Comunicare il soggettivo “nel medium dell'oggettività”. Søren Kierkegaard alla luce della...

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Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 3-4 (2013), pp. 713-734 ELISABETTA BASSO * COMUNICARE IL SOGGETTIVO «NEL MEDIUM DELL’OGGETTIVITÀ» SØREN KIERKEGAARD ALLA LUCE DELLA PSICHIATRIA ESISTENZIALE DI LUDWIG BINSWANGER 1. Nella celebre conferenza tenuta a Parigi nell’aprile del 1964 in occasione del primo centenario kierkegaardiano, Sartre si interrogava su un’aporia che esprimeva nel modo seguente: Quando tutto è saputo della vita d’un uomo che rifiuta d’essere oggetto di sapere e la cui originalità consiste proprio in questo rifiuto, ci si trova di fronte a un irriduci- bile: come coglierlo e pensarlo 1 ? Si tratta di una problematica che sta al cuore di quella parte del discorso filosofico che si interroga sulla singolarità e la variabilità dell’umano e che pur tuttavia, proprio in quanto discorso, in quanto logos, presuppone la necessità che il suo oggetto sia ad un tempo «comprensibile» e «comu- nicabile». Per questo discorso, in altri termini, si tratta di «mettere in comune» ciò che sembra sottrarsi a qualsiasi forma di condivisione scien- tifica e di tradurre quindi l’originalità di un linguaggio individuale negli * Alexander von Humboldt Stiftung - Technische Universität Berlin. 1 J.-P. SARTRE, L’universel singulier, in Kierkegaard vivant: colloque organisé par l’Une- sco à Paris du 21 au 23 avril 1964, Gallimard, Paris 1966, pp. 20-63; poi in ID., Situations IX - Mélanges, Gallimard, Paris 1972, pp. 295-325; tr. it. di M. Gallerani - M. Cantoni - G. Ascenso - F. Fergnani, L’universale singolare, in L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la “Critique”, a cura di F. Fergnani - P.A. Rovatti, Il Saggiatore, Milano 1980, p. 143. © 2013 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore 18_Basso.indd 713 09/01/14 19.59

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Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 3-4 (2013), pp. 713-734

ElisabEtta basso*

COMUNICARE IL SOGGETTIVO «NEL MEDIUM DELL’OGGETTIVITÀ»

SØREN KIERKEGAARD ALLA LUCE DELLA PSICHIATRIA ESISTENZIALE DI LUDWIG BINSWANGER

1.

Nella celebre conferenza tenuta a Parigi nell’aprile del 1964 in occasione del primo centenario kierkegaardiano, Sartre si interrogava su un’aporia che esprimeva nel modo seguente:

Quando tutto è saputo della vita d’un uomo che rifiuta d’essere oggetto di sapere e la cui originalità consiste proprio in questo rifiuto, ci si trova di fronte a un irriduci-bile: come coglierlo e pensarlo1?

Si tratta di una problematica che sta al cuore di quella parte del discorso filosofico che si interroga sulla singolarità e la variabilità dell’umano e che pur tuttavia, proprio in quanto discorso, in quanto logos, presuppone la necessità che il suo oggetto sia ad un tempo «comprensibile» e «comu-nicabile». Per questo discorso, in altri termini, si tratta di «mettere in comune» ciò che sembra sottrarsi a qualsiasi forma di condivisione scien-tifica e di tradurre quindi l’originalità di un linguaggio individuale negli

* Alexander von Humboldt Stiftung - Technische Universität Berlin.

1 J.-P. sartrE, L’universel singulier, in Kierkegaard vivant: colloque organisé par l’Une-sco à Paris du 21 au 23 avril 1964, Gallimard, Paris 1966, pp. 20-63; poi in id., Situations IX - Mélanges, Gallimard, Paris 1972, pp. 295-325; tr. it. di M. Gallerani - M. Cantoni - G. Ascenso - F. Fergnani, L’universale singolare, in L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la “Critique”, a cura di F. Fergnani - P.A. Rovatti, Il Saggiatore, Milano 1980, p. 143.©

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elementi «commensurabili» di una razionalità che possa essere compresa e comunicata universalmente. «Commensurabilità», «comunicabilità» e «comparabilità» – nozioni che sono state elaborate nell’ambito più spe-cifico della filosofia della scienza2 – sembrano dunque prestarsi parti-colarmente bene a illustrare una problematica che, nel caso della nostra citazione di partenza, sorge da una domanda di carattere psicologico-esi-stenziale.

L’oggetto dell’aporia sartriana nasce in effetti dalla questione kierke-gaardiana della possibilità o meno di «esteriorizzare» o «rappresentare» l’interiorità, una possibilità che il filosofo danese considerava in sé con-traddittoria per due ragioni: innanzitutto per il carattere costantemente in divenire e quindi in perenne disaccordo con se stesso di ciò che è spirituale, e in secondo luogo perché, una volta considerata dall’esterno, l’interiori-tà si troverebbe necessariamente a perdere la propria natura. È in virtù di questa duplice impossibilità che il filosofo danese faceva appello, per rap-presentare ciò che in Enten–Eller definiva la «pena riflessa», alla poesia o alla psicologia3. Naturalmente, il «trattamento psicologico» al quale Kier-kegaard si richiama nella sua opera del 1843 non va confuso con il sapere e le metodologie specifiche che verranno sviluppate a partire dalla secon-da metà dell’Ottocento4. Eppure, agli inizi del secolo scorso, il pensiero di Søren Kierkegaard si è trovato a essere fonte d’ispirazione per una rifles-sione filosofica incentrata sul ruolo che la psicologia avrebbe dovuto assu-mere nell’ambito di una psicopatologia volta a mettere in questione le basi organiciste della psichiatria ottocentesca. È precisamente questo contesto epistemologico e concettuale che vorremmo cercare di sondare in queste pagine, soffermandoci in particolare sul pensiero dello psichiatra svizzero

2 Cfr. la celebre conferenza di T. Kuhn, Commensurability, Communicability, Compa-rability, «PSA: Proceedings of the Biennial Meeting of the Philosophy of Science Associa-tion», 2 (1982), pp. 669-688; tr. it. a cura di S. Gattei, Commensurabilità, comparabilità, comunicabilità, in Id., Dogma contro critica. Mondi possibili nella storia della scienza, Raffaello Cortina, Milano 2000, pp. 33-62.

3 Skyggerids, in Enten–Eller, in SKS 2, 137-162; tr. it. a cura di A. Cortese, Silhouettes, in Enten-Eller, vol. 2, Adelphi, Milano 1977, pp. 59-60: «La pena riflessa non può dunque diventare oggetto di rappresentazione artistica, sia perché non è mai sussistente, ma costan-temente in divenire, sia perché l’esterno, ciò che si vede è indifferente e futile. […] [l’arte] sarà costretta a rinunciare a rappresentazioni in tal senso, e a lasciarle al trattamento poetico o psicologico».

4 Secondo Alastair Hannay, il termine «psicologia», allorché riferito alle «opere psico-logiche» di Kierkegaard, va inteso nel modo in cui lo intendeva Hegel «per il quale la psi-cologia è parte di una scienza onnicomprensiva dell’uomo nel suo emergere come spirito autocosciente». Cfr. a. hannay, Pathology of the Self, in Id., Kierkegaard, Routledge & Kegan Paul, London - New York 1982, pp. 157-158.

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Ludwig Binswanger (1881-1966)5, che figura tra i padri fondatori della cor-rente cosiddetta ‘fenomenologico-esistenziale’ in psichiatria e per il quale l’opera kierkegaardiana – benché non tematizzata in modo esplicito – gioca un ruolo di primaria importanza.

2.

Nel primo decennio del Novecento il giovane Binswanger fa parte – assieme a Carl Gustav Jung, Karl Abraham, Alphonse Maeder, per citare solo alcuni fra i nomi più noti – del gruppo di psichiatri formatisi nella celebre clini-ca universitaria del Burghölzli di Zurigo, il cui direttore, Eugen Bleuler, è uno dei primi a inquadrare la dementia praecox o schizofrenia, la patologia psichiatrica più dibattuta dell’epoca, all’interno del problema più generale della psicologia, una scienza considerata ancora al suo «stadio embriona-le» di sviluppo6. Più precisamente, per Bleuler e la sua scuola si trattava di interrogare la possibilità di applicare in ambito psichiatrico la metodologia elaborata in quegli stessi anni da Freud nel campo delle nevrosi, al fine di rintracciare nei sintomi psicotici quegli stessi meccanismi che la psicoana-lisi aveva individuato nella dinamica della vita psichica normale. Ad essere posta in questione, in altri termini, era la possibilità di rinunciare, nell’ap-proccio alla malattia, a un puro e semplice determinismo organico reperen-do e formulando quei «principi» che avrebbero consentito di affrontare la sintomatologia dei disturbi psichiatrici «dal punto di vista psicologico»7.

