Dall'impresa sociale all'impresa dell'inclusione.

30
1 1 Dall'impresa sociale all'impresa dell'inclusione. 1.1 Premessa. In queste pagine intendiamo occuparci di alcuni modelli organizzativi innovativi sperimentati a partire dagli Anni 60 e 70 – prevalentemente in società post-industriali – per offrire opportunità di accesso al lavoro alle persone più vulnerabili 1 . A questi modelli sono stati attribuite denominazioni simili o diverse, in diversi tempi e in diversi Paesi, con il risultato che oggi alcune espressioni risultano generiche, o significano cose diverse secondo le normative di riferimento dei singoli Stati, nonché il contesto e la cultura di chi quelle espressioni pronuncia o ascolta. Il termine "impresa sociale", ad esempio, assume significati diversi in Italia o in Finlandia, due Paesi che hanno legiferato in materia dopo aver attentamente studiato le diverse esperienze europee. In inglese – ormai lingua franca europea – i due termini "social enterprise" e "social firm" indicano cose diverse (anche se parzialmente sovrapponibili) che diventano in italiano, egualmente, "impresa sociale". Le parole però hanno un peso. Soprattutto quando intendono definire, disciplinare, distinguere e, in particolare, quando diventano norma giuridica che mira ad individuare quelle organizzazioni che, per l'elevato valore sociale e collettivo, sono meritevoli d'aiuto e sostegno. In questo testo vengono presentate diverse tipologie organizzative, anche con nomi diversi, in lingue diverse, per render conto dell'energia e della fantasia che sono state spese, nell'arco di una quarantina d'anni, nel tentare di costruire modelli organizzativi che consentissero alle persone più vulnerabili non solo di accedere ad un lavoro qualsiasi, ma anche di sceglierlo o ("addirittura") di diventare imprenditrici o imprenditori, creando eventualmente nuovi impieghi. Incontreremo anche pratiche, qui sintetizzate in brevi frasi per ragioni editoriali, accompagnate però da riferimenti bibliografici e sitografici dove trovare racconti ed esperienze. Quando si parla di pratiche, siamo tutti abituati ormai a domandarci: è di "buone", o di "cattive" pratiche, che

Transcript of Dall'impresa sociale all'impresa dell'inclusione.

1

1 Dall'impresa sociale all'impresa

dell'inclusione.

1.1 Premessa.

In queste pagine intendiamo occuparci di alcuni modelli organizzativi innovativi sperimentati a partire dagli Anni 60 e 70 – prevalentemente in società post-industriali – per offrire opportunità di accesso al lavoro alle persone più vulnerabili1. A questi modelli sono stati attribuite denominazioni simili o diverse, in diversi tempi e in diversi Paesi, con il risultato che oggi alcune espressioni risultano generiche, o significano cose diverse secondo le normative di riferimento dei singoli Stati, nonché il contesto e la cultura di chi quelle espressioni pronuncia o ascolta.

Il termine "impresa sociale", ad esempio, assume significati diversi in Italia o in Finlandia, due Paesi che hanno legiferato in materia dopo aver attentamente studiato le diverse esperienze europee. In inglese – ormai lingua franca europea – i due termini "social enterprise" e "social firm" indicano cose diverse (anche se parzialmente sovrapponibili) che diventano in italiano, egualmente, "impresa sociale".

Le parole però hanno un peso. Soprattutto quando intendono definire, disciplinare, distinguere e, in particolare, quando diventano norma giuridica che mira ad individuare quelle organizzazioni che, per l'elevato valore sociale e collettivo, sono meritevoli d'aiuto e sostegno.

In questo testo vengono presentate diverse tipologie organizzative, anche con nomi diversi, in lingue diverse, per render conto dell'energia e della fantasia che sono state spese, nell'arco di una quarantina d'anni, nel tentare di costruire modelli organizzativi che consentissero alle persone più vulnerabili non solo di accedere ad un lavoro qualsiasi, ma anche di sceglierlo o ("addirittura") di diventare imprenditrici o imprenditori, creando eventualmente nuovi impieghi.

Incontreremo anche pratiche, qui sintetizzate in brevi frasi per ragioni editoriali, accompagnate però da riferimenti bibliografici e sitografici dove trovare racconti ed esperienze. Quando si parla di pratiche, siamo tutti abituati ormai a domandarci: è di "buone", o di "cattive" pratiche, che

2

stiamo parlando? E, soprattutto, qual è il discrimine fra le "buone" e le "cattive"? In questo scritto le uniche pratiche che ci interessino sono quelle che promuovono l'autonomia delle persone più vulnerabili, la loro libertà di scelta, le opportunità di "Vita Indipendente"2 e di empowerment che si offrono loro. Ci interessa l'accesso al lavoro per le chiavi che esso offre alle persone, chiavi che possono consentire di aprire nuove porte.

Scopriremo che anche le pratiche sono diverse, seppure chiamate con nomi simili o eguali, e che pratiche simili hanno avuto nomi diversi. Cosa comporta questo? Comporta che le pratiche produttrici di autonomia non sempre hanno nomi che le distinguano dalle pratiche produttrici di dipendenza. Ogni persona ha il diritto di trovare, nel mondo del lavoro, un proprio equilibrio – ad esempio – fra il bisogno di sicurezza e quello di autonomia. Ma la libertà di scelta passa anche per la chiarezza degli enunciati, mentre vedremo che tale chiarezza non sempre è data.

Incontreremo infine le esperienze più recenti, maturate soprattutto grazie alle opportunità offerte dalla programmazione dell'Unione Europea (in particolare, i cosiddetti Fondi Strutturali), ed in particolare dall'Iniziativa Comunitaria Equal, da cui stanno emergendo approcci innovativi che meritano attenzione; proporremo infine alcune riflessioni in proposito.

1.2 Imprese sociali, social firm, affirmative

business ed altro.

Il termine "Impresa sociale" è stato utilizzato nel tempo con accezioni diverse. Già verso la fine degli Anni 50 si incontrano nella letteratura anglosassone locuzioni come social entrepreneur e social entrepreneurship.

Negli Anni 70 la nozione di social enterprise viene collegata a quella di responsabilità sociale dell'impresa e alle prime sperimentazioni in materia di revisione e rendicontazione sociale (social audit).

Nel 1981 viene pubblicato il testo di Freer Spreckley "Social Audit – A Management Tool for Co-operative Working", che conoscerà una fortuna crescente nei decenni successivi con un titolo – "Social Audit Toolkit" – che si potrebbe tradurre un po' liberamente come "La cassetta degli attrezzi del bilancio sociale". Secondo la definizione di Spreckley

3

"Un'impresa che appartiene a coloro che vi lavorano e/o che risiedono in una determinata località3, è governata secondo obiettivi e finalità statutarie di natura sia sociale che commerciale ed è gestita in modo cooperativo, può essere definita come «impresa sociale». Tradizionalmente, «il capitale assume il lavoro», con un'enfasi primaria sul fare un «profitto» al di sopra di qualsiasi altro beneficio relativo all'impresa stessa o ai lavoratori. Opposta a questo è l'impresa sociale dove «il lavoro assume il capitale» con l'enfasi sui benefici personali, ambientali e sociali" (Spreckley, 1981).

Negli anni successivi si è usato il termine "social enterprise" per indicare più generalmente le organizzazioni orientate a perseguire finalità sia commerciali che sociali: una definizione comunemente accettata ancora oggi, con riferimento alla cosiddetta "double bottom line"4 e cioè al doppio risultato, economico e sociale, che l'impresa persegue. Più recentemente si è cominciato a parlare di "triple bottom line" riferendosi anche all'impatto sull'ambiente.

In Italia la nozione di impresa sociale fa la sua comparsa verso la fine degli anni '80, all'interno del dibattito sulle prospettive del welfare e alla luce dei processi di deistituzionalizzazione e ripensamento dello stato sociale avviati grazie alla riforma basagliana. Inizialmente essa viene utilizzata per definire le prime cooperative finalizzate all'inserimento lavorativo delle persone più vulnerabili, quelle "cooperative integrate" che, successivamente, la Legge 381 del 1991 definirà come "cooperative sociali di tipo b".5 Da questa accezione deriva il termine "social firm", utilizzato ancora oggi in tutta Europa in questo senso.

Ma in quegli anni si parla di impresa sociale anche per significare la prospettiva di un sistema virtuoso di sinergie che si generi dalla collaborazione in rete di cooperative, servizi pubblici ed altre organizzazioni6; e si utilizza questo concetto come "metafora" di un "percorso di ripensamento dei servizi sociali", "processo dell'intraprendere, organizzare, generare, 'coltivare' – sociale" (De Leonardis, 1997), "l'impresa di far esistere un sociale"7. Un progetto, un sogno. "Dietro ogni impresa c'è un sogno", recita uno slogan del periodo, che conclude con "l'impresa sociale è un bi/sogno".

