Etica nella tassazione: giustizia sociale ed uguaglianza tributaria

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO DIPARTIMENTO DI CULTURE, POLITICA E SOCIETA’ Campus Luigi Einaudi, Lungo Dora Siena 100 - 10153 Torino - Tel. 011-6702606 – Fax 011-6702612 Corso di Laurea Triennale in Scienze dell’amministrazione e consulenza del lavoro Prova finale ETICA NELLA TASSAZIONE: GIUSTIZIA SOCIALE ED UGUAGLIANZA TRIBUTARIA Candidato Relatore FEDERICO ZELFERINO FRANCO GABOARDI Matricola 748549 A. A. 2014/2015

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO

DIPARTIMENTO DI CULTURE, POLITICA E SOCIETA’ Campus Luigi Einaudi, Lungo Dora Siena 100 - 10153 Torino - Tel. 011-6702606 – Fax 011-6702612

Corso di Laurea Triennale in Scienze dell’amministrazione e

consulenza del lavoro

Prova finale

ETICA NELLA TASSAZIONE:

GIUSTIZIA SOCIALE ED

UGUAGLIANZA TRIBUTARIA

Candidato Relatore

FEDERICO ZELFERINO FRANCO GABOARDI

Matricola 748549

A. A. 2014/2015

INDICE

INTRODUZIONE .................................................................................................................. 4

CAPITOLO I

L’origine della tassazione: evoluzione del concetto di tributo nel corso dei secoli

e teorie filosofiche annesse in una prospettiva di indagine riferita ai parametri

costituzionali nazionali

1. BREVE INTRODUZIONE ED EVOLUZIONE STORICA DELLA TASSAZIONE… .6

2. RICOSTRUZIONE STORICA E IDEOLOGICA DELLE PREMESSE FILOSOFICHE

RIGUARDO ALLA NOZIONE DI TRIBUTO……………………………………… .. .11

2.1 L’ideologia liberale ......................................................................................................... 11

2.2 Il “revival” neoliberista .................................................................................................. 15

2.3 Le teorie filosofiche consequenzialiste, rawlsiane e quelle egualitariste ...................... 19

CAPITOLO II

La prospettiva interna: giustificazione costituzionale del tributo attraverso

l’analisi del principio di capacità contributiva

1. LA GIUSTIFICAZIONE ETICA DEL TRIBUTO IN ITALIA: CONFIGURAZIONE

“DEMOCRATICA” E ”COMUNITARIA” DELLA FISCALITÀ……………… ..... …25

2. IL DOPPIO CONCETTO DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA: VINCOLO RELATIVO

O VINCOLO ASSOLUTO………………………………………………………...... ... 29

3. FUNZIONE GARANTISTA E SOLIDARISTICA DEL PRINCIPIO DI CAPACITÀ

CONTRIBUTIVA: IL BILANCIAMENTO TRA GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA E

“INTERESSE FISCALE”……………………………………………………………... 36

CAPITOLO III

Il rapporto fra diritto di proprietà e diritti sociali: il minimo vitale, il limite

massimo ed il canone della progressività

1. IL MINIMO VITALE ED IL LIMITE MASSIMO .......................................................40

2. IL CANONE DELLA PROGRESSIVITA’.....................................................................51

CONCLUSIONI ................................................................................................................... 58

BIBLIOGRAFIA.................................................................................................................. 65

4

INTRODUZIONE

La “questione fiscale” ha sempre avuto un rilievo sociale e politico rilevante nella vita e

nell’azione degli Stati, essendo, infatti, un argomento che rinvia alla stessa concezione

di società, di Stato e di democrazia. Il problema della giustizia nell’imposta è stato

protagonista di feroci sedizioni e cruente rivolte, scoppiate nei secoli andati in ogni

Paese d’Europa come reazione all’ingiustizia tributaria, ed ha dato il via a molteplici

spinte propulsive del costituzionalismo nell’età moderna.

Le proteste fiscali hanno segnato l’inizio di numerose rivoluzioni e insurrezioni

che hanno caratterizzato la storia degli Stati: dal I secolo a.C., quando degli zeloti

residenti in Giudea si rifiutarono di pagare le tasse imposte dall'Impero romano - come

testimoniato dalla stessa Bibbia - passando per le rivoluzioni americana e francese ed

arrivando all’indipendenza dell’India. La campagna del Mahatma Gandhi per

l'indipendenza dell'India fu un importante esempio di reazione all’ingiustizia tributaria

ed ebbe uno dei suoi punti chiave in una protesta fiscale nei confronti degli occupanti

britannici. Ne nacque così una resistenza fiscale che ebbe il suo culmine nel 1930, con

la famosa e trionfale marcia attraverso l'India di Gandhi, il cui pensiero, a proposito, era

proprio quello di “rifiutarsi di pagare le tasse” poiché esso rappresenta “uno dei metodi

più rapidi per sconfiggere un governo”.

Tuttavia, il problema della giustizia in campo tributario nelle moderne

democrazie è stato oggetto di scontro anche sul piano dialettico ed ideologico. Il diritto

tributario, nell’accezione moderna, ha un solido fondamento costituzionale che affonda

le radici negli orientamenti filosofici e politici che, a partire dal diciannovesimo secolo,

hanno caratterizzato il dibattito scientifico ed influenzato profondamente le politiche

economiche degli Stati. Tali orientamenti, pur nati in seno alla medesima ideologia

liberale, a sua volta figlia delle istanze illuministiche, hanno finito per contrapporsi,

soprattutto in riferimento alla funzione che debba essere attribuita al tributo nell'ambito

del sistema Stato.

L’analisi che segue muove da queste considerazioni descrivendo inizialmente le

premesse filosofiche e storiche che hanno portato alla nascita del pensiero moderno

riguardo al sistema tributario e successivamente, con riguardo alla prospettiva interna,

come queste premesse abbiano influenzato la storia del diritto tributario italiano: dalla

nascita della Costituzione ai giorni nostri. Nell’ultimo capitolo vengono esaminate le

5

interrelazioni tra il fisco, i diritti sociali e i diritti proprietari nella Costituzione italiana;

queste, difatti, rappresentano un terreno fertilissimo per una riflessione scientifica sulla

funzione che il tributo assume nel nostro sistema statale. La funzione che l'imposizione

tributaria possa e debba svolgere nel contesto delle democrazie pluraliste del mondo

occidentale contemporaneo è infatti un tema sul quale si sono vivacemente confrontati,

negli anni, autorevoli studiosi del diritto tributario.

6

CAPITOLO I

L’ORIGINE DELLA TASSAZIONE:

EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI TRIBUTO NEL CORSO

DEI SECOLI E TEORIE FILOSOFICHE ANNESSE IN UNA

PROSPETTIVA DI INDAGINE RIFERITA AI PARAMETRI

COSTITUZIONALI NAZIONALI

SOMMARIO: 1. Breve introduzione ed evoluzione storica della tassazione – 2.

Ricostruzione storica e ideologica delle premesse filosofiche riguardo alla nozione di

tributo – 2.1. L’ideologia liberale – 2.2. Il “revival” neoliberista – 2.3. Le teorie

filosofiche consequenzialiste, rawlsiane e quelle egualitariste

1. BREVE INTRODUZIONE ED EVOLUZIONE STORICA DELLA

TASSAZIONE

Le origini delle prime forme di tassazione risalgono a diversi secoli fa, i reperti

archeologi1 attestano che già in epoca molto antica - a partire dalla civiltà dei Sumeri -

esistesse un sistema di tassazione primordiale, attraverso il quale i membri di una tribù

contribuivano alle spese comuni del gruppo: dal mantenimento del capo alle necessità in

caso di guerra2. Tuttavia, sicuramente, i tributi più onerosi erano quelli che venivano

imposti ai popoli vinti; a ragione di ciò, l’origine etimologica sia del termine tributo3

che imposta sembra che trovino la propria origine proprio in ciò che veniva richiesto dal

“vincitore” al popolo vinto come segno della sua resa e sottomissione.

1 Con la preparazione storica raggiunta oggi si può affermare che la tassa nella storia veniva

intesa come una prestazione d'opera, tale da potersi appunto sostituire al denaro (che infatti ancora non

esisteva); nell'antica Mesopotamia, per esempio, si iniziò presto a “tassare” i raccolti della terra e quel che

veniva prodotto dal bestiame. A. Charles, For God and Evil. L'influsso della tassazione sulla storia

dell'umanità, Liberilibri, 2008, analizza quale sia stata l'influenza della tassazione sull'economia, sulla

politica e sulla civiltà. L'autore ripercorre le vicende più significative della politica tributaria dei governi,

a partire dalle grandi civiltà del mondo antico, come Egitto, Grecia classica e Roma, fino ai nostri giorni. 2 Per approfondire tale trattazione la pubblicistica prevede il volume di G. Concetti, Etica fiscale.

Perché e fin dove pagare le tasse, Piemme, Alessandria, 1995, il quale compie una ricostruzione

antropologica della nascita dello Stato al fine di individuare i principi etici che governano, o dovrebbero

governare, i sistemi fiscali odierni. 3 Il termine tributum nacque nell’antica Roma, in seguito alla riforma della precedente

organizzazione gentilizia ad opera di Servio Tullio. L’etimo si rinviene nelle tribù, ossia circoscrizioni

territoriali in cui venivano divise città e contado, alle quali venivano imposte prestazioni pecuniarie

forzose, secondo i bisogni dello Stato.

7

A partire dalle prime forme di collettività organizzata, queste, raggiunto un

certo livello di organizzazione “statale”, necessitavano di reperire risorse fondamentali

per il loro funzionamento e conseguentemente di fissare criteri di riparto del relativo

onere tra i membri della comunità. La fiscalità, sostanziandosi in quel “potere

essenziale per la concreta attuazione delle funzioni derivanti dalla sovranità, ossia per

realizzare gli obiettivi di governo prefissati dal titolare del potere sovrano”4, si presenta

strettamente collegata al concetto di Stato affermatosi nei diversi contesti storici.

Condividendo tale argomentazione, il teologo Gino Concetti tiene a precisare

soprattutto che “non si comprenderà pienamente e rettamente il dovere fiscale se non lo

si inquadra e illustra nel concetto stesso dello Stato”5. La giustificazione

dell’imposizione tributaria, è, pertanto, caratterizzata da una relatività temporale e

spaziale, non potendosi ricercare un fondamento del fenomeno tributario unico e

universalmente condiviso.

Fu, comunque, soprattutto nella Res Publica e poi nell’Impero Romano che la

legislazione fiscale - composta, perlopiù, dal Codice Teodosiano e dalla codificazione di

Giustiniano (Istituzione, Codice e Digesto) - conobbe un enorme sviluppo, la quale,

grazie ad un continuo affinamento e ad un sistema fiscale ben strutturato, poté

sopravvivere per quasi mille anni alla caduta dell’impero romano d’occidente. Tale

“caduta”, sottolinea il teologo Giovanni Cereti, “aveva travolto anche il sistema fiscale

romano”6.

L’antichità e il medioevo erano contraddistinti da una incontrastata supremazia

del potere esercitato dal sovrano e dall’assenza di un rapporto tra valori individuali e

statali. La posizione dei contribuenti era quindi di soggezione assoluta e come si

espresse Ezio Vanoni a riguardo “è estraneo alla concezione che il cittadino

dell’antichità ha dei suoi doveri verso lo Stato, il pensiero di dovere sopportare

una contribuzione ordinaria per fare fronte ai bisogni normali dello Stato”7.

4 P. Boria, L’anti-sovrano. Potere tributario e sovranità nell’ordinamento comunitario,

Giappichelli, Torino, 2004, p. 53. 5 G. Concetti, Etica fiscale. Perché e fin dove pagare le tasse, cit., p. 9.

6 G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, Cittadella Editrice, Assisi, 2010, p. 14.

7 E. Vanoni, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, Cedam, Milano, 1932, in F. Forte,

C. Longobardi (a cura di), Opere giuridiche, I, Milano, 1961, p. 7, il quale osserva inoltre che “il

cittadino non poteva vedere nei versamenti fatti al fisco un sacrificio sopportato per il bene dello

Stato, ma soltanto un prelevamento operato dall’imperatore, in virtù del suo potere discrezionale”. G.

Vigna, Ezio Vanoni. Il sogno della giustizia fiscale, Rusconi, Milano, 1992, ha realizzato una importante

biografia su E. Vanoni affermando che “la storia ha ingessato Ezio Vanoni come il ministro della riforma

8

Pertanto l’imposta, in una situazione in cui il potere impositivo poteva essere esercitato

dal sovrano senza alcuna limitazione, veniva considerata, utilizzando un’espressione di

Bartolo da Sassoferrato, uno dei più insigni giuristi dell'Europa continentale del XIV

secolo, un “munus quod necessario subimus lege vel mero imperio eius qui habet

potestatem”, ovvero un sacrificio economico fondato solo e sempre su un rapporto di

potere incondizionato e incontrollabile fra il suo sovrano e ciascun suddito8.

La qualificazione del tributo quale strumento di partecipazione del singolo

ai carichi pubblici si affermerà solamente quando, con i processi rivoluzionari di

matrice illuministica che determinarono la nascita degli stati nazionali, ci fu lo

spostamento della sovranità sul “popolo”. La necessità di superare la concezione di

imposizione come attributo della sovranità e la volontà di perseguire un’equa

distribuzione dell’onere fiscale, abbandonando quella suddivisione in classi venutasi a

realizzare fin dall’alto medioevo9, furono fattori determinanti per il cambiamento nella

concezione di imposta. La petizione di una ripartizione dei pesi fiscali secondo

universalità ed uguaglianza, sfociata in seguito alla reazione all’ingiustizia tributaria, è

stata una delle vie più vigorose fra le molteplici spinte propulsive del costituzionalismo

nell’età moderna tanto da essere richiamata negli articoli 13 e 14 della “Dichiarazione

dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 26 agosto 178910

e successivamente delle

tributaria, anzi, più sbrigativamente e anche con un po’ di involontaria malignità, come il ministro delle

tasse e come il primo impositore in Italia dell’esigenza di una programmazione economica”. Tuttavia,

nonostante il ricordo affievolito dello statista, è celebre lo stralcio di articolo che il “New York Times”

scrisse all’indomani della sua morte:” Vanoni era, in maggior misura di qualsiasi altro uomo politico

italiano, vicino ad essere indispensabile e insostituibile”. 8 E’ doveroso notare che la definizione dell’imposta enunciata da molta dottrina contemporanea

non differisce da quella formulata dal giureconsulto Bartolo di Sassoferrato nel secolo quattordicesimo. A

sua volta, molto vicino a questa concezione, A.D Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario,

Utet, Torino, 1958, p. 58, fornisce una visione dell’imposta, molto vicina a quella di Bartolo, che

influenzò parte della cultura tributaristica italiana del ventesimo secolo: l’imposta è “la prestazione

pecuniaria che lo Stato, o altro ente pubblico, ha il diritto di esigere in virtù della sua potestà di impero,

originaria o delegata, nei casi, nella misura e nei modi stabiliti dalla legge allo scopo di conseguire

un’entrata”. 9 Sottolinea A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Parte I, Torino, 2005, p. 11, che

“la suddivisione in classi e la diversa attribuzione dell’onere fiscale, concentrato essenzialmente sul

“terzo stato”, corrispondeva ad un assetto socio-economico, venutosi a realizzare fin dall’alto medioevo,

ove a ciascuna classe si attribuivano specifiche “funzioni”, per la nobiltà e il clero apprezzate come

direttamene attuative di interessi generali, quindi surrogatorie della partecipazione ai carichi pubblici;

dopo l’avvento dello Stato assoluto e l’affermarsi di un’economia più moderna tale assetto si rivela però

inadeguato”. 10

L’Art. 13 recitava: ”Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese d'amministrazione,

è indispensabile un contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i cittadini, in

ragione delle loro sostanze.”; l’art. 14: ”Tutti i cittadini hanno il diritto di constatare, da loro stessi o

9

Costituzioni francesi del 1946 e 1958, fungendo poi da esempio per le costituzioni di

tanti Stati d’Europa.

Superando l’idea di un rapporto bilaterale tra sovrano e suddito, il tributo

iniziò quindi ad essere concepito come “contribuzione”, cioè come obbligazione di

riparto fra più soggetti alla comune spesa, poiché “nello Stato moderno, di fronte alla

concezione che tutti abbiamo della società e del dovere primo del cittadino di dare la

sua solidarietà all’ordinato svolgersi della vita civile, l'imposta non è, come scriveva

anni or sono uno dei migliori economisti italiani, il Pantaleoni, una taglia estorta

dai briganti; l’imposta non può essere intesa che come l’espressione del dovere morale e

civico che grava su ognuno di noi, di concorrere al bene della società”11

.

Alla luce di questo processo evolutivo che portò ad una nuova configurazione di

imposta, caratterizzata da una funzione di riparto, volta alla costituzione di una serie

coordinata di rapporti tra i contribuenti, nacque il problema della giustizia tributaria. Si

passò quindi da una concezione di tributo “autoritaria” ad una “democratica”,

abbandonando così quella configurazione atomistica dei rapporti d’imposta che aveva

impedito di cogliere la dimensione “comunitaria”12

dell’imposizione: solo “la miriade

di rapporti non atomisticamente intesi e non concepibili come isolate monadi,

attuano la funzione di giustizia nella ripartizione di un certo ammontare di spesa

pubblica componendo e regolando con perequazione il potenziale conflitto di

interessi tra platea dei soggetti passivi e l’ente pubblico.”13

In Italia, tale rinnovamento è stato codificato attraverso un primo riconoscimento

di un diritto di giustizia fiscale negli artt. 24, 25, 30 dello Statuto Albertino14

,

nonostante parte della dottrina, sostenitrice del modello “organicistico” in

contrapposizione a quello “giusnaturalistico”15

, condividesse ancora la definizione di

mediante i loro rappresentanti, la necessità del contributo pubblico, di approvarlo liberamente, di

controllarne l'impiego e di determinarne la quantità, la ripartizione e la durata.” 11

Così si espresse E. Vanoni nella seduta di discussione del Disegno di legge “Norme

sulla perequazione tributaria e sul rilevamento fiscale straordinario” del 27 luglio 1950, in www.senato.it. 12

Denomina appropriatamente “comunitaria” la funzione fiscale M.T Moscatelli, Moduli

consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, Giuffrè, 2007, p. 126. 13

G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Giuffrè, Milano, 2008, p. 24. 14

L’art. 24 recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi

alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e

militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi”; l’art. 25: “essi [i regnicoli] contribuiscono

indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato”; l’art. 30: “nessun tributo può

essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal Re”. 15

Molto brevemente, il modello organicistico è frutto dell’idea per la quale il potere politico,

imperium, procede dall’alto verso il basso e non viceversa poiché lo Stato è anteriore e al di sopra delle

10

imposta come prelevamento coattivo imposto a tutti coloro che soddisfano determinati

requisiti previsti dalla legge, e rifiutasse, perciò, di attribuire rilevanza giuridica al

problema della ripartizione ottimale dei carichi pubblici.

Tale dottrina ebbe la stessa reazione di rigetto, nei primi anni successivi

all’emanazione della Costituzione, in relazione al significato del disposto “tutti sono

tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”,

contenuto nell’art. 53 della nuova Carta fondamentale16

. L’espressione “capacità

contributiva”, afferma il giurista Franco Gaboardi, è “un’espressione che contiene

concetti anche di ordine filosofico-sociologico” e, proprio per tale motivo, “la dottrina

ha tentato di definire il suo ambito di applicazione e i suoi contenuti”17

. Alcuni autori

espressero, infatti, opinioni “svalutative” in merito al concetto di capacità contributiva,

a cui veniva attribuita scarsa rilevanza, tanto da essere definito “scatola vuota”18

,

“capace di essere riempita dei significati più vari”19

. Tali orientamenti rimasero tuttavia

minoritari, prevalendo in dottrina e nella giurisprudenza costituzionale20

, una

valorizzazione del principio di capacità contributiva quale principio fondante

l’imposizione, profondamente connesso all’idoneità, concreta ed effettiva,

dell’individuo a concorrere alle spese pubbliche.

sue parti. Riguardo al fenomeno tributario questa concezione ritiene che, quindi, il potere dello Stato in

materia di prelevamento è senza limiti e, coerentemente a ciò, il contribuente occupa una posizione di

soggezione poiché è lo Stato il titolare della sovranità finanziaria. Il pensiero giusnaturalista, invece,

ritiene che il cittadino è un associato e che deve l’imposta a titolo di contribuzione, unitamente a tutti gli

altri associati, membri del medesimo consorzio politico. 16

Per una approfondita analisi delle origini dell’art. 53 della Costituzione si rimanda a G.