5 Per una breve introduzione biografica e concettuale all’opera di Binswanger, ci permet-tiamo di rimandare al Profilo della vita e delle opere da noi stessi curato in L. binswangEr, Il sogno. Mutamenti nella concezione e interpretazione dai Greci al presente, Quodlibet, Macerata 2009, pp. 23-34.

6 Cfr. E. blEulEr, Dementia praecox oder Gruppe der Schizophrenien, Deuticke, Leipzig 1911; tr. it. di J. Vennemann - A. Sciacchitano, Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie, presentazione di L. Cancrini, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1985, in particolare Premessa, p. 25: «Se, malgrado tutte le difficoltà, mi sforzo di chiarire un po’ meglio le relazioni psicologiche, lo faccio non soltanto perché ogni nuova conoscenza ha valore in sé, ma soprattutto perché a mio parere questo modo di procedere porterà, ci auguriamo al più presto, dallo stato attuale delle nostre conoscenze ad una nuova visione della natura delle psicosi».

7 Cf. C.G. Jung, Über die Psychologie der Dementia praecox, Marhold, Halle 1907; Gesammelte Werke, vol. 3, Rascher, Zürich 1968 / Walter, Olten 1973; tr. it. di L. Persone-ni - L. Aurigemma, Psicologia della dementia praecox, in Opere di Carl Gustav Jung, vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino 1965; ora in Il problema della malattia mentale, Psicologia della dementia praecox e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1975. Cfr. anche id., Der Inhalt der Psychose, Deuticke, Leipzig - Wien 1908 (ristampa anastatica Kraus, Nedeln 1970), 19142; Die Gesammelte Werke von Carl Gustav Jung, vol. 3; tr. it. di L. Personeni

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Fra le principali poste in gioco di questo progetto figurava l’esigenza di riconoscere il ruolo dell’individualità – ovvero delle «disposizioni» e della storia personale del paziente – nell’insorgenza e nell’evoluzio-ne della malattia e delle sue diverse manifestazioni8. Binswanger espri-me in modo particolarmente chiaro questa esigenza in un articolo del 1920, dove distingue il modo di procedere della psichiatria classica da quello della psicoanalisi. Secondo lo psichiatra svizzero, a differenza di quest’ultima, attenta alle singole caratteristiche di una determinata situazione psichica, la psichiatria condividerebbe con la clinica medica in generale un «procedimento generalizzante o universalizzante» che va «dalla singolarità vivente alla generalità per poi costruire, sommando i particolari, un “tipo” del tutto astratto»9. Ora, una volta considerato che un sapere scientifico, per potersi definire tale, deve presentare un certo grado di generalità o universalità, Binswanger pone la psichiatria e la sua pretesa di allinearsi alla scienza medica di fronte al problema di come conciliare l’universalità della conoscenza e dei suoi procedimenti con la singolarità vivente del caso clinico, ovvero di una psiche individuale. In altri termini, la questione è la seguente: com’è possibile ‘spiegare’ il sin-golare? O ancora: è possibile ‘comunicare’ il singolare?

Si tratta di una problematica che all’epoca viene affrontata anche dallo psichiatra tedesco Karl Jaspers, il quale elabora il progetto di una psi-cologia votata alla «comprensione» (verstehende Psychologie) che egli identifica, in opposizione all’approccio esplicativo-causale dei fenomeni tipico del procedere scientifico, ad un tempo con il metodo dell’«empa-

- L. Aurigemma, Il contenuto della psicosi, in Opere, vol. 3; Il problema della malattia mentale, pp. 187-188: «La prospettiva puramente anatomica della psichiatria moderna conduce su una strada che, per dirla blandamente, porta solo indirettamente alla meta, e cioè alla comprensione del disturbo psichico. […] La strada di una psichiatria futura, che deve afferrare meglio il nocciolo della questione, è dunque chiara: può essere solo la strada psicologica. Perciò qui nella nostra clinica di Zurigo abbiamo completamente abbandonato la strada anatomica e ci siamo dedicati interamente all’indagine psicologica sulla malattia mentale».

8 Tale problematica, in ambito psichiatrico, si concretizza inizialmente in un dibattito sulla distinzione fra «psicosi organiche» e «psicosi funzionali»: cfr. E. basso, From the Nature of Psychosis to the Phenomenological Reform of Psychopathology. An Historical and Epistemological Account of Ludwig Binswanger’s Psychiatric Project, «Medicine Stu-dies», 3 (2012), 4, pp. 215-232.

9 l. binswangEr, Psychoanalyse und klinische Psychiatrie, «Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse», 7 (1920), pp. 137-165; Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, vol. 2, Zur Problematik der psychiatrischen Forschung und zum Problem der Psychiatrie, Francke, Bern 1955, pp. 40-66; tr. it. di E. Filippini, Psicoanalisi e psichiatria clinica, in Per un’antropologia fenomenologica. Saggi e conferenze psichiatriche, a cura di F. Giacanelli, Feltrinelli, Milano 1970, 20073, pp. 187-213, qui pp. 207-208.

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tia» (Einfühlung) e con la ricostruzione della genesi o concatenazione della relazione tra i vissuti e gli accadimenti psichici10. Ora, entrambi questi procedimenti, secondo Jaspers, se da una parte rispondono final-mente all’esigenza di rispettare l’individualità dei sintomi psicopatologici sulla scorta della storia personale del paziente, dall’altra non consentono la formulazione di alcuna legge, principio o teoria di carattere generale della psiche. Ne consegue che la clinica psichiatrica fondata sul meto-do della ‘psicologia comprensiva’ finirà necessariamente per arrestarsi di fronte alla mutevolezza e all’incomunicabilità del singolare, e per dichia-rare quindi, paradossalmente, la propria incapacità di comprenderlo.

Il modello elaborato da Jaspers è chiaramente debitore della suddivi-sione diltheyana delle scienze e anche Binswanger, agli inizi degli anni venti, non è esente da tale influenza. In una famosa conferenza del 1927 sulla differenza tra «funzione di vita e storia della vita interiore» egli dichiara infatti esplicitamente come la consapevolezza della distinzione fra un approccio psichiatrico guidato dal «principio funzionalistico» e un altro volto invece a penetrare la «storia della vita interiore» dell’individuo gli si fosse delineata in buona parte «nel corso di ricerche storiche nel campo della storia letteraria e della storia dello spirito»11, ovvero quello stesso ambito di ricerca – egli afferma – da cui Dilthey avrebbe preso le mosse per elaborare una psicologia intesa come «scienza dello spirito»12. È precisamente in questo contesto che il nome di Kierkegaard compare inizialmente sotto la penna dello psichiatra svizzero13, che considera il filosofo alla stregua di quei «grandi moralisti e poeti» che furono capaci

10 K. JaspErs, Allgemeine Psychopathologie. Ein Leitfaden für Studierende, Ärzte, und Psychologen, Springer, Berlin 1913. Cfr. anche id., Kausale und ‘verständliche’ Zusam-menhänge zwischen Schicksal und Psychose bei der Dementia praecox (Schizophrenie), «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», 14 (1913), pp. 158-263; Gesam-melte Schriften über Psychopathologie, Springer, Berlin 1963, pp. 329-413.

11 l. binswangEr, Lebensfunktion und innere Lebensgeschichte, «Monatsschrift für Psychiatrie und Neurologie», 68 (1928), pp. 39-64; Ausgewählte Werke, vol. 3, Vorträge und Aufsätze, hrsg. von M. Herzog, Asanger, Heidelberg 1993, pp. 71-94; tr. it. di E. Filip-pini, Funzione di vita e storia della vita interiore, in Per un’antropologia fenomenologica, pp. 39-64, qui p. 46.

12 id., Einführung in die Probleme der allgemeinen Psychologie, Springer, Berlin 1922, cap. II, § 1, Die ‘inhaltliche Wirklichkeit’ des Seelenlebens (Dilthey) und das generalisieren-de Verfahren, pp. 31 ss.

13 Nell’Einführung in die Probleme der allgemeinen Psychologie Binswanger menziona Kierkegaard rispettivamente nel cap. 4, Das fremde Ich und die wissenschaftliche Darstel-lung der Person. Einleitung (p. 225); in § II.6, Das Verstehen des seelischen Zusammen-hangs (p. 296); e in § III, Der Begriff der Person, c) Person und Ästhetik. Der ästhetische Begriff der Persönlichkeit. Person und Kultur (pp. 322, 324).

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di condurre un «approfondimento della storia della vita dell’uomo»14. Il pensiero di Kierkegaard viene dunque equiparato all’

appassionato pathos religioso di Agostino e alla geniale «immaginazione poetica» di Shakespeare, alle profezie filosofiche nietzschiane, ma anche alla disposizione d’animo [Seelenstimmung] scettica, sobriamente attenta, narrativa di un Montai-gne, e di molti dei suoi antichi modelli e dei suoi successori15.

