile il trionfo del risentimento come
proiezione all’esterno e della cattiva coscienza come spostamento all’interno della
forza. Si è prima creato un altro a cui contrapporsi per scatenare l’odio e si è
successivamente creato un concetto come quello di colpa-peccato che ha
permesso all’odio di dirigersi verso l’interno e produrre dolore come cattiva
coscienza. Allo stesso modo l’ideale ascetico come volontà del nulla necessita
delle forze reattive perché solo esse permettono alla vita di dirigersi contro se
stessa e di nientificarsi.
Nella terza dissertazione Nietzsche pone il quesito “Cosa significano gli ideali
ascetici?”, le sue interrogazioni sono poste sempre nella forma del “chi?”, mai del
che cosa?”. La vera domanda è: a che tipologia di uomo l’ideale ascetico è più !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!130!F. Nietzsche, Genealogia della morale, p.156!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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necessario e sotto quale forma si estrinseca? Anche se conosciamo già in parte la
risposta è bene seguire il testo, soffermandoci solo brevemente su ciò che è meno
vicino al nostro tema. Nietzsche si chiede inizialmente quale sia il senso
dell’ideale ascetico per gli artisti e la risposta è abbastanza esaustiva: “che
significano gli ideali ascetici? - negli artisti, nulla oppure troppe cose diverse”131.
Dopo aver chiarito quale è stato il ruolo dell’ideale ascetico in un artista come
Richard Wagner, Nietzsche passa a vagliare quale sia il rapporto dei filosofi con
l’ascetismo. Partendo da un discorso su Schopenhauer come pessimista radicale e
sofferente della vita, Nietzsche spiega quale sia la sua posizione nei confronti dei
filosofi come asceti:
“Che significa, dunque, l’ideale ascetico in un filosofo? Come si sarà indovinato
da un pezzo, - è questa la mia risposta: alla sua vista sorride il filosofo, come di
fronte a un optimum delle condizioni di suprema e arditissima spiritualità- e con
ciò non nega l’«esistenza», sibbene afferma in essa la sua esistenza e unicamente
la sua esistenza, e questo forse sino al punto da non restargli lontano l’empio
desiderio: pereat mundus, fiat philosophia, fiat philosophus, fiam!...”132.
I filosofi si sono serviti dell’ideale ascetico come di quella sola forma sotto cui
potevano legittimarsi come tali, utilizzandone la condizione per trasfigurarsi:
“Lo spirito filosofico ha sempre dovuto innanzitutto travestirsi e mascherarsi nei
tipi anteriormente stabiliti dell’uomo contemplativo, come sacerdote, mago,
indovino, come un uomo religioso in generale, per essere in qualche misura anche
soltanto possibile: per lungo tempo l’ideale ascetico è servito al filosofo come
forma fenomenica, come presupposto esistenziale - costui dovette rappresentarlo,
per poter essere filosofo, dovette credere in esso, per poterlo rappresentare”133.
È in questo caso la filosofia che si è servita dell’ideale ascetico, anche se per
Nietzsche superata la necessità del camuffamento essa dovrebbe abbandonarlo per
non svilirsi e perdere la sua forza vitale e affermatrice.
Siamo giunti, infine, al centro della questione: l’ideale ascetico si manifesta in
tutta la sua potenza nella figura del prete e, viceversa, il sacerdote trova
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!131!Ibidem, p.89!132!Ibidem, p.100!133!Ibidem, p.109!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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nell’ascesi la sua massima potenza. Il prete, come abbiamo visto in precedenza, è
di tutt’altra natura rispetto ad una forza reattiva, ed è per questa ragione che riesce
a condurla. Il sacerdote tramite l’ascesi vuole la sua potenza. Trovato il suo
debole seguito, può far agire liberamente i suoi mezzi per svilire la vita; creando
la finzione e rendendola assoluta offre la sua interpretazione della sofferenza con
il risultato di produrne maggiormente: “Il prete asceta ripone in quell’ideale non
soltanto la sua fede, bensì anche la sua volontà, la sua potenza, il suo interesse.
Con quell’ideale si erige e cade il suo diritto all’esistenza”134. Bisogna chiarire
questo punto: mentre per il filosofo l’ideale ascetico è una condizione in cui
potersi camuffare per prosperare, per il sacerdote l’ideale ascetico è la sua più
stretta natura, è a lui affine. Attraverso l’ideale ascetico, il sacerdote ricerca la
potenza:
“Il prete asceta è il desiderio, fatto carne, di essere-in-altro-modo, di un essere-in-
altro-luogo, e invero il grado supremo di questo desiderio, il suo caratteristico
ardore e la sua passione: ma appunto la potenza del suo desiderare è il ceppo che
lo inchioda qui; appunto in tal modo egli diventa lo strumento costretto a lavorare
per creare le condizioni più favorevoli per essere-qui ed essere-uomo- appunto
con questa potenza tiene ancorato all’esistenza l’intero gregge di ogni genere di
falliti, di malcontenti, di malriusciti, di sciagurati, di sofferenti di sé. Mi si
comincia a capire: questo apparente nemico della vita, questo negatore-
appartiene precisamente alle più grandi forze conservatrici ed affermativamente
creatrici della vita…”135.
Nietzsche definisce il mezzo principale utilizzato dal prete per assoggettare la
massa come aberrazione del sentimento. Il sacerdote ha come obiettivo
l’ottundimento del dolore e per ottenerlo provoca alterazioni negli altri sentimenti
legandoli a stimoli falsificati. Creando una morale che pone i valori in un mondo
di finzione, il prete non fa che modificare il comportamento dell’uomo e per far
ciò deve intervenire sui sentimenti, sulle passioni. L’uomo del gregge su cui è
intervenuto il prete asceta è reso malato più di quanto già non lo fosse: in lui i
sentimenti affermativi vengono soppressi o ancora peggio interiorizzati e sostituiti
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!134!Ibidem, p.110!135!Ibidem, pp.114-115!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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da quelli reattivi. Con l’istituzione del peccato, il conseguente senso di colpa non
fa che aumentare il dolore nell’uomo già debole. Il senso di colpa è il mezzo
attraverso il quale il prete si rende indispensabile, in quanto lui solo può
“assolverlo”. Attraverso il senso di colpa, il prete rende l’uomo sempre più malato
e conquista così per sé il suo potere nella sua indispensabilità. Presentandosi come
asceta, negatore del mondo e della vita, il prete riesce a imporre la sua
interpretazione del dolore e renderla dominante. Osserviamo più da vicino questa
particolare interpretazione e i suoi effetti nefasti:
“L’interpretazione- indubbiamente- comportò nuova sofferenza, più profonda, più
intima- più venefica, più corrosiva, rispetto alla vita: dispose ogni sofferenza sotto
la prospettiva della colpa… Ma ciò nonostante- l’uomo venne in questo modo
salvato, ebbe un senso, non fu più, da quel momento in poi, una foglia al vento, un
trastullo dell’assurdo, del «senza-senso», ormai poteva volere qualcosa. E
soprattutto senza che avesse la minima importanza in che direzione, a che scopo,
con che mezzo egli volesse; restava salvata la volontà stessa. Non ci si può
assolutamente nascondere che cosa propriamente esprime tutto questo volere, che
sulla base dell’ideale ascetico ha preso il suo indirizzo: questo odio contro
l’umano, più ancora contro il ferino, più ancora contro il corporeo, questa
ripugnanza ai sensi, alla ragione stessa, il timore della felicità e della bellezza,
questo desiderio di evadere da tutto ciò che è apparenza, trasmutamento, divenire,
morte, desiderio, dal desiderare stesso- tutto ciò significa, si osi rendercene conto,
una volontà del nulla, un’avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti
fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una volontà!... e per ripetere in
conclusione quel che già dissi all’inizio: l’uomo preferisce ancora volere il nulla,
piuttosto che non volere”136.
4.2 Il Nichilismo
Cerchiamo ora di capire cosa intende Nietzsche per il nulla che questa volontà
vuole, successivamente cercheremo di intendere quale sia questa volontà che
vuole il nulla.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!136!Ibidem, p. 157!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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“Nel termine nichilismo, nihil non sta a significare il non-essere, ma esprime
anzitutto un certo valore del nulla, quel valore che la vita assume dopo essere stata
negata e svalutata. La svalutazione presuppone sempre una finzione, attraverso la
quale soltanto è possibile falsificare e svalutare la vita, contrapporvi qualcosa di
modo che essa diventi irreale, si configuri come un’apparenza e assuma
globalmente il valore di nulla”137.
Il prete asceta è il creatore del nichilismo perché è l’iniziatore della finzione di un
mondo sovrasensibile contrapposto al mondo sensibile e reale. La morale
giudaico-cristiana è nata da questa finzione per poi fondare i cosiddetti valori
superiori che hanno la loro genesi in una svalutazione della vita e della realtà.
Ogni valutazione e svalutazione derivano la loro possibilità da una volontà. Nel
negare il mondo sensibile, nel porre un’esistenza ultraterrena e nell’erigere valori
basati su queste modalità di rapportarsi alla vita è sempre presente e operante una
volontà. In questo senso Deleuze può dire: “Nel caso del nichilismo nihil sta a
significare la negazione come qualità della volontà di potenza”138. Questo nihil
non è un nulla, non è uno zero di attività, ma è una qualità, un’accezione negativa
della volontà. Se a livello teorico il nichilismo, come inteso da Nietzsche, può
essere così definito, vedremo che a livello pratico-sociale assume diversi altri
significati. Nietzsche crede che non basti l’opera del prete asceta a far trionfare il
nichilismo: l’ideale ascetico deve trasfigurarsi. Quando Zarathustra annuncia che
“Dio è morto” intende annunciare che il Dio cristiano è ormai assente dalla vita
dell’uomo sulla terra, ma non per questo l’uomo è guarito da un male che da tanto
tempo e sempre più lo affligge. Nietzsche pensa che con la morte di Dio non sia
affatto giunto il momento della fine del cristianesimo o della sua tradizione. Se
con il Dio cristiano si giustificava e si redimeva la vita, le si dava un senso, con la
sua morte si assiste ad un nuovo momento storico-umano, il senso non c’è più. La
morale cristiana ha raccolto l’eredità del Padre ma non per questo ha dato un
nuovo significato alla vita o ne ha in qualche maniera accresciuto la forza.
Con la morale cristiana che prende il posto del Padre si assiste, secondo
Nietzsche, al trionfo del nichilismo che, se da una parte rappresenta la volontà del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!137!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.221!138!Ibidem, p.222!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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nulla (un’accezione della volontà che è comunque un volere), dall’altra parte
assume il significato di una volontà che tende a diventare nulla. La morale
cristiana ha creato valori che sono per Nietzsche in realtà dei dis-valori. La morale
cristiana ha svalutato la vita in funzione di un al di là e, in questo modo, ha creato
valori che partivano da questo presupposto. Nietzsche utilizza come presupposto
per valutare i valori, la loro funzione nell’accrescimento della forza vitale
dell’uomo. Se parla di una morale che ha reso e rende gli uomini malati, lo fa in
questo senso. I valori della morale giudaico-cristiana svalutando la realtà in favore
dell’irrealtà non possono in alcun modo favorire la vita che viene svigorita e
dispregiata. Come abbiamo visto in questo percorso, ciò che si afferma è
comunque una volontà, anche se una volontà del nulla, dell’irrealtà, della
finzione. Veniamo ora ad un secondo significato che assume il nichilismo: la
negazione della volontà. In questo ultimo senso il nichilismo si presenta in tutta la
sua attualità.
“Il nichilismo ha anche però un secondo e più comune significato, che consiste
nell’indicare non una volontà ma una reazione, una reazione contro il mondo
sovrasensibile e contro i valori superiori, di cui si negano l’esistenza e la validità:
non più svalorizzazione della vita in nome di valori superiori, ma svalorizzazione
degli stessi valori superiori, dove svalorizzazione non è più il valore di nulla che
la vita assume, ma il nulla di valore dei valori superiori.[…] il nichilista nega Dio,
il bene, nega anche il vero e ogni forma del sovrasensibile: niente è vero, niente è
bene, Dio è morto. Il nulla di volontà non solo è sintomo di una volontà del nulla
ma, al limite, è la negazione di ogni volontà, un taedium vitae; non c’è più volontà
dell’uomo, della terra…”139.
Se inizialmente abbiamo a che fare con una volontà del nulla, che agisce come
forza negatrice, successivamente entrano in gioco le forze reattive che necessitano
di questa volontà per “affermarsi” e che cercano infine di estrometterla per poter
trionfare. Deleuze distingue due sensi del nichilismo ai quali in seguito ne
aggiungerà un terzo come esito del secondo: il nichilismo si configura come
negativo, reattivo e infine passivo. Con l’ebraismo e il cristianesimo, risentimento
e cattiva coscienza, abbiamo la volontà di negare il mondo, di svalutare la vita in !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!139!Ibidem, p.222!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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favore di valori superiori che consistono nel nulla. In questo caso, il nichilismo si
manifesta come volontà di negare, volontà del nulla che è e resta una volontà e
assume il significato di nichilismo negativo. Con la morte di Dio assistiamo alla
nascita dell’Uomo e il nichilismo da negativo diventa reattivo. Se Feuerbach
afferma che: “L’essenza dell’uomo è l’essere supremo dell’uomo; esso viene sì
chiamato Dio dalla religione e considerato un essere oggettivo, ma in verità non è
che l’essenza propria dell’uomo. Questo è perciò il punto di svolta della storia
universale: d’ora in avanti per l’uomo Dio non apparirà più come Dio, ma sarà
l’uomo ad apparire come Dio”140. Con ciò non è stata ancora annunciata la morte
di Dio, ma solo una sua trasfigurazione: Dio non è morto ma è divenuto Uomo.
