Decostruire l'integrazione scolastica e costruire l'inclusione in Italia. Prospettive di cambiamento...

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-lab Contesti per la comunicazione formativa Collana coordinata da Walter Fornasa La collana intende porsi come osservatorio e spazio di elaborazione dei processi costrut- tivi che caratterizzano le forme dei saperi, le identità e le culture emergenti dalle sfide della modernità e della complessità che ne segnano l’evoluzione. -lab è un (e)-labora- torio, una rete, una sorta di mappa concettuale, uno strumento sensibile all’intrecciarsi dei modi di pensare, di osservare, di agire e di moltiplicarsi come sistemi viventi in una epistemologia operativa più vasta che abbia sullo sfondo l’ecologia della mente. La col- lana si organizza in aree dedicate ai temi della riflessione teorica e generale, ai temi aper- ti in culture altre, all’emergere delle metodologie qualitative, ai modi della formazione, dell’educazione di base e degli adulti e al ruolo delle reti territoriali, con particolare rife- rimento ai temi dell’apprendere, del narrare, del cooperare, del convivere, del co-educa- re, tipici dei contesti e degli ambienti in evoluzione relazionale, ecologica e di comunità.

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-labContesti per la comunicazione formativaCollana coordinata da Walter Fornasa

La collana intende porsi come osservatorio e spazio di elaborazione dei processi costrut-tivi che caratterizzano le forme dei saperi, le identità e le culture emergenti dalle sfidedella modernità e della complessità che ne segnano l’evoluzione. -lab è un (e)-labora-torio, una rete, una sorta di mappa concettuale, uno strumento sensibile all’intrecciarsidei modi di pensare, di osservare, di agire e di moltiplicarsi come sistemi viventi in unaepistemologia operativa più vasta che abbia sullo sfondo l’ecologia della mente. La col-lana si organizza in aree dedicate ai temi della riflessione teorica e generale, ai temi aper-ti in culture altre, all’emergere delle metodologie qualitative, ai modi della formazione,dell’educazione di base e degli adulti e al ruolo delle reti territoriali, con particolare rife-rimento ai temi dell’apprendere, del narrare, del cooperare, del convivere, del co-educa-re, tipici dei contesti e degli ambienti in evoluzione relazionale, ecologica e di comunità.

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Contestiper la comunicazioneformativa

A cura di Roberto Medeghini,Walter Fornasa

L’educazioneinclusivaCulture e pratichenei contesti educativie scolastici:una prospettiva psicopedagogica

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Indice

Presentazione, di Walter Fornasa

Introduzione, di Roberto Medeghini

Educazione per tutti? Una prospettiva su una società in-clusiva, di Michael Oliver

Disabilità, identità e la lotta per l’inclusione, di Len Barton

Politica, disabilità e la lotta per l’educazione inclusiva inInghilterra nel mondo globalizzato, di Felicity Armstrong

Decostruire l’integrazione scolastica e costruire l’inclusio-ne in Italia, di Simona D’Alessio

L’inclusione nella prospettiva ecologica delle relazioni, diRoberto Medeghini

La riproduzione delle disabilità nella scuola dell’integrazio-ne, di Giuseppe Vadalà

Inclusione e doppio vincolo della “disabilità abile”. Versoun’ecologia dell’apprendere e del non apprendimento, diWalter Fornasa

Derive culturali fra senso e terminologia, di Ugo Albrigoni

Costruire identità nella fragilità, di Ivo Lizzola

Scuola e città educative: le sfide dell’educazione inclusiva,di Stefania Gandolfi

Gli autori

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Decostruire l’integrazione scolasticae costruire l’inclusione in Italia

di Simona D’Alessio

Introduzione

Il capitolo analizza le differenze tra la politica dell’integrazione scola-stica e dell’inclusione, e si contrappone ad una diffusa opinione che spessoconsidera i due termini come sinonimi. Partendo da un’analisi critica deipresupposti teorici in cui tali politiche sono radicate, l’intento è quello difare chiarezza sulle logiche che sono alla base di queste politiche e delleloro implicazioni per la pratica educativa.

Dopo una breve panoramica delle varie interpretazioni del concetto diinclusione a livello internazionale, il capitolo mette in risalto la comples-sità di tale nozione, spesso interpretata esclusivamente in termini di adatta-mento e aggiustamento dei sistemi educativi allo scopo di “includere” glialunni in situazione di handicap nelle scuole regolari. L’inclusione, secon-do una prospettiva critica e sociologica derivata dal modello sociale delladisabilità (Oliver, 1990), non ha nulla a che fare con l’inclusione deglialunni disabili e/o con bisogni educativi speciali nella scuola ordinaria.L’inclusione è altresì un processo di trasformazione radicale del sistemaeducativo ed ha come finalità lo sviluppo di una società giusta e democra-tica partendo proprio dalla scuola. Affinché ciò si verifichi, l’inclusionemira ad identificare tutti quei meccanismi che escludono alcuni individuidal processo di partecipazione sociale attiva sulla base di una loro diversitàdalla norma, e promuove una serie di cambiamenti strutturali, pedagogicied organizzativi necessari per scardinare tutte le forme di discriminazione,esplicite od implicite, ancora presenti nel nostro sistema educativo.

Le riflessioni presentate in questo capitolo sono il risultato di una seriedi studi e di ricerche1 che hanno indagato se ed in che modo la politica

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1. A causa del limitato spazio disponibile su queste pagine non è possibile offrire unadescrizione completa delle ricerche condotte. Le conclusioni presentate in questo capitolo

dell’integrazione scolastica può condurre allo sviluppo dell’inclusione inItalia. Senza voler screditare la politica dell’integrazione scolastica, e ilruolo fondamentale che questa politica progressista e anti-discriminatoriaha svolto per la scuola italiana e nel mondo, il capitolo offre una visionealternativa e critica dell’integrazione scolastica. Le conclusioni presentatedi seguito superano una visione “buonista” e tradizionale che consideral’integrazione scolastica esclusivamente come una politica umanitaria epriva di problematiche che ha permesso ad un gruppo precedentementeescluso dalla società di frequentare le scuole normali. Gli studi hanno sot-tolineato come la consapevolezza che la politica dell’integrazione scolasti-ca sia stata applicata per più di trent’anni e abbia determinato la quasi tota-le scomparsa delle scuole speciali, abbia in qualche modo bloccato la ri-cerca e l’esame dei presupposti teorici su cui questa politica si fonda. Inol-tre, dalle ricerche è emerso come l’emanazione e la messa in pratica di unapolitica anti-discriminatoria e innovativa, come l’integrazione scolastica,non siano elementi sufficienti a garantire la piena partecipazione di tutti glialunni nella scuola ordinaria. Senza un’analisi dettagliata dei principi edelle logiche che sono all’origine della formulazione e dell’implementa-zione di questa politica, si rischia il perpetuarsi di forme di esclusione,spesso mascherate da pratiche educative apparentemente ‘inclusive’, anchein contesti di scuola normale.

In linea con quanto espresso precedentemente e grazie ad un attentoesame delle ricerche condotte in materia di integrazione in Italia, il capito-lo mette in luce come la politica dell’integrazione scolastica sia rimasta ag-grappata alle posizioni teoriche della scuola speciale (ad esempio la logicadi compensazione del deficit individuale e di normalizzazione) nonostanteil suo esplicito proposito di fare altrimenti. Questo è ad esempio visibilenell’interpretazione ancora dominante del concetto di “disabilità” che è an-cora in netto contrasto con i principi espressi dall’educazione inclusiva.