Si tratta di un approccio interpretativo che in questo periodo Binswan-ger condivide ancora con Jaspers16, la cui verstehende Psychologie egli riconosce appartenere allo stesso modo di procedere kierkegaardiano. Nell’Einführung in die Probleme der allgemeinen Psychologie lo psichiatra svizzero menziona infatti Kierkegaard, Nietzsche e Jaspers come esempi di quel metodo d’indagine fondato su un’«evidenza immediata» che non trova altro fondamento se non in se stessa17.

Malgrado l’interesse e l’importanza che Binswanger attribuisce a tale approccio o «atteggiamento spirituale» per il contributo che esso può for-nire all’avanzamento della psicologia, egli lo considera tuttavia limitato in quanto «pre- ed extrascientifico», ovvero mancante di

ciò che soltanto la scienza è in grado di attuare: l’elaborazione, la trasmissione e la diffusione del metodo scientifico, l’articolazione e l’ordinamento delle nozioni conseguite in un contesto teoretico significante, e quindi la riflessione sul processo della conoscenza18.

Binswanger oppone pertanto al rifiuto jaspersiano delle «teorie» psicologi-che la convinzione che sia possibile invece formulare anche in quest’ambi-to delle leggi, purché adeguate all’«oggetto» della psicologia, lo psichico. Lo psichiatra svizzero contrappone pertanto a Jaspers il progetto di affi-dare alla psicologia il compito di «estrarre» e «ordinare» i «fatti psichici» organizzandoli sistematicamente in una teoria, ma senza per questo ripe-tere il modello metodologico delle scienze della natura19. Nel caso della

14 id., Il sogno, p. 72.15 id., Erfahren, Verstehen, Deuten in der Psychoanalyse, «Imago», 12 (1926), 2-3, pp.

223-237; Ausgewählte Werke, vol. 3, Vorträge und Aufsätze, pp. 3-16; tr. it. di E. Filippini, Esperire, comprendere, interpretare nella psicoanalisi, in Per un’antropologia fenomenolo-gica, pp. 214-228, qui p. 215.

16 Nella sua Allgemeine Psychopathologie, Jaspers equipara Kierkegaard a Nietzsche definendo entrambi «psicologi» e «rivelatori del sé» (p. 181).

17 binswangEr, Einführung in die Probleme der allgemeinen Psychologie, p. 296.18 id., Esperire, comprendere, interpretare nella psicoanalisi, p. 215.19 id., Bemerkungen zu der Arbeit Jaspers’ «Kausale und “verständliche” Zusam-

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ricerca psicologica, infatti – sostiene Binswanger – è la stessa «storia di vita» del malato che deve guidare lo psichiatra verso la «conquista della persona spirituale-vitale», a patto che egli sappia «osservare, scomporre e collezionare i fenomeni psichici nel loro essere, decorso e connessione esperibili»20. L’«ordinamento e il raggruppamento scientifico-sistematico del materiale dell’esperienza» dovrà seguire insomma quella «connessio-ne motivazionale aderente a un senso» che i fenomeni stessi manifestano e a partire dalla quale sarà possibile giungere a formulare delle «leggi razio-nali a priori»21. La legge che Binswanger individua nella concatenazione degli eventi psichici non è dunque una formula generale astratta, bensì una forma di organizzazione dei vissuti formulata a partire dalla manifestazio-ne dei vissuti stessi.

È precisamente questa ricerca delle leggi o «connessioni e principi strutturali»22 che governano l’organizzazione e il funzionamento della psi-che che porterà lo psichiatra svizzero – dopo un iniziale entusiasmo per la psicoanalisi – a rivolgersi all’approccio fenomenologico di Husserl e, in un secondo momento, a partire dagli anni trenta, all’analitica esistenziale di Heidegger. Ciò che attira Binswanger inizialmente verso la metodologia husserliana è l’idea che sia possibile cogliere il fenomeno singolare a partire dalla sua «essenza», un’essenza che lo psichiatra identifica con la «norma» o «struttura» del fatto psichico. Si tratta di una norma che, nel linguaggio del fenomenologo, è immanente al fenomeno stesso e che per lo psichia-tra – come abbiamo visto – coincide con una determinata configurazione dello psichico riconoscibile a partire dalle «relazioni di senso» tipiche che governano il comportamento rendendone possibili le diverse espressioni. Tali relazioni di senso, pertanto, non sussistono in maniera autonoma rispet-to all’esperienza singolare, ma ne costituiscono invece lo «schema ordina-tore» o la struttura interna, di modo che la spiegazione del fenomeno risulta immanente alla stessa descrizione di quest’ultimo. È questa la via teorica che Binswanger sceglie di imboccare al fine di caratterizzare la forma di

menhänge zwischen Schicksal und Psychose bei der Dementia praecox (Schizophrenie)», «Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse», 1 (1913), pp. 383-390.

20 id., Wandlungen in der Auffassung und Deutung des Traumes von den Griechen bis zur Gegenwart, Springer, Berlin 1928; tr. it. di E. Basso, Il sogno. Mutamenti nella conce-zione e interpretazione dai Greci al presente, p. 31.

21 id., Esperire, comprendere, interpretare nella psicoanalisi, pp. 224 ss.22 id., Welche Aufgaben ergeben sich für die Psychiatrie aus der Fortschritten der neue-

ren Psychologie?, «Zeitschrift für gesamte Neurologie und Psychiatrie», 91 (1924), 3-5, pp. 402-436; Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, vol. 2, Zur Problematik der psychiatri-schen Forschung und zum Problem der Psychiatrie, pp. 111-146; tr. it. di E. Filippini, Quali compiti sono prospettati alla psichiatria dai progressi della psicologia più recenti?, in Per un’antropologia fenomenologica, pp. 263-300.

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scientificità specifica della psicologia, una scientificità, cioè, che permetta a quest’ultima di rispondere all’esigenza di oggettività del sapere psichiatrico dell’epoca, ma senza per questo rinunciare a rendere conto della natura sog-gettiva dei fatti psichici.

3.

Si tratta di un approccio che viene approfondito da Binswanger all’inizio degli anni trenta, a partire dalla lettura di Essere e tempo (1927), ope-ra che segna una tappa fondamentale nel pensiero dello psichiatra nella misura in cui l’analitica heideggeriana del Dasein sembra meglio corri-spondere alle esigenze ‘esistenziali’ della psichiatria, una scienza che – a differenza dell’indagine filosofica sulla conoscenza – non sarebbe stata in grado di soddisfare le esigenze dell’eidetica fenomenologica pura nel senso di Husserl. Se per mezzo di quest’ultima – afferma Binswanger nel 1947 nella premessa alla prima edizione della sua raccolta di scritti – «possiamo solo accontentarci di mirare all’essenza a partire dal fatto par-ticolare», con l’analitica di Heidegger le intuizioni metodologiche della fenomenologia possono invece essere incanalate nella direzione di una ricerca rivolta allo studio delle diverse modalità o strutture dell’essere dell’uomo nel mondo23.

È attraverso la Daseinsanalytik dunque che Binswanger rilegge la propria adesione al programma husserliano, traducendo l’indagine gnoseologica sull’essenza dei fenomeni – ovvero la loro riduzione eidetica – nell’anali-si delle «forme» o «stili» di esistenza che caratterizzano l’individualità in quanto «modi dell’essere umano»24. Il concetto heideggeriano di Dasein viene pertanto privato da Binswanger della sua valenza prettamente ontolo-gica e utilizzato quale «filo conduttore sistematico» di carattere metodologi-

23 id., Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, vol. 1, Zur phänomenologischen Anthropolo-gie, Francke, Bern 1947, p. 9.

24 id., Über die daseinsanalytische Forschungsrichtung in der Psychiatrie, «Schwei-zer Archiv für Psychiatrie und Neurologie», 57 (1946), pp. 209-235; Ausgewählte Werke, vol. 3, Vorträge und Aufsätze, pp. 231-257; tr. it. di C. Mainoldi, L’indirizzo antropoana-litico in psichiatria, in Il caso Ellen West e altri saggi, a cura di F. Giacanelli, Bompiani, Milano 1973, p. 20: «L’antropoanalisi non formula tesi ontologiche circa un rapporto modale che determini l’esserci, ma soltanto degli enunciati ontici: enunciati cioè su con-statazioni fattuali circa le forme e le configurazioni [Gestalten] della presenza, quali si presentano nella loro fatticità»; ibi, p. 25: «“Mondo” non significa soltanto formazione di mondo, preliminare progetto di mondo, ma anche, in forza di questo pre-ordinamento, di questa pre-formazione, il “come” dell’essere-nel-mondo e dell’atteggiamento verso il mondo».