Falsitta, Storia veridica, in base ai “lavori preparatori”, della inclusione del principio di capacità

contributiva nella Costituzione, in Riv. dir. trib., 2009, pp. 97 e ss. L’Art. 53 così recita:“ Tutti sono

tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è

informato a criteri di progressività.” 17

F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, Giuffrè, Torino, 2013, p. 105. 18

L. Einaudi, Prefazione a L.V. Berliri, La giusta imposta, Giuffrè, Roma, 1945; B. Griziotti

e parte della dottrina, rimasta però minoritaria, giungeva inoltre ad identificare la capacità contributiva

con il godimento dei pubblici servizi, in funzione dei quali si dovrebbe determinare il concorso dei

privati alle pubbliche spese. Tale concezione, che giustifica il prelievo secondo le regole del

mercato, è stata tuttavia oggetto di critiche in relazione alla necessaria valutazione della

compatibilità con altri valori insiti nella Costituzione, derivandone l’impossibilità di individuare

criteri di distribuzione dei carichi pubblici dipendenti dall’utilità arrecata a ciascuno dall’erogazione dei

servizi pubblici. 19

F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., p. 105. 20

Si deve osservare come nel tempo i giudici costituzionali abbiano assunto posizioni

contrastanti e come spesso gli stessi preferiscano non esporsi sulla portata effettiva del principio,

rifugiandosi in escamotages formalistici. Per una visione d’insieme dell’evoluzione della giurisprudenza

della Corte costituzionale in tema di capacità contributiva: G. Marongiu, Il principio di capacità

contributiva nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Dir. prat. trib., 1985, pp. 233 e ss.

11

La rinascita dell’indirizzo “svalutativo” verificatasi a partire dalla fine degli

anni ottanta, o meglio “neo-svalutativo” poiché muove argomentazioni più analitiche e

sofisticate di quelle che supportavano in origine il primo orientamento svalutativo,

impone la necessità di soffermare l’attenzione, nel secondo capitolo, sull’analisi delle

due opposte concezioni di capacità contributiva, analizzando, così, la base del

contrasto dialettico in atto tra le diverse posizioni dottrinali.

2. RICOSTRUZIONE STORICA E IDEOLOGICA DELLE PREMESSE

FILOSOFICHE RIGUARDO ALLA NOZIONE DI TRIBUTO

2.1 L’ideologia liberale

Nella successione storica il tributo, inteso come istituto giuridico, trova diverse

giustificazioni legate perlopiù alle politiche economiche degli stati a seconda che esse

siano improntate all’uno o all’altro dei due tradizionali e più importanti filoni

dell’ideologia liberale. In merito ciò, Franco Gallo, trentaseiesimo Presidente della

Corte Costituzionale della Repubblica, afferma che l’ideologia liberale si suddivide in

due indirizzi contrapposti: “quello, liberista classico, più incline a privilegiare i diritti

proprietari a fronte dell’interesse pubblico al prelievo e a svalutare l’interesse statale,

regolatore e di mediazione e quello, all’opposto, egualitario e welfaristico, repulsivo del

modello dello “stato minimo”21

e rivalutativo delle regole fiscali distributive rispetto ai

diritti proprietari medesimi.”22

Il primo orientamento, sulla spinta dell’individualismo possessivo lockeano, è

stato seguito dagli stati liberali italiani pre-unitari dell’Ottocento quando era dominante

la teoria e la pratica del laissez faire e del laissez passer23

. Questa “forma di

21

Si parla di stato minimo per sottolineare la caratteristica propria dello Stato liberale di porsi

come unico obiettivo la tutela dei diritti fondamentali. Infatti, al contrario dello Stato sociale, quello

liberale predilige il rispetto e la salvaguardia dell'iniziativa privata in opposizione ad ogni tentativo di

dirigismo statale. Il compito fondamentale non è quello di perseguire forme di eguaglianza sostanziale,

ma di limitarsi unicamente a quelle di eguaglianza formale. Ne consegue l'idea di un apparato

"alleggerito", incentrato sulla tutela di pochi diritti essenziali ed in grado di lasciare la massima libertà

all'iniziativa dei singoli. Lo Stato minimo dovrebbe, quindi, garantire i servizi relativi alla giustizia, al

diritto e alla protezione. 22

F. Gallo, Etica e giustizia nella tassazione, in Riv. dir. int., 2007, pp. 12 e ss. 23

Massima, attribuita all’economista J.de Gournay, che nel diciottesimo secolo costituì una sorta

di slogan per i fisiocrati e i liberisti nella loro campagna rivolta a ottenere l’abolizione di ogni vincolo

12

liberalismo”, scrive Cereti, “riteneva che lo sviluppo economico esigesse che le imposte

fossero ridotte al massimo, e che fossero giustificate soltanto per assicurare allo stato i

mezzi per garantire la sicurezza del cittadino e la difesa della sua proprietà”24

. Secondo

tale orientamento, non ammettendo incisive intrusioni dello stato nella società civile, si

identificava la persona con i diritti proprietari e il patrimonio dell’individuo aveva una

propria, naturale legittimazione morale. Pertanto, si considerava ingiusta ogni forma di

“prestazione imposta” che non fosse ispirata al criterio del beneficio25

: non costituisse

cioè, in un ottica contrattualistica, remunerazione del godimento di pubblici servizi resi

ai privati; dunque, il tributo, ha assunto, nella sostanza e in termini economicistici,

soprattutto, la forma e la sostanza del corrispettivo.

L’inevitabilità di questa conclusione è dettata dal fatto che “a quell’epoca la

divaricazione fra pubblico e privato, fra stato e società borghese e la tutela assoluta della

libertà individuale, da una parte, imponevano allo stato di limitarsi a correggere gli

estremi dello stato di natura26

e a tutelare la sicurezza pubblica e la proprietà

individuale; dall’altra, gli vietavano sul piano economico-finanziario sia di acquistare e

conservare capitali, sia di controllare i conti dei privati, sia di gestire industrie o

commerci”27

.

Per quanto riguarda la legittimazione dell’imposta legata alla volontà popolare,

espressa attraverso i rappresentanti della categoria di appartenenza, lo slogan “no

taxation without representation” era normalmente meglio percepito dai contribuenti non

come uno strumento di democrazia atto a dar la voce in politica, ma essenzialmente nel

senso negativo che “le tasse imposte senza consenso erano un tipo di confisca che

distruggeva i diritti proprietari”28

.

La mancanza di compenetrazione fra stato e società, motivata

dall’organizzazione politica della civiltà liberale dell’epoca, e questa protezione “piena”

imposto dallo stato all’attività economica, e divenuta quindi simbolo del liberismo economico; la sua

origine più remota va ricollegata alla risposta Laisseznous faire, data dal mercante Legendre al ministro

J.B. Colbert che chiedeva cosa si poteva fare per aiutare il commercio. 24

G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., pp. 14 e ss. 25

Per approfondire , vedi F. Gaboardi, nel già citato Riflessioni intorno alla finanza pubblica, p.

73, ne da una definizione chiara affermando che “la regola del beneficio” è “basata sul principio del quid

pro quo o del do ut des: al beneficio economico del cittadino, corrisponde subito, od in un momento

successivo, il beneficio economico dello Stato(o viceversa) ”. 26

J. Locke, The second Treatise on Civil Government, London, 1690, cap 5 (trad. it. Due trattati

sul governo, Torino, 1948, p .335). 27

F. Gallo in, Etica, fisco e diritti di proprietà, in Rass. trib., 2008, pp. 11 e ss. 28

J.W .Ely jr, The Guardian of Every Other Right, New York-Oxford, 1998, p. 27.

13

della persona e dei diritti proprietari hanno prodotto correlati sistemi normativi basati

sulla proporzionalità (piuttosto che ispirati alla progressività), con schemi attuativi della

norma tributaria che non contemplavano in punto di fatto ispezioni, accessi e

sopralluoghi presso il domicilio o presso il luogo in cui il contribuente svolgeva la sua

attività.

La storia dei rapporti fra proprietà e tributo muta verso la fine dell’Ottocento,

quando con il sorgere dei movimenti socialisti, comincia timidamente ad emergere

quell’importante filone del pensiero liberale che riconosce allo Stato un qualche ruolo di

mediatore e distributore. Il secondo importante filone del pensiero liberale e cioè il

pensiero rivalutativo del ruolo sociale dello stato e della sua funzione di riparto e

redistribuzione ha infatti trovato poi la sua definitiva affermazione dopo la seconda

guerra mondiale. Con l’abbandono delle teorie contrattualistiche e l’avvento dello stato

di diritto (democratico), infatti, ha preso via via piede l’idea di uno stato meno neutrale

e più articolato, che riconosca nella proprietà privata una funzione sociale e che cerchi

di attuare anche una maggiore giustizia sociale all’interno delle singole società.

“La dottrina liberale dominante per tutto l’Ottocento”, scrive il presbitero

genovese Giovanni Cereti, che “considerava la libera iniziativa e il diritto di proprietà

privata come un assoluto intangibile di cui non si intravedeva ancora la funzione

sociale“ - difesi per salvaguardare “la dignità ed i diritti della persona umana contro le

intromissioni e gli abusi degli apparati statali” - viene progressivamente sostituita, o

perlomeno affiancata, da “una nuova visione che impose di riconoscere la funzione

sociale della proprietà. Essa non è legata solo al fatto che siamo chiamati a condividere i

beni della Terra con gli abitanti del pianeta, ma soprattutto alla convinzione che la

proprietà è data anche per metterci in grado di rendere un servizio concreto al prossimo.

In questa nuova concezione la produzione di un reddito non può essere destinata solo al

bene del singolo e dei suoi famigliari ma deve andare a vantaggio di tutta la

collettività.”29

Tuttavia in un primo momento e fino all’avvento del fascismo lo stato si

presenta ancora come garante delle situazioni giuridiche soggettive della persona e ha,

perciò, fra le sue funzioni più importanti quella di far rispettare i diritti proprietari,

senza darsi eccessivo carico di quelli sociali. La caratteristica di tale momento storico è

data dal fatto che lo stato “pur continuando ad avere la funzione di assicurare il rispetto

29

G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 71.

14

di tali diritti, nella sua autorità di stato titolare a sua volta di un diritto naturale di

imposizione è tuttavia abilitato a condizionarli e a limitarli, a condizione che ciò

avvenga con il consenso dei cittadini incarnato nella legge”30

.

Dopo la parentesi autoritaria e la seconda guerra mondiale, con l’aumentare

delle esigenze sociali, si verifica una ulteriore evoluzione istituzionale31

, che porta a

estendere la funzione di garanzia dello stato ai diritti positivi di libertà e a fare, perciò,

emergere con chiarezza il suo ruolo distributore e redistributore dei carichi pubblici

(anche) a mezzo della tassazione. In un regime democratico, infatti, la tassazione ha lo

scopo di assicurare allo stato il flusso di denaro da impiegare in tutte quelle operazioni e

iniziative che sono vantaggiose per i cittadini, che promuovono, pertanto, il bene

comune. Si impone cioè il modello dello stato sociale dove i tributi trovano la loro

giustificazione in un’ottica distributiva e non corrispettiva ed hanno fondamento, in una

prima fase, nella sovranità (fiscale) dello Stato e, più avanti nel tempo - in regime di

suffragio universale e di democrazia costituzionale - nel dovere contributivo inteso

come dovere di solidarietà, a fronte del quale si pone l’esercizio, a fini fi riparto, di una

potestà legislativa di imposizione collegata alla manifestazione di una specifica capacità

contributiva. Come sottolinea Cereti: “non si pagano le tasse perché lo stato lo impone e

non soltanto perché ci si ripromette di ricevere dallo stato servizi in contraccambio”,

bensì “la motivazione profonda è che si pagano le tasse perché si è e si vuol essere

solidali tutti con uno e uno con tutti, e perché nella società armonicamente organizzata

si raggiunge il massimo dello sviluppo e del benessere individuale e comunitario.”32

Ciò ha segnato l’inizio di quella che Sergio Steve ha chiamato l’era della

“finanza della riforma sociale”33

, di quella finanza, cioè, che affida all’imposizione sia

la funzione di riparto dei carichi pubblici, compresa quella redistributiva, sia la funzione

compensativa dei cicli economici sfavorevoli; in cui il sistema fiscale deve proporsi

come, almeno potenziale, fattore di equità e di giustizia sociale.

30

F. Gallo, La funzione del tributo ovvero l’etica delle tasse, Giuffrè, Torino, 2009. 31

In merito a ciò, G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 70, ritiene che

proprio “questo progressivo allargamento dei compiti riconosciuti allo stato nella società contemporanea

è stato reso possibile anche da un cambiamento intervenuto nel concetto di proprietà”. 32

Ivi, p. 101. 33

S. Steve, Lezioni di scienza delle finanze, Padova, 1976, p. 8.

15

2.2 Il “revival” neoliberista

Nonostante l’evoluzione del quadro normativo verso sistemi fiscali con funzione

nettamente distributiva e redistributiva dei carichi pubblici, soprattutto nell’ultimo

ventennio si sono riproposti con grande forza in Italia - a livello sia scientifico che di

polemica politica - contrari orientamenti liberisti; i quali hanno trovato un favorevole

humus nella generale riprovazione delle politiche assistenziali eccessivamente

dispendiose degli anni settanta e ottanta e nella forte richiesta di minore pressione

fiscale, di più mercato e di superamento della crisi fiscale dello Stato attraverso la forte

riduzione delle spese sociali, necessarie per il sostegno del contestato welfare state34

.

Prende le distanze da queste teorie Giovanni Cereti, il quale, ritiene che “la critica allo

stato sociale, al welfare state” è “troppo spesso legata all’affermazione egoistica del

privato e della sua inefficienza”. Egli, tuttavia, ammette che tale critica “ha delle ragioni

nella denuncia di difetti appartenenti alla sfera pubblica, dagli sprechi, agli eccessi di

burocratizzazione, al sistema delle tangenti a favore dei politici”, ma ritiene che

debbano essere necessariamente corretti “dal modello di stato di forte ispirazione etica e

solidaristica”35

quale è lo “stato sociale” così ispirato.

Ritornando alla visione neoliberista, il tributo, in essa, viene considerato come

un fattore di alterazione del diritto fondamentale di proprietà, a sua volta base ed

34

Nel prima citato F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, possiamo individuare

alcune definizioni di welfare state esposte da autorevoli studiosi come Briggs, Wilensky, Alber e Ferrera.

Briggs ha proposto la seguente: “Il welfare state è uno Stato in cui il potere organizzato è usato

deliberatamente (attraverso la politica e l’amministrazione) allo scopo di modificare le forze del mercato

in almeno tre direzioni: primo, garantendo a individui e famiglie un reddito minimo indipendentemente

dal valore di mercato della loro proprietà secondo, restringendo la misura dell’insicurezza mettendo

individui e famiglie in condizione di fronteggiare certe «contingenze sociali» (per esempio, malattia,

vecchiaia e disoccupazione) che porterebbero a crisi individuali e familiari terzo, assicurando ad ogni

cittadino senza distinzione di classe o status i migliori standard disponibili in relazione a una gamma

concordata di servizi sociali”. Un’altra definizione molto citata in letteratura è quella di Wilensky, per il

quale “l'essenza del welfare state risiede nella protezione da parte dello stato di standard minimi di

reddito, alimentazione, salute e sicurezza fisica, istruzione e abitazione, garantiti ad ogni cittadino come

diritto politico, non come carità”. Una più recente si deve a Alber per il quale: “Il termine welfare state

designa un insieme di risposte di policy al processo di modernizzazione, consistenti in interventi politici

nel funzionamento dell’economia e nella distribuzione societaria delle chances di vita; tali interventi

mirano a promuovere la sicurezza e l’eguaglianza dei cittadini al fine di accrescere l’integrazione sociale

di società industriali fortemente mobilitate”. M. Ferrera nel saggio Modelli di solidarietà, partendo

dall’etichetta formulata da Alber e alla luce delle considerazioni svolte sulla stessa, ne integra e

semplifica il significato, proponendo la seguente: “Il welfare state è un insieme di interventi pubblici

connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza,

assicurazione e sicurezza sociale, introducendo fra l’altro specifici diritti sociali nel caso di eventi

prestabiliti nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria”. 35

G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 93.

16

espressione della persona e della sua libertà individuale e limite, solo eccezionalmente

valicabile, alla tassazione. Pertanto, pur non potendo giungere, per evidenti ragioni sia

storiche che economiche e politiche, a riportare l’imposizione allo schema ottocentesco

di prelievo-controprestazione, viene sminuita la funzione distributiva dell’imposizione,

per apprezzare il criterio del beneficio e della proporzionalità. In questo contesto si

afferma ”il diritto naturale e originario dell’individuo all’intangibilità della sua proprietà

e alla conservazione della maggior parte dei frutti del suo lavoro”, pertanto viene

concesso “all’ente pubblico (stato, regioni ed enti locali) di prelevare, attraverso lo

strumento del tributo, solo quando è strettamente necessario per finanziare il costo della

tutela della proprietà stessa e l’offerta di beni pubblici classici(servizi giudiziari,

polizia, difesa) e poco altro ancora”36

e, in genere, per il finanziamento delle cosiddette

libertà negative37

escludendo dal finanziamento tramite imposte la gran parte dei

fondamentali diritti positivi, sociali e civili. La visione riduttiva del ruolo del tributo e

della funzione accertatrice trova indirettamente un ulteriore sostegno nel processo di

globalizzazione, il quale processo, esautorando lo stato di una parte rilevante delle sue

prerogative a vantaggio del “privato”, imporrebbe di riservare a esso solo la

imprescindibile garanzia dell’ordine pubblico e di porre, conseguentemente, a suo

carico solo il finanziamento della relativa spesa. Riguardo agli “effetti pluridirezionali”

della globalizzazione interviene l’avvocato ed ex deputato Vittorio Emanuele Falsitta

affermando che in un contesto “globalizzato”, quale è il nostro, “i regimi fiscali

appartenenti a paesi diversi entrano in concorrenza e cercano di ridurre il livello di

pressione tributaria sui fatti reddituali e di consumo” cosicché “le imprese” si spostino

36

F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, Il Mulino, Bologna, 2011, pp.

25 e ss. 37

Con l'espressione libertà negativa si indica uno dei principi base del pensiero liberale. In uno

stato liberale, infatti, l'individuo è libero dai vincoli che un soggetto può imporgli, ed è garantita

l'iniziativa personale, come, ad esempio, scrivere liberamente su un giornale, oltrepassare senza

impedimenti i confini nazionali, oppure avviare un'attività commerciale senza essere soggetto a

costrizioni o ostacoli. La libertà negativa è intesa come non-interferenza del potere statale sulle azioni

individuali: l'individuo è tanto più libero quanto più lo stato omette di regolarne la vita. La scarsità di

vincoli è dunque inversamente proporzionale all'esercizio della libertà negativa. La distinzione teorica,

sulle orme di Kant, tra libertà "di" (positiva) e libertà "da" (negativa) è stata introdotta per la prima volta

dal filosofo liberale Isaiah Berlin, professore di teoria sociale e politica a Oxford e presidente della British

Academy. Il concetto di libertà negativa venne espresso in modo completo per la prima volta dal filosofo

Hobbes e ripresa dall' inglese John Locke, nell'opera Due trattati sul governo, per merito del quale, con la

fondazione del pensiero liberale, furono enunciati per la prima volta i diritti umani basilari.

Complementare ad essa in uno stato socialista è la libertà "di", o libertà positiva. Il concetto di libertà

negativa si comprende infatti anche nel confronto con quello di libertà positiva, ascrivibile a Rousseau e

al recente comunitarismo, che valuta la libertà nell'ottica della partecipazione degli individui alla

produzione delle leggi che essi stessi devono rispettare, quindi in senso positivo.