In conclusione, i cambiamenti necessari per la creazione di una scuolainclusiva vanno oltre il concetto di scolarizzazione degli alunni disabili e/odegli alunni con bisogni educativi speciali oppure della “presa in carico”di questi ultimi da parte della scuola regolare attraverso una giusta ed equare-distribuzione delle risorse. L’inclusione è un processo di cambiamentoche concerne tutti noi (docenti, alunni ed educatori) e richiede una rifles-sione attenta degli obiettivi che la scuola del ventunesimo secolo deve rag-giungere. L’inclusione prende in considerazione le nuove sfide che la so-cietà contemporanea deve affrontare (ad esempio globalizzazione, indivi-

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sono il risultato di studi di caso svolti in due scuole secondarie inferiori dell’Emilia Roma-gna e di una scuola del Lazio. Le ricerche sono state condotte tutte tra il 2005 e il 2008.Per una presentazione esaustiva consultare D’Alessio (2008) e D’Alessio (in stampa).

dualismo, terrorismo, distruzione dell’ambiente naturale), sicuramentemolto diverse da quelli in cui nacque la scuola di massa (omogeneizzazio-ne sociale e culturale) e in cui cominciarono ad essere emanate le primemisure legislative integrative (vedi ad esempio la legge sulla scuola unicadel 1962 e la legge 118 del 1971).

Il capitolo si conclude con una serie di spunti di riflessione necessari adaprire un dibattito e un dialogo indispensabili per lo sviluppo dell’inclusio-ne in Italia, partendo proprio da un esame di alcune pratiche dell’integrazio-ne scolastica che sono state per lungo tempo considerate come ‘scontate’.

Il concetto di inclusione da una prospettiva europea

In seguito alla Dichiarazione di Salamanca (UNESCO, 1994) si comin-ciò a parlare di educazione inclusiva e di inclusione in un contesto interna-zionale. Da questo momento in poi, in molti paesi occidentali, il concettodi inclusione è diventato uno degli imperativi educativi più importanti perlo sviluppo di politiche educative e scolastiche. Il termine “inclusion” e“inclusive education” cominciarono così ad essere usati in molti documen-ti e rapporti di organizzazioni internazionali (Meijer, Soriano, Watkins,2007, OECD, 1997; UNESCO, 2003, 2008) e soprattutto in riferimento al-l’educazione degli alunni definiti con bisogni educativi speciali.

Trovare un significato unico al concetto di inclusione è compito assaiarduo in quanto tale concetto possiede tanti significati almeno quanti sonogli studiosi che si dedicano allo studio di questa disciplina nei diversi am-biti di ricerca. Per tale ragione come afferma lo studioso inglese Dyson(1999), sarebbe meglio parlare di “inclusioni” usando il plurale, piuttostoche di inclusione. Soltanto in questo modo è possibile mettere in risalto ledifferenze che emergono a livello internazionale e spesso anche a livellonazionale, concernenti il significato di questo termine e le sue implicazioniper la pratica. La differenza di prospettive e di interpretazioni del concettodi inclusione è una fonte di ricchezza per la ricerca educativa, e nessun ap-proccio può definirsi migliore di un altro, soprattutto considerati i diversicontesti storici, culturali e politici in cui il termine è utilizzato. È però in-dispensabile che ogni studio che si occupa di inclusione, offra al lettore lapropria interpretazione di questo concetto e quindi sia trasparente rispettoalla logica che lo influenza.

Nel tentativo di fare chiarezza rispetto alla diversità di interpretazionidel termine inclusione, la studiosa inglese Ruth Cigman (2007) suggeriscedi identificare tre scuole di pensiero a livello europeo: la scuola radicale,quella moderata e quella dell’UNESCO. La posizione radicale, secondo laCigman (2007) può essere identificata con il lavoro del Centre for Studies

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on Inclusive Education and Parents for inclusion (CSIE) che ha nell’Indexfor Inclusion (Booth e Ainscow, 2000)2 lo strumento fondamentale per larealizzazione pratica di principi teorici inclusivi. Tale posizione sottolineala necessità di intervenire in ambito scolastico per una rimozione di tutte lebarriere strutturali, culturali, sociali ed economiche che impediscono la re-golare partecipazione attiva di tutti gli alunni nel processo di apprendimen-to a scuola. Inoltre, la posizione radicale appoggia la totale scomparsa ditutte le scuole speciali ancora esistenti, in quanto soltanto con la chiusuradi tutti gli istituti speciali si potranno apportare alle scuole normali tutti icambiamenti necessari per trasformare l’istituzione scolastica in un’istitu-zione democratica ed egualitaria.

La posizione moderata è invece quella sostenuta dalla stessa Cigman(2007) e dalla baronessa Warnock. Questa posizione sottolinea che per al-cuni alunni, in particolare quelli con diagnosi di autismo e/o con disturbidel comportamento, la scuola normale non può rappresentare il luogo diapprendimento privilegiato. Secondo la posizione moderata, infatti, perquesti alunni sarebbe importante conservare l’opzione delle scuole specia-li, sia come istituzioni a se stanti che come centri di risorse in collabora-zione con le scuole normali. Secondo la Cigman infatti, per i genitori deglialunni con gravi disturbi comportamentali la scuola “speciale” rappresentainnegabilmente il luogo migliore in cui educare i propri figli.

Infine la posizione dell’UNESCO (2008) analizza il concetto di inclu-sione in relazione a quello di educazione per tutti o Education For All.L’UNESCO non entra nella diatriba tra radicali e moderati, i primi che so-stengono l’eliminazione delle scuole speciali e i secondi che invece vo-gliono mantenerle, focalizzando l’attenzione sul bisogno di alfabetizzaretutta la popolazione, indipendentemente dai contesti (normali o speciali) incui questo processo avviene e rispettando le diversità storiche, culturali epolitiche dei paesi interessati. Allo stesso tempo l’UNESCO pone l’accen-to sulla necessità di combattere la discriminazione e l’esclusione dai pro-cessi di apprendimento e di aiutare i paesi a sviluppare delle scuole chesiano in grado di rispondere alle differenti esigenze di tutti gli alunni, in-clusi gli alunni disabili, soprattutto in quei paesi costretti a combatteregiornalmente con guerre, povertà, epidemie e carestie.

Il quadro presentato dalla Cigman (2007) pur essendo particolarmenteinteressante, sicuramente non è esaustivo come espresso anche in un re-cente articolo della Curcic (2009), a mio avviso il concetto di inclusione èsicuramente più complesso e difficilmente incapsulabile in tre posizioniideologiche. Ad esempio, con la pubblicazione delle Linee Guida per l’In-

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2. Per una traduzione italiana dell’Index for Inclusion vedi anche il lavoro di Medeghini(2006) e Dovigo e Ianes (2008).

clusione (2009), l’UNESCO si è avvicinato molto di più alla posizione ra-dicale definendo l’inclusione con un processo che mira a trasformare i si-stemi educativi al fine di fornire un’educazione di qualità a tutti i discentiin modo che questi ultimi possano sviluppare al massimo il loro potenzialedi apprendimento. L’inclusione pertanto deve sforzarsi di assicurare nonsoltanto l’accesso alla scuola normale ma anche e soprattutto il successoformativo per tutti gli alunni indipendentemente dalle loro origini etniche,capacità di apprendimento e posizione sociale. In breve, l’UNESCO defi-nisce l’inclusione come un diritto umano e il principio basilare per la crea-zione di una società più giusta ed equa.

Un’ulteriore interpretazione insieme a quelle identificate dalla Cigmanè quella emergente dagli studi condotti dalla European Agency for Deve-lopment in Special Needs Education3, un’organizzazione indipendente so-stenuta dalla Commissione Europea e dai ministeri dell’istruzione dei variStati Membri che si occupa di favorire il dialogo ed il confronto sulle poli-tiche e alle pratiche educative per l’istruzione degli alunni con bisognieducativi speciali a livello europeo. L’Agenzia Europea non possiede unavoce propria, ma nei molti rapporti e nei documenti pubblicati4 appare evi-dente come l’interpretazione dominante sia quella che l’inclusione facciaprincipalmente riferimento ad un gruppo specifico di alunni, quelli cioècon “bisogni educativi speciali” e alle battaglie, soprattutto legislative, chevengono combattute per favorire la loro educazione in contesti scolatici or-dinari. Nel rispetto delle differenti politiche educative, del diverso sviluppostorico e culturale di ciascun paese, dei differenti sistemi legislativi in vi-gore ed infine nella constatazione che diversi paesi utilizzano lingue diver-se e differenti strumenti di identificazione e classificazione degli alunni di-sabili, è praticamente impossibile fornire un’univoca definizione del con-cetto di inclusione che sia accettata da tutti gli Stati Membri (D’Alessio eWatkins, 2009). In linea generale si osserva che negli Stati membri dell’A-genzia Europea in cui sopravvivono le scuole speciali, si usa il termine in-clusione facendo riferimento al processo politico e culturale che favoriscel’integrazione nella scuola normale degli alunni con bisogni educativi spe-ciali. In quei paesi invece in cui il processo di integrazione è già avvenuto,oppure è in corso, inclusione fa riferimento principalmente al processo dimodificazione dei curricoli, dei processi valutativi e pedagogici necessariper garantire l’effettivo apprendimento di tutti gli alunni che incontranodifficoltà nella scuola normale. Recentemente e in accordo con i principi