4

La diffusione in Europa delle social firm è legata all'interesse suscitato dall'esperienza basagliana e dal successo delle pratiche di inserimento lavorativo che a quell'esperienza fanno riferimento, in un panorama nel quale il mercato del lavoro rimane precluso alle persone svantaggiate e le legislazioni in materia, spesso ancora legate a modelli di quota system (come il collocamento obbligatorio in Italia ed il suo omologo in Germania, ad esempio), si dimostrano scarsamente efficaci.

Non è quindi un caso se molte, fra queste nuove realtà, operano sul terreno della salute mentale e condividono i medesimi riferimenti culturali. Il CEFEC8, organizzazione europea che ne assume la rappresentanza, definisce le social firm come

- "imprese create per impiegare persone con una disabilità o altri svantaggi nell'accesso al mercato del lavoro;

- "imprese che utilizzano la propria produzione di beni e servizi, orientata al mercato, per perseguire la propria missione sociale;

- "con un numero significativo di lavoratori che siano persone con una disabilità o altri svantaggi nell'accesso al mercato del lavoro;

- "dove ogni lavoratore riceva un salario uguale a quello pagato dal mercato per una prestazione corrispondente, indipendentemente dalla sua capacità produttiva;

- "dove le opportunità di lavoro siano equamente distribuite fra i lavoratori svantaggiati e non, e tutti abbiano gli stessi diritti e doveri"9.

Gli imprenditori sociali che hanno sottoscritto questo documento volevano ben distinguere le proprie imprese da altre che, pur impiegando "persone con una disabilità o altri svantaggi nell'accesso al mercato del lavoro", avessero caratteristiche diverse. Ad esempio:

- un'attività finanziata soprattutto con fonti diverse dalla vendita di beni e servizi (contributi pubblici, donazioni…);

5

- un numero poco significativo di lavoratori svantaggiati in organico (con riferimento probabile anche alle imprese chiamate a rispettare le normative nazionali basate su quota system);

- salari corrisposti ai lavoratori svantaggiati inferiori a quelli di mercato;

- opportunità e status distribuiti non equamente fra i lavoratori svantaggiati e gli altri.

Quel testo intende insomma stabilire una distanza: dalle imprese che assumono i soggetti svantaggiati in misura residuale o per obbligo; e da tutte quelle organizzazioni che, utilizzando l'ergoterapia o i cosiddetti "laboratori protetti" ("sheltered workshop"), vengono oggi comunque comprese nella definizione più generale di "impresa sociale – social enterprise".

Le social firm, invece, nascono proprio da una critica attiva delle pratiche basate sull'ergoterapia. Non è il lavoro in sé – si sostiene – a produrre effetti positivi per la persona, ma ciò che nelle nostre società vi è strettamente connesso: reddito disponibile; potenziale di scambio sociale; investimento di ruolo e di rappresentazione di sé; sviluppo di contrattualità e di nuove competenze negoziali. Esse perseguono l’integrazione fra tutti i membri dell’organizzazione indipendentemente dalla condizione di partenza, il che significa: pari opportunità di reddito, di formazione, di sviluppo professionale e di assunzione di responsabilità, fra i soggetti più vulnerabili e gli altri lavoratori.

In queste organizzazioni la scelta imprenditoriale non è solo necessità inevitabile di fronte ai limiti sempre più evidenti del welfare, ma opzione culturale mirata a promuovere le soggettività delle persone, in contrasto con l’oggettivizzazione forzata operata dalla cultura dell’assistenzialismo. Infine, le social firm si dichiarano "orientate al mercato" per sottolineare il loro impegno ad operare su mercati reali – non “protetti” – sui quali acquisire ricavi – non sovvenzioni – a fronte di beni e servizi venduti, allo scopo di corrispondere ai lavoratori una retribuzione – non un sussidio – ma anche di reintrodurre un principio di realtà nell’universo dei rapporti alienati prodotti dalle istituzioni totali.

Le social firm si definiscono quindi secondo un criterio più restrittivo rispetto alla generalità delle organizzazioni che offrono qualche forma di occupazione

6

ai soggetti vulnerabili, e tale criterio trae origini da specifiche scelte di natura etica e culturale che si esprimono in Europa con forme e connotazioni diverse, secondo il quadro legislativo e l’humus culturale di riferimento. Il quadro delle forme di social firm presenti in alcuni Stati europei negli Anni 90 può essere così sintetizzato:

- in Francia ed in Belgio viene privilegiata la forma associativa (“association sans but lucratif”), anche in virtù dell’ampio spazio di manovra che le legislazioni di quei Paesi riservano all’associazionismo10;

- in Germania ed in Austria prevale un orientamento favorevole alla creazione di associazioni (“Verein”), ma non mancano esperienze che contemplano la costituzione di società a responsabilità limitata senza fini di lucro (gGmbH), magari a loro volta partecipate o possedute da associazioni;

- in Spagna trovano attuazione tanto lo sviluppo di imprese cooperative quanto quello di società a responsabilità limitata partecipate o possedute da capitale pubblico o proveniente dal terzo settore;

- in Slovenia la invalidsko podjetje11, definita dalla precedente legislazione della Repubblica Federativa di Jugoslavia, è una società a responsabilità limitata partecipata o posseduta da associazioni di utenti, operatori e familiari, ma anche costituita con capitale pubblico;

- nel Regno Unito lo sviluppo dell’impresa sociale, limitato a poche esperienze pilota fino alla fine degli Anni 90, conosce nel decennio successivo un repentino sviluppo determinato anche dalla creazione di strutture di supporto a livello regionale e nazionale12.

Negli Stati Uniti le prime imprese finalizzate ad offrire un lavoro alle persone svantaggiate – consumer-employing business – nascono negli Anni 60 e sono for profit (Warner, Mandiberg, 2006). In seguito saranno definite "affirmative business" e alcune di esse diventeranno importanti realtà produttive. È in questo Paese, ed in Canada, che nascono negli Anni 90 le prime imprese gestite da utenti psichiatrici ("consumer run business") e le prime agenzie di supporto o incubatori d'impresa per aspiranti imprenditori provenienti da condizioni di svantaggio. Fra queste ultime, vale la pena di segnalare l'esperienza di INCube inc., New York, un'agenzia specializzata nel sostenere l'avvio di imprese gestite da persone con esperienze di disturbi

7

psichici, ma anche nel supportarne la liquidazione nei momenti di difficoltà (Kravitz, 1998; Schwarz, 1999; Schwarz, Stastny, Kravitz, 1999).

La creazione d'impresa è considerata oggi, in Nord America, un'opzione praticabile per l'inserimento lavorativo di persone con problemi di salute mentale, tanto quanto il lavoro subordinato o le diverse forme di lavoro protetto, e come tale è riportata nella manualistica governativa (U.S. Department of Health and Human Services, 2003). In Canada è stata coniata la definizione di "alternative business" per distinguere le imprese gestite dalle persone definite come "svantaggiate" dagli altri "affirmative business" (Warner, Mandiberg, 2006).

1.3 Le cooperative sociali in Italia.

In Italia lo sviluppo di diverse esperienze cooperative definite di volta in volta "integrate", "di solidarietà sociale", "imprese sociali", secondo la cultura di provenienza ed i fini sociali che si proponevano, conferisce a queste organizzazioni, nel corso degli Anni 80, un peso politico crescente che induce infine il legislatore a definire un quadro unitario entro il quale esse possano essere definite, censite, disciplinate e sostenute.

Nasce così la legge 381 del 1991, “Disciplina delle cooperative sociali”, primo atto legislativo in Europa entro il quale una forma di impresa sociale potesse riconoscersi ed essere riconosciuta. Una legge che contiene un elemento di ambiguità; infatti, nel tentativo di inquadrare in un’unica disciplina fenomeni diversi, nati all’interno di diversi contesti politici e culturali, essa produce la definizione di "cooperativa sociale" – chiamata a perseguire “l’interesse generale della collettività” – e subito dopo la articola in due sottoinsiemi:

- "cooperative sociali di tipo a", finalizzate a fornire servizi sociali, assistenziali e educativi;

- "cooperative sociali di tipo b", mirate a perseguire l'inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati nell'accesso al lavoro, esercitando qualsiasi tipo di attività.