17

“geograficamente” diventando “contribuenti dove le imposte sul reddito sono più

attenuate”38

. L’adesione al neoliberismo ha portato a considerare – quanto meno sul

piano dell’enunciazione politica - sia posizioni di capitalismo protezionista, sia

all’estremo, per quanto riguarda specificatamente la politica fiscale, posizioni di

esasperata deregulation, di lotta all’imposizione in sé. A ragione di ciò si tollera

(addirittura) una relazione stabile fra il fenomeno evasivo e la pressione fiscale in cui si

dimostra una quasi “comprensione politica” per il primo in ragione dell’alto livello della

seconda.39

Storicamente, queste teorie hanno anche ascendenti più prossimi, rispetto a

Locke40

, radicati nell’individualismo giusnaturalista ottocentesco e più

specificatamente, nell’ordoliberalismo tedesco e nel costituzionalismo liberale

hayekiano, che vedono il mercato come un “ordine spontaneo” che riesce ad

armonizzare in maniera, appunto, spontanea le decisioni dei produttori con la volontà e

coi desideri dei consumatori, senza la mediazione del governo, e che assicuri il

perseguimento dei propri scopi a tutti, sviluppando altresì quella che Hayek chiama la

“Grande Società”41

- cioè la moderna società complessa - che sfugge a ogni

pianificazione centralizzata poiché si affida solo all’iniziativa individuale e al

meccanismo della concorrenza. Tali correnti di pensiero considerano, di conseguenza, i

diritti proprietari come libertà naturali, pre-politiche e pre-istituzionali, che si traducono

sul piano giuridico in una “sorta di pretesa ostile verso terzi” da parte del soggetto che

ne è titolare e in un certo qual modo indipendenti dal loro riconoscimento

costituzionale.42

38

V.E. Falsitta, Fiscalità ed etica, Università Bocconi Editore, Milano, 2006, p. 33. 39

Silvio Berlusconi, 17 Febbraio 2004, conferenza stampa Palazzo Chigi: ”Se si chiede una

pressione del 50% ognuno si sentirà moralmente autorizzato ad evadere” […] “c’è una norma del diritto

naturale per la quale, se si chiede di pagare il doppio delle imposte, questo è qualcosa che può essere

ritenuto ingiusto e che può indurre qualcuno a sentirsi autorizzato a non pagare le tasse ”. 40

J. Locke, The Second Treatise, cit., cap.5. La difesa da parte di Locke dei diritti individuali di

proprietà aveva, però, allora come apprezzabile obiettivo- poi realizzato con la rivoluzione francese- la

liberazione dell’individuo dal “potere feudale e da quello arbitrario del sovrano”. Per l’individualismo

possessivo di Locke, in particolare, la proprietà dei beni terreni, trasmissibile attraverso l’istituto

dell’eredità, è diretta a escludere a vantaggio del proprietario e del suo spirito di autoconservazione ed è

perciò, distinta dalla sovranità, la quale ha sì per fine la conservazione del diritto e della proprietà, ma non

costituisce un bene privato del sovrano. 41

F. von Hayek, La via della schiavitù, trad. di Dario Antiseri e Raffaele De Mucci, Rusconi,

Milano, 1995. 42

F. Gallo, Giustizia e Riforma Fiscale, in Oss. it., 2003, pp. 847 e ss.

18

Questi assunti sulla originalità e naturalità del diritto proprietario e sul drastico

ridimensionamento dell’intervento pubblico distributivo hanno trovato forse la migliore

espressione, nel 1974, nella teoria del c.d. “titolo valido” coniata da Robert Nozick43

.

Per tale pensatore i diritti proprietari sono un elemento strutturale del diritto di libertà

individuale44

: ad ogni individuo verrebbero attribuiti, al momento della nascita, i diritti

fondamentali ed intangibili, alla disponibilità quasi esclusiva dei frutti del suo lavoro.

Secondo la sua teoria deontologica nessuna redistribuzione di ricchezza sarebbe

ammissibile da parte dello stato attraverso l’imposizione, neanche col consenso

unanime dei cittadini, perché essa interferirebbe con la dinamica del mercato e quindi,

nella sostanza, con il principio di libertà.

Tale scuola di pensiero va collegata ed è in parte conseguente, sul piano delle

dottrine economiche, alla reazione alle teorie keynesiane e roosveletiane dominanti nel

secondo dopoguerra. Fra i maggiori esponenti troviamo Ronald Coase e Milton

Friedman, i quali, sulla scia anche del pensiero da Friedrich Von Hayek, hanno

contribuito alle teorie liberiste, rilanciando le c.d. ”politiche dal lato dell’offerta” 45

ovvero quelle politiche che prescrivono il taglio delle tasse come rimedio ad ogni male

economico e come ricetta infallibile per la ripresa e sottolineando, nel contempo,

l’inefficienza della grande spesa pubblica, i limiti e le prodigalità delle politiche statali

di piena occupazione e l’inidoneità dei governi a risolvere i problemi della società.

Seguendo questa logica di pensiero, si è giunti addirittura a sostenere che

“abolizione del settore pubblico significa che tutti i pezzi di terra, tutte le aree

territoriali, incluse strade e vie di comunicazione, siano possedute privatamente da

individui, imprese, cooperative, o qualsiasi altro raggruppamento volontario di individui

e capitali […]. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è ri-orientare il nostro pensiero sino a

prendere in considerazione un mondo in cui il territorio sia posseduto privatamente”46

.

Sul fronte prettamente fiscale, il descritto “revival” neoliberista ha prodotto prese di

43

Il pensiero di Nozick, contraddistinto da una visione fortemente minimalista dell’intervento

pubblico redistributivo, diverge da quelle teorie aventi come referente storico il consequenzialista Hume,

le quali, pur non disconoscendo l’importanza dei fondamentali diritti proprietari, li considera tuttavia una

mera conseguenza di leggi, regolamenti e norme, anche informali, che hanno come fine la tutela di altri

rilevanti valori sociali ed economici, espressione del “nuovo Welfare State”. 44

Libertà che può definirsi negativa e cioè libertà come assenza di impedimento alle azioni e al

possesso di un individuo da parte di altri individui e dello stato. 45

L’economista statunitense e vincitore del premio Nobel per l'economia nel 1970, Paul

Samuelson, definisce ironicamente tali politiche “voodoo economics”. 46

M.M. Rothbard, For a new liberty, Chicago,1973, pp. 220-221.

19

posizione piuttosto forti, tali da mettere in discussione la giustificazione morale e

solidaristica del principio stesso di tassazione. E in modo esplicito Richard Epstein47

-

quasi dimenticando la ricordata faticosa evoluzione della nozione di tributo in termini

distributivi - ha affermato che il potere di imposizione non è altro che una forma di

“espropriazione senza indennizzo” e una confisca “senza causa”, aggiungendo che ”la

tassazione è prima face una requisizione della proprietà privata”.

2.3 Le teorie filosofiche consequenzialiste, ralwsiane e quelle egualitariste

Alla rediviva visione minimalista dell’intervento pubblico si sono contrapposte le teorie

liberali consequenzialiste, riconducibili storicamente soprattutto al pensiero di Hume48

.

Queste teorie, afferma Gallo, “riconoscono l’importanza dei diritti proprietari quali

garanzia delle libertà individuali, ma li sganciano tuttavia dalla persona considerandoli

una mera conseguenza di leggi, anche fiscali, che hanno come fine anche la tutela di

altri rilevanti valori sociali ed economici”49

. Da ciò, deriva un’idea di proprietà come

istituto fondato sul criterio dell’appartenenza, ma nello stesso tempo legato ad un

sistema complesso di obbligazioni sociali e rispondente al principio di giustizia

distributiva.

Senza essere necessariamente consequenzialista, un moderno pensatore come

Rawls - che è stato nel Novecento uno dei maggiori teorici del principio di giustizia e

delle opportunità sociali - valorizza, con la libertà dell’individuo, il ruolo della

responsabilità collettiva e della giustizia come equità distributiva e richiama la necessità

di dare priorità ai miglioramenti delle condizioni dei più svantaggiati rispetto a quelle

dei più ricchi (secondo il noto principio del “maximin”). Tale ordine di idee che

presuppone “la necessaria condivisione” dei redditi con “le fasce più disagiate della

popolazione”, secondo Concetti, “tende a sottolineare” così sia “la solidarietà che deve

esistere fra le persone all’interno delle comunità” sia “il dovere dello stato di

intervenire per favore una maggiore eguaglianza fra tutti i cittadini”50

. Il che, secondo la

47

R. Epstein, Takings, Cambridge, 1985, p. 100. 48

D. Hume, Trattato sulla natura umana, trad. it., in Opere filosofiche, vol. I, Roma-Bari, 1992. 49

F. Gallo, Etica e giustizia nella “nuova” riforma tributaria, Politica del diritto, n.4, 2003, pp.

3 e ss. 50

G. Concetti, Etica fiscale. Perché e fin dove pagare le tasse, cit., p. 18. Contrariamente a

questo indirizzo, Concetti, definisce lo schieramento del pensiero neoliberista come quello che continua a

20

teoria rawlsiana del “disinteresse reciproco”, in sintonia su questo punto con le teorie

consequenzialiste e in netta contrapposizione alle teorie liberiste, presuppone la

divaricazione tra ciò che alla persona appartiene e ciò che è la persona in quanto

individuo sociale titolare di diritti e doveri.

Anche altri pensatori post-consequenzialisti, come Amartya Sen51

, arrivano alle

stesse conclusioni del neocontrattualista Rawls sul punto della giustizia distributiva e,

soprattutto della considerazione della persona (“divaricata” dalla proprietà) quale

individuo sociale. Alla base del pensiero di Sen c’è l’opinione, comune alle costituzioni

dei paesi europei, che è dello stato la responsabilità ultima sia nell’individuazione e

rimozione delle cause di ingiustizia distributiva, sia nell’elargizione pubblica diretta di

servizi, sia infine nel reperimento - con imposta progressiva - delle entrate necessarie a

finanziare detti servizi e a garantire, comunque, una soglia minima di benessere nella

dignità. Il quale stato, nel perseguire un ragionevole equilibrio fra i principi di libertà, di

eguaglianza e di solidarietà, deve altresì preoccuparsi che l’utilizzazione dei suddetti

beni e servizi e la fruizione di tali benefici siano consentiti e garantiti a chiunque non

certo in modo uniforme bensì adeguandoli alla “capacità” differenziata e al progetto di

vita che l’individuo vuole seguire (human functioning)52

.

In merito al pensiero di tale corrente storica-ideologica, il giurista Franco Gallo

offre una mirabile sintesi affermando che: “in questo contesto di “uguaglianza di

capacità” e di “equa differenziazione “ il tributo, quasi paradossalmente, limita la libertà,

i diritti proprietari e le stesse potenzialità economiche dell’individuo, e in ciò sta

indubbiamente un sacrificio53

individuale”, ma congeniato “per aumentare la libertà

“privilegiare la proprietà privata e i suoi diritti, oltre che la libertà dell’individuo di agire anche in campo

economico senza troppi vincoli o balzelli”. 51

A.K. Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, trad. it.,

Milano,2000. 52

E’ questa la visione tendenzialmente egualitaria della welfare community che viene definita

dello “sviluppo umano”, sulla quale A. Sen, insieme a B. Williams, si è soffermato in Utilitarismo e oltre,

trad. it., Milano, 1984. 53

A proposito di sacrificio, F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., pp. 80 e

ss, elenca le tre possibili tipologie di sacrificio. Seguendo il concetto di sacrificio uguale si deve prelevare

a ciascun soggetto un’uguale quantità di utilità soggettiva, cioè non la stessa somma, ma la parte di utilità

uguale di cui vengono privati tutti gli altri soggetti; delineato da J.S. Mill, porterebbe all’imposta

proporzionale, nel caso che le utilità fossero misurabili dal fisco. Il sacrificio proporzionale, invece,

prende in considerazione gli averi (redditi e beni) di cui ciascuno è provvisto. L’uguaglianza dinanzi

all’imposta si ha quando l’imposta determina sacrifici proporzionalmente uguali all’utilità totale degli

averi che ciascuna persona possiede. È quindi misurato ancora in termini di utilità decrescente, ma la

ripartizione del carico d’imposta è equa soltanto se viene prelevato ai più ricchi quote in numero

proporzionalmente più forti che ai meno ricchi (questo concetto apre la strada all’imposta progressiva,

21

stessa nell’ottica dell’equo riparto (e, quindi, anche distributiva)”. Pertanto, se “si ritiene

che la libertà si espande in senso positivo nella società solo se la si associa a obiettivi di

uguaglianza” il tributo, legittimato dal consenso dei consociati espresso dalle leggi, è

“lo strumento idoneo per perseguire concretamente questa associazione.”54

Nella visione del prima citato Sen, e soprattutto in quella di altri egualitaristi di

estrazione giuridica come Dworkin55

, è dunque proprio sull’uguaglianza che si fonda,

in ultima analisi, la legittimità etica dello stato sociale impositore e la sua funzione

mediatrice e distributiva. Se, infatti, per uguaglianza si intende l’eguale interesse che lo

stato deve provare per ogni cittadino da cui pretende il rispetto delle leggi, va da sé che,

attraverso le leggi medesime, esso garantisce per la sorte e le libertà di ciascuno dei suoi

cittadini e, di conseguenza, dal suo trattarli come eguali e con uguale rispetto. E per fare

ciò esso è autorizzato a porre una serie di “costrizioni” legali alla proprietà, alla

distribuzione della ricchezza nazionale e alla fruizione, in regime concorrenziale, dei

diritti patrimoniali; costrizioni che trovano un limite solo in altri diritti e principi

fondamentali inviolabili, primi fra tutti, fra i principi - corollari di quello di uguaglianza

- di razionalità, coerenza e congruità.

I diritti proprietari vanno, perciò, riconosciuti e tutelati come essenziali

strumenti dell’autonomia privata, ma nel contempo anche sganciati dalla persona

medesima e bilanciati, conformati e intrecciati con regole e leggi disegnate dallo stato

per garantire altri diritti, altri valori e altre forme di ricchezza. Ciò significa che lo stato

non si limita più a tutelare e promuovere la libertà d’impresa proteggendo la proprietà

privata ma vuole che i consociati raggiungano una condizione di sempre maggiore

dignità e benessere realizzando in tal modo una democrazia che cerca di vivere in fondo

quella richiamata dall’art 53 Cost). Infine, il sacrificio minimo collettivo prevede che ciascuno deve

contribuire in misura tale che il sacrificio della collettività di cui fa parte, sia il minore possibile. La

persona è considerata, perciò, sia per quanto possiede, ma anche perché facente parte di una collettività,

in modo tale che il sacrificio imposto sia il minore possibile (sempre tenendo conto dell’utilità

decrescente del reddito o della ricchezza di ciascuno). In sostanza si ritiene che è, dunque, la collettività

che deve soffrire il meno possibile a causa del prelievo, tuttavia se applicato rigidamente questo principio

ha il problema di “seccare la fonte” poiché livellerebbe le ricchezze andando a colpire maggiormente le

persone con maggiori possedimenti (il principio afferma così l’uguaglianza dell’utilità marginale del

reddito fra tutti i contribuenti dopo l’imposta). L’Autore si sofferma sulla possibile applicazione concreta

dei tre principi giungendo alla conclusione che è in molti casi difficile, se non impossibile, e iniqua la

rigida concretizzazione di ciascuno dei sacrifici prima espressi teorizzando, di conseguenza, l’approccio

parziale, ovvero una soluzione mediata in cui si ha una combinazione di principi tenendo in

considerazione, tuttavia, che, anche le imposte, hanno spesso fini extra-fiscali sempre più marcati. 54

F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 27. 55

R. Dworkin, Virtù sovrana, teoria dell’uguaglianza, trad. it., Milano,2002.

22

non solo il principio di libertà, ma anche quelli dell’uguaglianza solidale ed economica.

A ragione di ciò, incidere la proprietà è, consentito, ma è giustificato e ha un senso solo

se si rispettano i principi fondamentali di uguaglianza e solidarietà e solo perché,

tramite il sacrificio di alcune quote di proprietà, possono perseguirsi qualificati,

inscindibili interessi pubblici e possono rinnovarsi e trasformarsi i contenuti dei diritti

sociali che ogni stato deve garantire. Giustamente è stato sottolineato al riguardo che

“scindere il nesso fra diritti proprietari e diritti sociali e negare che essi vadano di pari

passo […] una posizione alquanto pericolosa, compatibile, certo, con l’assolutizzazione

teorica dei diritti sociali contro la proprietà, ma anche viceversa della proprietà contro i

diritti sociali”56

.

I fautori delle teorie egualitarie, insieme ai consequenzialisti ritengono altresì

che nelle democrazie moderne l’intervento pubblico sarà a volte paternalistico, ma è pur

sempre frutto della funzione conformatrice del diritto e, perciò, del fondamentale

principio del consenso popolare incarnato nella legge. Ed è indispensabile tanto per

attuare, attraverso lo strumento fiscale, il riparto dei carichi pubblici (secondo il

principio di equità distributiva, per superare gli eccessivi egoismi del libero mercato e le

disuguaglianze che ne conseguono), quanto per adottare politiche concrete ai fini della

promozione dello sviluppo e di garanzia del benessere sociale oltre che dei diritti di

libertà. Fa notare Cereti che “la gravissima depressione” del 1929 “impose un intervento

dello stato nella vita economica e sociale”, ebbene, questo“ ha trovato nelle imposte non

solo la fonte di finanziamento per l’intervento dello stato a favore delle categorie più

disagiate e per una distribuzione entro certi limiti della ricchezza fra i propri cittadini”

ma anche “il modo di regolare attraverso la loro maggiore o minore pressione la ripresa

dell’economia e soprattutto dare incremento allo sviluppo economico attraverso

consistenti investimenti statali (Keynes)”57

.

56

G. Palombella, L’autorità dei diritti: i diritti fondamentali fra istituzioni e norme, Laterza,

Roma, 2004, p. 50. Rendono bene al riguardo l’idea del tipo di collegamento fra i due diritti Holmes e

Sunstein là dove mettono in evidenza che “sia il diritto di proprietà sia i diritti sociali rappresentano il

tentativo di integrare cittadini che si trovano in condizioni diverse in una vita sociale comune: per questo

motivo i titolari del diritto di proprietà, ben lungi dal rifuggire ogni contatto con lo stato, sono partner

indispensabili nel moderno stato liberale. Stabilmente istituiti […], i diritti sociali […] sono solo alcuni

fra i tanti strumenti volti a far sì che anche coloro che sono svantaggiati si sentano coinvolti nello sforzo

collettivo della nazione intera. Dal momento che tutte le parti ne beneficiano, una simile combinazione fra

diritto di proprietà e diritti sociali si regge autonomamente e resta stabile nel tempo ”. 57

G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 74.

23

Riguardo alla materia dei rapporti fra stato e imposizione, più specificatamente

sul punto della funzione redistributrice dello stato sociale, trovano una chiara

rispondenza i pensieri di Sen, Rawls in alcune recenti autorevoli interpretazioni della

dottrina sociale della chiesa cattolica. Tra di esse la più indicativa di una visione del

fisco come bene pubblico e come strumento di distribuzione è forse quella che si coglie

nell’intervento della commissione “Giustizia e Pace” della diocesi di Milano, presieduta

dal cardinale Carlo Maria Martini. In un contributo presentato dallo stesso cardinale si

legge, infatti, che il fisco è ”equo quando, da una parte, fa sì che individui e gruppi

identici o simili vengano trattati in maniera la più possibile uguale o analoga e,

dall’altra, che chi è in condizioni di sostenere un sacrificio più elevato contribuisca in

proporzione, secondo criteri ragionevolmente progressivi, a ciò che è richiesto dal bene

comune dell’intera collettività […]. Il cittadino contribuente e i gruppi sociali o

territoriali di cittadini-contribuenti sono consapevoli che, se pagano più di quanto

ricevono, altri individui e gruppi ne traggono – in modo trasparente e il più possibile

conforme all’equità e alla solidarietà – un beneficio da ciò che è Stato pagato”58

.

Il contributo diocesano vaglia lo stato sociale impositore, il quale “da

antagonista quale era nei confronti della democrazia tende a fondersi nell’era moderna

con la democrazia stessa”. Questo processo di identificazione dello stato-comunità con

la democrazia, collegato alla essenzialità del fattore fiscale per la sussistenza dello stato

medesimo, fa sì che “la crisi fiscale di esso può gettare assai pericolosamente la sua

ombra sul funzionamento e sul grado di legittimazione di un regime democratico” e che

gli eventuali “giudizi negativi sul fisco si riversano sullo stato medesimo” e, perciò,

sulla democrazia che esso impersona.

Arrivati a questo punto, il problema che si pone è quello - essenzialmente

politico ed etico - del bilanciamento di valori (diritti sociali e diritti proprietari),

ambedue presenti nella tradizione social-liberale europea. Avendo riguardo sia della

Costituzione - l’art.53 con riferimento ai tributi e al loro riparto, e gli artt. 42 e 4359

58

Commissione diocesana “Giustizia e Pace”, Sulla questione fiscale, Milano, 2000, pp. 18-19. 59

L’Art. 42 così recita: ”La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo

Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i

modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla

accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo,

espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione

legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.” Art. 43.“A fini di utilità generale la legge può

riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti

24

con riferimento alle altre forme di limitazione della proprietà e all’espropriazione - sia

avendo riguardo delle altre regole stabilite con legge ordinaria dalle maggioranze

politiche, ai fini o di giustizia sociale e distributiva o di interesse generale o di pubblica

utilità60

. In questa specifica ottica soggettiva di riparto, il problema della rilevanza dei

diritti proprietari si pone soprattutto con riferimento alla (e in sede di) individuazione di

ragionevoli indici distributivi dei carichi pubblici da parte dello stesso legislatore

ordinario.

Tale problema si riduce, in ultima analisi, a stabilire se il criterio soggettivo di

appartenenza proprietaria debba essere assunto sempre con legittimazione e, insieme,

come limite della tassazione (e, quindi, la ricchezza personale patrimoniale del

contribuente debba essere sempre l’oggetto indeclinabile di ogni legittima tassazione),

ovvero se questa possa avvenire indipendentemente dall’applicazione di tale principio e

riguardare anche posizioni, situazioni e valori privi di contenuto patrimoniale, solo

socialmente rilevanti ed esprimenti comunque una potenzialità economica.

pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si

riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano

carattere di preminente interesse generale.” 60

Dice al riguardo, forse un po’ troppo drasticamente, J. Bentham che “la proprietà privata e il

diritto nascono insieme e muoiono insieme. Prima che la legge la riconoscesse, la proprietà non esisteva;

togli le leggi e ogni tipo di proprietà cessa di esistere”.