Secondo Deleuze però, bisogna intenderci sul Chi, chi è l’Uomo che ha sostituito
Dio? La risposta è ancora una volta: l’uomo reattivo.
“Allorché la vita reattiva ne diventa la componente essenziale, il cristianesimo
perviene a uno strano esito: ci investe della responsabilità della morte di Dio,
generando così il proprio ateismo, l’ateismo della cattiva coscienza e del
risentimento. La vita reattiva sostituisce la volontà divina, l’Uomo reattivo
sostituisce Dio, l’Uomo-Dio, l’Uomo europeo sostituisce il Dio-Uomo. L’uomo
ha ucciso Dio; ma quale uomo? L’uomo reattivo, «l’uomo più brutto». La volontà
divina, la volontà del nulla non poteva tollerare una vita che non fosse reattiva, ma
quest’ultima non tollera nemmeno Dio, non sopporta la sua compassione, prende
alla lettera il suo sacrificio, lo fa cadere nella trappola della sua stessa
misericordia e gli impedisce di resuscitare sedendosi sulla pietra che chiude il
sepolcro. Non c’è più correlazione tra la volontà divina e la vita reattiva in quanto
Dio viene ora spostato, sostituito con l’uomo reattivo”141.
Il nichilismo reattivo si può cogliere sul letto di morte della dialettica e, con esiti
differenti, esso si presenta in autori quali Feuerbach, Stirner, Schopenhauer e
Marx. L’esito è la perdita di Dio e dei valori superiori che, se con Feuerbach e
Marx diventa un tentativo di dare un senso all’esistenza e trasformarla in un
qualcosa di differente da ciò che è, con Stirner assume le sembianze dell’Unico
che è consapevole del nulla-del-senso e con Schopenhauer trova il suo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!140!Feuerbach, L’essenza della religione, Laterza, 1969, p.33!141!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.232!
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compimento definitivo nella possibilità di salvezza dalla sofferenza della vita
attraverso la catarsi artistica e la pratica cristiana della compassione. Il nichilismo
reattivo è inaugurato dall’assassinio di Dio da parte dell’uomo più brutto, l’uomo
reattivo che compie l’estremo gesto perché non può accettare un simile testimonio.
Dio era diventato troppo invadente nei confronti dell’uomo:
“Dio è morto, ma di che cosa? È morto di compassione, afferma Nietzsche […]
che cos’è la compassione? È la tolleranza degli stati della vita prossimi allo zero,
è l’amore per la vita, ma per la vita debole, malata, reattiva; è l’annuncio della
vittoria finale dei poveri, dei sofferenti, degli impotenti, degli umili cui, nel suo
farsi divina, concede questa vittoria. Chi prova compassione, se non colui che
tollera soltanto la vita reattiva, che ne ha bisogno per trionfare, che ha bisogno di
edificare i propri templi sul terreno paludoso di tale vita? Chi, se non colui che
odia tutto quanto vi è di attivo nella vita, e che se ne serve per negarla, svalutarla,
per contrapporla a se stessa? Nel simbolismo di Nietzsche la compassione sta
sempre a indicare l’unione formata dalla volontà del nulla e dalle forze reattive, la
loro reciproca affinità e tolleranza”142.
Deleuze indica nella compassione ciò che per Nietzsche è sintomo di una volontà
che tende al nulla. L’uomo uccide Dio e ne prende il posto, non ammette più
valori superiori ma solo una vita reattiva. Siamo giunti all’esito finale del
nichilismo, quando il nichilismo reattivo si compie diviene nichilismo passivo o
momento della coscienza buddhistica. In vari passi disseminati in quasi tutti i suoi
testi, Nietzsche pone in contrapposizione la religione cristiano-paolina alla prassi
buddhistica, arrivando a sostenere una certa somiglianza tra il Buddha e il tipo
Gesù. Per nichilismo passivo si può intendere la tendenza al nulla come
rassegnazione, atarassia, assenza di emozioni, nirvana, uno stato-zero della
volontà. La religione buddhistica è sì una religione della decadenza, ma
tipologicamente molto differente dal cristianesimo di Paolo. Secondo Nietzsche,
un risultato simile raggiunge la filosofia epicurea:
“Per quanto sempre nella magnificenza dell’esagerazione orientale, è espressa
semplicemente una valutazione identica a quella del chiaro, freddo, ellenicamente
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!142!Ibidem, p.224!
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freddo, ma sofferente Epicuro: l’ipnotico senso del nulla, la quiete del sonno
profondissimo, insomma l’assenza di dolore. Questo può considerarsi per i
sofferenti e per i radicalmente scontenti già come bene supremo, come valore dei
valori, questo deve essere stimato da costoro come positivo, deve essere avvertito
come il positivo stesso. (Secondo la stessa logica del sentimento, il nulla, in tutte
le religioni pessimistiche, è chiamato Dio)”143.
In un breve testo, conosciuto come Frammento di Lenzerheide, Nietzsche affronta
direttamente il tema del nichilismo (titolo del testo è Il nichilismo europeo), per
cercare di dimostrare come la moderna Europa sia ormai contagiata da questo
pericoloso stato morboso, che, derivato dalla negazione del mondo da parte della
religione cristiana, si è ingigantito con la perdita della credenza in Dio e nei valori
superiori. Vediamo come Nietzsche introduce la prospettiva dalla quale può
giudicare la modernità come nichilista all’interno di un discorso sul senso della
morale:
“La morale ha dunque protetto la vita dalla disperazione e dal salto nel nulla
presso quegli uomini e quelle classi che sono stati violentati e oppressi da altri
uomini: giacché è l’impotenza nei confronti degli uomini e non l’impotenza nei
confronti della natura, che genera la più disperata amarezza nei confronti
dell’esistenza. La morale ha trattato come nemici coloro che detenevano il potere,
i violenti, i signori in genere, dai quali l’uomo comune doveva essere protetto,
cioè anzitutto incoraggiato, rafforzato. La morale ha quindi insegnato a odiare e a
disprezzare nel modo più profondo quella che è la caratteristica fondamentale dei
dominatori: la loro volontà di potenza”144.
Il senso della morale è stato dunque quello di proteggere i più deboli dalla
disperazione che è causata dalla vita intesa come volontà di potenza. Ma questo è
solo uno dei sensi (forse il più apprezzabile), che Nietzsche coglie nella morale,
seguiamo il suo pensiero:
“Abolire, negare, dissolvere questa morale: ciò significherebbe conferire
all’istinto più odiato un sentimento e una valutazione opposti. Se il sofferente,
l’oppresso perdesse la fede nell’avere il diritto di disprezzare la volontà di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!143!F. Nietzsche, Genealogia della morale, pp.128-129!144!F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, Adelphi Edizioni, Milano, 2006, pp.15-16!
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potenza, entrerebbe nello stadio della più nera disperazione. Ciò avverrebbe se
risultasse che anche in quella «volontà di morale» è camuffata solo questa
«volontà di potenza», che anche quell’odio e quel disprezzo è ancora una volontà
di potenza. L’oppresso si renderebbe conto di stare sullo stesso piano
dell’oppressore, e di non avere alcun privilegio né rango superiore all’altro”145.
Secondo Nietzsche, la morale giudaico-cristiana è stata capace di compiere questo
rovesciamento: per prima cosa ha diretto le forze reattive contro le forze attive
annullando quest’ultime; successivamente, ha capovolto il valore reale di queste
forze applicando un metro di giudizio basato su valori fittizi; così facendo ha reso
necessaria se stessa nei confronti dei suoi sostenitori e ha indebolito l’uomo “di
tutti i ceti”.
Ciò che Nietzsche sente come sua missione, come suo destino, è riportare valori e
valutazioni ad un metro reale: “Nella vita non c’è niente che abbia valore al di
fuori del grado di potenza - dato appunto che la vita altro non è che volontà di
potenza. La morale ha preservato dal nichilismo i disgraziati attribuendo a
ciascuno un valore infinito, un valore metafisico, e inserendolo in un ordinamento
che non concorda con quello della potenza e gerarchia terrene”146.
Nel prossimo paragrafo si cercherà di descrivere questa volontà di potenza che per
Nietzsche è l’unico parametro da cui è possibile partire per valutare la vita.
4.3 La volontà di potenza
Nel primo capitolo abbiamo definito la volontà di potenza come elemento
differenziale e genetico della forza. Abbiamo potuto vedere come la volontà di
potenza sia una volontà (o meglio un’intensità) immanente alla forza, cui
conferisce una qualità intrinseca e una qualità prodotta dalla differenza di quantità
che si manifesta nell’incontro, prodotto dal caso, con un’altra forza.
È giunto il momento di affrontare direttamente il concetto di volontà di potenza,
attraverso il quale Nietzsche (che ha introdotto questo concetto nella filosofia)
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!145!Ibidem, p.16!146!Ibidem, p.16!!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
79
pensa di aver trovato un nuovo criterio di valutazione del reale. Per comprendere
cosa sia e come si manifesti la volontà di potenza è opportuno iniziare con il dire
ciò che essa non è. La volontà di potenza non è una volontà che vuole la potenza.
Per comprendere la volontà di potenza, bisogna partire da questa caratterizzazione
in negativo. È fondamentale non pensare alla volontà di potenza come ad una
volontà antropomorfica in cerca della potenza, del dominio, del potere
(intendendo anche questi concetti in un’accezione antropomorfica). Intendere la
volontà di potenza in questo modo è il più grave fraintendimento che si possa fare
(e che è stato fatto). Se nella volontà di potenza fosse presente e agente una
volontà che vuole la potenza, essa si batterebbe per raggiungere i valori stabiliti
(onore, denaro, successo) e si manifesterebbe esclusivamente nella lotta per il
dominio. Intendere in questo modo la volontà di potenza significherebbe non
riuscire a cogliere la portata rivoluzionaria del concetto di potenza, sarebbe
intendere la volontà di potenza nel suo senso più grezzo. Deleuze si spinge, in
questo senso, fino ad affermare che nel concetto di volontà di potenza, ciò che
vuole è la potenza:
“Senza dubbio, nel desiderare di dominare, nell’immagine che gli impotenti
hanno della volontà di potenza, ritroviamo comunque una volontà di potenza, ma
al suo grado più basso. La volontà di potenza al suo grado più alto, nella sua
forma intensa o intensiva, non consiste nel bramare e nemmeno nel prendere, ma
nel dare e nel creare. Il suo vero nome, dice Zarathustra, è la virtù che dona. E il
fatto che la maschera sia il dono più bello è testimonianza della volontà di potenza
come forza plastica, come la più alta potenza dell’arte. La potenza non è ciò che la
volontà vuole, ma ciò che vuole nella volontà, vale a dire Dioniso”147.
In questo breve passo di Deleuze, ritroviamo alcune caratteristiche fondamentali
della volontà di potenza: grado ed intensità. La volontà di potenza può essere
intesa come intensità pura, come ciò che della volontà non vuole la potenza ma
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!147!G. Deleuze, Conclusions: sur la volonté de puissance et l’éternel retour, in l’ile déserte et autres textes, Les Editions de Minuit, Paris 2002; trad.it. Conclusioni sulla volontà di potenza e l’eterno ritorno, in L’isola deserta e altri scritti, Biblioteca Einaudi, Torino 2007, p.148!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
80
che si manifesta come volere al massimo grado, “elevare ciò che si vuole
all’ennesima potenza”148.
Era fondamentale, prima di procedere alla descrizione della volontà di potenza,
fissare i limiti a questo concetto che è facilmente fraintendibile. Una volta intesa
la volontà di potenza come “grado d’intensità”, ritorniamo alla nostra prima
caratterizzazione e cerchiamo di estrapolare dai difficili passi in cui Deleuze si
sforza di interpretare la volontà di potenza, le molteplici possibilità di questa
interpretazione stessa.
Abbiamo accennato al ruolo fondamentale che spetta alla volontà di potenza nella
distinzione delle forze. Si può intendere la volontà di potenza come elemento
genealogico della forza e della differenza tra le forze. È in questo senso che:
conferisce una qualità alla forza e, nel rapporto tra forze che è generato dal caso,
produce la differenza di quantità a cui corrisponde la differente qualità. La
difficoltà nel definire cosa sia la volontà di potenza dipende dal suo carattere
plastico e metamorfico che è rintracciabile nella genesi dei rapporti di forza e
nella sua produzione creativa in senso lato. Come abbiamo visto in precedenza
Deleuze, nello sforzo di definirne il ruolo genetico e creativo, assegna alla volontà
di potenza la funzione di principio della sintesi delle forze. Deleuze pensa che
Nietzsche abbia un problema in comune con i post-kantiani: anche riconoscendo
l’enorme importanza della scoperta kantiana della sintesi, si cercava di trovare per
essa un principio genetico tale che permettesse di cogliere la differenza tra gli
elementi della sintesi che Kant troppo facilmente riduceva. Nietzsche riprende il
concetto di sintesi ma lo intende come sintesi di forze che ha la volontà di potenza
come principio immanente e l’eterno ritorno come manifestazione attraverso cui
solo è possibile cogliere il differente che si produce nella ripetizione.
Il termine principio può facilmente trarre in inganno e far retrocedere il concetto
in un oscuro senso metafisico, per cui va inteso come un particolare principio di
un superiore empirismo che non è riscontrabile di per sé nella sua purezza ma
unicamente nella sua determinazione:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!148!Ibidem, p.152!!!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
81
“Essa è un principio plastico, che non si estende al di là di ciò che condiziona, che
si trasforma e che di volta in volta si determina attraverso ciò che determina. In
realtà non si può mai separare la volontà di potenza dalla quantità, dalla qualità,
dalla direzione di una determinata forza; mai superiore alle determinazioni di cui
impronta un rapporto tra forza, essa rimane sempre plastica e in metamorfosi”149.