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3. Vedi il lavoro di Watkins (2007), Meijer (2003).4. Tutti i rapporti e le pubblicazioni possono essere visionati e scaricati gratuitamente

dal sito: www.european-agency.org.

espressi dall’UNESCO (2009) e dal Consiglio d’Europa (2009), dai lavoridell’Agenzia Europea emerge come l’educazione inclusiva sia discussa intermini di equità, di uguaglianza e di diritto umano e venga intesa comeuna garanzia di qualità del sistema educativo al fine di salvaguardare lapartecipazione attiva di tutti gli alunni nel processo di apprendimento sco-lastico, inclusi quelli con bisogni educativi speciali (D’Alessio, Watkins eDonnelly, in stampa).

Tra le altre possibili interpretazioni del concetto di inclusione, troviamola posizione dell’OCSE (1997; 2004; 2005) l’Organizzazzione per la Coo-perazione e lo Sviluppo Economici che utilizza il concetto di inclusionesoprattutto in termini di equità in ambito educativo in riferimento a tregruppi di studenti identificati come a rischio di esclusione dal processo diapprendimento: alunni disabili, svantaggiati e con difficoltà. L’OCSE sot-tolinea come l’inclusione riguardi soprattutto la facoltà di poter esercitareil diritto all’istruzione da parte di queste tre categorie di alunni e garantitaattraverso una adeguata fornitura delle risorse (economiche, materiali edumane) alla scuola.

Il quadro delle possibili interpretazioni del concetto di inclusione è si-curamente molto più vario di quello offerto precedentemente. L’intento diquesta breve presentazione non è quello di offrire una tassonomia della no-zione di inclusione, bensì quello di sottolineare la complessità di questoconcetto. L’inclusione è un processo che non è mai concluso e che puòcambiare forma, carattere, contesti di riferimento e di azione a seconda de-gli ostacoli che deve affrontare. Ciò che resta invariato è il modello teoricodi riferimento, quello del rispetto dei diritti umani per tutti gli individui,incluso il diritto all’istruzione, inteso non soltanto in termini di accesso maanche di successo.

Alcuni studiosi (Booth, 1995; Clark, Dyson e Millward, 1995) afferma-no che per meglio comprendere il concetto di inclusione è necessario met-terlo in relazione con quello di esclusione. Una visione inclusiva richiededi rispondere a quesiti quali “chi viene escluso”, “da chi”, “per quali ragio-ni” e “sulla base di quali meccanismi” (Barton 1997). L’esclusione non èperò un concetto univoco e può variare assumendo forme macro (ad esem-pio l’esclusione dalle scuole speciali) e/o forme micro (ad esempio gli at-teggiamenti normalizzanti e assimilatori che si perpetuano nelle scuolenormali). Pertanto l’esclusione, ad esempio in ambito scolastico, non corri-sponde soltanto all’impossibilità di frequentare la scuola di quartiere, mapuò riguardare altre forme di discriminazione spesso non tangibili e pocoriconoscibili perché da sempre esistenti e considerate come naturali(Booth, 2000; Ainscow, Booth e Dyson, 2006).

In linea generale il concetto di inclusione a livello internazionale sem-bra essere considerato un diritto umano imprescindibile della persona in

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accordo con la Convenzione dei Diritti delle Persone con Disabilità (Na-zioni Unite, 2006).

Il concetto di inclusione e di bisogni educativi speciali inItalia

L’uso del termine inclusione in ambito accademico in Italia è piuttostorecente (Canevaro, 2001; 2004; Ianes, 2005). In Italia, come in altri paesi(ad esempio l’Inghilterra), il termine inclusione presenta diverse interpreta-zioni a seconda degli ambiti di ricerca (pedagogico, sociologico, politico) incui viene utilizzato e della logica che è alla base degli studi condotti. At-tualmente è possibile identificare almeno tre posizioni principali che posso-no essere identificate come inclusione da una prospettiva italiana. Una pri-ma posizione di compromesso che nel passato ha considerato il termine in-clusione inadeguato per il nostro sistema educativo (Canevaro, 2001).

Va detto che noi utilizziamo il termine integrazione perché, nellanostra lingua, il significato di questa parola è più positivo di quelloche oggi ci viene proposto con insistenza dalle agenzie internaziona-li, che desiderano che venga sostituita con la parola inclusione, ter-mine che nel nostro linguaggio, ha un senso di forzatura. Probabil-mente non è possibile aderire pienamente a una traduzione letteraledalla lingua inglese proprio per questo, e quindi vorremmo mante-nere il termine integrazione […] (2001, p. 214).

Successivamente si sceglie di utilizzare il termine inclusione, anche seconsiderato fondamentalmente un “inglesismo” e un sinonimo di integra-zione scolastica:

Il termine inclusione, quindi, non sembra aggiungere nulla che nonsia già presente nel termine integrazione (da più di trenta anni, adesempio, viene sottolineato che l’integrazione scolastica comportauna ristrutturazione radicale anche della scuola, dato che l’allievocon disabilità deve restare in classe, dove dovrebbe venire privile-giato un insegnamento differenziato e cooperativo ecc.) […] In defi-nitiva in italiano sembra legittimo sia utilizzare l’inglesismo “inclu-sione” che il termine “integrazione”. Ciò che conta è che in ambe-due i casi sia esplicito che ci si riferisce a processi che prevedonomodificazioni sia nelle persone con disabilità (o differenze culturaliecc.) che nel contesto (Vianello, 2008).

Inizialmente questa posizione considera l’inclusione come una formaprimitiva di integrazione, i nostri alunni erano già “inclusi” da tempo, ma

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poi probabilmente, come afferma anche Canevaro (in Canevaro e Mandato,2004) sotto la pressione degli studi anglosassoni, si sceglie di adottare il ter-mine inclusione, anche se soltanto come attributo del concetto di integrazione(vedi la definizione di “integrazione scolastica da una prospettiva inclusiva”).In questo modo si cerca di mantenere viva l’eredità della politica italiana del-l’integrazione scolastica senza tagliarsi fuori dal confronto internazionale.

Successivamente è possibile identificare una seconda posizione che inter-preta il concetto di inclusione come una forma di integrazione più ampia, checoncerne cioè non soltanto gli alunni disabili, ma anche gli alunni stranieri,gli svantaggiati dal punto di vista economico e sociale, e in generale tutti que-gli alunni che hanno difficoltà ad accedere al normale curricolo scolastico:

È importante chiarire che esiste una forte differenza tra pratiche diintegrazione e di inclusione. Integrazione si rivolge agli alunni disa-bili, cioè a una parte di quelli con bisogni educativi speciali, mentrel’inclusione fa riferimento alle varie prassi di risposta individualiz-zata realizzate su tutti i vari bisogni educativi di tutti gli alunni conbisogni educativi speciali. L’inclusione è dunque più ampia dell’in-tegrazione (Ianes, 2005, p. 70).