25

CAPITOLO II

LA PROSPETTIVA INTERNA:

GIUSTIFICAZIONE COSTITUZIONALE DEL TRIBUTO

ATTRAVERSO L’ANALISI DEL PRINCIPIO DI CAPACITA’

CONTRIBUTIVA

SOMMARIO: 1. La giustificazione etica del tributo in Italia: configurazione

“democratica” e ”comunitaria” della fiscalità – 2. Il doppio concetto di capacità

contributiva: vincolo relativo o vincolo assoluto – 3. La funzione garantista e

solidaristica del principio di capacità contributiva nel bilanciamento fra giustizia

distributiva e “interesse fiscale”

1. LA GIUSTIFICAZIONE ETICA DEL TRIBUTO IN ITALIA:

CONFIGURAZIONE “DEMOCRATICA” E “COMUNITARIA”

DELLA FISCALITA’

E’ nel descritto contesto storico e istituzionale e fra le indicate luci ed ombre che va

ricercata l’attuale concezione del tributo nella nostra Costituzione. Si può affermare che

l’aggrovigliarsi indissolubile del regime legale delle tasse con quello di un welfare

ragionevole e con quello della proprietà per definire gli ambiti dello stato distributore, e

redistributore, sono valori ben presenti nella nostra cultura e nel nostro ordinamento ed

hanno rappresentato lo sfondo etico e il background culturale della Costituzione italiana

e ne costituiscono oggi la componente economica e sociale. Come la stessa Costituzione

italiana mette bene in evidenza sul piano dei principi giuridici, l’imposta diventa “la

prestazione obbligatoria di una quota degli averi di ciascuno per soddisfare i crediti

degli enti pubblici nascenti dalla necessità della ripartizione dei carichi comuni”61

. Si

prendono così le distanze dalla concezione atomistica dei rapporti di imposta, come

quella esposta da Giannini62

basata sul concetto di “potestà di impero” e

61

G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 56. 62

A.D Giannini, Istituzioni di diritto tributario, cit. Egli riconduce tout court il fondamento giuridico

dell’imposta alla soggezione del cittadino alla potestà finanziaria dello Stato, relegando nel campo della

26

sull’onnipotenza del legislatore, in cui si riduce il rapporto di imposta ad una normale

obbligazione fra il contribuente e lo Stato non cogliendo l’aspetto “comunitario” della

fiscalità e non percependo il “sottile” legame di interferenza e di conflitto di interessi

che corre nell’ambito di uno stesso organismo sociale, fra l’insieme dei rapporti di una

stessa imposta. Avvallando questo criterio, Griziotti sottolinea che “il rapporto

tributario” si concretizza in “uno stato assoluto di soggezione del contribuente” in cui

“diminuisce la personalità dell’individuo” e di conseguenza “affievolisce la sua

indipendenza e libertà”63

.

Diversamente, nelle società liberaldemocratiche, “la persona non si identifica più

con l’homo oeconomicus64

- e perciò solo con i suoi diritti proprietari e, in genere, con

ogni titolo legittimo di possesso - ma va considerata nella sua complessità di essere

politico, sociale e morale, inserito come individuo in un contesto istituzionale e

astrattamente idoneo a concorrere alle pubbliche spese per il solo fatto di porre in essere

un presupposto espressivo di una posizione di vantaggio economicamente valutabile”65

.

Da ciò si deduce che, i tributi non possono essere più valutati sul piano morale avendo

solo ed esclusivamente riguardo al criterio soggettivo di appartenenza, e cioè al loro

impatto sulla proprietà privata, concepita quest’ultima come qualcosa che ha

un’esistenza originaria e una validità propria, indipendente dalla legge.

In questa ottica la tassazione, pur traducendosi in un sacrificio economico

individuale, tende - se equamente distribuita - ad “arricchire” indirettamente la persona

quale componente della società. È, infatti, uno degli strumenti che ha l’operatore

pubblico non solo per garantire e difendere il patrimonio di ogni consociato ma anche

per realizzare il riparto dei carichi pubblici secondo il principio di eguaglianza

sostanziale, per perseguire nella giustizia politiche sociali redistributive, allocative e

stabilizzatrici e per promuovere la crescita culturale e lo sviluppo economico nella

stabilità66

.

politica tributaria tanto il problema delle finalità che lo Stato debba perseguire quanto quello della

eventuale iniquità o antieconomicità del tributo. 63

B. Griziotti, Principi di politica, diritto e scienza delle finanze, Padova, 1929, p. 175. 64

Astratta semplificazione della complessa realtà umana, enunciata per la prima volta da J.S. Mill,

che pone come soggetto dell’attività economica un individuo astratto, del cui agire nella complessa realtà

sociale si colgono solo le motivazioni economiche, legate alla massimizzazione della ricchezza. 65

F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, Editoriale scientifica, 2012, p. 19. 66

Ivi, pp.20-21, afferma che: “le politiche distributive statali, anche quado non producono l’aumento

della pressione tributaria, limitano nel breve termine le risorse di alcuni a beneficio di altri. Ma se questa

redistribuzione ha come effetto di medio e lungo periodo di migliorare la salute del paese, di ridurre le

27

Sotto un profilo funzionale il tributo è soprattutto lo strumento di giustizia

distributiva che, secondo le diverse opzioni politiche, lo stato ha a disposizione -

insieme agli strumenti di politica economica67

- per travalicare le opportunità del

mercato e per correggerne le distonie e le imperfezioni a favore delle libertà individuali

e collettive e a tutela dei diritti sociali. Pertanto, la spesa pubblica occorrente per

finanziare e garantire ciò, dovrebbe essere prelevata con metodi conformi alla “più

perfetta giustizia distributiva” tenendo bene in considerazione, come afferma Falsitta,

che “l’imposta espropriatrice dell’oggetto tassato o l’imposta tirannica”[…]”sono

reliquati concezioni della proprietà e della fiscalità, che la costituzione non riconosce”68

.

Ribadisce, in tal senso, l’importanza della destinazione, Vanoni, là dove afferma che

“un peso imposto ai cittadini per qualsiasi abuso della forza pubblica, e che non serva

per fini di utilità collettiva, ma sia disperso in vantaggi di singoli, sarà taglia, livello,

spoglio, ma mai tributo”69

.

Si delinea così nella c.d. costituzione economica, cioè in quella parte della

Costituzione italiana che disciplina i rapporti economici, una volontà di governo

pubblico dell’economia poiché come afferma Galgano, “la constatata incapacità del

mercato” da un lato, e “l’economia capitalistica, storicamente dimostratasi incapace di

autogovernarsi” dall’altro, sono inidonee a garantire, da sole, “uno sviluppo economico

equilibrato e coordinato con il progresso civile e sociale”. Di qui, prosegue Galgano,

“l’universale riconoscimento” che spetta allo Stato il compito di assicurare il

tensioni sociali, di incrementare l’accesso di tutti ai servizi fino a quel momento riservati a pochi, non può

negarsi che lo stato sociale che ha raggiunto questi obiettivi è sicuramente più benestante e garantisce ai

propri cittadini più equità, più sicurezza sociale e, quindi, più uguaglianza e maggiore rispetto di sé. E in

questa ottica egualitaria e teleologica, propria dei sistemi improntati al moderno costituzionalismo

partecipativo, non può dubitarsi che il prelievo tributario, se associato ad accorte politiche della spesa, è

uno degli strumenti più appropriati per superare le sempre e più gravi disuguaglianze derivanti dalle

maggiori o minori disponibilità dei beni della vita (sia patrimoniali che non), realizzare i valori

solidaristici e promuovere anche la crescita culturale e lo sviluppo economico”. 67

Gli interventi di politica economica possono riguardare l’economia nel suo complesso

(macroeconomia) oppure essere mirati e coinvolgere solo uno o più settori produttivi (microeconomia).

La politica macroeconomica può essere suddivisa in politica fiscale e politica monetaria. La prima

riguarda gli interventi realizzati dallo Stato attraverso variazioni della spesa pubblica o delle entrate:

l’aumento delle tasse, la riduzione della spesa pubblica, l’incremento dei trasferimenti di risorse alle

famiglie, la variazione delle pensioni sono esempi di interventi di natura fiscale. La politica monetaria

riguarda, invece, le decisioni prese dalle autorità competenti – di solito la Banca centrale – per difendere

il valore della moneta. La Banca centrale in particolare può, se vuole stimolare l’economia, aumentare la

quantità di moneta in circolazione nel mercato, oppure incentivare le banche a detenere poche riserve

monetarie e a dare in prestito una maggior quota del denaro ricevuto in deposito alle imprese produttrici,

contribuendo in questo modo ad aumentare la produzione. 68

G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 82 69

E. Vanoni, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, cit., p. 101.

28

“funzionamento e lo sviluppo del sistema economico”, insieme all’ulteriore compito -

particolarmente accentuato dalle Carta Costituzionale - di coordinare le esigenze dello

“sviluppo economico con quelle della giustizia sociale e del pieno sviluppo della

persona”70

.

Razionalmente a tale prospettiva, già negli anni quaranta e cinquanta del secolo

scorso Ezio Vanoni sottolineava l’inadeguatezza del “mercato concorrenziale” tanto ad

affrontare i problemi dell’accumulazione e dello sviluppo equilibrato, quanto a produrre

una redistribuzione della ricchezza eticamente accettabile. E da questo doppio grado di

inadeguatezza faceva derivare quella che a suo avviso doveva considerarsi una delle

indicazioni fondamentali, d’ordine anche morale, in tema di politica economica e

fiscale: un ordinamento tributario che corregge gli esiti del mercato pur nel rispetto

della concorrenza e delle libertà economiche, che attribuisce al tributo una funzione di

giustizia sociale e che disciplina il dovere di concorrere alle spese pubbliche come

dovere di solidarietà71

.

Queste considerazioni del cattolico Vanoni sono riprese e sviluppate

successivamente, nel 2000, da un interprete fra i più sensibili della dottrina sociale della

chiesa: la già citata diocesi di Milano. Attraverso la sua commissione “Giustizia e Pace”

questa arriva, infatti, a definire sul piano etico la contribuzione fiscale come “un gesto

fondamentale per la creazione delle condizioni di un benessere condiviso”. Il tributo, in

particolare, è inteso nel senso, autenticamente vanoniano, di “concorso attivo al

processo di redistribuzione delle risorse, grazie alle quali promuovere i beni e i servizi

della convivenza civile. In quanto parte della società - e, conseguentemente, in nome

della propria responsabilità per il bene comune - , ogni soggetto contribuente è, quindi,

chiamato a dare l’apporto da lui dovuto insieme con gli altri contribuenti, facendosi

carico delle ragioni dei bisogni dell’intera collettività e dei mezzi con cui soddisfarli. Al

sospetto, all’isolamento e all’ostilità possono e debbono, perciò, subentrare l’intesa e la

cooperazione. E questo non soltanto in omaggio alla continua ripetizione di imperativi

morali pur validi in sé, ma anche sulla base sperimentabile di una convivenza legata

70

F. Galgano, L’imprenditore, III ed., Bologna, 1980, pp. 108-115 71

Vedi E. Vanoni, La finanza e la giustizia sociale, in Id., Scritti di finanza pubblica e di politica

economica, a cura di A. Tramontana, Padova, 1976, pp. 103-121, dove si legge che: “La finanza può

intervenire in una politica tendente al fine di attuare una maggiore giustizia sociale, indirizzando la

propria azione redistributiva nel senso di ridurre le disuguaglianze nella ripartizione della ricchezza, di

dare stabilità al risparmio, di favorire il determinarsi delle migliori condizioni per l’occupazione e per

l’incremento dei salari”.

29

all’ottenimento di vantaggi maggiori e più duraturi di quelli che potrebbero derivare da

comportamenti chiusi nel breve raggio dell’interesse individualistico”72

.

È da notare che anche il pensiero laico converge sul punto con quello cattolico,

infatti, filosofi, economisti e giuristi già richiamati in precedenza come Rawls, Sen e

Dworkin concordano seppur per vie diverse, sulla centralità in materia fiscale della

giustizia distributiva, giungendo alla conclusione che, come già esposto

precedentemente, il sacrificio imposto con la tassazione rileva al fine di un aumento

della libertà e del godimento dei diritti. Tale convergenza si può ancora meglio notare

nelle parole del teologo francescano Gino Concetti quando, nel descrivere la giustizia

“contributiva”, afferma che questa “sottolinea il valore d’obbligo” da parte dei cittadini,

in quanto membri della società, di contribuire allo stato perché essa – la giustizia

contributiva - “risponda il più efficacemente possibile” alle ”istanze personali e

comunitarie dei soggetti”, ma anche perché “possa svolgere con fedeltà e tempestività i

compiti, le funzioni per cui è stata costituita”73

. Concetti, quindi, esalta il “momento

positivo e dinamico” dell’imposizione fiscale ovvero quando “da quella quota messa in

comune” derivano ai cittadini “ampi benefici” che non si esauriscono “nella fruizione

dei servizi essenziali” ma che sono “comprensivi di tutti quei beni che solo uno stato

moderno”, efficacemente organizzato, “è in grado di assicurare”74

.

2. IL DOPPIO CONCETTO DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA:

VINCOLO RELATIVO O VINCOLO ASSOLUTO

Come si è accennato, il fondamento del dovere tributario, inteso come dovere dei

consociati alla contribuzione alle pubbliche spese per la sussistenza della collettività

organizzata, si ritrova, nella Costituzione italiana, nell’art. 53. Tale articolo deve essere

poi letto anche alla luce di altre norme costituzionali, ugualmente espressive di doveri

inderogabili di solidarietà, ed in particolare alla luce dell’art. 2 Cost., nel quale, dopo

aver riconosciuto i diritti inviolabili della persona, viene espresso a livello generale un

dovere inderogabile “di solidarietà economica, politica e sociale”. Come ha affermato la

72

Commissione diocesana “Giustizia e Pace”, Sulla questione fiscale, cit., p. 52. 73

G. Concetti, Etica fiscale. Perché e fin dove pagare le tasse, cit., p. 50. 74

Ivi, p.102.

30

Corte Costituzionale75

, tale norma pone in rilevo il criterio solidaristico del principio di

capacità contributiva, dove il dovere tributario diviene espressione dei doveri

inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale al cui adempimento è volta la

suddetta previsione costituzionale, emergendone così una disposizione finalizzata alla

ripartizione dell’onere dei servizi pubblici fra tutti i contribuenti.

Il carattere doveroso del concorso, che si sostanzia nell’espressione “sono

tenuti”, si evince nella necessaria sussistenza di una pluralità di prestazioni tributarie

dovute da “tutti” i consociati; prestazioni che non trovano tuttavia fondamento nel

potere di imperio dello Stato, ma bensì in un dovere generale di contribuire all’interesse

comune. Infatti l’art. 53 Cost. testimonia, in maniera definitiva, che il tributo non è più

solo “espressione della sovranità” e non basta più “l’esistenza di un pubblico potere” a

giustificarlo: “il potere tributario è funzionalizzato al finanziamento della spesa

pubblica, in correlazione con la capacità contributiva”76

. Attraverso l’espresso

riferimento alla generalità del concorso viene pertanto riaffermato il principio di

uguaglianza quale divieto di derivazione del dovere di solidarietà tributaria dalla

semplice appartenenza a determinate categorie o classi, ma diversamente, “il canone

dell’uguaglianza giuridica in campo tributario”, ribadisce Gaboardi, è da specificare nel

senso che “l’uguaglianza sia rapportabile alla capacità contributiva di ciascuno”. Tale

rapporto, afferma l’autore, “è sostenuto da altre norme Costituzionali”, in particolar

modo, dall’art. 4 Cost. in cui vi sono “le premesse alla capacità contributiva e

costituzionalizza, in un certo senso, la distinzione fra reddito e reddito ai fini fiscali” ed

inoltre dall’art. 31 Cost. in cui vi è una “legittimazione alle detrazioni fiscali per carichi

famigliari e le agevolazioni alle famiglie numerose”77

.

Tale lettura dell’art. 53 Cost., come espressione del principio di uguaglianza,

rappresenta il punto di partenza condiviso dalla dottrina tributaria78

, da cui tuttavia si

diramano due opposte visioni che divergono principalmente nella valorizzazione della

75

Sentenze n.212 del 1986 e n.51 del 1992. 76

G. Marongiu, A. Marcheselli, Lezioni di diritto tributario, Giappichelli, 2009, p. 12. 77

F. Gaboardi , Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., p. 69. 78

Si ritiene tuttavia opportuno sottolineare come, anche tale punto di partenza, non sia privo di

visioni divergenti che riflettono sostanzialmente le diverse prese di posizione in merito al concetto di

capacità contributiva. Da un lato i sostenitori dell’approccio “relativo”, considerando il principio di

capacità contributiva privo di una valenza autonoma, di fatto lo assorbono e annullano all’interno del

principio di uguaglianza; dall’altro la dottrina appartenente all’indirizzo “assoluto”, rifiutandosi di ridurre

il principio di capacità contributiva a mera espressione di un principio di razionalità e coerenza ed

attribuendo ad esso un proprio significato, si limita a considerare il principio di uguaglianza come

presupposto dello stesso principio di capacità contributiva.

31

funzione della capacità quale limite “assoluto”, o al contrario “relativo” alla legittimità

costituzionale delle norme tributarie, e quindi nella diversa discrezionalità concessa al

legislatore nella scelta dei criteri di riparto. Infatti, nell’individuare gli indici di capacità

contributiva espressivi di “potenzialità economica” - corrispondenti a fatti

economicamente rilevanti - i due orientamenti giungono a riconoscere limiti diversi al

potere legislativo attraverso l’art. 53 Cost.

I sostenitori dell’indirizzo “assoluto” affermano la necessità che i presupposti dei

tributi si sostanzino in componenti patrimoniali di cui i soggetti passivi possano

disporre; mentre gli assertori dell’approccio “relativo” ritengono che “l’indice prescelto

può anche non essere misurato in termini di scambiabilità sul mercato, purché esso sia

comunque equo, coerente e ragionevole”79

. Di conseguenza, secondo l’indirizzo

svalutativo80

, che rappresenta una corrente minoritaria, la capacità contributiva è intesa

come vincolo relativo, ossia mera espressione di “un’esigenza di congruità

funzionale delle scelte legislative circa i criteri di riparto dei carichi pubblici”81

. L’art.

53, primo comma, Cost., secondo Fedele, “non esprimerebbe dunque un valore da

tutelare in via assoluta”, ma piuttosto “una funzione” consistente nella “razionale

ripartizione fra i consociati dei carichi pubblici”82

. Il legislatore, in tal modo, potrà

optare per qualsiasi indice valutabile economicamente, indipendentemente dalla

consistenza patrimoniale dei “fatti indice” che possono rivelarsi anche “capacitazioni”

(nel linguaggio di Amartya Sen) “socialmente rilevanti” a condizione che siano

”espressivi, in termini di vantaggio, di una capacità differenziata economicamente

79

S.F. Cociani, Attualità o declino del principio della capacità contributiva?, in Riv. dir. trib.,

2004, pp. 823 e ss. 80

Tale indirizzo risale a A.D. Giannini, I rapporti tributari, in Commentario sistematico alla

Costituzione italiana (diretto da P. Calamandrei e A. Levi.), Firenze, 1950, I, p. 281. L’autore, sostenendo

che il legislatore, nella scelta dei presupposti di imposta, goda di ampia discrezionalità, afferma che lo

stesso legislatore possa individuare quali criteri di riparto “prevalentemente”, ma non necessariamente,

fatti economicamente rilevanti. Questi, pur apparendo “meglio indicati a costituire il fondamento

dell’imposizione”, secondo l’autore non devono, tuttavia, essere obbligatoriamente scelti. Nella dottrina

italiana, la tesi della capacità contributiva come limite relativo per il legislatore è stata sviluppata, in

particolare, da A. Berliri, G. Ingrosso, A. Fedele, F. Gallo, S.F. Cociani. 81

Così A. Fedele., La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana,

cit., p. 21, l’autore sottolinea inoltre come la considerazione, in termini relativi, del principio di

capacità contributiva non determini tuttavia lo svuotamento dell’art. 53 Cost. di ogni autonomo

significato, riducendolo a mera applicazione dell’art. 3, primo comma, Cost. La diversità viene

individuata infatti proprio nella funzione fiscale di riparto dei carichi pubblici, elemento caratterizzante

lo stesso principio di capacità contributiva e alla cui attuazione “razionale” deve essere orientata la

scelta dei criteri per determinare la partecipazione alle pubbliche spese. 82

In questo senso, Id, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., p. 30.