L’ambiguità della legge intendeva probabilmente conciliare alcune istanze provenienti dal mondo cattolico, che postulava lo sviluppo di cooperative di servizi e di organizzazioni di volontariato con funzioni di supplenza alle

8

carenze del welfare statale, con le richieste imperniate sui concetti di integrazione, pari dignità e diritti di cittadinanza che provenivano da una cultura che trovava le sue radici nel movimento operaio e nella critica alle istituzioni totali.

La lettura che per molti anni si è data del dettato legislativo – soprattutto in sede di applicazione della legge e a livello di organi di controllo – è che i due sottoinsiemi "a" e "b" non potessero intersecarsi; ovvero: che una cooperativa sociale non potesse, contemporaneamente, inserire al proprio interno soggetti svantaggiati e prestare servizi ad altri soggetti svantaggiati. Cosa che in origine non era affatto scontata: si pensi alle prime cooperative integrate, nate per fornire servizi di pulizia o ristorazione all’interno degli ospedali psichiatrici in via di smantellamento e dunque cercando – nell’assoluta povertà dei mezzi disponibili – di migliorare l’habitat dei soggetti che ancora vi vivevano; o alle cooperative di solidarietà sociale nate da esperienze di precariato, disoccupazione, marginalità, per inventare il mestiere di fornire servizi socioassistenziali ad una comunità che cominciava appena a scoprirne il bisogno.

La separazione netta fra i due tipi di attività mirava forse a prevenire le ansie di quanti avrebbero potuto preoccuparsi nel vedere affidati i servizi di assistenza rivolti ai minori, ai disabili ed agli anziani, a soggetti provenienti da esperienze di malattia mentale, dipendenza, detenzione; si è avvallato però, in questo modo, un approccio che rischia di reintrodurre un elemento di stigma nei confronti di quei soggetti.

Si può forse dire che la legge abbia contribuito a veicolare un'idea di cooperativa sociale più vicina a quella di ente che opera a favore delle persone svantaggiate, piuttosto che di ente che appartiene ad esse, o alla comunità locale, come invece volevano essere quelle "imprese sociali" che vedevano se stesse come esperienze avanzate di autoimpiego collettivo fra soggetti provenienti da diversi percorsi di vita e uniti da un obiettivo comune. Sono punti di vista molto differenti: una differenza molto simile a quella che passa fra l'intervento "sul lato dell'offerta" piuttosto che "sul lato della domanda", fra il rendere disponibile una gamma di risorse e il considerare la reale capacità/possibilità dei cittadini di farne uso; oppure, fra il welfare tradizionale ed il coinvolgimento dei cittadini, l'empowerment nella soluzione dei loro problemi.

9

Il riconoscimento legale della cooperazione sociale italiana porta ad un forte sviluppo del settore, che passerà dalle 1.800 imprese (stimate) del 1990 (Mattioni, Tranquilli, 1998) alle 7.363 attive nel 2005 (ISTAT, 2007), nelle quali trovano oggi impiego 244 mila lavoratori retribuiti, di cui oltre il 70% sono donne, mentre i soggetti svantaggiati occupati nelle cooperative di tipo b sono complessivamente più di 30.000. Dall'entrata in vigore della legge ad oggi si è avuto un trend di crescita medio annuo del 10%, con una fase di maggior sviluppo a metà degli anni '90, una più stanca a cavallo del millennio ed una ripresa – soprattutto nel Meridione – negli anni più recenti.

In questo quadro, complessivamente positivo, la forte dipendenza delle cooperative sociali dalla pubblica amministrazione, che continua a garantire a queste imprese i due terzi del fatturato complessivo (dato che rimane sostanzialmente invariato negli anni), ne rappresenta tanto il limite strutturale quanto la principale risorsa. Nelle situazioni più critiche, ed in particolare nella seconda metà degli Anni 90, ne sono derivate distorsioni, segnalate da numerosi osservatori (si veda ad esempio Montebugnoli, 2000), che derivano da responsabilità afferenti tanto alle politiche pubbliche quanto alle strategie generali della cooperazione sociale.

Ciò è avvenuto, ad esempio, ogni volta che la pubblica amministrazione abbia considerato le cooperative sociali come soggetti subordinati, meri esecutori di indirizzi, utili solo nella misura in cui riuscissero ad offrire operatori motivati e flessibili a costi inferiori, a parità di prestazioni (al punto che si avverte ancor oggi la necessità di ricordare di predisporre capitolati d’appalto che consentano il rispetto dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro del settore); o quando, specularmente, le cooperative coinvolte nei processi di terziarizzazione di pubblici servizi abbiano puntato ad ottenere risultati di natura prevalentemente quantitativa, in termini di riduzione di costi come di maggior flessibilità, e dunque semplicemente riconducibili alla scelta degli operatori (o piuttosto dell’impresa) di lavorare a condizioni meno favorevoli.

Distorsioni di questo tipo hanno motivato, fra la fine degli Anni 90 e l'inizio del decennio successivo, alcune critiche rivolte alla cooperazione sociale del nostro Paese; critiche che trovano del resto analogo riscontro nel dibattito europeo sullo sviluppo e la funzione del terzo settore. Ricordiamo a questo proposito due temi di particolare rilievo che sono emersi, e tuttora emergono, nel dibattito politico, sociale e sindacale.

10

Un primo, importante aspetto che viene imputato non solo alle cooperative sociali italiane, ma più in generale alle organizzazioni no-profit europee, riguarda la creazione di un mercato del lavoro parallelo, dove i lavoratori siano costantemente a rischio di rimpinguare i contingenti delle nuove povertà, di diventare i nuovi soggetti svantaggiati, anziché essere i protagonisti di nuovi processi di trasformazione sociale; viene messo sotto accusa in questi casi non solo il trattamento economico ma anche, soprattutto nelle organizzazioni di dimensioni maggiori, la marginalizzazione rispetto ai processi decisionali e all’accesso all'informazione.13

Una seconda critica, sollevata più specificamente nei confronti delle cooperative sociali di tipo b (e più generalmente delle social firms), riguarda la scarsa rappresentatività dei soggetti svantaggiati – che pur rappresentano oltre la metà della forza lavoro delle cooperative sociali di tipo b (ISTAT,

2007) – a livello di quadri intermedi e dirigenti, e la minor disponibilità di opportunità di sviluppo professionale ad essi offerta14; analogo discorso andrebbe svolto, in termini più generali, per la rappresentatività della componente femminile.

A queste criticità le sensibilità più avvertite, tanto nelle pubbliche amministrazioni quanto nella cooperazione sociale, hanno cominciato ad offrire risposte sempre più puntuali, anche nel quadro delle trasformazioni previste dalla nuova legislazione nazionale15 e grazie a progetti e sperimentazioni realizzati nell'ambito del programma europeo EQUAL, che si concluderà nel 2008. I temi su cui si è concentrata l'attenzione degli operatori sono stati prevalentemente:

- i sistemi di accreditamento, di rendicontazione sociale, di controllo della qualità e della soddisfazione dell'utenza;

- il coinvolgimento dell'associazionismo, ed in particolare delle associazioni rappresentative dell'utenza;

- la creazione di protocolli, di convenzioni, di partenariati territoriali mirati ad assicurare lo sviluppo equilibrato e la sostenibilità di sistemi locali di servizi condotti in regime di sussidiarietà;

- lo sviluppo di iniziative mirate a valorizzare l'autonomia e l'imprenditorialità delle persone provenienti da condizioni di svantaggio.

11

Anche fra gli imprenditori sociali europei si sta facendo strada la consapevolezza dei problemi enunciati e della necessità di una più stretta interazione con i diversi soggetti attivi nel sociale. Nelle conclusioni di un rapporto di qualche anno fa sul processo di sviluppo delle imprese sociali europee, realizzato da alcune realtà rappresentative del settore in Italia, Germania e Regno Unito, si richiamava infatti la necessità di

“…assicurare che le persone con disabilità controllino e gestiscano le imprese sociali, e non lavorino semplicemente in imprese dove le decisioni sono prese da altri in loro nome… l’obiettivo è quello di raggiungere l’indipendenza personale per le persone disabili, e l’autonomia delle aziende… dove l’avvio e la messa a regime delle imprese sociali è ancora influenzato dai professionisti dell’assistenza e della sanità… fattore chiave dello sviluppo delle imprese sociali sarà la cooperazione con altre imprese sociali, famiglie, persone disabili, servizi sociosanitari e pubbliche amministrazioni centrali e locali"16.

Si tratterebbe quindi di sviluppare, anche attraverso l’ingresso di una pluralità di nuovi soggetti, portatori di logiche, istanze, risorse e criteri qualitativi di segno diverso, processi di integrazione in rete e nuove forme di partecipazione alla gestione dei servizi, con l’obiettivo di superare lo schema duale committente-appaltatore e prevenire i rischi di istituzionalizzazione ed autoreferenzialità che ne possono derivare.