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co per penetrare l’organizzazione strutturale dell’esistenza patologica intesa nei termini di un «progetto di mondo»25.

È precisamente alla luce di questi sviluppi teorici che Binswanger riva-luta il valore teoretico del pensiero di Kierkegaard, che non a caso viene posto in esergo a Sogno ed esistenza (1930), ovvero il saggio che inaugura questa nuova fase speculativa dello psichiatra di Kreuzlingen: la Daseins- analyse26. In Sogno ed esistenza in effetti il filosofo danese viene asso-ciato a Heidegger – oltre che a Eraclito, Platone e Hegel27 – nel momento in cui Binswanger affronta la problematica dell’esistenza sotto il profilo della relazione filosofica tra individualità e universalità. Il significato del riferimento a Kierkegaard in questo contesto è duplice, nella misura in cui lo psichiatra lo menziona ad un tempo assieme e in contrapposizio-ne a Hegel. Nel primo caso si tratta di affrontare la questione del sogno in relazione al concetto di «spirito». Ciò che Hegel e Kierkegaard avreb-bero in comune, da questo punto di vista, è l’idea secondo cui il sogno corrisponderebbe alla «possibilità non-spirituale [ungeistige] dell’essere dell’uomo»28. Allorché Binswanger scrive che «fintanto che sogna, l’uo-mo è “funzione di vita”»29, egli sembra richiamare – benché non esplicita-mente – l’analisi dell’«innocenza» elaborata da Kierkegaard nel Concetto dell’angoscia, laddove il filosofo danese sostiene che lo spirito sogna

25 id., L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, pp. 33-34: «La conoscenza della strut-tura o della costituzione fondamentale della presenza ci fornisce un filo conduttore siste-matico per condurre sul terreno pratico l’indagine analitico-esistenziale. [...] Che la strut-tura dell’essere-nel-mondo sia in grado di fornirci un simile filo conduttore metodologico dipende però dal fatto che con essa ci si offre una norma e perciò la possibilità di fissare con esattezza scientifica le deviazioni da questa norma [...]. Se per esempio possiamo parlare di vita maniacale o, meglio, di forma di esistenza maniacale, ciò vuol dire che siamo riusciti a stabilire una norma che abbraccia e domina tutti i modi di espressione e di comportamento che noi definiamo “maniacali” [...] l’essente non è mai accessibile all’uomo come tale, ma sempre e soltanto in e attraverso un determinato progetto di mondo».

26 id., Traum und Existenz, «Neue Schweizer Rundschau», 23 (1930), pp. 673-685, 766-779; Ausgewählte Werke, vol. 3, Vorträge und Aufsätze, pp. 95-119; tr. it. di E. Filippini, Sogno ed esistenza, in Per un’antropologia fenomenologica, pp. 65-90, qui p. 65: «Si tenga piuttosto ben fermo che cosa significhi essere un uomo». Dobbiamo a Herbert Spiegelberg e al suo studio Phenomenology in Psychology and Psychiatry: A Historical Introduction, Northwestern University Press, Evanston (Illinois) 1972 (in particolare p. 194), d’aver rintracciato questa citazione nell’opera di Kierkegaard. Essa proverrebbe dal cap. 2 del-la Postilla: «La verità soggettiva, l’interiorità; la verità è la soggettività» (Afsluttende uvi-denskabelig Efterskrift til de philosophiske Smuler, in SKS 7, 173; tr. it. di C. Fabro, Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia», in Opere, Piemme, Casale Monferrato 1995, vol. 2, p. 315).

27 binswangEr, Sogno ed esistenza, p. 84.28 Ibi, p. 85.29 Ibi, p. 90.

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allorché l’uomo è «determinato psichicamente nell’unione immediata col-la sua naturalità»30. Secondo Binswanger, infatti:

il singolo diventa, da qualcuno che è semplicemente se stesso, un’ipseità o «il» sin-golo da sognatore diventa uomo desto nel momento imperscrutabile in cui decide non soltanto di sapere come «gli succede» ma anche di intervenire nel movimento degli eventi31.

Tale risveglio è di natura «spirituale» – continua lo psichiatra – ed è solo in virtù della «passione dell’interiorità» kierkegaardiana che la soggettività può svilupparsi32.

È precisamente a questo punto che Binswanger sottolinea la differenza tra Kierkegaard e Hegel, nel momento in cui afferma come per quest’ulti-mo «la soggettività deve passare attraverso l’oggettività (la partecipazione, l’intesa, la sottomissione a una norma sovrasoggettiva) per poi tornare a se stessa»33. Se lo psichiatra sceglie Kierkegaard, dunque, è perché:

in quanto psicoterapeuti, non possiamo fermarci a Hegel; infatti non abbiamo a che fare con la verità obiettiva, con la coincidenza di pensiero ed essere, ma bensì con la «verità soggettiva» come dice Kierkegaard34.

30 Begrebet Angest, in SKS 4, 347; tr. it. di C. Fabro, Il concetto dell’angoscia, in Opere, vol. 1, p. 345.

31 binswangEr, Sogno ed esistenza, p. 90. Si tratta di una posizione che Binswanger riba-dirà – ancora una volta tramite un riferimento a Kierkegaard – in un saggio del 1936 su Freud, Freuds Auffassung des Menschen im Lichte der Anthropologie, «Nederlands Tijdschrift voor de Psychologie», 4 (1936), 5-6, pp. 266-301; Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, vol. 1, pp. 159-189, qui p. 186: «Ciò che Freud, sull’esempio di Fechner, aveva innalzato a principio del piacere è uno e soltanto un determinato modo dell’esistenza umana, dell’essere-nel-mondo. È il modo che già Eraclito aveva messo in rilievo e aveva determinato antropologicamente […], cioè l’esistenza dell’uomo nell’“idios” kosmos, nella sua riduzione al mondo privato. Le determinazioni particolari eraclitee di questa forma d’essere sono il sonno e il sogno, l’abban-dono alla passione e al piacere dei sensi. Si tratta qui di una forma dell’essere se-stessi in cui l’ipseità non si fa ancora trasparente e presente [präsentisch] nella sua storicità, né si ripete (Kierkegaard), in cui bensì “momentaneamente”, si impiglia e si trattiene; si tratta, in altre parole, della forma d’essere del venir sovrastato e dominato. È quindi la forma della passività, dell’abbandono passivo dell’uomo al suo essere momentaneo».

32 id., Sogno ed esistenza, p. 88. Cfr. SKS 7, 559; Postilla conclusiva non scientifica, p. 761.33 binswangEr, Sogno ed esistenza, p. 88 (traduzione parzialmente modificata). 34 Ibidem (cfr. SKS 7, 173; Postilla conclusiva non scientifica, p. 315: «La verità sog-

gettiva, l’interiorità; la verità è la soggettività»). Binswanger prosegue nel modo seguente: «Soltanto sulla base di una simile consapevolezza lo stesso psicoterapeuta diventa, da spiri-to dormiente, spirito desto, tanto che di lui si può dire ciò che Kierkegaard dice di Lessing: “In quanto egli non tollera né un abbandono non libero né una non libera imitazione, egli, libero com’è, mette tutti coloro che gli si avvicinano in un libero rapporto con sé”».

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Va sottolineato tuttavia che tale «verità soggettiva», nella prospettiva binswangeriana, conserva ancora una certa forma di oggettività, che non è più quella hegeliana, ma che consiste invece nell’idea kierkegaardiana secondo cui la psicologia, di fronte alle manifestazioni dell’umano, deve essere capace «di formare subito il suo esempio, il quale, se non ha l’au-torità del fatto, ha pure un’altra forma di autorità»35. Si tratta, più precisa-mente, di un’autorità «spirituale» che consiste nell’abilità dello psicologo – come affermava ancora il filosofo danese nel Concetto dell’angoscia – di «formare la totalità e la regola a partire da ciò che nell’individuo si presenta soltanto parzialmente e irregolarmente»36. È interessante notare come tale capacità di «vedere»37 l’invariabile nell’individuale è ciò che caratterizza anche il principio metodologico della Daseinsa-nalyse binswangeriana, secondo la quale lo psichiatra, pur basandosi sul-le espressioni psicopatologiche singolari, deve essere in grado di andare oltre il loro carattere contingente – come afferma Binswanger nel saggio del 1932 Sulla fuga delle idee – per «cercare il principio che domina la formazione della serie», ovvero «penetrare nella struttura antropologico-esistenziale della forma di essere-uomo» che, in questo studio specifico, è quella della «confusione»38. Tali strutture o forme sono costituite da una determinata organizzazione spazio-temporale nella quale lo psichiatra riconosce – sulla base dell’analitica esistenziale heideggeriana – il «pro-getto di mondo» generale che sta alla base di una specifica forma di esi-stenza, come ad esempio la mania, la melanconia, l’ossessività e così via.