32

valutabile”83

. Più specificatamente, sottolinea Cociani, l’indice prescelto “può essere

fondato sul ruolo del singolo all’interno della collettività medesima”, poiché “in assetti

sociali ed economici complessi, la posizione dell’individuo dipende non tanto dai suoi

diritti proprietari ma, almeno in buona parte, (anche) dal ruolo che egli riveste

all’interno della società”. L’autore prosegue ribadendo che per questa ragione “i criteri

di riparto ben possono tener conto sia di tali strutture intermedie, sia del ruolo che il

contribuente svolge all’interno della società e delle organizzazioni intermedie” purché

“l’indicatore prescelto risulti rispettoso nel principio di uguaglianza contributiva - che a

sua volta - trova consacrazione, anzitutto, nell’art. 3 Cost.”84

Franco Gallo, sostenitore della tesi svalutativa, giustifica la sua opinione

facendosi forte di un’interpretazione letterale dell’art. 53 Cost., il quale, non facendo

specifici riferimenti a “singole manifestazioni tipizzate di capacità contributiva (reddito,

patrimonio, consumo, eccetera)”, “presuppone nel riferimento al sistema tributario, una

gamma indeterminata di possibili tributi e pertanto di indici di capacità contributiva”85

.

La discrezionalità del legislatore assume quindi un ruolo preminente nell’individuazione

di quelle posizioni differenziate dei singoli contribuenti idonee ad diventare presupposti

impositivi dei tributi: “se alla razionale attuazione della funzione di riparto si deve avere

riguardo, i criteri per determinare, nell’an e nel quantum, la partecipazione di ciascun

consociato alle pubbliche spese si identificano necessariamente con facoltà di scelta

nella soddisfazione dei propri bisogni ed interessi, usufruendo direttamente delle utilità

fornite da beni, ovvero più frequentemente, tramite comportamenti di altri soggetti. La

misura, in denaro, di tali facoltà esprime diversificate posizioni di vantaggio nel

contesto sociale, che giustificano la diversa partecipazione di ciascuno ai carichi

pubblici”86

.

Gli assertori dell’approccio minoritario evidenziano, inoltre, come, solo una

nozione di capacità contributiva quale limite relativo, legittimi norme tributarie

finalizzate alla soddisfazione di particolari esigenze tutelate dall’ordinamento attraverso

83

F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., pp. 86-87. Si riporta la

“dura” critica che G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 222, muove a Gallo

sull’utilizzo del sillogismo “capacitazioni” come fatti indice alludendo al carattere vago della parola tale

da non sapere se “si voglia alludere a qualità della persona come la fama”[…]”l’età, la bellezza” 84

S.F. Cociani, Attualità o declino del principio della capacità contributiva?, in Riv. dir. trib.,

2004, pp. 823 e ss. 85

A. Fedele, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., p.

21. 86

Ibidem

33

l’incentivazione o disincentivazione di determinati comportamenti (è il caso, ad

esempio, dei c.d. tributi extrafiscali87

), ovvero attraverso la previsione di esenzioni o

agevolazioni fiscali che comportano l’esclusione o la riduzione del concorso in

dipendenza di situazioni non necessariamente collegate alla capacità contributiva88

.

“Significa”, afferma Falsitta (Vittorio Emanuele e non Gaspare), “che il concetto di

capacità contributiva potrebbe tollerare la costituzionalità dell’imposizione anche di

fatti economici complessi per i quali la manifestazione di ricchezza tradizionale è meno

rilevante delle esternalità negative che produce”. In sostanza si ha un prevalere

“dell’esigenza solidaristica del tributo” rispetto “all’effettiva ricchezza imponibile” e

dunque, prosegue il noto tributarista, “devono prevalere gli artt. 2 e 3 Cost, piuttosto che

l’art. 53”89

. Una tale lettura dell’art. 53 Cost. comporterebbe, quindi, a parere di tali

autori, che il principio di capacità contributiva non risulti “necessariamente violato da

quelle norme che delimitano o estendono l’ambito di applicazione di determinati tributi

individuando gli indici di potenzialità economica in ragione di considerazioni ulteriori

rispetto alla valutazione della mera capacità patrimoniale dei soggetti passivi”90

.

87

G. Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione, in Jus, 1957, pp. 35-36, contrariamente a Gallo, a

proposito dei tributi extrafiscali “sottolinea che la “specifica funzione di garanzia del principio di

attitudine alla contribuzione” è non solo compatibile con gli eventuali obiettivi extrafiscali dei tributi, “ma

addirittura necessario perché, se il presupposto del tributo extrafiscale non fosse una concreta

manifestazione di ricchezza, verrebbe meno lo stesso oggetto che si vuole diversamente distribuire,

perché [...] tale tributo scisso dalla realtà economica diverrebbe uno strumento inutilmente vessatorio [...].

La capacità contributiva [...] costituisce per il suo stesso contenuto una condizione il cui rispetto è

indispensabile perché ogni tributo, anche quello politicamente destinato ad attuare fini sociali, possa

giudicarsi costituzionalmente legittimo”. 88

F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, cit., p. 25, rileva che “questi tipi di prelievo non sono

estranei né agli ordinamenti tributari dell’area occidentale né a quello italiano”. Infatti, sostiene, che “già

da tempo esistono tributi che hanno come presupposto beni, situazioni e attività che esprimono in termini

di capacità contributiva situazioni di vantaggio economicamente valutabili, senza necessariamente

identificarsi con il reddito o il patrimonio o il consumo e cioè con entità che pongono il contribuente in

condizione di versare la somma dovuta a titolo di concorso spese”. A ragione dimostrativa, l’autore,

elenca una serie di esempi, quali: “i tributi ambientali in senso stretto, come quelli gravano su chi utilizza

beni ambientali scarsi o emette gas inquinanti deteriorando l’ambiente, e cioè colpiscono entità non

reddituali, non patrimoniali, prive comunque di un diretto valore patrimoniale e insuscettibili di essere

scambiate sul mercato contro denaro”; le imposte sul valore aggiunto economico come in Italia l’IRAP

che “colpiscono la capacità organizzativa dell’operatore o del produttore o, comunque, altre entità non

omologabili interamente né al reddito né al patrimonio”. Così come “le accise che gravano sulla

produzione organizzata di beni”, in cui il fatto dell’immissione al consumo dei beni stessi - assunto dal

legislatore quale presupposto legittimante l’imposizione - “non contiene in sé la disponibilità della

provvista per pagare il tributo”. Appartengono, inoltre, a questo elenco anche “tutti quei tributi che hanno

come presupposto indici di capacità contributiva che non garantiscono la disponibilità di un saldo

patrimoniale attivo sufficiente ad adempiere all’obbligazione tributaria” come i prelievi sui redditi

derivanti dalla destinazione di beni a finalità estranee all’esercizio di impresa o i “prelievi sui c.d. fringe

benefits, costituiti dall’uso di un’abitazione o di un auto”. 89

V.E. Falsitta, Fiscalità ed etica, cit., p. 119. 90

A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., p. 31.

34

La dottrina maggioritaria condivide invece la nozione “assoluta” di capacità

contributiva, interpretando l’art. 53 Cost. non solo come criterio di “concorso alle spese

pubbliche”, ma anche come limite all’imposizione tributaria: “criterio vincolante di

giustizia distributiva” nella individuazione degli indici di riparto dei carichi pubblici e

freno rispetto alla “discrezionalità del legislatore nella scelta dei presupposti

dell’imposta”91

. Sebbene venga riconosciuto il valore del giudizio di coerenza e

razionalità della disciplina tributaria, è necessario che la contribuzione richiesta ai

singoli sia commisurata alla capacità contributiva intesa come capacità economica da

questi posseduta. Non esiste, infatti, per Gaspare Falsitta, uno dei principali espositori

della nozione maggioritaria, una distinzione fra capacità contributiva e capacità

economica, ed è proprio questa - una o l’altra è, per l’appunto, indifferente - “il metro

misuratore della uguaglianza tributaria”, ovvero “unico principio distributivo

rispondente alle necessità dello Stato di diritto “sociale”92

. A sostegno di tale

interpretazione maggioritaria vengono addotte dalla dottrina diverse motivazioni tra le

quali il significato letterale e originario del termine “capacità contributiva” così come

risultante dai lavori preparatori alla Costituzione. Emerge, infatti, che la Corte propose

che fosse inserito nella Costituzione, in aggiunta al limite formale rappresentato dalla

riserva di legge, un limite sostanziale al potere impositivo. Ad avviso della Corte, il

riferimento alla “capacità contributiva” rappresentava una formula idonea a garantire la

fondamentale esigenza del contribuente di non essere gravato da un prelievo che

pregiudichi “la possibilità di vita della sua economia individuale” 93

.

Pertanto nella ricerca ed individuazione degli indici di riparto, il legislatore è

obbligato ad assumere, “a fatto generatore di qualsivoglia contribuzione intenda

introdurre o inventare” soltanto fattori espressivi di capacità economica a pagare

l’imposta e, dunque, “fatti consistenti o in denaro o in ricchezze non monetarie (beni)

ma agevolmente trasformabili, dal dispositore, in denaro attraverso appropriati atti di

scambio sul mercato”94

. “Non esiste dunque il solo limite generalissimo del divieto di

illogicità, incoerenza, di arbitrio”, scrive F. Moschetti, ma “ancora prima, esiste il limite

91

Appartengono a tale indirizzo: Giardina E., Manzoni I., Gaffuri G., Perrone L., Moschetti

F., Falsitta G., Marongiu G., Fantozzi A. 92

Si veda G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., pp. 73-74. 93

Le risposte al Questionario del Ministero per la Costituente fornite dalla Corte di

Cassazione sono reperibili in www.senato.it. 94

G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 14.

35

del principio di capacità contributiva, cioè non un limite implicito, ovvio, interno ad

ogni norma, ma un limite esterno, di soggezione ad una norma superiore”95

.

Nella qualificazione della capacità contributiva come forza economica si

possono individuare due presupposti assoluti: in primo luogo il fatto generatore

dell’imposta deve essere individuato in un “indice rivelatore di ricchezza ossia una

disponibilità di mezzi economici potenzialmente scambiabili sul mercato”96

; in secondo

luogo la forza economica non dovrà essere solo reale, ma anche esprimere una “idoneità

soggettiva alla contribuzione del singolo soggetto elevato dalla legge al rango di

contribuente”97

. L’equa ripartizione, secondo tale dottrina, non potrà rapportarsi solo al

rispetto del principio di universalità della partecipazione al concorso e del principio di

uguaglianza; “negligere il principio di universalità”, ad opinione di Falsitta, creando

classi o singoli privilegiati con agevolazioni, attenuazioni, esclusioni ecc. ecc. “significa

colpire al cuore l’idea di giustizia fiscale” intesa “come distribuzione dei carichi” fra i

membri dello ”Stato-comunità”, e cioè fra i “possessori dello specifico indice di riparto

eretto a presupposto di ogni specifico tributo dalla legge” 98

. Dunque, “se è vero che

non può parlarsi di attitudine alla contribuzione se non in presenza e nei limiti dei

mezzi economici idonei a fronteggiare il prelievo fiscale, ne discende ovviamente che

a presupposto di tributo possano essere assunti solo fatti o situazioni di fatto che di

capacità economica siano appunto indizio o manifestazione”99

. Chiarito il fatto che è il

legislatore, secondo questo ordine di idee, delegato ad imputare l’indice di forza

economica rinvenuto e modellato al soggetto che ne è possessore, Falsitta ribadisce che

“è solo la presenza di questo elemento ( il possesso in senso tributario e non meramente

civilistico) a tramutare l’indice di ricchezza colpito, su cui si modella il riparto, e che

nella sua nuda e cruda oggettività è fatto neutrale, in indice di idoneità soggettiva alla

contribuzione del singolo soggetto elevato dalla legge al rango di contribuente e incluso

nella platea dei contribuenti di una stessa imposta”. Infatti, divergendo dalla visione

minoritaria, gli autori della tesi assoluta ritengono sia sbagliato credere che si possa

chiamare alla contribuzione un qualsiasi soggetto in forza di un indice di forza

95

Così F. Moschetti, Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit.,

p. 9. 96

G. Falsitta, Il doppio concetto di capacità contributiva, cit., p. 889 e ss. 97

Id, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., p. 152. 98

Id, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 15. 99

I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano,

cit., p. 123

36

economica reale e oggettivo ma che è scompagnato dal “legame soggettivo del

possesso” 100

.

3. LA FUNZIONE GARANTISTA E SOLIDARISTICA DEL PRINCIPIO

DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA NEL BILANCIAMENTO TRA

GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA E “INTERESSE FISCALE”

Il punto di partenza per comprendere la diversità di vedute fra le due dicotomie è

rappresentato dal collegamento tra art. 53 e art. 2 Cost., collegamento riconosciuto da

entrambi gli orientamenti dottrinali, ma da taluni valorizzato solamente in una

prospettiva unilaterale. L’art. 2 Cost., infatti, richiama “la similitudine della medaglia

poiché, “al pari della medaglia, anch’esso ha il suo retto e il suo verso”: inizia

riconoscendo e garantendo “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle

formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” e conclude proclamando” i doveri

inderogabili di solidarietà”101

. Pertanto, una lettura, in tal senso orientata, dell’art. 53

Cost., dovrebbe presupporre che, da un lato, si ha una funzione solidaristica, laddove

ogni soggetto viene chiamato a concorrere alla spesa pubblica necessaria per l’esistenza

e lo sviluppo della comunità, dall’altro una garantistica, laddove viene imposto tale

dovere di concorso solamente in capo a chi abbia una effettiva capacità di

contribuzione, nella misura e nei limiti della stessa. Si scorge, quindi, nella capacità

contributiva, “un diritto inviolabile” […] ”che la Costituzione ha eretto nei confronti

del legislatore ordinario a salvaguardia della “giusta imposta” per proteggerlo da abusi e

tirannie” 102

.

Non esiste, secondo tali autori e Falsitta in particolare, una preminenza

dell’“interesse fiscale” che possa portare al finanziamento dei diritti sociali sia per il

fatto che una cospicua parte del gettito fiscale viene “fagocitata dalla voragine di spese

improduttive che affliggono il Paese”, e di conseguenza che “nulla hanno a che spartire

coi diritti sociali”, sia perché si ritiene insensato sacrificare l’idea della “giustizia nella

ripartizione fra i cittadini dei relativi costi” per il finanziamento dei “diritti sociali”103

.

100

G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 15. 101

Ivi, p. 83. 102

Ivi, p. 75. 103

Ivi., pp. XX-XXI.

37

Infatti, adottando la visione di giustizia di Garin104

, dove “giustizia significa il

trattamento proporzionale alla condizione di ciascuno”, si stabilisce che, nella

distribuzione dei ”pesi fiscali”, il principio di proporzionalità alla condizione economica

di ciascuno “non si può e non si deve calpestare”. Viene pertanto affermata la necessità

che il legislatore operi un bilanciamento tra i due interessi, trovando soluzioni

che non sacrifichino l’uno (la giustizia tributaria) per tutelare l’altro (l’interesse fiscale),

senza prevalenze e con reciproca necessità di contemperamento.

Al contrario, gli assertori dell’indirizzo “svalutativo” propendono per una

lettura, affetta da “strabismo statocentrico”105

secondo Falsitta, sbilanciata verso i

doveri, in nome di un preminente interesse della comunità alla “trasformazione sociale”,

il c.d. “interesse fiscale”106

, che consentirebbe la compressione di interessi privati,

(comunque tutelati a livello costituzionale). Attraverso l’affermazione, sostenuta da

Gallo, dell’esigenza di perseguire una “giustizia sociale” anche a scapito della “giustizia

fiscale”107

, viene negata la qualificazione, quale diritto fondamentale, del principio di

giustizia nella ripartizione delle spese pubbliche. Infatti, egli è consapevole del fatto che

“il dovere contributivo ben si inquadra tra i doveri inderogabili di solidarietà di cui

all’art. 2 della Costituzione”, ma, tuttavia, ritiene che “ciò non significa che si debba

instaurare, nel contempo, una relazione necessaria e funzionale tra esso e i diritti

individuali e inviolabili” 108

. La correlazione fra prelievo tributario e spese pubbliche e

sociali, istituita dall’art. 53 Cost, fa emergere in tal modo la giustizia sociale come “il

valore che guida la politica fiscale nell’ottica solidaristica ed egualitaria richiamata

dagli artt. 2 e 3 Cost.”, in cui i tributi, “se sono inseriti in un sistema coerente e

ragionevole e perciò rispondono al principio di uguaglianza sostanziale, concorrono a

integrare un giusto ordine sociale”. Mentre, continua Gallo, sono “i fini economici,

politici e sociali perseguiti in sede di riparto a soddisfare gli obiettivi di solidarietà e

redistributivi, a deviare la produzione e il consumo dagli indirizzi impressi dal mercato

e a calibrare”, di conseguenza, “i diritti proprietari”(qui intesi come dati convenzionali,

essendo essi in larga misura “il prodotto anche di politiche fiscali da valutare secondo lo

104

E. Garin, La giustizia, Rizzoli, Napoli, 1968, p. 51. 105

G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 83. 106

P. Boria, L’interesse fiscale, Giappichelli, Torino, 2002, p. 116. 107

F. Gallo, Il ruolo dell’imposizione dal Trattato dell’Unione alla Costituzione europea, cit., p.

12. 108

F. Gallo, Ordinamento comunitario e principi costituzionali tributari, in Rass. trib., 2006, II,

pp. 407 e ss.

38

standard costituzionale della giustizia sociale distributiva”), “potenziandoli o

intaccandoli”109

. Ed è per questi motivi che la capacità contributiva, di cui all’art. 53

Cost., comma 1, si risolve in un “criterio distributivo dei carichi pubblici fra i

consociati” che ben si presta a realizzare la giustizia distributiva, nell’accezione della

visione minoritaria, e cioè ad attuare politiche perequative ubbidendo alle regole

dell’equità e della ragionevolezza. “Da ciò”, sottolinea Gallo, “non può non conseguire

l’esclusione della componente solidaristica quale elemento strutturale della capacità

contributiva stessa”, nel senso che, la capacità contributiva, in quanto mero criterio di

riparto, non può definirsi come “capacità economica solidaristica”110

. La solidarietà,

così, pur restando fuori dalla nozione strutturale di capacità contributiva viene

valorizzata in quanto rileva ai fini estrinseci della qualificazione funzionale del dovere

contributivo. Intorno a questa concezione si denota una certa somiglianza con il

pensiero del costituente Vanoni, il quale afferma che “chi possiede può giustificare il

proprio possesso solamente se fa interamente il proprio dovere di solidarietà sociale

rispetto al corpo sociale nel quale opera.” Ed inoltre sottolinea che “ l’imposta è proprio

l’espressione migliore di questa solidarietà sociale perché è espressione regolata dalla

legge, è l’espressione in un sistema bene ordinato di uno stato che funziona; è in

sostanza la stessa giustizia sociale che opera e agisce attraverso norme che devono dare

a tutti il limite di quello che è lecito e di quello che non è lecito fare, nell’ambito

dell’azione economica e dell’azione sociale” 111

.

Tale visione dell’imposta al servizio della giustizia sociale è stata criticata

osservando come lo stesso concetto di solidarietà sia “sintesi di socialità e libertà”112

:

l’espressione “giustizia sociale” altro non significherebbe se non riconoscimento e,

contemporaneamente, garanzia, da parte dello Stato, dei “diritti sociali (lavoro,

istruzione, salute, previdenza, ecc.)”. Il cui finanziamento, osserva Falsitta, può

avvenire solo con metodi “conformi alla più perfetta giustizia distributiva”, in quanto

“la spesa pubblica va sempre ripartita in modo rigorosamente perequato quale che sia la

sua destinazione, sia quella occorrente per finanziare e garantire i diritti sociali, sia che

109

F. Gallo, Ripensare il sistema fiscale in termini di maggiore equità distributiva, in Pol. soc.,

2014. 110

F. Gallo, Ancora in tema di uguaglianza, in Riv. dir. fin. e sc. fin., 2013. 111

E. Vanoni, La riforma tributaria, in Quaderni Valtellinesi, 1951/2. 112

F. Moschetti, Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p.

20.

39

serva a finanziare gli istituti di sicurezza sociale o del benessere sociale, sia che serva a

finanziare gli strumenti di sicurezza tout court o del malessere sociale (polizia,

carabinieri, vigili del fuoco, ecc.)”113

. Da un lato, quindi, i singoli hanno una specifica

responsabilità in termini di utilità sociale, dall’altro, tuttavia, anche lo Stato deve

rispettare e tutelare le capacità dei singoli proprio in virtù del fatto che tale capacità ha

non solo valenza individuale, ma anche collettiva poiché proprio “il fine solidaristico

delle attitudini individuali” è tale da meritare “un interesse pubblico”114

. Di parere

opposto, quindi, ai sostenitori della corrente relativa, i quali, nel confronto tra ragioni di

efficienza e di massimizzazione degli obiettivi generali della collettività e ragioni di

equità e tutela dei valori individuali, il bilanciamento propende verso “gli interessi della

collettività piuttosto che in direzione della tutela individuale”115

.