1.4 Impresa sociale e strategie di inserimento

lavorativo a cavallo del millennio.

Mentre l'Italia assisteva allo sviluppo rapido e repentino della cooperazione sociale, in Europa è parallelamente cresciuto e si è affermato il fenomeno dell'impresa sociale: social enterprise o social firm, con le caratteristiche di cui abbiamo già detto. Nell'insieme ampio ed eterogeneo delle social enterprise, le organizzazioni non lucrative che operano nel campo dell'integrazione lavorativa dei soggetti più vulnerabili sono state indicate con l'acronimo WISE (Work Integration Social Enterprise, impresa sociale di integrazione lavorativa).17

12

Dal 2000 in avanti si è registrata, a livello internazionale, una sostanziale convergenza intorno alla definizione di "impresa sociale – social enterprise", anche in seguito ai numerosi lavori di ricerca e comparazione resi possibili dalle attività di cooperazione transnazionale finanziate da programmi europei, o promossi dai singoli governi con l'obiettivo di migliorare il quadro legislativo, come nel caso della Social Enterprise Strategy lanciata nel 2002 dal Governo del Regno Unito18.

Secondo un consenso che si avvia ad essere generale, le social enterprise sono organizzazioni senza fine di lucro che perseguono simultaneamente obiettivi di sviluppo economico proprio e di interesse generale della comunità. In linea di massima, gli obiettivi di interesse generale hanno a che fare con la fornitura di servizi sociali, sanitari ed educativi, con la tutela dell'ambiente, con lo sviluppo locale, con il microcredito e con la formazione e l'impiego dei soggetti più vulnerabili. D'altra parte, come abbiamo già visto, esistono valide esperienze di imprese finalizzate all'accesso al lavoro delle persone svantaggiate che NON fanno riferimento a quel modello.

Si distingue in particolare, a questo proposito, il caso finlandese: in questo Paese, infatti, la Legge sull'Impresa Sociale definisce come tale qualsiasi tipo di organizzazione – anche for profit – che sia mirata all'inserimento lavorativo di disoccupati di lungo periodo e di persone disabili nel rispetto di alcuni standard minimi19, avvicinandosi in questo modo al modello delle social firm.

Il Network Europeo di Ricerca EMES ha realizzato qualche anno fa un'analisi comparativa in dieci Paesi dell'Unione Europea e vi ha censito ben 39 tipologie di WISE (Davister, Defourny, Gregoire, 2004). Dalla ricerca emergono, come aspetti di particolare interesse, la definizione delle tipologie di attività svolte dai soggetti svantaggiati nell'impresa e l'analisi delle fonti di finanziamento.

Per quanto si riferisce alle tipologie di attività, lo studio individua quattro categorie:

- creazione di posti di lavoro stabili e sostenibili;

- impiego di transizione (finalizzato all'inserimento in un'altra impresa);

- inserimento lavorativo sostenuto da sussidi stabili (alla persona o all'organizzazione di riferimento);

13

- socializzazione attraverso un'attività produttiva (dove quest'ultima viene intesa soprattutto come un mezzo per prevenire l'isolamento e il deterioramento delle competenze).

Solo 16 tipologie organizzative su 39 offrono "posti di lavoro stabili e sostenibili". Per ciò che riguarda le fonti di finanziamento, poi, 10 tipologie su 39 risultano dipendere da contributi pubblici per oltre il 50% delle entrate.

E' chiaro a questo punto che la nozione di WISE – "Impresa sociale di integrazione lavorativa" riveste un carattere piuttosto ambiguo. Sotto questa definizione ritroviamo infatti:

- imprese che operano sul libero mercato offrendo un regolare impiego a persone svantaggiate nell'accesso al mercato del lavoro;

- organizzazioni che vendono alla collettività servizi definibili in vario modo (formazione, riabilitazione, terapia occupazionale, ergoterapia…) rivolti a persone che non trovano una collocazione sul mercato del lavoro;

- organismi e strutture che svolgono i due tipi di attività, anche contemporaneamente e senza una netta distinzione20.

L'utilizzo improprio di termini che richiamano al lavoro – come "inserimento lavorativo" o "work integration" – non aiuta certo a far chiarezza, prima di tutto fra le persone che dell'inserimento dovrebbero beneficiare, e che magari sono portate a considerare come un "lavoro" quello che, invece, altro non è che un tirocinio o una generica "attività", supportata magari da un sussidio periodicamente erogato.

Senza nulla togliere ai molteplici servizi di formazione, tirocinio, work experience, terapia occupazionale, attività riabilitativa, che possono avere un ruolo essenziale nel facilitare l'accesso al mercato del lavoro, o nell'offrire opportunità di vita attiva a chi quell'accesso non riesce a praticare (non tutti, e per forza, possono e devono lavorare), è chiaro che gli utenti di quei servizi non lavorano ma, appunto, seguono percorsi di formazione, riabilitazione e/o altro. Definire allora "impresa sociale di integrazione lavorativa" un'organizzazione che offre ai suoi utenti opportunità di "socializzazione attraverso un'attività produttiva" ed è sostenuta prevalentemente da sovvenzioni pubbliche o da donazioni, rischia di creare qualche confusione.

14

Le imprese che operano sul mercato offrendo un impiego alle persone svantaggiate hanno ben poco a che fare con le organizzazioni che vendono alla collettività servizi rivolti a persone non collocate sul mercato del lavoro: diversa è la committenza, diversi gli obiettivi, diverse le modalità di generare ricchezza, diverso l'impatto sulle comunità locali. Si tratta insomma di tipologie di attività diverse che devono essere analizzate e valutate con criteri diversi; esse potranno certo convivere utilmente all'interno di un medesimo sistema, ma proprio perché diverse ed eventualmente complementari, non perché reciprocamente simili.

Qualsiasi percorso di inclusione sociale dovrebbe comunque mirare all'accesso effettivo ad un impiego adeguatamente retribuito, ed ogni altra soluzione dovrebbe essere considerata per ciò che realmente è: un investimento – costoso – della comunità sul benessere e sul futuro del soggetto, finalizzato ad obiettivi di sviluppo personale e (ove possibile) professionale, limitato nel tempo o utilizzato in termini di ultima istanza in mancanza di alternative praticabili – ma ricondotto in quest'ultimo caso alla sua essenza di misura meramente assistenziale, o preventiva rispetto a processi di ulteriore esclusione, deriva sociale, impoverimento delle competenze anche più elementari.

Recentemente è stata riscontrata anche nel nostro Paese la necessità di definire uno statuto giuridico per l'impresa sociale: si è giunti così alla Legge Delega 118 del 2005, al relativo Decreto Legislativo 155 del 2006 e, ultimamente, ai Decreti del 24 gennaio 2008. Senza affrontare qui analisi approfondite che altri hanno già svolto e svolgeranno meglio di noi, ci limiteremo a richiamare alcuni fra i requisiti essenziali previsti dalla nuova legislazione, secondo la quale l'impresa sociale italiana:

- è un'organizzazione privata che può avere qualsiasi forma giuridica prevista dal codice civile, dalla società cooperativa alla società per azioni;

- non ha fini di lucro;

- opera nei settori dell'assistenza sociale e sanitaria; dell'educazione, istruzione e formazione; della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; della valorizzazione del patrimonio culturale, della ricerca e dell'erogazione di servizi culturali; del turismo sociale; della formazione universitaria, post-universitaria ed extra-scolastica; dei servizi

15

strumentali alle imprese sociali; o, infine esercita attività di impresa al fine dell’inserimento lavorativo di soggetti disabili o svantaggiati.

Sotto il profilo pratico, la definizione legale di impresa sociale accomuna quindi una straordinaria varietà di soggetti21, e il contributo delle "imprese sociali" all'inserimento lavorativo delle persone più vulnerabili si identifica, allo stato attuale, con quello delle cooperative sociali di tipo b. Anche perché la normativa delinea tendenzialmente, fra le imprese sociali e le cooperative sociali, la seguente relazione:

- tutte le cooperative sociali potranno essere considerate imprese sociali;

- le imprese sociali potranno anche NON essere cooperative sociali.

Graficamente, la relazione fra i due insiemi può essere così rappresentata:

Ma abbiamo anche visto che esistono esempi di successo di imprese finalizzate all'inserimento lavorativo dei soggetti più vulnerabili che non corrispondono né al modello europeo della social enterprise, né a quelli italiani dell'impresa sociale o della cooperativa sociale.