Questa seconda posizione ha scelto di utilizzare il termine di “alunnicon bisogni educativi speciali” (Ianes, 2005), sviluppando il concetto di in-clusione in relazione ad una specifica categoria di alunni, quelli cioè conbisogni educativi speciali. Con questo termine, studiosi e ricercatori italia-ni fanno riferimento a quegli alunni che hanno problemi a scuola, vedi adesempio gli alunni dislessici, e sulla necessità di promuovere l’individua-lizzazione dei percorsi di apprendimento nella scuola ordinaria. Per legge,gli alunni con bisogni educativi speciali non possono essere certificati co-me alunni in situazione di handicap sulla base dei manuali medici attual-mente utilizzati dalle Aziende Sanitarie (dalle ricerche condotte tra il 2005ed il 2008 il manuale principalmente utilizzato era l’ICD-105 del 1990). Ilconcetto in inclusione viene pertanto interpretato come quel processo chemira all’integrazione di quegli alunni che pur non rientrando in specifichecategorie mediche, valide dal punto di vista legislativo (cioè legge104/1992 e l’Atto d’Indirizzo del 1994), richiedono comunque forme diassistenza aggiuntiva. Pur con le migliori intenzioni questo processo diidentificazione e categorizzazione degli alunni “diversi” raggruppati sottoil termine generale di “bisogni educativi speciali” non rappresenta altroche una soluzione nuova per etichettare gli alunni considerati “problemati-ci” per il sistema scolastico. Il bisogno viene attribuito innegabilmente al-

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5. International Classification of Diseases, versione n. 10.

l’alunno che diviene di conseguenza l’oggetto principale dello studio e nonl’istituzione scolastica, come invece si propone di fare l’inclusione. In que-sto modo il termine inclusione non soltanto viene interpretato come sinoni-mo di integrazione, ma il suo focus resta l’individuo che si differenzia dal-la norma piuttosto che le strutture che lo ospitano e le pratiche “disabili-tanti” che si perpetuano in esse e che possono rappresentare la causa origi-naria del “bisogno” espresso dall’alunno.

Inoltre, analizzando le origini storiche del termine “bisogni speciali” inInghilterra, paese in cui la definizione venne coniata per la prima volta,emerge il legame tra questo termine e la logica delle scuole speciali. Il ter-mine special needs venne creato nel 1978 dalla baronessa Warnock che in-tendeva favorire il processo di integrazione6 degli alunni disabili dalla scuolaspeciale alla scuola ordinaria, processo che in Italia è già avvenuto da tem-po. In ambito anglosassone si trattava del primo passo storico di inserimentoscolastico degli alunni disabili in scuole regolari. Creando una nuova termi-nologia la Warnock sperava di modificare gli atteggiamenti negativi che siperpetuavano nei confronti degli alunni che si differenziavano dalla norma,partendo proprio dal cambiamento del linguaggio con cui tali alunni veniva-no etichettati. Nasceva così l’educazione speciale, che mirava a trovare glistrumenti di apprendimento ed insegnamento capaci di favorire il processodi apprendimento degli alunni a rischio di fallimento scolastico sulla basedelle diverse forme di deficit degli alunni (ad esempio educazione specialeper gli alunni con disturbi dell’apprendimento, per gli alunni con sindromedi Down ecc.). In questo modo, anche se in contesti ordinari, il lavoro svoltocon gli alunni con bisogni speciali era il medesimo delle scuole speciali,quindi di compensazione del deficit e di normalizzazione dell’alunno in mo-do che quest’ultimo potesse adattarsi al nuovo contesto scolastico (e non vi-ceversa). Che l’intervento specialistico si attuasse in contesti segreganti (co-me erano le scuole speciali) e poi nei contesti normali (spesso soltanto perbrevi periodi), i presupposti teorici che lo sostenevano erano gli stessi.

Il termine “bisogni speciali” diventa successivamente “bisogni educati-vi speciali” con la pubblicazione dell’ISCED (UNESCO 1997), uno stru-mento creato dall’UNESCO per favorire il confronto internazionale tra idiversi sistemi educativi esistenti. Secondo l’ISCED (International Stan-dard Classification of Education) i bisogni educativi speciali sono unconcetto più vasto rispetto a quello di bisogni speciali in quanto questi si ri-feriscono non soltanto agli alunni che appartengono alla categoria “disabili”

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6. È importante sottolineare che il termine integrazione in Inghilterra non ha lo stessosignificato che possiede in Italia, dove si parla appunto di ‘integrazione scolastica’. Perun’analisi attenta del significato di integrazione vedi Booth (1982) e D’Alessio (2007b).

ma a tutti coloro che sono a rischio di insuccesso scolastico per una seriedi ragioni le più diverse e che impediscono il progresso ottimale dell’a-lunno. Se questi alunni hanno bisogno o meno di forme aggiuntive di so-stegno dipende dalla scuola che deve modificare i curricoli, adattare l’in-segnamento e l’organizzazione in modo tale da fornire risorse umane emateriali a questi alunni.

Nonostante l’intento, in parte condivisibile, di aumentare il numero dialunni che hanno diritto alle risorse scolastiche attraverso l’identificazionedi una nuova categoria di alunni “vulnerabili” oltre i limiti fissati dalla leg-ge, l’uso di un termine straniero come quello di “bisogni educativi specia-li” richiede una consapevolezza delle profonde differenze storiche, legisla-tive e sociali che esistono tra il mondo anglosassone (in cui, ad esempio,sopravvivono le scuole speciali) e il sistema italiano. Senza tale consape-volezza, soprattutto dell’eredità ideologica in cui ogni parola è radicata, sirischia di riprodurre vecchie logiche (nello specifico la logica medica) ma-scherate da propositi apparentemente inclusivi. In breve, l’uso di una nuo-va etichetta come quella dei bisogni educativi speciali risponde nell’imme-diato alle esigenze, ancora considerate fuori dalla norma (ossia speciali),degli alunni attraverso una razionalizzazione delle risorse esistenti e diquelle aggiuntive, ma non affronta le questioni che possono essere all’ori-gine dei problemi incontrati dagli alunni. In questo modo si aumenta il nu-mero di alunni che ricevono gli aiuti mentre i meccanismi del “fare scuo-la” rimangono inevitabilmente invariati.

Infine, in Italia, è possibile assistere allo sviluppo di una terza posizio-ne, che possiamo definire radicale. Un ristretto gruppo di ricercatori ed ac-cademici (Medeghini, 2006; Fornasa e Medeghini, 2003; D’Alessio,2007a; 2007b) ha cominciato a presentare una serie di riflessioni sul siste-ma italiano in linea con il lavoro svolto dagli attivisti disabili del modellosociale della disabilità (Barton e Oliver, 1997), dei sociologi dell’educazio-ne (Armstrong, Armstrong e Barton, 2000; Barton e Tomlinson, 1981; Sleee Allan, 2001) e dei riformisti del sistema educativo (Ainscow, 2007;Booth, 2000) soprattutto appartenenti al mondo accademico anglosassone.Secondo questa posizione il concetto di inclusione non ha nulla a che farecon l’inclusione degli alunni definiti come “vulnerabili” o con “bisognieducativi speciali” nella scuola ordinaria e, qualora ciò si dovesse verifica-re risulterebbe evidente che ci si sta muovendo ancora in una logica che èquella dell’integrazione scolastica (nei casi migliori), ma difficilmente inuna logica che è quella dell’inclusione. Questa posizione si oppone ad unavisione che considera l’inclusione come un sinonimo di integrazione scola-stica (anche nella sua accezione di reciprocità tra alunno e contesto scola-stico) e comincia a problematizzare politica e pratiche dell’integrazionescolastica:

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Ed è qui che si definisce il concetto di inclusione che, a differenzadelle concezioni attuali dell’integrazione, non assume l’idea di adatta-mento/normalizzazione in un insieme di norme e codici comporta-mentali stabiliti a priori, ma sposta l’attenzione sulle barriere alla par-tecipazione e all’apprendimento […]. Infatti nell’integrazione il riferi-mento è alla disabilità e ai bisogni speciali e l’attenzione è posta suprocessi di razionalizzazione, adattamento e normalizzazione, mentrel’inclusione ha come riferimento l’insieme delle abilità differenti at-traverso le quali gli alunni si propongono ai loro insegnanti, innescan-do così richieste di cambiamento nei confronti dell’organizzazionedidattica (Medeghini, 2008, pp. 90-91).