113

G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 80, nota 62, osserva inoltre che

“l’equazione spesa pubblica come sinonimo di giustizia sociale sia una lettura inaccettabile se non

azzardata dell’art. 53 Cost. in una fase storica come l’attuale contrassegnata da forti critiche contro la

spesa pubblica dissipatrice di risorse ad esclusivo vantaggio di élites”. A sostegno della sua tesi, l’autore

rinvia al volume di S. Rizzo, G.A Stella, La casta, Milano, Rizzoli, in cui viene tracciato “un quadro

impietoso dei vizi, anomalie, sprechi e malefatte della classe politica”, affermando così che in tale clima

ӏ difficile continuare ad insistere nella favola della democrazia necessariamente costosa in cui ogni soldo

di spesa pubblica è speso per la libertà e per i diritti sociali.” 114

F. Moschetti, Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p. 20, 115

In tal senso P. Boria, Il bilanciamento di interesse fiscale e capacità contributiva

nell’apprezzamento della Corte costituzionale, in Diritto tributario e Corte costituzionale (a cura di L.

Perrone. e C. Berliri), Napoli, 2006.

40

CAPITOLO III

IL RAPPORTO FRA DIRITTO DI PROPRIETA’ E DIRITTI

SOCIALI:

IL MINIMO VITALE, IL LIMITE MASSIMO ED IL CANONE

DELLA PROGRESSIVITA’

SOMMARIO: 1. Il minimo vitale ed il limite massimo – 2. Il canone della progressività

1. IL MINIMO VITALE ED IL LIMITE MASSIMO

La tutela del c.d. minimo vitale riguarda quelle manifestazioni economiche minime non

indicative di capacità contributiva, ossia espressive di una capacità economica non

idonea a concorrere alle spese pubbliche perché funzionale alla copertura dei bisogni

essenziali116

. Anche se i sostenitori delle due diverse concezioni di capacità contributiva

concordano sull’esistenza di una tutela costituzionale del “minimo vitale” (per quanto

116

G. Falsitta, Storia veridica, in base ai “lavori preparatori”, della inclusione del principio di

capacità contributiva nella Costituzione, cit., pp. 97 e ss. La derivazione, dal principio di capacità

contributiva, dell’esclusione da imposizione del minimo vitale è confermata dagli stessi lavori preparatori

dell’art. 53 Cost. L’on.le Scoca, infatti, dopo l’accettazione dell’emendamento dell’on.le Castelli che

prevedeva l’inserimento del concetto di capacità contributiva, dichiarò superflua la sua proposta di

articolo aggiuntivo contenente l’affermazione dell’esonero del minimo vitale in quanto la formula della

subordinazione del dovere fiscale al possesso della capacità contributiva racchiudeva in sé la tutela del

minimo vitale. Lo stesso Presidente della Commissione per la Costituzione Ruini, affermò che lo stesso

concetto di capacità contributiva “implica le esenzioni per chi non ha capacità contributiva; ed in tali

condizioni senza dubbio si trova chi non ha il minimo indispensabile per vivere”. Seguendo questa logica

vi è un riconoscimento, anche, di un limite massimo: il concorso alle spese pubbliche, dovendo avvenire

“in ragione” della capacità contributiva, non può esaurire la capacità stessa. Laddove venisse

imposto un prelievo superiore alla capacità contributiva del soggetto, si colpirebbe in sostanza una

capacità contributiva inesistente, venendo meno la necessaria correlazione tra obbligo e capacità di

contribuzione. La stessa Corte costituzionale afferma che la capacità contributiva “condiziona la misura

massima del tributo nel senso che questo non può essere fissato ad un livello superiore alla capacità

dimostrata dall’atto o dal fatto economico ma non esclude, purché tale limite sia rispettato, che gli stessi

atti o fatti possano in tempi diversi dar luogo a prelievi tributari di diversa entità, secondo gli obiettivi di

politica fiscale di volta in volta perseguiti dal legislatore. È ovvio che tali variazioni non possano e non

debbano essere arbitrarie, perché in tal caso verrebbe ad essere compromesso il principio di eguaglianza”

(Corte costituzionale, sentenza del 6 luglio 1966).

41

divergano dalla derivazione della tutela117

), gli stessi, per il diverso bilanciamento tra

interesse fiscale e capacità contributiva (in merito alle interrelazioni tra diritti proprietari

e diritti sociali), hanno visioni diametralmente opposte riguardo al riconoscimento di

limiti superiori al prelievo derivanti dalle norme costituzionali che tutelano la libertà

economica e la proprietà (Art. 41 e Art. 42 Cost.).

La dottrina di minoranza, se da un lato riconosce la sussistenza di un limite

minimo di reddito da tutelare attraverso l’esenzione del minimo vitale, personale e

familiare, dall’altro nega fermamente l’esistenza di un limite massimo al potere

normativo di imposizione derivante da principi costituzionali inerenti a rapporti

economici. Tali autori ritengono che i redditi minimi siano privi di quei presupposti per

cui possa operare il dovere tributario, inteso come dovere inderogabile di solidarietà,

non essendo “logicamente possibile addossare i costi della solidarietà a quei soggetti

che ne devono essere beneficiati”118

. Quanto all’ammontare del prelievo, è invece

affermata l’inesistenza di limiti costituzionali alla pressione fiscale rispetto al singolo

contribuente e ai tributi che lo colpiscono, in una prospettiva “svalutativa” della

funzione di garanzia dei diritti di proprietà e di libertà di iniziativa economica. “E’ il

pubblico che, almeno nel campo fiscale, deve prevalere sul privato”, sostiene Gallo,

poiché, qualora, venisse previsto un limite superiore e predeterminato alla pressione

fiscale, tale previsione si risolverebbe nel riconoscimento della prevalenza della

dimensione privata rispetto alla funzione tributaria, dimenticando che “la scelta dei

presupposti è frutto di valutazioni politiche”, effettuate “ai fini dell’equo riparto e non la

mera omologazione legislativa dei modelli e delle regole private del mercato” 119

. A

sostegno di ciò Bizioli osserva che anche nell’orientamento della Corte costituzionale

non si rinvengono conferme di una diretta influenza delle garanzie costituzionali

della proprietà e dell’iniziativa economica sulla definizione dei limiti del carico fiscale:

la legittimità costituzionale dei tributi, pertanto, non potrà che essere valutata solo

117

Se da una parte la dottrina maggioritaria ritiene che la tutela costituzionale del minimo vitale

risieda nel concetto di capacità contributiva, ex art 53, quella minoritaria ,invece, ritiene che l’esenzione

del minimo vitale risieda in altri principi costituzionali invalicabili, quale è l’art 3 Cost. ad esempio. E’

doveroso notare che anche la Corte Costituzionale accoglie per certi versi la tesi minoritaria, nella

sentenza n.97/1968 infatti si tutela il minimo vitale con l’art 3 Cost.: ”l’esenzione dei redditi minimi

costituisce attuazione del fondamentale principio di uguaglianza sostanziale al quale lo Stato deve

ispirarsi anche nell’uso dello strumento fiscale” 118

L. Antonini, La tutela costituzionale del minimo esente, personale e familiare, in Riv. dir.

trib., 1999, I, p. 867. 119

F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, cit., p. 25.

42

chiamando in causa gli artt. 3, 23 e 53 Cost. “Il dovere di solidarietà tributaria”,

pertanto, richiede una “unitaria considerazione” solo ed esclusivamente dei “diritti

inviolabili della persona”, fra i quali non rientrano quelli economici; realizzando così,

attraverso la Carta costituzionale, “il definitivo superamento delle tradizioni

giuridiche liberali ottocentesche che concepivano i diritti economici, e il diritto di

proprietà in particolare, quali limite naturale al dovere tributario”120

.

Di conseguenza, i diritti proprietari, non vengono considerati come dotati di una

tutela assoluta, né come un “attributo necessario e indissolubile della persona” poiché è

“la legge che li riconosce, li qualifica e ne determina i contenuti e la portata ai fini

sociali, oltre che di interesse generale e di pubblica utilità: avendo come fine quello di

garantire una ragionevole tutela di tali diritti e, nel contempo, rendere governabile e

compatibile lo sviluppo economico con un ordine sociale giusto” 121

. Questa idea è ben

resa da L. Mengoni, quando afferma, in particolare, che “la funzione sociale deve

essere pensata insieme con il concetto di proprietà come elemento qualificante della

posizione di proprietario. […] Nella visuale del pensiero funzionale il rapporto tra

libertà della proprietà e funzione sociale si presenta non come un’antinomia, che può

risolversi in una compressione della libertà fino ad annullarla, ma come rapporto tra due

funzioni concorrenti all’interno di un medesimo ambito operazionale: la funzione di

partecipazione del singolo al sistema delle decisioni economiche e la funzione di

omogeneizzazione dell’interesse individuale con l’interesse generale. Scopo della

riserva di legge statuita dall’art. 42 è la composizione delle due funzioni in una organica

unità istituzionale operante quale strumento di integrazione sociale». In questo contesto,

prosegue l’autore, “l’art. 42 garantisce la proprietà privata non più come diritto

fondamentale della persona delimitante una sfera privata libera da intromissioni del

potere politico, bensì come diritto di partecipazione alla organizzazione e allo sviluppo

della vita economica. […] Tale articolo non garantisce la proprietà per sé sola, come

spazio riservato alla libertà individuale fine a se stessa, bensì in funzione della libertà

politica, come un elemento dell’emancipazione politica”122

.

120

G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento

costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008, p. 98, 121

F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 11. 122

L. Mengoni, Proprietà e libertà, in Riv. crit. dir. priv., 1988, p. 455.

43

La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana conferma e presuppone

questa interpretazione poiché da una parte, infatti, non dubita che vi sia una garanzia

costituzionale di esistenza del diritto di proprietà privata quale diritto soggettivo,

dall’altra, però, accetta una compressione del contenuto di tale diritto in relazione al

ragionevole bilanciamento compiuto dal legislatore tra il diritto medesimo e gli interessi

ad esso contrapposti123

. “Nel disegno costituzionale italiano”, sostiene Gallo, “i diritti

proprietari” possono, perciò, essere “compressi” in via legislativa sia dal “limite interno

della funzione sociale che da quello esterno dell’interesse generale”. Tuttavia, il noto

giurista, ravvisa che nei casi “di espropriazione previo indennizzo di cui all’art. 42

Cost.”, di limitazione senza indennizzo della proprietà di intere categorie di “beni

privati di interesse pubblico”124

ed, infine, in quello di espropriazione di imprese di cui

al successivo art. 43 Cost., la “compressione” è disciplinata da questi stessi articoli

”affinché si raggiunga lo scopo, bilanciato e costituzionalmente garantito, di interesse

generale e di pubblica utilità”125

. Anche qualora vi fossero tributi esercitanti una

pressione fiscale tale da comportare la necessità di liquidare in tutto o in parte il

patrimonio del contribuente, questi non potrebbero essere dichiarati incostituzionali ai

sensi dell’art. 42 Cost. Tuttavia, osserva Fedele, “ciò non toglie, naturalmente, che un

123

Esprime questa impostazione la sentenza n. 252 del 1983, laddove afferma che l’art. 42,

secondo comma, Cost. “non ha, come pure si è sostenuto da una parte della dottrina, trasformato la

proprietà privata in una funzione pubblica. Ciò inequivocabilmente risulta dal suo preciso tenore: “La

proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento

e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. La Costituzione

dunque ha chiaramente continuato a considerare la proprietà privata come un diritto soggettivo, ma ha

affidato al legislatore ordinario il compito di introdurre, a seguito delle opportune valutazioni e dei

necessari bilanciamenti dei diversi interessi, quei limiti che ne assicurano la funzione sociale.

Indubbiamente detta funzione, con il solenne riconoscimento avuto dalla Carta fondamentale, non può più

essere considerata, come per il passato, quale mera sintesi dei limiti già esistenti nell’ordinamento

positivo in base a singole disposizioni; essa rappresenta, invece, l’indirizzo generale a cui dovrà ispirarsi

la futura legislazione”. 124

A questa categoria di beni fa riferimento la Corte costituzionale nelle sentenze n. 20 e 62 del

1967 e n. 55 del 1968 per giustificare, in relazione alla clausola della funzione sociale contenuta nell’art.

42 Cost., la limitazione del diritto proprietario senza obbligo di indennizzo. In particolare, la sent. n. 55 è

chiara nell’affermare che “senza dubbio […] secondo i concetti, sempre più progrediti, di solidarietà

sociale resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui

beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di essere sottoposto, nel suo

contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare. Nel determinare tale

regime, il legislatore può persino escludere la proprietà privata di certe categorie di beni, come pure può

imporre, sempre per categorie di beni, talune limitazioni in via generale, ovvero autorizzare imposizioni a

titolo particolare, con diversa gradazione e più o meno accentuata restrizione delle facoltà di godimento e

di disposizione”. Solo con riguardo alle imposizioni a titolo particolare la Corte esclude che esse possano

avvenire senza indennizzo. Afferma, infatti, al riguardo che dette imposizioni “non possono mai eccedere,

senza indennizzo, quella portata, al di là della quale il sacrificio imposto venga a incidere sul bene, oltre

ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell’attuale momento storico”. 125

F. Gallo, Proprietà e imposizione fiscale, cit., pp. 11 e ss.

44

tributo palesemente ordinato a costringere i contribuenti ad alienare determinati beni per

l’eccessivo gravame fiscale connesso alla loro disponibilità possa risultare iniquo e,

al limite della totale irrazionalità dell’intervento, dichiarato incostituzionale”126

. A

parere di tale dottrina, la netta separazione tra garanzie proprietarie e tributi consente, in

tal modo, di superare l’errore dell’opposto orientamento, insito nell’affermazione per

cui il tributo non deve risolversi in espropriazione senza indennizzo. Gli artt. 53 e 42,

terzo comma, Cost., disciplinano infatti istituti separati e la distinzione fra tributo ed

espropriazione si presenta netta sia dal punto di vista funzionale che strutturale, fermo

restando che, sottolinea Fedele nell’affermazione “il tributo non deve risolversi in

espropriazione senza indennizzo” si riscontra un significato eccedente l’ovvia

considerazione “dell'irrazionalità di un sistema fiscale che porta i contribuenti alla

rovina economica”127

. Ciò detto, nel caso, invece, dell’imposizione fiscale, la

“compressione” che deriva dal tributo avviene per un diverso scopo: quello di attuare

l’art. 53 Cost, ossia di realizzare “il riparto solidaristico dei carichi pubblici a titolo di

concorso alle spese pubbliche e sociali”128

, avendo come limite invalicabile solo il

rispetto del principio di uguaglianza quale base e fondamento del principio di capacità

contributiva. Da questo punto di vista, si ritiene, che “in via astratta e generale il riparto

dei carichi fiscali risponde al principio di giustizia distributiva, senza che la garanzia

costituzionale della proprietà di cui all’art. 42 Cost. possa esplicare, in termini di limiti

intrinseci, alcuna diretta influenza sull’individuazione dei parametri di legittimità delle

scelte legislative effettuate ex artt. 53 e 3 Cost”129

.

La dottrina di maggioranza, quindi, si pone su una posizione nettamente opposta,

difatti, secondo i sostenitori di tale orientamento, il prelievo tributario non può che

essere illegittimo laddove superi un livello massimo tale da pregiudicare la permanenza

di un’economia privata. L’asserita non sussistenza di un contrasto tra funzione

garantistica e solidaristica dell’art. 53 Cost. (solidarietà intesa come “ponte tra il privato

e il pubblico”130

) e la conseguente considerazione della dimensione privata quale

presupposto per la realizzazione di quella sociale, comportano la necessità del

126

A. Fedele, Dovere tributario e garanzie dell’iniziativa economica e della proprietà nella

costituzione italiana, cit., p. 984;Id., Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., p. 27. 127

Id, Concorso alle pubbliche spese e diritti individuali, p. 77. 128

F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., pp. 74-75. 129

F. Gallo, Proprietà e imposizione fiscale, cit., pp. 11 e ss. 130

F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, in L. Perrone e C. Berliri (a cura di),

Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., p. 51.

45

mantenimento e della garanzia dell’autonomia privata. In quanto questa, l’autonomia

privata, si considera esplicante anche di effetti sociali: senza ricchezza privata,

diversamente distribuita tra i cittadini contribuenti, non ha senso ragionare di prelievo

fiscale. Manzoni, ribadendo la concezione di capacità contributiva come capacità

economica (vale a dire come attitudine a contribuire manifestata da fatti espressivi di

forza economica), rileva che “l'imposizione fiscale, comportando una sottrazione di

ricchezza al contribuente, ovviamente la presuppone”131

. Evidenziando il problema del

rispetto dei diritti economici, costituzionalmente garantiti, Manzoni sottolinea che, in

assenza di disposizioni costituzionali a garanzia dei singoli (in specie, gli artt. 41 e 42

Cost.), lo Stato potrebbe incidere in modo indiscriminato sulla proprietà e sull'iniziativa

economica privata, allo scopo di realizzare le più disparate finalità sociali. Le

disposizioni costituzionali che proteggono i diritti economici dei singoli esprimono

invece “quella certezza dei limiti al potere di pubblico intervento, senza della quale la

stessa affermazione del principio dello “Stato di diritto” verrebbe svuotata di ogni

concreto contenuto”132

. Analogamente Moschetti, ritiene che le imposte “debbono

rispettare non solo i limiti spettanti specificamente alla potestà fiscale (rispetto della

capacità contributiva che significa conformità alla capacità economica e all'interesse

collettivo ricavabile dai principi costituzionali), ma anche quelli riguardanti i campi

materiali da esse indirettamente influenzati. In particolare debbono essere rispettati i

diritti fondamentali relativi alla libertà di iniziativa economica ed alla proprietà

privata”133

. L'imposizione fiscale, pertanto, pur espressione del dovere inderogabile di

solidarietà, e delle esigenze “sociali” dell'ordinamento, deve quindi rispettare i diritti dei

singoli contribuenti: i doveri fiscali ed i diritti economici dei contribuenti devono essere

tra loro in equilibrio.

I sostenitori di questa corrente ritengono così che l'imposizione fiscale, intesa

come strumento coercitivo capace di sottrarre ricchezza ai singoli contribuenti per

ridistribuirla (o, più precisamente, per finanziare il complesso dei diritti garantiti ai

cittadini), presuppone un sistema economico che riconosce e tutela l'iniziativa

economica privata ed il diritto di proprietà. Affermare che l’economia privata deve

131

I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano,

cit., pp. 67-68. 132

Ivi, p. 71. 133

F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, cit., p. 253.

46

essere tutelata da eccessi di imposizione tributaria, tuttavia, sottolinea Gaffuri, “non

significa individuare un primato della funzione garantista, bensì riconoscere l’esistenza

di una dialettica fra due opposte esigenze, da una lato, quelle della finanza pubblica e,

dall’altro quelle dell’economia privata”134

. La finalità solidaristica dell’imposta non

potrà pertanto intaccare gli altri principi costituzionalmente garantiti e, in particolare,

non potrà alterare le “libertà economiche, di iniziativa economica e proprietà privata”135

tutelate dalla Costituzione: il prelievo fiscale dovrà essere articolato in modo tale da

rispettare anche l’iniziativa privata. L’affermazione della preminenza dei diritti sociali

porterebbe, infatti, alla cancellazione del diritto di giustizia tributaria realizzando

fenomeni di “tirannia fiscale (Griziotti)” o “imposizione espropriatrice (Micheli)”136

. E’

per questo che il limite superiore all’imposizione fiscale viene individuato nella

proprietà privata, diritto certamente correlato con il dovere fiscale, ma che non può

essere legittimamente sacrificato in nome di esso.

Secondo tale dottrina l’invocazione dell’art. 53 Cost., quale strumento idoneo a

proibire prelievi sostanzialmente espropriativi, deriverebbe dal perseguimento nella

stessa Carta fondamentale di un costante bilanciamento tra la costruzione di uno Stato

sociale e la difesa del privato e della sua indipendenza economica, proprio in quanto

“strumentale alla realizzazione del concorso alle spese pubbliche”137

. Sarebbe in

contrasto con il concetto di capacità contributiva, inteso come idoneità a contribuire ai

carichi pubblici, un prelievo tale da comportare una progressiva sottrazione dei beni del

contribuente, minacciando l’economia privata. Un'imposizione fiscale di questo tipo,

osserva Gaffuri, non sarebbe compatibile con il nostro ordinamento costituzionale, che

“garantisce la coesistenza di entrambi i sistemi, escludendo che l'economia dei privati

possa essere sacrificata (...) al fabbisogno dello Stato”138

. Il prelievo fiscale, anche se

134

G. Gaffuri, Il senso della capacità contributiva, in L. Perrone e C. Berliri (a cura di), Diritto

tributario e Corte costituzionale, cit., p. 34. 135

F. Moschetti., Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p. 46.

Tale tesi è stata accolta anche dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n.384/2007 si afferma che: ”il

legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell’interesse pubblico non può giungere sino alla

pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà ”. 136

Così G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 81, conclude che “è’

certamente vero che senza imposta non esiste lo Stato e senza lo Stato non esiste il diritto di

proprietà”, tuttavia, prosegue l’autore, “tutto ciò non significa però che l’imposta serva a distruggere la

proprietà o debba essere prelevata a scapito della giustizia”. 137

In tal senso G. Gaffuri., Il senso della capacità contributiva, in L. Perrone e C. Berliri (a

cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., p. 34, 138

G. Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione, cit., p. 95, che richiama soprattutto, al riguardo, gli

artt. 41 e 42 Cost., e la conseguente tutela dell'iniziativa economica privata e della proprietà privata.