Partendo dalla plasticità della volontà di potenza, Nietzsche può porla in contrasto
con la Volontà nella sua accezione psicologica che, fino a Schopenhauer e
soprattutto con quest’ultimo, è stata intesa come unitaria e astratta, separata cioè
da ciò che determina e da ciò attraverso cui si manifesta. Nella famosa sentenza di
Nietzsche “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, 150 si può cogliere
l’eccezionalità della volontà di potenza che nella sua plasticità conferisce un senso
ai fenomeni e dà un’importanza radicale all’interpretare e al valutare. Un fatto è
già un’interpretazione; in questa concezione così radicale viene a cadere la
validità di ogni scienza o filosofia che pretende di valutare i fatti, le cose, al di là
del senso e della direzione che questi assumono.
Come ha dimostrato perfettamente Michael Foucault, l’interpretazione come
strumento filosofico è una delle maggiori novità introdotte da Nietzsche a livello
metodologico. Per Nietzsche tutto è prospettico perché tutto è riducibile alla
volontà di potenza e ad una gerarchia che distingue tra gradi differenti di essa. Per
Nietzsche non possono esistere cose o fatti perché quello che in filosofia era
precedentemente il rapporto tra il segno e il senso viene da lui trasformato in
quello tra il segno e una molteplicità di sensi: “in modo che ogni interpretazione
sia già quella di un’altra interpretazione, all’infinito”151. Ovviamente ciò non sta a
significare che per Nietzsche ogni interpretazione sia dello stesso valore di
un’altra (come se derivasse la sua concezione da uno scetticismo nichilista), la
differenza si pone nel criterio della valutazione:
“… Smettono di avere come criterio il vero e il falso. Il nobile e il vile, l’alto e il
basso diventano principi immanenti delle interpretazioni e delle valutazioni. Alla
logica si sostituisce una topologia e una tipologia: alcune interpretazioni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!149!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, pp.75-76!150!F.Nietzsche,!Vol. V, tomo 1: Aurora e Frammenti postumi (1879-1881), a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, tr. di Mazzino Montinari e Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 1964 151!G. Deleuze, Conclusioni sulla volontà di potenza e l’eterno ritorno, p.147!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
82
presuppongono una maniera bassa o vile di pensare, di sentire e persino di
esistere, altre testimoniano di una nobiltà, di una generosità, di una
creatività…”152.
Non è casuale che Nietzsche abbia utilizzato il metodo genealogico solo dopo
aver scoperto la volontà di potenza. C’è una correlazione stretta tra la volontà di
potenza e il lavoro del genealogista che interpreta e valuta. Come abbiamo visto
nel primo capitolo sul metodo genealogico, per interpretare un fatto è necessario
scavare nel rapporto di forze che lo costituisce e per scovarne il senso è necessario
conoscere la qualità della forza che se ne impossessa e il rapporto di
dominanza/dominato che stabilisce con le altre forze con cui entra in contatto.
Abbiamo visto come le forze siano qualitativamente caratterizzate in attive e
reattive e come sia la volontà di potenza a caratterizzarle. La volontà di potenza
stessa ha delle qualità che sono l’affermativo e il negativo (da non confondere con
l’attività e la reattività caratteristiche della forza): “affermare e negare, apprezzare
e svalutare sono espressioni della volontà di potenza così come l’agire e il reagire
sono espressioni della forza”153. Come le forze reattive sono sempre delle forze
così la volontà di potenza che nega è e resta una volontà, una volontà che vuole il
nulla. Il nichilismo diventa possibile nel momento in cui la qualità negativa della
volontà di potenza trova forze reattive da poter utilizzare per il suo scopo
(svalutare la vita e promuovere il nulla).
“Da una parte è evidente che in ogni azione c’è affermazione e in ogni reazione
c’è negazione; ma d’altra parte l’azione e la reazione sono più che altro dei mezzi,
degli strumenti di cui la volontà di potenza si serve per affermare o per negare
[…]. Infine, a livello più profondo, l’affermazione e la negazione risultano essere
superiori all’azione e alla reazione in quanto sono qualità immediate del divenire
stesso: l’affermazione non è l’azione ma la potenza del divenire attivo nella sua
concretezza, mentre la negazione non è la semplice reazione, ma un divenire
reattivo”154.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!152!Ibidem, p.147!153!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, p.80!154!Ibidem, p.81!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
83
A questo punto è lecito chiedersi che cosa sia affermato o negato dalla volontà di
potenza e, essendo questa spesso definita da Nietzsche come “essenza della vita”,
se ciò che afferma o nega è la vita stessa, la vita intesa come costante divenire. Per
Nietzsche l’affermazione è affermazione del molteplice nel divenire, è Dioniso
che muore e rinasce, è la forza plastica creativa e trasfigurante che abbiamo in
precedenza caratterizzato come attività generica. Il nichilismo, viceversa,
rendendo reattivi l’uomo e il mondo nega il divenire e svilisce la vita dandole un
senso esterno ad essa. Per questo motivo Nietzsche dice che il nichilista non può
sopportare l’idea dell’eterno ritorno, l’essere del divenire è il ritornare: “se
pensiamo il puro divenire non possiamo più credere in un essere distinto e
contrapposto al divenire: dovremo allora credere in un essere del divenire stesso,
Qual è l’essere di ciò che diviene, di ciò che non comincia né finisce di divenire?
Ritornare è l’essere di ciò che diviene «che tutto ritorni, è l’estremo avvenimento
del mondo del divenire a quello dell’essere: culmine della contemplazione”155.
Dopo aver cercato di descrivere il carattere differenziale e genealogico che
assume la volontà di potenza nella determinazione dei rapporti di forze e delle
rispettive qualità, Gilles Deleuze ci indica che questa (la volontà di potenza) può
essere intesa anche come sentimento di potenza. In questa particolare accezione
già Nietzsche presenta la volontà di potenza come “sentimento, sensazione,
affettività”. Per sentimento di potenza si può intendere la capacità di essere affetta
di una forza, il suo patire l’azione di un’altra forza. Solo questa capacità rende
possibile il rapportarsi delle forze e la conseguente produzione di una differenza
tra queste: “l’elemento differenziale delle forze si manifesta come loro sensibilità
differenziale”156. La volontà di potenza si manifesta in questa duplice accezione
di sensibilità della forza e di divenire sensibile della forza.
“Le affezioni di una forza sono attive nella misura in cui questa si appropria di ciò
che le resiste, nella misura in cui si fa obbedire da forze inferiori. Esse sono al
contrario subite o meglio agite, quando la forza è affetta da forze superiori alle
quali obbedisce. Anche in tal caso l’obbedire è una manifestazione della volontà
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!155!Ibidem, p.72!156!Ibidem, p.94!
Capitolo 4: Ascesi come potenza.
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di potenza. Ma una forza inferiore può provocare la disgregazione e la scissione di
forze superiori, l’esplosione dell’energia che esse avevano accumulato”157.
Solo comprendendo che nei rapporti di forza, a prescindere dalla gerarchia che si
stabilisce, è in atto un agire e un patire (essere agito) è possibile capire come
l’obbedire sia in ogni caso una manifestazione della volontà di potenza intesa
come capacità della forza di essere affetta. Le forze reattive si manifestano come
capacità di obbedire o di essere agite e come capacità di separare le forze attive da
ciò che è in loro potere. Nietzsche fa della religione e della morale giudaico-
cristiane il bersaglio di molti suoi scritti perché, con la loro falsificazione della
realtà a favore di istanze irreali e la loro produzione di valori superiori con cui
legare a sé la massa resa reattiva, rappresentano il più geniale dei modi che ha
trovato la volontà di potenza nella sua accezione negativa per negare la vita e il
suo immanente divenire. Il nichilismo, secondo Nietzsche, si è potuto diffondere
attraverso le trasfigurazioni dell’ideale ascetico che ha condotto il divenire
reattivo delle forze attive e la scomposizione di queste ultime da parte delle prime.
Questo intero processo non sarebbe stato realizzabile prescindendo dalla volontà
di potenza e dalla sua plasticità che determina le forze e la loro qualità. Come
abbiamo ripetuto più volte, la volontà di potenza produce la sintesi delle forze, ma
il processo stesso è possibile solo concependo l’essere come divenire, come eterno
ritorno del differente.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!157!Ibidem,p.94!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
85
Capitolo 5
Il valore della differenza.
5.1 Il corpo e l’esistenza
Gilles Deleuze interpreta la filosofia di Nietzsche come “l’alba di una contro-
cultura”158. Il filosofo francese pensa che l’importanza fondamentale di Nietzsche
per la filosofia contemporanea e per la filosofia a-venire risieda nella possibilità
che fornisce di pensare il differente. Secondo Deleuze la volontà di potenza è il
principio della differenza e l’eterno ritorno è la condizione affinché il differente si
produca. Deleuze tenta in tutta la sua filosofia di pensare il differente, l’altro, ciò
che si nasconde dietro i codici (che siano essi scientifici, religiosi, sociali).
L’importanza di Nietzsche risiede, per Deleuze, anche nell’esser stato capace di
fornire un nuovo metodo, quello genealogico, con cui è possibile indagare la
realtà oltre l’identità apparente dei meri fatti.
Deleuze nell’Anti-Edipo, testo del 1972 scritto in collaborazione con Guattari,
critica aspramente la Psicoanalisi accusandola di essere nata come un contro-
potere che ha scoperto l’importanza dell’inconscio, ma che, allo stesso tempo, si è
ripiegata in una struttura di potere che ha represso lo stesso inconscio
asservendolo ad un io che fosse funzionale al potere istituzionale. Deleuze da
parte sua ha tentato in tutta la sua filosofia di rintracciare, sulla scorta
dell’insegnamento nietzschiano, l’attività della forza, l’affermazione della volontà
di potenza. Se l’uomo si trova in un processo di decadenza contrassegnato dal
divenire-reattivo delle forze, prodotto dall’accezione negatrice della volontà di
potenza (la volontà del nulla), la missione di una possibile contro-cultura si deve
basare sulla ri-scoperta della qualità attiva della forza e della qualità affermatrice
della volontà di potenza. Il recupero del corpo in senso affermativo è uno dei
punti da cui dovrebbe partire una possibile contro-cultura che vuole basare la sua
azione su una rivalutazione delle forze attive e della potenza affermatrice.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!158!Ibidem p.310!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
86
Un corpo, secondo Deleuze, è il frutto di un incontro prodotto dal caso tra una
molteplicità di forze che entrano in un rapporto. Che sia biologico, fisico o
sociale, il corpo è sempre manifestazione di un costante rapporto di forze.
Nietzsche denuncia il dilagante nichilismo che si manifesta nell’ideale ascetico,
attraverso risentimento e cattiva coscienza, perché in esso rintraccia una modalità
della volontà di potenza che, trovando soddisfacimento unicamente nella
negazione della vita, in essa nega e rende debole un corpo.
Deleuze cita Spinoza: “noi non sappiamo ancora cosa può un corpo”159. Questa
espressione tradotta nel linguaggio di Nietzsche significa che noi del corpo
conosciamo soltanto le forze reattive mentre non diamo importanza e non
sviluppiamo le forze attive e affermatrici. Deleuze evidenzia come per Nietzsche
la coscienza non sia che una singola parte dell’organismo, la meno importante.
Più tardi Freud (che ha sempre stranamente sostenuto di non aver letto Nietzsche)
sistematizzerà questo pensiero attraverso la scoperta dell’inconscio, la cui
importanza è stata quasi sempre negata o comunque non-vista. Si è sempre
pensato in maniera cosciente ed in riferimento al conscio. Concetti quali volontà,
libero arbitrio, soggetto, sono stati definiti e compresi unicamente dal punto di
vista della coscienza e quindi travisati e fraintesi. Nietzsche sostiene che la
coscienza, essendo quella parte dell’io che subisce l’azione del mondo esterno, sia
fondamentalmente reattiva. In questo essere-reattiva della coscienza non bisogna
cogliere un qualcosa di negativo, ma all’opposto finché la coscienza rimane
reattiva e svolge la sua funzione di reazione-adattamento al mondo esterno
l’organismo funziona ed è in piena salute. La coscienza rappresenta una funzione
dell’organismo che è importante nella sua accezione reattiva, ma che si deve
limitare a questa e non invadere il campo delle forze attive e vitali. L’attività pura
è inconscia, è l’oblio come forza del dimenticare ed è l’istinto come forza
dell’agire:
“Quel che rende il corpo un qualche cosa di superiore a tutte le reazioni, in
particolare a quella della reazione dell’io definita coscienza, è l’attività
necessariamente inconscia delle forze: «tutto questo fenomeno “corpo” è,
misurato dal punto di vista intellettuale, tanto superiore alla nostra coscienza, al !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!159!Ibidem p.59!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
87
nostro “spirito”, al nostro consapevole pensare, sentire e volere, quanto l’algebra
alla tavola pitagorica»”160.
Nietzsche utilizza spesso il linguaggio della filologia, per cui di frequente le sue
valutazioni oscillano tra la salute e la malattia (in senso lato e non solo). Un corpo
è in salute se i rapporti di forza all’interno dell’organismo sanciscono la normale
dominanza delle forze attive su quelle reattive e di conseguenza dell’inconscio sul
conscio. In un rapporto di forze che sancisce la salute del corpo le forze inconsce
e quindi attive del corpo fanno di quest’ultimo un sé in cui le funzioni di
adattamento, conservazione, memoria, ecc., sono forze reattive che devono
svolgere il loro compito dedito alla conservazione e alla sopravvivenza.