Diversamente dall’integrazione, l’inclusione non pone l’accento suglialunni in situazione di handicap, ma di come questi ultimi vengano “residisabili”7 da strutture, organizzazioni e metodologie deficitarie, incapaci cioèdi fornire una risposta adeguata alla diversità della popolazione. L’accento èposto sui meccanismi e sui contesti che devono essere modificati in quanto“l’educazione inclusiva, è un modo di sfidare la presunta norma della scuolaregolare e di andare oltre il paradigma dell’integrazione scolastica deglialunni disabili nelle classi ordinarie” (D’Alessio, 2007b, p. 70)8. L’unicomotivo per cui spesso si parla di inclusione in relazione a specifiche “cate-gorie di persone” (ad esempio i disabili o gli alunni stranieri) è perché è neiconfronti di questo tipo di alunni che “i nodi del nostro sistema vengono alpettine” (D’Alessio, 2008b). Gli alunni disabili pertanto non rappresentanola popolazione target degli studi sull’inclusione, anche se è grazie all’espe-rienza di questi individui che i limiti strutturali, organizzativi, curricolari, pe-dagogici esistenti nel nostro sistema scolastico diventano tangibili (D’Ales-sio, 2009). Il target della ricerca inclusiva sono le forme e i meccanismi incui l’esclusione si manifesta (ad esempio culturale, strutturale, politica e so-ciale) e lo smascheramento delle ragioni che la determinano.

Un secondo motivo per cui l’inclusione spesso viene discussa in rela-zione agli alunni disabili è perché sono state proprio le organizzazioni del-le persone disabili che, come ha spesso evidenziato Barton (2001) per pri-me si sono battute contro l’ingiustizia, l’esclusione e la discriminazionesociale e la loro esperienza di lotta politica e sociale può aiutare tutti noi acomprendere come l’esclusione si manifesta nella società attuale.

Da una prospettiva radicale, l’inclusione scolastica è quel processo ditrasformazione del sistema scolastico capace di garantire la partecipazione

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7. A tal proposito vedi D’Alessio S., Vadalà G., e Marra A. (2009), Editoriale in ItalianJournal of Disability Studies, disponibile online: www.milieu.it/DisabilityStudiesItalyEN/ItalianJournalofDisabilityStudiesEN/ItalianJournalofDisabilityStudiesEN.html.

8. Traduzione dell’autrice dall’originale in inglese.

di tutti gli alunni nel processo di apprendimento in contesti educativi ordi-nari (e non speciali). È importante sottolineare che non si parla soltanto di“riforma” dei sistemi educativi, ma di trasformazione radicale dei medesi-mi. Mentre nel primo caso siamo di fronte a processi di adattamento e ag-giustamento rispetto alle forme esistenti, nel secondo caso si esce dai limiticulturali e strutturali correnti per spostare il dibattito sul tipo di scuola chesi vuole sviluppare per il nuovo secolo appena iniziato.

Infine l’inclusione è un processo che vuole spezzare le relazioni di po-tere che esistono oggi e favorire un processo di empowerement di queigruppi sociali, in particolare disabili, migranti e alunni, che sono stati alungo privati della possibilità di esprimere le proprie opinioni, proprio inquegli ambiti che più li riguardano, quali ad esempio la scuola e la societàcivile. L’inclusione pertanto non vuole soltanto dare accesso all’istruzioneo ad altri ambiti della società a chi prima era escluso, ma fare in modo chetutti gli esseri umani possano prendendo il controllo della propria vita e fa-cendo in modo che esperti, professionisti e specialisti prendano le decisio-ni che riguardano la loro esistenza insieme alle persone in situazione disvantaggio piuttosto che al posto di queste ultime.

Integrazioni scolastiche

Come l’inclusione anche il concetto di integrazione scolastica possiedediversi significati a seconda delle persone che la utilizzano e degli ambitidi studio in cui viene esaminata. In Italia, potremmo affermare che esisto-no tante “integrazioni scolastiche” (al plurale) quante sono le scuole che laimplementano. È inoltre importante sottolineare che si parla di “integrazio-ne scolastica” e non soltanto di ‘integrazione’, in modo da distinguere ilconcetto italiano da quello anglosassone che considera l’integrazione es-senzialmente come sinonimo di assimilazione (vedi Corbett e Slee, 2000).Esiste infatti una copiosa letteratura italiana (vedi Canevaro, 1999, 2007;de Anna, 1998) che si è giustamente opposta a questa interpretazione assi-milazionista, affermando che la politica italiana è diversa da quella anglo-sassone in quanto essa prevede un cambiamento reciproco sia dell’alunnoche dell’ambiente in cui l’alunno è inserito. Per tale ragione a livello euro-peo (vedi gli studi di Booth 1982; OECD 1994) la nostra politica è gene-ralmente celebrata come una politica originale e progressista, soprattuttoquando è paragonata ad altre situazioni nel mondo (vedi il Belgio) in cui lascuola speciale è per molti alunni l’unica soluzione educativa possibile.

Dal punto di vista storico, l’integrazione scolastica è stata una politicainnovativa del dopoguerra italiano quando si assistette ad una proliferazio-ne di misure legislative che, a partire dalla Costituzione Italiana, favoriro-

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no l’integrazione dei disabili nella società. L’integrazione scolastica riuscìa rompere con la rigidità della scuola fascista inserendosi in un piano di ri-costruzione che intendeva dare una nuova identità politica e culturale alpaese uscito dalla guerra integrando le differenze, ad esempio le minoran-ze del sud Italia emigrate al nord (Nocera, 2001).

Da questa breve descrizione storica, sembra emergere che la politicadell’integrazione fu soprattutto il risultato di una scelta politica volta adunificare il paese, e non fu il risultato di ricerche pedagogiche legate all’e-ducazione. Queste ultime ci furono, ma furono condotte soltanto in un se-condo momento. Una volta inseriti gli alunni disabili nella scuola ordinariasi sarebbe compreso quali provvedimenti prendere affinché l’alunno disa-bile potesse beneficiare della scuola in classi normali. A partire dagli anni70 il sostegno alle politiche integrative è cresciuto, seppure con inevitabilidifficoltà, tanto che oggi difficilmente si incontrano persone che si oppon-gono, almeno apertamente, al principio di integrazione scolastica. Nelle ri-cerche condotte ad esempio tutti i docenti intervistati hanno ribadito l’im-portanza di questa politica e la volontà di applicarla, disponendo di risorseumane e materiali sufficienti (vedi D’Alessio, 2008).

Ma dunque perché “mettere i riflettori sull’esperienza di integrazione”(Medeghini, 2008, p. 79), una politica progressista che fa oramai parte del-la nostra cultura pedagogica? Fondamentalmente perché nonostante sianopassati più di trent’anni dall’emanazione di questa politica, si assiste anco-ra a fenomeni di esclusione. Nelle scuole visitate ho assistito spesso a ge-nitori di alunni disabili che si rivolgevano al TAR per far rispettare i dirittidei loro figli, insegnanti di sostegno che lamentavano il fenomeno delladelega dell’alunno disabile da parte del docente curricolare, docenti curri-colari che riportavano l’assenza dei docenti di sostegno, per non parlaredegli episodi in cui il docente di sostegno sceglieva di trasferire l’alunnoin situazione di handicap in un’aula separata della scuola per poterlo “segui-re meglio”. Era possibile incontrare questa “stanza” in tutte le scuole visitateed era chiamata con i nomi più fantasiosi: aula del sostegno, laboratorio arti-stico, postazione per l’handicap, e poi il paradosso nei termini il “laboratorioper l’integrazione”; come sia possibile promuovere l’integrazione (in terminidi reciprocità) in un’aula separata, non sono mai riuscita a capirlo9.

Il problema è che la consapevolezza che la politica dell’integrazionescolastica sia stata applicata per più di trent’anni concedendo una serie di

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9. Per un’analisi approfondita dell’uso dello spazio in educazione e del suo impatto sul-le pratiche inclusive vedi D’Alessio (in stampa), “The policy of integrazione scolastica:how the use of space in mainstream schools may impact upon learning and the develop-ment of inclusive education”, in International Journal of Inclusive Education, Special Issueon Space and Learning.

diritti ad una parte della popolazione prima esclusa, deve avere in qualchemodo limitato l’analisi dei presupposti teorici in cui tale politica è da sem-pre radicata. Diversamente, la comprensione della logiche che sono allabase dell’integrazione scolastica è un elemento essenziale per favorire losviluppo dell’inclusione, in quanto diverse logiche producono diverse pra-tiche. Così diverse logiche possono: – focalizzare su differenti aspetti dello stesso fenomeno;– fornire diverse spiegazioni di questo fenomeno;– suggerire delle soluzioni differenti allo stesso problema.