In particolare, più recentemente, molti progetti realizzati grazie all'asse "Imprenditorialità" del programma europeo Equal, che si chiuderà nel 2008, hanno dimostrato che una parte delle persone escluse dal mercato del lavoro possono uscire da questa condizione attraverso un percorso imprenditoriale.

Le loro imprese non sono molto conosciute, né di dimensione rilevanti. Non sono imprese sociali. Sono soprattutto microimprese – spesso individuali – che consentono di lavorare ad un titolare (eventualmente affiancato da qualche collaboratore) che proviene da una condizione di svantaggio: impiegano quindi, nella maggior parte dei casi, un 100% di lavoratori svantaggiati.

Queste microimprese hanno, come è lecito aspettarsi, un fine lucrativo. Infatti non è così sorprendente il fatto che le persone povere vogliano

16

diventar ricche – o, almeno, tirarsi fuori dalla povertà e dall'esclusione. Ma ecco: le normative e le pratiche più diffuse sostengono con facilità l'impresa no-profit quando essa offre – dall'alto – un'opportunità d'impiego al lavoratore svantaggiato; ben più raramente esse supportano il soggetto svantaggiato che sceglie autonomamente la propria strada per l'accesso al lavoro, soprattutto se ha l'arroganza di ricercare dalla propria opera un profitto.

Si sviluppa così una nuova, sottile forma di discriminazione: il settore no-profit diventa occasione di merito e di visibilità sociale per i ricchi, mentre per i poveri rimane strada quasi obbligata, alternativa al nulla dell'esclusione; e il protagonismo appartiene quasi sempre agli altri.

1.5 Alcune lezioni dal programma EQUAL.

A ladder out of exclusion, una scala per uscire dall'esclusione. Questo è uno degli slogan che alcuni fra i protagonisti del programma Equal hanno scelto per raccontare le loro esperienze di inclusive entrepreneurship: che possiamo tradurre con imprenditorialità inclusiva, impresa inclusiva, impresa dell'inclusione.

Le "imprese inclusive" possono avere qualsiasi forma giuridica e sono caratterizzate dall'essere create, dirette e/o partecipate da una maggioranza di persone provenienti da condizioni di vulnerabilità. Se dovessimo dislocare le imprese inclusive rispetto alle imprese sociali e alle cooperative sociali, potremmo ottenere un diagramma simile al seguente.

L'acronimo COPIE sta per "Community of Practices on Inclusive Entrepreneurship" (Comunità di pratiche sull'imprenditorialità inclusiva)22 e designa una comunità aperta, formata prevalentemente da soggetti che abbiano partecipato al programma Equal con progetti mirati a sostenere l'autonomia e l'imprenditorialità delle persone più vulnerabili.

17

Con l'aiuto di un finanziamento ad hoc e basandosi sulle esperienze di oltre trecento partenariati in dodici Paesi dell'Unione, COPIE ha analizzato e catalogato oltre cento buone pratiche realizzate nell'ambito del programma e ha messo a punto metodologie e strumenti che mirano a descrivere e valutare la capacità di una determinata area geografica di essere "business friendly" – che potremmo tradurre come "accessibile all'imprenditorialità" – nei confronti delle persone appartenenti ai gruppi meno favoriti nell'accesso al mercato del lavoro.

La metodologia dell'analisi, tutt'ora in fase di sviluppo, prevede quattro fasi. Nella prima si analizza l'ambiente socioeconomico dell'area studio e le condizioni – più o meno favorevoli – che esso offre allo sviluppo di nuove imprese; nelle tre fasi successive si approfondisce la conoscenza di tali condizioni indagando sulla percezione che ne hanno tre diverse categorie di soggetti: i decisori politici, i consulenti e gli specialisti, gli imprenditori attuali e potenziali. Fra questi ultimi si distinguono i diversi gruppi di soggetti che devono essere ascoltati: donne disoccupate, migranti e minoranze etniche, over 50, giovani under 30, persone con disabilità, imprenditori sociali.

Le condizioni prese in esame riguardano le strategie politiche, la cultura imprenditoriale e le condizioni di base per il fare impresa, le opportunità per chi avvia un'attività, gli strumenti per il consolidamento e lo sviluppo ed infine l'accesso al credito. L'obiettivo della ricerca è l'individuazione dei punti di forza e di debolezza dell'area studio, intesi non solo in termini generali, ma anche in relazione a quanto percepiscono le diverse categorie di soggetti coinvolte nelle interviste. Ai punti di debolezza individuati potranno poi corrispondere buone pratiche sperimentate altrove e catalogate dalla Comunità.

Un'altra esperienza su cui vale la pena di soffermarsi è quella, francese, delle CAE: Coopératives d’Activités et d’Emploi23. Tradurre letteralmente questa definizione in "cooperative d'attività e d'impiego", come si usa, non ne rende adeguatamente il senso, mentre "cooperative d'impresa e di lavoro" vi si avvicina un po' meglio. In queste cooperative la nozione di "socio imprenditore", tanto discussa negli ultimi quindici anni, risulta enfatizzata in modo del tutto particolare ed informa la struttura ed il funzionamento dell'impresa.

18

L'aspirante imprenditore disoccupato che incontra sulla propria strada un'organizzazione di questo tipo ha la possibilità di percorrere tre fasi. Nella prima, come disoccupato percettore di un reddito minimo d'inserimento, viene assistito gratuitamente nell'elaborazione del business plan dalla CAE, che lo valida e lo fa proprio. Nella seconda fase, che corrisponde allo start up della nuova attività, egli diventa socio della cooperativa nell'inedita veste di un cosiddetto "imprenditore salariato" che percepisce un reddito proporzionale ai ricavi, dal quale si detrae un dieci per cento che va a coprire i servizi contabili ed amministrativi.

Se lo start up fallisce il soggetto si ritrova nella condizione di partenza: perde l'impiego, ma nulla deve alla cooperativa. Se l'impresa ha successo, può scegliere fra due alternative: mettersi in proprio ed avviare un'impresa indipendente, o rimanere all'interno della cooperativa in qualità di socio. Questo mix del tutto particolare di autonomia e sicurezza ha incontrato un considerevole successo: nate nel 1995, dieci anni dopo (2006) le CAE sono localizzate in 90 siti – soprattutto in Francia e Belgio – e contano oltre 1.500 "imprenditori salariati" che producono un fatturato complessivo di 21.619.000 euro con una crescita del 30% annuo.

Tanto la nozione di "impresa inclusiva" quanto quella di "cooperative d'impresa e di lavoro" non dovrebbero suonare del tutto nuove nel nostro Paese. Le "cooperative integrate" degli Anni 70 nascevano infatti dall'esperienza basagliana come intraprese collettive che ponevano su un piano di parità tutte le persone coinvolte nel progetto imprenditoriale, indipendentemente dallo stato delle rispettive anamnesi o fedine penali: "Da svantaggiati a imprenditori" era intitolata, non casualmente, la prima ricerca di dimensione nazionale realizzata sulle cooperative sociali di tipo b nella seconda metà degli Anni 90 (Mattioni, Tranquilli, 1998). E sempre a partire da queste esperienze era emersa e si era manifestata l'esigenza di immaginare un modello organizzativo capace di "potenziare delle possibilità, che riesce a identificare degli interessi, e che riesce a coltivarli e ad allargarli, e a dargli anche delle gambe materiali" (intervista a F. Rotelli, in Torresini, 1990).

Un terzo filone di esperienze che il Programma Equal ha contribuito a sostenere e diffondere riguarda il cosiddetto "microcredito". Per microcredito si intende un servizio finanziario rivolto a soggetti che, per diverse ragioni, non siano in grado di ottenere un prestito da una banca: i cosiddetti soggetti

19

"non bancabili". La difficoltà di accesso al credito può essere ricondotta a diverse ragioni, prima fra tutte la difficoltà a fornire garanzie ritenute soddisfacenti dagli istituti di credito; ma anche l'esiguità delle somme in gioco nel singolo prestito rende poco interessante, per le banche, questo tipo di mercato.

Nata in Bangladesh negli Anni 70 per iniziativa di Muhammad Yunus (Yunus, 1998), allora trentenne Professore di Economia, la Grameen Bank ha dimostrato come l'erogazione di piccoli crediti a persone fortemente motivate a migliorare la condizione propria e della famiglia, inserite in solide reti parentali e di prossimità, possa avere un ruolo chiave nel fronteggiare la povertà e nel promuovere lo sviluppo locale. Da allora la pratica del microcredito è stata sperimentata con successo in tutto il mondo, adeguandone il modello organizzativo ai diversi contesti interessati.