In tale contesto, Kierkegaard viene menzionato assieme a Heidegger allo scopo di sottolineare l’opposizione fra tali esperienze della «perdita esisten-ziale di sé» e il «principio del sé» inteso come una «realizzazione esistenziale» consistente nel passaggio, o meglio nel «risveglio di sé» da una vita ordinaria irresponsabile e non autonoma – quella in cui «è il si che pensa e che parla» – al «sé autentico»39. Binswanger ribadisce tale prospettiva nel corso degli anni

35 SKS 4, 359; Il concetto dell’angoscia, p. 360.36 SKS 4, 359; ibidem.37 Cfr. SKS 4, 378; ibi, p. 382: «La vita è ricca abbastanza, purché si sappia vedere; non

occorre fare un viaggio a Parigi o a Londra, ciò che sarebbe anche perfettamente inutile se uno non sa vedere».

38 L. binswangEr, Über Ideenflucht, «Schweizer Archiv für Neurologie und Psychia-trie», 27 (1932), 2, pp. 203-17; 28 (1932), 1-2, pp. 183-202; 29 (1932), 1, pp. 1-37; 193-252; 30 (1933), 1, pp. 68-85; Ausgewählte Werke in vier Bänden, vol. 1, Formen missglückten Daseins, hrsg. von M. Herzog, Asanger, Heidelberg 1992; tr. it. di C. Caiano, Sulla fuga del-le idee, Einaudi, Torino 2003, p. 149 (traduzione parzialmente modificata; corsivo nostro).

39 «“Tutto il mondo” parla oggi di questo principio. È il principio del sé (lo sappiamo da Kierkegaard, Heidegger, Jaspers e molti altri), nel quale noi dobbiamo vedere l’autentico principio esistenziale» (ibidem).

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trenta nella misura in cui afferma – ad esempio nel suo articolo del 1935 sulla concezione eraclitea dell’uomo – che «la nostra propria presenza, che pure ci è così “prossima”, l’io-stesso, non può essere scoperto lungo le vie quotidia-ne, bensì dev’essere cercata con fatica, attraverso mille sforzi come ciò che è lontanissimo dal nostro sguardo quotidiano»40. Da questo punto di vista, lo psichiatra svizzero sembra considerare Kierkegaard come una sorta di erede di Eraclito, quel filosofo che «introdusse per primo nella storia dell’umanità la coscienza della storicità della presenza», «il primo a cercare di indagare la pre-senza là dove essa “è più vicina” alla presa di coscienza filosofica, nell’unica sede in cui possa essere “compresa”, cioè nella propria presenza»41.

Saremmo in errore tuttavia se volessimo leggere in tale prospettiva una sorta di etica, l’autocoscienza aristocratica del filosofo in opposizio-ne alla «moltitudine». Ciò che invece è interessante cogliere nella lettura binswangeriana di Kierkegaard è il fatto che essa assimili l’opposizione tra l’autenticità della coscienza di sé e la dispersione della moltitudine da un punto di vista epistemologico. Nel menzionare lo sforzo kierkegaardiano di «trovare la chiave per la comprensione della contrapposizione tra gli Eleati ed Eraclito»42, lo scopo di Binswanger è quello di indicare come sia pos-sibile raggiungere una «verità soggettiva» senza per questo arrestarsi alla dispersione della mutevolezza dell’individuo. Letto attraverso l’analitica strutturale dell’esistenza promossa da Heidegger, l’approccio ‘strutturale’ kierkegaardiano secondo cui non è possibile «vedere il particolare» senza tenere «in mente, nello stesso tempo, il tutto»43 sembra pertanto corrispon-dere in modo chiaro al progetto binswangeriano di comprendere i fenomeni psichici (particolari) sullo sfondo della loro struttura esistenziale (univer-sale). E in questo modo esso offre allo psichiatra una soluzione alla sua esigenza di conciliare la singolarità individuale dei casi clinici con l’univer-salità del sapere scientifico.

Nel corso degli anni quaranta Binswanger ribadisce in diverse occasioni che l’«analisi esistenziale non può fermarsi al giudizio psicologico»44. Va

40 id., Heraklits Auffassung des Menschen, «Die Antike», 9 (1935), 1, pp. 1-38; Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, vol. 1; tr. it. di E. Filippini, La concezione eraclitea dell’uomo, in Per un’antropologia fenomenologica, p. 101.

41 Ibi, p. 102.42 Ibidem.43 SKS 4, 379; Il concetto dell’angoscia, p. 383. Cfr. inoltre Sygdommen til Døden, in SKS

11, 196; tr. it. di E. Rocca, La malattia per la morte, Donzelli, Roma 1999, p. 84: «Sarebbe un tentativo condannato al fallimento, se iniziassi col descrivere i singoli peccati. L’impor-tante qui è solo che la definizione comprenda come una rete tutte le forme».

44 L. binswangEr, Der Fall Ellen West. Eine anthropologisch-klinische Studie, «Schweizer Archiv für Neurologie und Psychiatrie», 53 (1944), pp. 255-277; 54 (1944), pp. 69-117, 330-360; 55 (1945), pp. 16-40; tr. it. di C. Mainoldi, Il caso di Ellen West, SE, Milano 2001, p. 97.

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specificato a questo punto come lo psichiatra parli di «psicologia» secon-do due accezioni: la prima, più generale, indica una metodologia scientifica finalizzata a mettere in luce i fondamenti o «possibilità esistenziali» delle manifestazioni psicologiche, mentre la seconda indica queste manifestazio-ni stesse nella loro datità naturale. È in questa seconda accezione che d’ora in poi egli intende il «giudizio psicologico» nelle sue analisi dei casi clini-ci, per distinguerlo dalla Daseinsanalyse e dalla sua indagine sulle strutture o «possibilità esistenziali». In questa fase della sua ricerca, Binswanger si spinge sino a rileggere le nozioni psicoanalitiche freudiane alla luce della prospettiva esistenziale ed è precisamente in questo contesto che egli torna a menzionare Kierkegaard, come avviene ad esempio nel seguente passaggio tratto da un saggio del 1949 sull’Importanza dell’analitica esistenziale di Martin Heidegger per l’auto-comprensione della psichiatria:

Il fatto che l’uomo possa divenire «nevrotico» è anche un segno dell’essere-gettata della presenza e della possibilità di deiezione, cioè un segno della sua finitezza e della sua limitazione o non-libertà (trascendentale). Può quindi diventare «nevroti-co» solo chi disprezza questi suoi limiti, cioè solo chi (per usare un’espressione di Kierkegaard) discorda dalle condizioni fondamentali della propria esistenza; non-nevrotico e «libero» è invece proprio colui che, «sapendo» della non-libertà della presenza finita, si «appropria» dell’esistenza nell’ambito della sua impotenza45.

Kierkegaard in effetti è fortemente presente nelle analisi ‘strutturali’ dei casi clinici binswangeriani di questo periodo. Si pensi in particolare al celebre caso di Ellen West, dove lo psichiatra svizzero, riferendosi esplicitamen-te alla Malattia per la morte, loda il filosofo danese nella misura in cui in quest’opera sarebbe riuscito a mostrare come «ogni momento reale di dispe-razione è da ricondurre alla sua possibilità»46. È per questo che Binswanger si spinge sino ad affermare che nessuno scritto più di questo saggio kierke-gaardiano sarebbe riuscito – «descrivendone e lumeggiandone ogni aspetto sotto il nome di malattia per la morte» – ad «avvalorare l’interpretazione analitico-esistenziale della schizofrenia»47. Lo stesso approccio viene riba-

45 id., Die Bedeutung der Daseinsanalytik Martin Heideggers für das Selbsverständnis der Psychiatrie, in C. astrada (hrsg. von), Martin Heideggers Einfluss auf die Wissenschaften, Francke, Bern 1949, pp. 58-72; Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, vol. 2, Zur Problematik der psychiatrischen Forschung und zum Problem der Psychiatrie, pp. 264-278; tr. it. di G. Banti, L’importanza dell’analitica esistenziale di Martin Heidegger per l’auto-comprensione della psichiatria, in Essere nel mondo, Astrolabio, Roma 1973, pp. 210-224, qui p. 222.

46 binswangEr, Il caso di Ellen West, p. 113; cfr. SKS 11, 132; La malattia per la morte, p. 18.47 binswangEr, Il caso di Ellen West, p. 102 (traduzione parzialmente modificata). Cfr.

anche il caso clinico di Ilse: id., Wahnsinn als lebensgeschichtliches Phänomen und als Gei-steskrankheit, «Monatsschrift für Psychiatrie und Neurologie», 110 (1945), pp. 129-160;

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dito anche a proposito del concetto dell’angoscia nell’analisi del caso di Jürg Zünd, dove lo psichiatra sostiene che «angoscia e immediatezza sono due diverse espressioni per lo stesso fenomeno esistenziale, dove il primo sarebbe formulato dal punto di vista psicologico, mentre il secondo da quel-lo analitico-esistenziale»48.