Le forze attive sono difficili da definire, sono inconsce e dominanti, si
manifestano nel loro estrinsecarsi e non devono essere considerate vere e proprie
funzioni in quanto non possono avere un fine che sia esterno a loro stesse. In un
corpo forte e in salute le forze attive dominano le forze reattive che si lasciano
agire. In uno stato di malattia, per come Nietzsche lo intendeva, il corpo degenera
a causa del ruolo dominante assunto delle forze reattive e il conseguente divenire
reattivo delle forze attive che vengono separate da ciò che è in loro potere. Se la
coscienza assume il ruolo dominante (come è avvenuto storicamente) le forze
attive e inconsce sono private della possibilità di scatenarsi e, conseguentemente,
o si rivolgono all’esterno (come nel caso del risentimento) o si ripiegano
all’interno (come nel caso della cattiva coscienza). Nietzsche sostiene che nella
storia della cultura europea il percorso che va da Socrate al cristianesimo abbia
portato ad accrescere enormemente l’importanza della coscienza facendole
svolgere il ruolo dominante all’interno dell’organismo:
“È inevitabile che la coscienza veda l’organismo dal proprio punto di vista e lo
comprenda a modo suo, cioè in maniera reattiva. E la scienza, pur rifacendosi ad
altre forze reattive, segue i percorsi della coscienza, di modo che l’organismo
viene sempre e comunque considerato dal suo lato secondario, dal lato delle sue
reazioni”161.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!160!Ibidem p.63!161!Ibidem p.63!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
88
La critica di Nietzsche alla scienza, da lui stesso indicata nella Genealogia della
morale, in passi del Tentativo di Autocritica alla Nascita della tragedia e nel libro
finale della Gaia scienza, si basa sul fatto che egli riscontra nella scienza e negli
scienziati l’ultima trasfigurazione dell’ideale ascetico e del nichilismo. La scienza
è reattiva in quanto non riesce a concepire l’attività pura. La critica di Nietzsche a
Darwin, secondo Deleuze, si basa su questo pensiero che rintraccia nelle categorie
darwiniane di selezione per adattamento un punto di vista che resta reattivo e non
riesce a cogliere la forza attiva e plasmatrice: “Che cos’è attivo? Tendere alla
potenza». L’appropriarsi, l’impadronirsi, il soggiogare, il dominare sono gli
attributi della forza attiva. Appropriarsi vuol dire imporre, creare forme sfruttando
le circostanze. Nietzsche critica Darwin perché interpreta l’evoluzione e il caso in
essa presente in maniera del tutto reattiva. Ammira invece Lamarck il quale ha
avvertito l’esistenza di una forza plastica realmente attiva, più originaria rispetto
ai fenomeni di adattamento: una forza di metamorfosi”162.
Nietzsche considera la tradizione giudaico-cristiana, ma anche socratica-platonica,
come dispositivi che hanno condotto il corpo in un processo di divenire reattivo.
Se anticamente al corpo, inteso come molteplicità, era conferito un valore enorme
nella sua totalità, con l’emergere della morale, che fin da Socrate pone la
coscienza e non l’istinto come guida dell’uomo-nel-mondo, il corpo perde di
valore e diviene reattivo perdendo parte delle sue capacità. Se l’uomo si trova in
una condizione di vivere una vita basata per la sua parte più importante su valori
che non accrescono la forza della vita stessa affermandola, ma tutto al contrario la
negano e ne falsificano le istanze preminenti, questa vita e di conseguenza questo
corpo si troveranno indeboliti ed impoveriti.
Zarathustra indica nel Sé la massima espressione della salute di un corpo tendente
al massimo del suo sviluppo. Il corpo è un elemento molteplice che, caratterizzato
in uno stato di salute da un giusto rapporto tra forze attive e forze reattive,
produce l’unicità del Sé. Così Zarathustra nel corso dell’invettiva contro i
dispregiatori del corpo:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!162!Ibidem p.64!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
89
“Strumenti e giocattoli sono il senso e lo spirito: ma dietro di loro sta ancora il Sé.
Il Sé cerca anche con gli occhi dei sensi, ascolta anche con gli orecchi dello
spirito. Sempre il Sé ascolta e cerca: esso compara, costringe, conquista,
distrugge. Esso domina ed è il signore anche dell’io. Dietro i tuoi pensieri e
sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto- che si chiama Sé.
Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo”163.
L’accrescimento del potere della coscienza reattiva nell’organismo ha portato,
secondo Nietzsche, ad un indebolimento del Sé. Il corpo nella sua molteplicità,
guidato dalle forze attive, tende a costituire il Sé di cui l’io è strumento.
Zarathustra dice: “Io dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora
più grande cui tu non vuoi credere- il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non
dice ‘io’ ma fa ‘io’”164.
Deleuze indica ciò che Nietzsche e, successivamente, Freud riescono a cogliere
nel processo decadente dell’uomo in una svalorizzazione del corpo (inteso come
Sé) in cui le molteplici istanze che lo costituiscono si ritrovano gerarchicamente
sovvertite. L’ipertrofia della coscienza reattiva ha causato un indebolimento
dell’Es, separato da ciò che è in suo potere, in favore dell’Io (che in un corpo in
salute dovrebbe costituire una mera funzione del Sé): “Il tuo sé ride del tuo io e
dei suoi balzi orgogliosi. «Che sono mai per me questi balzi e voli del pensiero?
Esso si dice. Una via traversa verso il mio scopo. Io sono la danda dell’io e
l’insufflatore dei suoi concetti». Il Sé dice all’io: «ecco, prova dolore!». E l’io
soffre e riflette come non soffrire più- e proprio per questo deve pensare. Il Sé
dice all’io: «ecco, prova piacere!». E l’io gioisce e pensa come poter ancora gioire
spesso- e per questo appunto deve pensare”165.
Uno dei maggiori errori dei filosofi è stato, secondo Nietzsche, valutare la vita e
l’uomo unicamente dal punto di vista di un io che nella sua assoluta unicità
costituisce il soggetto che, a sua volta, viene considerato come soggetto-libero,
soggetto-agente, soggetto- conoscente. Secondo Deleuze ciò che Nietzsche cerca
di fare è rinnovare il pensiero ricercandone nuove modalità. Michael Foucault
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!163!F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p.33!164!Ibidem, p.33!165!Ibidem, p.34!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
90
riprende da Nietzsche la concezione di un soggetto dissolto, rilegge il fenomeno
della morte di Dio nell’ottica nuova di una morte dell’uomo. Ciò che è morto
nell’uomo è la certezza in un’unicità che lo costituisce. Come vedremo
successivamente, la filosofia dopo Nietzsche si ritrova con il problema della
morte del soggetto e le relative conseguenze.
Tornando al principio, il corpo è prodotto da un incontro casuale di una
molteplicità di forze. Ora bisogna capire ciò che Nietzsche intende con il caso
(che assume nella sua filosofia un ruolo centrale). Deleuze introduce il fenomeno-
caso ponendolo in un fondamentale rapporto con l’esistenza e la necessità. Se
Nietzsche cerca in tutta la sua filosofia di giustificare la vita attraverso la vita
stessa, negando il bisogno stesso che la vita debba essere giustificata, è perché
coglie nella vita un prodotto del caso (il quale è innocente per definizione).
“Affinché si costituisca un corpo- chimico, biologico, sociale, politico- è
sufficiente che due forze qualsiasi, diverse l’una dall’altra, entrino in rapporto tra
di loro. Un corpo è perciò sempre frutto del caso, nel senso nietzschiano del
termine; è la cosa «più meravigliosa», molto più della coscienza e dello spirito.
Ma se il caso, in quanto rapporto tra forza e forza, è anche essenza della forza,
non ha senso chiedersi come nasca un corpo vivente: esso è tale in quanto
prodotto «arbitrario» delle forze che lo compongono”166.
È il modo di accettare e rapportarsi al caso che, secondo Nietzsche, ha posto il
problema della giustificazione dell’esistenza. Per il filosofo tedesco è il caso che,
in quanto innocenza, nega alla vita il bisogno di essere giustificata. Sono le
modalità di tali giustificazioni trovate da cultura e religione che hanno causato un
depauperamento delle forze dell’uomo e del corpo portando al trionfo le forze
reattive. Fin dalla Grecia antica i filosofi si sono sempre posti il problema
dell’esistenza e di una possibile giustificazione dell’inevitabile sofferenza. I greci
interpretavano l’esistenza come un delitto, un atto di hybris, un’eccedenza.
Nietzsche ritrova questa concezione dell’esistenza in Anassimandro che aveva
posto nel divenire e nella molteplicità le categorie d’ingiustizia ed espiazione e
l’essere all’origine del tutto: “principio degli esseri è l'infinito... da dove infatti gli
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!166!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia p.64!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
91
esseri hanno l'origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché
essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine
del tempo”167. Nietzsche rintraccia in questa valutazione dell’esistenza una prima
forma di riduzione della vita a fenomeno morale e religioso che nasconde una
tendenza a svalutare l’esistenza. Il filosofo tedesco ammira il mondo greco per
l’enorme distanza che lo separa dal cristianesimo nonostante colga in alcuni
pensatori greci una prima forma di moralizzazione del mondo.
“Pur riducendo infatti l’esistenza a qualcosa di delittuoso e perciò di riprovevole,
essi (i greci) non la rendono colpevole e responsabile”168. La morale giudaico-
cristiana, ponendo il peccato e la colpa alla radice dell’esistenza-sofferente,
prendono le distanze dai greci che vedevano nell’esistenza un delitto di cui gli dei
si assumevano la responsabilità per aver condotto gli uomini alla follia. Deleuze a
questo punto ci conduce al centro della valutazione nietzschiana dell’esistenza:
“nel risentimento (è colpa tua) e nella cattiva coscienza (è colpa mia) e nel loro
frutto comune (la responsabilità), Nietzsche individua non soltanto dei semplici
eventi psicologici, ma le categorie fondamentali del pensiero semitico e cristiano,
il nostro modo di pensare e interpretare l’esistenza in generale. Nietzsche si
prefigge di ottenere un nuovo ideale, una nuova interpretazione, un altro modo di
pensare: «volgere in senso positivo l’irresponsabilità»”169.
La novità introdotta da Nietzsche nel simbolo di Dioniso è l’innocenza
dell’esistenza, il carattere non-colpevole della vita, il divenire della molteplicità.
L’esistenza viene pensata come un divenire del molteplice in cui “ogni cosa è in
rapporto con una forza in grado di interpretarla; ogni forza è in rapporto con ciò
che è in suo potere, e da cui è inseparabile. Questo rapporto in cui si afferma e si
viene affermati, risulta essere radicalmente innocente”170.
Questo nuovo modo di valutare la sofferenza come necessaria e l’esistenza come
innocente dovrebbe condurre ad una nuova sensibilità e ad un nuovo modo di
pensare. Nietzsche è riuscito solamente ad indicare la via, tanto che Deleuze può
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!167 H.Diels and W.Kranz, 12,B1. Simplic. Phys, 24, 13 [cifr.A9], trad.it. R.Laurenti in I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G.Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1990, p.106-107!168!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia p.33!169!Ibidem p.33!170!Ibidem p.35!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
92
affermare: “Irresponsabilità: il segreto più nobile e bello di Nietzsche”171.
5.2 L’eterno ritorno del differente
Deleuze pensa che il fraintendimento del senso dell’esistenza sia dovuto, secondo
Nietzsche, all’impossibilità che la vita valuti se stessa. L’uomo, il corpo, il
soggetto non sono che prodotti dell’incontro di molteplici forze che vengono
interpretate dal pensiero come unicità. Nietzsche pensa l’essere come continuo
divenire in cui ogni punto è interno al processo, ogni momento è una parte che
non può fuoriuscire dal tutto per guardare il divenire dall’esterno. Data la visione
della vita come divenire del molteplice è possibile comprendere perché per
Nietzsche una qualsiasi valutazione della vita che non prenda in considerazione la
vita stessa nella sua interezza, ma che si assuma il compito di giudicare un
frammento staccato arbitrariamente dal divenire sulla base di criteri (così umani)
quali quelli del giusto e dell’ingiusto, non fa che svalutare la vita stessa
negandone il senso immanente.
La storia di ciò che Nietzsche definirà nichilismo europeo inizia con Socrate che,
nella Nascita della tragedia, viene contrapposto a Dioniso come primo sintomo di
quel processo di décadence che troverà la sua fortuna da una parte in Platone,
negli stoici e negli epicurei e dall’altra parte nelle religioni semitica e cristiana che
avranno in San Paolo il loro massimo esponente. Socrate fu il primo décadents
perché lui per primo ha contrapposto la conoscenza e il pensiero alla vita-del-
corpo. La conoscenza che si pone al di-sopra della vita è un sintomo della vita
reattiva che tende alla conservazione del proprio tipo. Anche se Nietzsche ha
sempre nutrito un profondo rispetto e ha sentito una quasi affinità con i filosofi
della Grecia antica, la portata di novità della sua filosofia non si può certo limitare
ad un ritorno ai Greci.