In Europa le esperienze di microcredito sono generalmente caratterizzate da:

- entità dei prestiti inferiore a 25.000 euro (ma l'entità media sarebbe di gran lunga inferiore);

- tempi di restituzione concordati con i beneficiari;

- presenza di soggetti terzi che svolgono funzioni di valutazione della domanda e di mediazione fra istituti di credito e beneficiari;

- ricerca ed individuazione di forme alternative di garanzia;

- attivazione di reti locali a carattere parentale, mutualistico o di prossimità, con funzioni di supporto e garanzia ai beneficiari dei prestiti.

L'organizzazione di microfinanza più nota in Europa è la francese ADIE – Association pour le Droit à l'Initiative Économique24 (Associazione per il diritto all'iniziativa economica), fondata nel 1989 da Maria Nowak. Nel 2005 l'associazione ha erogato 7.570 "prestiti solidali" che hanno consentito la creazione di 6.508 imprese per 7.810 posti di lavoro; i clienti attivi in quell'anno erano quindicimila.

Secondo le stime di Eurostat la domanda di microcredito sul territorio dell'Unione Europea sarebbe pari a circa 700.000 nuovi prestiti per un ammontare complessivo di oltre sei miliardi di euro. Il Commissario Europeo per le Politiche Regionali Danuta Hübner ha presentato nel novembre 2007

20

un'iniziativa mirata a sostenere l'erogazione di piccoli crediti finalizzati all'avvio di piccole imprese e di attività economiche gestite da soggetti a rischio di esclusione sociale25.

Le iniziative di microcredito hanno un ruolo centrale nel sostenere l'imprenditorialità individuale dei soggetti più vulnerabili: se infatti le imprese sociali (e, in Italia, le cooperative sociali) dispongono di una gamma crescente di strumenti finanziari – come i diversi tipi di fondi etici – e di forme di sostegno pubblico, il singolo soggetto che, proveniente da una condizione di svantaggio, voglia avviare un'attività in proprio continua ad incontrare forti difficoltà nell'accesso al credito.

1.6 Le sfide del futuro

Nel 2005 i disabili iscritti alle liste del collocamento obbligatorio previste dalla legge 68 del 1999, "Norme per il diritto al lavoro dei disabili", erano più di 645.000, di cui oltre 400.000 disposti ad accettare immediatamente un lavoro26.

A fronte di questo, sempre nel 2005, le assunzioni sono state poco più di 30.000, mentre risultano ancora scoperti, e potenzialmente disponibili presso le imprese chiamate ad attuare il dettato della Legge, solo 109.005 posti riservati alle persone con disabilità.

Questo significa che, se anche tutte le imprese ottemperassero immediatamente agli obblighi di legge, circa 300.000 persone disabili, disposte ad accettare immediatamente un lavoro, resterebbero comunque disoccupate.

Nel 2005 lavoravano nelle cooperative sociali di tipo b 30.141 persone svantaggiate (ISTAT, 2007). Rispetto al 2003, gli utenti delle cooperative di inserimento lavorativo sono aumentati complessivamente del 27,8 per cento, il che significa che negli ultimi due anni sono stati creati oltre 6.500 posti di lavoro l'anno per i soggetti svantaggiati – che sono comunque una platea molto più ampia di quella dei soggetti disabili individuati dalla Legge 68.

Riepilogando: la legge 68/99 colloca ogni anno 30.000 disabili, pari all'intero stock di soggetti svantaggiati (che sono molti di più dei disabili) impiegati nella cooperazione sociale. Ciononostante, abbiamo 400.000 disabili in

21

attesa, tre quarti dei quali non troveranno mai un lavoro attraverso la legge 68. Poco sappiamo dei soggetti definiti come "svantaggiati", se non che sono molti di più.

Non si tratta qui, di mettere sotto accusa la legge 68 o l'esperienza della cooperazione sociale: prima della cooperazione sociale, prima della legge 68, le cose andavano ben peggio, solo che non lo sapevamo. La grande crescita delle iscrizioni alle liste del collocamento mirato rende meno incoraggianti le statistiche, ma racconta anche delle speranze e della disponibilità a mettersi in gioco di persone un tempo escluse da ogni contrattualità e rassegnate a questo. E la crescita delle cooperative sociali di tipo b non si è interrotta: stagna al nord, dove ha probabilmente raggiunto una provvisoria condizione di equilibrio; ma continua a sud, dove comincia a proporsi come alternativa credibile ad un sommerso dominato dalle organizzazioni criminali, speranza di riscatto animata da alcune persone coraggiose, in un contesto comunque estremamente difficile.

A partire dal 2000 abbiamo sviluppato, grazie al programma Equal, un nostro approccio all'impresa dell'inclusione attraverso i progetti "Imprenditorialità estrema per una Vita Indipendente" e "SOLARiS". Equal ci ha anche offerto l'opportunità di confrontarci con i compagni di strada sempre più numerosi che, in Italia e in Europa, hanno intrapreso una strada simile alla nostra.

Abbiamo cominciato ad usare la definizione di "impresa dell'inclusione" per indicare una strategia che parte dall'imprenditorialità per creare inclusione sociale, come hanno scelto di fare molti progetti Equal, in Italia e in Europa. Ma anche per dire che produrre inclusione, oggi e in queste condizioni, è davvero "un'impresa": è "l'impresa di produrre inclusione".

Il confronto fra soggetti ed esperienze ci consente oggi di identificare alcuni elementi di una possibile "Strategia per l'impresa dell'inclusione" che poggi su tre pilastri:

- la piena applicazione della legge 68/99 anche attraverso il coinvolgimento attivo delle imprese, che sarebbero chiamate a definire la propria "responsabilità sociale" primariamente in base all'impatto occupazionale (e di carriera) sulle categorie più vulnerabili; tale coinvolgimento dovrebbe appoggiarsi su meccanismi di incentivazione e

22

di premialità, e portare ad un graduale superamento delle logiche meramente sanzionatorie;

- il sostegno allo sviluppo di imprese sociali e cooperative sociali che rispettino standard qualitativi omogenei sul territorio nazionale, relativi ad esempio alla distribuzione di valore alle comunità locali, come anche ai poteri di direzione e di controllo affidati a cittadini appartenenti alle categorie più vulnerabili (in qualità di amministratori o dirigenti, stakeholder primari, membri di comitati "etici" dotati di poteri effettivi…);

- il sostegno alla creazione di "imprese inclusive", controllate e dirette dai cittadini e dalle cittadine più vulnerabili, e costituite secondo qualsiasi forma giuridica, individuale o collettiva, lucrativa o no.

Le regioni dovrebbero promuovere lo sviluppo di partenariati e reti trovando il giusto mix fra competizione e cooperazione, attraverso procedure di evidenza pubblica che, secondo i casi, incentivino meccanismi concorrenziali volti a valorizzare l'innovazione, o processi di aggregazione che sappiano realizzare economie di scala e servire capillarmente i territori. Si dovrà pensare a modalità e strumenti capaci di valorizzare le piccole organizzazioni (soprattutto quelle rappresentative dei soggetti vulnerabili) senza costringerle ad affrontare impegni di tenuta amministrativa e/o rendicontale che non sempre sono in grado di sostenere.

Una strategia di questo tipo dovrebbe essere preceduta da un lavoro di ricerca e di valutazione ex ante capace di mettere in luce le risorse che il territorio è in grado di mobilitare "per l'impresa dell'inclusione", di calcolare i rischi che si corrono e di pianificare le azioni che sarà necessario mettere in campo. Vi sono poi due questioni, che riguardano specificamente il sostegno all'imprenditorialità delle persone vulnerabili, su cui vale la pena di soffermarsi: uno è l'accesso al credito, l'altro riguarda gli strumenti e i modelli d'intervento per l'accompagnamento alla creazione d'impresa.

Dare credito, prima ancora di parlare di soldi, significa "crederci". Credere che quell'idea imprenditoriale funzionerà anche se l'imprenditore è un disabile (ma forse abilissimo nei circuiti virtuali della società dell'informazione); un immigrato (che magari ha individuato un mercato molto promettente nella propria comunità di riferimento); un piccolo

23

spacciatore appena uscito dal carcere (non privo di competenze spendibili nel settore commerciale…).

Dare credito significa quindi trasformare numerose culture. Prima di tutto quella del soggetto vulnerabile, che deve imparare a credere in se stesso e nella sua capacità di trasformare la propria vita. In secondo luogo, quella della comunità di appartenenza, che attribuisce spesso alla figura dell'imprenditore un'immagine stereotipata che non sembra adattarsi ai soggetti vulnerabili, ma che in realtà corrisponde poco anche alle persone dei piccoli imprenditori che conosciamo. Infine, parliamo pure della cultura degli addetti ai lavori: dai consulenti, che devono imparare ad adeguare atteggiamenti e linguaggi, agli Istituti di credito.