Ad esempio, il fenomeno del fallimento di un alunno ad un esame puòessere esaminato da due prospettive diverse, che chiameremo per comoditàteoria “A” e teoria “B”. La presenza di teorie o logiche diverse porta il ri-cercatore a focalizzare su aspetti differenti dello stesso fenomeno, così adesempio, secondo la teoria “A” il fallimento all’esame potrebbe essere in-terpretato come una forma di selezione e/o di scrematura che fa parte delsistema scuola, mentre nel caso della teoria “B” lo stesso fenomeno potreb-be essere interpretato come una forma di mancato apprendimento. Inoltrequeste differenti teorie forniranno delle differenti spiegazioni perché quelfenomeno si è verificato. Così, nel caso della teoria “A” l’alunno è statobocciato perché “non ha studiato”, oppure perché “non è portato”, mentrenel caso della teoria “B” ci si chiede in che modo i metodi di insegnamen-to/apprendimento abbiano fallito o non siano stati adeguati a rispondere alleesigenze di quello specifico allievo, spingendolo all’insuccesso. Infine, ledue diverse teorie offriranno delle diverse soluzioni alla problematica inve-stigata. Nel caso della teoria “A”, ad esempio, l’alunno dovrà fare ripetizio-ni e/o ripetere l’anno, mentre nel caso della teoria “B” il gruppo docentedovrà riunirsi per elaborare delle nuove strategie di insegnamento.

Comprendere le posizioni teoriche e, quindi le ideologie che influenza-no le nostre azioni, come afferma anche Freeden (2008) nel suo breve sag-gio sull’ideologia, è un aspetto fondamentale della ricerca inclusiva inquanto le ideologie “sono parte del milieu culturale che modella le nostreattività e ne viene a sua volta modellato” (Freeden, 2008, p. 14). Spesso leideologie contengono dei livelli di significato che sono sconosciuti anche achi le utilizza (Freeden, 2008). La loro decodifica inizia da noi stessi e dal-la messa in discussione di ciò che fino ad oggi abbiamo dato per scontato.

Sulla base di queste osservazioni è possibile ipotizzare che il perpetuarsidi fenomeni di micro-esclusione nella scuola dell’integrazione non sono daimputare a questioni di tipo applicativo, cioè ad una mancata o non correttaapplicazione della legge esistente nelle scuole. Questa visione del proble-ma, assai condivisa dalla letteratura italiana, non fa altro che lasciare irri-solte molte delle contraddizioni e tensioni esistenti in materia di scuola, masoprattutto riduce la politica dell’integrazione scolastica ad una questione

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puramente operativa e di razionalizzazione delle risorse scolastiche. Inrealtà, l’origine del problema è molto più profondo e va ricercato nella logi-ca su cui si fonda la politica dell’integrazione scolastica e che ne influenzainevitabilmente sia la formulazione che la prassi. Con l’aiuto di alcuniesempi presentati di seguito, si può osservare come l’integrazione scolasticaè rimasta legata a posizioni teoriche che sono le stesse della scuola speciale.

Un primo dato a sostegno di questa ipotesi emerge dall’analisi dellaprima definizione di integrazione contenuta nella legge 517 del 1977, con-siderata una delle pietre miliari della filosofia dell’integrazione scolastica.In questa misura legislativa non si trova la definizione di integrazione“scolastica” bensì quella di integrazione “specialistica”. In questo modoveniva sottolineato il bisogno di trasferire le competenze (e personale) del-la scuola speciale nella scuola regolare, piuttosto che mettere in discussio-ne il regolare funzionamento della scuola tradizionale.

Inoltre, la persistenza di una logica speciale è anche rintracciabile inquello che viene considerato il “mito fondatore” (Canevaro, 1999, 2004)dell’integrazione scolastica, ossia il ragazzo selvaggio, Victor, educato dalgiovane medico francese Itard. Se da una parte questo mito apre la stradaall’educazione di coloro che fino a quel momento erano stati considerati“ineducabili”, dall’altra stabilisce un legame tra la filosofia dell’educazio-ne speciale che si occupa dell’educazione e della riabilitazione di soggettiin situazione di handicap in contesti speciali e l’integrazione scolastica chesi occupa dell’educazione e della riabilitazione degli alunni in situazionedi handicap ma in contesti regolari. Tale mito inevitabilmente rafforzaun’interpretazione della disabilità in termini di deficit della persona che ri-chiede l’azione umanitaria di professionisti esperti e, inevitabilmente, aprela strada a fenomeni di paternalismo e dipendenza.

Un ulteriore fattore della presenza di una logica speciale, è proprio il mo-do in cui concetto di disabilità viene interpretato. Nelle interviste condotte, ladisabilità viene discussa esclusivamente come sinonimo di deficit della per-sona e come una tragedia personale. Nonostante il tentativo di prendere inconsiderazione l’ambiente e gli ostacoli in esso contenuti (in particolare conl’uso dell’ICF10), la disabilità è considerata come una condizione biologicadeficitaria piuttosto che una forma di discriminazione e quindi di oppressionesociale da parte della società nei confronti di quelle persone che si differen-ziano dalla norma. Diversamente, il concetto di disabilità da una prospettivadel modello sociale della disabilità a cui l’inclusione si ispira, non riguarda lapersona, ma le barriere politiche, culturali, sociali che una persona con unamenomazione deve purtroppo continuamente affrontare (Oliver, 1990).

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10. International Classification of Functioning, Disability and Health (WHO, 2001).

Integrazione scolastica sistemica e integrazione scolasti-ca riduzionista

Nelle scuole utilizzate come studi di caso e dalle interviste condottecon docenti, dirigenti e decisori politici11 si può trarre un’importante con-clusione. Quella cioè che ricercatori, insegnanti ed educatori abbiano con-fuso i mezzi dell’integrazione scolastica – integrare gli alunni disabili nellascuola normale – con il suo fine – la trasformazione del sistema educativopassando per l’esperienza di integrazione degli alunni disabili.

Di conseguenza, è possibile distinguere tra due forme distinte di inte-grazione scolastica12. Accanto ad una versione teorica del concetto di inte-grazione, che potremmo definire sistemica, si è affermata una seconda ver-sione, più semplice, che potremmo definire riduzionista (D’Alessio, 2009).La versione sistemica è quella politica che in origine aveva come obiettivoil cambiamento del sistema educativo partendo proprio dall’esperienza diintegrazione degli alunni disabili. Questa prima versione è stata veloce-mente scalzata da una seconda versione, quella di tipo riduzionista che ri-duce l’integrazione ad una questione tecnica ed amministrativa che riguar-da la fornitura di risorse alla scuola ordinaria (insegnanti di sostegno, pianieducativi individualizzati, pedagogia e didattica speciali). In questo modol’alunno disabile riceve gli aiuti necessari a compensare le sue mancanze(cognitive, fisiche, o altro). Ne consegue però che lo sforzo di adattamentoè principalmente fatto dall’alunno, mentre curricolo scolastico, metodi diinsegnamento e il normale svolgimento delle lezione, restano immutati.

Sulla stessa linea critica, Medeghini (2008) offre un quadro interessantedi analisi della politica dell’integrazione, differenziando tra diverse formedi integrazione: quella partecipata (simile al modello sistemico precedente-mente discusso), quella differenziata, quella progressiva e quella condizio-nale (riassumibili in quella riduzionista). Quello che accomuna la posizio-ne di Medeghini (2008) e il lavoro presentato in questo capitolo è che intutte le prospettive dell’integrazione scolastica esaminate e implementatenella teoria e pratica scolastica correnti è presente un atteggiamento con-servativo che mira a salvaguardare l’istituzione scolastica e a “ridurre l’in-novazione a forme di gestione razionale sia sul versante organizzativo chedidattico” (Medeghini, 2008, p. 81).