Abbiamo visto che, secondo Deleuze, Nietzsche considera la differenza
fondamentale tra la filosofia greca e la religione cristiana nel loro differente modo
di rapportarsi all’esistenza. La vera colpa dell’ebraismo e del cristianesimo di
Paolo è stata quella di introdurre nel mondo i concetti di peccato e colpa e di aver
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!171!Ibidem p.33!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
93
interpretato l’esistenza attraverso questi concetti. I greci conoscevano molto bene
la sofferenza e Nietzsche ammira in loro proprio il modo di rapportarsi ad essa:
“paragonati al cristianesimo, i Greci sembrano dei bambini”172; ma la loro
interpretazione della sofferenza verte in ogni modo su una valutazione
dell’esistenza come radicalmente ingiusta. Eraclito l’oscuro fu l’unico a concepire
l’esistenza come innocente e Nietzsche utilizzò il suo pensiero in opposizione a
quello di Anassimandro per contrapporre il divenire all’essere. Deleuze scrive:
“Eraclito negò il dualismo dei mondi, «negò in generale l’essere»; più ancora, fece
diventare il divenire affermazione”173. È chiaro il senso in cui Eraclito negò
l’essere, affermando il divenire. Meno chiaro è il senso in cui il divenire diventa
affermazione: “è necessario riflettere a lungo per comprendere che cosa significhi
rendere il divenire affermazione. […] certamente significa affermare il divenire;
ma significa anche affermare l’essere del divenire, significa che il divenire
afferma l’essere o che l’essere si afferma nel divenire”174.
Se Eraclito può negare l’essere, lo può fare solo attraverso l’affermazione del
divenire come molteplice. Il molteplice a sua volta non può darsi se non come
affermazione dell’uno nella metamorfosi. Si può notare come questo pensiero si
colleghi al pensiero di Nietzsche, esposto in precedenza, sull’essere del divenire:
“Qual è l’essere del divenire? -si chiede Deleuze- quale è l’essere che è
inseparabile da ciò che è in divenire? Ritornare è l’essere di ciò che diviene.
Ritornare è l’essere del divenire stesso, l’essere che si afferma nel divenire.
L’eterno ritorno come legge del divenire, come giustizia e come essere”175.
Eraclito considerava il divenire come essenzialmente innocente, non come un
qualcosa d’ingiusto da espiare, ma come un gioco da affrontare. Comprendere il
pensiero del divenire-eracliteo può essere utile per cercare di affrontare il pensiero
dell’eterno ritorno, che è espresso in maniera così enigmatica nella filosofia di
Nietzsche (e che in parte si distacca dalla concezione del filosofo di Efeso).
Le difficoltà nella comprensione dell’eterno ritorno di Nietzsche risiedono in
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!172!Ibidem p.33!173!Ibidem p.36!174!Ibidem p.36!175!Ibidem p.37!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
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diversi fattori. Bisogna anzitutto considerare che Nietzsche cedette alla malattia a
soli quarantotto anni e quando era in procinto di scrivere l’opera che andava
preparando da decenni, La Trasvalutazione di tutti i valori. Ovviamente non è
possibile sapere con certezza se nel testo avrebbe dedicato scritti specifici al tema
dell’eterno ritorno, ma si può supporre dagli appunti raccolti che così sarebbe
stato.
Un altro fattore decisivo è che gli unici accenni fatti da Nietzsche sul tema sono o
altamente simbolici o descritti in via del tutto ipotetica. Un ulteriore fattore della
difficoltà nella comprensione potrebbe risiedere nel fatto che Nietzsche descrive
la dottrina dell’eterno ritorno come un’esperienza vissuta su di sé, come un
pensiero che lo ha attraversato, quasi come una visione estatica: “E d’improvviso,
amica! Ecco che l’Uno divenne Due- E Zarathustra mi passò vicino…”176.
Deleuze ha dedicato molto spazio nei suoi scritti a questo concetto. Nel testo
Nietzsche e la filosofia interpreta l’eterno ritorno secondo due differenti aspetti:
come dottrina cosmologica e fisica e come pensiero etico e selettivo. Abbiamo già
visto nel paragrafo sulla volontà di potenza che per Deleuze l’eterno ritorno di
Nietzsche non è pensabile come eterno ritorno dell’identico, ma solo come eterno
ritorno del differente. Cerchiamo ora di chiarire questa difficile interpretazione.
Iniziamo l’analisi dell’eterno ritorno considerato come dottrina cosmologica e
fisica. Abbiamo detto che Nietzsche considera l’unità come maschera della
molteplicità che si dà nel divenire. Seguiamo Deleuze nell’interpretazione:
“L’esposizione dell’eterno ritorno data da Nietzsche presuppone la critica dello
stato terminale o di equilibrio. Egli ritiene che se l’universo avesse uno scopo o
uno stato finale, questi sarebbero già stati raggiunti. Ora l’attimo presente, nel suo
trapassare, prova che questo stato non è raggiunto e che quindi l’equilibrio delle
forze non risulta possibile”177. Deleuze chiarisce questo pensiero, ponendone alle
fondamenta la considerazione di Nietzsche del tempo passato come infinito e del
presente-attimo come un momento che non è ma che passa.
Partendo da questo presupposto si può capire perché Nietzsche pensasse al
divenire come eterno processo che non poteva avere un inizio e una fine. La
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!176!F.Nietzsche, La Gaia scienza, Adelphi Edizioni, Milano 2005, p.333!177!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia p. 70!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
95
distanza di Nietzsche dal pensiero greco del divenire si può cogliere proprio nel
tentativo dei primi filosofi dell’antichità di rintracciare un inizio e una fine di ciò
che diviene in un atto di hybris e di delitto. Lo stesso Platone, in alcuni passi
molto oscuri, coglie nel presente un momento di essere che costringe il divenire a
cessare. Nietzsche pensando all’impossibilità della contrapposizione di un essere
al divenire, rintraccia l’essere del divenire stesso.
Abbiamo già indicato quale sia l’interpretazione di Deleuze a questo riguardo:
Ritornare è l’essere del divenire. In un brano molto oscuro, chiamato La visione e
l’enigma, Zarathustra incontra una porta carraia con su scritto: attimo. Da questa
porta partono due sentieri, passato e futuro, entrambi (apparentemente) infiniti.
Deleuze considera l’attimo (la porta carraia) come rapporto sintetico di passato e
futuro che distruggendosi fonda altri attimi:
“L’eterno ritorno è così la risposta al problema del passare; esso perciò non va
interpretato come ritorno di un qualcosa, di uno o di un medesimo. Intendere
l’espressione «eterno ritorno» come ritorno del medesimo è un errore, perché il
ritornare non appartiene all’essere ma, al contrario, lo costituisce in quanto
affermazione del divenire e di ciò che passa, così come non appartiene all’uno ma
lo costituisce in quanto affermazione del diverso o del molteplice. In altre parole,
nell’eterno ritorno l’identità non indica la natura di ciò che ritorna, ma, al
contrario, il ritornare del differente”178.
Deleuze interpreta l’eterno ritorno come un processo di sintesi: sintesi del tempo
(passato-presente-futuro), sintesi del diverso, sintesi del divenire e dell’essere che
esso afferma. In quanto sintesi di molteplicità l’eterno ritorno non può riguardare
l’identico ma solo il sempre-differente. Secondo Deleuze su questa intuizione
dell’eterno ritorno come sintesi del differente si basa la critica di Nietzsche nei
confronti di ogni tipo d’ipotesi ciclica. Questa ipotesi (quella ciclica) non riesce a
concepire il differente che eccede il ciclo stesso. Il filosofo francese, a questo
punto, ritrova il principio di questa sintesi del differente nel concetto di volontà di
potenza:
“Possiamo perciò comprendere l’eterno ritorno solo in quanto espressione di un
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!178!Ibidem p.73!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
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principio che sta alla base del riprodursi del differente, del ripetersi della
differenza. Nietzsche presenta tale principio come una delle scoperte più
importanti della sua filosofia. Gli dà un nome: volontà di potenza. La volontà di
potenza «esprime il carattere che non si può sopprimere nell’ordine meccanico
senza sopprimere l’ordine meccanico stesso”179.
La precedente descrizione del concetto di volontà di potenza come sintesi dei
rapporti di forze da cui deriva la differenza di qualità tra le forze stesse, dovrebbe
rendere più facile comprendere come sia la volontà di potenza il principio per cui
l’eterno ritorno viene concepito da Nietzsche come ulteriore sintesi delle qualità
che eternamente si differenziano. Deleuze indica nel pensiero meccanicistico uno
dei bersagli contro cui muove il nuovo pensiero dell’eterno ritorno. L’ipotesi
meccanicistica prevede sì un ritorno, ma un ritorno di quantità che tra lo stato
iniziale e quello finale si compensano o si annullano. Nel meccanicismo si può
rintracciare un limite comune a molte scienze: il considerare sempre e solo la
quantità e l’identità omettendo le qualità che producono la differenza.
Prima di dedicarci all’interpretazione di Deleuze dell’eterno ritorno come
pensiero etico e selettivo, dobbiamo fare un salto indietro e descrivere un
movimento delle forze che è stato solo accennato. Nietzsche pensa che il
problema della decadenza dell’uomo che si manifesta in vari ambiti (scienza,
morale, politica, ecc.) consista nel fatto che ad un certo punto del suo sviluppo
l’animale-uomo abbia privilegiato -per sicurezza, conservazione, sopravvivenza-
le forza reattive a scapito di quelle attive e prevaricanti.
Abbiamo accennato al fatto che Nietzsche, secondo Deleuze, rintraccia nella
storia dell’uomo un divenire-reattivo delle forze attive. Le forze reattive possono
separare le forze attive da ciò che è in loro potere e così renderle reattive a loro
volta. Abbiamo anche detto che le forze reattive sono e restano delle forze e che
esse, nei casi in cui riescono a scomporre le forze attive e quindi a dominarle,
assumono un aspetto ambivalente.
Come abbiamo già visto nella descrizione del tipo-prete, il sacerdote ha la
funzione di condurre le forze reattive e contrapporle a quelle attive separando
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!179!Ibidem p.74!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
97
queste ultime da ciò che è in loro potere. Il prete ha inventato una morale, un al di
là, dei valori superiori per poter valutare la vita in maniera opposta a quella che
sarebbe una valutazione reale e così facendo poter sovvertire quelli che sono i
valori terreni e quindi la forza attiva nella sua plasticità. Sempre il prete, nelle sue
varie accezioni, ha così depauperato dalla forza il tipo d’uomo affermativo al
quale si contrapponeva, affermando se stesso e il suo ruolo come guida delle forze
reattive di cui era ricco il suo popolo.
Bisogna ricordare che le forze attive e reattive differiscono tra loro in base alla
qualità della volontà di potenza che le contraddistingue. Ci possono essere forze
attive condotte dalla volontà del nulla ad un divenire reattivo e forze reattive che
oltre ad obbedire possono opporre resistenza e quindi una sorta di attività. Dunque
il divenire reattivo delle forze attive è dovuto all’azione su di esse delle forze
reattive che le scompongono. Allo stesso tempo queste stesse forze reattive non
possono diventare attive fino a quando ciò che compiono attraverso il
prosciugamento della forza nell’attività è una volontà del nulla, è il nichilismo.
Il genio sacerdotale, per quanto possa diventare potente a spese sia dei suoi
seguaci (che sono reattivi) sia dei suoi oppositori (che sono attivi e di cui
prosciuga l’energia), può solo riuscire ad indebolire l’uomo attivo separandolo da
ciò che è in suo potere. Valutando l’uomo forte e affermativo attraverso valori che
si basano su un’accezione nichilista della volontà di potenza, lo rende più debole.
A questo punto Deleuze fornisce una chiave interpretativa molto interessante per
la scoperta dell’eterno ritorno che, per Nietzsche, fu un fatto così epocale: l’eterno
ritorno è l’unico modo di concepire come possibile il divenire-attivo delle forze
reattive e quindi una trasvalutazione dei valori. L’affermazione è il senso
dell’eterno ritorno:
“Dato che non abbiamo mai provato né conosciuto un divenire-attivo, possiamo
concepirlo soltanto come prodotto di una selezione, duplice e simultanea,
dell’attività nella forza e dell’affermazione nella volontà. Ma chi può operare
questa selezione, fungere da principio selettivo? L’eterno ritorno, risponde
Nietzsche”180. Innanzitutto Deleuze chiarisce un primo senso dell’eterno ritorno
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!180!Ibidem p.101!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
98
come processo selettivo: pensare la vita come un eterno ritorno fornisce all’uomo
un principio etico (della stessa rigidità di quello kantiano ma radicalmente
differente): “È la nuova formulazione della sintesi pratica: ciò che vuoi, devi
volerlo in modo tale da volerne anche l’eterno ritorno”181. Questo principio si
dirige contro ogni mezza volontà che rende l’uomo incapace di volere la sua
azione all’ennesima potenza e che è sempre pronta ad abbandonare un proprio atto
dopo averlo compiuto. Secondo Nietzsche, basandosi su questo principio etico è
possibile volere la propria azione al massimo grado senza possibilità di
pentimento: “Fate pure ciò che volete- ma siate prima di tutto di quelli che sanno
volere”182. Da questo modo di concepire la volontà si evince l’enorme lontananza
di Nietzsche da ogni morale fino ad allora professata.
Vedere in un atto un qualcosa che si sarebbe potuto non compiere e di cui ci si
dovrebbe pentire è negare la totalità in quanto molteplicità, è fraintendere la
volontà di potenza immaginando un soggetto dotato di una volontà libera e da
essa guidato nelle sue azioni. Secondo Nietzsche la morale giudaico-cristiana ha
avuto bisogno della finzione di un soggetto dotato di una volontà libera per poter
rendere l’uomo più debole e controllabile. Zarathustra insegna il “così volli che
fossi”183, un nuovo modo di rapportarsi del soggetto a se stesso e al suo pensiero,
una trasvalutazione reale dei valori e di ciò che crea questi valori.