Secondo questa prospettiva, la biografia singolare del paziente diviene per Binswanger l’occasione per presentare l’«organizzazione trascendenta-le» che sta alla base delle diverse «possibilità di esistenza». È particolarmen-te indicativo a tale proposito il modo in cui lo psichiatra svizzero caratterizza ad esempio la protagonista di un altro celebre caso clinico, conosciuta sot-to il nome di Suzanne Urban. In questo studio, infatti, i dettagli biografi-ci sono funzionali allo scopo di mostrare una delle «possibilità esistenziali del destino umano», di modo che «la trasformazione storica di una singola forma d’esserci» venga colta come una sorta di «fondamento esemplare» di una fra le varie modalità dell’essere nel mondo. È questo modo di pro-cedere – sottolinea Binswanger – che definisce precisamente il «carattere fenomenologico» dell’analisi49. Si tratta di un approccio che è particolar-mente evidente anche nel saggio binswangeriano del 1949 su Ibsen, dove lo psichiatra intende mettere in luce ancora una volta la differenza che separa la prospettiva d’indagine analitico-esistenziale sulla «forma artistica» da quella tradizionalmente psicologica e nella fattispecie psicoanalitica50. Allo stesso modo in cui già in Sogno ed esistenza i sogni, considerati alla stregua dell’immagine poetica, costituivano l’occasione per portare alla luce un’es-

tr. it. di C. Mainoldi, Il caso Ilse: la follia come storia vissuta e come malattia mentale, SE, Milano 2009, pp. 69-70: «Un grande spirito che ha elaborato un nuovo concetto filosofico di malattia e ha favorito in modo decisivo la comprensione della follia come malattia men-tale. Intendiamo parlare di Kierkegaard. Il suo concetto (filosofico-teologico) di malattia è il concetto di “malattia mortale”, del “disperato” voler-essere-se-stesso e del “disperato” non-voler-essere-se-stesso. In questa “malattia” e nella sua geniale descrizione e interpre-tazione filosofico-teologica noi individuiamo uno dei più importanti contributi anche alla comprensione puramente “antropologica” di alcune forme cliniche della follia e soprattutto di quella schizofrenica».

48 id., Der Fall Jürg Zünd, «Schweizer Archiv für Neurologie und Psychiatrie», 56 (1946), pp. 191-220; 58 (1947), pp. 1-43; 59 (1947), pp. 21-36; qui 58 (1947), p. 37; tradu-zione nostra.

49 id., Der Fall Suzanne Urban, «Schweizer Archiv für Neurologie und Psychiatrie», 69 (1952), pp. 36-77; 70 (1952), pp. 1-32; 71 (1952), pp. 57-96; Ausgewählte Werke in vier Bänden, vol. 4, Der Mensch in der Psychiatrie, hrsg. von A. Holzhey-Kunz, Asanger, Hei-delberg 1994, p. 287; tr. it. di G. Giacometti, Il caso Suzanne Urban: storia di una, a cura di E. Borgna - M. Galzigna, Marsilio, Venezia 1994, p. 145.

50 id., Henrik Ibsen und das Problem der Selbstrealisation in der Kunst, Lambert Schneider, Heidelberg 1949; tr. it. a cura di M. Gardini, Henrik Ibsen. La realizzazione di sé nell’arte, Quodlibet, Macerata 2008, pp. 26-27.

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senza che «si trova ancora al di là di ciò che la logica e la teoria dell’espres-sione poetica riescono a mettere in luce»51, anche qui l’opera artistica di Ibsen viene utilizzata in quanto occasione paradigmatica di un’indagine sul «sé artistico in quanto “modo della soggettività”»52.

4.

È particolarmente interessante sottolineare il modo in cui Binswanger – nel-lo studio su Ibsen – avvicina il drammaturgo norvegese alla figura di Kier-kegaard secondo «una sequenza che da Socrate conduce a Kierkegaard, Nietzsche, Jaspers e Heidegger»53. Secondo lo psichiatra, infatti,

entrambi appartengono alla confessione nella forma dell’arte e con ciò all’auto-realizzazione in essa. L’artista non si sente tuttavia compreso nella più profonda intimità quando ciò accade entro i «più intimi» motivi e intenzioni del suo compor-tarsi e agire, dunque in ciò che della sua soggettività è più soggettivo, ma al con-trario solo allorché viene compreso nell’oggettività, presso la quale e nella quale la sua soggettività si consolida, si realizza o si «forma», nell’arte. Per questo la con-fessione poetica non può venire intesa come un gioco a nascondino, guidato dalla massima: «chi cerca trova», bensì come la forma di confessione adeguata al poeta, prescrittagli, anzi estortagli dalla sua arte, vale a dire lo svelamento anche “della più profonda intimità” nel medium dell’oggettività dell’arte54.

A ben vedere, al centro di tale comparazione vi sono le problematiche che stavano a cuore a Binswanger sin dagli anni venti, allorché cercava di tro-vare nella psicologia una forma di scientificità che fosse in grado di rende-re conto «oggettivamente» del carattere «soggettivo» dei propri oggetti. I termini della questione sono particolarmente espliciti in questo saggio del 1949 e soprattutto in questo passaggio, dove Binswanger sostiene che la soggettività, per essere «svelata» o «compresa», necessità di un medium, in questo caso quello dell’arte poetica. Ora, se quest’ultima è in grado di rendere comprensibile il soggettivo è perché il poeta possiede quella «supe-riore vista sulle cose»55, quella visione dell’«essere uomo come un tutto»56 che gli consente di cogliere in esso – pur a partire dalla sua concretezza e singolarità storico-biografica – quelle forme fondamentali che ne costitui-

51 id., Sogno ed esistenza, p. 67.52 id., Henrik Ibsen, p. 28.53 Ibi, p. 9.54 Ibi, pp. 53-56.55 Ibi, p. 90.56 Ibi, p. 42.

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scono la struttura oggettiva. Grazie alla poesia l’universalità delle strutture dell’esserci viene raffigurata in figure «visibili e afferrabili»57. È in questo modo che il soggettivo può essere tradotto «nell’oggettività» e per ciò stes-so comunicato, ed è questo che Binswanger intende dire allorché sostiene che «poetare è essenzialmente vedere»58.

«Il genio di Ibsen» – scrive Binswanger – «si manifesta nel modo più chiaro nell’arte di rendere visibile l’“essenza delle cose”, le forme essen-ziali dell’esserci umano»59. Per questo lo psichiatra svizzero paragona la «“lungimiranza” del poeta in riferimento alla vita umana in generale» – lun-gimiranza che gli consentirebbe di intuirne e di metterne a fuoco le «forme antropologiche» – a quella del fenomenologo che «vede di volta in volta nel fatto empirico solo il fondamento esemplare per cogliere e fissare l’essenza che ne sta a fondamento»60. Sottolineando quanto sia «più afferrabile e visi-bile il modo in cui il poeta disegna», «ritrae», fa «giungere ad espressione» quei «tipi» rispetto al modo in cui «la psichiatria li etichetta»61, Binswanger mostra come l’esempio concreto costituisca il termine medio indispensabile tra la singolarità del caso e le «forme antropologiche universali»62, le quali, proprio perché inseparabili dalla loro espressione singolare, non hanno più nulla a che vedere con le etichette imposte dall’esterno dallo psichiatra.

Si tratta di un’impostazione di cui possiamo trovare l’antecedente già nei saggi binswangeriani del 1928 e del 1930 sul sogno, dove quest’ulti-mo veniva inteso quale strumento grazie al quale diveniva possibile mettere a fuoco, portandolo «alla chiarezza di un fenomeno esterno» quel «nesso storico-psicologico»63 in grado di indicare allo psichiatra l’orientamento o direzione generale dell’esperienza caratteristico di una determinata forma di esistenza. Il sogno, infatti, in quanto «estrinsecarsi dello spirito nella propria immagine»64, può essere paragonato alla «drammatizzazione» delle struttu-re o stili esistenziali operata dal poeta, e in quanto tale esso contribuisce a sua volta a risolvere quell’aporia kierkegaardiana dalla quale siamo partiti, ovvero la possibilità di rappresentare e quindi comunicare il soggettivo. È precisamente attraverso il concetto di «dramma» che Binswanger affron-ta tale problema, in un modo che ci riporta singolarmente alla questione che Kierkegaard aveva affrontato nelle sue riflessioni sul tragico, allorché

57 Ibi, p. 90.58 Ibi, p. 33.59 Ibi, p. 88.60 Ibi, p. 45.61 Ibi, p. 89.62 Ibi, p. 52.63 binswangEr, Il sogno, p. 50.64 Ibi, p. 55.