L'accesso al credito bancario rimane infatti un serio ostacolo per lo sviluppo dell'impresa dell'inclusione, anche se oggi esistono, anche in Italia e anche grazie al programma Equal, esperienze sempre più numerose di microcredito, di finanza etica, di prestito d'onore, di fondi di garanzia variamente costituiti. Bisogna ora valorizzare e trasferire queste esperienze, e le Amministrazioni regionali e locali possono svolgere un ruolo molto importante in questi processi: finanziando (anche attraverso i POR) progetti di trasferimento di buone pratiche o, con maggior impegno, andando a costituire fondi di garanzia finanziati con capitale pubblico.

In questa cornice, il microcredito costituirebbe per le banche un prodotto da mettere a punto considerandone gli aspetti caratteristici, come ad esempio i bassissimi tassi di sofferenza o, all'opposto, l'elevata incidenza di costi fissi che esso comporta. Alcune esperienze positive sono basate sull'esistenza di un soggetto terzo – ad esempio una PS Equal – che supporta la redazione dei business plan dei potenziali beneficiari e ne certifica la validità di fronte a un Istituto di credito precedentemente sensibilizzato.

A fianco al tema del credito si pone la questione relativa agli strumenti e ai modelli d'intervento per l'accompagnamento alla creazione d'impresa. Le esperienze maturate nell'ambito del programma Equal ci dicono che non abbiamo bisogno di mettere a punto specifici modelli di formazione imprenditoriale e consulenza per gruppi target predefiniti (come ad esempio: ex detenuti, cittadini extracomunitari, ex tossicodipendenti, eccetera). Dobbiamo piuttosto sviluppare ottime pratiche di formazione e consulenza accessibili a tutti.

24

I ricchi rimangono ricchi perché possono pagarsi ottimi consulenti che – se necessario – rimediano i loro errori. I poveri si impoveriscono ulteriormente quando, nel percorrere il sentiero imprenditoriale, trovano consiglio ed aiuto svogliato, se pure lo trovano: come se, innocenti, fossero accusati di omicidio volontario e difesi da un avvocato d'ufficio. Per restare nella metafora, molti progetti Equal-Imprenditorialità hanno costituito una sorta di "gratuito patrocinio" per il sogno imprenditoriale dei beneficiari offrendo loro, senza spese, quella formazione e quell'assistenza – costose – che non avrebbero potuto permettersi altrimenti, che l'istruzione offerta dalle nostre scuole non contempla, che in certi contesti territoriali non si sa neppure dove cercare.

In questi progetti, infatti, era generalmente prevista un'importante componente di accompagnamento individualizzato (con diverse modalità e denominazioni: consulenza, tutoring, mentoring…) che poneva l'enfasi sulla centralità della persona – soggetto che realizza un'azione, non oggetto che la subisce – e sui suoi sogni. Queste esperienze hanno funzionato, e in tutta Europa hanno trasformato soggetti vulnerabili, esclusi, marginali, in imprenditori che si guadagnano da vivere attraverso la propria attività e che – come speriamo – arricchiranno la collettività pagando le tasse e creando nuovi impieghi.

In questo senso si può affermare che le premesse del programma Equal sono state rispettate e soddisfatte pienamente: le organizzazioni partecipanti, infatti, hanno messo a punto strumenti di inclusione sociale anche grazie agli apprendimenti e i confronti realizzati attraverso la cooperazione transnazionale. Spetta ora alle Regioni recepire le buone pratiche di creazione d'impresa sperimentate e costruire le condizioni per un'imprenditorialità accessibile a tutti i cittadini.

1.7 Bibliografia

AA.VV. (1999) Quatre rencontres transnationales – A report about the development process of social firms in Europe, CO.IN Consorzio Cooperative Integrate, Social Firms UK, F.A.F. gGmbH, DROM Consorzio Nazionale della Cooperazione Sociale.

Bauman, Z. (2001), Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza.

25

Bauman, Z. (2003), Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza.

Bauman, Z. (2004), Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Roma-Bari, Laterza.

Bauman, Z. (2006), Vita liquida, Roma-Bari, Laterza.

Cerrato M., Olivier C. (2000) "Coopératives d’emplois et d’activités, une démarche d’entreprises collectives et solidaires", Les cahiers du DSU, 2000/09, n° 28, France, pubblicato anche in <http://base.d-p-h.info/pt/fiches/premierdph/fiche-premierdph-5928.html>.

Commissione Europea (1998) Direzione Generale Occupazione ed Affari Sociali, Atti del convegno “Terzo sistema e occupazione”.

Davister, C., Defourny, J., Gregoire, O. (2004) Work Integration Social Enterprises In The European Union: An Overview Of Existing Models", EMES European Research Network, pubblicato anche in <www.emes.net>.

De Leonardis, O., Goergen, R. (1988), Un'impresa sociale, relazione al convegno "La questione psichiatrica", Trieste, pubblicata in <www.exclusion.net/images/pdf/324_copoq_imp_soc_goergen_deleonardis.PDF>.

De Leonardis, O., Mauri, D., Rotelli, F. (1994), L’impresa sociale, Milano, Anabasi.

De Leonardis, O. (1997) "Nasce l'impresa sociale", Impresa & Stato n°37-38, Milano, 1997, pubblicato anche in <http://impresa-stato.mi.camcom.it/im_37-38/deleonardis.htm>.

Gallio, G. (1991) (a cura di), Nell'impresa sociale, Trieste, Edizioni e.

Higgins, G., Gianniba, P. (1999) The Social Firms Directory, Netherne Printing Services, Surrey Oaklands NHS Trust.

ISTAT (2007) Le cooperative sociali in Italia – Anno 2005, Roma.

Kravitz, M. "Legal Actions" (1998), New York City Voices, pubblicata in <www.newyorkcityvoices.org>.

Mattioni, F., Tranquilli, D. (1998) Da svantaggiati a imprenditori, ANCSST LegaCoop, Roma, D’Anselmi Editore.

26

Mattioni, F. (2005) La doppia sfida delle cooperative di inserimento lavorativo, IRES FVG, ATS Albergo in via dei Matti numero zero, Roma.

Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale (2006), ISFOL, III Relazione al Parlamento sullo stato d'attuazione della Legge 12 marzo 1999, n. 68, «Norme per il diritto al lavoro dei disabili», Anni 2004-2005, Roma.

Montebugnoli, A. (2000) Come complicare l’economia sociale, Roma, Ediesse.

Pättiniemi, P. (2006) Social Enterprises as Labour Market Measure, Kuopio, anche in <www.uku.fi/vaitokset/2006/isbn951-27-0369-6.pdf>.

Rotelli, F. (1994) Per la normalità – Taccuino di uno psichiatra, Trieste, Edizioni e.

Schwarz, G., Stastny, P., Kravitz, M., (1999) "Consumer-Run Businesses In The USA: A New Approach To Vocational Rehabilitation For People With Psychiatric Disabilities", pubblicato anche in <http://resources.socialfirms.co.uk/docs/resources/consumer_run_businesses_in_the_usa.pdf>.

Schwarz, G., (1999) "New forms of vocational rehabilitation: The TAP programme in New York City", pubblicato anche in <http://resources.socialfirms.co.uk/docs/resources/tap_programme%20in_nyc_99.pdf>.

Spreckley, F. (1981), Social Audit – a management tool for Cooperative Working", Beechwood College.

Torresini L. (1990) (a cura di), "Il lavoro rende liberi? Dall’ergoterapia all’istituzione inventata", Sapere 2000, Roma, pubblicata anche in <www.triestesalutementale.it/letteratura/testi/17ergot.htm#*>.

U.S. Department of Health and Human Services (2003), Substance Abuse and Mental Health Services Administration, Center for Substance Abuse Prevention, "Work as a Priority: A Resource for Employing People who have Serious Mental Illnesses and are Homeless", anche in <www.samhsa.gov>.

Warner, R., Mandiberg, J (2006) "An Update on Affirmative Businesses or Social Firms for People With Mental Illness", Psychiatric Services, October 2006, Vol. 57, No. 10, ps.psychiatryonline.org, su <www.cefec.de>.

27

Muhammad Yunus, M. (1998) Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, Roma.

1.8 Sitografia

ADIE – Association pour le Droit à l'Initiative Économique <www.adie.org>.