“Possiamo vedere meglio in che modo l’eterno ritorno operi la selezione
osservando che essa avviene per mezzo del pensiero dell’eterno ritorno, il quale,
eliminando dal volere tutto ciò che ricade al di fuori dell’eterno ritorno, lo
restituisce alla propria integrità, lo fa diventare creativo realizzando così
l’equazione volere=creare”184. Il nichilismo stesso, che nell’ideale ascetico punta
alla conservazione della vita reattiva, alla luce del pensiero dell’eterno ritorno
trasforma il suo senso e la volontà del nulla diventa affermativa: “Soltanto nel
momento in cui la volontà del nulla viene messa in rapporto con l’eterno ritorno
essa rompe l’alleanza con le forze reattive. Solo l’eterno ritorno dà completezza al
nichilismo applicando la negazione alle stesse forze reattive. Con e nell’eterno !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!181!Ibidem p.102!182!Ibidem p.102!183!F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p.164!184!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia pp.102-103!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
99
ritorno il nichilismo non si presenta più come conservazione e vittoria dei deboli,
ma come distruzione, auto-distruzione dei deboli”185.
Con questa idea di auto-distruzione non s’intende ancora una volta la volontà di
potenza che si rivolge contro se stessa, ma una vera e propria distruzione-attiva
che conduce le forze reattive al nulla. Deleuze pensa che il nichilismo sia la ratio
cognoscendi della volontà di potenza che possiamo comprendere solo attraverso la
sua accezione negativa. L’affermazione è la qualità sconosciuta, è la ratio essendi
della volontà di potenza, la possibilità della creazione di valori nuovi e
sconosciuti. La trasvalutazione di tutti i valori è possibile solo se avviene una
trasmutazione del nichilismo che si esaurisce nell’affermazione.
“Dall’affermazione derivano nuovi valori: valori sconosciuti fino a oggi, fino al
momento in cui cioè il legislatore prende il posto del «dotto», la creazione prende
il posto della stessa conoscenza, l’affermazione prende il posto di tutte le
negazioni conosciute” 186 . Deleuze, a questo punto, pone una differenza
fondamentale tra «l’ultimo uomo» e «l’uomo che vuole perire»: il primo è
l’ultima forma dell’uomo reattivo che vuole conservarsi, il secondo è il frutto di
una selezione che ne comporta il superamento, è l’uomo che vuole il proprio
tramonto. La prova dell’eterno ritorno conduce gli spiriti forti ad eliminare ciò
che c’è in essi di più debole, condurlo al tramonto.
Deleuze dà molta importanza all’idea di trasmutazione in Nietzsche. È solo
attraverso il passaggio della trasmutazione che ci può essere un reale
cambiamento. Unicamente nell’eterno ritorno è possibile la trasformazione della
negazione in affermazione. Deleuze pensa che Nietzsche si distanzi dal pensiero
morale solo per recuperare un’etica differente.
Il pensiero dell’eterno ritorno è l’unica concezione possibile di una
trasvalutazione dei valori. Concepire l’eterno ritorno significa porsi di fronte al
problema dell’esistenza e rispondere affermativamente. La risposta affermativa al
problema dell’esistenza è per Deleuze il senso dell’azione selettiva dell’eterno
ritorno. Il ritorno che compie la selezione fa ritornare solo ciò che si afferma come
differente. In uno dei suoi libri più complessi e importanti, Differenza e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!185!Ibidem p.104!186!Ibidem pp.259-260!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
100
ripetizione, Deleuze utilizza la dottrina nietzschiana dell’eterno ritorno per far
emergere la differenza che si cela dietro ogni presunta identità. Decostruisce
tramite la categoria della differenza la presunta identità di fenomeni quali
pensiero, soggetto, Idea, rintracciandone l’originaria molteplicità che si manifesta
in una solo apparente unità. Deleuze pone il principio di ripetizione del differente
oltre la possibile riduzione alla generalità della legge.
“Se la ripetizione è possibile, essa inerisce al miracolo piuttosto che alla legge.
Essa è contro la legge: contro la forma simile e il contenuto equivalente della
legge. Se la ripetizione può essere trovata, anche nella natura, ciò accade in nome
di una potenza che si afferma contro la legge, che lavora sotto le leggi, forse
superiore alle leggi. Se la ripetizione esiste, essa esprime nello stesso tempo una
singolarità contro il generale, un’universalità contro il particolare, uno
straordinario contro l’ordinario, una istantaneità contro la variazione, una eternità
contro la permanenza. Sotto ogni aspetto, la ripetizione è la trasgressione. Essa
pone in questione la legge, ne denuncia il carattere nominale o generale, a
vantaggio di una realtà più profonda”187.
Se la ripetizione è trasgressione, ciò che ritorna è l’eccedente, ciò che supera i
limiti, il differente. La qualità attiva della forza è essenzialmente plastica mentre
quella reattiva è conservativa. Se la reattività, in rapporto con la volontà del nulla,
ha il predominio, essa si rifugerà nell’Identità. Solo una concezione dell’eterno
ritorno come affermazione che è affine alle forze attive e che rende attive le forze
reattive, portandole all’auto-distruzione, può produrre la differenza. In uno dei
passi più controversi di Così parlò Zarathustra, La visione e l’enigma, quando il
nano (lo spirito di gravità) che siede sulla spalla di Zarathustra espone la sua
visione dell’eterno ritorno come ritorno del medesimo, Zarathustra prova
disgusto. Secondo Deleuze, il filosofo persiano non riesce ad accettare una
concezione così superficiale dell’eterno ritorno inteso come circolo in cui ciò che
ritorna è l’identico. Alla fine del passo citato Zarathustra ha una visione di un
pastore che ha un serpente che gli pende dalle fauci; schifato e inorridito
Zarathustra urla al pastore di tranciare con un morso la testa dell’animale.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!187!G.Deleuze, Différence et répétition, Presses Universitaires de France, Paris 1968, trad.it. Differenza e ripetizione, A cura di G.Guglielmi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997,p. 9!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
101
“Il pastore, poi morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene![…]
Non più pastore, non più uomo, -un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva!
Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise”188.
Dunque, il pensiero dell’eterno ritorno presuppone un cambiamento, una
trasvalutazione, che dovrebbe portare alla conversione delle forze reattive in forze
attive, passando per una precedente trasformazione della qualità negativa della
volontà di potenza che diviene affermativa. Il cambiamento è anche ciò che
subisce il pastore dopo aver staccato la testa del serpente: da livido che era diviene
un circonfuso di luce… che rideva. Deleuze può così indicare il segreto della
trasvalutazione nietzschiana nella gioia dionisiaca dell’affermazione del
molteplice.
Avevamo parlato nel precedente capitolo di una nuova sensibilità, un nuovo modo
di sentire. Secondo Deleuze è la trasvalutazione del negativo in affermativo,
l’affermazione dell’eterno ritorno come ripetizione del differente che permette a
Nietzsche di concepire una figura tanto enigmatica quale quella del superuomo.
Per il pensatore francese il superuomo non può essere concepito come l’uomo
superiore. Tale forma di uomo è solo l’idealizzazione dell’uomo reattivo che si
limita a rovesciare i valori stabiliti senza riuscire a reinventarne di nuovi, è
l’ultima forma del nichilismo reattivo. Soltanto una trasvalutazione nietzschiana
di tutti i valori, una trasmutazione della negazione nell’affermazione può condurre
il nichilismo alla sua auto-distruzione. La condizione necessaria affinché si attui
una radicale trasvalutazione è una trasformazione del senso del nichilismo che
assume un’ultima forma come nichilismo attivo. Nietzsche caratterizza l’ultimo
uomo come un ponte verso il superuomo.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!188!F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p.186!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
102
5.3 La morte dell’uomo e il superuomo
A questo punto siamo quasi giunti al compimento del lavoro. Si è cercato di
seguire Gilles Deleuze nella sua interpretazione della morale giudaico-cristiana
nella filosofia di Nietzsche attraverso la rilettura delle tre dissertazioni della
Genealogia della morale. Nel primo capitolo è stato analizzato il metodo
genealogico che secondo Deleuze riveste tanta importanza per l’introduzione nella
filosofia dei concetti di senso e valore e dei conseguenti due nuovi metodi di
ricerca: l’interpretare e il valutare. Attraverso l’analisi di risentimento e cattiva
coscienza siamo giunti al problema dell’ideale ascetico e alla sua stretta affinità
con il potere sacerdotale. Successivamente si è cercato di descrivere l’originale
interpretazione deleuziana del nichilismo nelle sue diverse trasfigurazioni:
negativo-reattivo-passivo. Concepire il nichilismo come volontà del nulla o nulla
della volontà ci ha condotti direttamente ad affrontare i grandi enigmi nietzschiani
della volontà di potenza e dell’eterno ritorno attraversati dall’idea fondamentale di
una trasvalutazione di tutti i valori.
Ora, giunti quasi al termine del percorso, cercheremo di avvicinarci alla
concezione del superuomo. Nell’introduzione al metodo genealogico, oltre a
Gilles Deleuze, c’è stato molto d’aiuto il pensiero di Michael Foucault. Il
pensatore francese confessa esplicitamente l’influenza che ha subito dalla filosofia
di Nietzsche da cui ha tratto, oltre al metodo genealogico, l’interesse per la ricerca
della diversità insita in ogni struttura. Michael Foucault, come Gilles Deleuze,
coglie nella filosofia di Nietzsche quell’esigenza di pensare l’impensato che è il
pensiero del Fuori, il pensiero della differenza. Tra Foucault e Deleuze vi era un
rapporto di profonda ammirazione, che ha condotto il primo a considerare la
possibilità di un secolo deleuziano e il secondo a dedicare alcuni degli ultimi studi
all’interpretazione del pensiero del collega e amico Foucault.
Ciò che più ci interessa di questo incontro è l’interpretazione di Deleuze dell’idea
foucaultiana della morte dell’uomo. Questa intuizione, spesso incompresa, può
portare alla comprensione di una figura tanto enigmatica quale quella del
superuomo che, ricordiamo, per Deleuze non è l’uomo superiore ma l’uomo
trasformato. Il superuomo è l’uomo originariamente reattivo che, passando
attraverso il pensiero selettivo dell’eterno ritorno e il pensiero affermativo della
Capitolo 5: Il valore della differenza.
103
trasvalutazione dei valori, riesce a subordinare le forze reattive a quelle attive e
prevaricanti, a distruggere i valori conosciuti e a crearne di nuovi. Gilles Deleuze
inizia la sua interpretazione del pensiero foucaultiano dai concetti cardine della
filosofia di Foucault: potere e sapere.
Il potere è concepito da Foucault in senso nietzschiano come un rapporto di forze
il quale è sempre a sua volta un rapporto di potere. Il potere non può essere una
forma (come lo stato), ma è ciò che si manifesta solo nell’esercizio. Il potere è
un’affezione nel duplice senso di essere affetto e di produrre un’affezione. Le
forze sono sempre molteplici e si danno in un rapporto che è sempre nel fuori.
Foucault nega la possibilità di pensare l’interiorità in quanto ogni rapporto di
forze è sempre un rapporto esterno, è sempre un rapporto con il fuori. Il sapere
all’opposto è un rapporto tra forme, è la forma che si erge sulle stratificazioni del
potere. Secondo Deleuze il sapere è sempre subordinato al potere, ma allo stesso
tempo non ci può essere potere senza un elemento che ad esso resiste.
Ai concetti di sapere e potere se ne aggiunge un terzo: il pensiero, inteso come il
ripiegamento su di sé che si attua nel rapporto con le forze del fuori. Questo
ripiegamento su di sé come rapporto con le forze del fuori crea un soggetto che
può essere inteso solo come affezione relativa e variabile. L’uomo, il soggetto, il
sé non sono entità invariabili ed eterne ma sono, a loro volta, rapporti di forze che
a tratti si sedimentano in una forma per poi ritornare alla loro fluidità originaria
nel momento in cui cambiano le forze del fuori con cui entrano in rapporto.
“Il principio generale di Foucault è il seguente: ogni forma è un composto di
rapporti di forze. Date delle forze, ci si domanderà quindi innanzitutto con quali
forze del fuori esse entrino in rapporto, e in seguito quali forme ne derivino. Si
diano delle forze nell’uomo: forze dell’immaginare, del ricordarsi, del concepire,
del volere… si obietterà che tali forze presuppongono già l’uomo in quanto forma,
ma non è così, nell’uomo, le forze presuppongono soltanto dei luoghi, dei punti di
applicazione, una regione dell’esistente. […] Si tratta di sapere con quali altre
forze entrino in rapporto le forze dell’uomo, in questa o quella formazione storica,
e quale forma derivi da tale composto. […] esse non entrano necessariamente
nella composizione di una forma-Uomo ma possono avere un diverso
investimento, in un altro composto, un’altra forma: anche considerando un breve
Capitolo 5: Il valore della differenza.
104
periodo, L’Uomo non esiste da sempre, e non esisterà sempre. Affinché appaia o
si delinei la forma-Uomo, è necessario che le forze che sono nell’uomo entrino in
rapporto con forze del fuori del tutto particolari”189.
Deleuze (riferendosi principalmente al pensiero del Foucault de’ Le parole e le
cose) distingue due momenti di cambiamento di quelli che sono i rapporti di forze
dell’uomo con le forze del fuori: la formazione storica “classica” e la formazione
storica del XIX secolo. Il primo di questi due momenti, quello “classico”, si
differenzia per il rapportarsi del pensiero all’infinito. Le forze del fuori con cui
sono in rapporto le forze dell’uomo sono elevabili all’infinito. Le forze dell’uomo
agiscono sulle forze del fuori come limitazione:
“Le forze dell’uomo entrano in rapporto con forze di elevazione all’infinito. E
queste ultime sono proprio forze del fuori, poiché l’uomo è limitato e non può
rendere conto da solo di questa potenza più perfetta che lo attraversa. Così il
composto tra le forze dell’uomo, da una parte, e le forze di elevazione all’infinito
che esse affrontano, dall’altra, non è una forma-Uomo, ma la forma-Dio”190.