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si chiedeva se – una volta appurato che ciò che caratterizza il moderno è l’emergere del singolare, del soggettivo – fosse ancora possibile, nell’epo-ca moderna, portare quest’ultimo a rappresentazione, ovvero a una forma «drammatica»65.

Se Binswanger risponde affermativamente alla questione kierkegaardia-na, è proprio perché il sogno mostrerebbe «l’intima doppiezza e duplicità» del soggettivo, «dove noi, anche se siamo soli, “in realtà pensiamo sempre ancora in due”, cosicché “dobbiamo riconoscere il nostro essere più intimo e profondo come essenzialmente drammatico”»66. Si tratta di una posizione che lo psichiatra ribadisce in Sogno ed esistenza, laddove sostiene che «fin-tanto che l’uomo è uomo, a rigore di termini una dissoluzione nella pura sog-gettività non si dà mai»67. Anche se il «personalismo fortemente soggettivo» del malato «mette sempre di nuovo in pericolo l’aggancio all’obiettività e al sovrapersonale»68 – afferma Binswanger – questo non intacca ciò che con-traddistingue qualsiasi forma dell’esistenza, ovvero il suo essere «presenza» in un mondo comune, seppure per negazione. È questa, in ultima analisi, la condizione di possibilità della Daseinsanalyse e la sua differenza di fondo dalla psicologia ‘comprendente’ di Jaspers, che concludeva inesorabilmen-te all’impotenza della psichiatria di fronte alla malattia proprio in ragione di quell’abisso che è l’infinita mutevolezza e incomunicabilità del singola-re69. La scienza psicologica – scriveva lo psichiatra tedesco – «si pone come ideale il comprendere la vita psichica divenuta pienamente consapevole, rappresentabile in forme stabili», ma proprio per questo «essa deve inoltre avere chiara consapevolezza del fatto che non può neppure lontanamente corrispondere a questo ideale, bensì è impigliata nei primi elementi che se le aprono ampie vedute, spostano, tuttavia, tale ideale nell’infinità»70.

Si tratta esattamente di quella mutevolezza che per Kierkegaard motiva-va l’impossibilità di portare a rappresentazione la pena come emblema del

65 Det antike Tragiskes Reflex i det Moderne Tragiske, in Enten-Eller, in SKS 2, 137-162; tr. it. a cura di A. Cortese, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno. Un saggio di ricerca frammentaria, in Enten-Eller, vol. 2, pp. 17-50.

66 binswangEr, Il sogno, p. 55. È questo in fondo che Binswanger intende dire quando sottolinea con Freud, e precisamente nel momento in cui tematizza il concetto di «dramma-tizzazione», che «l’attore principale del sogno è sempre il sognatore stesso» (p. 88).

67 id., Sogno ed esistenza, p. 77 (traduzione parzialmente modificata).68 Ibi, p 78.69 K. JaspErs, Die phänomenologische Forschungsrichtung in der Psychopathologie,

«Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», 9 (1912), pp. 391-408; Gesam-melte Schriften zur Psychopathologie, pp. 314-328; tr. it. di A. Donise, L’indirizzo feno-menologico in psicopatologia, in Scritti psicopatologici, a cura di S. Achella - A. Donise, Guida, Napoli 2004, pp. 27-50, in particolare pp. 42-43.

70 Ibi, p. 32.

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soggettivo71 e che Binswanger risolve invece proprio attraverso la nozione di «dramma». Nel momento in cui definisce il sogno come autorivelazione di sé a sé, lo psichiatra svizzero è in grado di superare allo stesso tempo l’o-stacolo della contrapposizione fra soggettività e oggettività che in Jaspers condannava al fallimento ogni impresa psicologica, nonché quello dell’inaf-ferrabilità del singolare. Ciò che – nell’ottica di Binswanger – il sogno o il dramma poetico rappresentano non sono infatti delle forme stabili, ma delle «possibilità» generali dell’esistenza che in quanto tali non annullano la sin-golarità del soggetto che le incarna, poiché di quest’ultima esse costituisco-no soltanto le «direzioni di senso». È in questo modo che la Daseinsanalyse binswangeriana rinuncia finalmente all’impresa di individuare quelle «for-me stabili» che – pur criticandole come «misere categorie» o meri «slogan» – Jaspers continuava tuttavia a perseguire malgrado l’indirizzo fenomenolo-gico che egli intendeva imprimere alla psicopatologia72.

Come lo psichiatra svizzero spiega nel suo saggio su Ibsen, i personag-gi dei drammi ibseniani, pur essendo «immagini», «non sono copie e imi-tazioni, bensì formazioni, configurazioni delle possibilità d’essere»73. È attraverso la drammatizzazione di tali «potenze d’essere» che Binswanger può dunque rinunciare alla comprensione statica che ancora incombeva sulla verstehende Psychologie e che condannava la psicologia – per usare ancora una metafora kierkegaardiana – a leggere nel petto dei personaggi di un dramma quelle «piastrine» che essa stessa vi ha incollato dall’ester-no74. Proprio perché ha una forma drammatica, il sogno è dunque in grado di portare alla luce quelle «direzioni significative» che sono anche le con-dizioni di possibilità dei vissuti e che non si riducono alla contingenza di immagini o fatti, a valore di causa o di effetto, ma indicano la struttura o connessione di senso che lega fra loro fatti e immagini al di là dell’infini-ta singolarità del loro manifestarsi. Ed è per questo che Binswanger può affermare – ancora una volta per mezzo di una metafora teatrale – che il sogno, «anche quello più confuso» e «singolare», è sempre uno «strappo

71 SKS 2, 168; Silhouettes, pp. 56-57: «Ciò che fa che la pena riflessa non possa diventare oggetto di rappresentazione artistica è il suo mancare di stabilità, il suo non accordarsi con se stessa, il non riposare in qualche singola e determinata espressione».

72 JaspErs, L’indirizzo fenomenologico in psicopatologia, p. 40.73 binswangEr, Henrik Ibsen, p. 42.74 SKS 2, 170; Silhouettes, pp. 59-60: «La pena riflessa non può dunque diventare oggetto

di rappresentazione artistica […]. Qualora l’arte dunque non voglia limitarsi a quell’inge-nuità di cui si trovano esempi in scritti di un tempo che fu, ove si rappresenta un personag-gio che all’incirca può rappresentare chicchessia, mentre invece si scorge sul suo petto una piastrina, un cuore o cosa simile che dà ogni possibile informazione, specialmente quando il personaggio con il suo atteggiamento v’attira l’attenzione, persino vi punta il dito, effetto che si potrebbe altrettanto bene ottenere scrivendo sopra di ciò un “Notate prego!”».

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significativo in quel misterioso sipario che ricade con mille pieghe nella nostra vita interiore»75.

A partire da una problematica kierkegaardiana e attraverso Kierkegaard stesso, dunque, Binswanger giunge in tal modo a risolvere quell’aporia del vivente di cui la psichiatria clinica dell’inizio del Novecento aveva ritenuto necessario farsi carico, ovvero quell’esigenza di comprendere la più pro-fonda intimità del soggettivo «nel medium dell’oggettività». Un’oggettivi-tà, tuttavia, che – nell’ottica della Daseinsanalyse – non è più esteriore al soggetto, ma immanente al suo stesso comportarsi e agire.

5.

L’originalità della lettura binswangeriana di Kierkegaard consiste nel fat-to che lo psichiatra non si rapporta alla speculazione del filosofo in modo tematico, ma in un modo che potremmo definire ‘strumentale’76. Sarebbe quindi un errore, da questo punto di vista, cercare nei testi di Binswanger la presenza di una teoria filosofica preconcetta ‘applicata’ all’ambito della psicopatologia. Come sarebbe ugualmente errato, d’altronde, cercarvi un tentativo di mettere alla prova la ‘validità’ delle tesi del filosofo danese.

Che non si tratti di una semplice ripresa tematica del pensiero di Kier-kegaard lo possiamo cogliere in modo particolarmente chiaro se ci soffer-miamo sulla relativamente scarsa attenzione che Binswanger rivolge allo sfondo religioso della speculazione kierkegaardiana, un aspetto che pur tut-tavia è assolutamente centrale nell’opera del filosofo. Nel caso clinico di Ellen West, ad esempio, lo psichiatra svizzero dichiara esplicitamente che:

anche il medico della psiche che non accetta la concezione e l’interpretazione meramente religiosa di questa «malattia» [la malattia per la morte], che non consi-dera eterno il «Sé» nel senso religioso e non crede, nel senso religioso, alla potenza che lo porrebbe in essere, che non scorge nell’uomo una sintesi di temporale e di eterno nel senso che questo assume per la religione, e concepisce piuttosto esisten-

75 binswangEr, Il sogno, p. 46.76 Da questo punto di vista non possiamo essere d’accordo con la posizione di Kre-

sten Nordentoft (Kierkegaards psykologi, G.E.C. Gad, Copenhagen 1972; trans. by B.H. Kirmmse, Kierkegaard’s Psychology, Duquesne University Press, Pittsburgh 1972), l’uni-co autore, a nostra conoscenza, che tematizza la forte presenza kierkegaardiana nell’ope-ra di Binswanger (cfr. ibi, pp. 233-239). Nordentoft esprime infatti delle «riserve rispetto all’affermazione di Binswanger secondo cui “nessuno scritto più della Malattia per la morte sarebbe riusciuto ad avvalorare l’interpretazione analitico esistenziale della schizofrenia”, nella misura in cui Kierkegaard non ha mai formulato nulla che possa sembrare una teoria della follia in senso stretto» (ibi, p. 233; traduzione nostra).