Commissione europea <http://europa.eu>

Confederation of European Social Firms, Employment Initiatives and Social Co-operatives <www.cefec.de>.

Coopératives d’Activités et d’Emploi < http://www.cooperer.coop>.

COPIE, Community of Practices on Inclusive Entrepreneurship <www.cop.downloadarea.eu/home.html>.

CR DSU (Centre de Ressources sur le Développement Social Urbain) <www.crdsu.org>.

Dipartimento di Salute Mentale di Trieste <www.triestesalutementale.it>.

EMES European Research Network <www.emes.net>.

ENIL Italia Onlus <www.enil.it>.

EQUAL Community Initiative <ec.europa.eu/employment_social/equal>.

Governo del Regno Unito, sito dedicato all'impresa sociale <www.cabinetoffice.gov.uk/third_sector/social_enterprise.aspx>.

Rete Internazionale delle Pratiche di Lotta contro l'Esclusione Sociale <www.exclusion.net>.

U.S. Department of Health and Human Services (2003), Substance Abuse and Mental Health Services Administration <www.samhsa.gov>.

1.9 Note

1 Chi sono le persone vulnerabili? Sono vulnerabili tutti coloro che possono essere

"feriti" dai processi di cambiamento che attraversano le società della "modernità liquida" (Bauman, 2001 e succ.); sono le persone che non riescono ad accedere alla pienezza dei diritti, o che rischiano facilmente di trovarsi in questa condizione in seguito ad un evento occasionale ma importante (incidenti,

28

malattie…). Le normative nazionali ed europee identificano diverse categorie di cittadini "disabili" o "svantaggiati": i riferimenti principali sono la L. 68/1999 ("Norme per il diritto al lavoro dei disabili"), art. 1; la L. 381/1991 ("Disciplina delle cooperative sociali"), art. 4; il "Regolamento della Commissione Europea n. 68 del 12 gennaio 2001 relativo all'applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE sugli aiuti destinati alla formazione". Ma la nozione di vulnerabilità va probabilmente al di là di queste categorie normate con provvedimenti legislativi.

2 Il movimento per la Vita Indipendente nasce negli Anni Settanta, negli Stati Uniti, per rispondere alle esigenze di autonomia di persone obbligate a confrontarsi con gravi difficoltà fisiche e motorie. Per informazioni più dettagliate si veda il sito di ENIL Italia Onlus (sitografia).

3 L'autore centrava allora il suo lavoro su due tipologie di organizzazioni: le workers co-operatives, analoghe alle cooperative italiane di produzione e lavoro, e quelle che definiva come Community Enterprise, cioè organizzazioni legalmente riconosciute che, in qualità di società appartenenti e controllate dalla comunità, sostengano la popolazione residente nello sviluppo di nuove iniziative, gestiscano progetti ed imprese commerciali e sociali, distribuiscano profitti e benefici alla comunità, siano gestite democraticamente attraverso un sistema di partecipazione aperto ed utilizzino metodi di revisione/rendicontazione sociale (social audit) per stabilire obiettivi, progettare iniziative e misurare i risultati conseguiti.

4 La "bottom line", nel linguaggio contabile anglosassone, è la "linea finale" del conto economico, quella dove si tirano le somme. Di qui il significato figurato di "risultato di bilancio": economico, ma poi anche sociale ed ambientale.

5 Come in De Leonardis, Goergen (1988) o nell'intervista a F. Rotelli "Dall'ergoterapia all'impresa sociale", in Torresini (a cura di), 1990.

6 Come nella relazione introduttiva di F. Rotelli, "Per un'impresa sociale", al convegno “L’impresa sociale”, Parma, 1991 (Rotelli, 1994), o in De Leonardis, Mauri, Rotelli, 1994.

7 Intervista a F. Rotelli, "Lo scambio sociale", in Gallio (a cura di), 1991.

8 Confederation of European Social Firms, Employment Initiatives and Social Co-operatives (si veda sitografia).

9 Dalla dichiarazione adottata dall'Assemblea generale del CEFEC nel 1996.

10 Il 2 luglio del 1901 veniva pubblicata sul Journal Officiel de la République Française la LOI relative au contrat d’association, cui ancora oggi viene attribuito

29

un grande valore nello sviluppo democratico della società francese (Le Monde, 21 giugno 2001).

11 La legislazione slovena attribuisce lo status di “impresa per invalidi” ad aziende che abbiano almeno 5 dipendenti, il 40% dei quali sia in una condizione riconosciuta di disabilità.

12 Nel 1999 risultavano censite 22 social firms e 50 emerging social firms, 18 agenzie o organizzazioni di supporto, sei network regionali ed una struttura di supporto nazionale; fonte: Higgins, Gianniba 1999.

13 Il tema della cosiddetta dualizzazione dell’economia è noto agli osservatori, che rilevano il rischio che il Terzo Settore apra la strada ad un mercato del lavoro parallelo, caratterizzato dalla presenza di lavoratori dequalificati e sottopagati. Si vedano su questo tema gli atti del convegno “Terzo sistema e occupazione” (Commissione Europea, 1998), ed in particolare la sintesi conclusiva di David Coyne, Responsabile dell’Unità “Fondo Sociale Europeo e Sviluppo Locale”.

14 Su questo tema si vedano i dati riportati in Mattioni, 2005, ed in particolare le pagg. 73-85, "La centralità degli svantaggiati".

15 In particolare dalla L. 328/2000, "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali".

16 Il rapporto "Quatre rencontres transnationales – A report about the development process of social firms in Europe" (AA.VV., 1999) è stato realizzato alla fine degli Anni 90 da CO.IN Consorzio Cooperative Integrate, Social Firms UK, F.A.F. gGmbH e DROM, Consorzio Nazionale della Cooperazione Sociale, con il contributo della Direzione Generale Occupazione ed Affari Sociali della Commissione Europea.

17 Ma wise, in inglese, significa "saggio".

18 Si veda sitografia.

19 Secondo la legge n. 1351 del 2003 (riportata in Pättiniemi, 2006) un'impresa sociale è un'impresa che: - sia creata per impiegare persone con disabilità e disoccupati di lungo periodo; - realizzi prodotti e/o servizi orientati al mercato; - sia registrata nell'apposito Albo tenuto dal Ministero del Lavoro; - impieghi almeno un 30% fra persone disabili e disoccupati di lungo periodo, e

comunque almeno una persona con disabilità; - paghi a tutti i lavoratori dell'impresa, indipendentemente dalla loro condizione,

i salari stabiliti dai contratti nazionali di lavoro del proprio settore.

30

20 Non si deve commettere l'errore di considerare appartenenti a quest'ultima

categoria organizzazioni come le cooperative sociali di tipo b, che utilizzano strumenti quali borse di lavoro o work experience per la formazione "in situazione" dei futuri soci lavoratori svantaggiati. Esse, infatti, non "vendono" quest'attività al sistema pubblico, tant'è vero che non ne ricavano alcun compenso, esattamente come un'impresa for profit che ospiti uno stage.

21 Val qui la pena di riportare quanto scrivevano negli Anni 90, a proposito delle "imprese non-profit", De Leonardis, Mauri, Rotelli (1994): "All'ombra di questa formula c'è veramente di tutto: c'è l'ente mastodontico, che gode di un flusso ben rodato di finanziamenti pubblici e privati ed eroga assistenza psichiatrica moltiplicando cronicari che sono peggio dei vecchi (e sempre attuali) manicomi; e c'è la cooperativa di assistenza a sofferenti psichici messa su a fatica da un'associazione di famigliari; c'è il gruppo di self help di tossicodipendenti che ha avviato un'impresa, per esempio ha aperto un ristorante; e c'è la cooperativa sociale, per esempio una tipografia che ha inserito al lavoro, accanto ai soci "normodotati" la percentuale - prevista dalla legge - di soci disabili, per esempio tossicodipendenti; c'è il business non-profit, e c'è !'impresa di mutuo aiuto…".

22 Si veda sitografia.

23 Si veda sitografia, alla voce "Coopératives d’Activités et d’Emploi"; si veda anche Cerrato Debenedetti, Olivier, 2000.

24 Si veda sitografia.

25 Si veda, sul sito dell'Iniziativa Comunitaria Equal, l'articolo "La Commissione propone nuove opzioni per incoraggiare lo sviluppo del microcredito in Europa", pubblicato nel novembre 2007 al seguente indirizzo: <http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=IP/07/1713&format=HTML&aged=0&language=IT&guiLanguage=en>.

26 Gli altri sono costretti ad iscriversi alle liste per dimostrare di essere disoccupati allo scopo di ottenere e mantenere il diritto a percepire la pensione di invalidità (Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, 2006).