Dunque Deleuze definisce il composto prodotto nella formazione classica dal
rapporto tra le forze dell’uomo e le forze del fuori come forma-Dio e la
caratterizza come mondo della rappresentazione infinita. Secondo Deleuze lo
stato delle scienze del XVII secolo manifestava chiaramente questo stato di cose.
Le varie scienze “classiche” hanno tutte il carattere della generalità; il metodo
scientifico si basa sulla distribuzione degli elementi su serie illimitate. Le scienze
dell’epoca sono generali in quanto pensano in un ordine d’infinità: “Non c’è
biologia ma una storia naturale che forma un sistema solo organizzandosi in serie,
non c’è economia politica ma un’analisi delle ricchezze; non filologia o
linguistica ma una grammatica generale”191. Queste caratteristiche di serialità e
continuità infinite delle scienze dell’epoca classica vengono concettualizzate da
Deleuze con il termine foucaultiano di dispiego. Anche gli enunciati classici
hanno questa caratteristica, per cui si dispiegano in serie, si sviluppano
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!189!G.Deleuze, Foucault, Les Editions de Minuit 1986, trad.it. Foucault, A cura di P.A. Rovatti, F.Sossi, Edizioni Cronopio, Napoli, 2002, p.163 190!Ibidem, pp.164-165!191!Ibidem, p.165!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
105
all’infinito. Dio appare come il dispiegamento infinito stesso, come il composto di
tutte le forze elevabili all’infinito.
Nella formazione storica del XIX secolo si assiste ad un cambiamento. Cambiano
le forze del fuori con cui le forze dell’uomo entrano in rapporto. Le nuove forze
del fuori hanno, secondo Deleuze, il carattere della finitezza. Le nuove forze del
fuori sono “la Vita, il Lavoro, il Linguaggio: triplice radice della finitezza che fa
nascere la biologia, l’economia politica e la linguistica”192. Questo incontro delle
forze dell’uomo con le nuove forze della finitezza non produce semplicemente la
consapevolezza dell’uomo di essere finito. Deleuze sostiene che l’originalità del
pensiero di Foucault si manifesta, in questo caso, nel cogliere due momenti
separati in questo processo di presa di coscienza da parte dell’uomo della propria
finitezza:
“La forza dell’uomo deve in un primo momento affrontare e catturare le forze
della finitezza come forze del fuori: solo fuori di sé essa si scontra con la
finitezza. In seguito, e soltanto in seguito, in un secondo momento, la trasforma
nella propria finitezza […] solo quando le forze dell’uomo entrano in rapporto con
forze della finitezza venute dal fuori, dall’insieme delle forze si compone la forma
uomo (e non la forma-Dio). Incipit Homo…”193.
Nel XIX secolo, dunque, mutano i rapporti di forza dell’uomo con la Vita, il
Lavoro e il Linguaggio. Ora queste forze non possono più essere pensate come
forze elevabili all’infinito cui le rispettive scienze si rapportano dispiegandone gli
elementi in serie continue. Dunque, secondo Foucault, in un primo momento
s’instaura una nuova dimensione di profondità che spezza la possibilità del
dispiegamento in serie e continui. Non dovendosi più rapportare all’infinità questi
elementi perdono il carattere di rappresentazione infinita e assumono quello
contrario di non-rappresentabilità: “La morte nella vita, la pena e la fatica nel
lavoro, la balbuzie o l’afasia nel linguaggio”194.
La biologia, l’economia politica e la linguistica si formano solo in un secondo
momento, quando incontrano queste forze della finitezza che costringono cose,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!192!Ibidem, p.167!193!Ibidem, p.167!194!Ibidem, p.168!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
106
esseri viventi e parole a ripiegarsi nella nuova dimensione creata dal primo
momento. Se nella formazione classica Deleuze utilizza il concetto di
dispiegamento per contrassegnare il pensiero di Foucault sul rapporto delle forze
dell’uomo con le forze del fuori elevate all’infinito, per la formazione storica del
XIX secolo usa un altro termine caro a Foucault: la Piega. “Ovunque ora, c’è la
Piega che domina […], e cioè il secondo aspetto del pensiero operativo che
s’incarna nella formazione del XIX secolo. Le forze dell’uomo si ripiegano o si
piegano su questa nuova dimensione di finitezza in profondità, che diventa allora
la finitezza dell’uomo stesso”195.
Avendo a che fare con il problema della finitezza le forze dell’uomo non possono
che assumere una forma precaria. È in questo momento, dopo aver rintracciato i
due pensieri operativi che caratterizzano la formazione storica “classica”
(dispiego) e la formazione storica del XIX secolo (Piega), che Deleuze introduce
la concezione di Foucault della morte dell’uomo. Deleuze crede, come Foucault,
che la morte dell’Uomo sia il vero interesse di Nietzsche.
“Finché Dio esiste, e cioè finché la forma-Dio funziona, l’uomo non esiste ancora.
Quando però la forma-Uomo appare, deve già comprendere la morte dell’uomo
almeno in tre modi. Da una parte, dove può l’uomo trovare il garante di
un’identità in assenza di Dio? In secondo luogo, la forma-Uomo si è costituita
solo nelle pieghe della finitezza, immette la morte nell’uomo […] Infine, le stesse
forze della finitezza fanno sì che l’uomo esista solo attraverso la disseminazione
dei piani di organizzazione della vita, la dispersione delle lingue, la disparità dei
modi di produzione, che implicano che l’unica “critica della conoscenza” è una
“ontologia dell’annullamento degli esseri”196.
Deleuze si domanda il perché Foucault faccia trasparire una certa speranza da
questa morte inattesa. Se assumiamo la morte dell’uomo nel senso della morte
della forma-Uomo ci sarà possibile capire la questione che si pone Foucault con
questa idea enigmatica. La morte della forma-Uomo non chiude ma dischiude la
possibilità di una nuova forma che entra in rapporto con nuove forze e non può
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!195!Ibidem, p.169!196!Ibidem, p.172!
Capitolo 5: Il valore della differenza.
107
configurarsi né come Dio né come Uomo. “Questo è il modo corretto di porre
quel problema che Nietzsche chiamava superuomo”197.
Deleuze ritiene che, come Nietzsche, Foucault non abbia potuto dare altro che un
abbozzo di tale figura. Se per Nietzsche l’uomo ha imprigionato la vita, il
superuomo dovrebbe essere la nuova possibile forma, derivante dal rapporto con
le nuove forze del fuori, che può liberare la vita nell’uomo stesso. Il superuomo
risulterebbe, dunque, dall’incontro delle forze dell’uomo con nuove forze del fuori
che, se non possono essere caratterizzate né dall’infinitezza né dalla finitezza, lo
saranno dal finito-illimitato. Deleuze definisce il pensiero operativo in questo
nuovo rapporto di forze come Superpiega. E avanza un’ipotesi: “il finito-
illimitato o la superpiega non è forse ciò che già Nietzsche abbozzava con il nome
di eterno ritorno?”198.
Il superuomo è dunque, secondo Deleuze, la forma che risulterà da questo
rapporto tra le forze dell’uomo e le nuove forze del finito-illimitato. Ma a questo
punto è chiaro che se l’idea della superpiega, del finito-illimitato è ciò che
Nietzsche intendeva con l’eterno ritorno allora, per Deleuze, il superuomo può
essere questa nuova forma che risulterà dall’uomo che si trova di fronte al
pensiero dell’eterno ritorno e risponde affermativamente: “come direbbe Foucault,
il super-uomo è molto meno della scomparsa degli uomini esistenti, e molto di più
di un cambiamento di concetto: è l’evento di una nuova forma, né Dio né uomo,
una forma che possiamo sperare che non sia peggiore delle due precedenti”199.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!197!Ibidem, p.173!198!Ibidem, p.175!199!Ibidem, p.175!
Conclusioni
108
Conclusioni
In questo lavoro si è cercato di mettere in rilievo la fondamentale interpretazione
offerta da Gilles Deleuze della filosofia di Frederich Wilhelm Nietzsche. Deleuze
è stato un interprete fondamentale per vari filosofi quali Bergson, Spinoza e David
Hume, ma è stato dal confronto con la filosofia di Nietzsche che il suo pensiero ha
subito maggiori influenze. In questo scritto si è cercato di decifrare la difficile
interpretazione compiuta da Deleuze nel testo Nietzsche e la filosofia e in altri
scritti dedicati al filosofo tedesco. Deleuze segue l’intera evoluzione del pensiero
nietzschiano e la sua interpretazione cerca di far emergere l’assoluta novità di
questo pensiero che, soprattutto in ambito morale, si è andato sistematizzando in
uno degli ultimi testi di Nietzsche, la Genealogia della morale.
Le tre dissertazioni della Genealogia della morale, come si è visto, cercano di
individuare il percorso compiuto dal nichilismo per diffondersi e le varie
trasfigurazioni attraverso cui è dovuto passare per affermarsi. Prima di addentrarci
nell’interpretazione, offerta da Deleuze, del testo più sistematico di Nietzsche, nel
primo capitolo si è tentato di descrivere il metodo genealogico introdotto dal
filosofo tedesco. Deleuze coglie due elementi davvero fondamentali della filosofia
nietzschiana: l’introduzione nella filosofia dei concetti di senso e valore (che
permettono di raggiungere la vera critica, da cui Kant era rimasto lontano) e il
metodo introdotto per cogliere lo sviluppo e le maschere dietro cui si trasfigurano
questi concetti. Il metodo genealogico, come abbiamo visto, permette di valutare
la storia (e non solo) non partendo dall’idea di una pretesa origine dei fenomeni
cui si deve risalire per poterli conoscere, ma cogliendo nella storia i momenti di
rottura e di discontinuità che portano un fenomeno ad apparire nella sua forma
attuale. Secondo Deleuze, Nietzsche parte da due presupposti. Il primo è che non
esistono fatti ma solo interpretazioni (per cui un fatto si dà già come
interpretazione che varia solo nel momento in cui una diversa interpretazione
investe quel determinato fatto con la sua forza e soggioga la forza che prima lo
caratterizzava). Il secondo presupposto è che qualsiasi fenomeno è il frutto di un
rapporto tra forze molteplici che si dispongono tra loro gerarchicamente in base a
Conclusioni
109
differenze di quantità e di qualità. Il filosofo francese individua nel prospettivismo
la vera novità metodologica introdotta da Nietzsche nella filosofia. Il
prospettivismo permette di spostare le prospettive da cui si osserva un fenomeno e
di coglierne il senso non nella sua identità ma nel suo pluralismo. Il senso è
sempre plurale e deriva da un non-senso originario. In uno dei suoi libri più
importanti, La logica del senso, Deleuze cerca di far emergere questo problema,
denunciando la possibilità di un senso univoco dei fenomeni e la possibilità di una
loro origine causale. L’insegnamento di Nietzsche viene ripreso da Deleuze in
senso anti-metafisico e anti-dialettico e il pensiero viene definito come un grande
labirinto interiore. Nella Logica del senso, insomma, Deleuze cerca di sovvertire
le leggi ordinarie del linguaggio e della logica riconducendo il senso ad un non-
senso originario. Come dichiara esplicitamente, la più importante lezione che ci
ha lasciato Nietzsche è di carattere metodologico. Il filosofo, una volta colta la
pluralità dei sensi che investono un fenomeno, deve saper offrire
un’interpretazione e una valutazione in senso gerarchico delle varie forze che in
esso momentaneamente predominano.
Ritornando a Nietzsche, nel primo capitolo (in cui si è descritto il lavoro del
metodo genealogico) è stato di grande aiuto Michael Foucault con il suo saggio:
Nietzsche, la genealogia, la storia. In questo scritto, come abbiamo visto,
Foucault indica la triplice novità introdotta dal metodo genealogico: negare la
possibilità di un senso univoco dell’origine da cui sola deriva il senso di un
fenomeno; escludere la ricerca di un’identità nell’origine del fenomeno ma
cercare di cogliere nello sviluppo di questo i momenti di discontinuità; dissipare
la possibilità di concepire un soggetto della conoscenza. Insomma abbiamo colto
l’importanza degli studi di Foucault sul metodo genealogico nell’apertura di una
nuova possibilità di leggere la storia concentrandosi sui micro-eventi che la
producono in momenti di rottura e non cogliendone una presunta identità e
continuità. Nel secondo capitolo, ritornando all’interpretazione fondamentale di
Deleuze, ci si è addentrati nello studio delle prime due dissertazioni della
genealogia della morale, in cui si dischiude la critica di Nietzsche al nichilismo
dilagante, seguendone la storia e le sue trasfigurazioni. Come abbiamo visto la
prima dissertazione pone al centro la scoperta nietzschiana del risentimento, la
Conclusioni
110
seconda quella della cattiva coscienza. Gilles Deleuze dà un’interpretazione
particolare di questi fenomeni, proponendone una concezione energetica. Ogni
fenomeno è composto da un rapporto tra molteplici forze che incontrandosi si
dispongono gerarchicamente. Il filosofo francese distingue le forze in attive e
reattive in base alla qualità intrinseca delle forze e alla differenza di quantità che,
emergendo dal rapportarsi di più forze tra loro, produce una differenza di qualità.
Deleuze sostiene che le forze che s’incontrano per caso compongono un corpo (di
qualsiasi tipo) e che la salute o malattia di questo si possono rintracciare in base
alla gerarchia che si stabilisce tra le forze che in esso si rapportano. La volontà di
potenza, infine, sarà considerata come il principio della sintesi delle forze da cui
deriva la differenza di qualità ma anche come affezione che fa sì che le forze si
rapportino tra loro. Dall’incontro di più forze alcune risultano dominanti e altre
dominate. In un corpo in salute, le forze attive dominano le forze reattive che si
lasciano agire. Secondo Deleuze, tutta la critica di Nietzsche alla morale, in
particolare giudaico-cristiana, consiste nel considerarne l’effetto come un
divenire-reattivo delle forze che, in parte è connaturato nell’uomo, in parte è
prodotto dal nichilismo immanente all’insegnamento morale.