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tivamente la disperazione nel senso della malattia mortale, anche costui è profon-damente debitore all’opera di Kierkegaard77.

In che modo allora Binswanger è «debitore dell’opera di Kierkegaard»? Si tratta a nostro avviso di un debito di carattere metodologico, nella misura in cui il filosofo danese avrebbe avvalorato e forse anche in parte ispirato l’approccio con cui lo psichiatra affronta il problema dal quale si dipana la sua proposta epistemologico-psichiatrica, una proposta – come abbiamo cercato di mostrare – il cui scopo è quello di conciliare l’esigenza di scien-tificità e oggettività della psichiatria con il carattere soggettivo delle mani-festazioni psicopatologiche. Così come Binswanger fa uso degli strumenti concettuali della fenomenologia – dalla nozione di «essenza» al concetto di Dasein – trasformandoli in dispositivi metodologici ai fini dell’indagine psicopatologica, allo stesso modo egli sembra utilizzare l’approccio esisten-ziale kierkegaardiano per distinguere una prospettiva psicologica fondata semplicemente sulla datità fattuale dell’esperienza da un’analisi volta inve-ce a portare allo scoperto le strutture dell’esistere sulla base delle loro «pos-sibilità» immanenti.

Risulta particolarmente interessante, da questo punto di vista, il fat-to che Binswanger consideri il concetto heideggeriano di Dasein come strettamente connesso al modello kierkegaardiano di analisi del «sé»78. In un passaggio del suo studio sulle Tre forme di esistenza mancata (1956), inoltre, lo psichiatra accosta ancora una volta il pensiero di Kierkegaard

77 binswangEr, Il caso Ellen West, p. 102. Cfr. anche ibi, pp. 94-95: «Di fronte al fatto che la figura antropologica a cui abbiamo dato il nome di Ellen West “pone fine” alla propria esistenza, la Daseinsanalyse ha il dovere di sospendere qualunque giudi-zio formulato da particolari angoli visuali o in base a particolari concezioni, qualunque giudizio, quindi, di tipo etico religioso, oppure di tipo esplicativo medico-psichiatrico o psicoanalitico, o di tipo comprensivo, come il comprendere in base a motivi, proprio del-la psicologia. […] Noi non dobbiamo né approvare né disapprovare il suicidio di Ellen West, né trivializzarlo con spiegazioni di tipo medico o psicoanalitico, né drammatiz-zarlo giudicandolo alla luce di principi etici o religiosi. A una figura antropologica come quella di Ellen West ben si addice la sentenza di Jeremias Gotthelf: “Rifletti a quanto buia divenga la vita quando un misero mortale vuol essere il sole di se stesso”, o l’affer-mazione di Kierkegaard: “Per quanto in basso un uomo possa essere sprofondato, può sprofondare ancora più in basso, e questo ‘può’ è l’oggetto dell’angoscia”, ma questo oscurarsi e questo sprofondare non possono essere intesi dalla Daseinsanalyse in senso religioso o etico, dovendo essere visti e descritti, come sono stati visti e descritti nel caso che stiamo analizzando, sul piano antropologico, ossia alla luce dell’essere-nel-mondo-oltre-il-mondo» (traduzione parzialmente modificata).

78 Cfr. id., Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins, Niehans, Zürich 1942; Ausgewählte Werke in vier Bänden, vol. 2, Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins, hrsg. von M. Herzog und H.-J. Braun, Asanger, Heidelberg 1993, p. 49.

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a quello di Heidegger a proposito dell’analisi delle «forme strutturali» dell’esistenza. In quest’opera egli ribadisce come la Daseinsanalyse non si interessi alle manifestazioni psicopatologiche secondo «la concezione medico-psichiatrica del patologico e della malattia», ma intenda «traspor-le nella più ampia cornice della struttura dell’esistenza umana o dell’“es-sere-nel-mondo”, il cui apriori è stato “liberato” in modo rigorosamente sistematico e geniale da Heidegger nella sua analitica esistenziale»79. Ora – continua Binswanger:

per stabilire il senso di questo discorso […] bisogna risalire […] fino a Platone e ad Aristotele (anzi fino a Eraclito); queste nozioni dominano però anche la dottrina kierkegaardiana della «possibilità» come la «più difficile di tutte le categorie», e specialmente l’analitica esistenziale di Heidegger80.

Possiamo trovare ulteriori informazioni sulla lettura binswangeriana di Kierkegaard e Heidegger anche in un altro saggio del 1956: L’uomo nel-la psichiatria. Si tratta di una sorta di analisi retrospettiva dell’importanza che i due filosofi hanno avuto per il «cammino che ci può condurre a porre in modo corretto la questione dell’uomo e insieme la questione dell’uomo folle»81. Binswanger si sofferma in modo particolare su un passaggio kier-kegaardiano tratto dal Concetto dell’angoscia:

Il medico di un manicomio che sia abbastanza stupido per credere se stesso saggio in eterno e che quel po’ d’intelligenza ch’egli possiede sia al sicuro da ogni rischio

79 id., Drei Formen missglückten Daseins: Verstiegenheit, Verschrobenheit, Manie-riertheit, Niemeyer, Tübingen 1956; Ausgewählte Werke in vier Bänden, vol. 1, Formen missglückten Daseins; tr. it. di E. Filippini, Tre forme di esistenza mancata, Bompiani, Mila-no 2001, p. 11. Non possiamo fare a meno di notare, inoltre, l’assonanza tra l’affermazione di Binswanger relativa alla comprensione kierkegaardiana della schizofrenia presente nello studio su Ellen West con l’affermazione di Heidegger in Essere e tempo, secondo cui «S. Kierkegaard fece i maggiori progressi nell’analisi del problema dell’angoscia, ma sempre nel quadro teologico di un’esposizione “psicologica” del problema del peccato originale» (Cfr. M. hEidEggEr, Sein und Zeit, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Abteilung 1, vol. 2, Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt a.M. 1977; tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Utet, Torino 1969, p. 527, nota 4). Sulla ricezione heideggeriana di Kierkegaard relativamente al Concetto dell’angoscia, si veda D. magurshaK, The Concept of Anxiety: The Keystone of the Kierkegaard-Heidegger Relationship, in R.L. pErKins (ed.), The Concept of Anxiety, Mercer University Press, Macon (Georgia) 1985 (International Kierkegaard Commentary, 8), pp. 167-195.

80 binswangEr, Tre forme di esistenza mancata, p. 12.81 id., Der Mensch in der Psychiatrie, «Schweizer Archiv für Neurologie und Psychia-

trie», 77 (1956), pp. 123-138; Ausgewählte Werke in vier Bänden, vol. 4, Der Mensch in der Psychiatrie, pp. 57-72; tr. it. a cura di B.M. D’Ippolito, La psichiatria come scienza dell’uo-mo, Ponte alle Grazie, Firenze 1992, p. 35.

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per tutto il corso della sua vita: costui è, in un certo senso, più savio dei matti, ma, nello stesso tempo, è più stolto e non guarirà molti82.

Ora, l’unico medico che può davvero comprendere la follia – continua Binswanger – è quello che dimostra «simpatia» e «compassione». Non si trat-ta però di mera commiserazione, quanto piuttosto della consapevolezza che «“quanto è successo a uno può succedere a tutti”», che «“si tratta qui della sua propria causa”»83. Se la «pena» del singolo è dunque in ultima analisi comu-nicabile, se tutti sono in grado di comprenderne il linguaggio, è perché essa caratterizza l’esistenza di ognuno in quanto «possibilità» antropologica.

Abstract

The papers focuses on the methodological role played by Kierkegaard’s thought in the work of the Swiss psychiatrist Ludwig Binswanger (1881-1966). The con-ceptual tools worked out by Kierkegaard, indeed, give an important contribution to solving the main problem that Binswanger sees in the clinical psychiatry at the beginning of the 20th century, that is, the need to understand the «deepest intimacy» of the subjectivity «in the objectivity by which and in which it consolidates».

Keywords: Ludwig Binswanger, psychiatry, psychology, phenomenology, subjec-tivity

82 Ibi, p. 58.83 Ibidem.

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