47

non lede il contenuto sostanziale del diritto di proprietà, incide infatti sensibilmente

“sull'economia dei privati stessi”139

. E' quindi indispensabile “salvaguardare

l'organizzazione e l'attività economiche private” da una pressione tributaria eccessiva ed

illimitata, “che può pregiudicarle e comprimerle”140

. Ciò non significa che l'economia

privata goda di una particolare preferenza rispetto a quella pubblica, ma che tra i due

sistemi economici debba esistere un equilibrio capace di garantire la coesistenza di

entrambi. “Avendo di mira l'armonica coesione tra interesse privato al possesso ed al

godimento dei beni economici (...) e l'interesse pubblico a procacciare mezzi per il

soddisfacimento delle esigenze collettive (...), si dovrà dunque determinare, nell'ambito

dei fatti economici, il limite fra quelli cui si può imporre un peso tributario e quelli che

non lo tollerano”141

. La sua ricerca e fissazione implica, invece, l'esercizio di un “potere

discrezionale per stabilire, di volta in volta, se la misura del tributo ecceda il limite di

equità, ovverossia non provochi sovvertimenti tali da pregiudicare l'esistenza

dell'economia privata o da impedirne la continuazione”142

. Gaffuri sostiene così che

l’'indeterminatezza del limite massimo non è, comunque, di ostacolo per la Corte

costituzionale, che può servirsene per valutare il rispetto dell'art. 53 da parte del

legislatore ordinario. La facoltà della Corte “di stabilire se un determinato prelievo

fiscale sia tanto alto da contrastare con il rispetto del principio dell'economia privata,

non si differenzia infatti dal potere, alla stessa attribuito, di valutare l'eventuale disparità

di trattamento di situazione simili, alla luce del principio di uguaglianza”143

.

È proprio riguardo al limite massimo che la dottrina di minoranza viene in

particolar modo criticata, infatti, nell’ammettere l’esistenza di un limite minimo, non

intaccabile dal prelievo, nega invece il limite massimo, cadendo in contraddizione.

Qualora si riconosca che il “minimo vitale” sia espressivo di capacità contributiva, non

si può non affermare che non manifesti capacità contributiva neanche “quella ricchezza,

139

G. Gaffuri ritiene che l'imposizione vada tenuta distinta dall'espropriazione, non risolvendosi

in un “trasferimento della proprietà medesima a vantaggio dell'Ente pubblico”. Il limite al prelievo non

potrebbe dunque essere rinvenuto nell'art. 42 Cost. che tutela il privato dagli indiscriminati prelievi

coattivi di ricchezza in favore della Pubblica amministrazione (G. Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione,

cit., pp. 97-99). 140

Ivi, p, 99. 141

Ivi, p. 103. 142

Ivi, p. 107. 143

Così Ivi, p. 119, peraltro avverte che l'utilizzo a tal fine del principio di capacità contributiva è

meno agevole di quello del principio di uguaglianza: quest'ultimo richiede infatti il semplice raffronto tra

due diverse discipline legislative, mentre invece il primo impone la ricerca del limite “in via assoluta,

attraverso l'interpretazione dello stesso concetto di capacità contributiva”.

48

parimenti minima in senso sostanziale, la cui tassazione costituirebbe ostacolo al pieno

sviluppo della persona umana”144

. Ammettere l’esistenza di un limite inferiore comporta

quindi automaticamente il dover riconoscere la sussistenza di un limite superiore oltre il

quale si intaccherebbe quel reddito minimo che anche l’orientamento minoritario ritiene

costituzionalmente tutelato: “se la legge d’imposta dispone che il contribuente, che ha

prodotto il reddito di cento possa legittimamente subire, senza vulnus di principi

costituzionali, l’avocazione pro fisco dell’intero cento, ciò prova che una siffatta legge

non lascia indenne da prelievo minimo vitale”145

. Concludendo l’esempio, Falsitta,

afferma che in tal modo “è contraddittorio ritenere esistente la tutela del minimo e

mancante quella del massimo”146

. Falsitta, nota, quindi, che si debba riconoscere la

presenza di limiti superiori inviolabili, pur non essendo espressamente previsti, in virtù

del fatto che “anche i limiti inferiori mancano di espresso riconoscimento normativo

e pur non di meno sono stati ritenuti esistenti dalla unanime dottrina fin dall'entrata in

vigore dello Statuto Albertino”147

. La dottrina di maggioranza, nell’affermare la

presenza di un doppio vincolo, evidenzia come ciò non significhi sostenere la

coincidenza tra i due limiti, che rimangono invece autonomi e fondati su parametri

costituzionali distinti148

. Un’imposizione eccessiva non sarà solamente quella che

minaccia la tutela della proprietà, bensì dovrà essere considerato oltre il limite massimo

anche un prelievo che aggredisca l’altro fondamentale diritto, ovvero l’iniziativa

economica privata: “l’imposizione fiscale in ogni caso, anche per i redditi più elevati,

di regola non deve spingersi fino a un punto tale da compromettere in modo sostanziale

il risultato economico”149

.

Viene pertanto respinta l’argomentazione dell’opposto orientamento secondo cui

l’insindacabilità del prelievo fiscale deriverebbe dall’impossibilità di classificare il

144

F. Moschetti., Profili generali, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, cit., p. 44. 145

G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 241. 146

Ibidem 147

Id., L’imposta confiscatoria, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 89 e ss. 148

La stessa dottrina minoritaria, per non cadere nella contraddizione sopra esposta, sostiene che

l’ammissibilità del solo limite minimo derivi dal fatto che questo non debba essere dedotto dal principio

di capacità contributiva, ma piuttosto trovi “giustificazione in altri principi costituzionali invalicabili”:

”principio di uguaglianza sostanziale, nel diritto inviolabile alla libera e dignitosa sussistenza e a disporre

dei bisogni elementari della vita” (F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p.

106, nota 3). 149

G. Falsitta, I divergenti orientamenti giurisprudenziali in Italia e in Germania sulla

incostituzionalità delle imposte dirette che espropriano l’intero reddito del contribuente, in Riv. dir.

trib., 2010, II, pp. 139 e ss.

49

diritto alle “libertà economiche”, pur costituzionalmente previsto e garantito, tra quelli

fondamentali e inviolabili. A tal riguardo Falsitta adduce a tre principali motivazioni, le

quali, partendo da una frase di Gallo (“i diritti proprietari, pur essendo

costituzionalmente garantiti e riconosciuti, non hanno tuttavia una tutela assoluta e

preistituzionale né sono un attributo necessario e indissolubile della persona”150

)

intendono snobilitare la dottrina di minoranza. Innanzitutto Falsitta osserva che non è

corretto sostenere l’esistenza di una “giuridica anteriorità dei diritti dell’uomo”, di

“posizioni soggettive fornite di tutela assoluta e preistituzionalizzata”, in quanto solo

attraverso l’ordinamento giuridico si potrà fornire una tutela a tali posizioni soggettive;

in secondo luogo sottolinea come quasi tutti i diritti fondamentali siano sottoposti a

limiti e pertanto contesta l’esclusione del carattere fondamentale dei diritti proprietari

sulla base del fatto che questi siano sottoposti a limitazioni. Infine evidenzia come la

negazione della qualificazione dei diritti proprietari quali “attributo necessario e

indissolubile della persona” non possa essere di carattere giuridico, poiché, l’autore

ricorda, chiamando in causa Bobbio, che “i contorni della categoria dei diritti umani o

assoluti o fondamentali non sarebbero precisi, ma mutevoli a seconda dei periodi storici,

derivandone pertanto l’inesistenza di diritti essenzialmente fondamentali”151

.

Infine il dibattito si sposta anche sul secondo comma dell’art. 53 Cost.: il

problema del “compromesso” tra diritti economici e doveri di solidarietà diviene

particolarmente evidente quando si riflette sulla portata del principio di progressività

dell'imposizione. L'art. 53, infatti, non solo stabilisce una relazione tra capacità

contributiva e prelievo fiscale, ma definisce pure il modo in cui tale relazione deve

variare: il prelievo deve aumentare più che proporzionalmente all'aumentare della

ricchezza. La progressività del sistema tributario è senz'altro strumento necessario per

attuare le finalità solidaristiche e redistributive dell'ordinamento giuridico, ma non può

essere utilizzato per sovvertire il sistema economico previsto nella Costituzione,

sopprimendo l'economia privata e pregiudicando senza via di scampo i diritti garantiti

dagli artt. 41 e 42 Cost.152

. Ne consegue che un certo grado di progressività deve

150

F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 11. 151

G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., p. 81, nota 63. 152

Espressamente in questo senso I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva

nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., p. 185, che osserva come il livellamento ed il sovvertimento

dell'economia sia incompatibile “con quei compiti di tutela e di difesa della proprietà e dell'iniziativa

economica privata assunti dagli artt. 41 segg. Cost.”.

50

esistere perché l'imposizione sia legittima, ma non deve essere eccessivo. E' quindi

configurabile un limite massimo al prelievo fiscale, indispensabile per la tutela della

proprietà e dell'iniziativa economica privata, costituzionalmente garantiti: “sarebbe

curioso, per non dire assurdo, pensare che la Costituzione abbia voluto consentire al

legislatore tributario di perseguire, per diversa via, proprio quei risultati che essa ha

inteso evitare”153

. Da un lato, non è ammissibile una “tassazione spinta fino al punto di

togliere ogni convenienza a produrre e rischiare”, che “indurrebbe in pratica ad uscire

dal mercato e lederebbe la libertà di iniziativa economica”, tutelata dall'art. 41 Cost154

;

dall'altro, sarebbe costituzionalmente illegittima, per violazione dell'art. 42 Cost., la

legislazione tributaria “che avesse come conseguenza la soppressione della proprietà

privata o ne impedisse a lungo andare la sopravvivenza, o la svuotasse nel suo

contenuto essenziale, o la limitasse per mera ostilità” e per ragioni diverse da quelle

previste nel secondo comma dell'art. 42 Cost: “malgrado l'intervento fiscale, la proprietà

privata deve rimanere come istituto essenziale del nostro ordinamento e non può quindi

venire eliminata o ridotta ad una funzione meramente simbolica”155

.

In realtà, già qualche anno dopo l'entrata in vigore della Costituzione, si era

rilevato come la progressività del prelievo espressamente stabilita a livello

costituzionale, pur esprimendo l'aspirazione ad una “democrazia sociale”, non potesse

portare ad un'imposizione illimitata. La progressività del sistema tributario dovrebbe

essere “contenuta in limiti moderati e non (...) usata come mero strumento extrafiscale

di livellamento della ricchezza”: ciò poteva desumersi (e si desume) “pure dalle norme

costituzionali che affermano il rispetto della proprietà (art. 42) e dell'iniziativa privata

(art. 41), col solo limite di indirizzarle in armonia alla funzione sociale e di moderare le

proprietà più elevate per non impedire l'altrui libero conseguimento e godimento delle

ricchezze. La proprietà non può essere espropriata se non per fini di utilità generale

determinati e salvo indennizzo (art. 42, 43). Il che è evidentemente in contrasto con una

153

Ivi, p. 205. 154

Così F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, cit., p. 254, che rileva come le

misure fiscali di incentivo e freno all'economia privata possano essere considerati legittimi “fino a che si

limitano a rendere più o meno appetibili certe iniziative economiche, modificando i termini di

convenienza offerti dal mercato e lasciano quindi sostanzialmente libera, anche se condizionata,

l'iniziativa economica”. Tali misure sarebbero invece incostituzionali, per violazione dell'art. 41 Cost., “se

avessero come conseguenza la pratica impossibilità di intraprendere o mantenere certe attività”. 155

Ivi, pp. 257-258. L'Autore, che muove dalla considerazione della netta diversità dell'istituto

dell'espropriazione rispetto al prelievo fiscale, conclude dunque che in materia di limiti all'imposizione, se

non “acquista rilievo il terzo comma dell'art. 42, conservano sempre importanza (...) i primi due commi”.

51

imposta spogliatrice e con una lotta di classe condotta per mezzo dell'imposta. Invece è

preoccupazione costante della Costituzione assicurare l’armonia fra le classi e le

categorie economiche, ricorrendo a soluzioni temperate ed intermedie”156

.

L'imposizione eccessiva nella sua misura dovrebbe dunque ritenersi in diretto contrasto

con il diritto individuale di proprietà, costituzionalmente tutelato: la proprietà privata

“può essere limitata, ma non può essere espropriata senza indennizzo. Una imposta

spogliatrice è come un esproprio senza indennizzo” 157

.

2. IL CANONE DELLA PROGRESSIVITA’

Il quadro costituzionale deve essere integrato con la specifica regola della progressività

del sistema tributario nel suo complesso, dettata dal comma 2 di tale articolo, col fine

precipuo di completare il disegno etico del Costituente in senso solidaristico ed

egualitario. Infatti, “la progressività”, sottolinea Cereti, “è conforme a giustizia da una

parte per il fatto che l’imposizione sui redditi elevati incide molto meno sul tenore di

vita dei singoli e viene a discapito soprattutto dei consumi di lusso o dei risparmi che

possono essere accantonati, e dall’altra per la considerazione che coloro che godono di

redditi più elevati beneficiano maggiormente dei servizi dello Stato, che consentono,

favoriscono e proteggono le loro fonti di reddito e il loro elevato tenore di vita”158

.

Concretamente, questo tipo di redistribuzione si realizza, in sede di riparto,

colpendo “meno quanti hanno una capacità contributiva minore ma anche quanti, in

proporzione, hanno più bisogni (e viceversa, naturalmente)”159

. L’imposta progressiva

costituisce, in altri termini, “una delle possibili modalità di riparto dei carichi

156

Così F. Forte , Il problema della progressività con particolare riguardo al sistema tributario

italiano, in Riv. Dr. Fin. Sc. Fin., 1952, pp. 303-304, che richiama al riguardo gli articoli da 40 a 47, e

l'art. 2 che ad un tempo “richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica

e sociale”, e “garantisce i diritti individuali dell'uomo”. 157

Id, Note sulle norme tributarie costituzionali italiane, in Riv. Dr. Fin. Sc. Fin., 1952, p. 410.

Analoga la conclusione di E. Giardina, Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano,

1961, p. 463: “una progressione eversiva corrisponde nella sostanza ad una espropriazione senza

indennizzo, e come tale viola l'art. 42 della Costituzione, il quale dispone che la proprietà privata possa

essere espropriata a condizione che venga corrisposta un'indennità. Essa realizza un 'aggiramento' di

quella norma costituzionale, e pertanto, anche sotto questo profilo, va considerata costituzionalmente

illegittima”. 158

G. Cereti, Pagare le tasse: solidarietà e condivisione, cit., p. 27. 159

F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, cit., p. 69.

52

pubblici”160

ed è, perciò, anch’essa una delle espressioni del principio di uguaglianza

sostanziale. Più in particolare, il vincolo della progressività non costituisce altro che una

sottolineatura, fatta dal Costituente al legislatore ordinario, del fatto che la progressività

vada intesa “come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio

di uguaglianza collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali

esistenti di fatto alla libertà ed alla uguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di

solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 Cost.)”161

.

Tuttavia, fa notare Gallo, le decisioni politico-economiche dei legislatori

ordinari in tutto il mondo, indotti dai processi di globalizzazione, liberalizzazione e

delocalizzazione in atto162

e “spinti da orientamenti di politica economica

prevalentemente neoliberista”163

, propendono maggiormente, invece, per imposte

proporzionali e regressive che sempre più vengono ”fondate”, quindi, “su criteri di

giustizia fiscale meno impegnativi”164

. In tal modo egli intravede, non solo “una

tendenza a negare al sistema tributario in sé funzioni redistributive ed allocative, ma

anche un rinvigorimento di quelle opinioni dirette a contemperare i principi della

capacità contributiva e dell’uguaglianza tributaria con quello del beneficio; con quel

principio, cioè - una volta prevalente negli stati liberali ottocenteschi - secondo cui

l’imposizione deve avere caratteristiche tali da rendere al massimo, in termini di

corrispettività, l’idea della cosa amministrata che finanzia e va correlata al godimento

dei servizi pubblici, preferibilmente con aliquota proporzionale”165

.

Dall’altra parte, tuttavia, Falsitta ed altri autori, sostengono che “attribuire alla

progressività una connotazione immancabilmente redistributiva non è accettabile” nel

senso che “è inidonea a realizzare autonomamente l’obiettivo funzionale di spostare

160

F. Gallo, I principi di diritto tributario: problemi attuali, IV, in Rass. trib., 2008, pp. 919 e

ss. 161

Corte Costituzionale, sentenza del 21 maggio 155/2001. 162

La crisi del tributo personale progressivo si è per di più aggravata anche a causa del processo

economico di globalizzazione e delocalizzazione in atto, che ha reso incerto il presupposto su cui sono

stati fino ad oggi elaborati gli ordinamenti fiscali, e cioè il presupposto della coincidenza tra chi fruisce

della spesa pubblica e il contribuente che la dovrebbe finanziare. Ed inoltre è aumentata la possibilità per

i contribuenti di distribuire le materie imponibili nel più vasto ambito comunitario in funzione dei

vantaggi offerti dalle legislazioni dei singoli ordinamenti. 163

Alcuni autori, di estrazione soprattutto nordamericana come Massey ed Epstein, arrivano

addirittura al punto di riesumare vecchie teorie, secondo cui una redistribuzione economica operata in via

progressiva “distrugge” la ricchezza (C.R. Massey, Takings and Progressive Rate Taxation, in Harvard

Journal of Law and Public Policy, 20, n. 1, 1996, pp. 85-96 e, soprattutto, R. Epstein, Takings,

Cambridge (Mass.), 1985, p. 100). 164

F. Gallo, I principi di diritto tributario: problemi attuali, cit., pp. 919 e ss. 165

Ibidem.

53

ricchezza dai più abbienti ai meno abbienti”166

. L’obiettivo redistributivo può essere

realizzato “indirettamente a condizione che il maggiore carico fiscale su chi si trovi in

condizioni comparativamente migliori sia effettivamente destinato a finanziare spese di

favore di chi versi in condizione opposta”167

. Bisogna evitare cioè un utilizzo della

progressività come Marx ed Engels teorizzavano e cioè come strumento per spostare la

proprietà dei mezzi di produzione dalla borghesia capitalistica allo Stato. In tal senso,

Ricca Salerno, già nel 1890, notava che in questo modo si trascendono i limiti ed il

compito del diritto tributario poiché “si attribuisce all’imposta una funzione politico-

sociale, quella cioè di impedire il soverchio concentramento della ricchezza nelle mani

di pochi, determinandone una distribuzione più eguabile fra i privati”168

. A sostegno di

questa tesi vi è anche Forte, il quale ritiene che “la progressività deve essere utilizzata

come strumento fiscale di distribuzione degli oneri e non come strumento extrafiscale di

livellamento della ricchezza”169

. Analizzando nello specifico l’art. 53 Cost., Falsitta

ritiene che “lo stesso testo costituzionale muove in questa direzione” poiché ci dice che

la progressività è del sistema tributario e “ non delle parti che lo compongono” 170

: sono

ammesse anche le imposte regressive, quelle proporzionali ad esempio, “purché,

insieme a tutte le altre, lo rendano progressivo nel suo complesso” ed inoltre, come

sostiene Gaboardi, con le parole “il sistema tributario è informato…” si indica “una

prescrizione e non un consiglio” 171

. Si ha l’opportunità, così, di avere una libertà di

scelta su formule e tecniche adottabili per far sì che il sistema mostri connotazioni di

progressività, stabilito che il principio deve trattarsi, comunque, di una progressività,

come afferma Ricca Salerno, “moderata, lenta e mantenuta dentro limiti definiti” e non

“rapida, forte, eccessiva”172

.