Nel secondo capitolo si è seguita l’interpretazione offerta da Deleuze del
risentimento e della cattiva coscienza. Il risentimento viene definito come una
reazione che diventa sensibile e cessa di essere agita. Nietzsche nella prima
dissertazione fa risalire l’origine del risentimento all’azione del prete ebraico che,
prima trasfigurazione dello spirito di vendetta, conduce le forze reattive ad un
primo trionfo rivolgendone l’odio all’esterno. Il tipo del risentimento è spirito di
vendetta che si rivolge all’esterno e i valori che produce si basano
sull’opposizione dei valori affermativi (dei signori) che cercano di falsificare.
Infine Deleuze traccia una topologia e tipologia del risentimento. La topologia
utilizza il linguaggio freudiano che fa risalire l’origine del tipo-del-risentimento
ad un problema di sovvertimento gerarchico nell’uomo tra le forze
inconsce(attive) e quelle consce(reattive). Il tipo formato da questa composizione
topologica delle forze, risulterà debole e capace di affermarsi solo negativamente,
negando e odiando l’altro. Infine è stato necessario chiarire che il risentimento
non è una vendetta compiuta ma solo odio astratto che invece di essere agito viene
Conclusioni
111
sentito e provoca dolore. Il dolore è ciò che permette al prete di istituirsi quale
potere fondamentale. Successivamente abbiamo seguito lo svilupparsi del
risentimento ebraico che, nell’incontro con il cristianesimo, si trasforma e,
attraverso l’introduzione di concetti quali peccato, colpa e responsabilità, riesce ad
interiorizzare quel dolore che il risentimento aveva prodotto. Da qui la definizione
della cattiva coscienza come interiorizzazione del dolore che lo moltiplica e lo
diffonde. Abbiamo visto infine che, se nel risentimento era all’opera lo spirito
sacerdotale ebraico, la cattiva coscienza è prodotta storicamente dalla storia del
cristianesimo e dalla nuova concezione di peccato e colpa come eterni ed
inestinguibili.
Il terzo capitolo è di carattere differente in quanto si occupa di ricondurre le
scoperte di Nietzsche, di risentimento e cattiva coscienza, alla storia reale in cui
questi si sono sviluppati. Si è tentato di esporre lo studio che Nietzsche ha
compiuto sulla storia ebraica (con cui ha un rapporto ambivalente di odio e
ammirazione) e sulla storia del cristianesimo, inteso non come fenomeno nuovo e
a sé stante, ma come dipendente sempre da quella storia ebraica che ad un certo
punto della sua evoluzione ha istituzionalizzato il ruolo del sacerdote. Infine,
sempre nel terzo capitolo, si è tentato di riportare la descrizione psicologica
compiuta da Nietzsche di Gesù Cristo e di San Paolo (facendo riferimento
principalmente all’Anticristo). Mentre Gesù è caratterizzato come un santo-idiota
più vicino alla figura del Buddha che a quella del fondatore di religioni, la figura
di Paolo è della massima importanza nella filosofia di Nietzsche perché San Paolo
di Tarso andrà perfettamente a simbolizzare l’azione storicamente condotta dallo
spirito sacerdotale come spirito di vendetta. È Paolo, secondo Nietzsche, il primo
cristiano e non quel Gesù di cui a Paolo interessava solo la morte. Nietzsche
sostiene che il suo bersaglio polemico sia il Cristo crocefisso più che il Gesù
storico stesso.
Dopo questo excursus sugli studi storico-religiosi di Nietzsche, siamo tornati
all’argomento principale, l’interpretazione di Deleuze dell’ultima dissertazione
della Genealogia della morale. Nella terza dissertazione è presentata da Nietzsche
l’ultima trasfigurazione del nichilismo: l’ideale ascetico. In esso Deleuze coglie
quell’ultima falsificazione attraverso cui la vita, negando se stessa, porta al
Conclusioni
112
definitivo trionfo le forze reattive che privano le forze attive della fonte della loro
forza. Il paragrafo successivo è stato dedicato all’interpretazione deleuziana del
nichilismo che si differenzia in negativo, reattivo, passivo. Il nichilismo si
trasforma, dietro le sue maschere, da volontà del nulla che nega la vita per
affermare valori superiori (altrettante finzioni) a un nulla di volontà che, una volta
persi i valori superiori (e Dio), non trova più un senso e perde ogni certezza.
Nell’ultimo paragrafo del quarto capitolo si è tentato di caratterizzare la volontà di
potenza. Deleuze pensa che proprio la volontà del nulla, il nichilismo, ci permetta
di conoscerla essendo la ratio cognoscendi della volontà di potenza. La
descrizione di questa nuova forma di volontà è uno dei punti più alti
dell’interpretazione di Nietzsche compiuta da Deleuze. La volontà di potenza non
è assolutamente una volontà che tende alla potenza ma -dice Deleuze- si potrebbe
intendere come potenza di volontà. La volontà di potenza è intensità pura,
plastica, che si manifesta solo nella qualificazione e nell’affezione della forza. La
volontà di potenza ha anch’essa due differenti qualità: quella negativa che,
legandosi alle forze reattive, produce il nichilismo e quella affermativa che non
possiamo conoscere se non come ratio essendi della volontà di potenza e quindi
nella sua affermazione nell’azione.
Nell’ultimo capitolo, infine, si è cercato di sviluppare quella che è stata
l’influenza fondamentale di Nietzsche per Deleuze. Nel primo paragrafo il
discorso si è incentrato sulle concezioni di corpo e di esistenza che, secondo il
filosofo francese, Nietzsche è riuscito a riscoprire affermandone nuove possibilità
di sviluppo. Deleuze coglie l’importanza fondamentale che ha per Nietzsche una
concezione dell’esistenza che affermi l’innocenza della molteplicità prodotta dal
caso ed accusa tutte le filosofie precedenti di aver tentato di ricondurre sempre la
molteplicità all’unità e la differenza all’identità. Nel paragrafo sull’eterno ritorno
del differente, si è voluto incentrare il discorso sulla filosofia di Deleuze che così
tanto ha colto da questa intuizione. Secondo Deleuze l’eterno ritorno di cui parla
Nietzsche è un pensiero del tutto nuovo perché non è riconducibile né alla visione
ciclica degli antichi greci, né ad altre antiche teorie filosofiche che prevedevano
un ritorno della vita su se stessa verso una finale identità. Deleuze pensa che ciò
che si afferma nell’eterno ritorno è il divenire che ritorna in eterno ma sempre
Conclusioni
113
ritorna differente. In uno dei suoi scritti più importanti, Differenza e ripetizione,
Gilles Deleuze traccia un solco con le filosofie metafisiche e dialettiche che
ricercano in ogni fenomeno l’identità, la comprensibilità. Come già affermato ne
La logica del senso, essendo il senso molteplice esso si dà sempre nella differenza
che è affermazione della ripetizione. Secondo Deleuze l’importanza fondamentale
della concezione nietzschiana dell’eterno ritorno risiede nel suo essere un pensiero
etico e selettivo. L’eterno ritorno affermando il differente afferma anche la
negazione che, cambiando di senso, diventa parte dell’affermazione. Secondo
Deleuze solo la trasvalutazione dei valori in senso nietzschiano (che rende il
nichilismo affermativo) può aprire nuove possibilità all’uomo, al mondo e al
pensiero: il superuomo.
Il paragrafo finale è stato diretto ad un confronto compiuto dallo stesso Deleuze
con la filosofia di Michael Foucault sulla concezione (foucaultiana) della morte
dell’uomo e della possibilità dell’avvento del superuomo. Deleuze riprende la
concezione (che Foucault ha recepito da Nietzsche) dell’uomo come un
composto-uomo che non è sempre esistito e non esisterà sempre ma che è il
prodotto del rapporto tra un determinato tipo di forze (quelle proprie di ciò che noi
intendiamo uomo) e forze dell’esterno. In base alla tipologia di forze esterne con
cui le forze dell’uomo si sono dovute scontrare nell’evoluzione storica, si sono
succedute diverse forme di soggettività: la forma-Dio (le forze dell’uomo in
rapporto con forze esterne di carattere infinito), la forma-Uomo (cambiano le
forze esterne che divengono finite) e l’ultima forma che prevede la morte
dell’uomo (inteso come forma-Uomo) e annuncia una nuova-forma di là da venire
(che Deleuze riconduce al superuomo).
In conclusione, questo lavoro vuole far emergere l’importanza per la filosofia del
recupero di un’interpretazione complessa ma brillante come quella che Deleuze ci
offre del pensiero di Nietzsche. Gilles Deleuze ha tentato in tutti i suoi lavori di
pensare il differente, il non-pensato, ciò che è affermazione dei molteplici sensi in
cui una cosa, un fenomeno, un corpo si possono dare. Ha utilizzato Nietzsche in
senso anti-dialettico, ponendolo in contrasto con la filosofia a lui precedente e
criticando chi, come Heidegger, avrebbe voluto farlo rientrare in quella storia del
pensiero metafisico contro cui ha sempre combattuto. Deleuze ha tentato in tutta
Conclusioni
114
la sua filosofia (a rischio di esagerazioni) di cercare di far emergere l’importanza
dell’attività, istanza affermativa e affermatrice, che è inconscia e che appartiene a
quelle capacità dell’uomo che ancora non conosciamo e che forse solo l’arte è
riuscita a sviluppare. Infine il filosofo francese ha colto in Nietzsche la più alta
soglia di esplosività filosofica. Un pensiero che definisce nomade, che si pone
all’alba di una contro-cultura e che rappresenta una sorta di contro-filosofia.
Deleuze coglie in Nietzsche un pensiero che crea distruggendo, una macchina da
guerra del linguaggio che rompe con ogni forma di codice e crea la possibilità di
un nuovo modo di filosofare. I grandi movimenti filosofici del novecento,
marxismo e freudismo, dopo aver rotto con i codici del tempo, si sono lasciati
nuovamente ricodificare (il marxismo nello Stato, il freudismo nella famiglia). La
vera novità, secondo Deleuze, è la filosofia di Nietzsche:
“Il suo problema è un altro. Attraverso ogni codice, passato, presente, futuro, si
tratta per lui di far passare qualcosa che non si lascia e non si lascerà mai
codificare. Si tratta di farlo passare su un nuovo corpo, o di inventare un corpo sul
quale tutto ciò possa passare e scorrere: un corpo che sia il nostro corpo, il corpo
della Terra, il corpo dello scritto…”200.
In tutte le sue opere Deleuze cercherà, attraverso l’idea di fluidità, di rendere il
pensiero incodificabile, di rompere con il linguaggio consueto, di far agire un
pensiero nomade che sia capace di creare nuovi concetti per una nuova filosofia.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!200!G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia p.302!
Bibliografia
115
Bibliografia
Opere di Gilles Deleuze
Nietzsche et la philosophie, Presses Universitaires de France, Paris 1962; trad. it.
di F.Polidori, Nietzsche e la filosofia, a cura di F.Polidori, Piccola Biblioteca
Einaudi, Milano, 1992.
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Guglielmi, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
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Foucault, Edizioni Cronopio, Napoli, 2002.
Conclusions: sur la volonté de puissance et l’éternel retour, in l’ile déserte et autres textes,
Les Editions de Minuit, Paris 2002; trad.it. di D. Borca, Conclusioni sulla volontà di
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Opere di Frederich Nietzsche
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Bibliografia
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Ecce homo. Wie man wird, was man ist, trad. it. di R. Calasso, Ecce homo. Come
si diventa ciò che si è, a cura di R. Calasso Adelphi Edizioni, Milano 2000.
Zur Genealogie der Moral Eine Streitschrift; trad. it. di F. Masini, Genealogia della
morale. Uno scritto polemico. Nota introd. di M. Montinari, Adelphi Edizioni, Milano,
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introd. di G. Colli, Adelphi Edizioni, Milano, 2006.
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Adelphi Edizioni, Milano, 2006.
Der europäische Nihilismus, trad. it. S. Giametta, Il nichilismo europeo. Frammento di
Lanzhereide Adelphi Edizioni, Milano, 2006.
!Aurora e Frammenti postumi (1879-1881), Vol.V, tomo I, a cura di Giorgio Colli
e Mazzino Montinari, trad.it. di Mazzino Montinari e Ferruccio Masini, Adelphi,
Milano 1964.
Also sprach Zarathustra. Ein Buch füt Alle und Keinen, trad. it. di M. Montinari, Così
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!Die fröhlische Wissenschaft, trad. it. F. Masini, La Gaia scienza e Idilli di Messina, a cura
di F. Masini, Adelphi Edizioni, Milano 2005.!
Bibliografia
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Opere di altri autori
M. Foucalt, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in «Hommage à Jean Hyppolite»,
Paris 1971; trad. it. di A. Fontana e P. Pasquino, Nietzsche, la genealogia, la
storia, in Microfisica del potere, Einaudi, 1977, Torino
D.Franck, Nietzsche et l’ombre de Dieu, Presses Universitaires de France, 1998; trad. it.
Nietzsche e l’ombra di Dio, Lithos editrice, Roma 2002.
! !!I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1990.
La Bibbia di Gerusalemme, Centro editoriale dehoniana, EDB, Bologna, 2010.
!Calderòn de la Barca, La vita è sogno, Adelphi Edizioni, Milano, 1997. Feuerbach, L’essenza della religione, Laterza, 1969!