A sostegno di quanto espresso precedentemente, si può osservare comeil prevalere di una versione riduzionista della politica dell’integrazione sia

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11. Per una trascrizione completa delle interviste condotte consulta D’Alessio (2008).12. Vedi anche il lavoro di Canevaro (1996) che distingue tra due prospettive dell’inte-

grazione: una teorica e l’altra pragmatica.

stata favorita da una ricerca italiana, che ha cercato sempre di difendere ediffondere il modello italiano esistente. Come di seguito indicato, la ricer-ca si è spesso rifiutata, tranne poche eccezioni, di analizzare in modo criti-co alcuni aspetti contraddittori di questa politica optando invece per unconsolidamento delle tecniche e pratiche esistenti necessarie a salvaguar-dare la legge in vigore.

Così, una grossa fetta della ricerca italiana, ha prevalentemente focaliz-zato l’attenzione sugli effetti positivi di questa politica sull’apprendimentodegli alunni disabili nelle scuole regolari, soprattutto se confrontati allescuole speciali (Cornoldi e Vianello, 1995; Vianello, 1999; Nocera e Gherar-dini, 2000). Un’altra grossa parte della ricerca ha invece messo a punto unaserie di indicatori delle soluzioni tecniche ed amministrative necessarie a ga-rantire la qualità dell’educazione degli alunni disabili nella classi ordinarie(Canevaro, Cocever e Weis, 1996; Nocera e Gherardini, 2000; Canevaro eIanes, 2001; CDH Bologna e CDH Modena, 2003). Un altro gruppo di ricer-catori invece si è interessato di analizzare gli strumenti diagnostici basati sunuovi manuali di classificazione della disabilità e di sviluppare nuove moda-lità di individualizzazione dell’apprendimento (Ianes, 2004; 2005). Infine,altri ricercatori hanno individuato delle didattiche speciali in grado di favori-re la differenziazione dell’insegnamento e l’individualizzazione degli ap-prendimenti (de Anna, 1997; 2003; Canevaro, 2007). Ultimamente un tenta-tivo di rompere con la tradizionale ricerca sull’integrazione scolastica è statofatto da alcuni studiosi che hanno cercato di valutare le conseguenze di que-sta politica sulla vita degli individui a cui è rivolta (D’Alonzo e Ianes,2007). In generale però la ricerca precedentemente discussa analizza la poli-tica da un punto di vista operativo, identificando spesso la soluzione di unproblema nell’aumento delle risorse disponibili (vedi ad esempio la continuarichiesta di aumento delle ore di sostegno o di finanziamenti aggiuntivi).

Nonostante alcuni cambiamenti che è possibile registrare nelle scuole,quali ad esempio lo sviluppo di didattiche laboratoriali incontrate nellescuole del Lazio, di forme cooperative di insegnamento ed apprendimentosviluppate in alcune scuole dell’Emilia Romagna, la politica dell’integra-zione scolastica italiana di tipo sistemico non soltanto non ha avuto lo svi-luppo auspicato ma non riuscirà mai ad essere implementata senza un’ana-lisi critica dei riferimenti ideologici e concettuali che ne influenzano laformulazione e l’implementazione.

Decostruire l’integrazione scolastica e costruire l’inclusione

Per far fronte ai fenomeni di esclusione e di discriminazione che ancorasi perpetuano nelle nostre scuole è necessario decostruire la politica del-

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l’integrazione scolastica e costruire la politica dell’inclusione promuoven-do un’analisi attenta delle teorie e delle pratiche dell’integrazione che sonostate considerate come “naturali” troppo a lungo. Nello specifico, quest’a-nalisi richiede uno slittamento del paradigma culturale dell’integrazione,caratterizzato da discorsi quali adattamento, aggiustamento, categorizza-zione, individualizzazione, re-distribuzione delle risorse verso un paradig-ma culturale che è quello dei diritti umani. In quest’ultimo caso, il concet-to di bisogno viene sostituito con quello del diritto e non esiste più la ne-cessità di “categorizzare” alcune persone in base al loro funzionamentobiologico o “bisogno speciale” per poter usufruire dei medesimi diritti ditutti gli altri individui. In breve la decostruzione del concetto di integrazio-ne scolastica richiede una messa in discussione del concetto di normalità,disabilità e scuola con i quali abbiamo convissuto fino ad oggi. Tale slitta-mento paradigmatico è un processo assai difficile perché richiede di usciredal paradigma culturale nel quali si è vissuti per molti anni e allo stessotempo di mettere in discussione quelle pratiche educative ormai consolida-te nel nostro sistema e che possono rappresentare un ostacolo allo sviluppodel processo di inclusione.

Il docente di sostegno

Il docente di sostegno, o meglio l’insegnante specializzato, è una figurafondamentale dell’integrazione scolastica ed un elemento fortemente rap-presentativo del sistema italiano. Come è possibile che un punto di forzadell’integrazione scolastica italiana possa trasformarsi in un ostacolo alprocesso di inclusione? Tale fenomeno si verifica ogni volta che l’inse-gnante specializzato diventa il fulcro intorno al quale si misura il successo,o viceversa l’insuccesso, dell’integrazione scolastica e nei casi peggiori,quando si trasforma in un’appendice o una protesi dell’alunno in situazio-ne di handicap.

Il problema del docente specializzato però non è un problema di tipoorganizzativo ed operativo, ad esempio la collaborazione in classe con idocenti curricolari e con gli enti locali fuori dalla classe, ma essenzialmen-te un problema di formazione culturale. L’interpretazione dominante delladisabilità, come precedentemente discusso, è che questa sia una forma dideficit individuale ed è pertanto inevitabile pensare di rispondere alla disa-bilità creando una figura che possa compensare tale mancanza. Che questosi verifichi in classe oppure in un’aula separata, il principio non cambia.Fino ad oggi l’approccio formativo privilegiato per rispondere alla diver-sità dell’utenza scolastica è stato quello di sostenere una maggiore specia-lizzazione dei docenti specializzati e di favorire una migliore risposta spe-

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cialistica per categorie di alunni. Diversamente, in una ricerca effettuataper l’IPRASE (D’Alessio, 2009b) sottolineo come sarebbe auspicabile svi-luppare una formazione con un medesimo percorso formativo tra docenticurricolari e di sostegno. Nonostante i suggerimenti offerti da studiosi nel-l’ambito della formazione (vedi ad esempio il lavoro della SIPED, 2005),la divisione a livello di formazione tra docenti curricolari e docenti specia-lizzati in ambito formativo si riproduce inevitabilmente in una divisione inambito lavorativo (cioè in classe). Sarebbe necessario invece sviluppareuna formazione inclusiva di tutti i docenti piuttosto che puntare su unrafforzamento della formazione di tipo “specialistico” (ad esempio corsisull’autismo o sulla sindrome di Down). Una formazione separata di tipospecialistico non fa altro che sottolineare la presenza di alcuni alunni ascuola come un fatto “eccezionale” piuttosto che ribadirne la normalità.

Una formazione di tipo inclusivo, come quella sostenuta dalla ricercadell’IPRASE, non riguarda soltanto l’insegnamento di competenze meto-dologiche e/o disciplinari innovative per tutti i docenti, ma implica lo svi-luppo di una nuova figura professionale dotata di capacità critiche, in gra-do di riflettere sul proprio operato e pronta a rispondere alle esigenze con-tingenti della scuola e quindi anche a richiedere una formazione speciali-stica se necessaria, ma per tutti i docenti.

Infine, un ruolo importante resta quello dei formatori dei formatori. Èrilevante sottolineare che nonostante i migliori corsi offerti ai docenti informazione, questi ultimi probabilmente insegneranno secondo il modelloche è stato adottato dai loro insegnanti. Per tale ragione anche la Commis-sione Europea (2008) sottolinea la centralità della formazione dei formato-ri come elemento essenziale di cambiamento del sistema educativo per ilXXI secolo.