Pertanto, come afferma anche Gallo, ciò non vuol dire che” i criteri del beneficio

e della tassazione proporzionale, tanto apprezzati dai fautori delle teorie liberiste, non

possano coesistere con i principi - costituzionalmente privilegiati - dell’uguaglianza

tributaria e della progressività previsti dagli artt. 3, 53, primo e secondo comma

166

G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., pp. 250 e ss. 167

Ibidem. 168

R. Salerno, Scienza delle finanze, cit., p. 168. 169

F. Forte, Il problema della progressività con particolare riguardo al sistema tributario

italiano, cit. , pp. 403 e ss. 170

G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., pp. 250 e ss. 171

F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, Giuffrè, Torino, 2013, pp. 70-71. 172

R. Salerno, Scienza delle finanze, cit., p.168.

54

Cost”173

.” Il richiamo a tali princìpi è”, secondo Gallo, “utile quale criterio ispiratore di

un ordinato sistema di federalismo fiscale complesso e plurilivello, fondato sulla regola

della sussidiarietà verticale, attuativo del principio generale di autonomia tributaria

(regionale e locale) e funzionale all’espansione dell’autonomia politica”174

. Egli ritiene,

pertanto, che è “bene che sul piano economico i tributi “propri” degli enti territoriali

siano caratterizzati, piuttosto che come tributi generali e progressivi, come tributi

paracommutativi175

di scopo o come tributi “controprestazione” aventi aliquote

proporzionali”176

. Inoltre la vicinanza tra governanti e governati che si realizza in tal

modo, consente una maggiore possibilità di monitorare il legame tra costi e benefici,

ovverosia tra imposte prelevate e servizi locali resi, fino al punto di giungere in alcuni

casi a “trasformare” il tributo in un vero e proprio canone-corrispettivo, riconducibile

più al prezzo pubblico in senso stretto che allo schema dell’imposizione fiscale. Le

giustificazioni della regola del beneficio si ritrovano, inoltre, quando c’è un

collegamento prelievo-spesa di tipo personale come il caso delle assicurazioni sociali

dove, appunto, “il dare attuale e l’avere successivo riguardano le stesse persone ed

indicano che il sacrificio del prelievo è proporzionato al beneficio del trasferimento, e

viceversa”177

. Gaboardi sostiene, così, che la regola del beneficio “è ancora importante

ogni volta che permette impieghi di risorse in campi nei quali il mercato non opera, o

non può operare, o non opererebbe in misura conveniente”178

: cioè in un campo in cui il

servizio è già dato e la relativa spesa sarà pagata da coloro che lo useranno. La regola

del beneficio ha, perciò, ancora delle seguenti possibilità applicative, quando, ad

esempio “il potere tributario viene esercitato nei confronti dei non residenti”, poiché “è

equo” che allo straniero si fan pagare solo le imposte allineate ai vantaggi specifici che

riceve; oppure nel caso di “imposte speciali siano meglio tollerate e capite dalle

particolari categorie di soggetti (gli automobilisti, i proprietari di immobili, etc.) che si

173

F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., p. 114. 174

Ibidem 175

“I tributi causali, o paracommutativi, sono quelli che hanno quale presupposto un potenziale

vantaggio goduto dal contribuente, o la necessità di compensare un costo causato dal contribuente, e che

quindi ben si distinguono dall’imposta, per sua natura acausale.” in L. Del Federico, Tributi di scopo e

tributi paracommutativi: esperienze italiane ed europee. Ipotesi di costruzione del prelievo, in Trib. loc. e

reg., n. 2, 2007, p. 182. 176

F. Gallo., Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, p 115. 177

F. Gaboardi, Riflessioni intorno alla finanza pubblica, Giuffrè, Torino, 2013, p.74 178

Ivi, pp. 77-78.

55

avvantaggiano di spese speciali, a condizione che siano categorie ben definibili, in

relazione al servizio che esse usano e che altre non usano”179

.

La regola del beneficio, tuttavia, per la sua rigidità ha diffusi limiti di

applicabilità; spesso è addirittura inaccettabile: nell’istruzione elementare, infatti, le

imposte non possono essere uguali per tutti gli studenti. Alcuni servizi, come anche la

difesa, non tollerano tale regola poiché “è difficile trovare in ogni servizio l’unità di

costo a cui far corrispondere un’unità d’imposta, che è sovente impossibile individuare

con sicurezza il beneficio che ciascuno si procura usando un determinato servizio, ed

infine che essa non potrebbe mai produrre tutte le risorse finanziarie di cui gli enti

pubblici hanno ora bisogno”180

. Dunque è usuale, altresì, che il principio venga mitigato

da altri principi, come per il pedaggio autostradale: “lo Stato versa un contributo al

concessionario che costruisce e gestisce l’autostrada, un contributo che è quindi spesa

pubblica, coperto pertanto da imposte per tutto l’arco di tempo in cui verrà erogato e

durante il quale coprirà” anche fino “ad un terzo del costo totale di costruzione”181

.

Per molti anni, economisti di indiscusso valore quali Einaudi, De Viti De Marco

e Wicksell sostennero che quella del beneficio poteva essere la regola distributiva

fondamentale: il principio di capacità contributiva e il criterio del beneficio venivano

fatti convivere anche negli assetti centralizzati e teorizzati come presupposti

fondamentali dell’imposizione. Ma è evidente che ciò è possibile solo se si assume la

teoria del “beneficio globale” di De Viti de Marco182

: le imposte possono essere

considerate come la sottoscrizione di un abbonamento annuale ai servizi che una

collettività rende ai suoi membri (il che non significa che tutti gli abbonati vadano a

ogni singola performance o che apprezzino tutti i servizi). In tale caso, infatti, sarebbe

forse possibile sostenere che il criterio del beneficio, venendo a coincidere con

(ovverosia “inglobando”) quello della capacità contributiva, sia idoneo a “fondare” la

maggiore parte delle entrate fornite dai sistemi tributari, giustificandole così dal fatto

che ad una maggiore disponibilità di risorse corrisponde un uso maggiore,

potenzialmente od effettivamente. Tuttavia le giustificazioni sono lacunose ed

179

Ibidem. 180

Ibidem 181

Ivi, p. 79, nota 5. 182

A. De Viti de Marco, Principi di economia finanziaria, Torino, 1939, pp. 90-93 e, in

particolare, note 1 e 2 di p. 91, nonché pp. 122-123; Ivi, Il carattere teorico dell’economia finanziaria,

Roma, 1888, in particolare, pp. 103 e 135.

56

accettabili solo in parte perché l’eventuale applicazione di tale formula escluderebbe il

riferimento ai richiamati principi di uguaglianza, di capacità contributiva e di

progressività così intesi dalla Corte Costituzionale.

57

58

CONCLUSIONI

"In Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe alla vita statale: la

garanzia del controllo parlamentare sulle imposte non è un'esigenza, ma una formalità

giuridica. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo stato; non ha coscienza di

esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L'imposta gli è imposta. Il

parlamento italiano esercita il controllo finanziario come esercita ogni altra funzione

politica. E’ demagogico fin dal suo nascere perché è nato dalla retorica,

dall'inesperienza, dalla scimmiottatura. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in

queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono

contribuenti”183

. Con queste parole Piero Gobetti, più di novanta anni fa, descriveva il

rapporto fra contribuente e Stato e, oltre a ciò, auspicava il nascere della “coscienza” e

“dell’orgoglio del contribuente” cose che, ad oggi peraltro, a parere di autorevoli autori,

sono minate dalla “crisi della giustificazione etica del tributo”.

Nella dottrina, infatti, c’è chi ravvisa una crisi della concezione etica del tributo

dovuta allo slittamento della sovranità fiscale “dallo Stato ad una pluralità di territori”

determinando “una profonda trasformazione etica del sistema tributario, in quanto

rispetto alla pluralità di ordinamenti fiscali non è più possibile rilevare la presenza di

una o più forze materiali e politiche che siano in grado di imporsi in maniera

preponderante sulle scelte normative”184

. Il giurista Boria, infatti, considerando il

sistema tributario come uno “strumento giuridico” e “fattore istituzionale di ausilio e

sostegno rispetto alle idee ed esigenze espressive della società” ne intravede la crisi e

“l’annullamento di questa concezione etica della funzione fiscale”: “la frantumazione in

una pluralità di ordinamenti mette in crisi la corrispondenza biunivoca fra sistema

tributario e piano ideologico ed assiologico sottostante, rendendo evidente come lo

strumento tributario possa essere adottato in maniera flessibile per una pluralità di scopi

e finalità collettive”185

. Cosicché da fondamentale obbligo di cittadinanza necessario

alla sopravvivenza della comunità il dovere tributario starebbe evolvendo in un rapporto

di altra natura, per effetto della frantumazione, e cioè in una pluralità di ordinamenti

portando inevitabilmente alla “neutralità della prestazione fiscale rispetto alle

183

P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale, Einaudi, Torino, 1964, p. 159. 184

P. Boria, Diritto tributario europeo, Giuffrè, Torino, 2010, p. 26 185

Ibidem.

59

convinzioni ideologiche di una società civile, valorizzando piuttosto la correlazione con

i valori di un ordine costituzionale di una comunità”186

. Si assiste così alla

“neutralizzazione della funzione etica del sistema tributario, nell’ambito di un processo

di apertura verso le numerose istanze provenienti da una società ontologicamente

pluralista”187

. Il lento e graduale declino del concetto di sovranità nazionale a favore

dell’U.E. evidenzia come il diritto tributario nazionale abbia perso implicitamente parte

della sua autonomia data la subordinazione delle legislazioni nazionali a quella

comunitaria. Il mutamento del concetto di sovranità statale che ha investito il comparto

tributario ha determinato una diversa giustificazione razionale dell’imposizione che

resta sì qualificato quale dovere politico sociale di concorrere alle spese pubbliche, ma

inquadrato in una visione più ampia che è rappresentata dall’appartenenza all’UE188

.

Coerentemente alla trasformazione del quadro di riferimento anche la nozione di

sistema tributario riceve una conformazione “aperta, non sorretta cioè dalla preminenza

dei valori provenienti da una classe sociale e dunque da una visione particolaristica ed

egemonica del dover essere, bensì piuttosto determinata da soluzioni di compromesso

conseguenti alla mediazione politica e sociale di una pluralità di istanze emergenti dalla

società civile”189

. La frantumazione del sistema tributario nei “sistemi tributari”,

prosegue Buzzacchi, produce così “una destrutturazione ideologica consentanea al

clima possibilista e dinamico di una società pluralista, non sclerotizzata intorno a idee

dominanti, ma orientata verso forme di coesistenza armonica dei valori della

convivenza civile”.

186

A. Fantozzi, Diritto tributario, V ed., Utet, Torino, 2012, p. 35. 187

Ibidem. 188

P. Boria, Diritto tributario Europeo, cit., p. 52 specifica che “in ambito comunitario la

fiscalità non è inquadrata come uno strumento di raccolta delle risorse finanziarie essenziali per la

sussistenza e per lo sviluppo di una collettività, secondo criteri equi e ragionevoli di riparto tra i

consociati; al contrario, assume un valore negativo , in quanto costituisce un fattore distorsivo del gioco

della concorrenza, che deve essere limitato e possibilmente eliminato, in linea con i postulati assiologici

risultanti dalla costituzione economica europea. Egli, inoltre, ribadisce che “la funzione assunta dal

complesso di regole tributarie di formazione comunitaria è dunque profondamente diversa da quella

assunta dagli ordinamenti fiscali nazionali: è una funzione “negativa”, rivolta cioè a limitare e a

contenere gli effetti discorsivi della fiscalità e non anche ad incidere positivamente sulla dimensione

della ricchezza nazionale e sui processi di redistribuzione del reddito tra i membri della Comunità”. ( P.

Boria, Il Sistema Tributario, Torino, 2008, pp. 115 e ss.). Si va così affermando un criterio di

“integrazione negativa”, che porta alla ortopedizzazione degli ordinamenti fiscali nazionali attraverso

l’espunzione di tutte le norme divergenti rispetto alle finalità di neutralizzazione della leva fiscale nei

confronti del mercato e della concorrenza. (A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, p. 756 e ss.). 189

C. Buzzacchi, La solidarietà tributaria: funzione fiscale e principi costituzionali, Giuffrè,

Milano, 2011, p. 245.

60

Guardando invece al panorama interno, la giustificazione etica del tributo,

sembra minacciata da una lettura forse fin troppo libera dei principi tributari contenuti

nella Costituzione. Nell’ultimo capitolo della tesi sono state esposte le due

argomentazioni principali riguardo all’esistenza (o meno) dei limiti quantitativi

dell’imposizione fiscale nell’ordinamento italiano: un minimo di mezzi economici che

servono all'individuo per avere un'esistenza dignitosa sua e della sua famiglia detto,

altresì, minimo vitale , ed un limite massimo alla misura del tributo.

Dallo “scontro” dialettico fra le due correnti emerge innanzitutto che la

Costituzione italiana è, per quanto riguarda la materia tributaria, decisamente poco

univoca poiché anche se esprime alcuni principi di assoluto rilievo - capacità

contributiva e progressività dell'imposizione - lascia, tuttavia, uno spazio

particolarmente significativo all'interpretazione. Ed è inoltre evidente come la Corte

costituzionale ne abbia dato una lettura nel complesso piuttosto “aperta” di tali principi,

in coerenza con il volere dei costituenti, i quali hanno collocato i principi costituzionali

in materia tributaria “nel quadro del programma di trasformazione dell'economia e della

società delineato dalla Costituzione. La scelta operata dal costituente parte dalla

premessa che i tributi sono uno strumento indispensabile per realizzare tale programma,

per cui conviene limitarsi a poche norme di principio, per non creare troppi vincoli al

legislatore” 190

. Di conseguenza , i principi costituzionali tributari sono caratterizzati da

una lettura “aperta”, ed ecco perché, nel predisporre le regole costituzionali

dell'imposizione fiscale “l'enfasi non cadeva sui possibili limiti, esigenza che pure fu

presente nel corso dei lavori preparatori. Altre erano le priorità: l'obiettivo era quello di

inserire pienamente il fenomeno tributario nello stato contemporaneo, non quello di

contenerne o temperarne gli sviluppi”191

. Si è preferito, dunque, rimettere alla

discrezionalità legislativa ed alla libertà del dibattito parlamentare la scelta di stabilire

l'aspetto quantitativo dell'imposizione fiscale escludendo così il quantum dell'imposta

dal novero dei parametri di legittimità costituzionale delle leggi tributarie.

Nello specifico, per quanto attiene il limite quantitativo minimo si può notare

che l'idea della necessaria esenzione da imposta dei redditi appena sufficienti a garantire

190

F. Fichera, Fiscalità ed extrafiscalità nella Costituzione. Una rivisitazione dei lavori

preparatori, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1997, I, p. 529. 191

Ibidem.

61

al contribuente ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa sembra godere di

larga condivisione da parte della dottrina e giurisprudenza192

.

I limiti costituzionali massimi pongono, invece, problemi ancora maggiori di

quelli sollevati dal limite minimo. In primo luogo, si è potuto osservare che il principio

di capacità contributiva non porta all'individuazione di un limite quantitativo massimo

al prelievo, se non quando l'imposizione è così elevata da far ritenere l'assoluta

arbitrarietà od irragionevolezza della discrezione legislativa193

. È doveroso ricordare che

parte della dottrina ritiene che nell'ordinamento italiano esista un limite quantitativo

massimo ricavabile essenzialmente dal collegamento tra gli artt. 53, 41 e 42 Cost194

.

Tale corrente di pensiero è tuttavia deficitaria nelle giustificazioni riguardo ad una

precisa quantificazione di tale limite ed è oggetto di critiche fondate sulla priorità del

dovere di contribuzione e dell'interesse fiscale rispetto alla tutela dei diritti economici

dei contribuenti. In ogni caso, non v'è dubbio che la Corte costituzionale, in sostanza,

non ha mai svolto alcun sindacato sulla misura massima del prelievo sempre per il

motivo che la misura dell'imposizione è rimessa alla discrezionalità del legislatore

tributario.

A quasi settant'anni dall'entrata in vigore della Costituzione, i dubbi suscitati da

una lettura “aperta” dei principi costituzionali in tema di imposizione fiscale spingono a

domandarsi se non sia il caso di rivedere il rapporto tra leggi tributarie e Costituzione,

tra discrezionalità legislativa e giudizio di legittimità costituzionale, fra Fisco e

contribuente. La degenerazione di questi rapporti ha avuto effetti non certo positivi:

“crescita marcata, e malamente distribuita, della pressione tributaria; eccessiva

differenziazione dei trattamenti per le più svariate ragioni; disattenzione e disinvoltura

192

In linea di principio, anche la Corte costituzionale si è espressa in favore della sussistenza,

nell'ordinamento italiano, di un limite minimo implicito nel principio di capacità contributiva. 193

Arbitraria ed irragionevole, in particolare, è stata ritenuta dalla Corte costituzionale l'imposta

sostanzialmente duplicata o totalmente priva di presupposto (sentenza 29 dicembre 1972, n. 200, in Giur.

cost., 1972, 606-622), oppure quella palesemente sproporzionata in eccesso, in violazione della parità di

trattamento tra contribuenti (sentenza 17 aprile 1985, n. 104, in Giur. cost., 1985, 657-661). 194

Tale circostanza ha portato alcuni autori a sostenere che almeno il 50 per cento della

ricchezza presupposto della tassazione debba essere preservata, ovvero a riconoscere che l’aliquota

complessiva dell’imposizione sul reddito non dovrebbe superare il 60 per cento. G. Falsitta, L’imposta

confiscatoria, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 89, richiama invece la sentenza della Corte costituzionale n.

348/2007 nella quale si afferma che “il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell'interesse

pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà” e si

riconosce che un sacrificio che incide sull'oggetto del diritto in una misura oscillante tra il 60 e il 76 per

cento è superiore alla soglia accettabile di espropriazione legittima.

62

sul piano dei principi; produzione normativa disordinata; instabilità e incertezza delle

discipline di applicazione; distorsioni e stravolgimenti nei rapporti tra fisco e

contribuente; moltiplicazione ed ibridazione dei tributi”. Ne conseguirebbe, dunque, “la

liceità di un mutamento di prospettiva: allora (...) la questione era quella della

fondazione dello stato sociale ed interventista e di uno strumento tributario adatto a tal

fine; oggi, la questione in materia è diventata, piuttosto, quella della libertà e della

giustizia a partire, questa volta, da coloro che sono tenuti a concorrere alle spese

pubbliche”195

.

Ed è, inoltre, inevitabile che la misura dei tributi abbia un dato di assoluta

importanza quando si riflette sui rapporti tra Fisco e contribuente poiché, se è vero che

gli obiettivi del sistema fiscale ed il suo grado di efficienza nel raggiungerli sono legati

alla capacità contributiva di ciascuno, è anche “giusto” che il contribuente sia tutelato

da una misura dell'imposizione costituzionalmente legittima, nel tentativo, così, di

restituire vera dignità al rapporto contribuente e Fisco da intendersi, pertanto, come

cittadinanza attiva e non più come sudditanza. Certo è che la tendenza della

giurisprudenza costituzionale in questo ambito, unita alla mancata formulazione

espressa di vincoli quantitativi al prelievo nella Costituzione ed alle incertezze e

divergenze dottrinali, non consentono di ravvisare la sussistenza attuale,

nell'ordinamento italiano, né di un minimo vitale pienamente tutelato e né di un limite

massimo all'imposizione: “uno degli aspetti più significativi della situazione in cui si

trovano i consociati di fronte allo Stato, in Italia, è costituito dal fatto che il potere dello

Stato nei loro confronti, in materia tributaria non è limitato (...). Il che implica che il

potere dello stato in materia fiscale è assoluto”196

.

A prescindere dall’effettiva quantificazione di tali limiti, l’imposizione fiscale

nel bilanciare il rapporto fra ente impositore e contribuente, deve quindi rispettare i

diritti dei singoli contribuenti, non considerando l’interesse fiscale come un valore

assoluto tale da sacrificare i diritti di cui è portatore l’individuo, e tuttavia non

abbandonare, ma anzi, sostenere fermamente la formula della funzione sociale nella

proprietà privata così come interpretata da Calamandrei: “scopo” ed “emblema della

195

F. Fichera, Fiscalità ed extrafiscalità nella Costituzione. Una rivisitazione dei lavori

preparatori, cit., p. 531. 196

Così E. Di Robilant, L'inaccettabilità del potere assoluto dello Stato in materia fiscale, in AA.

VV., Fisco e libertà: un dispotismo mascherato, Roma, 1981, p. 47.

63

nuova società civile”. In ragione di ciò, l’approccio da adottare nel valutare i due

opposti interessi deve essere equilibrato, orientato al raggiungimento del “primo

principio di tutto l’ordinamento etico-sociale”197

, senza dimenticarsi di rispettare la

sostanza del diritto di proprietà del contribuente, ossia evitare di privare l'individuo di

una parte preponderante del proprio reddito, fino, al caso limite, della privazione di tutto

il suo patrimonio poiché “Boni pastoris est tondere pecus, non deglubere”198

.

197

Nella recente lettera enciclica “Laudato si’” del Santo Padre Francesco sulla cura della casa

comune, riprende le parole del Padre Giovanni Paolo II affermando che egli“ ha ricordato con molta

enfasi questa dottrina”, dicendo che “Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti

i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno” [...] “non sarebbe veramente degno dell’uomo un

tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e

politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli”[...] “la Chiesa difende sì il legittimo diritto alla

proprietà privata, ma insegna anche con non minor chiarezza che su ogni proprietà privata grava sempre

un’ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha loro dato” [...] ”non è

secondo il disegno di Dio gestire questo dono in modo tale che i suoi benefici siano a vantaggio soltanto

di alcuni pochi” (Padre Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), p.

19).”Questo”, afferma Padre Francesco, “mette seriamente in discussione le abitudini ingiuste di una

parte dell’umanità”. L’enciclica papale è interamente disponibile sul sito del Vaticano:

w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-

si.html. 198

Gaio Svetonio Tranquillo, De Vita Caesarum, III, p. 32. La traduzione letterale è “Il buon

pastore deve tosare le pecore, non scorticarle”.

64

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