Il piano educativo individualizzato

Un altro fattore che richiede di essere attentamente studiato è il pianoeducativo individualizzato, meglio conosciuto come PEI. Nella prassi sco-lastica questo documento si trasforma in un documento burocratico compi-lato al fine di ottenere le risorse necessarie all’integrazione dell’alunno di-sabile ed è principalmente redatto dall’insegnante di sostegno senza alcunao con poca partecipazione da parte dei colleghi curricolari. Non è difficileche il PEI rimanga a lungo sullo scaffale della segreteria o chiuso negli ar-madietti dell’aula del sostegno. I problemi che questo strumento possiedenon sono determinati soltanto da un suo cattivo uso, ma dalla natura diuno strumento pensato soltanto per gli alunni disabili e non per tutti glialunni. Spesso il PEI contiene la descrizione dettagliata della situazione

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medica di un alunno (ad esempio la diagnosi), gli obiettivi di apprendi-mento che si vogliono raggiungere (sia nel breve che nel lungo periodo), lemodalità e i tempi in cui si intende svolgere l’intervento di sostegno (avolte viene inclusa anche la valutazione). Difficilmente però nei documentivisionati si trovano le raccomandazioni pedagogiche e didattiche per i do-centi curricolari. La valorizzazione delle diversità si espleta in attività disostegno quali progetti e laboratori alternativi al lavoro della classe, pro-getti di integrazione lavoro, quasi sempre esterni alla scuola e quindi in al-ternativa al lavoro in classe. Tali pratiche sono delle interessanti esperienzedi educazione speciale ma non di inclusione, in quanto non intaccavano ilnormale funzionamento del sistema classe.

La certificazione di handicap

Un altro aspetto che richiede una revisione è la certificazione di handi-cap. Ufficialmente la certificazione permette all’alunno disabile di fre-quentare la scuola e di ottenere gran parte delle risorse necessarie alla“sua” integrazione nella scuola normale. Allo stesso tempo però la certifi-cazione è una procedura che “segna” alcuni individui come “altro” rispettoalla maggioranza degli alunni (Allan, 1999). Di conseguenza mentre ad al-cuni alunni il diritto all’istruzione viene garantito in modo naturale, per al-tri alunni è necessario un atto legislativo e un processo di categorizzazione(la certificazione di handicap appunto), per poter frequentare la scuola ditutti. Ultimamente è stato proposto di modificare la procedura di certifica-zione dell’handicap per quanto riguarda la diagnosi funzionale (fatta sullabase dell’Atto di Indirizzo 1994) utilizzando il nuovo manuale ICF(2001)13 e più di recente l’ICF-CY (2007)14. Questi strumenti sono consi-derati da alcuni studiosi italiani (ad esempio Ianes, 2004; 2005) e stranieri(ad esempio Bickenback, 1999) come un fattore indispensabile per lo svi-luppo di una nuova interpretazione del concetto di disabilità in quanto perla prima volta non si considera la disabilità soltanto in relazione al cattivofunzionamento dell’individuo ma come qualcosa che nasce dall’interazio-ne tra la persona e l’ambiente in cui la persona con menomazioni vive.Inoltre l’ICF e l’ICF-CY si riferiscono alla stato di salute delle persone enon alla malattia come facevano i precedenti manuali di classificazione (adesempio l’ICIDH15 del 1980 e l’ICD-10 del 1990). L’ICF non classifica le

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13. International Classification of Functioning, Disability and Health (2001).14. International Classification of Functioning, Disability and Health - Children and

Youth (2007).15. International Classification of Impairment, Disability and Handicap (1980).

malattie ma gli stati di salute, cioè cosa una persona può o non può fare,considerate una serie di condizioni fisiche, ambientali, culturali, sociali epersonali (MIUR, 2010). Grazie all’ICF, le nuove certificazioni dell’handi-cap dovranno anche prendere in considerazione i contesti in cui un alunnovive e pianificarne dei cambiamenti. Inoltre con l’ICF l’individuazionedell’alunno come soggetto “portatore di handicap” dovrebbe avvenire daparte delle aziende sanitarie locali sulla base di accertamenti collegiali16.

Da un punto di vista nazionale l’ICF è sicuramente uno strumento inte-ressante e dimostra che ci si è resi conto di come la certificazione del-l’handicap abbia bisogno di essere modificata. Nonostante ciò, la sua vi-sione della disabilità è ancora influenzata da un modello medico, come ilnome “modello bio-psico-sociale” sottolinea, in quanto sceglie di mettereal primo posto l’aspetto biologico, “bio” appunto, seguito dagli altri ele-menti. Il punto di partenza per la certificazione resta comunque la persona,o il suo funzionamento, che viene valutata rispetto ad uno standard inter-nazionale di salute, quello dell’ICF appunto.

Questo strumento è un ottimo strumento in ambito lavorativo, in parti-colare per le politiche del Welfare, per le pensioni e le assicurazioni, inquanto riesce ad identificare le barriere ambientali che possono compro-mettere la qualità della vita di una persona. Risulta sicuramente utile aimedici sul piano internazionale in quanto favorisce l’utilizzazione di unlinguaggio comune per identificare una serie di condizioni di salute. Maper la scuola, soprattutto se vuole essere inclusiva, non credo possa funzio-nare (D’Alessio, 2006). L’ICF rimane essenzialmente uno strumento nor-mativo, che celebra uno standard piuttosto che metterlo in discussione. Ilsuo approccio è di tipo funzionale e stabilisce un rapporto consequenzialetra la menomazione e la disabilità. Seppur l’accento viene posto sulle ca-pacità di recupero della persona disabile, l’esistenza di un modello univer-sale di riferimento – come quello ipotizzato dall’ICF – rafforza l’idea diun “alunno ideale”. Emerge quindi una contraddizione di questo strumentostandardizzato e universale che si scontra con un ideale pedagogico chesottolinea il valore della diversità e della eterogeneità umana (D’Alessio,2006). L’ICF quindi non soltanto non celebra la diversità, che non vienevalorizzata ma soltanto identificata, ma cerca di compensarla e di riportar-la dentro la norma. Nonostante il tentativo condivisibile di modificare ilconcetto di disabilità e di porre l’accento anche sugli ostacoli ambientali,con l’ICF non è avvenuto il cambiamento paradigmatico auspicato dall’in-clusione, quello che distingue tra il deficit (condizione biologica) e la disa-

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16. Vedi Decreto del Consiglio dei Ministri n.185 del 23 febbraio 2006, Legge 27 di-cembre 2002 n. 289 e più recentemente Legge 30 luglio 2010 n. 122.

bilità (condizione sociale), soprattutto se viene utilizzato come una vera eproprio “bibbia”, piuttosto che come uno strumento da modificare ed adat-tare a seconda delle esigenze.

Conclusioni

Questo capitolo non intende offrire una ricetta per la costruzione del-l’inclusione scolastica. L’inclusione, come affermano anche Ainscow eBooth (1998, 2000) impone lo studio di soluzioni locali che non possonoessere trasferite da un paese ad un altro, o da una scuola ad un’altra senzaproblemi. Quello che però può essere trasferito è un atteggiamento apertoverso il cambiamento e l’innovazione secondo i principi dell’inclusione. Ilprocesso di decostruzione della politica integrazione scolastica e quellodella costruzione della politica dell’inclusione richiede un processo di tra-sformazione della scuola lungo e complesso che scardina l’idea di scuola edi disabilità che abbiamo oggi. Piuttosto che identificare, classificare i bi-sogni in categorie per poi compensarli attraverso una risposta specialistica,l’inclusione cerca di evitare che tali bisogni si manifestino.

Sviluppare l’inclusione non significa dimenticare il passato e i successiraggiunti con l’integrazione scolastica e il lavoro che insegnanti, medici,genitori, alunni ed educatori compiono per la scuola ogni giorno. Non si-gnifica neanche usare una parola anglosassone per seguire una moda. Si-gnifica dialogare con referenti diversi (studenti, migranti e disabili) in mo-do da trasformare il modo di “fare scuola” partendo da noi stessi e metten-do in discussione i nostri luoghi comuni. È innanzitutto il tentativo di usci-re dal letargo culturale in cui siamo caduti e comprendere i limiti del no-stro sistema scolastico. In breve invece di continuare a curare i sintomi diuna malattia, l’inclusione auspica un intervento sulle cause primarie tra-sformando il sistema educativo in modo da prevenire l’insorgere dei “biso-gni” e lavorare per la creazione di una società inclusiva.

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